Clima, un solo fil rouge dall’Australia all’Africa

testo di Chiara Giovetti |


Locuste, siccità, cicloni, inondazioni, incendi. Il 2020 si è aperto come si era chiuso il 2019: con una serie di problemi tutti legati a eventi atmosferici. Come e quanto siano legati al cambiamento climatico è allo studio di numerosi esperti. Ma che abbiano peggiorato le condizioni di vita di milioni di persone è già fuori di dubbio.

La prima segnalazione risale al settembre dell’anno scorso, quando ha cominciato a circolare un video in cui una donna di cui non è nota l’identità – fra molti «oh my god» e «oh my goodness» – segnala di essere a Livingstone, in Zambia, e mostra immagini delle cascate Vittoria senza acqua, definendole «asciutte come un osso». Aggiunge che ora le chiamerà non più Victoria Falls ma Victoria Rocks (rocce – o sassi – Vittoria) e che la visione è di quelle che «spezzano il cuore»@.

Il video ha provocato velocemente le reazioni di alcuni utenti dei social network – alcuni legati ad agenzie di viaggi locali, anche loro rapide a prender posizione contro l’allarmismo@ – che hanno lanciato l’ashtag #VictoriaFallsIsNotDry e hanno iniziato a condividere immagini e spiegazioni per smentire il quadro catastrofico, sottolineando che la situazione, benché preoccupante, sia stata presentata in modo eccessivo e parziale.

Un documentario della Bbc della fine di novembre 2019@ ha di nuovo portato alla ribalta il problema, suscitando ulteriori accuse di sensazionalismo.

Che cosa sappiamo e che cosa non sappiamo

Victoria Falls (Cascate Vittoria), in Zimbabwe, il 10 Decembre 2019.  (Photo by ZINYANGE AUNTONY / AFP)

L’Africa meridionale, chiarisce l’articolo di Agence France-Presse (Afp)@ nel quale si legge la ricostruzione di questo botta e risposta sui social, sta effettivamente attraversando una delle siccità peggiori del decennio. Tuttavia, la quantità di acqua delle cascate Vittoria – così come quella del fiume Zambesi che le alimenta – risente ogni anno dell’alternarsi di stagione delle piogge e secca. L’immagine di ampi tratti di roccia privi di acqua non è un’emergenza di quest’anno ma uno scenario che si è già manifestato. La Zambesi River Authority (Zra), ente congiuntamente gestito dai governi di Zambia e Zimbabwe per il controllo della diga di Kariba, nel bacino dello Zambesi, si occupa anche del monitoraggio dei flussi di acqua delle cascate Vittoria. Nel novembre dell’anno scorso le misurazioni effettuate mostravano in effetti i flussi più bassi dalla stagione 1995/96, che fu la peggiore nell’arco di tempo di cui l’autorità fornisce i dati, cioè dal 1977 a oggi.

Tuttavia, la Zra precisava anche che con l’arrivo della stagione delle piogge i flussi erano destinati ad aumentare. Le misurazioni del mese di febbraio hanno confermato questa previsione, con un flusso che nei giorni dall’11 al 24 febbraio (disponibili cioè alla chiusura di questo articolo) mostravano un flusso medio di 186 metri cubi al secondo più alto rispetto al 2019.

Il grafico messo a disposizione il 24 di febbraio dalla Zra mostra, inoltre, che uno degli anni in cui l’acqua è stata più abbondante è stato il 2017/2018.

Questo non significa che i cambiamenti climatici non abbiano o non possano avere conseguenze sulle cascate Vittoria e sul bacino dello Zambesi, né che l’abbassamento del livello delle acque del lago Kariba da cui dipende la diga non sia già preoccupante. Ma è scorretto dire che le cascate Vittoria si sono asciugate e, conclude l’articolo dell’Afp, ad oggi l’impatto su queste dei cambiamenti climatici non è chiaro.

25/02/2020 vicino a Isiolo Isiolo, Kenya (Photo by TONY KARUMBA / AFP)

Le locuste in Africa Orientale

Lo scorso 10 febbraio le Nazioni unite hanno diramato un’allerta@  sul numero di locuste che stavano invadendo gran parte dell’Africa Orientale. Si tratta, riporta l’Onu, della peggiore infestazione degli ultimi settant’anni per il Kenya, mentre Somalia ed Etiopia non vedevano un’invasione di queste proporzioni da circa un quarto di secolo.

L’invasione, che mette a rischio di carestia una quantità di persone stimata in circa 19 milioni, colpisce paesi – in particolare la Somalia e il Sudan – già notevolmente provati per aver sperimentato dal 2017 a oggi siccità e inondazioni.

Uno sciame di locuste ampio un chilometro quadrato, riporta la Fao (agenzia Onu per l’alimentazione), può contenere fra i 40 e gli 80 milioni di insetti e consumare in un giorno tanto cibo quanto ne servirebbe per nutrire 35mila persone@.

Keith Cressmann, esperto della Fao che si occupa di monitorare l’invasione di locuste, ha riferito di uno sciame che ha attraversato il Nordest del Kenya a gennaio di quest’anno e che aveva un’ampiezza stimata pari a 60 chilometri di lunghezza per 40 di larghezza: 2.400 chilometri quadrati, pari a circa il doppio della superficie di Roma. «Un tale numero di insetti», ha sottolineato Cressmann, «può arrivare a mangiare in un giorno più o meno la stessa quantità di cibo che mangerebbero 84 milioni di persone»@.

Immagine scattata dal vescovo Virgilio Pante a Sioto Lokokoyo vicino a Baragoi ai primi di marzo 2020

Danni e costi

La Fao ha stimato in 76 milioni di dollari i fondi necessari per contrastare l’infestazione; a febbraio ne erano arrivati 21 di cui 10 messi a disposizione del Fondo centrale per gli interventi d’emergenza (Cerf) delle Nazioni unite, che serviranno per intensificare sia gli interventi a terra che per utilizzare aerei che spruzzino i pesticidi.

Secondo la rivista Science, la Somalia, per proteggere i propri pascoli e il bestiame, sta tentando con l’aiuto della Fao di combattere le locuste con bio pesticidi@ invece che con pesticidi chimici, utilizzando un fungo – il metarhizium acridum – che produce una tossina in grado di uccidere soltanto le locuste e gli altri insetti della famiglia delle cavallette. L’India si è invece attrezzata acquistando droni per il monitoraggio e, se necessario, l’irrorazione aerea delle zone invase con pesticidi@.

Se in India la situazione è per il momento sotto controllo, il vicino Pakistan si trova a fronteggiare la peggior infestazione di locuste in vent’anni e ha dichiarato lo stato d’emergenza.

I due video qui sotto sono stati girati ad Archer’s Post, cortesia del vescovo Virgilio Pante della diocesi di Maralal, Kenya.

  1. Pante cavallette
  2. Archer's post cavallette
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Le connessioni con gli eventi climatici

A favorire l’attuale invasione di locuste sono stati tre successivi cicloni e le piogge torrenziali che questi hanno portato fra metà del 2018 e la fine del 2019. Nel maggio del 2018, ricostruisce ancora Science, un ciclone – Mekunu – ha colpito la zona del Rub’ al Khali, uno degli erg (deserti di sabbia) più grandi del mondo fra Oman, Yemen e Arabia Saudita, portando inusuali piogge che hanno provocato un altrettanto insolito aumento della vegetazione. Le locuste, che hanno così trovato nutrimento in abbondanza, sono aumentate di quattrocento volte rispetto al loro numero abituale.

A prevenire il calo della popolazione di insetti dovuta alla morte delle piante nel deserto che arriva con la fine delle piogge è intervenuto un secondo ciclone – Luban – nell’ottobre del 2018: nel marzo del 2019 le locuste risultavano così aumentate di ottomila volte.

Attraverso l’Iran meridionale, le locuste si sono poi dirette sia verso Est, in Pakistan e India, che verso lo Yemen, dove a causa della guerra civile nessun intervento è stato messo in atto per bloccarne la proliferazione.

Nell’ottobre del 2019, gli sciami sono passati in Etiopia e in Somalia dove ancora una volta hanno trovato un ambiente accogliente grazie all’arrivo del ciclone Pawan e alle piogge abbondanti che ha portato.

A fine dicembre l’invasione si è diffusa al Kenya per poi raggiungere Uganda e Tanzania i primi di febbraio di quest’anno.

Spencer area in Central Coast, some 90-110 kilometres north of Sydney on December 9, 2019. – Australia. (Photo by SAEED KHAN / AFP)

Una catena che arriva all’Australia

L’ondata di cicloni e le conseguenti piogge torrenziali che hanno colpito la costa orientale dell’Africa favorendo il proliferare delle locuste, sarebbero legati, secondo la Bbc, all’opposto fenomeno dell’estrema siccità in Australia che ha causato la morte di 33 persone e bruciato un territorio delle dimensioni della Corea del Sud.

Il legame climatico fra le due sponde dell’Oceano Indiano è il cosiddetto Indian Ocean Dipole (Iod), il dipolo dell’Oceano Indiano, «un cugino meno noto di El Niño e La Niña»@ che riguarda le variazioni delle temperature nell’Oceano Indiano occidentale e orientale.

Lo Iod varia tra tre fasi: positivo, neutro e negativo. In media ogni fase si verifica circa ogni 3-5 anni. La fase neutra porta temperature nella media. Invece durante la fase negativa i venti da Ovest si intensificano, spingendo le acque più calde a concentrarsi vicino all’Australia e impedendo, nel contempo, all’acqua più fredda di salire dalle profondità dell’Indonesia. Queste acque più calde si spostano verso Est e le nuvole le seguono, favorendo l’arrivo della pioggia nell’Australia meridionale e causando viceversa siccità sul versante africano.

La fase positiva crea le condizioni inverse: i venti occidentali si indeboliscono e talvolta si formano venti orientali, permettendo all’acqua calda di spostarsi verso l’Africa. A Sud dell’Indonesia, le acque più fredde possono ora emergere dalle profondità oceaniche e, combinate con le correnti d’aria discendente nell’Oceano Indiano orientale, riducono la formazione di nuvole sul lato australiano dell’Oceano Indiano. Questo, a sua volta, spesso implica meno pioggia sulle aree centrali e Sud Est dell’Australia, mentre l’Africa è colpita da forti precipitazioni.

Nel 2019 si è verificato il dipolo positivo più forte degli ultimi sessant’anni, portando appunto siccità in Australia e Sudest asiatico e, in Africa Orientale, piogge e inondazioni che hanno provocato la morte di 280 persone e variamente colpite oltre 2 milioni e 800mila@.

Che legame c’è fra il dipolo e il cambiamento climatico? Ancora non è chiaro, ma la comunità scientifica sta tentando di stabilirlo. A questo proposito, uno studio pubblicato nel 2014 su Nature, riporta la Bbc@, prevede ad esempio che gli eventi climatici estremi causati dal dipolo possano diventare più frequenti con l’aumento delle emissioni di gas serra. Se queste crescono, la frequenza di dipoli estremamente positivi potrebbe aumentare in questo secolo da uno ogni 17,3 anni a uno ogni 6,3 anni.

Chiara Giovetti




I Perdenti 51. Dimităr Pešev, l’uomo che fermò Hitler

testo di Don Mario Bandera |


Dimitar Iosifov Peshev

Dimităr Josifov Pešev (o Peshev – 1894-1973) fu un uomo politico bulgaro che, come tanti, si lasciò affascinare dagli esperimenti totalitari nell’Europa del Novecento. Aveva iniziato la sua carriera come magistrato nel 1921 ed era poi diventato avvocato nel 1932. Nel 1935 accettò la proposta del primo ministro bulgaro Georgi Kjoseivanov di diventare ministro della Giustizia nel nuovo governo. Pochi anni dopo diventò il vicepresidente del parlamento.

Egli era un autentico democratico ma si illuse che un regime autoritario senza partiti potesse risolvere il problema della corruzione e del degrado della politica, quest’ultima messa alla prova, dopo la Prima guerra mondiale, da tentativi di colpi di stato sia di destra che di sinistra.

