Vita trasmessa da chi vive

testo di Luca Lorusso |


Sei partito di buon mattino con il tuo carico di rabbia e aspettative frustrate nel cuore, e con le sue parole di riconciliazione nelle orecchie. Sei salito sul monte con il peso di una vita morente tra le braccia, due tavole di pietra inerte da sgrezzare, e con una preghiera per i tuoi tra le labbra. Sei arrivato al luogo dell’incontro con la certezza di stare di nuovo alla sua presenza e di vedere rinnovato il patto dal dito dell’alleanza.

E Lui era lì, come ti aveva promesso. Nascosto nella nube, ti ha nascosto nella rupe, proteggendoti con la sua mano per non farti perire davanti alla sua indicibile trascendenza. Ti è passato davanti e si è fermato presso di te rivelandoti il suo nome: misericordia, amore, fedeltà.

E tu lo hai supplicato, come ti eri ripromesso. Hai riconosciuto la dura cervice dei tuoi, del tuo popolo, della tua umanità, e hai domandato l’impensabile: non solo il suo passo presente in mezzo ai passi degli uomini sulle loro strade tortuose, ma il suo assenso a fare degli uomini la sua eredità (Es 34,4-9): eredità che Lui riceve, eredità che Lui trasmette.

Eredità non è un oggetto lasciato agli eredi da chi muore, ma la vita trasmessa da chi vive. È la testimonianza di una fedeltà all’amore, al desiderio profondo di vita. Tu hai chiesto per i tuoi, e per tutti, che Lui si facesse erede della nostra vita, e che si facesse tramite presso altri della nostra fedeltà all’amore. Perché la nostra fedeltà sia segno della sua.

Hai chiesto a Dio di fare di noi, suoi traditori e amanti, l’eredità di cui Lui gode. Gli hai chiesto di renderci segno del suo dono di sé al mondo. Una preghiera vertiginosa: che Lui faccia di noi una testimonianza visibile della sua fedeltà e del suo amore.

E sei stato ascoltato, Mosè. Diventati figli nel Figlio (Rm 8,16-17; Ef 1,5.11; Gal 4,4.7), siamo eredi del Padre anche noi, come Lui, e testimoni nello Spirito. E non
veniamo perduti (Gv 3,16-18), ma ricapitolati in Cristo,
ereditati e conservati nelle sue mani.

In questo tempo di fatica, buon cammino di fedeltà alla vita, da amico

Luca Lorusso

Leggi tutto: Per la preghiera – Bibbia on the road – Progetto Tanzania – Amico mondo




Il secondo viaggio di Paolo (At 16,1 – 17,15)

testo di Angelo Fracchia |


Con il capitolo 16 degli Atti degli Apostoli, Luca, che si è preparato il terreno finora con grande attenzione, sembra sentirsi più libero di narrare secondo il gusto dei suoi ascoltatori. Aumenta il respiro del racconto, solleva il tono della lingua, peraltro piena di termini tecnici e precisi, soprattutto marinari e politici. Se teniamo conto che i titoli dei governanti cambiavano di città in città e di tempo in tempo, è ammirabile la correttezza con cui Luca li utilizza. Al centro della scena c’è Paolo, attorniato da tanti comprimari umani ma soprattutto spalleggiato dal vero protagonista, lo Spirito Santo.

Dopo aver sistemato le coordinate di fondo nei capitoli precedenti, Luca ci permette di guardare come crescono le nuove comunità, con quali attenzioni, interessi e conseguenze.

Nuovi collaboratori (At 16,1-5)

A colpirci è innanzitutto il fatto che persino Paolo non si muove mai da solo. Nonostante le tensioni con Barnaba sulla composizione della squadra (At 15,38-39), Paolo non parte da solo, ma con Sila, importante membro della comunità di Antiochia (At 15,22), per informare delle decisioni prese a Gerusalemme circa la circoncisione le chiese già fondate, per vagliarne lo stato di salute, e per procedere oltre. Attraversano la Siria, la cui capitale era Antiochia, poi la Cilicia, ossia la regione di Tarso, e da lì raggiungono Derbe e Listra. Nel primo viaggio (At 14,6-20) queste città sono state evangelizzate in ordine inverso, ma stavolta si decide di affrontare il più frequentato ma impegnativo passo delle Porte di Cilicia, alle spalle di Tarso.

Sembra essere a Listra che Paolo incontra Timoteo, suo fondamentale collaboratore da adesso in poi (cfr. At 18,5; 19,22; 20,4; e, nelle lettere, Rom 16,21; 1 Cor 4,17; 2 Cor 1,19; Fil 2,19, e altri passi ancora; non è un caso che due delle tre lettere «pastorali» siano indirizzate a lui).

Il caso di Timoteo è interessante. È figlio di una ebrea e di un «greco» (ossia, non ebreo) e, secondo la legge ebraica di allora, nel caso di matrimoni misti il figlio di una madre ebrea è ebreo e deve essere circonciso all’ottavo giorno, mentre nel caso inverso, di madre «gentile», si consiglia di attendere l’età adulta del figlio, perché sia lui a scegliere. Se deciderà di essere circonciso, dovrà rispettare la legge mosaica. Per Timoteo però questa norma non era rispettata: egli infatti era un ebreo, ma non circonciso. A sorpresa, è Paolo a decidere di farlo circoncidere.

Sembrerebbe paradossale: Paolo si era scontrato con la chiesa di Gerusalemme che pretendeva che i «greci» per diventare cristiani dovessero prima diventare ebrei (At 15,2), ma, nel caso di Timoteo, sembra quasi smentire se stesso. La ragione è spiegata da Luca stesso: «A motivo dei giudei che si trovavano in quelle regioni» (At 16,2). A muovere l’agire di Paolo, evidentemente, non sono i diritti o le leggi, come dirà in modo esplicito anche ai Corinzi, anni dopo (cfr. 1 Cor 8,13). Sa bene che la circoncisione non è indispensabile, ma sa anche che sull’incirconcisione di Timoteo si potrebbe concentrare una polemica che distoglierebbe l’attenzione dal Vangelo di Gesù. «Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,19-22).  Al centro, per lui, ci sono comunque le persone e il Vangelo.

Un viaggio tormentato (At 16,6-10)

Dove stanno andando i quattro evangelizzatori (Paolo, Sila, Timoteo e Luca, che si è unito al gruppo, come si capisce dal fatto che nel racconto passa dal «loro» a «noi»)? L’impressione è che non lo sappiano.

Dopo aver toccato anche Iconio, ultima delle comunità fondate nel primo viaggio (At 13,51-14,6), il gruppo attraversa la Frigia e la Galazia con l’intento di scendere verso la regione dell’Asia, zona ricchissima di gente e di collegamenti, ma non ci riescono (anche più avanti Luca dirà che non riusciranno ad andare in un’altra zona dove avrebbero voluto, la Bitinia, meno popolata ma altrettanto strategica).

Perché non ci riescono ad andare nella regione dell’Asia dove c’è Efeso? Non lo sappiamo: può darsi che trovino le strade bloccate, o che si siano uniti a carovane che non sono dirette là, o che Paolo si ammali (è di questo che scrive in Gal 4,13-14? Non sappiamo), o che qualcuno abbia mosso obiezioni. Quello che Luca ci suggerisce è che il gruppo ha un progetto, e che è costretto a modificarlo. Anziché prendersela con la sorte, accolgono l’impedimento come suggerimento dello Spirito.

Il suggerimento dello Spirito a un certo punto arriva anche in una «visione», strumento che a noi non sembra affidabile o credibile, ma che per gli uomini di quel tempo evidentemente era un modo con cui Dio poteva parlare. È comunque significativo che anche questo suggerimento, che parrebbe abbastanza deciso, debba essere accolto e ragionato: «Ritenendo che Dio ci avesse chiamati…».

Non c’è mai, negli Atti, uno Spirito Santo che tratti i credenti come burattini. Impedisce e suggerisce, ma gli uomini sono collaboratori a tutti gli effetti, e devono acconsentire o muovere obiezioni. Infatti, più avanti quando verranno scacciati da Tessalonica, non proseguiranno lungo la via Egnazia, verso la Macedonia, dove parevano indirizzati (At 16,9-10), ma scenderanno a Sud.

In ogni caso, i discepoli interagiscono sempre da adulti con lo Spirito.

Filippi (At 16,12-40)

Il passaggio di Paolo e compagni a Filippi è fondamentale, per tante ragioni.

Intanto, sarà la comunità che darà a Paolo più soddisfazioni: tra le lettere paoline, l’unica scritta non per rispondere a problemi ma nel pieno del sollievo per le belle notizie che gli sono arrivate, è quella ai Filippesi (Fil 1,3-6), che tra l’altro lo avevano aiutato anche economicamente (Fil 4,15-16).

Poi, è la prima città in cui sappiamo che venga predicato il Vangelo al di fuori dell’Asia, e per di più si tratta di una colonia romana. Decisamente Cristo ha passato anche questa frontiera culturale.

Inoltre, la missione si apre sotto splendidi auspici. Al primo sabato passato in città, infatti, i quattro evangelizzatori cercano il luogo dove potrebbe essersi radunata la comunità ebraica. Come al solito, Paolo vuole annunciare innanzitutto agli Ebrei (At 13,46). A Filippi gli Ebrei però sono pochi e non hanno una sinagoga, quindi si radunano sulle rive di un fiume, per poter procedere alle abluzioni prima e dopo la preghiera. In luoghi del genere era ancora più facile che arrivassero non solo gli Ebrei veri e propri, ma anche dei simpatizzanti che potevano così sentir parlare della Bibbia.

Lidia e le altre donne

Tra questi c’è Lidia (At 16,14). Si tratta di una commerciante di prodotti di pregio, come la porpora che era un colorante preziosissimo. Anche se in realtà può darsi che non si trattasse della porpora ma di tessuti colorati con la porpora, e magari non quella più costosa della Fenicia ma il tipo più economico dell’Asia (prodotta intorno a Tiatira, di cui si dice che Lidia è originaria). Colorante o tessuti, era comunque un commercio di lusso. Lidia non solo si converte e viene battezzata seduta stante, ma «costringe» i missionari a lasciarsi ospitare in casa sua. Potrebbe stupirci tanta autonomia e libertà in una donna dell’antichità, e a ragione. Ma Lidia è una commerciante. Le figlie di commercianti di successo erano tra le poche donne che, se non avevano fratelli e magari non si sposavano (o restavano vedove presto), potevano aspirare a una certa autonomia di movimento ed economica, perché si sarebbero trovate a gestire la ditta di famiglia.

Non erano figure diffusissime, ma neppure troppo rare. Nelle prime comunità paoline troviamo diverse donne del genere, molto indipendenti: Cloe citata in 1 Cor 1,11 doveva probabilmente essere una commerciante come Lidia, e altrettanta importanza avrà Priscilla, moglie di Aquila (la conosceremo al capitolo 18 di Atti). E sarà una donna, Febe, a portare nella capitale dell’impero la delicatissima e complessa lettera di Paolo ai Romani (Rom 16,1-2: in quel tempo, chi portava delle missive doveva anche leggerle e spiegarle: evidentemente Febe non era una sprovveduta e l’autore se ne fidava). Anche se Paolo viene accusato di misoginia per un paio di passi delle sue lettere sicuramente mal riusciti, nelle sue comunità le donne godevano di importanza e rispetto. Poteva essere anche questo uno dei motivi dell’attrazione che il cristianesimo esercitava su persone che sapevano di valere molto, ma non erano valorizzate dalla società in cui vivevano.

Frustati per Cristo

A Filippi, poi, succede un episodio significativo. In tutte le città attraversate da Paolo accade qualcosa che respinge altrove gli evangelizzatori. A Filippi il problema è una serva che si riteneva fosse posseduta dallo spirito di Apollo, tanto da pronunciare oracoli che i suoi padroni vendevano. Paolo, mostrando poca pazienza (gli accadrà ancora… la Bibbia sa riconoscere i difetti dei suoi eroi), si stufa di sentirsela profetizzare dietro… e la guarisce. O meglio, per i lettori di Atti si tratta di una guarigione, ma per i padroni della donna è un disastro che pone fine a una fonte di guadagno. Ancora una volta il messaggio cristiano interviene, magari anche solo per noia, a valorizzare l’umano contro l’economico, e a essere perseguitato per questo.

I missionari vengono frustati (non flagellati, la frusta è una pena meno severa) e incarcerati. A liberarli interviene un misterioso terremoto, abbastanza forte da rompere le catene ma non da far crollare la prigione o da essere percepito dai capi della città. Il carceriere, vedendo le celle aperte, se ne dispera, ma poi si accorge che le persone a lui affidate sono ancora lì: l’esito è il battesimo tanto suo quanto della sua famiglia (ancora vita e dignità donate dal messaggio di Cristo).

Al mattino i capi della città, probabilmente convinti di aver dato una lezione sufficiente a vagabondi non pericolosi, vogliono lasciare liberi i discepoli, limitandosi a scacciarli dalla città.

Era una misura abbastanza diffusa per chi era ritenuto inoffensivo ma era stato accusato di qualche disordine ed era forestiero. Paolo ha però quello che sembra uno scatto d’orgoglio: «Sono cittadino romano, non me ne andrò senza le scuse». È la prima volta che sentiamo parlare negli Atti della sua cittadinanza, che gli concedeva molti privilegi, tra cui una protezione giuridica particolare. Coloro che lo hanno fatto frustare iniziano a sudare freddo: era lecito affibbiare una punizione senza processo, ma non a un cittadino romano. E chi avesse inflitto una pena ingiusta doveva subirla uguale. Eccoli allora arrivare al carcere a liberare personalmente, con molte scuse, i quattro discepoli. È davvero solo orgoglio, da parte di Paolo? Probabilmente no. È possibile che la sua scenata riabilitasse pubblicamente anche coloro che avevano creduto al suo annuncio, che non potranno quindi essere perseguitati alla leggera.

