La grande decisione (At 15): diversi nella continuità

testo di Angelo Fracchia |


Luca ha preparato il terreno fin dall’inizio degli Atti degli Apostoli: Gesù si era mosso quasi solo all’interno dell’ebraismo, ma il cristianesimo è diventato ben presto qualcosa di diverso.

Di fronte alle accuse che sia stato Paolo a stravolgere la Chiesa, Luca s’impegna a dimostrare che fin da subito si sono oltrepassate le barriere religiose: eunuchi (At 8,27-38), samaritani (At 8,5-13), un centurione romano per opera di Pietro (At 10), fino ad arrivare ad Antiochia, dove l’annuncio del Vangelo era tanto indiscriminato da rendere evidente che quello cristiano era un movimento nuovo (At 11). I primi episodi narrati, erano casi eccezionali, quella di Antiochia era, invece, una situazione ordinaria, ma fino ad allora non ci si era ancora detti in modo esplicito quale strada prendere: se rimanere nell’ambito dell’ebraismo, oppure aprire la Chiesa a fedeli provenienti dal paganesimo.

L’occasione

Come spesso accade, la questione era già chiara da tempo, ma non si è affrontata finché non si è arrivati a litigare. C’erano, infatti, ad Antiochia, alcune persone provenienti da Gerusalemme (ossia dalla chiesa «madre»), che insegnavano che «se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati» (At 15,1). Non si trattava, ovviamente, solo di un «segno nella carne» che, per quanto fastidioso, si sarebbe comunque potuto anche sopportare, ma di un’adesione piena alla legge di Mosè, tradotta in quei 613 precetti che toccavano la morale, l’alimentazione, la preghiera e la vita sociale dei buoni ebrei (è possibile che al tempo non fossero ancora pienamente codificati in questo modo e in questo numero, ma l’approccio di fondo era già questo).

Il ragionamento di queste persone era comprensibile: Gesù era ebreo (circonciso), ha sostanzialmente rispettato la legge ebraica, soprattutto non ha mai detto di volerla abrogare (cfr. Mt 5,17), e se quella legge ora non restasse valida, significherebbe che tante generazioni di credenti ebrei avrebbero vissuto invano la propria fede. Se Gesù si è innestato nella tradizione dell’Antico Testamento, se non ha sconfessato la tradizione, quella era Parola di Dio e restava valida.

In fondo, altri gruppi ebrei pensavano che nessun pagano potesse entrare a far parte del popolo eletto, per cui la posizione di questi cristiani provenienti dall’ebraismo era già più aperta, in quanto ammettevano che, con la circoncisione e rispettando per intero la Legge, quei confini fossero porosi.

Chiarezza e novità

Paolo e Barnaba però hanno reagito violentemente (At 15,2): non si poteva chiedere la circoncisione a chi diventava cristiano. Le motivazioni sarebbero state espresse più chiaramente dalle lettere di Paolo, soprattutto ai Galati e ai Romani. Possiamo riassumerle così: in Gesù, Dio si è mostrato intenzionato a cercare la comunione con l’essere umano a qualunque costo, fosse anche a costo della propria vita e della propria rispettabilità (normalmente i crocifissi erano considerati maledetti da Dio). Le singole persone potranno rifiutare l’offerta di Dio, che rimane però definitiva. Affermare che sia necessario qualcos’altro perché quella comunione sia efficace, significa sostenere che l’intenzione di Dio, accolta dagli uomini, non è sufficiente. Ma se non basta quella, non c’è niente che basti! Dio invece ha donato gratuitamente questa salvezza all’essere umano, e l’unica reazione possibile da parte dell’uomo è fidarsi e accoglierla (Rom 3,20-24, ad esempio).

È chiaro che lo scontro emerso ad Antiochia era radicale, e non toccava soltanto l’organizzazione della Chiesa, come era accaduto a Gerusalemme con le vedove degli ellenisti (At 6,1-6), ma la sua stessa essenza teologica. La Chiesa doveva decidere che cosa essere: se uno dei tanti movimenti ebrei, o qualcosa di radicalmente nuovo, nato dal darsi di Dio in Gesù.

Sicuramente Paolo aveva presente la gravità del momento, ma con tutta probabilità questo valeva anche per i suoi «avversari».

Esterno del Cenacolo – foto AfMC

Discernimento nello Spirito

Luca non si limita a dirci che cosa è accaduto in quel momento storico così centrale per l’identità della Chiesa, quando Paolo e Barnaba sono andati a Gerusalemme per discutere della questione con i Dodici, ma probabilmente vuole anche suggerirci come si dovrebbe fare il discernimento nello Spirito.

Nella discussione, i protagonisti sono partiti dall’osservazione di ciò che lo Spirito aveva suscitato tra i non ebrei (At 15,4). Di fronte alla contestazione di «alcuni della setta dei farisei» (At 15,5: scopriamo così che si può continuare a essere innanzitutto farisei, prima che cristiani), la discussione, come prevedibile, si è fatta rovente, finché non è intervenuto Pietro.

A Gerusalemme, dove Pietro viveva, la guida della chiesa era Giacomo, «fratello del Signore» (cfr. At 12,17; Gal 1,19), ma Pietro era pur sempre la guida dei Dodici. Sembra proprio che Pietro sia intervenuto come «autorità morale», quasi come chi, senza detenere un grande potere, ha però un’autorevolezza rafforzata proprio dall’essere fuori dalle stanze che contano.

Il suo discorso è stato essenziale ed è andato dritto al punto: Dio ha dato lo Spirito Santo a tutti, in più, noi per primi non siamo stati capaci di rispettare la legge, quindi perché imporla agli altri, visto che non è indispensabile (At 15,7-11)?

A quel punto si è tornati a osservare le imprese compiute da Dio tra i «greci».

Infine Giacomo, il verosimile capo dell’ala «conservatrice», ha avanzato la proposta concreta di chiedere ai nuovi cristiani provenienti dal paganesimo non la circoncisione, ma il rispetto di quattro astensioni: dagli idoli, dall’impudicizia, dagli animali soffocati e dal sangue.

Una decisione difficile

In realtà, se il cuore della decisione è chiaro, i dettagli lo sono molto meno, cosa dimostrata dal fatto che questo medesimo episodio è narrato anche da Paolo in Gal 2,1-10, ma con particolari diversi.

Paolo racconta che «da parte delle persone più autorevoli – quali fossero allora non mi interessa, perché Dio non guarda in faccia a nessuno [sbagliamo a cogliere un po’ di astio? nda] – non mi fu imposto nulla. […] Ci pregarono solo di ricordarci dei poveri» (Gal 2,6.10). Sappiamo, e lo vedremo nella lettura di Atti, che le relazioni di Paolo con la chiesa di Gerusalemme, chiaramente guidata da Giacomo, non sarebbero state idilliache neppure in seguito. Forse Paolo si aspettava che la guida della chiesa, e quindi anche di quell’incontro, spettasse a Pietro e non al «fratello del Signore», ma può essere più onesto dire che il tono irritato di Paolo si coglie pur non essendone esplicitamente chiaro il motivo.

È più interessante notare che quanto raccontato da Luca in Atti 15 non coincide con ciò che dice Paolo in Galati 2. La proposta di Giacomo riportata in Atti 15, infatti, non cita i poveri e parla però delle quattro condizioni negative, dei quattro «non si deve» che abbiamo citato sopra (cfr. At 15,20).

Le quattro condizioni

Per analizzare le quattro condizioni imposte da Giacomo ai nuovi cristiani, partiamo dalla quarta. Secondo l’Antico Testamento, il sangue è la sede della vita. Anche dopo che il creatore aveva concesso agli uomini e ad alcuni animali di cibarsi di carne per nutrirsi (Gen 9,1-4), aveva vietato però d’ingerire sangue, per mantenere la consapevolezza che ci si alimenta, sì, con carne di animali, ma non si diventa padroni della loro vita, che continua ad appartenere a Dio. Per questo motivo la modalità pura di uccisione di un animale era (e rimane per ebrei e islamici) di versare il sangue a terra, la quale appartiene a Dio: ciò che è di Dio, torna a Dio.

Possiamo forse spiegarlo così: ai cristiani non provenienti dall’ebraismo Giacomo chiede di tenersi lontano almeno da ciò che era particolarmente fastidioso per gli ebrei e che era facile da rispettare. Vivere da fratelli cristiani insieme, infatti, voleva anche dire condividere la mensa (eucaristica, che comprendeva anche un vero pasto).

L’astensione dagli animali soffocati si può spiegare con il fatto che essi, evidentemente, avevano ancora il sangue al loro interno, quindi ricadiamo nel primo caso dell’astensione dal sangue, anche se potremmo già obiettare che non era necessariamente e sempre semplice capire come era stato ucciso un animale.

Che cosa sia l’«impudicizia» (porneia, vedi Mt 19,9) non è chiaro: c’è chi spiega che erano alcuni comportamenti sessuali, oppure particolari legami matrimoniali (cfr. 1Cor 5,1), o forse altro ancora. Accontentiamoci di riconoscere che c’era un vincolo in più.

Conosciamo invece gli idolotiti (la carne rimasta dai sacrifici agli idoli, ndr). La grandissima maggioranza delle forme religiose del mondo antico (compreso l’ebraismo) prevedevano di sacrificare animali agli dei. Di solito la carne sacrificata veniva in parte bruciata sull’altare, in parte mangiata da chi la offriva (come banchetto di comunione con la divinità), in parte lasciata ai sacerdoti. Questi ne consumavano un po’, ma ovviamente ne avanzavano, e non aveva senso conservarla, dal momento che il giorno dopo altri avrebbero offerto sacrifici. Di solito, quindi, la rivendevano: il ricavato veniva utilizzato per le necessità del tempio pagano, in più, essendo carne arrivata in dono, poteva essere rivenduta anche a prezzi bassi. Ecco che chi viveva o passava da quelle parti poteva comprare questa carne, di buona qualità, a basso prezzo e, in più, in qualche modo «santificata» dal passaggio nel tempio. Paolo, nella Prima lettera ai Corinti, nota che quella era solo carne (gustosa ed economica), ma che alcuni «deboli nella fede» potevano pensare che i cristiani più istruiti, comprando quella carne, volessero «tenersi buoni» anche gli dèi che pure dicevano non esistere. Se c’è il rischio che alcuni cristiani più consapevoli, i quali sanno che non c’è differenza tra la carne sacrificata a dèi che non esistono e carne normale, provochino confusione nei cristiani più semplici mangiando carni sacrificate, afferma l’apostolo, piuttosto si astengano del tutto da tale carne (1 Cor 8).

Una volta approfonditi i quattro divieti, capiamo che il cuore della decisione presa dalla Chiesa a Gerusalemme non sono essi, ma il fatto che chiunque può diventare cristiano senza prima diventare ebreo, senza la circoncisione, senza rispettare la legge di Mosè. Restano dei vincoli, più che altro formali, ma l’ostacolo principale è rimosso.

La decisione e le sue ragioni (teologiche e no)

Luca è talmente sicuro della centralità di questa decisione che ne fa il punto di svolta degli Atti, a metà circa della sua opera: da qui in poi, infatti, sembra dimenticarsi della chiesa di Gerusalemme. Citerà Giacomo ancora in Atti 21,18, ma senza parlare più di Pietro né dei Dodici. A questa svolta tendeva tutta la costruzione della narrazione fin qui, da qui si riparte. D’altronde, se la chiesa non avesse intrapreso questa strada, sarebbe rimasta uno dei tanti gruppi, più o meno aperti, numerosi e significativi, che facevano parte del mondo ebraico. E si era trattato di una decisione che Gesù non sembrava aver suggerito, perlomeno non esplicitamente. Si era davvero mosso lo Spirito Santo.

In questa decisione centrale per la vita della chiesa, peraltro, lo Spirito non ha violato la libertà degli uomini. I capi della chiesa, Paolo, Barnaba, gli anziani, sono stati chiamati a collaborare, ad aprire gli occhi, a capire (persino nella fatica e nei litigi…). Senza l’azione dell’uomo, Dio non può agire. Tanto che il «decreto» firmato da Giacomo afferma, non per orgoglio, ma in verità, «È parso bene, allo Spirito Santo e a noi…» (At 15,28): lo Spirito non decide senza l’uomo.

Ma proprio perché si tratta di uomini che pensano, e poiché gli uomini sono condizionati dalla propria storia, cultura e caratteri, Giacomo fa una mossa finissima: non si limita a dire che i frutti dello Spirito hanno già mostrato che Dio vuole questa apertura, ma aggiunge una citazione di Am 9,11-12 (in At 15,15-18), in cui si lega la ricostituzione della tenda d’Israele con l’omaggio a Dio da parte dei non ebrei. Non è un caso che gli ebrei solitamente dicessero che gli «altri» dovessero rispettare solo i comandamenti «di Noè», che sostanzialmente si incentravano sul rispetto della vita. I quattro precetti imposti ai cristiani «greci» ricordano quelli che si chiedeva di rispettare ai «forestieri», a coloro che, in tempi antichi, risiedevano nel territorio d’Israele. Giacomo, insomma, strizza l’occhio anche ai suoi di Gerusalemme, ai cristiani provenienti dall’ebraismo, suggerendo che l’apertura nei confronti dei convertiti dal paganesimo mantiene al centro il mondo ebraico rendendolo soltanto più ampio e ricco.