Fu fautore dell’alleanza con la Germania nazista perché attratto non tanto dalla figura di Hitler, ma dall’idea che la Germania potesse ridare al suo paese i territori «ingiustamente» perduti dopo le disgraziate guerre balcaniche degli anni 1912-13: parte della regione di Dobruja, passati alla Romania, e la Tracia dell’Ovest, alla Grecia.

Per questo non si fece troppe remore quando i tedeschi chiesero alla Bulgaria, nel 1940, di far parte dei paesi dell’Asse alleati alla Germania (con il ritorno sotto il dominio bulgaro dei territori perduti), e nel 1941 di approvare le leggi razziali.

Il giorno in cui si tenne in parlamento la discussione sulla politica che si sarebbe dovuta tenere nel paese nei confronti della minoranza ebraica, Pešev presiedette la seduta in qualità di vicepresidente.

Pensava, in quel momento, che quelle misure fossero poca cosa e che tutto si sarebbe risolto in una farsa.

La visione democratica che tu avevi non ti aiutò a capire che i nazisti che occupavano la tua patria, di lì a poco, avrebbero richiesto la consegna di tutti gli ebrei.

Una domenica mattina, all’improvviso, ricevetti la visita disperata di un amico che non vedevo da anni. Era un mio vecchio compagno di scuola ebreo proveniente da Kjustendil, una ridente cittadina al confine con la Macedonia dove avevo vissuto la mia adolescenza. Mi informò che il governo, in accordo con i tedeschi, stava preparando per il giorno dopo la deportazione segreta della minoranza ebraica, presente da secoli in Bulgaria.

Questo amico ti mise anche al corrente che i treni erano già stati predisposti nelle stazioni.

Il piano prevedeva che la notte successiva gli ebrei sarebbero stati rastrellati e caricati su vagoni che sarebbero partiti la mattina dopo per la Polonia (la destinazione, allora sconosciuta, era Auschwitz). Era il 7 marzo del 1943. Tutto era stato deciso in gran segreto per non mettere in allarme la popolazione.

A quel tempo avevi già sentito circolare strane voci, ma come tutti, allora, non te ne eri preoccupato più di tanto.

Proprio così, ma di fronte a un amico che – disperato – mi chiedeva di aiutarlo, ebbi come un sussulto, un risveglio della mia coscienza.

Di colpo mi scossi dal mio torpore e subito mi diedi da fare. In quel primo momento pensai anzitutto di aiutare i miei amici di Kjustendil. Mi precipitai in parlamento, radunai altri deputati e con loro entrammo nell’ufficio del ministro dell’Interno, Petar Dimitrov Gabrovski – che condivideva col primo ministro forti simpatie naziste – e, dopo uno scontro drammatico, lo costringemmo a revocare l’ordine della deportazione. Erano le 5,30 del mattino del 9 marzo 1943.

E poi cosa avvenne?

Siccome in Tracia e Macedonia – dove il controllo tedesco era più forte – avevano già cominciato a radunare e deportare gli ebrei, telefonai personalmente a tutte le prefetture del paese per verificare che il contrordine fosse stato ricevuto e quindi rispettato. In questo modo la deportazione fu sospesa, ma non cancellata.

Decisi quindi di lanciare un’offensiva in parlamento. Mi ero reso conto che in gioco non c’era soltanto la vita di qualche amico, ma la salvezza di cinquantamila ebrei bulgari.

Non c’era un minuto da perdere allora.

La lettera di protesta.  Sofia, 17 marzo 1943. Central State Archivess

Infatti, stesi una lettera di protesta molto dura e raccolsi le firme di una quarantina di deputati per chiedere al governo, al primo ministro Bogdan Filov e al re Boris III, di non commettere un crimine così grande, che avrebbe macchiato per sempre l’onore della Bulgaria.

Questo gesto di ribellione però ti costò molto caro. Perdesti la tua carica in parlamento e rischiasti di essere consegnato ai tedeschi.

Già, ma raggiunsi l’obiettivo che mi ero proposto: la mia denuncia ebbe un effetto dirompente, che nessuno si sarebbe aspettato. Il re, sentendosi sostenuto, fece marcia indietro e bloccò la deportazione.

Ma il tuo re era filonazista?

No. Anche lui si era illuso che l’alleanza con la Germania e la restituzione dei territori perduti potesse riparare le ingiustizie della conclusione della Prima guerra mondiale, combattuta (e persa) al fianco della Germania e dell’Austria. Ma non concordava con il nazismo e, poi, con lo sterminio degli ebrei. Va ricordato che era in stretto contatto con monsignor Angelo Roncalli (il futuro Papa Giovanni XXIII), allora nunzio apostolico a Istanbul. Con la sua collaborazione era riuscito a far partire molti ebrei per la Palestina. Aveva anche cercato di evitare la loro deportazione obbligando gli uomini ebrei validi a lavori forzati di pubblica utilità. In più, il re aveva rifiutato, il 14 agosto, la richiesta di Hitler di inviare l’esercito bulgaro alla (disastrosa) campagna di Russia.

Purtroppo però, il re morì improvvisamente il 28 agosto 1943.

(Boris III è il marito di Giovanna di Savoia, sorella di Mafalda che abbiamo «intervistato» sul numero di Gennaio 2020, ndr).

Hitler non accettò volentieri il suo rifiuto e c’è il fondato sospetto che il re fu avvelenato.

In quella situazione anche la mia posizione era tutt’altro che facile. Morto il re, ci fu un reggente, perché il successore era ancora un bambino, poi gli avvenimenti precipitarono con la vittoria dell’Armata Rossa che liberò il paese dai nazisti, ma diede mano libera ai partigiani comunisti.

E tu, continuasti con la politica?

Subito dopo il conflitto mi diedi da fare per riscoprire e valorizzare gli ideali democratici della vita pubblica e m’impegnai per il cambiamento politico nel mio paese e per il suo riallineamento con l’Occidente.

Dimităr Pešev, commise però il «grave errore» di denunciare pubblicamente in parlamento il comportamento dei partigiani comunisti, che stavano consegnando il paese ai russi.

Ciò gli costò molto caro al momento dell’occupazione della Bulgaria da parte dell’Armata Rossa. Pešev fu processato con l’accusa di essere antisemita e antisovietico. Nel corso del processo l’accusa arrivò a insinuare che avesse salvato gli ebrei in cambio di denaro. Tale accusa fu categoricamente smentita dagli ebrei giunti appositamente da Kjustendil per difenderlo. La corte era ugualmente intenzionata a condannarlo a morte, come fece con altri venti deputati che avevano firmato la sua lettera di protesta. Ci fu però un piccolo miracolo. Il suo difensore ebreo, Joseph Nissim Yasharoff, estrasse il classico coniglio dal cilindro e ricordò alla corte che Pešev nel 1936, quand’era ministro della giustizia, aveva salvato dalla condanna a morte Damian Velchev, il nuovo ministro della guerra, autore del golpe comunista attuato con l’arrivo dell’Armata Rossa.

Pešev ebbe così solo quindici anni di carcere e dopo un anno fu rilasciato. Il gulag gli fu risparmiato solo grazie all’intervento di un suo vicino di casa, responsabile della cellula comunista del quartiere, che Pešev aveva salvato a suo tempo dal licenziamento.

Dopo la guerra Pešev visse dimenticato da tutti. Gli ebrei, nel ‘49, lasciarono in massa la Bulgaria per trasferirsi in Israele. Negli anni ‘60, superate le difficoltà dell’emigrazione, iniziarono a inviare aiuti a chi li aveva salvati: Pešev ricevette stabilmente del denaro e delle lettere che lo ringraziavano per la sua azione. Gli fu proposto di recarsi in Israele, ma egli rifiutò: voleva prima essere riabilitato nel suo paese. Morì senza avere questa soddisfazione.

Don Mario Bandera

 

Il titolo di questa intervista è stato suggerito dal libro:
Gabriele Nissim,
L’uomo che fermò Hitler. La storia di Dimităr Pešev che salvò gli ebrei di una nazione intera,
Mondadori, Milano 1999.




Sognando e annunciando

Inserto a cura di Sergio Frassetto |


Originale, poetica e… breve! Così si presenta l’Esortazione apostolica post sinodale «Querida Amazonia», che ci fa intravedere i quattro «sogni» di papa Francesco sull’amata Amazzonia. Leggendo e gustandone gli appassionati paragrafi, colpiscono alcune affermazioni che, pur rivolte ai popoli della grande foresta, insaporiscono – rinvigorendola – la vocazione missionaria di tutta la Chiesa.

Così, ad esempio: «Di fronte a tanti bisogni e tante angosce che gridano dal cuore dell’Amazzonia… come cristiani non rinunciamo alla proposta di fede, che abbiamo ricevuto dal Vangelo. Pur volendo impegnarci con tutti, fianco a fianco, non ci vergogniamo di Gesù Cristo. Per coloro che lo hanno incontrato, vivono nella sua amicizia e si identificano con il suo messaggio, è inevitabile parlare di Lui e portare agli altri la sua proposta di vita nuova» (n. 62).

Se diamo la nostra vita per gli altri, per la giustizia e la dignità che meritano, non possiamo nascondere ad essi che lo facciamo perché riconosciamo Cristo in loro e perché scopriamo l’immensa dignità concessa loro da Dio che li ama infinitamente. «Senza questo annuncio appassionato, ogni struttura ecclesiale diventerà un’altra Ong, e quindi non risponderemo alla richiesta di Gesù Cristo: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura”» (n. 64).

Il papa, poi, invita a non «bollare con troppa fretta come paganesimo o superstizione, alcune espressioni religiose che nascono spontaneamente dalla vita della gente».

Il beato Giuseppe Allamano lo aveva anticipato di «qualche anno», quando ai suoi primi missionari in Kenya, un po’ troppo zelanti a condannare danze e riti indigeni, scriveva: «Letto il diario, vedo che il missionario si scagliò contro i goma (balli)… Per carità, si vada adagio, come qui tra noi per il ballo, sebbene sia più cattivo. Dobbiamo dissimulare il male, perché è impossibile ora vincere la cosa e sarebbe di pregiudizio alla conversione il combatterlo di fronte».

Sarà proprio grazie all’inculturazione del Vangelo, fatta con rispetto e senza fretta, che «potranno nascere testimonianze di santità con volto amazzonico, che non siano copie di modelli da altri luoghi; santità fatta di incontro e dedizione, di contemplazione e di servizio, di solitudine accogliente e di vita comune, di gioiosa sobrietà e di lotta per la giustizia… Immaginiamo una santità dai lineamenti amazzonici, chiamata a interpellare la Chiesa universale» (n. 77).

Avanti, allora, su questa strada come cristiani, tanto più come missionari: sarebbe triste che i poveri e i dimenticati non ricevessero da noi «il grande annuncio salvifico, quel grido missionario che punta al cuore e dà senso a tutto il resto».

padre Giacomo Mazzotti


G. Allamano e G. Alberione

L’amicizia tra sacerdoti santi

Tra Giuseppe Allamano e Giacomo Alberione (1884-1971), il fondatore delle Famiglie Paoline, nonostante una differenza di 33 anni di età, sorse una buona intesa sacerdotale. Espressamente ne parla anche padre Candido Bona, missionario della Consolata e storico riconosciuto: «I suoi contatti con l’Allamano, di persona e per lettera, non si limitarono a casi sporadici, per quanto di particolare importanza, ma rivestirono il carattere di vera direzione, dalla quale attingeva lumi soprannaturali, conforto e direttive. La cosa desta ammirazione, se si tiene presente che l’Alberione risiedeva ad Alba e non a Torino».