Altre tribolazioni

Le persecuzioni, in realtà, non finiscono. A Tessalonica sono alcuni ebrei a sobillare la città, prendendosela con colui che ospita Paolo e compagni (At 17,1-8), i quali sono costretti a ripartire, per Berea, dove fanno altri discepoli pronti anche, opportunamente, a controllare che le prove bibliche portate siano corrette (At 17,11). Quindi Paolo approda ad Atene (At 17,15), la grande capitale della cultura greca, anche se ormai decaduta.

Angelo Fracchia
(15-continua)




I virus e noi, convivenza inevitabile

testo di Rosanna Novara Topino |


Questa pandemia ha portato morti, malati, crisi generalizzate. E non è finita. Viste le caratteristiche del virus Sars-CoV-2, è meglio infatti non illuderci: un vaccino non pare dietro l’angolo.

Come se non fosse cambiato alcunché rispetto alle grandi epidemie del passato, e nonostante i traguardi raggiunti in campo medico, dall’inizio del 2020 il mondo si trova a fare i conti con una nuova pandemia di vaste proporzioni. Si chiama Covid-19, dove «Co» sta per corona, «vi», per virus, «d» per disease (malattia) e «19» per l’anno della prima manifestazione. È causata da un ceppo di coronavirus finora sconosciuto.

Quest’ultimo è stato inizialmente indicato come 2019-nCoV in quanto identificato il 31 dicembre 2019 nei campioni di lavaggio broncoalveolare di un paziente affetto da polmonite a eziologia sconosciuta nell’ospedale Jinyintan di Wuhan, nella regione dell’Hubei, in Cina. Successivamente, è stato però rinominato Sars-CoV-2, dopo che è stata rilevata una omologia di circa il 79,5% tra la sua sequenza genetica e quella del coronavirus che, tra il 2002 e il 2003, causò la epidemia di Sars (Severe acute respiratory syndrome).

In particolare, il nuovo coronavirus è classificato nel sottogenere Betacoronavirus Sarbecoronavirus. Oltre al già citato virus della Sars, il Sars-CoV, alla stessa famiglia appartiene anche il Mers-CoV, il responsabile della Mers (Middle east respiratory syndrome), che si verificò tra il 2012 e il 2015 in Medio Oriente.

I coronavirus sono una famiglia di virus, i cui primi esemplari vennero identificati a metà degli anni ’60 del secolo scorso e alcuni di questi, gli Alphacoronavirus, possono dare i comuni raffreddori, così come anche gravi infezioni del tratto respiratorio inferiore. Tali virus, oltre all’uomo, possono infettare alcuni animali tra cui uccelli e mammiferi, e hanno come cellule bersaglio primarie le cellule endoteliali dei vasi, causando un’infiammazione vascolare sistemica, e le cellule epiteliali degli apparati respiratorio e gastrointestinale.

Il «salto di specie»

La comparsa di questo, come di altri nuovi virus patogeni per l’uomo, presenti inizialmente solo negli animali è dovuta a un fenomeno noto come «spillover» o «salto di specie». Nel caso del Sars-CoV-2 c’è un’omologia del 96,2% con un coronavirus simile a quello della Sars, presente nel pipistrello a ferro di cavallo (BatCoV RaTG13). Questa omologia ci induce a pensare che tale pipistrello sia il principale serbatoio del virus. Si tratta, quindi, di una «zoonosi». Solitamente, il passaggio di un virus all’uomo da un animale serbatoio è favorito da un ospite di amplificazione, cioè un altro animale: nel caso della Sars è stato la civetta delle palme (non è il piccolo rapace da noi conosciuto, ma lo zibetto o mustang); nel caso della Mers è stato il cammello; nel caso della febbre emorragica di Marburg sono state le scimmie verdi importate dall’Uganda per una fabbrica di vaccini a Marburg in Germania. Nel caso dell’attuale coronavirus non è ancora stato identificato l’ospite intermedio anche se sono state fatte ipotesi relative a qualche specie di serpente, al pangolino o ai cani randagi. Il salto di specie tra animali, e da questi all’uomo, è frutto di mutazioni e adattamenti virali alla specie ospite favoriti dal tipo di genoma virale, cioè l’Rna. I virus a Rna – come i coronavirus, i filovirus dell’Ebola, i paramixovirus come Hendra e Nipah (rispettivamente agenti eziologici di una grave sindrome respiratoria soprattutto equina in Australia nel ’94 e di una forma di encefalite in Malesia nel ’98) – presentano mutazioni genetiche molto più frequentemente dei virus a Dna – come, per fare qualche esempio, l’Herpes virus o il Papilloma virus o quello del vaiolo (Poxvirus) -. I virus a Rna non possiedono, infatti, un efficiente sistema enzimatico di riparazione delle mutazioni, a differenza di quelli a Dna, che risultano molto più stabili.

Questo comporta due cose: i virus come i coronavirus sono molto più capaci di adattarsi a nuovi ospiti, tra cui l’uomo, ed è molto più difficile produrre un vaccino efficace nei loro confronti, perché le mutazioni genetiche del loro Rna si traducono in variazioni degli antigeni di superficie, verso i quali sono spesso diretti gli anticorpi stimolati dai vaccini. Per produrre un vaccino efficace contro questi virus diventa pertanto necessario riuscire a individuare al loro interno qualche molecola che risulti stabile nel tempo. Questa è la difficoltà incontrata nella produzione di vaccini efficaci a lungo termine per l’Aids e l’influenza, patologie provocate anch’esse da virus a Rna frequentemente mutanti. Quindi, l’attesa di un vaccino contro l’attuale pandemia sarà lunga, soprattutto in considerazione del fatto che non esiste ancora un vaccino nemmeno per la Sars del 2003.

Tampone per Covid-19. Autore: Prachatai.

La tramissione del virus

Il coronavirus dell’attuale pandemia, come già quello della Sars, si trasmette da uomo a uomo in tre diversi modi:

⚫︎ per via aerea, per mezzo di gocce di saliva (Flügge’s droplets) e dell’aerosol delle secrezioni delle vie aeree superiori, soprattutto in caso di tosse o starnuto, ma anche durante una conversazione tra persone vicine meno di 1,8 metri, che viene perciò indicata come distanza minima di sicurezza;

⚫︎ per contatto diretto ravvicinato, cioè con la stretta di mano, toccandosi successivamente occhi, naso e bocca con le mani; c’è, inoltre, la possibilità di contagiarsi toccando oggetti contaminati, che possono risultare tali fino a 48 ore nel caso dell’acciaio e 72 nel caso della plastica; secondo uno studio dell’Istituto superiore di sanità, la sopravvivenza del virus nell’ambiente dipende dalla temperatura e sarebbe di circa un giorno a 37°C, mentre potrebbe arrivare ad una settimana a 22°C;

⚫︎ per via oro-fecale; nei pazienti cinesi, una ricerca ha dimostrato una maggiore positività nei tamponi anali, rispetto a quelli orali in una fase tardiva dell’infezione, quindi si può pensare anche a questa via d’infezione; il virus, del resto, è stato trovato nelle fogne di Roma, Milano e Parigi.

Finora è stata esclusa la via di trasmissione materno-fetale e si pensa che i neonati positivi al virus, nati da madri positive, lo siano diventati solo dopo la nascita, per contatto diretto con la madre.

È stata recentemente rilevata la presenza del virus nel liquido lacrimale, del resto uno dei sintomi della Covid-19 è la presenza di congiuntivite, quindi questa potrebbe essere una fonte d’infezione.

Si pensa che il periodo d’incubazione sia variabile tra 2 e 14 giorni, con una media di 5 giorni. Le persone positive possono già trasmettere il virus nel periodo di incubazione, in assenza di sintomi.

I sintomi dell’infezione

Per quanto riguarda le manifestazioni dell’infezione, si va da quelle meno gravi, che indicano un interessamento delle alte vie respiratorie (febbre, tosse, cefalea, mal di gola, raffreddore, difficoltà respiratorie, perdita del gusto e dell’olfatto, diarrea, malessere generale per un breve periodo di tempo), a quelle più gravi, con interessamento delle basse vie respiratorie (come polmonite o broncopolmonite, sindrome respiratoria acuta grave, insufficienza renale, meningoencefalite, problematiche cardiovascolari, tromboembolia generalizzata e polmonare in particolare, ictus, a seguito di alterazioni nella coagulazione del sangue come conseguenza di una eccessiva risposta infiammatoria da parte dell’organismo indotta dal virus, e infine morte).

Secondo le osservazioni condotte finora, l’80% circa della popolazione colpita dal virus risulta asintomatica o paucisintomatica (cioè senza o con pochi sintomi), mentre il 15% presenta una più grave sintomatologia con necessità di cure intensive con somministrazione di ossigeno e il 5% raggiunge uno stadio critico, che comporta la ventilazione polmonare. Va detto che molte delle persone risultate positive ma asintomatiche al momento del test, hanno successivamente sviluppato i sintomi della malattia.

Il tasso di letalità

Per quanto riguarda il tasso di letalità, è molto difficile dare un valore attendibile in corso di pandemia in quanto, finché non sarà terminata, non si può conoscere il totale delle morti causate dal virus. I numeri attualmente oscillano tra il 2 e il 5,7% dei positivi. Una delle principali difficoltà risiede nel fatto che molte morti per coronavirus non sono state finora prese in considerazione, perché avvenute in residenze per anziani (le cosiddette Rsa) dove ai pazienti non è stato fatto il tampone per accertare la positività al virus, nonostante i sintomi, a differenza delle persone ricoverate in strutture ospedaliere. Anche in quest’ultime peraltro si sono riscontrate delle morti di persone non testate per il coronavirus, ma con sintomatologia compatibile. Ciò di cui ci si sta rendendo conto, tardivamente purtroppo e in seguito a diverse indagini in corso da parte della magistratura italiana, è che la metà delle morti sono avvenute nelle case di riposo (fenomeno riscontrato anche nel resto d’Europa) e, secondo l’Istat, il numero dei decessi nei mesi di marzo e aprile in Italia sarebbe superiore di 10mila unità rispetto ai dati diffusi dalla Protezione civile, che al 14 maggio 2020 si attestano a 31.368 unità.

Facendo un paragone con la Sars e la Mers, sembrerebbe che la Covid-19 sia più infettiva, ma meno letale, dal momento che la Sars ebbe un tasso di letalità del 9,6% e la Mers del 34,4%.

Rosanna Novara Topino
(fine prima parte)

L’infografica mostra quando nasce e come si sviluppa una pandemia. Autore: Arimaslab per WWF Italia, 2020.


Dove, cosa, perché

La pandemia da Covid-19 causata dal virus Sars-CoV-2 si è manifestata per la prima volta in Cina, probabilmente nel mese di novembre 2019, diffondendosi poi in quasi tutti i paesi del mondo. In Italia, dopo due mesi in cui soprattutto le regioni del Nord sono state duramente colpite, si contano a decine di migliaia i morti e i malati. Da maggio si sta faticosamente passando da una prima fase di chiusura generalizzata, il cosiddetto «lockdown», ad una seconda fase di graduale ripresa delle attività. Tuttavia, non ci siamo ancora lasciati alle spalle la possibilità di contagio e gli ospedali sono ancora pieni. Ne scrivo in questo e in due successivi articoli, cercando di descrivere le principali caratteristiche del nuovo coronavirus responsabile di questo dramma.

(R.N.T.(

Nome e caratteristiche

Esterno e interno dei coronavirus

Si chiamano coronavirus per via del loro aspetto. Si tratta infatti di particelle sferiche sormontate da una specie di corona formata dall’insieme di proteine superficiali a forma di spuntone, o spike, come vengono chiamate. In realtà, ogni spuntone è un trimero formato da tre glicoproteine S, che si legano specificamente al recettore Ace2 (Angiotensin converting enzyme 2) presente sulle cellule endoteliali dei vasi sanguigni dei polmoni, dei reni, dell’intestino, del cuore e di altri organi, tra cui l’encefalo, l’esofago e il fegato. Il virus presenta un rivestimento o envelope, costituito da una membrana ereditata dalla cellula ospite dopo averla infettata. Oltre alla proteina spike, che fuoriesce dal rivestimento e forma la corona, il virus presenta la proteina M, che attraversa il rivestimento ed interagisce all’interno del virione con il complesso Rna-proteina. C’è poi il dimero emoagglutinina-esterasi (He), sempre nel rivestimento virale e con una importante funzione nel rilascio del virus all’interno della cellula ospite. Un’altra proteina virale, la E, aiuta la glicoproteina S, e perciò il virus, a legarsi al recettore Ace2 della cellula bersaglio. All’interno del virus si trova il suo genoma costituito da un singolo filamento di Rna a polarità positiva, delle dimensioni comprese tra 27 e 32 kb (chilobase), tra i più grandi conosciuti, che codifica per sette proteine virali ed è associato alla proteina N, la quale ne aumenta la stabilità. Il coronavirus possiede, inoltre, un enzima responsabile della sua moltiplicazione, la polimerasi nsp 12, contro la quale sembra funzionare il «Remdesivir», un farmaco antivirale nato per la cura dell’Ebola.

(R.N.T.)