Noi intanto scopriamo che tensioni, persino scontri, e addirittura limiti e trucchi, fanno parte della Chiesa fin dagli inizi, e non impediscono allo Spirito Santo di agire.

Angelo Fracchia
 (14-continua)




Economia e vita ai tempi del coronavirus

testo di Francesco Gesualdi |


Siamo dovuti arrivare con l’acqua alla gola per iniziare a cambiare. Tra la vita e la ricchezza abbiamo scelto la prima. Ora dobbiamo rivedere profondamente stili di vita e forme economiche. Una sfida inevitabile e non indolore, ma affrontabile.

Sembrava che niente potesse fermarci. Né gli uragani, né lo scongelamento delle calotte polari, né gli appelli disperati di Greta Thunberg. Insensibili a tutto, abbiamo continuato a spostarci freneticamente, a consumare oltre ogni logica di buon senso, a invocare la crescita come il nostro massimo bene. Ma poi è arrivata una minuscola forma di vita, neanche una cellula, addirittura un frammento di Rna, e ci ha fermati. Semplicemente perché ci ha fatto vedere la morte in faccia, come invece non sono capaci di farci vedere i cambiamenti climatici, troppo lenti per metterci paura.

La legge del rospo

È la legge del rospo. Se lo metti in una pentola di acqua bollente, avverte di essere in pericolo di vita e, raccogliendo tutte le sue forze, con un balzo salta fuori dalla pentola. Ustionato, ma vivo. Se invece lo metti in una pentola di acqua fredda e vi accendete sotto il fuoco, il rospo si adatterà alla temperatura crescente e vi morirà dentro, bollito. Il coronavirus (e Covid-19, la patologia che genera) è stato avvertito come un pericolo mortale e abbiamo reagito: se dobbiamo scegliere fra la vita e la ricchezza scegliamo la vita. Per questo abbiamo accettato di rinunciare a viaggi e vacanze, abbiamo disertato le autostrade, abbiamo evitato ristoranti, stadi e sale cinematografiche, non ci siamo lamentati dei tagli ai voli aerei e alle corse ferroviarie. Abbiamo accettato di fare le code ai supermercati, di lavorare da casa quando era possibile, di non presentarci al lavoro in assenza di mascherine.

Pur nella sua drammaticità, la capacità che abbiamo avuto di reagire di fronte al coronavirus è di buon auspicio: significa che siamo ancora capaci di scegliere. Ma scegliere solo perché si ha l’acqua alla gola non è la miglior strategia di cambiamento. I drammi ambientali e sociali che abbiamo accumulato, ci impongono di rivedere in profondità stili di vita e forme economiche, ma la sfida è farlo in maniera indolore. In fondo la scelta che dobbiamo compiere è proprio questa: proseguire la nostra corsa frenetica finché non ci schianteremo contro il muro o frenare e deviare finché siamo in tempo? Se fossimo intelligenti sceglieremmo la seconda strada: prenderemmo atto della necessità di ridurre e programmeremmo la transizione introducendo gradualmente tutte le riforme che servono in ambito produttivo, sociale, politico, in modo da attuare la sostenibilità senza che nessuno abbia a rimanere senza lavoro e, quindi, senza mezzi di sostentamento.

«Covid-19 ci ha costretto a fermarci e, speriamo, anche a riflettere. Da un lato ha messo in ginocchio il nostro modello industriale, mettendo in crisi il lavoro e la vita di milioni di persone, ma dall’altro, paradossalmente, ha ridotto massicciamente le emissioni di gas serra nel mondo (oltre il 25% solo in Cina) e ha ripulito l’aria della Pianura Padana dalle polveri sottili. Non facciamo sì che un ritorno alla normalità significhi rimpiazzare le mascherine antivirali con quelle antismog». Così scriveva un gruppo di parlamentari in una lettera ad Avvenire il 18 marzo 2020. E forse è proprio dalle contraddizioni che il coronavirus ha messo in evidenza che potremmo cominciare per riformare la nostra economia. Mi limiterò solo a due aspetti.

Per un’economia locale

Il primo si riferisce alla carenza di mascherine: in Italia non se ne trovano semplicemente perché non esiste più un’impresa che le produca. Conseguenza di una globalizzazione totalizzante che, portando alle estreme conseguenze la teoria dei vantaggi comparati, ha trasferito in Cina e altri paesi a basso costo produttivo qualsiasi tipo di produzione. Tutte le scelte a senso unico, prima o poi, presentano il conto, perché la vita non è mai fatta di un solo elemento, ma di tanti aspetti che devono stare in equilibrio fra loro. L’impostazione mercantile pretende di imporci come unica legge la convenienza monetaria. Di conseguenza ci ha catapultati in una globalizzazione incondizionata, che però ci ha fatto prima subire contraccolpi sul piano ambientale e poi anche su quello della sicurezza sanitaria. Già venti anni fa Wolfgang Sachs ci aveva avvertito della necessità di ritrovare il senso di casa che non vuol dire rinchiudersi nell’autarchica, tanto meno avventurarsi in guerre commerciali, ma valorizzare l’economia locale. Ogni paese dovrebbe produrre tutto il possibile per la propria popolazione in modo da evitare trasporti inutili, salvaguardare l’occupazione, tutelare la propria autonomia. Quando l’emergenza sarà finita dovremo impegnarci per fare cambiare le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) affinché l’obiettivo non sia più l’espansione del commercio fine a se stesso, ma la salvaguardia delle economie locali, la tutela dei diritti dei lavoratori, la riduzione dell’anidride carbonica.

Lo stato e la UE

Il secondo spunto di riflessione offerto dalla situazione creata dal coronavirus riguarda lo stato: il suo ruolo e le sue vie di finanziamento. Di fronte alle difficoltà in cui sono venuti a trovarsi cittadini, ospedali, interi comparti produttivi, giustamente lo stato ha deciso di intervenire con stanziamenti eccezionali, non solo per rafforzare gli interventi di prevenzione e cura contro l’infezione, ma anche per sostenere i redditi, salvaguardare l’occupazione e potenziare gli ammortizzatori sociali di quanti stavano subendo un danno economico dall’epidemia. In gioco c’erano migliaia di posti di lavoro e quindi il pane di migliaia di famiglie: intervenire era un obbligo morale e sociale prima ancora che un’esigenza economica.

Chiarita l’assoluta necessità di intervenire, non si può fare a meno di considerare che l’operazione è stata fatta a debito peggiorando un quadro già molto critico. Non tanto per le maggiori somme che dovremo restituire a titolo di capitale, quanto per la maggiore quantità di denaro che dovremo sborsare a copertura degli interessi. Soldi dei cittadini che in misura crescente saranno distolti da servizi e investimenti collettivi per finire nelle tasche dei nostri creditori. È il solito vecchio gioco del sollievo di oggi che prepara la pena del domani.

Ma davvero non abbiamo altro destino?

Diciamocelo: l’economia non è come la fisica che è governata da regole naturali immodificabili come la forza di gravità. L’economia è frutto di regole umane che possiamo cambiare in ogni momento. E se oggi ci troviamo nella condizione di non avere altro modo di affrontare le emergenze se non indebitandoci, è perché abbiamo fatto scelte assurde nella gestione della moneta. C’è una certa ritrosia a criticare l’euro perché non si vuole mettere in discussione l’appartenenza all’Unione europea. Ma l’attaccamento all’Europa non si dimostra accettando tutto ciò che fa, bensì sapendo criticare ciò che non va. Chi critica e propone modifiche dimostra di amare l’Europa più di chi l’accetta così com’è. I sentimenti antieuropei sempre più diffusi da un capo all’altro dell’Unione non hanno matrice ideologica, ma pratica. Sono frutto dell’esperienza di chi ha constatato che le regole europee hanno esacerbato la concorrenza fra lavoratori, hanno aggravato l’austerità, hanno accelerato le delocalizzazioni produttive all’interno dell’Unione, hanno lasciato soli i paesi di prima linea nell’accoglienza dei migranti. E la conclusione di molti è il ritorno ai nazionalismi. Giustamente ce la prendiamo con certi politici che cavalcano le paure e il malcontento per consolidare la propria posizione di potere, ma l’unico modo per sbarrare la strada all’avanzata dell’onda nazionalpopulista è la correzione dell’Europa in un’ottica di maggiore sensibilità sociale. Che non si fa a parole, ma con riforme radicali a cominciare dalla gestione dell’euro.

foto Nickolay Romensky

Senza fare nuovo debito

L’euro è stato concepito in piena era neoliberista, quando i governi non erano più visti come attori indispensabili per l’economia, ma come nemici da esautorare se non da combattere. Per cui si è deciso di gestire la moneta unica in una logica puramente mercantilistica con un accanimento particolare verso i governi a cui la Banca centrale europea non poteva, e tutt’ora non può, prestare neanche un centesimo. Dell’assurdità di questa misura ci siamo resi conto nel 2011 quando i paesi più deboli e più indebitati sono diventati preda della speculazione internazionale. La situazione è stata ripresa per i capelli da Mario Draghi (al quale ora è subentrata Christine Lagarde) che, tramite alcune forzature, è riuscito a trasformare la Bce nel più potente acquirente di titoli di stato sul mercato secondario. Il che non solo ha fermato gli speculatori, ma ha anche indotto una notevole riduzione dei tassi di interesse applicati ai debiti sovrani. Il nostro paese è stato fra quelli che più hanno risentito dell’effetto benefico di questa politica perché ha visto passare la spesa per interessi da 83 miliardi nel 2012 a 64 miliardi nel 2018 nonostante una crescita del debito complessivo.

Poter pagare bassi tassi di interessi è già un sollievo, ma quando la spesa complessiva per il servizio del debito assorbe comunque il 10% delle entrate pubbliche, bisogna trovare dei modi per poter finanziare le emergenze sociali, sanitarie, ambientali, economiche senza ricorrere a nuovo debito. Il che è possibile a patto che si riformi la Banca centrale europea. Bisogna riaffermare il principio che la moneta deve essere gestita avendo come priorità la piena occupazione, l’espansione dei servizi pubblici, la tutela dei beni comuni, la difesa delle famiglie più bisognose. Obiettivi che hanno guidato il governo delle monete nei gloriosi trent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale, anni durante i quali i paesi europei hanno conosciuto il più alto tasso di crescita economica, di occupazione e di sviluppo della sicurezza sociale grazie all’azione guida dei governi e a un uso sociale della moneta. Il principio base è che, in condizioni di emergenza, i governi debbano poter finanziare le spese supplementari con denaro ottenuto direttamente dalla Banca centrale, a tasso zero sotto forma di debito irredimibile. La cosa può fare paura per la quantità di nuovo denaro di cui può essere inondato il sistema, ma non è senz’altro un problema di oggi. Dal 2015 al 2018 la Banca centrale europea ha iniettato nel sistema economico 2.650 miliardi di nuova liquidità, ma lo ha fatto acquistando titoli, privati e pubblici, dalle banche commerciali e da altri investitori privati. Se avesse usato lo stesso denaro per finanziare direttamente i governi, più che una crescita della finanza, avremmo avuto una crescita dell’occupazione, dei servizi pubblici, degli investimenti verdi. In conclusione, avremmo avuto un effetto benefico assicurato per l’economia reale e la realtà sociale, che invece continuano a dibattersi nei problemi di sempre. Dal 1992, anno in cui veniva firmato il Trattato di Maastricht che istituiva l’euro e questa Banca centrale europea, sono passati quasi trent’anni. È tempo di rivederlo, in modo da non essere più costretti a dover andare in Europa per chiedere più flessibilità, ossia possibilità di fare nuovo debito, ogni volta che si ha l’acqua alla gola, ma di poter ottenere nuova liquidità per gestire le emergenze senza fare nuovo debito. Si può fare, ma qualcuno deve avere il coraggio di gridare che il re è nudo.

Francesco Gesualdi

 




Coronavirus,

il primo impatto nelle missioni

testo di Chiara Giovetti |


Attraverso le testimonianze dei nostri missionari in Africa e America Latina, ricostruiamo le reazioni a fine marzo dei paesi alla diffusione del contagio da coronavirus@, come sono state recepite le direttive dei vari governi e quali sono stati i primi provvedimenti presi nelle missioni.


I dati presentati in questo testo sono ovviamente quelli disponibili al momento delal chiusura del testo, il 24 marzo.

Per dati aggiornati vedi la mappa della diffusione del Covid-19 nel mondo nella pagina di apertura del sito.