Reciproca collaborazione. Probabilmente la collaborazione tra i due uomini di Dio si espresse soprattutto negli incoraggiamenti dell’Allamano all’Alberione per la fondazione della Pia Società di S. Paolo. Fu una collaborazione speciale, che dimostrò la stima e la fiducia reciproche. Non c’è dubbio che l’Allamano si fosse reso subito conto che il progetto dell’Alberione era una vera ispirazione che proveniva da Dio. Fu lo stesso Alberione, parlando in terza persona, a confidare come l’Allamano lo avesse incoraggiato fin dall’inizio. In una bella testimonianza inviata da Alba il 29 gennaio 1933, in vista della prima biografia che si stava scrivendo sull’Allamano, scrisse: «So di un sacerdote [non c’è dubbio che si tratti dell’Alberione stesso] che ricorse al can. Allamano prima di ritirarsi dalla santa opera di zelo a cui stava intento [in quel periodo era direttore spirituale del seminario], per consacrarsi ad altre opere cui un interno movimento di grazia sembrava invitarlo [cioè la comunicazione sociale attraverso la stampa]. L’Allamano sentì e pregò: poi rispose con poche, ma decisive parole. Il caso era difficilissimo, ma le prove di una ventina d’anni gli diedero del tutto ragione. Eppure, bisogna dire che in quel momento erano molti i pareri contrari». Questa testimonianza è confermata dallo stesso Alberione in un incontro con padre Giuseppe Caffaratto: «Lei è della Consolata, dell’Istituto del canonico Allamano. Io conservo sempre tanta riconoscenza al canonico Allamano perché agli inizi della mia congregazione, mentre quasi tutti i sacerdoti mi erano contrari e mi dicevano: “Pianta lì, con i tuoi giornali e la tua stampa!”, lui mi diceva: “Vai avanti, vai avanti!”. E mi fu di grande incoraggiamento».

Il pensiero dell’Allamano sull’Alberione.

Non si possiede documentazione scritta su questo punto, ma è facile intuire la stima dell’Allamano per l’Alberione dal fatto, come si è detto, che fu uno dei pochi a sostenerlo per la fondazione dei Paolini. Dai frequenti incontri a Torino, quando l’Alberione veniva appositamente da Alba per consultarlo, certamente l’Allamano si rese conto del valore di quel giovane sacerdote. Ecco perché lo sostenne sempre e lo incoraggiò, dandogli opportuni consigli. È lo stesso Alberione a rivelare quanto l’Allamano gli suggeriva.

Il pensiero dell’Alberione sull’Allamano.

Sulla stima che l’Alberione aveva per l’Allamano non ci sono dubbi. In un’omelia ai chierici ad Alba nell’autunno del 1924 disse: «Volete incontrare dei santi viventi? Andate a Torino e visitate il canonico Allamano e don Rinaldi; andate in Liguria e troverete padre Seteria; spingetevi in Sicilia e ancora potete incontrare il canonico Di Francia». Sapeva individuare i santi senza sbagliarsi.

Così inizia la testimonianza, citata sopra, del 29 gennaio 1933: «Stimavo e stimo come santo il can. Allamano; seguii il suo consiglio in momenti importanti e me ne trovo contento; anzi ai chierici io riporto spesso il suo esempio, nelle esortazioni e meditazioni».

L’Alberione si dilunga a riportare diverse espressioni dell’Allamano, da lui ascoltate, che lo hanno impressionato per la loro semplicità e concretezza.

Eccone alcune: «Diceva ad un giovane sacerdote: “Lavorare al confessionale, nella predicazione, nella scuola; ma prima riservare il tempo necessario per l’anima propria. Vi sono persone che si rendono inutili, per sé e per gli altri, col troppo fare per gli altri, trascurando se stessi; spesso mi vidi costretto a chiudere la stanza e non rispondere, e declinare inviti ad opere buone… per riservare il tempo per la preghiera, lo studio…”. Al superiore di un Istituto religioso diceva: “Se volete gli istituti religiosi fiorenti, fate una porticina per entrarvi, un portone per uscire; cioè assicuratevi bene della vocazione vera prima di accettare; quando poi non danno prove chiare, licenziate con coraggio”.

Era ammirabile il suo intuito e la sicurezza del suo giudizio; quando andavo da lui non mi lasciava finire di parlare, gli bastavano poche parole, rispondeva con semplicità, brevità e sicurezza tali che infondeva coraggio ad operare e pace di spirito. Avevo sempre l’impressione che in lui fosse qualche cosa di più che l’ordinario lume; tanto più che sempre vidi nella pratica essere stato buono il suo consiglio. Ciò parecchie volte si è ripetuto.

Lo osservavo con diligenza tutte le volte che ebbi occasione di avvicinarlo: ritenendo prezioso ogni momento che potessi vederlo: la sua presenza mi sembrava un libro parlante, una regola; mi pareva spargesse un po’ di quella grazia che certamente portava nel cuore, perché mi pareva che ogni suo atto, ogni sua parola, persino gli atteggiamenti e i movimenti più trascurabili fossero ispirati a quello spirito soprannaturale, tanto Egli viveva di fede e sempre padrone di tutto se stesso: parole, disposizioni, sensi, azioni.

Il can. Allamano parlava con semplicità; non si turbava se altri diceva diversamente e anche se il suo consiglio veniva messo da parte, lasciando la cura di tutto alla Provvidenza. Come parlava per motivo di carità, così per motivo di carità taceva: conservando l’indifferenza dei santi anche riguardo le cose più delicate, o che toccavano più direttamente la sua persona».

In data 4 marzo 1943, dieci anni dopo avere mandato la sua prima testimonianza, l’Alberione scrisse al postulatore della causa di beatificazione dell’Allamano che lo aveva nuovamente interpellato: «Ho ancora esaminato diligentemente l’attestazione scritta da me e data a suo tempo. Non ho da togliere o da aggiungere altro».

padre Francesco Pavese


Giuseppe Allamano: fedeltà e novità

Il 5 luglio 2019, la signora Emanuela Costamagna ha conseguito, a pieni voti, la Laurea magistrale presso l’Istituto superiore di scienze religiose di Torino, difendendo la tesi dal titolo: «Beato Giuseppe Allamano. Fedeltà e novità nel suo pensiero teologico e nella sua attività missionaria».

La prima parte di questo articolo è stata pubblicata su «Missioni Consolata» di gennaio. In questo numero ne pubblichiamo la seconda e ultima parte.

Il quarto capitolo è la «perla» della tesi sull’Allamano, scritta con passione dalla signora Emanuela Costamagna, e va considerato come una spinta in avanti.

L’autrice esamina dal punto di vista teologico alcuni degli aspetti più importanti individuati nei primi tre capitoli e fa emergere che l’Allamano può essere considerato «figlio del suo tempo» perché viveva appieno la visione teologica del suo periodo storico.

Tuttavia, pensando che il suo scopo era formare giovani uomini e donne che presto sarebbero stati inviati lontano con lo stesso spirito missionario, ha insistito su alcuni aspetti particolari portando delle sue originalità che potrebbero racchiudersi nelle sue stesse parole: «amare e farsi santi è la stessa cosa».

Alla fine della tesi c’è un’interessante conclusione. Ecco qualche tratto ripreso alla lettera: «Al termine del percorso che mi ha portato alla stesura di questa tesi, posso dire che, sebbene già conoscessi la figura del beato Allamano e alcuni missionari e suore della Consolata, ho avuto la possibilità di approfondirne il carisma e il pensiero.

Nel corso della tesi ho avuto modo di analizzare come maturò il suo carisma ricevuto dallo Spirito e quali novità introdusse con le sue riflessioni. Anzitutto si può constatare che l’Allamano fondava il suo pensiero su solide basi: da una parte il messaggio del Vangelo con il suo annuncio della salvezza portata da Cristo e del ruolo di corredentrice di Maria e dall’altra una importante attenzione al prossimo, mettendo insieme il comando di Cristo “andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni” (Mt 28, 19) con quello di “amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22,38).

L’Allamano trasferì la sua grande attenzione per il prossimo nello spirito dei missionari. La sensibilità che richiedeva verso gli indigeni era molto particolare, portava avanti delle istanze che al suo tempo non erano sempre comprese da tutti. Sicuramente la fede che richiedeva doveva essere vissuta pienamente nella vita pratica attraverso le opere, perché era conscio che in missione una scuola, un ospedale, un orfanotrofio avrebbero fatto del bene agli indigeni e preparato la strada alla conversione. Ecco perché insisteva sulla necessità di elevare l’ambiente.

Anche la valorizzazione dei sacerdoti e dei catechisti locali, da lui fortemente sostenuta, ebbe come base la necessità di far crescere una Chiesa con pastori e collaboratori originari del luogo, il che è uno dei fini della missione e, oggi, di estrema attualità.

Come si è visto, l’Allamano pur non essendo un innovatore, sicuramente fece delle riflessioni e diede delle direttive ragguardevoli e talvolta coraggiose per il suo tempo e che, ancora oggi, costituiscono lo spirito dei membri dei due istituti. Iniziando da quel piccolo gruppo di due sacerdoti e due fratelli coadiutori partiti per il Kenya nel 1902, ora i missionari e le missionarie della Consolata operano in Europa, Africa, Asia ed America.

Ciò che ho potuto constatare, avendo anche visitato parecchie loro missioni in Africa e in America Latina ed avendo vissuto un anno e mezzo in una missione in Etiopia, è che lo spirito e gli insegnamenti che l’Allamano impartiva sono ancora attuali e seguiti».

L’autrice della tesi, oltre che per la serietà dello studio, va lodata per la stima e la fiducia nell’Allamano. Questa è la confidenza fatta al missionario cui si riferiva, all’inizio del lavoro: «La mia tesi sarà buona perché fatta con rispetto verso l’Allamano che a me ha dato tanto! Potevo avvicinarmi ad altri istituti, per andare in missione. Ma il mio cuore ha scelto la casa madre di corso Ferrucci e l’Allamano. Per cui glielo devo al caro Beato, e mi impegno a fare meglio che posso la tesi su di lui». Un particolare molto significativo: durante la discussione della tesi la signora Emanuela, ogni volta che nominava l’Allamano, lo chiamava sempre «Fondatore», manifestando, forse senza accorgersene, il suo sincero legame con lui.

Il piccolo gruppo che ha accompagnato la signora Emanuela durante la discussione era formato dal marito Fabio e due figlie (Elia,
il bimbo di un anno e mezzo è rimasto con i nonni), dai genitori, alcuni amici e missionari. Al termine della difesa, rientrati nella sala, si attendeva l’esito con curiosità, non disgiunta da comprensibile apprensione. Il presidente ha pronunciato queste parole:
«Il giudizio unanime della commissione
è che la tesi ha le seguenti qualità: accuratezza, profondità, ampiezza. Votazione: 30 lode!». L’applauso felice e fragoroso è scoppiato istantaneo. (Fine)




Heineken in Africa

testo di Chiara Brivio |


Il libro inchiesta del giornalista Olivier van Beemen

Un giornalista olandese alla scoperta degli affari africani, non sempre limpidi, di una delle multinazionali più conosciute e amate del suo paese.

Olivier van Beemen, ha dedicato sei anni a investigare il giro d’affari in Africa di una delle più grandi multinazionali della birra al mondo: l’olandese Heineken. Un’azienda dalla reputazione impeccabile, con 165 birrifici in 70 paesi, i cui profitti nel continente superano del 50% la media dei suoi profitti nel mondo, che considera l’Africa, per bocca del suo stesso amministratore delegato Jean-François van Boxmeer, «il segreto meglio custodito dell’imprenditoria internazionale».

Inviato dal quotidiano olandese «Financieele Dagblad» a seguire la Rivoluzione dei gelsomini in Tunisia nel 2010, van Beemen ha scoperto per caso alcuni legami tra il gigante della birra e un uomo d’affari vicino all’ex dittatore Ben Ali.

Da lì ha avuto inizio una lunga inchiesta che ha portato a risultati sconcertanti: in diversi paesi africani van Beemen ha portato alla luce casi di collusione, corruzione, abusi sessuali, prostituzione, elusione fiscale, violazione dei diritti umani, nei quali sarebbe coinvolta la Heineken. Fino al genocidio ruandese del 1994, nel quale, secondo la ricostruzione fatta dall’autore, la multinazionale della birra avrebbe avuto un ruolo importante.