I serbatoi dei virus zoonotici

Non è colpa di un pipistrello

I pipistrelli o chirotteri, che peraltro sono utilissimi al genere umano come insettivori (soprattutto nel contenimento della malaria, cibandosi in primis di zanzare), come impollinatori e per il loro guano altamente fertilizzante, purtroppo sono il principale serbatoio di virus, seguiti da primati e roditori. Essi sono presenti sulla Terra da molto prima dell’uomo. Comparvero più o meno tra 65 e 55 milioni di anni fa, quando i virus erano già presenti, mentre i primi ominidi si staccarono dalla linea evolutiva del gorilla solo 8 milioni di anni fa e 5 da quella dello scimpanzé, quindi i pipistrelli hanno avuto molto più tempo per adattarsi ai virus. Questo li ha portati a una sorta di tolleranza immunitaria, una specie di permeabilità virale. Oltretutto sono animali molto sociali (nello stesso sito possono esserci milioni di individui), rappresentano circa un quarto di tutti i mammiferi, con 1.116 specie conosciute, e sono caratterizzati dal volo, che consente loro di portare e contrarre virus su aree molto estese. I virus zoonotici portati dai pipistrelli sono maggiormente diffusi in alcune regioni asiatiche e nell’America centro-meridionale, mentre quelli portati dai primati sono tipici dell’America centrale, dell’Africa e del Sud-est asiatico e quelli trasmessi dai roditori sono principalmente distribuiti in certe aree dell’America del Nord e del Sud e dell’Africa centrale.

(R.N.T.)

L’infografica mostra i passaggi del Coronavirus dagli animali all’uomo; evidenziati in rosso, ci sono i tre virus più importanti. Autore: MDPI, Basel, 2020.




La sanità pubblica ai tempi del coronavirus

testo di Francesco Gesualdi |


Forse adesso abbiamo imparato che la sanità pubblica non è uno spreco come politici ed economisti volevano farci credere. Per capirlo meglio, confrontiamo i sistemi sanitari degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dell’Italia (con un occhio critico sulla Lombardia).

Più pubblico, meno privato

Nella puntata di maggio di questa rubrica, abbiamo iniziato a descrivere le conseguenze economiche dell’arrivo del nuovo coronavirus sulla vita delle persone. Abbiamo parlato del nuovo ruolo che lo stato dovrebbe avere (o riavere) nell’economia. In questa puntata, vedremo quanto un efficiente sistema sanitario pubblico (di tutti e per tutti) sia indispensabile. (F.G.)

L’aggressività del coronavirus e il numero di persone che ha  avuto bisogno di cure ospedaliere fino ai limiti più estremi, dove il confine fra la vita e la morte si fa incerto, ci hanno fatto riscoprire il valore della sanità. L’importanza cioè di quell’insieme di persone e strutture che ci permettono di riparare i danni provocati da agenti infettivi (come i virus) e da malattie in genere, per tornare alla pienezza della nostra vita. In una parola ci hanno fatto riscoprire il valore di quella sanità pubblica (cioè di tutti i cittadini) che, in tempi normali, non teniamo nella dovuta considerazione. Anzi, tendiamo a vedere come uno spreco da ridimensionare.

Interpretare i parametri

È successo anche in Italia dove la spesa sanitaria da parte delle strutture pubbliche è passata dal 7,1% del Pil nel 2009 al 6,5% nel 2018. Il dato è fornito dall’Osservatorio conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano, ed è stato calcolato in termini reali, ossia mantenendo fermo il livello dei prezzi.

Stando alle statistiche internazionali, l’Italia non si trova ai primissimi posti per spesa sanitaria, ma la statistica è una materia sofisticata che, a seconda dei dati prescelti, può darci informazioni molto diverse fra loro, talvolta fino a confonderci. Gli indicatori riguardanti la sanità sono un caso di scuola. Uno dei parametri abitualmente utilizzati per capire quanta importanza si dà alla sanità è la spesa sanitaria totale in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil). Da questo punto di vista all’avanguardia troviamo gli Stati Uniti, che nel 2018 hanno registrato una spesa sanitaria totale pari al 16,9% del Pil. Otto punti percentuale in più dell’Italia la cui spesa sanitaria complessiva è stata pari all’8,8% del Pil. Un dato che, a prima vista, potrebbe indurci a credere che gli Stati Uniti siano il paese con la maggiore attenzione per la salute al mondo. La spesa sanitaria indica però quanti soldi sono stati spesi per le cure mediche senza precisare né la destinazione, né i beneficiari. Ad esempio, sappiamo che gli Stati Uniti sono un paese altamente disuguale, poco propenso alla solidarietà collettiva. Per cui quel 17% potrebbe nascondere un alto numero di interventi di chirurgia plastica comprati dai più ricchi, mentre i più poveri non riescono a curarsi neanche un’appendicite. Il dato che ci dice quanto un paese sia attento alla salute di tutti è la spesa pubblica dedicata alla sanità, ed ecco che se concentriamo l’attenzione solo su questa voce, gli Stati Uniti scendono al 5,3%. E, tuttavia, anche rispetto all’idea di sanità pubblica ci sono idee molto diverse.

Mascherine anche per le statue di Sheffield, in Inghilterra. Foto: Tim Dennell.

Costi e profittI

Il problema della sanità è il suo costo che, con l’andare del tempo, si è fatto sempre più alto, non tanto per le medicine e gli onorari dei professionisti, quanto per le attrezzature che giocano un ruolo sempre più decisivo con l’evolversi della tecnologia. Per cui è sempre stato chiaro nella testa di tutti che la sanità è una spesa che non conviene affrontare da soli, ma assieme agli altri. L’alleanza è però un concetto che non trova spazio nelle logiche di mercato, per definizione individualista e competitivo. Tuttavia, il capitalismo non fa mai troppo lo schizzinoso e non esita a passare sopra ai propri fondamenti culturali se questi sono di ostacolo agli affari. È stato proprio osservando le soluzioni adottate dal movimento operaio che il mondo degli affari ha capito come trasformarsi in imprenditore dell’alleanza. Ai primordi della rivoluzione industriale, i salari erano così bassi da non permettere ai lavoratori nemmeno di dare sepoltura ai propri cari. Il che indusse a individuare nella mutualità la soluzione per affrontare i gravi problemi della vita. Operai di una stessa città, di una stessa categoria, versavano un tanto al mese in un fondo comune, acquisendo così il diritto di essere soccorsi in caso di necessità. Nascevano le società di mutuo soccorso, talune orientate anche al sostegno scolastico, ma principalmente create per dare assistenza in caso di malattia, invalidità, infortunio, disoccupazione e anche vecchiaia. Esperienze basate sul principio assicurativo che diedero luogo a due importanti sviluppi: l’uno in ambito privato, l’altro in ambito pubblico. In ambito privato diedero impulso alle assicurazioni previdenziali, società per azioni che, al pari delle società di mutuo soccorso assicurano contro malattia, infortuni, morte, vecchiaia, con la differenza che il vero obiettivo è garantire profitto agli azionisti. Quindi, premi e indennizzi sono calcolati in modo da lasciare sempre un margine di guadagno per i proprietari.

Le Assicurazioni sanitarie

A questo filone di attività appartengono le assicurazioni sulla vita, i fondi pensione e anche le assicurazioni sanitarie che, pur essendosi sviluppate ovunque, hanno trovato terreno particolarmente fertile oltre Atlantico dove la mentalità mercantile è più radicata. Negli Stati Uniti, il sistema sanitario si regge di fatto sul sistema assicurativo per il 50% pubblico e il 50% privato, laddove la parte pubblica è ulteriormente suddivisibile in due porzioni: 36% finanziata dal sistema fiscale per prestazioni a favore di anziani e incapienti, 14% finanziata dai prelievi sugli stipendi dei dipendenti pubblici per prestazioni sanitarie a loro favore. Ogni forma assicurativa garantisce prestazioni diversificate. Nel caso di chi gode dell’assicurazione sociale, i limiti sono fissati dalla legge. Per tutti gli altri sono fissati dall’ammontare dei premi pagati. In definitiva, in caso di necessità di cure, la probabilità di dover compartecipare alla spesa farmaceutica o ospedaliera è molto alta per ogni tipo di assicurato: sia esso iscritto all’assicurazione pubblica o cliente dell’assicurazione privata.

Questa intricata rete assistenziale rende l’impalcatura sanitaria statunitense molto complicata con la contemporanea presenza di enti pubblici, come Medicare e Medicaid, e di società assicurative dai più vari connotati. Analoga complicazione si trova anche nell’ambito degli ospedali e di tutte le altre strutture che forniscono servizi sanitari. Pochi ospedali statali al servizio degli assistiti dagli enti pubblici convivono con una pletora di ospedali privati, alcuni posseduti da enti caritatevoli,   la maggior parte da società per azioni. In ambito assicurativo, dieci società, fra cui United Health Group, Kaiser Foundation, Anthem, Humana, si aggiudicano il 50% dei premi assicurativi di tipo sanitario. In ambito ospedaliero, l’operatore più grande è Hospital Corporation of America, che possiede 185 ospedali e 2mila cliniche con un fatturato annuo di 28 miliardi di dollari e 190mila dipendenti. Gli ospedali ricevono i loro compensi dalle assicurazioni e dai diretti interessati se la prestazione fornita va oltre la copertura assicurativa. Secondo l’organizzazione non profit Fair Health, il coronavirus potrebbe fare arrivare a migliaia di ospedalizzati conti salatissimi in base alla loro posizione assicurativa: da 40 a 75mila dollari se totalmente scoperti e da 20 a 38mila dollari se coperti da polizze di bassa entità.

La nascita del Sistema  sanitario nazionale

Fino al 1978 anche in Italia l’assistenza sanitaria era gestita su base assicurativa, ma da parte dello stato. In pratica, ogni lavoratore era obbligato a versare una percentuale del proprio stipendio a una specifica cassa statale che assicurava la sanità ai partecipanti. La più importante era l’Inam – Istituto nazionale assistenza malattie – a favore dei lavoratori dipendenti. Il limite del sistema era che forniva assistenza solo a chi partecipava ai versamenti, mentre escludeva tutti gli altri. Il che contrastava con il dettato dell’articolo 32 della Costituzione secondo il quale la Repubblica deve tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo. Per definizione, i diritti appartengono a tutti e sono indipendenti dalle condizioni personali di ricchezza, sesso, età. Lo spirito della Costituzione venne attuato nel 1978 tramite l’introduzione del Servizio sanitario nazionale concepito come servizio universale e gratuito, finanziato attraverso la fiscalità generale. Dotato di tutti i servizi, dagli ospedali agli ambulatori territoriali, il servizio sanitario italiano è ritenuto uno dei migliori al mondo, ma alcuni segnali fanno temere per la sua integrità. Fra essi il restringimento dei farmaci a carico del servizio sanitario nazionale, l’introduzione dei ticket sulle prestazioni diagnostiche, le lunghe liste di attesa per visite, esami ed interventi che spingono le famiglie più abbienti a rivolgersi alle strutture private, che non sono scomparse.

La Lombardia  e la sanità di mercato

In alcune regioni, ad esempio la Lombardia, c’è (o c’è stata) la tendenza ad accrescere il numero di convenzioni che abilitano le strutture private ad erogare servizi per conto del Servizio sanitario nazionale. Nel 2017, ad esempio, le strutture private lombarde hanno assorbito il 35% dei ricoveri ordinari e il 40% del denaro messo a bilancio per questo scopo dal servizio sanitario della regione.

Segnali preoccupanti che denotano una graduale demolizione del servizio pubblico a favore della sanità di mercato, anche perché è un fenomeno che sta avvenendo anche in altri paesi. Tipico il caso della Gran Bretagna dove il servizio sanitario universale esiste dal 1948 e subito venne amato dagli inglesi. Negli anni Ottanta del secolo scorso subì però una prima incrinatura quando Margaret
Thatcher decretò la possibilità di esternalizzare a imprese private servizi specifici come pulizie, mense, lavanderie, sterilizzazione. Nel 2000 la crepa si approfondì ulteriormente con la decisione, questa volta da parte del  governo laburista di Blair, di poter appaltare a società private anche mansioni di più diretta pertinenza sanitaria come indagini di laboratorio e piccoli interventi chirurgici. Ma la definitiva apertura ai privati è stata decretata dalla riforma approvata nel 2012 che spinge ulteriormente il Servizio sanitario nazionale verso il mercato attraverso due meccanismi principali: la possibilità per ogni cittadino di scegliere lui a quale struttura rivolgersi, sia essa privata o pubblica, per ottenere la prestazione specialistica pagata dal Servizio sanitario nazionale e la possibilità per quest’ultimo di appaltare l’assistenza ospedaliera alle strutture private in base al criterio monetario. Uno dei settori a maggior coinvolgimento privato è quello psichiatrico. Secondo un’indagine condotta dal Financial Times, a Bristol il 95% dei posti letto dedicati ai pazienti psichiatrici sono in strutture private, prevalentemente società statunitensi quotate in borsa quali Acadia Healthcare e Universal Health Service. Nel novembre scorso, durante la campagna elettorale, il Partito laburista sosteneva di avere documenti comprovanti l’intenzione dei conservatori di uscire dall’Unione europea anche per consentire alle imprese sanitarie statunitensi di penetrare ulteriormente sul suolo inglese.

In Italia, gli ospedali hanno fatto il massimo per curare i malati da coronavirus, ma i momenti di difficoltà che hanno vissuto debbono indurci a impegnarci sempre di più per rafforzare la nostra sanità pubblica al servizio di tutti.

Francesco Gesualdi




Tondo Manila,

la porta dell’inferno sulla terra

testo e foto di Daniele Romeo |


«Vivere in una discarica, nelle Filippine, è più divertente». Sembra lo slogan di una pubblicità. In realtà è una frase sarcastica popolare tra le migliaia di persone che vivono a Manila in mezzo alla spazzatura. Vivere all’aperto, allevare animali, bambini che giocano e corrono a piedi nudi. Un sogno per molte famiglie. La gente a Tondo Manila ha tutto questo, ma non nel modo in cui lo possiamo immaginare noi nel nostro mondo.