Era circa metà marzo quando i nostri missionari in Africa e America Latina hanno iniziato a condividere via Whatsapp i primi documenti dei governi e delle conferenze episcopali nazionali con le disposizioni per contenere il contagio da Sars-Cov-2, il nuovo coronavirus.

Ne citiamo uno a titolo di esempio: il comunicato del Consiglio nazionale di sicurezza (Cns) della Costa d’Avorio presieduto dal presidente della repubblica Alassane Ouattara, che il 16 marzo segnalava sei casi confermati, saliti a 74 al 24 marzo.

Costa d’Avorio

Il Cns disponeva il rispetto delle norme igieniche fra cui il lavaggio delle mani, il divieto di scambiarsi baci, abbracci e saluti che comportino un contatto delle mani, il divieto di consumare carne di animali selvatici. Proibiva inoltre i raduni di più di 50 persone e fissava ad almeno un metro la distanza interpersonale da tenere negli ipermercati, nei maquis (piccoli ed essenziali locali dove è possibile consumare cibo e bevande, tipici della Costa d’Avorio e di diversi altri paesi africani, ndr), nei ristoranti, nelle aziende; imponeva la chiusura delle scuole per un mese e delle discoteche, dei cinema e dei luoghi per gli spettacoli per 14 giorni, la sospensione degli eventi sportivi e culturali e il rafforzamento dei controlli sanitari alle frontiere marittime, terrestri e aeroportuali. Il comunicato introduceva anche il divieto di ingresso nel paese, per quindici giorni prorogabili, ai viaggiatori non ivoriani provenienti da paesi con più di cento contagi. La messa in quarantena per 14 giorni, nei centri controllati dallo stato, era prevista per i cittadini ivoriani e per gli stranieri con permesso di soggiorno permanente che rientravano nel paese, per tutti i casi sospetti e per coloro che erano venuti a contatto con delle persone infettate. Il comunicato annunciava poi l’apertura in 13 grandi centri del paese di siti complementari equipaggiati per la presa in carico dei casi di Covid-19, l’aumento della sicurezza sanitaria per gli agenti di salute e per tutto il personale dei servizi pubblici e la riattivazione dei comitati dipartimentali di lotta alle epidemie. Il 24 marzo, in una situazione in continua evoluzione, il presidente Ouattara con un discorso alla nazione introduceva un ulteriore irrigidimento delle misure che comprendeva il coprifuoco dalle 21 alle 5.

Altri paesi

Altri governi africani hanno proposto nei giorni a seguire provvedimenti molto simili. La Repubblica Democratica del Congo, attraverso le indicazioni fornite in un discorso alla nazione dal presidente Félix Tshisekedi il 18 marzo, imponeva misure come quelle della Costa d’Avorio, con varianti come il divieto di ogni raduno, riunione, celebrazione con più di venti persone in luoghi pubblici fuori dal domicilio familiare e la sospensione di tutti i voli provenienti dai paesi a rischio e dai paesi di transito, non solo di quelli provenienti dai paesi con oltre cento casi (escludendo però i voli e le navi cargo)@.

Il Mozambico, con una comunicazione del presidente della repubblica, Filipe Nyusi, aumentava il 20 marzo le limitazioni e divieti decisi la settimana precedente, allineandosi a quelli degli altri paesi già citati. Nel comunicato@, il presidente Nyusi informava anche che fino a quel momento erano stati sottoposti al test 35 casi sospetti, che erano poi risultati negativi, mentre 267 cittadini mozambicani e stranieri provenienti da paesi ad alto rischio si trovavano in quarantena domiciliare.

Anche il Kenya, che ha registrato il primo caso il 12 marzo@,  ha chiuso le scuole quattro giorni dopo e il 22 marzo ha ulteriormente inasprito le direttive per contenere il contagio@: sospesi tutti i voli tranne i cargo dal 25 marzo, chiuse chiese e moschee, proibiti gli incontri delle chama (gruppi di microrisparmio e investimento), i compleanni e ogni altro assembramento, chiusi tutti i bar.

Quanto al servizio di trasporto in comune (i matatu), già dal 20 marzo le indicazioni erano quelle di ridurre il numero di passeggeri: i mezzi da 14 posti potevano portare al massimo otto passeggeri, non più di 15 passeggeri per matatu da 25. I bus da 30 posti dovevano infine limitarsi a usare il 60% della loro capienza@.

Matatu semi-vuoto a Nairobi, Kenya / foto di Dona Nyapola

Queste restrizioni al numero di passeggeri hanno provocato un immediato effetto indesiderato: l’aumento dei prezzi delle corse. Per questo il ministero della Sanità nel comunicato del 23 marzo ha fatto un «appassionato appello» ai proprietari dei matatu affinché smettano di imporre ai pendolari questi aumenti@.

Secondo il Johns Hopkins Hospital, il 15 aprile 2020 l’Africa contava 53 nazioni contagiate, 16.356 casi confermati e 872 decessi.

America Latina

Quanto all’America Latina, il Venezuela è certamente fra i paesi che destavano più preoccupazioni dal momento che il rischio del contagio si inserisce in una situazione politico economica già molto compromessa. Il presidente Nicolas Maduro ha annunciato la messa in «quarantena totale» del paese a partire dal 18 marzo, quando i casi di Covid-19 accertati erano 33@ (saliti poi a 84 il 24 di marzo).

Da Dianra, Costa d’Avorio

© AfMC – Matteo Pettinari da Dianrà

Sulla situazione abbiamo sentito alcuni missionari. «L’analfabetismo è la malattia più mortale che esista: scrivilo, questo». Al telefono dalla Costa d’Avorio, padre Matteo Pettinari, responsabile del Centro di salute Joseph Allamano di Dianra (Csja), non ha dubbi su quale sia il principale avversario da battere nella partita del contenimento del contagio. Secondo il censimento del 2014, precisa il missionario, la regione del Béré, dove si trova Dianra, ha l’81% di analfabeti. Far passare messaggi sulle corrette pratiche igieniche e contrastare la marea di notizie false che circolano diventa così ancora più difficile.

«Nei villaggi più isolati», continua padre Matteo, «circolano informazioni come: “questo virus è un complotto degli europei per ucciderci, basta mangiare le foglie bollite di questa o quell’altra pianta, l’africano è forte e resiste ai microbi…”. Capisci che a volte dobbiamo essere molto duri, fare leva sulla nostra autorità di uomini di Dio e addirittura chiamare “emissario del demonio” chi diffonde simili informazioni, altrimenti rischiamo di rimanere inascoltati».

I problemi però non si limitano agli ostacoli alla diffusione di informazioni corrette. Si aggiungono anche la carenza di strutture sanitarie adeguate a gestire pazienti bisognosi di respirazione assistita – la terapia intensiva più vicina a Dianra si trova al Centre Hospitalier Universitarie (Chu) di Bouaké, a 250 chilometri – e un tessuto economico fragile. «Qui non ci sono ammortizzatori sociali, strumenti per iniettare liquidità nelle famiglie e nelle imprese: dire a una piccola imprenditrice “non uscire di casa, non andare più al mercato a vendere il bissap [bevanda a base di ibisco molto diffusa in Africa Occidentale, ndr]” significa metterla in condizione di non poter più garantire il sostentamento alla sua famiglia».

A marzo, il Centro di salute Joseph Allamano stava recependo le direttive del ministero della Sanità mettendo all’entrata e all’uscita di ogni reparto un dispositivo per lavarsi le mani. «Più complicato», constata padre Matteo, «sarà creare una zona dedicata per eventuali malati di Covid-19 che andrebbero isolati fuori dal complesso del Csja, in una struttura a parte».

Il personale del Centro aveva avviato la sensibilizzazione nei villaggi e presso i piccoli centri periferici della rete sanitaria già una settimana prima del primo caso riscontrato in Costa d’Avorio. Il dato positivo è che il Centro ha sempre potuto contare sulla piena collaborazione del direttore del dipartimento sanitario, molto dinamico e impegnato in prima persona a diffondere informazioni raggiungendo, in moto, i villaggi per sovrintendere o anche svolgere direttamente le attività di sensibilizzazione.

Dalla RD Congo

Padre Rinaldo Do, dalla parrocchia di Saint Hilaire a Kinshasa, riporta le difficoltà a rispettare le direttive del governo in un quartiere popoloso come quello dove lui vive. «Scuole e chiese sono chiuse e i ragazzi dovrebbero restare in casa. Ma questi giovani vivono in abitazioni dove ci sono a volte più di venti persone e non hanno computer, tv, libri a disposizione per fare i compiti o per passare il tempo. Per questo succede spesso di vederli fuori per strada, a giocare».

Preparativi per combattere il Covid_19 a Kinshasa / AfMC – Rombaut Ngaba Ndala

Dal Centre Hospitalier la Consolata nel quartiere di Bikiku, a Kinshasa, il responsabile, fratel Rombaut Ngaba Ndala, riferisce di

come sia in corso un intenso lavoro di sensibilizzazione per spiegare alle persone come comportarsi. «Ancora non si rendono conto», scrive il 25 marzo il missionario, «alcuni pensano basti prendere il Congo bololo, un’erba (la vernonia amygdalina) che di solito usano contro la malaria».

Radio Okapi, la radio a diffusione nazionale fondata nel 2002 dalle Nazioni unite e da una Ong svizzera, ha raccolto lo scorso 23 marzo alcune testimonianze da tutto il paese su come stava procedendo l’adeguamento alle istruzioni del governo.

Un ascoltatore da Bukavu, nella provincia orientale del Sud Kivu, riportava che le regole erano rispettate «al 70%» e segnalava l’arresto di un pastore di una delle cosiddette «chiese del risveglio» che aveva riunito i fedeli nonostante i divieti.

Un altro intervento da Kikwit, città del Congo centro occidentale, sottolineava il problema degli assembramenti – difficili da evitare – delle tante persone che dipendono dalle fontane e dai rubinetti pubblici per procurarsi l’acqua. L’ascoltatore lamentava, inoltre, che la recente esperienza dell’epidemia di ebola avrebbe dovuto educare la popolazione ma che questo era avvenuto solo in parte e invocava misure di legge più mirate per sanzionare chi non rispetta le indicazioni del governo.

Bambino con catino di foglie Congo Bololo, un’erba ritenuta efficace contro la malaria ed erroneamente creduta buona contro il Covid_19. Nome scientifico: Vernonia amygdalina

Da Kisangani, città sul fiume Congo nel centro Nord del paese, un ascoltatore – con un’obiezione che si è peraltro rivelata dannosa in altri contesti colpiti dal virus – avanzava perplessità sull’estensione a tutto il paese di misure inizialmente prese per Kinshasa, dove erano stati individuati i primi casi, considerando che Kisangani non era ancora stata toccata dai contagi. Riferiva di prezzi al rialzo nei mercati e sosteneva che servisse più tempo per regolamentare gli aspetti economici prima di procedere a una chiusura più decisa delle attività, perché la gente rischia «di morire di fame, invece che di virus».

Il governatore del Nord Kivu, Carly Nzanzu, nel suo intervento alla trasmissione sottolineava l’importanza delle misure di sensibilizzazione comunitaria e sosteneva che era fondamentale «evitare l’ingresso della malattia». Portava poi l’attenzione su una particolare sfida che la RD Congo – come molti altri paesi africani – deve affrontare, quella dei trasporti in comune. Anche in Congo si è tentato di ridurre le presenze sui minibus, imponendo ad esempio che i mezzi da 16 posti portino al massimo dieci persone.

Un ultimo intervento, dalla produttiva Lubumbashi, nella provincia meridionale dell’Alto Katanga, sottolineava che «ci sono più misure che dispositivi», cioè che alle indicazioni sulla carta non sempre corrispondono i mezzi per realizzarle. A titolo di esempio, l’ascoltatore di Lubumbashi riportava il fatto che i casi positivi della città erano accolti in una struttura sanitaria dove però si trovavano già altri malati, non cioè in un una struttura dedicata così da assicurare l’isolamento@.

Da Ikonda, Tanzania

Padre Marco Turra, responsabile del Consolata Ikonda Hospital, scrive che nonostante il numero di casi ancora basso – dodici al 25 marzo – c’è preoccupazione nel paese, dove il governo ha assunto misure molto simili a quelle degli altri esecutivi africani. «Qui in ospedale», precisa padre Marco, «abbiamo disposto all’ingresso luoghi per il lavaggio e disinfezione delle mani. Ai nostri lavoratori sono stati distribuiti flaconi di gel igienizzante e maschere. Abbiamo già sistemato un locale apposito per eventuali malati di Covid-19».