La sua inchiesta è confluita in un libro, Heineken in Africa. La miniera d’oro di una multinazionale europea, pubblicato recentemente in Italia da ADD editore (Torino 2020, pp. 336, euro 16,00). In esso l’autore solleva molti dubbi sul ruolo di Heineken che dichiara di essere un forte agente di sviluppo in molti paesi africani, ma anche sulle multinazionali che operano nel continente in generale.

Abbiamo intervistato il giornalista in occasione dell’uscita dell’edizione italiana.

Perché ha scelto Heineken per la sua inchiesta?

Foto Dingena Mol

«È stato in Tunisia che è iniziato tutto, quando ho scoperto che lì Heineken aveva intrapreso una collaborazione con un membro del clan familiare dell’allora dittatore Ben Ali. Sono rimasto scioccato dal fatto che una multinazionale di quel calibro potesse mentire così apertamente: Heineken infatti negava di aver mai fatto affari con qualcuno che facesse parte di quel clan, mentre in realtà era il contrario e aveva legami con la dittatura.

Successivamente ho scoperto che Heineken aveva un enorme giro d’affari in Africa e che possedeva birrifici in diversi paesi. Il mio stesso governo negli anni ha elargito a Heineken milioni di euro dei contribuenti olandesi sotto forma di sussidi, perché crede che l’azienda contribuisca allo sviluppo in Africa.

Ho pensato che sarebbe stato interessante approfondire se veramente Heineken aiuta lo sviluppo.

Attenzione agli spoiler: è vero il contrario».

Il consumo di birra in molti paesi dell’Africa è molto elevato. Come mai?

«Molte società africane hanno delle tradizioni birraie che risalgono a tanti secoli fa. Le birre locali hanno una percentuale di alcool del due o tre per cento, e hanno come base il sorgo, la cassava, il miele e altri ingredienti. La birra a volte svolge anche un ruolo importante nei rituali e nelle cerimonie. Ciò significa che l’Africa è un mercato molto allettante per l’industria della birra occidentale, che fa di tutto per spingerne il consumo.

La misura standard di una bottiglia nella maggior parte dei paesi africani è di 60 cc (ad esempio in Nigeria) e di 75 cc (in Sudafrica).

I consumatori bevono facilmente anche cinque, sei, persino dieci bottiglie al giorno.

Senza dimenticare che Heineken e i suoi concorrenti sono riusciti con successo a trasformare le loro birre in uno status symbol. Per esempio, lo slogan del marchio Mützig, di proprietà di Heineken, è «il gusto del successo». Così fa credere agli africani che, bevendo birre occidentali, faranno parte di una nuova classe media. La conseguenza di tutto questo è che molti spendono i loro guadagni comprando birra, invece di prodotti più utili».

Come lei sottolinea nel libro, è molto difficile giudicare il ruolo che le multinazionali hanno nello sviluppo in Africa. Da una parte creano lavoro, costruiscono infrastrutture, collaborano con le Ong. Dall’altra, invece, sono coinvolte con i governi locali, spesso dittature, e sembrano sottrarre risorse a questi paesi già in difficoltà. C’è una via d’uscita?

«Penso che le aziende, incluse le multinazionali, possono ricoprire un ruolo positivo in Africa. Ma è importante anche guardarle con occhio critico, senza sottovalutare i loro slogan.

Queste aziende cercano il profitto, e non c’è niente di male in questo, ma oggi, sempre più, vogliono convincerci che sono loro la soluzione per un mondo migliore. Vogliono farci credere che sono genuinamente preoccupate per l’ambiente e per l’umanità.

Per chi lavora per queste compagnie, può essere vero, ma un’azienda non è la stessa cosa della somma degli individui che ci lavorano. Risponde a delle sue dinamiche interne e, alla fine, si tratta sempre di generare profitti.

Quindi penso che i governi e le Ong non dovrebbero collaborare con loro, perché il ruolo dei governi e delle Ong è quello di stabilire le regole e di controllare che le aziende le rispettino.

Oggi questo non succede. In particolare, nei paesi in via di sviluppo, praticamente non esiste un sistema di controllo ed equilibrio.

Le multinazionali pagano i media locali perché scrivano storie di successo, e sono riuscite a convincere sia i governi che le Ong che siglare delle collaborazioni con loro per un obiettivo comune sia cruciale per il progresso di quei paesi. Penso che questo sia molto pericoloso.

Per fare solo un esempio che riguarda Heineken: l’azienda si è impegnata ad acquistare per 10 anni il 60% delle sue materie prime da produttori e agricoltori africani. A livello di pubbliche relazioni è stata un’incredibile storia di successo, e ha permesso a Heineken di ricevere aiuti sia dal governo tedesco che da quello americano. Ma i progetti agricoli sono falliti, e l’anno scorso Heineken ha comprato solo il 37% da fornitori locali, cioè meno di quello che acquistava all’inizio del progetto.

Normalmente nessuno va a controllare queste cose, e anche dopo che la storia è stata smascherata, l’azienda continua a presentarla come un successo».

Perché Heineken ha risposto alla sua inchiesta solo nel 2018, dopo l’uscita della seconda edizione? Forse perché sapeva che il libro sarebbe stato pubblicato in vari paesi del mondo e temeva per la propria reputazione? Ci sono state delle conseguenze per Heineken a seguito del libro?

«All’inizio Heineken aveva deciso di non cooperare con me in alcun modo. In realtà poteva essere una buona strategia, perché alcuni lettori avrebbero potuto pensare che i miei scritti fossero solo una parte della storia, anche se io ho presentato la versione dell’azienda attraverso interviste e documenti interni.

Invece per il secondo libro (giunto alla quinta edizione nei Paesi Bassi, nda), che è stato tradotto in diverse lingue, Heineken ha adottato una strategia più “seducente”. Sono stato invitato a una cena, la quale sicuramente si sarebbe tenuta in un ristorante di lusso di Amsterdam, ma io ho rifiutato, dicendo che avrei preferito prendere un caffè nella loro sede centrale.

Il libro ha avuto delle serie conseguenze per Heineken: una banca olandese ha deciso di disinvestire dall’azienda e il Fondo globale contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria, che ha il supporto anche della Bill & Melinda Gates foundation, ha sospeso la sua collaborazione».




Sempre più al largo

testo di  Angelo Fracchia |


Gli Atti degli Apostoli crescono: la comunità dei fratelli, o dei credenti, o dei discepoli, ha iniziato ad affacciarsi fuori dalla Giudea, ha avuto il primo martire, Stefano, un ellenista, ossia un ebreo di lingua greca (At 6-7), ma questo, lungi dallo spegnerne l’entusiasmo, ha significato l’inizio della predicazione ai samaritani (At 8,5-25), a un eunuco etiope (At 8,26-39), addirittura a un centurione romano (At 10). Nulla sembra fermare la progressione di una comunità che pare però per ora procedere quasi a caso.

Dal male, il bene

Sembra comunque che anche ciò che potrebbe essere di danno per la nuova comunità, si volga invece a suo vantaggio. La persecuzione contro i credenti (At 4-5) ha significato la possibilità di predicare Gesù anche davanti al sinedrio; un episodio di discriminazione tra i discepoli (il trascurare le vedove ellenistiche: At 6,1) ha regalato alla neonata comunità sette nuovi servitori che hanno inteso in modo molto generoso la loro chiamata; l’affacciarsi di un persecutore particolarmente accanito (Saulo, At 9) diventa l’occasione per uno dei pochi episodi degli Atti in cui Dio si mostra esplicitamente in tutta la sua forza.

Ma il cammino è soltanto all’inizio. Luca sembra quasi suggerirci che ciò che accade potrebbe anche essere interpretato in modi diversi, molto umani, anche se ci mostra in modo chiaro che in quegli snodi a muoversi e manifestarsi è lo Spirito di Dio.

Capita infatti che, in seguito all’uccisione di Stefano, sorga una persecuzione «contro la Chiesa di Gerusalemme» (At 8,1). In realtà, notiamo che gli apostoli non ne sono toccati, benché non facciano nulla per nascondersi, e che questa persecuzione si scatena subito dopo la morte di Stefano: viene da pensare che il suo bersaglio non fossero i cristiani in genere, ma proprio gli ellenisti, quegli ebrei convertiti di lingua greca che probabilmente erano guardati abbastanza male dagli antichi residenti di Gerusalemme. Sembra addirittura che chi li perseguita non abbia neppure di mira i fratelli, i credenti, ma la gente forestiera che si era trasferita a Gerusalemme portando con sé i propri (tanti) soldi, le mogli (giovani e presto vedove) e i (riottosi) figli di età minore. Costoro, quasi certamente poco legati a Gerusalemme, davanti alla persecuzione, hanno la scusa buona per ritornare in quegli ambienti di origine che erano multiculturali, variegati e ricchi di vita e in cui probabilmente preferivano vivere.

Ciò che si può dedurre sul clima ecclesiale, nonostante Luca tenti di non evidenziarlo troppo, non è simpatico. Come abbiamo già in parte ricordato, l’autore di Atti dice che «scoppiò una violenta persecuzione contro la chiesa di Gerusalemme» tanto che «tutti, ad eccezione degli apostoli, si dispersero nelle regioni della Giudea e della Samaria» (At 8,1). È un passaggio quanto meno strano: se voglio colpire un gruppo, la prima delle misure da prendere è punirne i capi che, tra l’altro, sono ben noti al sinedrio, che li ha già convocati due volte (At 4,1-21; 5,17-42). Perché questa volta li lascia stare?

Come dicevamo, viene il sospetto che la persecuzione non tocchi poi davvero tutti i credenti in Cristo ma solo quelli di lingua greca, i forestieri. E a questo punto si insinua anche una domanda triste e perfida: perché i dodici non sembrano muovere un dito per difendere i cristiani ellenisti o per condividerne la sorte?

Uno degli aspetti della chiesa delle origini, che Luca dissimula ma ci lascia intravedere, è che non si tratta di una chiesa perfetta. È una chiesa i cui responsabili in fondo condividono i pregiudizi del loro contesto religioso e culturale, o almeno non riescono a ribellarvisi. Verrebbe da dire che questa chiesa, lungi dall’essere ideale, assomiglia molto anche alla nostra. Oggi come allora l’adesione a Cristo non trasforma il nostro sguardo come dovrebbe. Ebbene, Luca fa notare che persino in questa situazione discutibile, lo Spirito è all’opera, e può scrivere dritto su righe storte. Anzi, è proprio ciò che fa.

Annuncio scandaloso

Da Gerusalemme, quindi, parte un certo numero di ebrei cristiani di lingua greca, che tornano verosimilmente nei luoghi da cui sono venuti. E una volta tornati là ovviamente raccontano a chi incontrano la grande novità che ha cambiato la loro vita. Luca, in verità, si premura di dire che gli espulsi annunciano Gesù solo ad altri ebrei (At 11,19). A noi può sembrare una preoccupazione eccessiva, ma per quel mondo certe divisioni erano barriere insuperabili. In Cristo «non c’è giudeo né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio e femmina» (Gal 3,28), scrive Paolo, e lo evidenzia in quanto si tratta di una novità inaudita, perché normalmente quelle divisioni erano nettissime. Una preghiera che forse già gli ebrei della fine del II secolo (ma probabilmente anche prima) recitavano al risveglio, diceva: «Benedetto tu, Signore, perché non mi hai fatto goi (cioè «non ebreo»), non mi hai fatto schiavo, non mi hai fatto donna». Gesù si era mostrato molto disinvolto nel valorizzare le donne e incontrarsi con loro, e dai vangeli non ci sono indizi per farci pensare che non abbia mai incontrato persone che chiaramente fossero schiave… ma non aveva quasi mai oltrepassato la barriera che lo divideva dai non ebrei. È uno dei grandi problemi, forse il più grande, che Luca negli Atti deve presentare e giustificare. E si sta impegnando ad arrivarci poco alla volta.