Manila conta 14 milioni di abitanti ed è apparentemente sicura. La polizia presidia tutti i punti nevralgici di una città dove le disuguaglianze sono tangibili ad ogni angolo. Quartieri ricchi e protetti nel perfetto stile delle grandi metropoli asiatiche. Periferie poverissime fatte di baraccopoli, come Tondo Manila, dove vivono gli oltre 4 milioni di squatters della città nella quale oltre il 50% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Privi delle minime condizioni igieniche, di acqua potabile e spesso anche di energia elettrica. In luoghi come Tondo anche il semplice rumore di una motocicletta fa scappare i bambini perché temono l’arrivo della polizia per arrestare o uccidere qualcuno che conoscono.

Qui decine di organizzazioni umanitarie cercano in tutti modi di salvare il crescente numero di bambini di strada che patiscono la fame quotidianamente. Tondo è il più grande distretto di Manila. Una delle aree più densamente popolate del mondo con circa 70mila abitanti per chilometro quadrato. È diventato tristemente famoso per una discarica chiamata Smokey Mountain.

È qui che operano i Missionari Canossiani nella parrocchia di San Paolo Apostolo. Padre Giovanni Gentilin e padre Allan Dizon sono le mie guide nel documentare le condizioni delle persone che vivono in questi luoghi che solo le immagini possono raccontare. Senza il supporto di padre Allan sarebbe impossibile accedere e addentrarsi in quello che sembra essere ancora oggi, nonostante il lavoro di bonifica da parte delle istituzioni, quanto di più vicino all’inferno sulla terra.

The Smokey Mountain

Smokey Mountain, fino a qualche tempo fa, era un mondo al di là di ogni nostra immaginazione. Era una gigantesca montagna di immondizia di circa 50 metri di altezza creata da oltre due milioni di tonnellate di rifiuti.

L’ambiente era proibitivo e inadatto alla vita degli esseri umani. Eppure, tra cumuli di spazzatura e sentieri fangosi che si facevano largo tra le baracche e le fognature a cielo aperto, c’erano scavengers, spazzini, uomini, donne e bambini, scavavano senza sosta con la speranza di trovare tesori da vendere. Aprivano uno a uno i sacchi di rifiuti provenienti dai fast food della città alla disperata ricerca di residui alimentari «integri», da pulire e bollire per essere rivenduti come pagpag alla stessa comunità.

Pagpag significa «scrollare di dosso» e si riferisce all’arte di rimuovere lo sporco e i vermi dal cibo raccolto prima di renderlo nuovamente presentabile per rivenderlo.

Smokey Mountain era diventato lo stigma di Manila tanto da costringere le autorità a spostare la popolazione in altre aree intorno. Il sito è stato ufficialmente chiuso e la discarica, oggi coperta di terra, sembra essere una collina verde, un’oasi in un contesto di cemento. L’area è stata ribattezzata Paradise Heights e vi sono state costruite molte unità abitative. Sulla collina, alcune famiglie vivono e coltivano frutta e verdure e allevano animali. Quasi idilliaco se non fosse per le pessime condizioni in cui versano.

Happyland

Chiusa la discarica di Smokey Mountain, gli scavengers sono finiti a «colonizzare» le discariche vicino al porto, costruite su terra strappata al mare e riempita di spazzatura compattata.

La baraccopoli più grande di Tondo si chiama Happyland, dalla parola locale hapilan che significa spazzatura puzzolente. Happyland è diventata la fotocopia di quello che era la Montagna fumante. Non si sa con certezza quante persone vivano in quest’area, riciclando rifiuti per 2 o 3 dollari al giorno.

Varie Ong private e internazionali lavorano nell’area e anche missionari. Mirano a migliorare le condizioni delle persone nei bassifondi di Happyland. Ma, come mi racconta padre Allan, essendoci migliaia di persone, il loro intervento sembra uno sforzo senza fine. Nonostante questo, i bambini in quelle strade sembrano felici. Corrono scalzi sul «morbido pavimento» fatto di rifiuti, cibo decomposto e persino ratti morti; giocano a nascondino e cercano di godersi l’infanzia. Hanno cani come animali domestici e guardiani, galline per la produzione di uova e carne, e galli da impegnare nei combattimenti (una passione nazionale). Questi bambini sono dei combattenti sin dalla nascita.

Daniele Romeo
www.iviaggididan.it

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Cooperazione e Covid-19, un primo punto sulla situazione

testo di Chiara Giovetti |


Il 5×1000, gli effetti sulle donazioni, le richieste del terzo settore al governo, le attività delle Ong in Italia e all’estero nel contrastare il Covid-19: una prima ricostruzione a tre mesi dall’inizio delle restrizioni.

Il 4 aprile 2020 l’Agenzia delle entrate ha pubblicato gli elenchi della destinazione del 5×1000 relativo all’anno fiscale 2018@. Gli 8.029 comuni e i quasi 57mila enti (volontariato, ricerca sanitaria e scientifica, associazioni sportive dilettantistiche, beni culturali e paesaggistici ed enti gestori delle aree protette) che partecipano alla ripartizione si divideranno un totale di 495 milioni di euro, secondo le scelte di 14.227.193 contribuenti che hanno optato per un’organizzazione o un ente precisi indicandone il codice fiscale, più altre 2.250.352 persone che hanno dato la preferenza soltanto alla categoria.

Circa tre scelte su quattro sono andate a enti del volontariato che sono in totale oltre 46 mila. Di questi, oltre 1.500 non hanno avuto nemmeno una firma e circa 2.500 riceveranno meno di cento euro: dal minimo di 1,47 euro del Consorzio sviluppo ambiente società cooperativa sociale di Roma, ai 99,94 euro dell’associazione il Sentiero onlus di Trento.

Al primo posto si conferma l’Airc, Associazione italiana per la ricerca sul cancro, alla quale le firme di quasi un milione e settecentomila contribuenti hanno portato 47 milioni di euro, che arrivano a 65 milioni totali per effetto della ripartizione proporzionale. Segue Emergency, con oltre 314mila firme e più di 11 milioni, in totale. Fino alla settima posizione, i beneficiari sono gli stessi dell’anno precedente, mentre all’ottavo e nono posto ci sono la Lega del Filo d’Oro e l’ospedale pediatrico Meyer di Firenze – che nel 2017 erano rispettivamente al nono e all’undicesimo posto -, mentre Unicef scende di due caselle collocandosi al decimo posto.

Al di là della posizione, se guardiamo gli importi raccolti dai primi dieci beneficiari, notiamo che le Ong Emergency, Medici Senza Frontiere e il Comitato italiano per l’Unicef, perdono complessivamente oltre 87mila preferenze e 3 milioni 250mila euro rispetto all’anno precedente.

Le difficoltà prima del Covid-19

Info-cooperazione, il blog di riferimento per chi opera nella cooperazione allo sviluppo, ha estratto dalla lista complessiva dell’Agenzia delle entrate i dati relativi a sessanta Ong@ per valutare meglio com’è andata per il settore, anche in prospettiva pluriennale. Il risultato dell’analisi è che le organizzazioni non governative prese in esame hanno ottenuto nel complesso circa 35 milioni di euro, ma solo 12 su sessanta hanno registrato un aumento rispetto all’anno precedente. La variazione fra il 2017 e il 2018 è negativa, con 88mila persone che hanno tolto la preferenza a queste Ong. Info-cooperazione propone una lettura abbastanza netta delle cause: «Inutile dire», si legge nell’articolo, «che uno dei fattori determinanti di questa flessione è la campagna mediatica e politica diffamatoria che le Ong stanno subendo da ormai tre anni. Il 2018 rappresenta sicuramente l’anno in cui lo scontro sulla questione migranti e salvataggi in mare ha toccato il suo apice».

Gli effetti della riduzione del sostegno popolare alle Ong avvenuta nel 2018 sono arrivati in un momento in cui la cooperazione allo sviluppo aveva già registrato un calo nei fondi messi a disposizione dalla legge di stabilità dell’anno precedente. Secondo una rielaborazione dei dati dell’Ocse realizzata dal network di Ong Cini e pubblicata dalla rivista Vita.it@, gli stanziamenti sono aumentati fra il 2015 e il 2017 ma la progressione si è fermata nel 2018. Secondo il Cini, nel 2019 l’aiuto si è svuotato ancora se si guarda alla composizione degli stanziamenti dell’Aiuto pubblico allo sviluppo italiano: dei circa 4,97 miliardi destinati nel 2019, oltre metà andavano al cosiddetto canale multilaterale, cioè servivano a onorare gli impegni presi dall’Italia con l’Unione Europea o con organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite e le sue agenzie per finanziarne programmi e interventi. Un terzo delle risorse andavano poi a quella parte di cooperazione bilaterale rappresentata dall’aiuto ai rifugiati in Italia e solo un 12% restava a disposizione di interventi di cooperazione allo sviluppo o di assistenza tecnica nei paesi partner.

L’arrivo del coronavirus e il Terzo Settore

Lo scorso 17 aprile l’Istituto italiano della Donazione ha diffuso i risultati di un primo monitoraggio dell’impatto della pandemia sulle donazioni di oltre 130 organizzazioni non profit nel primo trimestre 2020@. L’81% degli intervistati ha detto di ritenere che l’attuale emergenza abbia avuto un impatto sulle donazioni, mentre secondo il 9,5% non c’è stato nessun impatto e un altro 9,5% ha risposto di non saperlo ancora.

Fra chi ritiene che la raccolta fondi abbia subito modifiche a causa dell’emergenza, l’87,3% dice di aver ricevuto meno donazioni e il 12,7% di avere viceversa raccolto di più.

Guardando ai singoli settori, le organizzazioni che fanno cooperazione – circa il 15% del campione, cioè una ventina – hanno risposto di aver registrato un calo di donazioni nel 100% dei casi; le organizzazioni che si occupano di salute, sanità e ricerca hanno registrato una diminuzione dei fondi in nove casi su dieci, mentre una ogni dieci ha visto aumentare la raccolta. I dati sono simili per gli enti che lavorano nell’ambito dell’emarginazione, dell’assistenza e della cultura (91,90% di calo e 8,10% di aumento) mentre le fondazioni di comunità – cioè quegli enti non profit che nascono per rispondere a bisogni specifici di una comunità locale – sono decisamente in controtendenza: l’83,3% ha visto un incremento a fronte di un 16,7% che ha visto restringersi le proprie entrate per donazioni.

Sul totale del campione, a segnalare un calo del 100% è un po’ più di una su dieci organizzazioni interpellate, mentre un po’ meno di una su dieci riferisce una diminuzione dell’80%.

La conferenza stampa di presentazione del monitoraggio ha visto anche la diffusione di uno studio realizzato fra il 20 e il 24 marzo su un campione di 1.003 intervistati dall’istituto specializzato in sondaggi d’opinione Bva-Doxa, secondo il quale «il 24% della popolazione Italiana dichiara di avere fatto una donazione dall’avvio dell’emergenza coronavirus mirata all’ambito sanitario e ospedaliero».

Le richieste del Terzo Settore

Nel corso della stessa conferenza stampa Claudia Fiaschi, portavoce del Forum nazionale del Terzo settore, ha sottolineato come gli enti del terzo settore italiano abbiano dato prova, in questa emergenza, di una grande capacità di riadattarsi e di riorientare risorse e volontari sulle attività di contrasto alla epidemia e ai suoi effetti.

Tuttavia, ha continuato Fiaschi, il Terzo settore ha fatto tutto questo non senza difficoltà: «Chiaramente il Terzo settore è preoccupato. Arriveremo alla fine dell’emergenza con i serbatoi vuoti, perché quasi tutti gli enti lavoreranno senza flussi di donazioni. Avremo forse molti volontari, ma non è detto che avremo quelle organizzazioni che li organizzavano e ne rendevano così efficace ed efficiente l’impatto». Per questo la richiesta al governo è di prevedere anche per il Terzo settore tutto, non solo quello in forma di impresa sociale ma anche quello non commerciale, delle misure di sostegno al credito e alla liquidità.

L’anticipo dell’erogazione del 5×1000 è un’altra delle richieste avanzate dal Terzo settore nelle settimane successive alla diffusione del coronavirus Sars-Cov-2 e della malattia Covid-19. Diverse organizzazioni hanno infatti chiesto al governo di sborsare entro giugno non solo i fondi del 5×1000 relativi all’anno fiscale 2018 ma anche quelli del 2019, per un totale di circa un miliardo di euro già previsto nel bilancio dello stato.

Nell’iter finora seguito, infatti, il 5×1000 arriva nelle casse degli enti e organizzazioni beneficiarie due anni dopo rispetto a quando il contribuente ha fatto la propria scelta nella dichiarazione dei redditi (quindi nel 2020 arrivano i soldi del 2018). L’Agenzia delle entrate pubblica le liste dei beneficiari – quanto va a chi – di solito fra marzo e aprile e la liquidazione dei contributi arriva entro fine estate; ora le organizzazioni beneficiarie hanno chiesto e ottenuto di anticipare i tempi non solo per l’esborso dei fondi di quest’anno, ma anche dell’anno prossimo e per l’approvazione del decreto che riordini la disciplina del 5×1000 e ne snellisca appunto tempi e modalità di erogazione.

Che cosa stanno facendo le Ong

Diverse Ong di ambito sanitario si sono attivate per dare il proprio contributo alla lotta alla pandemia non solo nei paesi nei quali lavorano ma anche in Italia: solo per citarne alcune, Medici con l’Africa Cuamm che ha donato un respiratore e altra attrezzatura medica all’ospedale Covid di Schiavonia, in provincia di Padova@; Medici senza frontiere ha, fra le altre cose, contribuito alla messa in sicurezza di diverse Rsa delle Marche e messo a disposizione degli ospedali del lodigiano i propri team di medici per attività di formazione, telemedicina e prevenzione@ Emergency contribuisce con l’ospedale da campo a Bergamo e il progetto Domiciliarità all’interno di Milano Aiuta, rete di servizi – ad esempio il trasporto di beni di prima necessità per anziani o persone in quarantena – che il comune di Milano ha messo in piedi per affrontare l’emergenza.