Da Tucupita, Venezuela

Padre Andrés Garcia Fernandez, che lavora a Nabasanuka, nella diocesi di Tucupita, il 19 marzo invia aggiornamenti nei quali lamenta la scarsità di informazioni che arrivano nelle comunità più isolate, così che anche i comportamenti corretti da seguire per non contrarre il nuovo coronavirus non raggiungono tutta la popolazione. Vi è inoltre mancanza di controllo sull’applicazione effettiva delle misure preventive e i trafficanti della Guyana o di Trinidad che attraversavano i confini senza controllo (e ovviamente senza protezioni come mascherine o guanti) rischiano di contribuire ulteriormente a diffondere il virus, in un contesto nel quale i servizi sanitari sono già fortemente provati da lunghi mesi – ormai anni – di crisi politica ed emergenza umanitaria.

«A Nabasanuka», racconta padre Andrés, «passiamo le giornate piuttosto occupati a ricevere le persone che vengono a cercare farmaci, ami da pesca, cibo, quaderni, matite». Ma, conclude, «non abbiamo paracetamolo né niente che gli somigli in tutta la zona della nostra parrocchia».

Chiara Giovetti




I perdenti 52. Augusto César Sandino, libertà e riscatto sociale

testo di Don Mario Bandera |


È passato diverso tempo da quando, in Nicaragua, in un agguato teso dagli sgherri del dittatore Anastasio Somoza è stato assassinato Augusto César Sandino. Era il novembre del 1934.

Da allora, la figura dell’eroe nicaraguense è entrata nell’iconografia del continente americano, come simbolo della lotta per la libertà e del riscatto sociale per tutti i popoli del Centro America. Ricordare Sandino oggi, ci permette di fare memoria soprattutto dell’eroe dell’antimperialismo capitalista made in Usa, voce profetica non solo del suo Nicaragua, ma di tutti i popoli oppressi dal grande capitale al soldo delle nazioni più potenti. Proprio questa sua veste di oppositore al colonialismo militare, economico e culturale yankee, mostra l’attualità e genialità del pensiero di Sandino.

Forse la leggenda legata alla sua persona sta proprio nel fatto che egli non è stato l’eroe solitario, lontano e irraggiungibile, ma l’uomo che, gomito a gomito con gli oppressi ed emarginati di ogni latitudine, ha lottato per la dignità e la libertà di ogni uomo e singola nazione. Ancora oggi nei murales che coprono i muri del Nicaragua, il suo volto creolo risalta per il colore bronzeo che lo caratterizza come un qualunque contadino centroamericano. Il cappello, poi, bianco alato con una striscia alla base, è quello tipico di tutti i lavoratori della sua terra che si recano al lavoro alle prime luci dell’alba.

Sandino era, e resta, un eroe popolare, per questo lo sentiamo parte dei nostri ideali. Nella sua vita ha incarnato pienamente l’eterna resistenza degli ultimi, quando questi si ribellano alle condizioni disumane di lavoro e di vita imposte dall’alto. La sua grandezza sta proprio nella sua ribellione. Forse, il gesto più significativo della sua vita è stato quello di dire di no al padre, che da uomo semplice e tranquillo, obbedendo agli ordini del governo, era andato dal figlio a dirgli: «Augusto César, arrenditi!». Sandino, fedele ai suoi ideali, non ha obbedito e ha «mandato a quel paese» i generali che gli chiedevano la resa. Sandino era, e resta, l’emblema dell’uomo libero. In breve tempo egli è diventato «il generale degli uomini liberi».

Gli uomini liberi in quel periodo erano un esercito di straccioni: uomini, donne e bambini, che lo seguivano sugli impervi sentieri delle montagne del Nicaragua, gridando: «Qui non si arrende nessuno!», sventolando le bandiere sandiniste sporche di fango e rotte da mille lotte.

Caro comandante, una delle prime cose che suscitano un certo stupore in chi ti avvicina è il modo con cui accogli l’interlocutore…

Da sempre, quando saluto o accolgo qualcuno non gli dò la mano, ma preferisco abbracciarlo: sono convinto, infatti, che ogni uomo – specialmente il più povero – porta dentro di sé la pienezza della dignità insita in ogni essere umano. Così facendo cerco di portare alla luce questa qualità nei centroamericani.

Parlaci un po’ di te, della tua vita in Nicaragua.

Nacqui il 18 maggio 1895 a Niquinohomo, nel dipartimento de Masaya, figlio illegittimo di un ricco coltivatore di caffè che aveva approfittato di mia madre che lavorava nei suoi campi. Abbandonato a 9 anni da mia madre, per un po’ vissi con mia nonna e, appena fui in grado di lavorare, venni accolto nella casa di mio padre dove dovevo comunque lavorare per guadagnarmi da vivere

A 17 anni, era il 1912, restai molto impressionato dalla morte del generale Benjamin Zaledon, un patriota della mia terra che, con pochi uomini e con scarse risorse a sua disposizione, si era opposto alle truppe statunitensi che erano sbarcate in Nicaragua a sostegno del presidente Adolfo Diaz.

Sopravvissi lavorando nella terra di mio padre fino al 1921, quando in un violento litigio ferii uno che aveva fatto commenti denigratori su mia madre.

E cosa comportò quel ferimento?

Dovetti scappare dal paese per evitare la vendetta della sua potente famiglia. Mi misi a viaggiare e a lavorare per i paesi del Centro America, arrivando in Messico. Fu in quel paese che cominciai la mia «formazione politica» e iniziai a rendermi conto degli influssi pesanti dell’ingerenza nordamericana nella vita dei nostri paesi. Direi che fu lì che mi convertii all’antimperialismo. Nel 1926 rientrai in Nicaragua, andando al mio paese, dove nel frattempo il mio vecchio nemico era diventato sindaco. Fui costretto a rifugiarmi in una città del Nord.

In quel periodo scoppiò lo scontro aperto tra liberali e conservatori.

Con l’appoggio statunitense quelli del partito conservatore avevano estromesso il presidente liberale. I liberali allora avevano iniziato una vera guerra perché fosse rispettata la Costituzione. A sostegno dei conservatori e dei loro interessi (era in gioco anche il progetto della costruzione di un secondo canale dall’Atlantico al Pacifico che doveva passare attraverso il Nicaragua) gli Usa avevano occupato militarmente le coste catturando anche il leader dei liberali. In questa situazione io entrai a far parte delle truppe liberali, inizialmente senza grandi successi.

Ma poi le cose cambiarono.

Dopo le prime sconfitte, mi misi a studiare a fondo le tattiche di guerriglia e in breve le cose cambiarono, riuscendo anche ad avere un nutrito gruppo di cavalleria proveniente dalla città di San Juan de Segovia. Con loro riportammo vittorie significative sulle truppe dei conservatori sostenuti dagli statunitensi. Ma, di fronte al rischio di un intervento diretto degli Usa, i liberali e i conservatori nel 1927 si misero d’accordo rimandando tutto alle elezioni del 1928.

Tu però non accettasti quel patto.

Mi ritirai allora al El Chipote, una cittadina quasi sulla costa del Pacifico, dove misi su famiglia.  Fu lì che la mia lotta ebbe una svolta, da guerra civile (liberali e conservatori) a lotta patriottica contro gli invasori nordamericani. Il 12 maggio 1927 scrissi un messaggio diretto alle autorità locali di tutti i dipartimenti del paese per rendere pubblica la mia determinazione di continuare la lotta finché i militari nordamericani non avessero lasciato il paese.

Il primo giorno del mese di luglio del 1927, insieme ai miei compagni emisi un Manifesto politico rivolto a tutto il popolo del Nicaragua, mentre il 14 dello stesso mese risposi negativamente alla proposta di sospendere le nostre azioni di guerriglia in tutto il paese che il capitano dei marines degli Stati Uniti, Gilbert Hatfield, mi aveva fatto recapitare.

Che successe dopo?

Con un pugno di combattenti mi rifugiai sulle montagne e ben presto mi trovai al comando di un vero esercito, Ejército defensor de la soberanía nacional (Esercito difensore della sovranità nazionale), composto da volontari provenienti anche da altri paesi americani. Con esso condussi per cinque anni un’efficace guerriglia contro gli occupanti statunitensi, infliggendo loro delle sonore sconfitte. Essi risposero organizzando, finanziando e armando la Guardia nazionale (l’esercito ufficiale del Nicaragua) al soldo dei latifondisti, sfruttando la divisione tra le varie componenti del paese. Fu una guerra dura e senza esclusione di colpi. Fino al 1933 quando, negli Usa della Grande depressione iniziata nel 1929, il presidente Roosvelt decise di cambiare tattica e scegliere una «politica di buon vicinato». Vennero ritirate tutte le truppe dai paesi centroamericani e caraibici, Nicaragua compreso. Dopo il ritiro nel gennaio del 1933 delle forze armate americane dal suolo nazionale, accettai di interrompere la lotta armata, ottenendo in cambio dal presidente liberale Juan Bautista Sacasa un’amnistia e la possibilità di creare con i miei uomini delle cooperative agricole nella regione del fiume Coco.

Si può dire che la lotta per gli ideali di giustizia e pace sociale, grazie alla tua volontà e determinazione, a quel punto avesse raggiunto i suoi obiettivi.

Certo che, quando il primo di gennaio del 1933, vidi ritirarsi le truppe nordamericane dal territorio nicaraguense, provai una profonda commozione e una grande gioia. Finalmente eravamo liberi a casa nostra.

Però restava da dare un impianto istituzionale e un programma sociopolitico al nuovo Nicaragua che, grazie a voi, si affacciava con la sua specificità sullo scenario mondiale.

Era una faccenda tutt’altro che facile. Avevo accettato il trattato di pace e deposto le armi, ma la situazione non era pacifica, anche perché la Guardia nazionale, che fu ufficialmente incaricata della sicurezza del paese, non perdeva occasione per rifarsi sui vecchi nemici sandinisti. In più Anastasio Somoza, capo della Guardia, aveva nella propria testa un solo obiettivo: prendersi tutto il potere.

Augusto César Sandino (centro) In viaggio verso il Messico. / Da http://teachpol.tcnj.edu/amer_pol_hist/thumbnail350.html. – Wikipedia

Un uomo buono e deciso, testardo e tutto d’un pezzo come César Augusto Sandino, non poteva immaginare il tradimento di Anastasio Somoza, forse uno dei più viscidi politici della storia dell’America Centrale. Per assumere il potere, Somoza aveva deciso di eliminarlo. Spinto dai propri ideali, Sandino andò incontro alla morte, mentre viaggiava per partecipare a un incontro di pacificazione tra le varie forze nicaraguensi. Fu ucciso in un’imboscata in una notte del febbraio 1934, sotto un cielo pieno di stelle. Il suo nome, la sua forza d’animo e la sua dignità si trasformarono immediatamente in leggenda per tutto il continente americano. Conoscere la storia di questo eroe semplice significa imparare che cosa è l’America Latina «centrale», dove scorrono le sue arterie più nascoste, le sue «vene profonde», là dove la gente conserva e recupera il suo status di umanità. La storia di Augusto César Sandino è la storia della fierezza e della libertà di ogni uomo che non si arrende ai soprusi dei potenti né ai despoti di turno.

Don Mario Bandera




Promessa di presenza


Ti sei mostrato a noi vivo. Dopo la tua passione e morte, ci sei apparso per quaranta giorni (At 1,1-11). Ci hai visitati mentre eravamo in quarantena, per debellare insieme a noi il virus dell’angoscia della morte. E ci parlavi delle cose del Regno. Non del regno che noi speravamo, un regno giusto e sapiente, ma umano, e quindi effimero, instabile. Ci parlavi del Regno di Dio. Quello della vita eccedente, dell’acqua che zampilla in eterno, della luce che disperde le tenebre, dell’amore che è più forte della morte.

L’ultimo giorno, quando noi ci sentivamo di nuovo in forze, pronti a riprendere la strada con te, come prima, tu ti sei seduto a tavola, come avevi fatto nell’ultima cena prima del tuo arresto, e ci hai chiesto di non muoverci da Gerusalemme. Almeno finché non fossimo stati battezzati in Spirito Santo. Solo allora, infatti, la tua presenza in corpo, legata a un luogo, si sarebbe tramutata in presenza in spirito, legata alle nostre vite capaci di spargersi nel mondo. Solo allora la nostra forza riacquistata sarebbe stata di aiuto, e non di ostacolo, alla nostra debolezza, vero veicolo della tua salvezza per tutti «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».

Mentre ci parlavi così, sei stato elevato in alto, e una nube ti ha sottratto ai nostri occhi. Ed ecco che due uomini in bianche vesti ci hanno scossi: «Perché state a guardare il cielo? Gesù tornerà e troverà la fede sulla terra grazie a voi».

Ci siamo messi in attesa, pronti a lasciarci riempire di Spirito, e a realizzare con Lui, in ogni luogo e in ogni tempo, la Tua promessa di presenza: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

Buon tempo di Pasqua, da amico

Luca Lorusso

Titoli dei pezzi in Amico

  • Chi è il missionario (Biabbia on the road)
  • La Parola, unica speranza (Parole di corsa)
  • Querida amazonia. Un sogno sociale (Amico mondo)
  • Comunità missionaria di Villaregia (Amico mondo)
  • Modjo per chi ha bisogno (Progetto Etiopia)

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Dio apre ai pagani la porta della fede

testo di Angelo Fracchia |


«Ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (At 11,26). Non si tratta però soltanto di un appellativo. A seguire Luca, potremmo dire che per la prima volta ad Antiochia i cristiani diventano consapevoli di essere un gruppo nuovo e di avere anche responsabilità nuove.