Ha già citato i primi casi (Filippo che battezza samaritani e poi un eunuco etiope) e ha colto Pietro in una situazione estrema (il battesimo di un centurione romano: At 10). Nel capitolo 11 sembra quasi che Luca voglia scaricare la responsabilità di un passaggio ulteriore su gente che era forestiera e, nella mentalità del tempo, forse un po’ più grezza. «Alcuni, gente di Cipro e di Cirene, cominciarono a parlare anche ai greci…» (At 11,20). Succede semplicemente che ad Antiochia semiti e greci vivano gli uni accanto agli altri. E che alcuni, non del posto, non sapendo bene chi sia ebreo e chi no, cominciano ingenuamente a parlare di Gesù ai loro vicini di casa, che ne sono affascinati. E il vangelo inizia a diffondersi ampiamente anche tra i non ebrei.

Si corre ai ripari

A Gerusalemme vengono a sapere che ad Antiochia sta succedendo qualcosa di strano e, come avevano già fatto per l’annuncio del vangelo tra i samaritani (Atti 8,14), mandano qualcuno a controllare (e chissà, forse, nel caso, a castigare). Per questo, incaricano quello stesso Barnaba che era già stato inviato in Samaria.

Dobbiamo fermarci un attimo per capire la preoccupazione del gruppo dirigente di Gerusalemme. Gesù, lo abbiamo già detto, non aveva lasciato intendere di dover ampliare l’annuncio anche ai non ebrei. In più, il momento più importante di celebrazione della fede cristiana è la «frazione del pane» (quella che oggi chiamiamo messa), che è proprio un banchetto.

Ebbene, il mondo ebraico si compattava soprattutto intorno alle norme religiose che toccavano il cibo. Mangiare era un atto religioso. E l’atto religioso privilegiato dai cristiani era un pasto. I doveri religiosi si concentravano, per il cibo, soprattutto su un’alimentazione kasher, «pura», che richiedeva, tra l’altro, il non mescolarsi con i non ebrei. Come tollerare, quindi, dei non ebrei alla «frazione del pane»? Inoltre, se anche si fosse potuto chiudere un occhio, magari ospitando i non ebrei a casa di ebrei (almeno il cibo sarebbe stato kasher, anche se in compagnia di persone non accettabili), come fare a spiegare loro che non avrebbero mai potuto ricambiare l’ospitalità? È probabile che sembrasse più semplice ribadire che si poteva essere cristiani solo se ebrei.

È con questo dilemma che Barnaba si presenta ad Antiochia. E, come era già accaduto in Samaria, Barnaba arriva, guarda, ascolta, discerne e attesta che vede i frutti dello Spirito e non può fare altro che applaudire a ciò che sta succedendo. Quanto è prezioso lo sguardo di chi sa vedere anche il nuovo con gli occhi di Dio!

Non solo. Immediatamente (Atti 11,25), Barnaba si ricorda che per quel contesto particolare, di mescolanza di due culture, lui conosce la guida giusta, un uomo che lui stesso aveva già introdotto a Gerusalemme, dove però non si era integrato bene, troppo avanti e grintoso per una chiesa forse più tranquilla e ancora legata al tempio… E di nuovo Barnaba si fa strumento dello Spirito su strade nuove: parte, va a Tarso, cerca Saulo, e lo porta ad Antiochia. Finalmente al posto suo, in una comunità mista che traccia strade nuove e, restando fedele al tracciato sicuro, ha bisogno di camminare con coraggio!

La «Porta di Cleopatra» nelle mura di Tarso

Sorvegliati dai servizi segreti

Il brano si chiude con un’affermazione che può sembrare una semplice curiosità, ma ha numerosissimi sottintesi: «Ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (Atti 11,26). Anche chi la consideri solo una curiosità, sa bene che alla fine quel nome si sarebbe imposto e quindi questo è un passaggio importante. Ma c’è di più. «-iano» è un suffisso latino, che di solito indica l’appartenente a un partito raccolto intorno a una persona-guida. Al tempo di Gesù si conoscono bene gli erodiani (cfr. Mt 22,16; Mc 3,6; 12,13), i pompeiani, i cesariani, e così via. Il greco non usa questo suffisso se non in prestiti dal latino. E gli Atti degli Apostoli sono scritti in greco, e il greco (insieme all’aramaico) è la lingua parlata per le strade ad Antiochia. Perché allora una parola latina per definirsi?

Perché probabilmente non furono i cristiani a trovare per sé questo nome (come d’altronde dice Luca: «Furono chiamati»). Proprio l’origine latina lascia invece intendere che si sia trattato dei romani. Questi, tra gli strumenti che utilizzavano per mantenere l’ordine pubblico, avevano anche un’importante rete di informatori, di infiltrati. Noi oggi li chiameremmo i servizi segreti. Sono questi informatori i primi ad accorgersi che sta crescendo un gruppo nuovo, originale, per il quale non si può più dire che siano semplicemente ebrei. Anzi, non lo sono perché hanno dentro anche tanti altri. E capiscono anche che a caratterizzare questo gruppo è Cristo (che lo scambino per un capo politico si può capire: gli informatori, e molto di più chi li usa, sono ossessionati dalla politica). Questo vuol dire anche che ormai «Cristo» non era più sentito come un attributo (la traduzione di «messia») ma quasi come un secondo nome proprio, come lo usa anche Paolo.

Potremmo aggiungere un’ultima considerazione. Siccome non c’è alcuna notizia di una persecuzione contro i cristiani ad Antiochia, gli informatori romani, i primi ad accorgersi in modo chiaro che i cristiani sono davvero una cosa nuova, dovevano aver deciso anche che questo nuovo gruppo non era pericoloso.

Intorno alla chiesa, fuori dal mondo ebraico, qualcuno ha cominciato a notare i cristiani. E l’esito della persecuzione contro una parte sola della comunità cristiana, che sembra quasi venire abbandonata dall’altra, è un’apertura nuova, una sfida nuova, un’opera nuova dello Spirito.

Con tutti i difetti della Chiesa d’allora o d’oggi, dobbiamo confidare che non c’è limite o cattiveria che riesca a legare lo Spirito, pronto ad agire comunque, e ad agire per il bene.

Angelo Fracchia
(12 – continua)




L’ad gentes della cooperazione

testo di Chiara Giovetti |


Salute mentale in Costa d’Avorio, biogas per le scuole del Kenya, rifugiati venezuelani in Brasile. Sono tre degli ambiti nei quali i missionari della Consolata si impegneranno in questo 2020,  cercando di coniugare la più che centenaria esperienza di lotta alla povertà con gli attuali temi dell’inclusione e dell’ambiente.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

1. Costa D’Avorio

La malattia mentale, terra di nessuno della sanità

«Si può dire che i malati mentali siano l’ad gentes del mondo della salute: quelli che nessuno ha ancora avvicinato, di cui nessuno vuole occuparsi». Padre Matteo Pettinari, missionario italiano che lavora a Dianra, Costa d’Avorio, usa questa immagine per sottolineare come la salute mentale sia ancora un ambito inesplorato e ai margini, così come ad gentes indica appunto la missione che si rivolge a chi ancora non è stato raggiunto dall’annuncio del Vangelo.

Insieme ai confratelli padre Ariel Tosoni, argentino, e padre Raphael Ndirangu, kenyano, padre Matteo ha avviato un dialogo con la sanità pubblica ivoriana, in particolare con il professor Asséman Médard Koua, direttore dell’ospedale psichiatrico di Bouaké – struttura sanitaria che si occupa della salute mentale di tutta la regione settentrionale del paese – e con la sua équipe. «L’ospedale in cui il professor Koua lavora», spiega padre Ariel, «dovrebbe gestire i pazienti psichiatrici di un bacino d’utenza pari a undici milioni di persone».

Numeri in linea con quelli riportati sul sito di Samenta-com@, il progetto di salute mentale comunitaria lanciato dal ministero della Salute e igiene pubblica ivoriano e dalla tedesca Mindful-Change-Foundation.

In Costa d’Avorio, si legge sul sito, a partire dal 2002 la popolazione è stata colpita psicologicamente e socialmente dalle varie crisi, cioè dai disordini e conflitti che hanno scosso il paese nel primo ventennio del XXI secolo. L’offerta e l’accesso alle cure per la salute mentale sono limitati: due ospedali psichiatrici pubblici e circa trenta psichiatri per oltre 26 milioni di abitanti.

Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, le persone colpite da disturbi mentali e neurologici sono presenti in tutte le regioni del mondo, in tutti i contesti sociali e in ogni fascia d’età, indipendentemente dal livello di reddito dei loro paesi. A livello mondiale, il peso di questi disturbi sul carico complessivo delle malattie è del 14%; nei paesi a basso reddito tre su quattro pazienti affetti da tali disturbi non hanno accesso alle cure di cui hanno bisogno.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

«Chi li aiuterà se non voi?»

In Costa d’Avorio esiste un coordinamento chiamato Urss-Ci, acronimo di Unione dei religiosi e delle religiose nella salute e nel sociale in Costa d’Avorio, del quale i missionari della Consolata sono parte. «Il professor Koua ci ha avvicinato in quanto membri Urss-Ci», spiegano ancora i padri Matteo, Ariel e Raphael. «La sanità pubblica fatica a seguire questi malati, ci ha detto il medico: se anche voi religiosi impegnati nell’ambito sanitario restate prigionieri di timori e remore e li rifiutate, allora chi li aiuterà?».

A questo primo dialogo è succeduta poi una sessione di formazione che lo psichiatra ha tenuto al centro sanitario Beato Joseph Allamano (Csja) di Dianra, gestito dai missionari della Consolata, e l’avvio di una collaborazione che ha coinvolto anche il neonato Distretto sanitario di Dianra per mezzo del suo direttore.

Sono già attivi alcuni servizi che permettono di seguire pazienti affetti da epilessia e da malattie psichiatriche: tutte persone che la comunità emargina perché le considera possedute.

«Fin dalla prima visita del professor Koua al centro sanitario», racconta padre Matteo, «abbiamo toccato con mano l’urgenza di fornire servizi in questo ambito. Noi missionari non avevamo fatto preventivamente una grande pubblicità alla cosa. Avevamo giusto segnalato, durante la messa e nelle comunità di base, che sarebbe venuto un medico specializzato in salute mentale e che, se qualcuno conosceva persone con disturbi di questo tipo, poteva farle venire per una consultazione: si sono presentate 72 persone solo il primo giorno».

Oggi il centro di Dianra lavora applicando un protocollo e utilizzando schede fornite da Samenta-com; offre consultazioni ai pazienti per identificarne con precisione, sulla base di una serie di domande contenute nelle schede, il tipo di disturbo e definire poi la terapia.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

Formare operatori

ll 2020 sarà dunque l’anno in cui si penserà a come dare maggior forma, struttura ed efficacia a questa collaborazione appena partita e già così significativa. «Certo», riconoscono i missionari di Dianra, «non possiamo fare un centro psichiatrico. Ma se già con la formazione del nostro personale sanitario siamo in grado di accompagnare diverse di queste persone che prima erano lasciate ai margini, perché non pensare a uno spazio piccolo e semplice da costruire – ad esempio un appatam, la versione locale della paillote – che diventi una sorta di centro dove i pazienti possano svolgere attività diurne?».

Lo spazio, per come lo stanno concependo i missionari, potrebbe ospitare corsi di teatro, danza e varie forme di arte-terapia che vanno dalla pittura alla musica e alla scrittura, e diventerebbe un luogo dove, anche grazie all’aiuto di volontari, si ferma la dinamica di emarginazione e ci si sforza, viceversa, di invertirla, riavvicinando di nuovo i pazienti psichiatrici al resto della comunità attraverso l’arte come strumento di socializzazione.

Immagini della costruzione dell’impianto di biogas finanziato dalla Caritas italiana nel 2019 (© AfMC/Denis Mwenda)

2. Kenya, il biogas

Energia pulita per le scuole

La ricerca di fonti energetiche rinnovabili resa urgente negli ultimi anni dalla necessità di limitare le emissioni di anidride carbonica ha portato maggior attenzione sulle cosiddette biomasse, di cui fanno parte i rifiuti biodegradabili derivanti dall’agricoltura e dall’allevamento. Il biogas può essere prodotto a partire da questi rifiuti e utilizzando i cosiddetti digestori.