Altre Ong sono invece impegnate in programmi di formazione, assistenza psicologica, facilitazione dello studio a distanza e altre attività nell’ambito sociale: l’Associazione delle Ong italiane (Aoi) ha raccolto sul proprio sito tutte le iniziative portate avanti in Italia e nel mondo dai propri soci@.

Anche nel mondo delle organizzazioni della cooperazione allo sviluppo c’è preoccupazione per la riduzione delle risorse: le reti di rappresentanza delle Ong (Aoi, Cini e Link 2007) hanno avanzato una serie di proposte@  dirette all’Agenzia italiana per la Cooperazione per garantire lo svolgimento dei progetti già in corso, come l’incremento fino al 30% dei contributi alle iniziative già approvate, e per sostenere le organizzazioni, ad esempio non richiedendo la quota di cofinanziamento dei progetti.

Le Ong stanno comunque tentando di usare questo momento per una riflessione sul proprio ruolo, come testimonia il dibattito in videoconferenza del 22 aprile 2020@ fra Monica Di Sisto dell’associazione Fairwatch, Massimo Pallottino, capo del desk Asia Oceania di Caritas Italiana e portavoce della Coalizione Italiana contro la Povertà – Gcap, e Francesco Petrelli di Oxfam Italia e portavoce di Concord Italia, piattaforma italiana della rete di Ong in Europa per lo sviluppo e l’emergenza.

Massimo Pallottino ha evidenziato, in particolare, la necessità di resistere alla tentazione di comportarsi come se si trattasse di un’emergenza come le altre, solo un po’ più grave: «Siamo in un vero e proprio tornante della storia», ha detto Pallottino, invitando poi a concentrarsi su quattro sfide in particolare, derivanti dagli effetti della crisi su diseguaglianze e povertà, sull’ambiente, sulla democrazia e sul rischio di un possibile rafforzamento dei sovranismi.

Francesco Petrelli ha segnalato che nei prossimi due, tre mesi ci si aspettano perdite in redditi da lavoro pari a 3.400 miliardi di dollari a livello globale e che mezzo miliardo di persone (l’8% della popolazione mondiale) rischia di venire spinta sotto la soglia di povertà@. Dei due miliardi di persone che lavorano nell’economia informale, solo una su cinque ha accesso a qualche forma di sussidio. «C’è bisogno nuovamente di una vera stagione di efficaci politiche pubbliche» e di riconoscimento del ruolo dellostato, ai cui servizi – come il sistema sanitario pubblico – ci siamo rivolti in un momento di emergenza come questo.

Monica Di Sisto rilevava poi come «in tutti i paesi d’Europa si ascoltino, in consessi pubblici e trasparenti, i responsabili e rappresentanti della società civile  per discutere sul che fare, mentre in Italia questo non succede».

Chiara Giovetti




La porta stretta

«Pregate bene, soprattutto adesso dopo la guarigione; guardate un po’, quasi tutte le comunità, qui a Torino, hanno avuto morti, da noi nessuno. Ringraziamo il Signore!».

Giuseppe Allamano


«Siamo in pieno sviluppo d’una malattia che non sanno né definire, né curare, ma fa, solo in Torino, centinaia di vittime al giorno. In altre città è peggio ancora… All’Istituto, con più di 100 persone, è quasi un miracolo che nessuno ne sia colpito, all’infuori di un sacerdote missionario che guarisce e partirà presto per l’Africa. Di comunità non colpite finora, come la nostra, il numero in Torino si conta tutto sulle dita di una sola mano.
Ringraziamo il Signore!».

È Giacomo Camisassa, primo collaboratore e amico del fondatore, a informare una missionaria della Consolata in Kenya, il 28 settembre 1918, sulle conseguenze a Torino dell’influenza «spagnola», che, tra il 1918 e 1920, uccderà decine di milioni di persone nel mondo.

Non vogliamo qui allinearci ai notiziari che ci bombardano ogni giorno con notizie sul coronavirus e le strategie per difenderci. Più semplicemente, vorremmo aggrapparci al ricordo del nostro fondatore che ha sperimentato, assieme ai suoi missionari e missionarie, la tragedia di una guerra «mondiale» e di un’epidemia che hanno scombussolato non poco il lavoro apostolico dei suoi due giovani istituti missionari. Le sue esortazioni a «pregare bene» e anche a «ringraziare il Signore», ci aiutano a ricordare alcune cose importanti, forse da noi sottovalutate. Per esempio, quella di «fermarci di fronte a Lui» (Sal 45, 11-12), riconoscendo che la presenza di Dio riempie ogni nostro istante e quindi soddisfa il nostro cuore, in qualsiasi circostanza o condizione ci troviamo. O che le vicende di questi mesi dovrebbero renderci più sensibili alle tante altre prove degli «altri» (popoli) che spesso guardiamo soffrire e morire con indifferenza.

Ci ha scritto anche padre Stefano, successore dell’Allamano: «La lezione tremendissima del virus ci introduce forzatamente nella porta stretta della fratellanza universale. In questo strano e surreale isolamento, noi stabiliamo una inedita connessione con la vita del fratello sconosciuto e con quella più ampia del mondo, ci sentiamo veramente missionari. Indubbiamente ciò che è male rimane male. Ma anche un fatto in sé doloroso e molto negativo assume un valore differente per la nostra vita dal modo in cui noi scegliamo di viverlo e, come credenti, cerchiamo di comprendere come attraversarlo, alla luce della Parola di Dio».

Riprendiamo, allora, il nostro faticoso cammino, smarriti o guariti, con coraggio, fiducia e… «Avanti, sempre, in Domino»!

Padre  Giacomo Mazzotti


Giuseppe Allamano e Luigi Orione

L’amicizia tra sacerdoti santi

Il rapporto tra il beato Giuseppe Allamano e san Luigi Orione (1872-1940) sembra che sia iniziato presto. Con tutta probabilità don Orione conobbe il nostro fondatore, rettore del santuario della Consolata, quando era allievo a Valdocco, presso i Salesiani, negli anni 1886-1889. Si sa che, in quel periodo, il giovane Orione si recava spesso al santuario della Consolata.

Reciproca collaborazione. Un’occasione importante per il rapporto tra i due uomini di Dio fu il terribile terremoto, che la mattina del 28 dicembre 1908 rase al suolo Messina. Avendo già una sua fondazione a Noto (Siracusa), don Orione andò subito in Sicilia e, a Messina, prestò una generosa opera di assistenza materiale e spirituale, tanto da essere nominato Vicario generale della diocesidal papa Pio X. Una sua iniziativa fu quella di costruire, davanti al cimitero, una chiesetta di lamiere dedicata alla Consolata, in suffragio delle 80mila vittime del terremoto. Per questa chiesa ottenne dall’Allamano il quadro della Madonna. Ecco come ne parla don Giuseppe Pollarolo in un articolo apparso sul bollettino del Santuario, in occasione della beatificazione di don Orione, dal titolo «Tre santi [Orione, Allamano, Pio X] e un quadro della Consolata»: «Il dramma di Messina diventava sempre più tragico. Cosa fare per confortare gli afflitti e per giovare ai morti? La sua mente corse a Torino, alle frequenti visite che faceva al santuario della Consolata quando era giovane allievo di don Bosco, ai conforti esperimentati ai piedi della Madonna e si persuase che Lei, soltanto Lei, la Madonna, la Consolata, poteva lenire tanto dolore e asciugare tante lacrime!

Era allora rettore del santuario della Consolata il beato canonico Allamano, fondatore dei missionari della Consolata, nipote del venerabile, poi santo Giuseppe Cafasso. Don Orione si rivolse a lui pieno di fiducia (i santi fan presto ad intendersi), con la speranza di ottenere un quadro del tutto simile a quello in venerazione nel santuario di Torino. Il beato canonico Allamano lo accontentò subito mettendogli a disposizione il quadro richiesto». Questo quadro fu poi benedetto dal papa Pio X.

Il pensiero dell’Allamano sull’Orione.

Quello che Giuseppe Allamano pensava su don Orione si comprende chiaramente da ciò che disse dopo il primo vero incontro, di cui si ha notizia, documentato dal canonico Giuseppe Cappella sia al processo per la beatificazione di Allamano, sia nella relazione inviata in seguito agli Orionini in vista della beatificazione del loro fondatore: «Nei primordi del diffondersi del nome di don Orione negli ambienti della carità e delle moderne istituzioni religiose, un mattino si presenta nella sacrestia del nostro santuario della Consolata un sacerdote che, al primo aspetto, dà l’impressione di persona modesta e veneranda, non tanto per l’età ma pel portamento. Sentito il desiderio suo di parlare col rettore del santuario, il canonico Allamano, mi faccio premura di accompagnarvelo. Appena il rettore intese il nome del visitatore, ne fu come sorpreso, come di chi si trova improvvisamente avanti la persona di riguardo e di cui forse da tempo desiderava l’incontro. Il colloquio tra i due fondatori fu assai lungo.

E, siccome di don Orione già se ne era parlato tra noi sacerdoti del santuario, appena ci trovammo insieme raccolti nell’ora della refezione, mi presi la libertà di interrogare il nostro rettore quale impressione avesse riportata dalla visita di don Orione. Ed egli, quasi premuroso di farci conoscere un santo sacerdote, già tanto benemerito della Chiesa, subito rispose: “Don Orione mi ha fatto subito l’impressione di un uomo di Dio, investito del dono, della prerogativa di un vero ed autentico fondatore di un ordine religioso, che farà del gran bene nella Chiesa. Avendomi poi accennato don Orione a difficoltà, insorte già fin dai primordi della fondazione dell’opera sua, cercai di incoraggiarlo a continuare… ché, le difficoltà, le contraddizioni ed anche qualche incomprensione dei buoni, erano e saranno sempre il marchio delle opere di Dio. Tiriamo avanti, caro don Orione – gli dissi – nell’opera intrapresa, sicuri che il Signore, che ce l’ha affidata, non mancherà del suo aiuto, e avanti con la vicendevole promessa di preghiere per noi e per i nostri congregati, fidenti nella Divina Provvidenza e nell’aiuto della santissima Vergine, di poter fare un po’ di bene”».

Il pensiero di Orione su Allamano

La stima che don Orione aveva per il canonico Allamano la possiamo arguire da una minuta di lettera che lui stesso gli scrisse, o intendeva scrivergli, dopo la partenza dei primi missionari della Consolata per il Kenya (1902), in un momento molto critico della sua esperienza di fondatore: «Veneratissimo Signore e fratello nel nostro caro Padre e Signore Gesù Crocifisso, facciamo una cosa sola la casa della Consolata per le sante missioni e questa povera baracca? Perché mi pare che questa cosa sarà una consolazione per la Madonna, e così alcuni buoni soggetti e qualche buon chierico desideroso di andare alle missioni, ci andrebbe per mano della Madonna, e così io starei anche più tranquillo ed essi sicuri di andare bene. Dunque, o mio buon fratello, vi prego di pregare un po’ davanti alla Madonna e se vi pare che questa cosa sia nei disegni…». Non è certo se l’Orione abbia spedito questa lettera e neppure se intendesse fare una proposta di fusione o di collaborazione tra i due istituti. Unica cosa sicura che emerge dalla minuta della lettera è l’apprezzamento di don Orione per il nostro fondatore.

Concludo con quanto scrisse don Carlo Pensa, secondo successore di don Orione, nel 1954, nella lettera postulatoria per la beatificazione di Allamano: «I documenti provano che il rifiorire dell’ideale missionario del nostro fondatore don Orione risale al periodo in cui egli poté avvicinare a lungo il can. Allamano». Non c’è dubbio che san Luigi Orione abbia ammirato lo spirito missionario del beato Allamano e che da esso abbia ricevuto un impulso per sé e per la sua congregazione.

padre Francesco Pavese*

(*) Domenica 3 maggio, padre Francesco Pavese ci ha lasciati per il Paradiso. Con la sua predicazione e i suoi scritti, per lunghi anni ci ha fatto conoscere e amare il beato Allamano. Dal cielo, assieme al nostro fondatore, ha promesso di benedirci tutti. E, come lui desiderava, cantiamo il Magnificat in ringraziamento al Signore per la sua vita consacrata al servizio dell’Istituto e della Chiesa intera.


Giuseppe Allamano: ha fatto della sua vita un dono

Il 14 febbraio 2020, nel secondo giorno del triduo in preparazione alla festa del beatoGiuseppe Allamano, Loredana Mondo, laica missionaria della Consolata, insegnante elementare,
ha offerto la sua testimonianza sul significato della presenza dell’Allamano nella sua vita.

Anni fa, quando ho conosciuto le missionarie e poi i missionari della Consolata, mi sono chiesta che cosa ci fosse in loro che mi attirava e, in modo forse un po’ semplicistico, mi sono risposta l’accoglienza ricevuta e il sentirmi «casa» con loro.

In realtà, in questi anni di cammino di condivisione del carisma, mi sono resa conto che quegli aspetti che inizialmente mi avevano colpito, avevano delle radici molto più profonde della semplice cortesia. Il conoscere e il cercare di approfondire l’origine di tutto ciò, mi ha portata a scoprire la figura di un uomo che, ricevuto un grande dono dallo Spirito, ha fatto della sua vita un dono per gli altri.

È difficile riuscire a dare una definizione su chi sia per me il beato Allamano poiché, come uomo di Dio, racchiude in sé un grande tesoro che in questi anni mi si è rivelato un po’ per volta e che scopro sempre di più ogni volta che ho occasione di leggere qualcosa su di lui o posso sentire testimonianze di chi lo ha conosciuto o di chi vive il suo carisma.

Ci sono tre aspetti che mi colpiscono in modo particolare:

  • – lo sguardo sempre fisso in Dio
  • – l’accoglienza della persona e la capacità di agire
  • – lo spirito di famiglia.