A pensarci, il mondo nel quale si muovevano i primi cristiani sembra molto simile al nostro. Intanto anche loro sperimentavano una nuova interconnessione tra i popoli del Mediterraneo: i romani avevano portato in oriente strade, sicurezza, commercio, ricchezza e il fascino per un mondo che non guardava in faccia a tradizioni, rispetto, pudore. Anche loro, come noi oggi, avevano una lingua di riferimento internazionale più o meno conosciuta da tutti: ovviamente non era l’inglese, ma il greco. Così molti, pur mantenendo le proprie lingue e culture locali, parlavano anche questa lingua che era capita quasi ovunque e portava con sé un modo nuovo di vivere, pochissimo attento allo spirituale ma estremamente affascinante.

In questo contesto, si poteva incontrare un miscuglio molto disordinato di superstizioni e culture, di nuovi movimenti spirituali e antiche organizzazioni religiose, il tutto subordinato all’interesse primario per il laicissimo denaro che, globalmente, sembrava avere la meglio su tutto, ma nello stesso tempo lasciava un forte desiderio, soffocato ma diffuso, di valori e spiritualità autentici.

Insomma, si direbbe che la comunità di Antiochia possa costituire, nonostante la lontananza, un modello ancora valido per noi oggi.

La prima comunità «cristiana»

Quella comunità viveva a cavallo tra due culture linguistiche (greca ed aramaica) e ancor più tra molte tradizioni religiose: il mondo ebraico, fortemente rappresentato e affascinante, quello semita tradizionale che finiva per identificarsi soprattutto con l’astrologia, quello romano ufficiale che però non sembrava molto profondo, oltre a diversi altri movimenti, a volte dalla vita abbastanza breve. Sarà per questo che ad Antiochia i cristiani si scelgono come capi un miscuglio altrettanto variegato di persone (cfr. At 13,1): Barnaba è un ebreo originario di Cipro (At 4,36), Simeone porta un nome ebraico e un soprannome latino (Niger), Lucio ha un nome latino e viene da Cirene, Saulo è un ebreo di Tarso, e in quanto a Manaèn (nome ebraico ma in forma greca) si dice che abbia conoscenze altolocate, essendo stato compagno d’infanzia di Erode Antipa. Evidentemente è una comunità che non ha paura di mescolarsi e di prendere anche dall’estero il meglio che trova.

Questa chiesa, aperta in entrata, si mostra altrettanto aperta in uscita, perché dall’ascolto della preghiera ricava la percezione (ispirazione dello Spirito: At 13,2) di dover inviare per la prima volta qualcuno in una missione di evangelizzazione, e come responsabili scelgono non quelli di cui vogliono liberarsi, ma proprio due dei cinque capi, più un aiutante (At 13,5). E i due capi scelti (Barnaba e Saulo) sono proprio quelli che hanno avuto un ruolo fondamentale nell’inizio della comunità.

A Cipro, alcune sorprese

L’idea di una missione evangelizzatrice è tutt’altro che scontata. L’ebraismo, da cui i cristiani vengono, discute addirittura se sia possibile o no per i pagani diventare ebrei, e di solito si preferisce scoraggiare la conversione, invitando invece al semplice rispetto di una forma di legge ridotta per i simpatizzanti.

I cristiani ritengono invece di dover annunciare Gesù, di aver scoperto un tesoro che non possono chiudere sottochiave. Nello stesso tempo, non sembra che partano ciecamente all’avventura: Cipro è subito di fronte ad Antiochia, a una distanza che in giornate di bel tempo si può coprire in un solo giorno, inoltre è la patria di Barnaba, il capo spedizione, che sull’isola probabilmente può contare su più d’un contatto.

Questa ipotesi viene facilmente confermata dalla notizia che è addirittura il proconsole di Cipro, Sergio Paolo, a invitare e ospitare i tre missionari (At 13,7).

A palazzo i tre trovano anche un mago, che sembra quasi il contraltare degli evangelizzatori. Si tratta di un ebreo che si dedica alla magia ed è conosciuto con un nome (Bar-Iesus, figlio di Gesù) che ricorda tanto quello dello stesso Gesù. Ma si rivela poi per quello che è veramente: Elimas (il mago) che cerca di tenere il proconsole lontano dalla fede (At 13,8). A questo punto Paolo lo attacca, punendolo con una cecità temporanea che sembrerebbe addirittura frutto di un atto magico (At 13,11).

Tre conseguenze

Quello che Luca gestisce quasi come un veloce incidente ci lascia con tre conseguenze e un’annotazione.

Tra le conseguenze, si nota che il proconsole crede al Vangelo. La notizia, buttata lì, è straordinaria, perché si tratterebbe della seconda conversione di un romano, e per di più capo di una provincia. Certo, non si dice che viene battezzato, e questo potrebbe essere il motivo per cui Luca non rimarca tanto la notizia, ma è rilevante che fosse simpatetico. C’è da dire poi che forse un romano in quella posizione non poteva ancora permettersi di sbilanciarsi troppo ufficialmente.

La seconda conseguenza è sulla composizione della squadra missionaria. Quando arriva a Cipro è composta, in ordine, da Barnaba, Saulo e Giovanni Marco, ma quando riparte i membri sono «Paolo e i suoi compagni». A Cipro, cioè, Paolo decide di farsi chiamare con la forma latina del proprio nome, quasi a rendersi più facilmente accettabile e accoglibile anche da ambienti amministrativi latini e culturali greci, e prende la guida della missione.

Chissà se è questo cambiamento a suscitare la terza conseguenza del passaggio cipriota, ossia l’abbandono della missione da parte di Giovanni Marco (At 13,13), un abbandono che avrà conseguenze più tardi (At 15,37-39).

La considerazione è che Luca rende consapevoli i suoi lettori che il Vangelo continua a farsi strada, speditamente, benché tra opposizioni e ostacoli sia esterni (il sinedrio, un mago…) che interni (i litigi nella squadra missionaria). Entrambi, e forse soprattutto i secondi, sarebbe meglio che non esistessero, ma in ogni caso non fermeranno l’opera dello Spirito.

Predicazione ad Antiochia di Pisidia

Dopo Cipro, la missione prende una strada non del tutto prevedibile: anziché arrivare a Tarso, come avremmo potuto immaginare, o dirigersi verso Ovest, in direzione della popolatissima valle del Lico (dove c’è Laodicea), i missionari, rimasti in due, decidono di avviarsi verso l’entroterra, attraversando quasi tutte le città abitate in larga misura da ebrei e servendosi di un’importante via lastricata romana, che porta in Galazia.

Qui troviamo una delle rarissime imprecisioni geografiche di Luca, che parla, come leggiamo nelle nostre traduzioni, di «Antiochia di Pisidia». Probabilmente non cambia nulla per la quasi totalità dei lettori moderni, ma il nome più preciso di quella città era «Antiochia verso la/davanti alla Pisidia» (in pratica era la prima città della Galazia per quelli che vi arrivavano dalla Pisidia), anche se i contemporanei di Paolo e di Luca si sbagliavano molto spesso. Oggi il sito archeologico di quell’antica città dei Galati si trova vicino a una cittadina chiamata Yalvaç, che in turco significa «profeta», in ricordo di Paolo.

Il discorso di Paolo

Qui Paolo tiene un ampio discorso che sembra riecheggiare quello di Pietro nel secondo capitolo degli Atti. Dopo un saluto iniziale, si annuncia il cuore del Vangelo, ossia la morte di Gesù seguita dalla risurrezione che ne conferma le pretese e la missione (At 13,26-31, come in 2,22-24.32). Poi sottolinea che tutto questo è conferma di ciò che era già stato annunciato dalle profezie (At 13,32-37, in parallelo con 2,25-36, citando addirittura in parte gli stessi testi dell’AT), e conclude con un finale appello alla fede e offerta di perdono (13,38-41; cfr. 2,38-39).

Sembra quasi che Luca voglia confermarci che Paolo non si è messo in testa di predicare qualcosa di nuovo o personale, ma ripercorre completamente il cammino della chiesa dall’inizio in poi.

A essere tipico di Paolo, semmai, è proprio il saluto iniziale (13,16-25), rivolto a ebrei e non ebrei, con l’annotazione che molti di questi ultimi accolgono con favore la notizia del Vangelo. Ciò che finora era accaduto, quasi di nascosto e per eccezione, con l’annuncio ai samaritani (At 8,5-25), all’eunuco (8,26-39) e a un centurione romano (At 10), ma che già ad Antiochia di Siria era diventato più generalizzato, qui si fa ora ricorrente e consueto, e l’annuncio ai pagani presto dovrà essere affrontato esplicitamente (At 15).

Anche perché, di fronte al successo di Paolo, ci sono giudei che iniziano a ostacolarlo «furiosamente» (At 13,45), al punto da fargli proclamare che, di fronte al rifiuto ebraico, si rivolgerà ai pagani (At 13,46-47).

L’opposizione alla predicazione del Vangelo costringerà Paolo e Barnaba ad abbandonare la città, ma i semi del Verbo sono già stati gettati.

Predicazione in Licaonia

Da Antiochia di Pisidia, Paolo e Barnaba raggiungono Iconio, ad almeno tre giorni di cammino sempre su una strada ben lastricata. Anche da qui l’opposizione ebraica li costringe a fuggire.

A un’ulteriore giornata di cammino, ecco Listra, dove la guarigione miracolosa di uno storpio spinge gli abitanti del posto a portare in trionfo Paolo e Barnaba, salutandoli come dèi.

Siccome il greco può servire ottimamente per capirsi tra forestieri, ma gli abitanti di Listra parlano tra loro in licaonio, i due evangelizzatori non capiscono di essere portati in processione al tempio per offrire loro un sacrificio (At 14,11-13).

Quando finalmente se ne accorgono, si ritraggono scandalizzati e spiegano l’unicità del Dio che ha fatto l’universo e continua a custodirlo (At 14,15-17). Il brevissimo discorso è interessante perché questa volta Paolo non parte dalle profezie antiche e sembra addirittura dimenticare Gesù, per concentrarsi sul Dio creatore di tutto.

Da qui potremmo ricavare un insegnamento importante (e forse più che mai attuale dopo i dibattiti feroci in occasione del Sinodo sull’Amazzonia). Paolo non ha ovviamente dimenticato Gesù, ma si trova in un contesto in cui è più urgente e centrale richiamare all’unicità di un Dio trascendente. Quante volte anche oggi le diverse comunità cristiane si trovano in contesti che richiedono di concentrarsi non su tutta la teologia, ma solo su alcuni aspetti che si rivelano essere i più urgenti e significativi in quel contesto. Non significa rinnegare il quadro globale e l’integrità dell’annuncio della fede, ma lasciare che il Vangelo interagisca con situazioni che sono particolari. Paolo lo ha fatto prima di noi.

Persecuzioni e ritorno

Le opposizioni agli evangelizzatori non si interrompono. Anzi, Paolo viene addirittura lapidato (At 14,19), ma sembra che lui e Luca vogliano evitare qualunque tipo di vittimismo. Viene creduto morto, ma si rialza e il giorno dopo lascia la città.

La meta, questa volta, è la casa madre, quell’Antiochia sull’Oronte che li aveva spediti in missione. Paolo e Barnaba ne approfittano per ripercorrere tutta la strada fatta all’andata, evitando scorciatoie, evidentemente per visitare e confortare le comunità appena fondate. Tornati alla partenza, poi, non si soffermano su tutte le avventure che pure Luca ci ha narrato, ma vanno direttamente al cuore della questione: «Dio ha aperto ai pagani la porta della fede» (At 14,27).

Angelo Fracchia
(13 – continua)




Affogati in un mare di plastica

testo di Rosanna Novara Topino |


La plastica è ormai ovunque: spiagge, fondali marini, stomaco di cetacei e pesci. Tutti i mari della terra sono inquinati da residui plastici. Con conseguenze devastanti.