I digestori, spiega la Fao, sono grandi serbatoi in cui il biogas viene prodotto attraverso la decomposizione di materia organica mediante un processo chiamato digestione anaerobica. Sono chiamati digestori perché il materiale organico viene «mangiato» e digerito dai batteri per produrre biogas@.

Nel 2019, una delle strutture educative gestite dai missionari della Consolata in Kenya, la scuola materna e primaria Familia Takatifu (Santa Famiglia) di Rumuruti, in Kenya, ha utilizzato questo metodo per dotarsi del gas necessario a soddisfare il fabbisogno di energia della cucina che serve gli oltre 700 allievi della scuola.

Il progetto, finanziato da Caritas Italiana nell’ambito del suo programma che sostiene ogni anno centinaia di microprogetti nel mondo, si è concluso lo scorso gennaio e ha visto diverse fasi: lo scavo dello spazio dove collocare il digestore, la costruzione di quest’ultimo in cemento, l’introduzione della biomassa nel digestore, la sua messa in funzione per la produzione di biogas e l’installazione nelle strutture della scuola di un impianto in grado di portare il gas dal punto dove viene prodotto alla cucina.

Immagini della costruzione dell’impianto di biogas finanziato dalla Caritas italiana nel 2019 (© AfMC/Denis Mwenda)

I vantaggi del biogas

«La scuola ora usa il sistema a biogas per la cottura dei cibi, la bollitura dell’acqua e anche, in parte, per l’illuminazione», riporta il responsabile di progetto padre Denis Mwenda Gitari. «Il residuo prodotto, inoltre, si può usare come fertilizzante per l’orto della scuola e», conclude il missionario, «il biogas ci permette ora di risparmiare sui costi necessari a garantire la qualità e la continuità delle attività scolastiche».

Già nel 2013 a Familia ya Ufariji, la casa per i ragazzi di strada che i missionari della Consolata gestiscono nella capitale Nairobi, si era installato un biodigestore che usava scarti e rifiuti della struttura integrati con quelli derivanti dall’allevamento di sei mucche e tre vitelli@. Nel corso del 2020 si tenterà poi di portare il biogas anche nella scuola primaria di Mukululu.

Le tecnologie per la produzione di questo tipo di energia si sviluppano continuamente e cercano di adattarsi alle esigenze e al potere d’acquisto delle comunità rurali dove vengono utilizzate. Il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo delle Nazioni Unite (Ifad) promuove, nel suo portale dedicato alle soluzioni per lo sviluppo rurale individuate dalle comunità locali@ , un sistema per la produzione di biogas che è più flessibile@ perché utilizza plastica e non cemento per costruire digestori trasportabili, facili da installare e rapidamente produttivi.

Costruzione dell’impianto di biogas per la scuola Familia Takatifu a Rumuruti (© AfMC/Denis Mwenda)

 


3. Boa vista

La migrazione venezuelana

La situazione politica ed economica del Venezuela non ha ancora smesso di spingere migliaia di persone a emigrare. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati parla di 4 milioni e mezzo di migranti e rifugiati Venezuelani nel mondo@.

Alimentação crianças – alimentazione dei bambini (© AfMC/Jaime Patias)

Il reportage di Marco Bello e Paolo Moiola, di cui nel numero scorso di MC è uscita la prima puntata@ – vedi questo MC pag. 10 -, ha raccontato la vita dei migranti venezuelani arrivati nello stato brasiliano di Roraima e, in particolare, delle oltre 630 persone che vivono in uno spazio occupato e autogestito a Boa Vista. Ka Ubanoko, questo il nome dello spazio, ospita 150 famiglie indigene in prevalenza di etnia warao, ma ci sono anche gruppi E’ñepa, Cariña, Pemon e 76 famiglie non indigene.

Un’équipe itinerante di missionari della Consolata assiste questi rifugiati e migranti: da fine luglio 2019, cento bambini e venti adulti hanno cominciato a ricevere ogni martedì e venerdì un pasto preparato sul posto da volontari. I fondi per l’intervento sono venuti da donatori privati che sostengono direttamente l’Istituto missioni Consolata (Imc), da benefattori della città di Boa Vista e da alcune parrocchie del Sud del Brasile più sensibili alla situazione dei migranti e dei rifugiati.

Dallo scorso dicembre, grazie al sostegno di un donatore statunitense, è stato possibile intensificare e stabilizzare il programma di lotta alla malnutrizione, estendendolo a 12 mesi (cioè per tutto il 2020) e aumentando fino a 150 i bambini e a trenta gli adulti assistiti.

(© AfMC/Jaime Patias)

Bambini sradicati

«Una delle conseguenze più preoccupanti di questa situazione», riportava lo scorso autunno il consigliere generale Imc, padre Jaime Patias, al rientro dalla sua visita a Ka Ubanoko, «è che questi bambini, completamente sradicati, non riceveranno per mesi, forse per anni, alcuna forma di istruzione». Uno dei rischi connessi alla crisi venezuelana, in altre parole, è quello di far crescere una generazione di giovani privi di formazione e di competenze, limitando molto le loro possibilità di contribuire in modo attivo alla ricostruzione del loro paese.

Alimentação crianças – alimentazione dei bambini – volontari al lavoro per preparare il cibo (© AfMC/Jaime Patias)

Per questo, prima del pasto, i bambini seguiti dall’équipe missionaria ricevono almeno una formazione civico-sociale. Nel corso del 2020 si valuterà la fattibilità di un intervento il cui obiettivo sia quello di fornire a questi bambini una formazione più continua e strutturata.

Chiara Giovetti




Lavoro o malattia: un dilemma inaccettabile

testo di Francesco Gesualdi |


Per anni dai camini e dai depositi dell’Ilva di Taranto sono uscite tonnellate di sostanze inquinanti e cancerogene: diossido di azoto, anidride solforosa, metalli pesanti, diossine. A parte le vicende economiche, politiche e giudiziarie attorno alla fabbrica, il vero conflitto è tra diritto al lavoro e diritto alla salute. Un conflitto che nelle acciaierie di Linz (Austria) a Duisburg (Germania) è stato risolto.

Il 7 novembre 2019, quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte andò a Taranto per approfondire il caso ex Ilva, si trovò difronte a due città: quella rappresentata dai lavoratori che chiedevano la difesa a oltranza dell’acciaieria e quello delle mamme che ne chiedevano la chiusura. Gli uni in nome del lavoro, le altre in nome della salute. Molte delle mamme venivano dal quartiere Tamburi, il rione sorto a ridosso della fabbrica Ilva in cui vivono 18mila persone. Il quartiere dove bisogna «pulire due tre volte al giorno se non vogliamo pattinare sulla polvere», spiega una di loro. «E nei giorni di vento la troviamo anche nel frigorifero». La polvere è quella del ferro e del carbone, in parte proveniente dai depositi, in parte dai camini, in ogni caso piena di sostanze che oltre a sporcare pavimenti e biancheria, fanno ammalare.

Emissioni e complicità

Negli anni prima che intervenisse la magistratura, le emissioni erano quantificate nell’ordine delle migliaia di tonnellate. I rilievi relativi al 2010 parlano di   oltre 4mila tonnellate di polveri, 11 mila tonnellate di diossido di azoto, 11.300 tonnellate di anidride solforosa oltre a quantità variabili di metalli pesanti e diossine. Polveri respirate da persone con i balconi a pochi metri dal muro di cinta della fabbrica che durante i pasti avevano come panorama i camini fumiganti degli altiforni. Polveri che si mescolavano con l’aria che respiravano e con i cibi che inghiottivano procurando tumori in ogni parte del corpo.

Nell’agosto 2016 il Centro ambiente e salute, finanziato dalla regione Puglia, ha pubblicato

il rapporto conclusivo sulla morbosità e mortalità della popolazione residente a Taranto. Lo studio, condotto dal 1998 al 2014 su un totale di 321mila persone residenti nei comuni di Taranto, Massafra e Statte, ha accertato 36.580 decessi collegabili alle emissioni dell’ex Ilva. Del resto già lo studio epidemiologico commissionato dall’Istituto nazionale di sanità e pubblicato nel 2012, aveva accertato che, nei territori circostanti lo stabilimento Ilva, c’era un eccesso di tumori femminili del 20%; un eccesso di tumori maschili del 30% e, quel che è peggio, un aumento dell’incidenza di tumori infantili del 54% e un aumento della mortalità infantile dell’11% rispetto alla media regionale.

Si poteva evitare? Sembrerebbe di sì a giudicare dalle buone prassi attuate da altre acciaierie. Un esempio in tal senso viene dall’acciaieria di Linz in Austria, per molti versi comparabile a quella di Taranto: entrambe con la stessa capacità produttiva, entrambe con le stesse fasi produttive, entrambe a ridosso della città, entrambe gestite da privati. Quella di Taranto è stata trascinata in tribunale per disastro ambientale, quella di Linz è portata come esempio di compatibilità ambientale. E, alla fine, si scopre che, nel caso specifico della produzione di acciaio, le vere minacce per la salute e per l’ambiente sono avidità e negligenza, quest’ultima non solo da parte dei proprietari delle imprese, ma anche di chi ricopre ruoli istituzionali. Di sicuro a Taranto lo scempio si è compiuto con la complicità di molti: c’è chi ha inquinato, chi ha chiuso gli occhi, chi ha provato a nascondere la polvere sotto un tappeto ormai ridotto a brandelli, chi non ha deciso, chi ha scelto di non decidere, chi ha guardato solo agli interessi economici di breve termine. Per molti, troppi anni.

Passaggi di proprietà

La prima pietra dell’acciaieria di Taranto venne posata il 9 luglio 1960 da parte dell’Iri, cassaforte dello stato italiano, e partì subito male: per far posto allo stabilimento si estirparono migliaia di piante di olivo. Nel 1964, prima ancora che lo stabilimento fosse completato, l’ufficiale sanitario di Taranto, il medico Alessandro Leccese, aveva messo in guardia contro il possibile inquinamento da benzo(a)pirene, berillio, e molto altro. Ma ottenne solo ingiurie, isolamento e denunce da cui dovette difendersi in tribunale. Nel luglio 1971 la rivista «Taranto oggi domani» denunciò l’alto grado d’inquinamento atmosferico e marino, e localizzò nel quartiere Tamburi la massima concentrazione di sostanze velenose. In quel quartiere si svolsero molte inchieste, sollecitate dalla popolazione e dalle donne in particolare, che non ne potevano più della polvere nera che si infilava dappertutto. Tanto più che, negli anni a seguire, venne deciso il raddoppio della capacità produttiva. Scelta sciagurata non solo per la salute dei tarantini, ma anche per la stabilità finanziaria dello stabilimento, considerato che di lì a poco il mercato dell’acciaio avrebbe registrato una certa saturazione. Fatto sta che nel 1995 lo stato vendette lo stabilimento alla famiglia Riva che diede il colpo di grazia alla salute dei tarantini. Fra il 1997 e il 2003 molti lavoratori anziani sindacalizzati andarono in pensione, la fabbrica rimase senza vigilanza interna e la famiglia Riva ne approfittò per trascurare gli investimenti necessari al miglioramento ambientale e della sicurezza. E a dimostrazione delle sue responsabilità, in quegli stessi anni un’altra acciaieria, quella di Duisburg in Germania, investiva pesantemente per rispettare la normativa europea in materia ambientale che, nel frattempo, aveva cominciato a muovere i primi passi. Venivano interamente sostituiti i forni a coke, mentre l’intera lavorazione del carbone veniva allontanata dal centro abitato. Un’operazione che alla ThyssenKrupp costò circa ottocento milioni di euro, ma che mise in sicurezza cittadini e lavoratori. Così, mentre a Duisburg il problema del benzo(a)pirene – uno dei cancerogeni più temibili – veniva sostanzialmente risolto, a Taranto continuava a rimanere al di sopra dei limiti sanciti dalla legislazione europea. Complice la politica: nel 2010 Stefania Prestigiacomo, ministro dell’ambiente del governo Berlusconi, con un decreto legge, spostò dal 1999 al 2013 l’entrata in vigore del valore obiettivo di 1 ng/m3 (nanogrammi per metro cubo) per il benzo(a)pirene. Quanto alla regione Puglia, vietò il pascolo nelle zone contaminate ma non fece nulla per imporre all’azienda di ridurre le emissioni. Il toro per le corna venne infine preso dalla magistratura di Taranto che il 26 luglio 2012 ordinò il blocco della produzione e l’arresto di otto vertici aziendali tra cui Emilio Riva e il figlio Nicola. Ma il governo si mise di traverso e nel dicembre dello stesso anno emanò un decreto legge che autorizzava la prosecuzione della produzione. Così si mise in moto un braccio di ferro fra giudici e governo, una sorta di Kramer contro Kramer, dove la magistratura imponeva divieti a difesa della salute e il governo li smontava a difesa della produzione. Quanto alla famiglia Riva, vista la montagna di guai giudiziari accumulati, optò per il basso profilo e se da un parte accettò di consegnare, a parziale indennizzo, una parte del tesoretto che aveva rifugiato in Svizzera (1,2 miliardi), dall’altra dichiarò fallimento. Così lo stabilimento di Taranto passò sotto gestione commissariale con l’intento di proseguire la produzione nonostante le problematicità esistenti. Il tutto in attesa di trovare una realtà industriale disposta a rilevarlo. Nel 2017 la gara di assegnazione venne vinta da Arcelor Mittal che però di lì a poco si accorse di avere fatto male i conti, e nel novembre 2019, accampando come pretesto il mutato contesto legislativo, annunciava di voler recedere dal contratto. Di nuovo senza proprietario, attorno allo stabilimento si è riaperta la vecchia contesa: approfittare della vacanza gestionale per fermare tutto e mettere finalmente la città in sicurezza o trovare in fretta un nuovo proprietario per mandare avanti la produzione? In altre parole, privilegiare la salute o il lavoro?