Per il fondatore, il rapporto con Dio, con la Parola e con la Consolata erano centrali nella sua vita: questa sua grande confidenza e certezza che la sua vita fosse costantemente accompagnata e che l’Eucarestia fosse il suo punto di partenza e di arrivo per ogni cosa, era ciò che dava la giusta dimensione ad ogni suo atteggiamento, ad ogni sua scelta.  La sua familiarità con la Consolata poi era tale da coinvolgere la Madre di Dio in ogni sua scelta, anche quelle apparentemente più insignificanti, proprio come un figlio fa con una madre.

È dal suo sguardo sempre fisso in Dio, dal suo sentirsi consolato che nasce l’urgenza di portare l’annuncio di Cristo Figlio missionario del Padre, fino agli estremi confini della terra, con quello zelo di prima qualità per la salvezza delle anime che, come dice lui «viene dall’amore di Dio e solo dall’amore di Dio».

L’accoglienza della persona e la capacità di agire

Il beato Allamano sapeva lasciare nella memoria e nel cuore di chi lo incontrava un segno: una parola, un consiglio, un gesto, un sorriso, uno sguardo. Sapeva essere attento alla persona in tutti i suoi aspetti, sia quelli materiali che quelli spirituali. La stessa delicatezza che voleva dai suoi missionari era la stessa con cui lui si rapportava con le persone sia che fossero semplici lavoratori, sia che fossero persone con incarichi importanti.

Sapeva guardare le persone con gli stessi occhi con cui lui si sentiva guardato da Dio.

Prima di prendere una decisione, di dare un consiglio, di iniziare un progetto, ponderava tutto seriamente. «In tutti i momenti più decisivi della sua vita…, la norma seguita era questa: riflettere, pregare, consultare e poi agire con illimitata fiducia nel divino aiuto» (Lorenzo Sales).

Lo spirito di famiglia

Questo è un aspetto al quale il fondatore teneva molto e per il quale ha spesso speso parole molto concrete perché una comunità che vive lo spirito di famiglia è testimone credibile di quello che annuncia.

Come cristiani e ancor più come missionari, siamo chiamati ad annunciare il Vangelo con la nostra vita anche attraverso quei piccoli gesti di carità che sono segno dell’attenzione all’altro nella sua unicità.

Come dice San Paolo, siamo chiamati a vivere, a comportarci in maniera degna della nostra vocazione, come consacrati e come laici, cercando di conservare l’unità nello spirito perché una sola è la speranza alla quale siamo stati chiamati, quella della nostra vocazione.

Tenere lo sguardo fisso in Dio, cercare sempre e solo la sua volontà, fare bene il bene senza rumore, l’attenzione particolare agli ultimi, sono alcuni degli aspetti che più mi colpiscono del carisma del fondatore e che cerco di vivere guardando all’esempio che lui mi ha dato con la sua vita.

Mi rendo sempre più conto che il mio lavoro di insegnante mi mette in una posizione in cui le relazioni umane sono predominanti e che in ogni situazione sono chiamata a dare una testimonianza coerente di ciò in cui credo. Non è sempre facile accogliere l’altro per ciò che è, ma il beato Allamano, come padre, mi insegna che attraverso quella premura e quell’attenzione verso l’altro posso rivelare l’amore di Dio.

In questo momento sento che il lavoro è la mia «terra di missione» principale, ma sento anche la necessità di vivere con uno sguardo attento alle realtà che a volte sembrano più lontane, ma che sono ormai sempre più vicine e interrogano il nostro stile di vita.

Loredana Mondo
(laica missionaria)




I Perdenti 53. Diventare santi tra i lebbrosi di Molokai

testo di Don Mario Bandera |


Dai coniugi fiamminghi De Veuster nascono otto figli, tra cui ci saranno due suore e due preti dei missionari dei «Sacri Cuori di Gesù e Maria», detti anche «Società del Picpus», dalla via di Parigi dove è nata la congregazione. Giuseppe (Jozep), penultimo degli otto (nato il 3 gennaio 1840), è destinato ad aiutare il padre, ma a 19 anni entra al Picpus facendo il noviziato a Lovanio. Siccome a scuola non ha studiato latino, accetta volentieri di essere missionario fratello e al momento dei primi voti prende il nome di Damiano. Ma durante il noviziato impara da solo il latino e rivela una mente vivace e brillante. Per questo, il maestro dei novizi, dopo i primi voti, lo incoraggia a diventare sacerdote e viene inviato a Parigi per gli studi di teologia. Là c’è anche suo fratello Pamphile, che, ordinato prete nel 1863,  non può partire per la missione perché malato. Allora Damiano ottiene di partire al posto suo anche se non è ancora stato ordinato sacerdote. Destinazione della missione: le Isole Sandwich, così chiamate dal loro scopritore James Cook nel 1778 in onore di Lord Sandwich, capo della Marina inglese. Sono un arcipelago indipendente sotto una monarchia locale. Più tardi saranno chiamate Isole Hawaii.

Damiano le raggiunge dopo mesi di navigazione, da Brema a Honolulu. Completa gli studi, diventa sacerdote nel 1864 e lavora pastoralmente nell’isola principale, Hawaii, nel distretto di Puna, dove sono ben otto anni che manca un missionario. Istruisce la gente nella fede e insegna loro ad allevare pecore, montoni e maiali, come pure a coltivare la terra. Il divario culturale crea ostacoli duri, la solitudine a volte gli pare insopportabile. Ma è solo un primo collaudo.

Nel 1865 gli viene affidato il vasto distretto di Kohala. In quella realtà viene per la prima volta in contatto con il dramma della lebbra che sta avendo effetti devastanti tra la popolazione locale. Importata da marinai  e commercianti stranieri, insieme all’influenza e alla sifilide, la lebbra causa la morte di migliaia di persone. Per questo il re delle Hawaii decreta, proprio nel 1865, di isolare i tutti lebbrosi nella penisola di Kulaupapa distetto di Kalawao al Nord dell’isola di Molokai, garantendo cibo e vestiario e niente più. Tra di essi c’è anche un piccolo gruppo di cattolici che il vescovo cerca di aiutare e sostenere anche con al costruzione di una piccola chiesa.

Dal 1865, padre Damiano, detto Kamiano nella lingua locale, assistite, impotente, allo spaventoso avanzare del flagello che decima la sua gente. Alla prova della malattia, si aggiunge, per i lebbrosi, quella, ancor più grande, di essere strappati alle loro famiglie, ai loro villaggi, senza alcuna speranza di ritorno. Padre Damiano promette una visita a quelli che vengono portati via, e li accompagna il più a lungo possibile sul loro percorso. È quindi con piena cognizione di causa che si offre volontario, il 4 maggio 1873, per raggiungere i lebbrosi.

Caro padre Damiano sapevi che offrendoti volontario per assistere i lebbrosi di Molokai ci saresti rimasto tutta la vita?

Andando a Molokai si doveva obbligatoriamente risiedervi, perché il governo locale temeva il contagio e proibiva di lasciare la penisola lebbrosario nella quale erano stati concentrati tutti i lebbrosi del regno. Il tasso di mortalità era molto alto: pensa che ci furono ben 183 decessi nei primi otto mesi della mia presenza.

Come vivevano i lebbrosi?

Rivecevano dal governo cibo e vestiario, ma erano abbandonati a se stessi, in misere capanne dove vivevano in grande promisquità. La lebbra sfigurava la loro carne, ma c’erano altre lebbre più profonde, quelle morali. Abbandonati a se stessi e senza speranza, vivevano i pochi giorni che rimanevano loro in orge, ubriacature e violenze, sfruttamento reciproco, costringendo le donne alla prostituzione. Anche i lebbrosi cristiani, lasciati a se stessi, avevano molta difficoltà a mantenere viva la propria fede.

Come hai fatto a guadagnarti la stima e l’affetto di tutti?

A Molokai oltre che essere sacerdote, facevo il medico, il padre, curavo le anime, lavavo le piaghe, distribuivo medicine, cercavo di stimolare quel senso di dignità che ogni ammalato portava dentro di sé, facevo in modo che i lebbrosi si unissero per coltivare la terra, creando luoghi di accoglienza per i più deboli. Cercavo soprattutto di far crescere tra loro uno spirito di gruppo e un certo orgoglio per le conquiste raggiunte.

Credo di averli aiutati a ritrovare il rispetto per se stessi e a darsi un’organizzazione interna per non vivere totalmente allo sbando.

Volevi trasformare una terra di morte in un luogo di vita.

Vero. Nel 1984, un medico americano che aveva vsitato il luogo diversi anni prima, tornando era rimasto sopreso di trovarlo completamente trasformato. Non c’erano più le sordide capanne che avevo trovato al mio arrivo, ma i lebbrosi stessi avevano costruito, con l’aiuto del vescovo e di benefattori, due villaggi con case circondate da giardini e orti, strade e impianti per l’acqua. C’era un ospedale ben funzionante, gli orfanotrofi, due chiese e un cimitero. E poi feste, vita religiosa, processioni e la banda musicale.

Come hai fatto?

Al Signore avevo chiesto solo di rimanere in salute. Mi occupai del mio doppio orfanotrofio di bambini lebbrosi che erano più di 40. La metà di loro, molto avanti nella malattia, non dovettero aspettare molto per andare in Cielo. Da parte mia viaggiavo tanto per recarmi da una comunità all’altra. Alla domenica, celebravo di solito due messe, mentre per quattro volte alla settimana insegnavo il catechismo e impartivo due volte la benedizione del Santissimo Sacramento. Mi ero messo anche a fumare la pipa per difendermi dall’insopportabile odore di carne in disfacimento che ammorbava l’aria circostante e che a volte provocava svenimenti fra la gente anche in chiesa.

La tua opera di promozione umana e di evangelizzazione in un contesto così difficile veniva grandemente apprezzata da coloro che ti circondavano, ultimi fra gli ultimi.

Alla mia gente piaceva organizzare processioni. In occasione delle festività liturgiche importanti essi si organizzavano per portare la croce nei luoghi più significativi e impervi della penisola. Tu dovevi vederli, nonostante le loro infermità, marciare  dietro la bandiera hawaiana con tamburi e strumenti musicali di latta fabbricati da loro. Seguivano i gruppi delle donne con i bambini, poi gli uomini, quindi i cantori.

In queste circostanze ovviamente tu portavi il Santissimo.

Quando si arrivava alla residenza del sovrintendente (incaricato dal governo) si deponeva sotto la veranda il Santissimo Sacramento. Quindi facevamo riposare sul tappeto erboso i nostri piedi e le gambe malate, stanche dalla lunga marcia. Subito dopo con devozione ci dedicavamo all’adorazione del Santissimo. Dopo la benedizione, la processione riprendeva la strada e si ritornava con lo stesso ordine nella chiesa del lebbrosario.

Qual è stata la forza che ti ha sostenuto?

Il Santissimo Sacramento è stato veramente lo stimolo che mi ha aiutato ad andare avanti in tutti quegli anni. Senza la presenza continua del Salvatore, non avrei mai potuto perseverare nel legare la mia sorte a quella dei lebbrosi di Molokai. Siccome la celebrazione dell’Eucarestia è il pane quotidiano del prete, mi sentivo felice, ben contento nell’ambiente eccezionale nel quale la divina Provvidenza si era compiaciuta di collocarmi per rendere un servizio ai più emarginati e dare così lode al Dio dell’Amore e della Misericordia.

Nel 1885 padre Damiano viene contagiato dalla lebbra. La notizia si sparge come un baleno nell’arcipelago delle isole Hawai. Pochi mesi prima della morte arriva il padre belga Conrardy in compagnia di alcune suore e volontari per prendersi cura dell’ospedale. Finalmente può fare una confessione dopo anni di solitudine come sacerdote. Finita l’unzione degli infermi, padre Damiano dice: «Sono tranquillo e rassegnato, e anche più felice in questo mio mondo».

Fino all’ultimo aiuta i medici che studiano la lebbra, accettando di sperimentare su di sé nuovi farmaci.

Muore il 15 aprile 1889, circondato dalla sua comunità dopo un mese di letto sul quale lo ha costretto la malattia che lo ha reso ogni giorno più debole, e mille malati di lebbra lo seppelliscono ai piedi di un albero.

Nel 1936 il suo corpo viene riportato in Belgio, a Lovanio. Papa Giovanni Paolo II lo beatifica a Bruxelles nel 1995, continuando l’iter iniziato da Paolo VI nel 1967 su richiesta di 33mila lebbrosi e concluso da Benedetto XVI che lo canonizza in Piazza San Pietro l’11 ottobre 2009.

Don Mario Bandera

Film su padre Damiano

  • Il classico in bianco e nero è:
    Molokai, l’isola maledetta (1959)
    che si può vedere su Youtube.
  • Molokai: the story of Father Damien (1999)
    è interpretato da Humberto Almazán, un attore messicano diventato
    missionario.

 




«Vola solo chi osa farlo»

L’ultimo volo

Il nuovo coronavirus si è portato via anche Luis Sepúlveda, grande scrittore cileno di origine mapuche (da parte di madre), attivista politico e ambientalista appassionato. Oggi, in molti sostengono che questa straordinaria emergenza mondiale potrebbe diventare un’opportunità per un nuovo inizio. Lo speriamo. Come sempre, dipenderà dagli uomini e dalle loro scelte. In una delle sue opere più popolari – Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare – Sepúlveda immagina una metafora partendo dal «volo». Lasciamo da parte le nostre paure sulle diversità, cerchiamo di volare alti e di sovvertire il pensiero comune per costruire qualcosa di bello. Un anelito di ottimismo in un’epoca d’oscurità.

Paolo Moiola


Morto per il Covid-19 lo scorso 16 aprile, lo scrittore e attivista cileno mapuche era molto amato in Italia. Dagli adulti, ma anche dai più giovani.