Tutte le volte che, dopo una forte mareggiata, facciamo una passeggiata sul bagnasciuga di una qualsiasi località di mare dobbiamo evitare di calpestare oggetti (bottiglie, tappi, cannucce, contenitori vari, ecc.) e frammenti di plastica avvolti in resti di alghe. Sono anni che questo capita, ma la situazione ormai sta diventando insostenibile, come dimostrano i ritrovamenti sempre più frequenti di grossi cetacei spiaggiati che, all’autopsia, rivelano grandi quantità di plastica di ogni tipo nello stomaco. È capitato nell’aprile 2019 a Porto Cervo, dove si è arenato un giovane capodoglio femmina di 8 metri, in agonia dopo avere abortito un feto di 2,40 metri. Una volta morto, nello stomaco di questo esemplare sono stati rinvenuti sacchi neri, tubi corrugati, un involucro di detersivo, piatti usa e getta e sacchetti della spesa. La stessa sorte è toccata ad un capodoglio spiaggiato in Indonesia con 6 kg di plastica nello stomaco e ad uno morto per shock gastrico nelle Filippine, che ne aveva ben 40 kg.
Già negli anni ’70, il problema della plastica in mare allarmò gli scienziati, che ne predissero la pericolosità senza peraltro essere ascoltati finché nel 1997, di ritorno in California dalle Hawaii l’oceanografo e skipper Charles J. Moore trovò un’enorme quantità di plastica galleggiante al centro del Nord Pacifico, una vera e propria «isola» di plastica, denominata Great Pacific Garbage Patch. Ben presto ci si rese conto che non era l’unica. La plastica viene infatti trasportata attraverso l’oceano (inteso come insieme di tutti i mari della terra) grazie ai venti e alle correnti marine. Sono state rinvenute alte concentrazioni di detriti di plastica galleggianti nel Nord Atlantico, Sud Atlantico, Nord Pacifico, Sud Pacifico e Oceano Indiano.

Il Mediterraneo: piccolo mare, tanta plastica

A queste cinque zone se ne aggiunge un’altra, in cui la plastica si trova in concentrazione assai elevata, il mare Mediterraneo, anche se in esso non si trovano isole, essendo la plastica più dispersa. Per le sue peculiari caratteristiche geografiche, essendo un mare semichiuso, circondato da tre continenti e interessato da molteplici attività umane, il Mediterraneo, che rappresenta solo l’1% di tutti i mari, contiene una concentrazione di microplastica quasi 4 volte superiore a quella di una delle grandi isole oceaniche, raggiungendo il valore di 1,25 milioni di frammenti di microplastica per km2 mentre si arriva a 10mila frammenti per km2 nei sedimenti. Questa situazione è dovuta al fatto che, nel Mediterraneo, la plastica permane molto a lungo, senza fuoriuscirne e frantumandosi ripetutamente fino a raggiungere dimensioni infinitesimali. La plastica rappresenta circa il 95% di tutti i rifiuti rinvenuti nel Mediterraneo. Ogni anno nei mari europei, in primis proprio nel Mediterraneo, finiscono tra le 150mila e le 500mila tonnellate di macroplastica e tra le 70mila e le 130mila tonnellate di microplastica. Quella del Mediterraneo è il 7% della microplastica globale. I paesi che maggiormente rilasciano plastica nel Mediterraneo sono la Turchia (144 tonnellate/ giorno), la Spagna (126), l’Italia (90), l’Egitto (77) e la Francia (66). La popolazione costiera del Mediterraneo è di circa 150 milioni di persone, che producono tra i 208 e i 760 kg di rifiuti solidi urbani pro capite l’anno. Alla popolazione stanziale vanno aggiunti circa 200 milioni di turisti l’anno, che visitano le coste mediterranee, con un aumento del 40% dell’inquinamento soprattutto nella stagione estiva. Le principali vie fluviali della plastica verso il mare sono rappresentate dai grandi fiumi, che sfociano nel Mediterraneo come il Nilo, l’Ebro, il Rodano, il Po, il Ceyhan e il Seyhan. Oltre al danno ambientale, il notevole inquinamento da plastica nel Mediterraneo colpisce l’economia dei paesi costieri; ne risultano penalizzati soprattutto i settori della pesca e del turismo. Per quanto riguarda la pesca, la plastica provoca una riduzione del numero di catture, danni alle imbarcazioni e alle attrezzature e riduzione della domanda di prodotti ittici da parte dei consumatori, per timore di contaminazioni. In questo settore, l’Unione europea registra, a causa della plastica in mare, una perdita di circa 61,7 milioni di euro l’anno. Riguardo al turismo, spiagge e porti sporchi possono allontanare i turisti, con una ricaduta sui posti di lavoro in questo settore. Per scongiurare che accada tutto ciò, nelle località colpite aumentano i costi per la pulizia degli stabilimenti balneari e delle zone portuali.

© Collin Key

Plastica recuperata, bruciata, spedita

L’elevata presenza di plastica nel Mediterraneo è correlata alla produzione di questo materiale e alla sua dismissione. Dai dati del Wwf, l’Europa risulta il secondo produttore di plastica mondiale, dopo la Cina. Nel 2016 in Europa sono stati prodotti 60 milioni di tonnellate di plastica, di cui 27 milioni si sono trasformati in rifiuti. Solo il 31% dei rifiuti in plastica sono stati riciclati, il 27% è andato in discarica e il rimanente è stato utilizzato per il recupero energetico. In pratica attualmente viene riciclata solo un terzo della plastica prodotta, cioè quella del packaging e questo per motivi tecnici ed economici. Solo le plastiche omogenee, come quelle per gli imballaggi possono essere triturate, lavate, fuse e quindi rigranulate (la manifattura di prodotti plastici parte da granuli e piccole palline di resina dette pellets o nibs, come materia prima), mentre le plastiche miste, tra cui le pellicole per alimenti, finiscono nei termovalorizzatori e nei cementifici oppure in discarica. In quest’ultimo caso si crea un ulteriore problema perché spesso gli imprenditori che gestiscono le discariche, pur di non pagare per lo smaltimento della plastica stoccata, danno fuoco alla discarica (in Italia sono bruciate oltre 100 tra discariche e aziende di riciclaggio negli ultimi due anni) o ne inviano il contenuto in paesi con leggi ambientali poco efficaci a contrastare l’inquinamento, come la Malesia, che si sta trasformando nella nuova «Terra dei fuochi», dove bruciano sia i rifiuti locali che la spazzatura proveniente dall’Occidente. La combustione incontrollata della plastica genera il rilascio nell’ambiente di sottoprodotti altamente tossici per la salute, tra cui le diossine, i furani, i policlorobi-fenili (Pcb) e gli idrocarburi aromatici policiclici.

La plastica italiana

In Europa la produzione della plastica, che per il 90% prende origine da materie fossili, utilizza il 4-6% del totale di petrolio e gas usati in questo continente. Nell’area mediterranea, l’Italia è il maggiore produttore di manufatti in plastica (che rappresentano il 2% della produzione globale) con 8 milioni di tonnellate all’anno e genera 3,9 milioni di tonnellate di rifiuti in plastica, di cui 0,5 milioni (13%) non vengono raccolti, 2,5 milioni finiscono in discarica o nell’inceneritore e un milione viene riciclato. In Italia si consumano ogni giorno 32 milioni di bottiglie di acqua minerale (in media 178 litri a testa all’anno); in questo abbiamo il primato europeo e siamo tra i primi al mondo. L’Italia rappresenta il secondo maggiore produttore di rifiuti che vengono rilasciati nel Mediterraneo. Per quanto riguarda la raccolta differenziata degli imballaggi in plastica (la sola tipologia di plastica riciclata in Italia), nel nostro paese esiste un forte divario regionale, passando dal 57% di raccolta differenziata nel Nord Est al 27% nel Sud. Il 13% dei rifiuti in plastica non viene raccolto per carenze infrastrutturali di alcuni comuni o regioni. Il ricorso alla discarica è maggiore al Sud (40%), rispetto al Centro (24%) e al Nord (12%). Al contrario, i termovalorizzatori sono più diffusi al Nord con 26 impianti su 37 presenti nel nostro paese.

Esaminando in dettagliato le percentuali della raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani per regione, si nota che in alcune regioni del Sud, come Sicilia, Molise, Calabria e Puglia, i cittadini e le aziende separano meno di 1/3 dei rifiuti, oppure questi non sono gestiti correttamente. Molto probabilmente sono due i problemi che andrebbero risolti in queste regioni: una maggiore informazione dei cittadini e una migliore organizzazione della raccolta differenziata. Andrebbe poi risolto, nelle regioni costiere ad elevato afflusso turistico come Liguria, Sicilia, Lazio e Campania, il problema del sovraccarico stagionale dei rifiuti, che può compromettere il sistema di gestione della raccolta differenziata.

La plastica dispersa

Ciò che non viene raccolto ha un’elevata probabilità di finire prima o poi in mare e l’Italia ogni anno disperde nel Mediterraneo 53mila tonnellate di plastica, di cui il 4% è trasportato dai fiumi (il Po trasporta il 3% del totale e il Tevere l’1%), il 18% deriva da attività in mare come pesca, acquacoltura e navigazione e il 78% deriva dalle attività costiere, da una cattiva gestione dei rifiuti, dal notevole afflusso turistico e da attività ricreative. Tra le città costiere che riversano più rifiuti in plastica ci sono Catania, Venezia, Bari, Roma, Palermo e Napoli.

Una volta dispersa in mare, il 65% della plastica rimane in superficie per circa un anno e può viaggiare per una decina d’anni sospinta dalle correnti e dal vento, ritornando infine sulle coste. Il 24% ritorna già entro un anno sulle nostre coste, che sono ulteriormente gravate di un altro 2% proveniente da altri paesi. I fondali marini contengono circa l’11% della plastica finita nel Mediterraneo, quindi un quantitativo nove volte inferiore a quello delle coste, ma quasi impossibile da rimuovere.

La Situazione italiana

Le coste italiane, essendo le più lunghe ed esposte del Mediterraneo, sono destinate a ricevere maggiori quantitativi di rifiuti, che si aggirano in media in 5,3 kg al giorno per km2. Nelle acque italiane, la concentrazione di plastica galleggiante è tra le più alte che si possano trovare nel Mediterraneo, con oltre 20 g/m3 di frammenti plastici nella zona del delta del Po e nella laguna di Venezia. L’inquinamento da plastica del mare e delle spiagge ha un notevole impatto su diversi settori dell’economia italiana. Si stimano perdite annue sui 30,3 milioni di euro nel settore del turismo.
L’Italia non dovrebbe dimenticarsi che il turismo costiero rappresenta il 12% del Pil nazionale. Sulla pesca si stimano perdite annue di circa 8,7 milioni di euro. Il commercio marittimo subisce delle perdite annue stimate in 28,44 milioni di euro a causa dell’attorcigliamento della plastica nelle eliche dei motori e del suo ingresso nei circuiti di raffreddamento, che si traducono in spese straordinarie di manutenzione, ritardi e inattività delle imbarcazioni. A questi si aggiunge l’aumento dei rischi di collisione. Ci sono poi i costi per le operazioni di pulizia degli impianti portuali, anch’essi a rischio di danneggiamento, che possono comportare il blocco delle vie di accesso e ritardi. La pulizia delle aree costiere, a sua volta, può essere più o meno costosa, a seconda del grado d’inquinamento e si può arrivare fino a 18mila euro per tonnellata di rifiuti per aree gravemente inquinate. Si stima che i costi annui per la pulizia di porti e di litorali in Italia siano di circa 16,6 milioni di euro. A tutto ciò vanno aggiunti i 40 milioni di euro di una sanzione, che è stata comminata all’Italia nel 2014 dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, per il mancato adeguamento di 44 siti adibiti a discarica alle norme di sicurezza della direttiva 99/331/EC. Detto questo, pur con i suoi limiti, l’Italia ha la più grande industria di riciclo di rifiuti di imballaggi di plastica del Mediterraneo e punta a raggiungere un tasso di riciclo del 55% entro il 2030.

Rosanna Novara Topino
(fine prima parte)


Cosa si trova

Spiagge della nostra inciviltà

Gli oggetti in plastica più comunemente rinvenuti sulle nostre spiagge sono piccoli frammenti, tappi, cotton fioc, pezzi di polistirolo, bottiglie, contenitori per alimenti, cannucce e posate. Oltre a questi, sulle nostre spiagge e in acqua si rinvengono spesso mozziconi di sigaretta, che vengono gettati ogni anno nella ragguardevole cifra di 3mila miliardi a livello globale e che rappresentano una notevole fonte d’inquinamento perché, una volta giunti in mare, rilasciano nicotina, catrame e la plastica che li compone, cioè l’acetato di cellulosa, che si disgrega in microplastica. I mozziconi, oltre a rappresentare una fonte di inquinamento, sono anche un grave pericolo per diverse specie di animali marini, che li scambiano per prede.

Pur essendo diversi i tipi di plastica prodotti, il 50% è rappresentato dalle seguenti tre tipologie:

  • polipropilene (PP), utilizzato per costruire cruscotti e paraurti di autoveicoli, tappi delle bottiglie, custodie dei CD, reti antigrandine, bicchierini per il caffè;
  • polietilene a bassa densità (LDPE), usato per sacchi di plastica e sacchetti della spesa, film da imballaggio, giocattoli, coperchi, tubi flessibili, contenitori, rivestimenti di cavi;
  • polietilene ad alta densità (HDPE), usato per cavi delle telecomunicazioni, tubazioni interrate, flaconi, bottiglie del latte, taniche, mobilio in plastica, zanzariere, tappi di bottiglia, fogli di plastica per isolare le discariche.