ILVA © Fabio Duma

Prevenire, vigilare, rimediare

Il dilemma è talmente assurdo e scandaloso che va rifiutato. Il lavoro è un diritto perché serve per vivere, ma se porta morte che lavoro è? In altri termini non può esistere lavoro, se non esiste salute. Per cui è compito della Repubblica creare le condizioni affinché non si ponga mai, nel paese, questo tipo di contrapposizione. E deve farlo attraverso tre strategie: prevenire, vigilare, rimediare.

Prevenire significa vietare la produzione di beni dannosi sia per chi li produce che per chi li usa. Tipico l’esempio dell’amianto che ha provocato migliaia di casi di tumore al polmone, sia nei lavoratori che nei cittadini. Molti altri prodotti andrebbero rimessi in discussione. Valgano come esempio i pesticidi e le sementi geneticamente modificate di cui non conosciamo tutte le ripercussioni sugli ecosistemi, né gli effetti nel lungo periodo. È responsabilità di ogni collettività fissare il limite di rischio accettabile e, nel dubbio, utilizzare come criterio il principio di precauzione.
Vigilare significa verificare che le aziende attuino tutte le misure che servono per portare le emissioni legate ai cicli produttivi al di sotto del limite di dannosità per la collettività e garantire ai lavoratori condizioni di sicurezza. E non importa se ciò comporta un aumento dei prezzi finali. La salute e la tutela ambientale vanno considerati costi  da includere nei prezzi finali al pari dell’energia o delle materie prime. Se lo avessimo fatto da sempre, forse avremmo evitato un consumismo sgangherato che ha portato a fenomeni di grave degrado del pianeta.
Rimediare significa correggere le situazioni malsane, tutelando al tempo stesso la salute e i posti di lavoro. Ogni volta con strategie appropriate alla situazione. Rispetto a Taranto, per esempio, la prima domanda da porsi è se la produzione di acciaio va mantenuta o abbandonata tenendo conto della sostenibilità economica e ambientale del paese.

Lo stato e i lavoratori

Ci serve produrre acciaio? E in che quantità? Per farne cosa? A quale prezzo rispetto ai cambiamenti climatici? E se la conclusione dovesse essere affermativa, dovremmo comunque accettare che prima di fare ripartire la produzione, lo stabilimento sia rimesso a norma. Con spese a carico di chiunque lo rilevi. E se dovesse succedere che nessun privato si fa avanti, lo dovrebbe fare lo stato, nazionalizzando lo stabilimento. Il tutto senza fare subire contraccolpi alle maestranze che, durante il periodo di chiusura, dovrebbero comunque ricevere uno stipendio. Che non significa automaticamente una cassa integrazione in cambio di niente, ma in cambio di lavori socialmente utili. Se invece dovessimo giungere alla conclusione che lo stabilimento di Taranto non ci serve più, allora deve essere creata occupazione alternativa per tutti i lavoratori coinvolti. Nell’immediato, tramite il soddisfacimento dei bisogni ambientali e sociali, primo fra tutti la bonifica del territorio e dei corsi d’acqua. Più in prospettiva, tramite la produzione di beni e servizi che possono generare reddito utilizzando correttamente ciò che il territorio è in grado di mettere a disposizione sotto il profilo naturale, culturale, professionale. Con un forte ruolo da parte dello stato, che solo per motivi ideologici lo si vuole escluso dall’attività produttiva ed economica. Però, quando si dice stato, si dice comunità. È tempo che la comunità torni protagonista della propria economia.

Francesco Gesualdi

 




I Perdenti 50. Le sorelle Mirabal

testo di don Mario Bandera |


Il 25 novembre 1960, a Santo Domingo, capitale della Repubblica Dominicana, nell’isola di Hispaniola, le tre sorelle Mirabal (Patria, Minerva e Maria Teresa) furono seviziate, violentate e uccise a bastonate su preciso mandato del dittatore Rafael Leónidas Trujillo. Quell’episodio innescò l’inizio della fine di uno fra i regimi più dispotici dell’America Latina. Il loro brutale assassinio risvegliò l’indignazione popolare che avrebbe portato, l’anno seguente, all’assassinio di Trujillo e alla fine della dittatura.

Il 17 dicembre 1999 l’Assemblea generale delle Nazioni unite, con la risoluzione 54/134, ha dichiarato, in loro memoria, che il 25 novembre di ogni anno sia celebrata in tutte le nazioni la «Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne».

La militanza sociale e politica delle tre sorelle Mirabal era iniziata quando Minerva, la più intellettuale delle tre, il 13 ottobre 1949, durante la festa di san Cristobal, organizzata dal dittatore per le classi sociali più in vista, aveva osato sfidarlo apertamente in un dibattito pubblico, sostenendo le proprie idee democratiche. Quella data segnò l’inizio delle rappresaglie contro Minerva e tutta la sua famiglia, con periodi di detenzione in carcere per il padre e la progressiva confisca di tutti i loro beni.

Carissima Patria, cominciamo con le presentazioni.

I nostri nomi per esteso sono: Aida Patria Mercedes nata nel 1924, Maria Argentina Minerva del 1926 e Antonia Maria Teresa, nata nel 1935. Nascemmo tutte e tre da una famiglia benestante, i Mirabal Reyes, a Ojo de Agua nella provincia di Salcedo della Repubblica Dominicana. C’era anche una quarta sorella (in realtà la seconda perché nata nel 1925): Bélgica Adela, detta Dede, che, pur simpatizzando con noi, non partecipò alle nostre attività, e dopo la nostra uccisione si prese cura dei nostri figli.

Nella vostra famiglia fin da piccole si respirava aria di dialogo e libertà e foste educate nel rispetto dei diritti umani.

La nostra era una famiglia di contadini relativamente ricchi. Questo ci permise di ricevere una buona educazione, prima in una scuola gestita da suore poi studiando all’università. L’esempio dei nostri genitori ci spinse a un coinvolgimento sempre più personale contro la dittatura che si era imposta nel nostro paese e che sentivamo sempre più pesante. A mano a mano che crescevamo aumentava in noi la voglia di reagire alla situazione dittatoriale in cui vivevamo. Il generale Rafael Leónidas Trujillo, andato al potere nel 1930, gestiva la nazione come un vero padrone, anche della vita delle persone.

Quindi è dal contesto familiare che nacque il desiderio di una vostra militanza politica?

In un certo senso sì, ma tutto divenne più chiaro quando Minerva, diventata avvocato, non ottenne la licenza di praticare la sua professione perché il 13 ottobre 1949, durante la festa di san Cristobal organizzata dal dittatore per le classi più ricche della nostra città, lei lo aveva sfidato apertamente in presenza di una folla numerosa rifiutando il suo corteggiamento e sostenendo le proprie idee, che ovviamente contrastavano con quelle del dittatore.

Come conseguenza foste coinvolte negli avvenimenti sociali e politici, alcuni tragici per l’odio e la violenza che scatenarono contro di voi.

Parecchi nostri amici si schierarono con noi e anche le nostre famiglie presero una posizione netta contro il dittatore Trujillo. Nel contempo nell’intera società dominicana cominciava a spuntare un’opposizione sempre più decisa nei confronti della dittatura.

Di voi tre chi era la più decisa nel portare avanti la linea che vi eravate date?

Senza ombra di dubbio Minerva. Fu lei che con un gruppo di amici il 9 gennaio del 1960 tenne nella sua casa la prima
riunione degli oppositori politici al regime. Quell’incontro segnò la nascita dell’organizzazione clandestina rivoluzionaria «Movimento del 14 giugno», di cui il marito di Minerva, Manolo Tamarez Justo, fu eletto primo presidente. Anche lui fu poi assassinato nel 1963. Il nome del movimento veniva da un fatto di sangue, il massacro di alcuni giovani per mano degli sgherri di Trujillo, a cui Minerva aveva assistito mentre partecipava a un ritiro spirituale.

Minerva fu dunque l’anima del movimento di opposizione?

In un’epoca in cui predominavano valori (o per meglio dire anti valori) tradizionalmente «machisti» di violenza, repressione e forza bruta, dove la dittatura non era altro se non l’iperbole della sopraffazione, in quel mondo maschilista sudamericano, mia sorella Minerva dimostrò fino a che punto e in quale misura la volontà e la coscienza femminile sono una forma di dissidenza al potere.

Una presa di posizione, la sua, subito imitata da altri amici e conoscenti che diedero vita a un robusto movimento contrario al regime.

Ben presto anche Maria Teresa e il marito, che già da anni erano attivisti politici, furono coinvolti in questa onda crescente del «Movimento 14 giugno» e anch’io con mio marito scegliemmo di aderire. Non volevamo che i nostri figli crescessero in un regime corrotto e tirannico. Dovevo lottare contro di esso con tutte le mie forze, disposta anche a dare la mia vita, se necessario.

La vostra opera coraggiosa di aprire le coscienze dei vostri concittadini si estese a macchia d’olio su tutto il territorio della Repubblica, e divenne tanto efficace che il dittatore Trujillo in persona arrivò ad affermare: «Nella mia azione di governo ho solo due problemi: la Chiesa cattolica e le sorelle Mirabal».

Insieme formavamo un bel gruppo e ci davamo da fare per far conoscere alla gente i nomi di coloro che erano uccisi dal
regime. Ci firmavamo «Las Mariposas», le farfalle, adottando per tutte quello che era il nome clandestino di Minerva.

Nell’anno 1960 le mie sorelle Minerva e Maria Teresa furono incarcerate due volte; la seconda volta condannate a cinque anni di lavori forzati con l’accusa di avere attentato alla sicurezza nazionale. Ma i gesti e gli attestati di solidarietà che giunsero da tutto il mondo costrinsero il dittatore Trujillo a rilasciarle anche se furono messe agli arresti domiciliari.

Anche i vostri mariti subirono la stessa sorte?

Sì, anche loro vennero imprigionati e torturati.

Il 25 novembre 1960, a Minerva e Maria Teresa viene concesso un permesso speciale per far visita ai loro mariti, Manolo Tavarez Justo e Leandro Guzman, detenuti in carcere. Patria, la sorella maggiore, vuole accompagnarle anche se suo marito è rinchiuso in un altro carcere e la madre le supplica di non andare perché teme per le sue tre figlie. L’intuizione della madre si rivela esatta: le tre donne, insieme al loro autista Rufino de la Cruz, vengono prese in un’imboscata da agenti del servizio segreto militare, torturate e uccise, e i loro corpi buttati nella loro macchina precipitata poi in un burrone per simulare un incidente.

«Se mi ammazzano, tirerò fuori le braccia dalla tomba e sarò più forte». Con questa frase, l’attivista dominicana Minerva Mirabal rispondeva agli inizi degli anni ‘60 a chi le faceva notare che il regime dispotico del presidente Rafael
Leónidas Trujillo (1930-1961) avrebbe cercato in ogni modo di uccidere lei e le sue sorelle.

L’assassinio delle sorelle Mirabal produsse gran dolore in tutto il paese e in tutta l’America Latina e fortificò lo spirito patriottico della comunità, desiderosa di raggiungere un governo democratico che garantisse il rispetto della dignità umana.

Più di mezzo secolo dopo, la promessa di Minerva ci sembra che si sia compiuta: la sua morte e quella delle sue sorelle per mano della polizia segreta dominicana, è considerata da molti uno dei principali fattori che portò alla sconfitta della
dittatura di Trujillo. Ogni 25 novembre, la testimonianza di Minerva, Patria e Maria Teresa risuona in tutto il mondo per il «Giorno internazionale per eliminare la violenza contro la donna» che è stato dichiarato dall’Onu in onore delle tre sorelle dominicane.

Don Mario Bandera


25 NOVEMBRE

GIORNATA INTERNAZIONALE PER L’ELIMINAZIONE DELLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE

La «Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne» è stata istituita partendo dall’assunto che la violenza contro le donne sia una violazione dei diritti umani. Tale violazione è una conseguenza della discriminazione contro le donne, dal punto di vista legale e pratico, e delle persistenti disuguaglianze tra uomo e donna.
La violenza contro le donne influisce negativamente e rappresenta un grave ostacolo nell’ottenimento di obiettivi cruciali quali l’eliminazione della povertà, la lotta all’Hiv/Aids e il rafforzamento della pace e della sicurezza.
La sostanziale carenza di risorse da destinarsi a iniziative per l’eliminazione della violenza contro le donne e le ragazze in tutto il mondo contribuisce a far sì che questo fenomeno persista. Gli Obiettivi di sviluppo sostenibile – che comprendono un obiettivo specifico per porre fine alla violenza contro le donne e le ragazze – offrono grandi possibilità, ma necessitano di finanziamenti adeguati per apportare cambiamenti reali e significativi nella vita delle donne e delle ragazze.
Questa Giornata segna l’inizio della campagna dei «Sedici giorni di attivismo», comunemente conosciuta come la «16 Days campaign». Viene sostenuta da cittadini e organizzazioni in tutto il mondo per promuovere la prevenzione e l’eliminazione della violenza contro le donne e le ragazze. La campagna è stata ideata dal primo istituto per la leadership mondiale delle donne (Global women leadership institute) nel 1991.
La campagna si collega a due importanti ricorrenze: il 25 novembre (giornata internazionale sulla violenza contro le donne) e il 10 dicembre (giornata internazionale per i diritti umani). I sedici giorni della campagna fanno così da ponte a queste giornate per chiedere l’eliminazione di tutte le forme di violenza di genere.
A sostegno di questa iniziativa, la campagna del Segretario generale delle Nazioni unite sollecita un’azione mondiale incentrata sulla sensibilizzazione e sulla necessità di un impegno per mettere in luce il fenomeno e attuare misure per prevenirlo e contrastarlo. Ogni anno viene sottolineato un tema particolare.

adattato da www.onuitalia.it




Manda già cattivo odore

testo di Luca Lorusso |


Ricordi le tue ultime parole prima di rivedere tuo fratello vivo, Marta? Quando Gesù ha chiesto di togliere la pietra dal sepolcro e tu ti sei opposta: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni» (Gv 11, 1-45).

Avevi appena detto di credere in Lui, risurrezione e vita, eppure hai cercato di fermarlo.

Forse volevi proteggere l’unica certezza che ti era rimasta: la morte?

Forse avevi paura di perdere le tue coordinate, e ti aggrappavi a ciò che sapevi e che, fino a quel momento, era la tua esperienza?

Provavi un dolore indicibile, e forse ti pareva giusto perderti in esso, partecipare, da viva, della stessa sorte toccata a tuo fratello.

Cos’hai pensato quando abbiamo tolto la pietra e hai sentito Gesù ringraziare il Padre perché l’aveva ascoltato? Cos’hai provato?

E quando l’hai sentito pronunciare a gran voce il nome di Lazzaro, e hai visto emergere dall’oscurità del sepolcro quei piedi e quelle mani amate che con cura avevi avvolto in bende?

Noi eravamo increduli, come te, eppure abbiamo creduto.

«Chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno», aveva detto Gesù poco prima. Benché la morte non sia evitabile, non è per sempre. Anche quando uno la sperimenta mentre è in vita, come stava accadendo a te, Marta, la morte è attraversabile.

Da quel momento anche noi abbiamo liberato le nostre mani e i nostri piedi dalle bende nelle quali eravamo stretti, e ci siamo svelati, rivelati, togliendo i sudari con i quali coprivamo i nostri volti.

Da schiavi per timore della morte (cfr. Eb 2, 14-15), ci siamo ritrovati liberi e vivi.

Buon attraversamento, buona Quaresima,

da amico
Luca Lorusso

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Guardare le cose da dentro

testo di Chiara Brivio |


La fragilità umana nelle canzoni di un artista, l’esperienza della conversione al cristianesimo da altre tradizioni millenarie. I temi dei due libri di questo mese sono diversi tra loro, ma uniti dalla narrazione interiore ed esistenziale di persone singolari che condividono la loro esperienza.

Abbi cura di me

«Abbi cura di me» è un libro profondo, una «biografia spirituale» del poliedrico artista Simone Cristicchi, balzato alla ribalta per la sua vittoria a Sanremo nel 2009 con la canzone Ti regalerò una rosa, dedicata ai «matti».

Il volume, scritto con il giornalista Massimo Orlandi e uscito per le edizioni San Paolo, è un grande viaggio nella vicenda artistica, umana e spirituale del cantautore romano. Dalle sue pagine emerge un uomo inquieto, curioso, impegnato soprattutto a indagare le profondità della fragilità umana.

Il libro segue il tortuoso percorso dell’artista dall’adolescenza al primo Sanremo, i periodi di crisi e quelli di intensa produzione creativa (gli esordi nel fumetto, il cantautorato e, oggi, gli spettacoli teatrali di successo), fino alla creazione di una famiglia e al suo ritorno alla kermesse canora nel 2019.

Fil rouge di tutto il percorso artistico di Cristicchi è il suo rifiuto di piegarsi alle logiche commerciali del mercato discografico, e la sua volontà di mantenere la propria libertà artistica, un fatto quasi paradossale se si pensa che fu proprio la canzone su Biagio Antonacci – un’amara riflessione sul mondo della musica che tende a trasformare tutto in «tormentoni estivi» – a renderlo famoso.

Massimo Orlandi, già autore, alcuni anni fa, di una biografia su Gino Girolomoni (La terra è la mia preghiera. Vita di Gino Girolomoni, padre del biologico, Emi, 2014) e legato da una personale amicizia con l’artista maturata alla Fraternità di Romena, compone un testo fluido e scorrevole con uno stile quasi lirico che ben si addice al contenuto.

Lo scopo del volume non è quello di essere il mero racconto della vita del cantante, né di celebrarne i successi, ma di portare alla luce la sua profonda ispirazione spirituale e umana.

Emergono dalle pagine aspetti poco conosciuti della vita del cantante. Questi mostrano che la sua attenzione ai reietti della società, ai dimenticati dalla storia, ai profeti incompresi, non è unpretestuoso escamotage, ma invece una necessità primaria del suo cammino artistico – «ciò che gli interessa è l’uomo», scrive Orlandi -.

Così i matti, un eretico del Medioevo, il coro dei minatori della Maremma o gli esuli della città di Fiume, solo per citare alcuni antieroi di Cristicchi, diventano gli strumenti attraverso i quali il cantautore dona «voce a chi non ce l’ha», in un intento, se non dichiaratamente evangelico, sicuramente umano.

Il pregio migliore di Abbi cura di me – il cui titolo, oltre a riprendere la canzone che Cristicchi ha portato a Sanremo lo scorso anno, dà il nome alla recente raccolta dei suoi maggiori successi -, sta proprio nell’aver voluto far emergere le fragilità dell’artista, le sue difficoltà e i suoi dissidi interiori, che forse sono proprio la chiave del suo successo e della sua capacità di «rivolgersi in modo diverso a ogni unicità».


Dal silenzio una voce

Tiziano Tosolini è un missionario saveriano che da più di vent’anni vive in Giappone. Autore di numerosi saggi, esperto di filosofia orientale, è direttore del Centro studi asiatico di Osaka, istituto fondato dalla sua congregazione nel 1999, a seguito della pubblicazione dell’esortazione Ecclesia in Asia, che si occupa dello studio dei fenomeni sociologici e religiosi nel continente asiatico.

Il suo ultimo libro Dal silenzio una voce. Esperienze di conversione nell’Asia di oggi, pubblicato da Emi in occasione del viaggio di papa Francesco in Thailandia e Giappone lo scorso autunno, raccoglie diciannove storie di conversione da cinque paesi dell’Asia, e dalle più importanti tradizioni religiose dell’Oriente: buddhismo, shintoismo, induismo, islam.

Le testimonianze, raccolte dai missionari saveriani in Taiwan, Indonesia, Bangladesh, Giappone e Thailandia, si contraddistinguono sia per la varietà di condizione delle persone coinvolte, sia per la diversità dei modi nei quali ciascuna ha scoperto la fede, sia per l’impatto che la conversione ha avuto sulla loro vita quotidiana.

L’accostamento di storie di banchieri, diplomatici e insegnanti da una parte, con quelle di «scapestrati» e, soprattutto dei «fuoricasta» (Dalit) dall’altra, dà una certa dinamicità al libro, soprattutto perché l’autore affida ai testimoni stessi le redini della narrazione, lasciando che la loro neonata fede emerga attraverso la spontaneità delle loro parole.

S’incontrano così storie di disarmante semplicità – «Mi sono allontanato dalle mascalzonate e dalla cattiveria. Rifiutavo ormai le vecchie abitudini. Alla fine, hanno capito che era stata la mano di Gesù a cambiarmi e a farmi diventare un altro» -, e di grande profondità: «Questo è ciò che ritengo davvero incredibile e meraviglioso: servire i poveri è servire Dio! E questo è ciò che mi rende libero».

Il volume porta la prefazione del cardinale Gokim Tagle di Manila, recentemente nominato da papa Francesco prefetto del Dicastero per l’evangelizzazione dei popoli, il quale sottolinea quanto «l’approdo al battesimo non significa il rifiuto sprezzante né l’abiura violenta del proprio passato religioso». Piuttosto, la conversione lascia aperta la porta alla valorizzazione dell’eredità spirituale di ciascuno, sempre nella «gioia», sottolinea il porporato, che il Vangelo porta nella vita delle persone.

Questo di Tosolini è un libro semplice nella sua stesura, che racconta di contesti e tradizioni lontane da quelle europee, e che narra della silenziosa, ma altrettanto preziosa, presenza della Chiesa cattolica in Asia.

Tiziano Tosolini presenta il suo libro alle serate di testimonianza missionaria all’Oasi dell’OMG (© AfMC/Gigi Anataloni)