«Rimasi con il popolo Shuar nella selva amazzonica. Durante tutto quel tempo mi accettarono come uno di loro, anche se ero totalmente diverso. La cosa straordinaria fu che mi accettarono proprio per questo, perché ero diverso. Da loro appresi la lingua e il rispetto per i delicati equilibri di Madre Terra». Così diceva Luis Sepúlveda quando ricordava la sua esperienza nell’Amazzonia ecuadoriana insieme ai popoli indigeni.

Il grande scrittore e attivista cileno ci ha lasciato il 16 aprile 2020, a causa del Covid-19. Era nato a Ovalle, una città a Nord di Santiago, in Cile, il 4 ottobre 1949. Da ragazzo leggeva romanzi di avventura di Cervantes, Salgari, Conrad, Melville e la vocazione letteraria si manifestò già al liceo di Santiago quando iniziò a pubblicare poesie sul giornalino dell’istituto. A diciassette anni iniziò a lavorare come redattore del quotidiano Clarín e poi in radio. Nel 1969 vinse il Premio Casa de Las Américas con la raccolta di racconti «Crónicas de Pedro Nadie». Poi giunsero gli anni della militanza totale. Il 4 settembre 1970 Salvador Allende venne eletto presidente e la società cilena iniziò a rialzarsi. Sepúlveda durante quei mille giorni del goveno di Allende partecipò alla democratizzazione del paese. Nel 1973 entrò a far parte della struttura militare del Partito socialista e divenne membro dei Gap, la guardia personale di Allende, ma l’11 settembre 1973 ci fu il colpo di stato militare di Augusto Pinochet. Venne instaurata la dittatura. Luis venne arrestato e torturato. Trascorse sette mesi in una cella piccolissima ove era impossibile stare in piedi o sdraiati. Anche la sua compagna, la poetessa cilena Carmen Yáñez, sposata nel 1971, subì la sua stessa sorte e subì come lui indicibili torture. Sepúlveda venne scarcerato grazie alle forti pressioni di Amnesty International che lanciò una serrata campagna per la sua liberazione. Dopo quasi tre anni di carcere, «con molti denti in meno e cinquanta chili di peso», se ne andò a Valparaíso, ove riscoprì la sua passione per il teatro e si dedicò a rappresentazioni clandestine contro la dittatura. Avrebbe raccontato tutto in «Storie ribelli». Erano tempi durissimi durante i quali in Cile vi furono tanti desaparecidos. Venne arrestato una seconda volta e la giunta militare lo processò ufficialmente condannandolo ad un’ergastolo che poi, su pressione di Amnesty International, fu commutata nella pena di otto anni d’esilio. Trascorse circa due anni e mezzo in carcere. Il 17 luglio del 1977 gli fu permesso di lasciare il Cile. Rimase per poco tempo in Argentina, poi passò in Brasile e quindi arrivò a Quito, in Ecuador. Qui entrò in contatto con una realtà che avrebbe influenzato molto la sua opera letteraria, ma anche la sua attività di militante e strenuo difensore della natura. Partecipò, infatti, a una spedizione dell’Unesco ed ebbe così l’opportunità di vivere per sette mesi nella selva amazzonica con il popolo indigeno shuar. Gli Shuar (o Jívaro) si ubicano nella regione orientale dell’Ecuador e in una parte nel Perù settentrionale, sui pendii delle Ande. Il termine Jívaro (Jibaro) in realtà è dispregiativo, perché significa «barbaro». Essi si autodefiniscono Nijínmanya Shiwiár (ossia Shuar) che, nella loro lingua, significa «popolo». Vengono chiamati anche «i difensori della natura» e hanno resistito nei secoli sia al dominio dell’Impero Inca che a quello degli spagnoli. Attualmente si ritrovano a lottare per la difesa del proprio territorio e della propria cultura, contro l’occidentalizzazione e l’espansione delle multinazionali. Proprio basandosi sui ricordi della convivenza con loro, Luis Sepúlveda nel 1988 avrebbe scritto «Il vecchio che leggeva romanzi d’amore», che divenne il suo maggiore successo internazionale. Una volta, durante una lunga intervista, volle ricordare il tempo trascorso con gli Shuar e a questo proposito raccontò: «Quando scrissi “Il Vecchio che leggeva romanzi d’amore” usai molti elementi autobiografici perché la mia esperienza amazzonica era stata come un’iniziazione, l’introduzione a un mondo sconosciuto. [In quella spedizione] eravamo in otto, ma dopo due settimane rimasi l’unico a non essermi ammalato. Perciò, gli altri se ne andarono, ma io decisi di rimanere. Non sapevo bene dove andare, ma mi dissi che volevo conoscere l’Amazzonia. Così rimasi da solo. All’inizio gli Shuar non si avvicinavano, però ogni giorno mi lasciavano acqua, frutta e carne di scimmia per sopravvivere. Poi si ritiravano nella foresta. Un giorno venni morso da un serpente. Sapevo che era velenoso, ma per fortuna il cinturino del mio orologio in parte mi protesse. Tagliai col machete la testa del serpente e corsi subito dagli indigeni. Mentre gliela mostravo sentii che avevo già la vista annebbiata e persi conoscenza. Quando mi risvegliai erano trascorsi sette giorni. Gli indigeni mi avevano curato con le loro potenti conoscenze di erbe mediche e mi salvarono la vita. Così venni integrato nel loro mondo e vi rimasi sette mesi».

Nel 1979, Sepúlveda andò in Nicaragua dai sandinisti che decisero di accettare nelle loro file alcune centinaia di esuli cileni che avevano chiesto di unirsi alla guerra di liberazione. Poi andò in Europa, ad Amburgo. Due anni dopo divenne uno dei più noti corrispondenti della stampa tedesca sulle imprese di Greenpeace, attraversando i mari per quattro anni. Nacquero tanti libri tra i quali: «La frontiera scomparsa», «Patagonia express», «Appunti dal Sud del mondo», «Incontro d’amore in un paese in guerra», «Le rose di Atacama», «La gabbianella e il gatto» e «Il mondo alla fine del mondo», romanzo sullo scempio del pianeta in nome del profitto, ambientato in buona parte nella terra che più amava: la Patagonia. Quando qualcuno gli chiedeva il motivo della sua scrittura, Luis Sepúlveda diceva: «Dallo scrittore brasiliano Guimarães Rosa ho imparato che raccontare è resistere e su questa barricata della scrittura io resisto agli assalti della mediocrità planetaria, alla mostruosa proposta unica di esistenza e cultura che incombe sull’umanità alla svolta del millennio. Per questo scrivo, per la necessità di resistere davanti all’impero dell’unidimensionalità della negazione dei valori che hanno umanizzato la vita e che si chiamano fraternità, solidarietà, senso di giustizia. Scrivo per amore delle parole che amo, e per l’ossessione di dare un nome alle cose a partire da una prospettiva etica, ereditata da un’intensa pratica sociale. Scrivo perché ho memoria, e la coltivo scrivendo della mia gente, degli abitanti emarginati, dei miei mondi emarginati, delle mie utopie derise, dei miei gloriosi compagni e compagne che sconfitti in mille battaglie, si rialzano e continuano a prepararsi per le prossime battaglie senza avere paura».

Luis Sepúlveda è stato un latinoamericano coraggioso e coerente che ha fatto della lingua la sua patria. Ci lascia un’opera preziosa nella quale ha scritto sugli «scartati», sui mondi emarginati, sulle utopie e sulla speranza di un mondo migliore che non morirà mai.

Antonella Rita Roscilli

 




La Cina è grande, ma non ha spazio per noi

testo di Luca Lorusso |


Un uomo di 37 anni, una donna di 30. Entrambi cinesi e fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente, nuovo movimento religioso perseguitato in Cina. Sono richiedenti asilo in Italia con il rischio concreto di essere espulsi.

Un dialogo con due perseguitati

«A giugno del 2003, mentre andavo a un incontro di preghiera, la polizia mi ha fermato per un controllo. Nel mio borsello hanno trovato il libro sacro della Chiesa di Dio Onnipotente, e me l’hanno portato via. Arrivati al posto di polizia mi hanno fatto un interrogatorio per avere informazioni sui miei fratelli [di fede, nda], ma io non ho dato nessuna informazione, così mi hanno tirato uno schiaffo, mi hanno preso a calci e pugni e poi mi hanno portato in un posto segreto».

L’uomo che ci parla via Skype dalla sede dell’associazione della Chiesa di Dio Onnipotente (Cdo) di Milano, dice di chiamarsi Marco (nome di fantasia), richiedente asilo per motivi religiosi di 37 anni, proveniente dalla Cina. Capisce poco l’italiano e lo parla ancora meno. Si fa aiutare da una giovane «interprete», sorella della sua stessa fede, seduta alla sua sinistra, con qualche difficoltà in meno nella lingua.

foto in CC da evanse1_flickr – https://www.flickr.com/photos/145837323@N08/39243506842/

Fedeli a Dio Onnipotente

Marco indossa una t-shirt a righe orizzontali bianche e grigie. È un po’ spettinato. Il suo volto sembra sereno, nonostante quello che ci racconta. Appare come un uomo molto semplice. Accanto a lui, alla sua destra, c’è Vivian (altro nome di fantasia), donna di trent’anni dal viso tondo e un po’ dolente. Indossa una camicetta color panna, con motivi floreali. Anche lei si fa aiutare nelle traduzioni da un’altra giovane cinese dall’italiano incerto, Sabrina.

Marco e Vivian sono fuggiti entrambi nel 2015 dalla Cina a causa della persecuzione.

Tutti e quattro sono membri della Cdo, un movimento religioso nato in Cina nel 1991, e dal 1995 perseguitato con crescente violenza dal regime del Partito comunista cinese (Pcc).

Attualmente i seguaci di questo nuovo movimento sono circa 4 milioni, soprattutto in Cina. Secondo un rapporto pubblicato dalla stessa Cdo, «tra il 2011 e la fine del 2019 sono stati arrestati dalle autorità cinesi più di 400mila cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente».

Reclusione arbitraria

Marco prosegue il suo racconto: «Arrivati in quel posto segreto, la polizia voleva informazioni sulla chiesa. Mi ha ordinato di divaricare le braccia e le gambe, anche se mi mancavano le forze per sostenermi. Il poliziotto mi ha schiaffeggiato diverse volte, poi mi ha picchiato sulla testa usando un libro. Mi ha colpito il viso. Mi ha proibito di andare in bagno. Mi ha coperto di insulti. Senza nessun tipo di processo legale, il governo mi ha condannato a un anno di lavori forzati con l’accusa di avere violato l’articolo 300 del codice penale [quello che definisce reato l’appartenenza a una delle xie jiao, le “sette malvagie” considerate associazioni sovversive, tra le quali figura anche la Cdo, nda].

Nella prigione, i poliziotti hanno istigato gli altri detenuti a tormentarmi. Sono stato costretto a spogliarmi completamente e a mettermi a gambe e braccia divaricate, poi mi hanno quasi soffocato puntandomi un getto d’acqua sul viso.

In prigione, i credenti sono considerati criminali politici, e quindi i secondini e i prigionieri m’insultavano e maltrattavano.

Quella in cui ero recluso, era una struttura di rieducazione. Si viveva una vita inumana: in 50 metri quadrati stavamo in più di 70 persone. Le condizioni igieniche erano pessime. Ogni giorno dovevo fare 14 ore di lavori forzati in una fabbrica di pelletteria per scarpe. Solo la Parola di Dio Onnipotente mi ha dato fede e forza per sopportare quella vita in prigione».

Una vita latitante

Marco è stato informato del motivo della sua condanna, ma non ha mai visto un avvocato, né un giudice: «In Cina, i comunisti non rispettano la legge. Se una persona crede in Dio, non ha diritto di difendere i suoi diritti. Non ho potuto difendermi in nessun modo».

La prima volta che Marco ha potuto rivedere i suoi famigliari è stata tre mesi dopo l’arresto. Le visite erano concesse una sola volta al mese. Gli incontri avvenivano attraverso un vetro, e Marco poteva parlare con i suoi famigliari tramite un telefono.

«Dopo aver lasciato la prigione, io, mia sorella e i miei genitori siamo stati costretti ad andare a vivere in un’altra provincia per continuare la nostra vita. Io poi non avevo la carta d’identità, nessun documento. Non potevo lavorare né affittare un appartamento in modo regolare. Però vivevo la mia vita e la mia fede.

In Cina, i documenti dei credenti che sono stati arrestati sono bloccati. Sono registrati dalla polizia su internet, quindi io non potevo usarli per fare altre cose.

Dal 2004 al 2012 sono stato senza documenti, poi, nel 2012, con l’aiuto di un amico che aveva le conoscenze giuste, sono riuscito a fare il passaporto. Nel 2015 un fratello di fede che viveva con me, è stato arrestato. Di conseguenza anche io ero in pericolo. Allora ho deciso di scappare». Il 2015 è stato l’anno dell’Expo di Milano e del giubileo straordinario. In quell’anno era semplice ottenere un visto per l’Italia. «Con l’aiuto dell’amico che mi aveva procurato il passaporto, ho ottenuto un visto e sono partito per fare richiesta di protezione internazionale in Italia».

Paura di tornare

La questione del passaporto è spesso uno dei punti critici per l’ottenimento dello status di rifugiato in Italia. Le commissioni territoriali, e poi i tribunali dei ricorsi, si domandano come sia possibile per una persona «schedata» ottenere un regolare passaporto dalle stesse istituzioni che perseguitano. È opinione comune di chi si occupa di questa tipologia di richiedenti asilo, però, che l’alto livello di corruzione in Cina possa aprire maglie abbastanza grandi nella fitta rete dei controlli.