Per quanto riguarda la tipologia dei manufatti in plastica prodotti in Italia, il 42% è rappresentato dagli imballaggi (che costituiscono l’80% dei rifiuti in plastica, data la loro breve vita media); il 30% è rappresentato da manufatti utilizzati nei settori tessili, della casa, ricreativo e agricolo (che generano il 15% dei rifiuti in plastica); il 21% riguarda i settori di edilizia, costruzioni e trasporti (che generano solo il 2% di rifiuti in plastica, essendo materiali a lunga vita media); il 6% riguarda il settore elettrico/elettronico (che genera il 2% di rifiuti in plastica).

(Rnt)

 

 




Camerun. Impresso nell’anima

Testo e foto di Daniele Romeo |


Ci sono viaggi che ti lasciano il segno nell’animo e che ti provano fisicamente. Viaggi che più di altri ti incidono emozioni e si fissano nella memoria. È quello che provo a raccontare con le foto scattate in Camerun nel febbraio 2019.

Per mesi e per una serie di conseguenze dovute al viaggio stesso, non ho avuto modo di visionare attentamente le tantissime immagini scattate attraversando il Camerun da Nord a Sud facendo la spola tra le due principali città del paese, Douala e Yaoundé, e decine di piccoli villaggi dell’interno.

L’obiettivo era quello di visitare e documentare gli ospedali, le comunità e i progetti umanitari gestiti dalle Ong con cui collaboro, per dare voce alle condizioni di vita e ai diritti violati di donne, bambini, anziani.

In particolare, le foto di queste pagine documentano la difficile situazione di un orfanatrofio gestito con tanta buona volontà ma pochi mezzi da una Ong locale, dal nome che richiama la «vedova di Sahrepta» (cfr 1Re 17) che nella sua povertà accoglie il profeta Elia. Questa Ong ha chiesto aiuto a una controparte svizzera per poter continuare a servire i bambini orfani in un paese travagliato.

Insicurezza

In Camerun c’è grande insicurezza a causa di gruppi armati che saccheggiano e distruggono case e causano molte vittime civili, costringendo la popolazione a sfollare verso le grandi città (vedi MC 3/2020 p. 19).

Tale insicurezza ha contagiato anche me che, pertanto, ho viaggiato con l’ansia che qualcosa potesse accadermi da un momento all’altro in quel territorio a tratti fortemente militarizzato.

In molti si trasferiscono in città dalle aree rurali. Sono in cerca di lavoro e di una vita migliore. Tuttavia, tanti finiscono per vivere in baraccopoli sovraffollate dove il pericolo di malattie come la malaria e il tifo è altissimo.

Douala è la capitale della provincia del litorale. Si trova sulle rive del fiume Wouri, a 30 km dalla costa atlantica meridionale del paese. È la città più grande con circa tre milioni di abitanti.

Bambini, prime vittime

I bambini sono la parte più colpita da questa situazione e di conseguenza la più vulnerabile della società. In Camerun i loro diritti sono fortemente minacciati. Migliaia di bambini non frequentano la scuola e non hanno accesso ai servizi sanitari. Oltre il 97% dei bambini di Douala è iscritto alla scuola elementare e, sebbene questo dato sia superiore alla media nazionale, molti non completano l’istruzione primaria. I bambini delle famiglie povere l’abbandonano, spesso, a causa delle difficoltà nel raggiungere la scuola o dei costi non sostenibili per libri, divise scolastiche e altre spese.

Migliaia di bambini vagano per le strade abbandonati al loro destino per tante cause diverse: morte dei genitori, case distrutte, violenza famigliare, disturbi mentali, povertà.

Spesso sono gli stessi bambini che devono trovare il modo di sostenere la famiglia. A Douala se ne possono vedere molti che raccolgono rifiuti o vendono oggetti per strada. Alcuni cadono nella rete criminale dello sfruttamento sessuale.

Non ci si può abituare

Documentare le condizioni dei bambini abbandonati al loro destino è una costante nel mio lavoro. Nonostante questo, non mi ero mai trovato di fronte a condizioni di vita così estreme da farmi sentire in imbarazzo a fotografare e desideroso di conservare solo la memoria del cuore.

Però nessuna descrizione, nessun racconto può narrare meglio di un’immagine lo stato in cui migliaia di bambini vivono la loro quotidianità negli orfanotrofi. I loro occhi, i loro volti, i loro sorrisi segnati da un destino infausto. Solo pochi di loro riusciranno ad avere, un giorno, una vita diversa, lontana da violenze, povertà, fame, malattie.

Migliaia di bambini, da pochi mesi di vita fino all’adolescenza, vengono accolti in luoghi fatiscenti. O in comunità gestite da singole persone o piccoli gruppi di volontari locali con il supporto, a volte, di organizzazioni umanitarie o piccole associazioni internazionali.

Le immagini raccontano le loro storie e i luoghi in cui trascorrono le loro giornate, seguono un percorso scolastico precario regolato da una disciplina ferrea rafforzata da punizioni corporali, vivono in condizioni igieniche discutibili e vengono curati alla bell’e meglio. Luoghi però dove almeno una volta al giorno trovano un pasto.

Le loro stanze sono fatte di muri screpolati, letti a castello, ammassi di vestiti e oggetti di ogni tipo, scarpe, specchi, rifiuti, e odori acri e intensi. Impossibile negare loro un abbraccio, un sorriso, una carezza. Il loro desiderio di sperimentare relazioni nuove li porta a correre verso di te per accoglierti, abbracciarti, sorriderti. Tu rappresenti, putroppo solo per qualche ora, uno spiraglio a cui aggrapparsi per fuggire da un mondo, quello dell’orfanotrofio, fatto di affetti instabili e di privazioni relazionali.

Daniele Romeo
www.iviaggididan.it




Clima, un solo fil rouge dall’Australia all’Africa

testo di Chiara Giovetti |


Locuste, siccità, cicloni, inondazioni, incendi. Il 2020 si è aperto come si era chiuso il 2019: con una serie di problemi tutti legati a eventi atmosferici. Come e quanto siano legati al cambiamento climatico è allo studio di numerosi esperti. Ma che abbiano peggiorato le condizioni di vita di milioni di persone è già fuori di dubbio.

La prima segnalazione risale al settembre dell’anno scorso, quando ha cominciato a circolare un video in cui una donna di cui non è nota l’identità – fra molti «oh my god» e «oh my goodness» – segnala di essere a Livingstone, in Zambia, e mostra immagini delle cascate Vittoria senza acqua, definendole «asciutte come un osso». Aggiunge che ora le chiamerà non più Victoria Falls ma Victoria Rocks (rocce – o sassi – Vittoria) e che la visione è di quelle che «spezzano il cuore»@.

Il video ha provocato velocemente le reazioni di alcuni utenti dei social network – alcuni legati ad agenzie di viaggi locali, anche loro rapide a prender posizione contro l’allarmismo@ – che hanno lanciato l’ashtag #VictoriaFallsIsNotDry e hanno iniziato a condividere immagini e spiegazioni per smentire il quadro catastrofico, sottolineando che la situazione, benché preoccupante, sia stata presentata in modo eccessivo e parziale.

Un documentario della Bbc della fine di novembre 2019@ ha di nuovo portato alla ribalta il problema, suscitando ulteriori accuse di sensazionalismo.

Che cosa sappiamo e che cosa non sappiamo

Victoria Falls (Cascate Vittoria), in Zimbabwe, il 10 Decembre 2019.  (Photo by ZINYANGE AUNTONY / AFP)

L’Africa meridionale, chiarisce l’articolo di Agence France-Presse (Afp)@ nel quale si legge la ricostruzione di questo botta e risposta sui social, sta effettivamente attraversando una delle siccità peggiori del decennio. Tuttavia, la quantità di acqua delle cascate Vittoria – così come quella del fiume Zambesi che le alimenta – risente ogni anno dell’alternarsi di stagione delle piogge e secca. L’immagine di ampi tratti di roccia privi di acqua non è un’emergenza di quest’anno ma uno scenario che si è già manifestato. La Zambesi River Authority (Zra), ente congiuntamente gestito dai governi di Zambia e Zimbabwe per il controllo della diga di Kariba, nel bacino dello Zambesi, si occupa anche del monitoraggio dei flussi di acqua delle cascate Vittoria. Nel novembre dell’anno scorso le misurazioni effettuate mostravano in effetti i flussi più bassi dalla stagione 1995/96, che fu la peggiore nell’arco di tempo di cui l’autorità fornisce i dati, cioè dal 1977 a oggi.

Tuttavia, la Zra precisava anche che con l’arrivo della stagione delle piogge i flussi erano destinati ad aumentare. Le misurazioni del mese di febbraio hanno confermato questa previsione, con un flusso che nei giorni dall’11 al 24 febbraio (disponibili cioè alla chiusura di questo articolo) mostravano un flusso medio di 186 metri cubi al secondo più alto rispetto al 2019.

Il grafico messo a disposizione il 24 di febbraio dalla Zra mostra, inoltre, che uno degli anni in cui l’acqua è stata più abbondante è stato il 2017/2018.

Questo non significa che i cambiamenti climatici non abbiano o non possano avere conseguenze sulle cascate Vittoria e sul bacino dello Zambesi, né che l’abbassamento del livello delle acque del lago Kariba da cui dipende la diga non sia già preoccupante. Ma è scorretto dire che le cascate Vittoria si sono asciugate e, conclude l’articolo dell’Afp, ad oggi l’impatto su queste dei cambiamenti climatici non è chiaro.

25/02/2020 vicino a Isiolo Isiolo, Kenya (Photo by TONY KARUMBA / AFP)

Le locuste in Africa Orientale

Lo scorso 10 febbraio le Nazioni unite hanno diramato un’allerta@  sul numero di locuste che stavano invadendo gran parte dell’Africa Orientale. Si tratta, riporta l’Onu, della peggiore infestazione degli ultimi settant’anni per il Kenya, mentre Somalia ed Etiopia non vedevano un’invasione di queste proporzioni da circa un quarto di secolo.

L’invasione, che mette a rischio di carestia una quantità di persone stimata in circa 19 milioni, colpisce paesi – in particolare la Somalia e il Sudan – già notevolmente provati per aver sperimentato dal 2017 a oggi siccità e inondazioni.

Uno sciame di locuste ampio un chilometro quadrato, riporta la Fao (agenzia Onu per l’alimentazione), può contenere fra i 40 e gli 80 milioni di insetti e consumare in un giorno tanto cibo quanto ne servirebbe per nutrire 35mila persone@.

Keith Cressmann, esperto della Fao che si occupa di monitorare l’invasione di locuste, ha riferito di uno sciame che ha attraversato il Nordest del Kenya a gennaio di quest’anno e che aveva un’ampiezza stimata pari a 60 chilometri di lunghezza per 40 di larghezza: 2.400 chilometri quadrati, pari a circa il doppio della superficie di Roma. «Un tale numero di insetti», ha sottolineato Cressmann, «può arrivare a mangiare in un giorno più o meno la stessa quantità di cibo che mangerebbero 84 milioni di persone»@.

Immagine scattata dal vescovo Virgilio Pante a Sioto Lokokoyo vicino a Baragoi ai primi di marzo 2020

Danni e costi

La Fao ha stimato in 76 milioni di dollari i fondi necessari per contrastare l’infestazione; a febbraio ne erano arrivati 21 di cui 10 messi a disposizione del Fondo centrale per gli interventi d’emergenza (Cerf) delle Nazioni unite, che serviranno per intensificare sia gli interventi a terra che per utilizzare aerei che spruzzino i pesticidi.

Secondo la rivista Science, la Somalia, per proteggere i propri pascoli e il bestiame, sta tentando con l’aiuto della Fao di combattere le locuste con bio pesticidi@ invece che con pesticidi chimici, utilizzando un fungo – il metarhizium acridum – che produce una tossina in grado di uccidere soltanto le locuste e gli altri insetti della famiglia delle cavallette. L’India si è invece attrezzata acquistando droni per il monitoraggio e, se necessario, l’irrorazione aerea delle zone invase con pesticidi@.

Se in India la situazione è per il momento sotto controllo, il vicino Pakistan si trova a fronteggiare la peggior infestazione di locuste in vent’anni e ha dichiarato lo stato d’emergenza.

I due video qui sotto sono stati girati ad Archer’s Post, cortesia del vescovo Virgilio Pante della diocesi di Maralal, Kenya.

  1. Pante cavallette
  2. Archer's post cavallette
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Le connessioni con gli eventi climatici

A favorire l’attuale invasione di locuste sono stati tre successivi cicloni e le piogge torrenziali che questi hanno portato fra metà del 2018 e la fine del 2019. Nel maggio del 2018, ricostruisce ancora Science, un ciclone – Mekunu – ha colpito la zona del Rub’ al Khali, uno degli erg (deserti di sabbia) più grandi del mondo fra Oman, Yemen e Arabia Saudita, portando inusuali piogge che hanno provocato un altrettanto insolito aumento della vegetazione. Le locuste, che hanno così trovato nutrimento in abbondanza, sono aumentate di quattrocento volte rispetto al loro numero abituale.

A prevenire il calo della popolazione di insetti dovuta alla morte delle piante nel deserto che arriva con la fine delle piogge è intervenuto un secondo ciclone – Luban – nell’ottobre del 2018: nel marzo del 2019 le locuste risultavano così aumentate di ottomila volte.

Attraverso l’Iran meridionale, le locuste si sono poi dirette sia verso Est, in Pakistan e India, che verso lo Yemen, dove a causa della guerra civile nessun intervento è stato messo in atto per bloccarne la proliferazione.

Nell’ottobre del 2019, gli sciami sono passati in Etiopia e in Somalia dove ancora una volta hanno trovato un ambiente accogliente grazie all’arrivo del ciclone Pawan e alle piogge abbondanti che ha portato.

A fine dicembre l’invasione si è diffusa al Kenya per poi raggiungere Uganda e Tanzania i primi di febbraio di quest’anno.

Spencer area in Central Coast, some 90-110 kilometres north of Sydney on December 9, 2019. – Australia. (Photo by SAEED KHAN / AFP)

Una catena che arriva all’Australia

L’ondata di cicloni e le conseguenti piogge torrenziali che hanno colpito la costa orientale dell’Africa favorendo il proliferare delle locuste, sarebbero legati, secondo la Bbc, all’opposto fenomeno dell’estrema siccità in Australia che ha causato la morte di 33 persone e bruciato un territorio delle dimensioni della Corea del Sud.

Il legame climatico fra le due sponde dell’Oceano Indiano è il cosiddetto Indian Ocean Dipole (Iod), il dipolo dell’Oceano Indiano, «un cugino meno noto di El Niño e La Niña»@ che riguarda le variazioni delle temperature nell’Oceano Indiano occidentale e orientale.

Lo Iod varia tra tre fasi: positivo, neutro e negativo. In media ogni fase si verifica circa ogni 3-5 anni. La fase neutra porta temperature nella media. Invece durante la fase negativa i venti da Ovest si intensificano, spingendo le acque più calde a concentrarsi vicino all’Australia e impedendo, nel contempo, all’acqua più fredda di salire dalle profondità dell’Indonesia. Queste acque più calde si spostano verso Est e le nuvole le seguono, favorendo l’arrivo della pioggia nell’Australia meridionale e causando viceversa siccità sul versante africano.

La fase positiva crea le condizioni inverse: i venti occidentali si indeboliscono e talvolta si formano venti orientali, permettendo all’acqua calda di spostarsi verso l’Africa. A Sud dell’Indonesia, le acque più fredde possono ora emergere dalle profondità oceaniche e, combinate con le correnti d’aria discendente nell’Oceano Indiano orientale, riducono la formazione di nuvole sul lato australiano dell’Oceano Indiano. Questo, a sua volta, spesso implica meno pioggia sulle aree centrali e Sud Est dell’Australia, mentre l’Africa è colpita da forti precipitazioni.

Nel 2019 si è verificato il dipolo positivo più forte degli ultimi sessant’anni, portando appunto siccità in Australia e Sudest asiatico e, in Africa Orientale, piogge e inondazioni che hanno provocato la morte di 280 persone e variamente colpite oltre 2 milioni e 800mila@.

Che legame c’è fra il dipolo e il cambiamento climatico? Ancora non è chiaro, ma la comunità scientifica sta tentando di stabilirlo. A questo proposito, uno studio pubblicato nel 2014 su Nature, riporta la Bbc@, prevede ad esempio che gli eventi climatici estremi causati dal dipolo possano diventare più frequenti con l’aumento delle emissioni di gas serra. Se queste crescono, la frequenza di dipoli estremamente positivi potrebbe aumentare in questo secolo da uno ogni 17,3 anni a uno ogni 6,3 anni.

Chiara Giovetti




I Perdenti 51. Dimităr Pešev, l’uomo che fermò Hitler

testo di Don Mario Bandera |


Dimitar Iosifov Peshev

Dimităr Josifov Pešev (o Peshev – 1894-1973) fu un uomo politico bulgaro che, come tanti, si lasciò affascinare dagli esperimenti totalitari nell’Europa del Novecento. Aveva iniziato la sua carriera come magistrato nel 1921 ed era poi diventato avvocato nel 1932. Nel 1935 accettò la proposta del primo ministro bulgaro Georgi Kjoseivanov di diventare ministro della Giustizia nel nuovo governo. Pochi anni dopo diventò il vicepresidente del parlamento.

Egli era un autentico democratico ma si illuse che un regime autoritario senza partiti potesse risolvere il problema della corruzione e del degrado della politica, quest’ultima messa alla prova, dopo la Prima guerra mondiale, da tentativi di colpi di stato sia di destra che di sinistra.

Fu fautore dell’alleanza con la Germania nazista perché attratto non tanto dalla figura di Hitler, ma dall’idea che la Germania potesse ridare al suo paese i territori «ingiustamente» perduti dopo le disgraziate guerre balcaniche degli anni 1912-13: parte della regione di Dobruja, passati alla Romania, e la Tracia dell’Ovest, alla Grecia.

Per questo non si fece troppe remore quando i tedeschi chiesero alla Bulgaria, nel 1940, di far parte dei paesi dell’Asse alleati alla Germania (con il ritorno sotto il dominio bulgaro dei territori perduti), e nel 1941 di approvare le leggi razziali.

Il giorno in cui si tenne in parlamento la discussione sulla politica che si sarebbe dovuta tenere nel paese nei confronti della minoranza ebraica, Pešev presiedette la seduta in qualità di vicepresidente.

Pensava, in quel momento, che quelle misure fossero poca cosa e che tutto si sarebbe risolto in una farsa.

La visione democratica che tu avevi non ti aiutò a capire che i nazisti che occupavano la tua patria, di lì a poco, avrebbero richiesto la consegna di tutti gli ebrei.

Una domenica mattina, all’improvviso, ricevetti la visita disperata di un amico che non vedevo da anni. Era un mio vecchio compagno di scuola ebreo proveniente da Kjustendil, una ridente cittadina al confine con la Macedonia dove avevo vissuto la mia adolescenza. Mi informò che il governo, in accordo con i tedeschi, stava preparando per il giorno dopo la deportazione segreta della minoranza ebraica, presente da secoli in Bulgaria.

Questo amico ti mise anche al corrente che i treni erano già stati predisposti nelle stazioni.

Il piano prevedeva che la notte successiva gli ebrei sarebbero stati rastrellati e caricati su vagoni che sarebbero partiti la mattina dopo per la Polonia (la destinazione, allora sconosciuta, era Auschwitz). Era il 7 marzo del 1943. Tutto era stato deciso in gran segreto per non mettere in allarme la popolazione.

A quel tempo avevi già sentito circolare strane voci, ma come tutti, allora, non te ne eri preoccupato più di tanto.

Proprio così, ma di fronte a un amico che – disperato – mi chiedeva di aiutarlo, ebbi come un sussulto, un risveglio della mia coscienza.

Di colpo mi scossi dal mio torpore e subito mi diedi da fare. In quel primo momento pensai anzitutto di aiutare i miei amici di Kjustendil. Mi precipitai in parlamento, radunai altri deputati e con loro entrammo nell’ufficio del ministro dell’Interno, Petar Dimitrov Gabrovski – che condivideva col primo ministro forti simpatie naziste – e, dopo uno scontro drammatico, lo costringemmo a revocare l’ordine della deportazione. Erano le 5,30 del mattino del 9 marzo 1943.

E poi cosa avvenne?

Siccome in Tracia e Macedonia – dove il controllo tedesco era più forte – avevano già cominciato a radunare e deportare gli ebrei, telefonai personalmente a tutte le prefetture del paese per verificare che il contrordine fosse stato ricevuto e quindi rispettato. In questo modo la deportazione fu sospesa, ma non cancellata.

Decisi quindi di lanciare un’offensiva in parlamento. Mi ero reso conto che in gioco non c’era soltanto la vita di qualche amico, ma la salvezza di cinquantamila ebrei bulgari.

Non c’era un minuto da perdere allora.

La lettera di protesta.  Sofia, 17 marzo 1943. Central State Archivess

Infatti, stesi una lettera di protesta molto dura e raccolsi le firme di una quarantina di deputati per chiedere al governo, al primo ministro Bogdan Filov e al re Boris III, di non commettere un crimine così grande, che avrebbe macchiato per sempre l’onore della Bulgaria.

Questo gesto di ribellione però ti costò molto caro. Perdesti la tua carica in parlamento e rischiasti di essere consegnato ai tedeschi.

Già, ma raggiunsi l’obiettivo che mi ero proposto: la mia denuncia ebbe un effetto dirompente, che nessuno si sarebbe aspettato. Il re, sentendosi sostenuto, fece marcia indietro e bloccò la deportazione.

Ma il tuo re era filonazista?

No. Anche lui si era illuso che l’alleanza con la Germania e la restituzione dei territori perduti potesse riparare le ingiustizie della conclusione della Prima guerra mondiale, combattuta (e persa) al fianco della Germania e dell’Austria. Ma non concordava con il nazismo e, poi, con lo sterminio degli ebrei. Va ricordato che era in stretto contatto con monsignor Angelo Roncalli (il futuro Papa Giovanni XXIII), allora nunzio apostolico a Istanbul. Con la sua collaborazione era riuscito a far partire molti ebrei per la Palestina. Aveva anche cercato di evitare la loro deportazione obbligando gli uomini ebrei validi a lavori forzati di pubblica utilità. In più, il re aveva rifiutato, il 14 agosto, la richiesta di Hitler di inviare l’esercito bulgaro alla (disastrosa) campagna di Russia.

Purtroppo però, il re morì improvvisamente il 28 agosto 1943.

(Boris III è il marito di Giovanna di Savoia, sorella di Mafalda che abbiamo «intervistato» sul numero di Gennaio 2020, ndr).

Hitler non accettò volentieri il suo rifiuto e c’è il fondato sospetto che il re fu avvelenato.

In quella situazione anche la mia posizione era tutt’altro che facile. Morto il re, ci fu un reggente, perché il successore era ancora un bambino, poi gli avvenimenti precipitarono con la vittoria dell’Armata Rossa che liberò il paese dai nazisti, ma diede mano libera ai partigiani comunisti.

E tu, continuasti con la politica?

Subito dopo il conflitto mi diedi da fare per riscoprire e valorizzare gli ideali democratici della vita pubblica e m’impegnai per il cambiamento politico nel mio paese e per il suo riallineamento con l’Occidente.

Dimităr Pešev, commise però il «grave errore» di denunciare pubblicamente in parlamento il comportamento dei partigiani comunisti, che stavano consegnando il paese ai russi.

Ciò gli costò molto caro al momento dell’occupazione della Bulgaria da parte dell’Armata Rossa. Pešev fu processato con l’accusa di essere antisemita e antisovietico. Nel corso del processo l’accusa arrivò a insinuare che avesse salvato gli ebrei in cambio di denaro. Tale accusa fu categoricamente smentita dagli ebrei giunti appositamente da Kjustendil per difenderlo. La corte era ugualmente intenzionata a condannarlo a morte, come fece con altri venti deputati che avevano firmato la sua lettera di protesta. Ci fu però un piccolo miracolo. Il suo difensore ebreo, Joseph Nissim Yasharoff, estrasse il classico coniglio dal cilindro e ricordò alla corte che Pešev nel 1936, quand’era ministro della giustizia, aveva salvato dalla condanna a morte Damian Velchev, il nuovo ministro della guerra, autore del golpe comunista attuato con l’arrivo dell’Armata Rossa.

Pešev ebbe così solo quindici anni di carcere e dopo un anno fu rilasciato. Il gulag gli fu risparmiato solo grazie all’intervento di un suo vicino di casa, responsabile della cellula comunista del quartiere, che Pešev aveva salvato a suo tempo dal licenziamento.

Dopo la guerra Pešev visse dimenticato da tutti. Gli ebrei, nel ‘49, lasciarono in massa la Bulgaria per trasferirsi in Israele. Negli anni ‘60, superate le difficoltà dell’emigrazione, iniziarono a inviare aiuti a chi li aveva salvati: Pešev ricevette stabilmente del denaro e delle lettere che lo ringraziavano per la sua azione. Gli fu proposto di recarsi in Israele, ma egli rifiutò: voleva prima essere riabilitato nel suo paese. Morì senza avere questa soddisfazione.

Don Mario Bandera

 

Il titolo di questa intervista è stato suggerito dal libro:
Gabriele Nissim,
L’uomo che fermò Hitler. La storia di Dimităr Pešev che salvò gli ebrei di una nazione intera,
Mondadori, Milano 1999.