Oggi Marco è in attesa della sentenza della cassazione sulla sua richiesta di asilo, dopo il diniego in prima istanza e la perdita del ricorso in appello. Grazie al permesso di soggiorno temporaneo, lavora come rider per un ristorante, consegnando cibo a domicilio, e ciò che guadagna lo usa anche per pagare l’avvocato. Marco ci racconta che finalmente in Italia può vivere liberamente la sua fede, ma che comunque continua ad avere paura: ad esempio per i genitori e la sorella, anch’essi credenti in Dio Onnipotente, rimasti in Cina e mai più sentiti dal momento della sua partenza per evitare di essere intercettato dal governo che controlla telefono e internet, e quindi creare problemi ai suoi. La sua paura più grande, poi, è quella (concreta) di essere espulso e di dover tornare in Cina, dove è certo che verrebbe nuovamente arrestato.

foto in CC da guandoandelei_flickr – Una cristiana indonesiana femminile espresse i suoi sentimenti dopo aver creduto in Dio Onnipotente – https://www.flickr.com/photos/160458804@N06/32309036097/in/photostream/

La storia di Vivian

Mentre Marco parla, alla sua destra intravvediamo Vivian, inquadrata a metà dalla webcam, che annuisce a tutte le parole di Marco. Quando ci rivolgiamo a lei, Vivian sposta la telecamera su di sé e inizia il racconto: «L’11 dicembre 2011 stavo andando a un incontro di predicazione del Vangelo con alcune sorelle che lavoravano nella stessa azienda, ma siamo state arrestate. La polizia non ha mostrato nessun documento, però ci ha costrette a salire su un’auto e ci ha portate in una caserma. Lì, ci minacciavano dicendoci che in Cina non possiamo credere in Dio, ma solo nel Pcc. Poi ci hanno portate in un posto dove non ci hanno dato da mangiare e bere. Quella sera il direttore dell’azienda è venuto in caserma per salvarci. I poliziotti ci hanno minacciate dicendoci che se avessimo continuato a credere in Dio, saremmo state arrestate di nuovo e condannate. Al direttore della compagnia, invece, hanno detto che doveva convincerci a rinunciare alla nostra fede».

Quando Vivian è tornata nell’azienda, i colleghi non le parlavano e lasciavano in vista giornali con informazioni negative sulla Chiesa di Dio Onnipotente: «Il governo cinese ha fabbricato false notizie sulla Cdo, e le divulga».

Dato che la situazione era sempre più pesante, a un certo punto la donna ha deciso di rinunciare al lavoro e di trasferirsi in un’altra città.

Pregare nascosti

«In Cina non possiamo vivere la nostra fede apertamente. Normalmente per pregare ci troviamo in tre o quattro persone a casa di un fratello. Quando si entra, si controlla che non ci sia nessuno che ha visto, poi si chiudono porte e finestre per non far sentire le voci, e lasciamo qualcuno fuori a fare il palo. Tra fratelli non usiamo internet e telefono, scriviamo lettere da portare a mano.

Nel giugno 2013 il governo ha arrestato il capo locale della Cdo e alcuni fedeli della regione nella quale mi ero trasferita, e sono stati condannati. Quel capo aveva informazioni su di me, quindi mi sentivo in pericolo. Allora mi sono di nuovo trasferita in un’altra provincia, e mi sono nascosta in una casa. Sono stata nascosta 14 mesi. Mi mancavano i miei genitori, ma non osavo fare una chiamata. Non osavo fare niente».

Vivian è diventata credente della Cdo nel 2012. I suoi genitori, invece, lo erano già dal 1998. Quando parla di loro, ha la voce rotta dalla commozione, e si asciuga le lacrime: «Non li ho mai più sentiti. Anche mia mamma nel gennaio 2013 è stata arrestata. Da quando è stata rilasciata non ho avuto più contatti. In quel periodo avevo molta paura: il governo continuava ad arrestare membri della chiesa che sapevano dove vivevo, quindi ogni volta dovevo cambiare casa. In questa situazione ho deciso di andare all’estero. Anche se la Cina è grande, per i credenti non c’è un posto per vivere.

Nel 2015 grazie a un amico che lavorava nella polizia e che poi è stato condannato, sono riuscita ad avere il visto per l’Italia e sono partita».

Richiesta di asilo

Vivian, quando viveva in Cina era designer per un’azienda di scarpe. Ora, in Italia, lavora nei fine settimana in un ristorante. Ci tiene a dire che usa molto del suo tempo libero per fare volontariato: «A Roma, a Torino e a Milano, i fedeli della Cdo organizzano attività religiose, oppure iniziative per promuovere i diritti umani o i diritti della donna. Gli Italiani sono sempre molto gentili e ci aiutano. Quando ho tempo, vado volentieri a fare volontariato per aiutarli».

Anche la sua domanda per il riconoscimento dello status di rifugiata è stata respinta. A differenza di Marco, che è già all’ultimo passaggio, lei è in attesa della sentenza di secondo grado. «Sto facendo il ricorso al tribunale dopo il rifiuto della mia richiesta», ci dice, poi il suo volto si scurisce: «Quando ho fatto il colloquio con la commissione, non mi lasciavano raccontare la mia storia. M’interrompevano. Mi facevano domande sui miei genitori. Non ho potuto raccontare la mia storia completa».

Marco interviene per dirci che anche a lui è successa la stessa cosa: «A causa della pressione del Pcc sui paesi stranieri, e delle notizie false prodotte dal governo cinese, è difficile per i rifugiati cristiani ottenere l’asilo. Io ho sperimentato la persecuzione del Pcc, ma la commissione territoriale alla quale mi sono rivolto non l’ha riconosciuta e non ha accettato la mia domanda. In commissione, è successo anche a me che mentre raccontavo sono stato interrotto».

Rischio espulsione

«In Italia la situazione per la fede religiosa è migliore che in Cina», dice Marco. «Qui posso parlare della mia fede. Come ha detto Vivian, in Cina non posso raccontare quello in cui credo, non posso predicare il Vangelo, perché il Pcc incoraggia a denunciare i credenti. La situazione è molto pericolosa.

La mia richiesta di asilo in Italia è stata rifiutata due volte. Se anche la cassazione dovesse rifiutarla, la mia situazione sarebbe grave. So di altri che sono stati rimandati in Cina, anche da altri paesi, e sono stati arrestati di nuovo e condannati a tre anni e anche di più. Ho sognato diverse volte la scena di essere di nuovo arrestato. La mia speranza è che il giudice accetti la mia richiesta per rimanere in Italia e poter continuare a vivere la mia fede».

«In Italia sono più tranquilla», conclude Vivian, «ma sono comunque ancora preoccupata, perché qui la libertà religiosa è garantita, ma la mia richiesta di asilo è stata rifiutata. Se anche il ricorso che ho fatto venisse rifiutato, sarebbe molto brutto. Ho molta paura di essere rimpatriata in Cina».

Luca Lorusso

Archivio MC sui richiedenti asilo cinesi in Italia:
Luca Lorusso, Dalla Cina all’Italia, rifugiati per religione, in MC agosto 2019.


La Chiesa di Dio Onnipotente

La Chiesa di Dio Onnipotente (Cdo) è un nuovo movimento religioso cinese, fondato nel 1991 da Yang Xiangbin, donna nella quale, secondo la fede dei suoi credenti, si è incarnato Dio Onnipotente.

Nata nel 1973 nella Cina Nord Occidentale, dal 2001 Yang Xiangbin è rifugiata politica negli Usa insieme al numero due della Cdo Zhao Weishan.

La Cdo è nota anche come Folgore da Oriente o Lampo da Levante, definizione che viene dal Vangelo di Matteo (24,27) che profetizza la seconda venuta di Cristo: «Come la folgore viene da Oriente e brilla fino a Occidente, così sarà la venuta del figlio dell’Uomo». Il dato dottrinale di fondo, infatti, è la nuova incarnazione di Cristo in Cina per inaugurare la terza Età dell’umanità.

Alcuni studiosi definiscono questo credo come «cristiano», con una teologia che differisce dalle chiese tradizionali per diversi aspetti, ma che per altri sembra radicata nel filone del protestantesimo. Yang Xiangbin, infatti, prima di rivelarsi come Dio Onnipotente, era membro degli Shouters, una delle molte chiese domestiche diffuse (e perseguitate) in Cina e nate da rami fondamentalisti delle chiese riformate.

La donna, nel febbraio 1991, durante alcune riunioni degli Shouters, ha cominciato a parlare della realizzazione del Regno di Dio Onnipotente. Le sue parole, da subito, sono state considerate da molti come ispirate dallo Spirito Santo e paragonate per autorità e potenza a quelle di Gesù Cristo.

La diffusione delle parole di Dio Onnipotente ha subito poi un’accelerata grazie a Zhao Weishan, nato nel 1951, leader di un ramo degli Shouters, «convertito» alla nuova rivelazione e divenuto, di fatto, la guida principale della Cdo, dopo Yang Xiangbin.

La Cdo è stata inserita dal governo cinese nella lista degli xie jiao, i «culti malvagi», già nel 1995. In seguito alla persecuzione, nel 2000, i due leader Yang e Zhao, hanno raggiunto gli Usa, dove nel 2001 hanno ottenuto asilo politico.

Nonostante la rigidità della dottrina, le «purghe» interne che pare abbiano portato nei decenni ad alcune centinaia di migliaia di espulsioni, e nonostante le persecuzioni del Pcc, la Cdo ha continuato a crescere fino a raggiungere la cifra stimata di 4 milioni di fedeli.

Dal 2014, la persecuzione si è inasprita, tanto da spingere molti a fuggire e a fondare comunità in tutto il mondo.

Teologia

Il testo sacro fondamentale della Cdo è La Parola appare nella carne, pubblicato nel 1997. Contiene una raccolta di affermazioni di Yang Xiangbin, cioè Dio Onnipotente, il Signore Gesù ritornato per inaugurare la terza età dell’umanità, l’Età del Regno. Le prime due sono state l’età della Legge, cioè l’epoca dell’Antico Testamento, e l’età della Grazia, iniziata con la vita pubblica di Gesù. La Bibbia cristiana non viene rinnegata, ma riconosciuta come scrittura «imperfetta» delle due età della Legge e della Grazia.

Se con Gesù i peccati degli uomini sono stati perdonati, però la loro natura depravata non è stata cancellata.

Nell’Età del Regno, Dio si fa carne in Cina per compiere in modo definitivo la sua opera e rendere perfetto un gruppo di persone. Non vi sarà un’altra incarnazione di Dio dopo quella attuale in Dio Onnipotente.

Negli ultimi giorni, quando un gruppo di credenti sarà reso perfetto, i giusti saranno riconosciuti e i malfattori additati, Dio Onnipotente distruggerà la natura peccaminosa degli uomini, ed entrerà nel riposo eterno insieme ai perfetti.

L’età del Regno è l’ultimo periodo di purificazione, al termine del quale ci sarà il Regno Millenario: quando Dio Onnipotente tornerà al Cielo, seguiranno le catastrofi annunciate nell’Apocalisse. Ma la Terra non sarà distrutta, bensì trasformata per essere la dimora eterna dei seguaci purificati di Dio che vivranno per sempre nel Regno di pace e bellezza.

Cdo e comunisti

La teologia della Cdo identifica il Partito comunista cinese con il «grande drago rosso» dell’Apocalisse. Il Pcc, infatti, oppone resistenza a Dio perseguitando i fedeli proprio come la figura menzionata nell’ultimo libro della Bibbia. Detto questo, però, la Cdo è anche convinta che il drago cadrà da solo sotto il peso dei propri errori, quindi non è necessario ribellarsi, e anzi vieta ai fedeli di prendere parte a qualsiasi attività politica. Il fatto quindi che il governo cinese tema un’attività eversiva di questo movimento religioso, non ha un fondamento concreto.

Le persecuzioni

A inizio 2020 la Chiesa di Dio Onnipotente ha pubblicato un rapporto sulle persecuzioni subite in Cina dai suoi fedeli. In esso si legge: «Tra il 2011 e la fine del 2019 sono stati arrestati dalle autorità cinesi più di 400mila cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente, ed è ampiamente documentato che i credenti morti in seguito alle persecuzioni dalla fondazione della Chiesa sono 146».

Secondo il rapporto, nel solo 2019 almeno 32.815 fedeli della Cdo hanno subito qualche forma di persecuzione, 6.132 sono stati arrestati, 4.161 dei quali detenuti per brevi o lunghi periodi e 3.824 hanno subito torture e indottrinamento forzato. Sono stati condannati 1.355 membri, 481 dei quali a pene di 3 anni o più, 64 a pene di 7 anni o più e 12 a pene di 10 anni o più. Tra gli arrestati, il rapporto c’informa che il più giovane aveva 14 anni, il più vecchio 86. «Nel 2019 almeno 19 cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente sono morti a causa della folle caccia all’uomo[…]. Alcuni per le torture subite durante la detenzione; altri hanno contratto malattie gravi ma sono rimasti ugualmente reclusi e alla fine hanno perso la vita per il peggioramento delle loro condizioni dopo essere stati assoggettati a prolungati maltrattamenti e lavori forzati […]».

Il sito d’informazione Bitter Winter riferisce che «a tutto giugno 2019, 2.322 fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente hanno chiesto asilo nei paesi dell’Unione europea. Sebbene alcune recenti decisioni giudiziarie siano incoraggianti, finora l’asilo è stato concesso solo a 265 di loro, ovvero l’11,4%. […] Nell’Ue, 307 rifugiati hanno ricevuto ordini di rimpatrio e rischiano ogni giorno di essere rimandati in Cina, 227 di loro si trovano in Francia. Alcuni sono stati effettivamente espulsi. Studiosi e Ong hanno documentato che quando coloro che vengono espulsi giungono in Cina, normalmente vengono arrestati o “scompaiono”».


Due libri per conoscere: