Paolo a Corinto ed Efeso (At 18-19)

testo di Angelo Fracchia |


Alla fine del capitolo 17 degli Atti degli Apostoli, Paolo si allontana deluso e schernito da Atene e si rifugia a Corinto, dove si fermerà per circa un anno e mezzo. Poco dopo si fermerà altri due anni a Efeso. Non erano città semplici.
Corinto, a cavallo tra due porti, era città di commercianti, di gente magari grezza ma astuta. La città evocava una vita dissoluta, costosa, dove gli ingenui venivano facilmente depredati. Efeso era la capitale di una delle regioni più ricche dell’impero, nessun tempio riceveva più offerte del suo, dedicato ad Artemide, considerata una divinità potentissima, affascinante e terribile.

In queste due città, Paolo predica per più tempo, perché lo Spirito gli garantisce che lì un popolo numeroso è chiamato a incontrare Gesù (At 18,10). Evidentemente il cristianesimo accetta le sfide impegnative.

Siccome Luca sceglie di raccontarci solo alcuni episodi sparsi di questi anni, anche noi non procediamo in ordine cronologico ma riprendiamo alcuni dei temi da lui sollevati.

Uno storico accurato

Partiamo da un aspetto che potrebbe sembrare marginale.

Luca definisce «proconsoli» sia Gallione per l’Acaia (18,12) che il governatore di Efeso. Proconsoli, non procuratori, come ci si poteva attendere (cfr. At 23,24; 26,30), e a Efeso cita correttamente gli «asiarchi» (19,31), pur avendo parlato di «politarchi» per Tessalonica (17,6: nella traduzione italiana sono «capi della città»). Questi usati da Luca, sono i titoli corretti, confermati da iscrizioni o testi antichi. L’evangelista è inoltre informato dell’editto di espulsione da Roma dei giudei (18,2), che, al di là dei proclami, aveva in realtà coinvolto ben poche persone.

Noi abbiamo in mente una realtà imperiale molto compatta e omogenea, sul modello degli imperi del xvii secolo. I romani però distinguevano, separavano, privilegiavano gli uni a detrimento dei vicini, utilizzando titoli diversi per rendere ancora più difficile l’omologazione. L’unico modo per utilizzare i titoli corretti era avere una grande cultura o una precisa conoscenza derivata dall’esperienza.

Certo, si potrebbero imputare a Luca alcuni silenzi: come è possibile che non parli (quasi) mai della chiesa di Alessandria, che meno di un secolo dopo sarebbe emersa come una delle più grandi, strutturate e colte? Già in At 6, sulla vicenda degli ellenisti e dei diaconi, aveva glissato su problemi che pure lascia intuire. Non è una critica: gli storici contemporanei di Luca erano enormemente più disinvolti nel manipolare la storia. Lui non lo fa, anche se, narrando solo qualcosa, ci presenta l’ideale. Pur lasciandoci intuire una realtà non così perfetta. Prestiamo quindi ancora più attenzione a ciò che ci racconta. Con un occhio a ciò che tace.

Aquila e Priscilla

I collaboratori

Gli Atti si muovono ormai intorno a Paolo, che però non viaggia da solo. Il cristianesimo non sopporta gli attori solisti, è sempre comunità. Paolo, quindi, è sempre circondato da altre persone: che siano collaboratori stretti (Gaio e Aristarco, di cui non sappiamo altro: 19,29; e i ben più noti Sila e Timoteo: 18,5) o supporti quasi casuali, come Tizio Giusto (18,7) e Tiranno (19,9) che ospitano a lungo Paolo, o Alessandro (19,33), che è un ebreo ma intende parlare a difesa anche dei cristiani. Oppure vere e proprie colonne, come Apollo e la coppia Aquila e Priscilla.

Questi ultimi sono ebrei di Roma, dai nomi latini, anche se grecizzati, e vengono sempre citati insieme. Marito e moglie, fabbricanti di tende, non si fanno deprimere dall’espulsione da Roma (probabilmente motivata già dalle discussioni su Gesù), ma ne approfittano per farsi evangelizzatori anche altrove. Priscilla (la «piccola Prisca», suo vero nome) sembra la vera guida di una coppia che si muove con coraggio («Essi per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa»: Rom 16,4) e acume. Infatti, quando ascoltano Apollo e colgono l’imperfezione della sua predicazione, non pensano di tarpargli le ali, ma gli spiegano meglio come stanno le cose e poi lo raccomandano, inviandolo là dove può fare bene, a Corinto. A volte tendiamo a rendere astratto l’amore cui sono chiamati i cristiani, ma ciò che questa coppia fa è esattamente amare il prossimo, fare il suo bene; e, insieme, anche quello della chiesa.

Apollo è un’altra figura estremamente affascinante. Ebreo dalla profonda cultura biblica ma dal nome greco e di lingua greca, viene da Alessandria d’Egitto e annuncia il vangelo con generosità, anche se con una preparazione imperfetta. A Corinto ci sarà chi vorrà contrapporlo a Paolo (cfr. 1 Cor 3,4-7), che però mostra di apprezzarlo.

A margine, possiamo addirittura fantasticare un poco. Nel canone del Nuovo Testamento è compreso un testo, la cosiddetta Lettera agli Ebrei, che è una specie di trattato teologico composto da qualcuno che conosce molto bene il greco e l’Antico Testamento. Ma lo stile dell’intera lettera non è paolino, anche se si chiude con una specie di firma autografa di Paolo (Eb 13,22-25), la cui posizione è però strana perché sembra più un’aggiunta che parte della lettera stessa, un biglietto d’accompagnamento scritto da Paolo e inserito alla fine. Alcuni ipotizzano che l’autore possa essere Apollo, ottimo retore e approfondito conoscitore della scrittura ebraica. Paolo, lungi dal sentirsi sfidato, potrebbe aver aiutato questo testo a girare nelle proprie chiese.

Formazioni incomplete

Proprio Apollo ci può servire per cogliere un altro aspetto di ciò che Luca, probabilmente, vuole insegnarci. Priscilla e Aquila lo sentono predicare, si accorgono delle lacune, gliele colmano, e poi lo raccomandano a Corinto (At 18,26-27). Paolo, all’inizio della sua missione a Efeso, trova altri fratelli che annunciano il Vangelo, senza neanche conoscere lo Spirito Santo (19,1-7). Anche in questo caso, la loro formazione viene completata, e Paolo vede scendere su di loro lo Spirito, e li inserisce nella chiesa.

In un caso e nell’altro abbiamo persone con una formazione incompleta, segno, evidentemente, di una chiesa vivissima, creativa, originale e non ancora imbrigliata da tradizioni intoccabili e normative codificate. Per certi aspetti, il contrario di quello che spesso è la chiesa nostra. Ma in alcune dimensioni e scelte di fondo ci ritroviamo. Luca sembra suggerire tre atteggiamenti, nel rapportarsi con le differenze dentro la chiesa.

Intanto la correzione degli errori e l’approfondimento della conoscenza. Probabilmente è l’aspetto meno importante, ma pure rimane. Non ci si limita ad apprezzare e lodare la buona volontà di Apollo o dei fratelli che non conoscono lo Spirito Santo: li si istruisce, li si corregge, li si migliora.

Poi, più importante, l’apertura di fondo alla fiducia. Abbiamo già detto che forse, nel nostro contesto ecclesiale, una coppia di commercianti/imprenditori come Aquila e Priscilla non avrebbe trovato modo di incidere così tanto nell’annuncio, perché probabilmente ritenuta poco affidabile. E sicuramente una figura come Apollo susciterebbe sospetti e invidie (pensiamo a quante cattiverie leggiamo nei nostri social, soprattutto verso chi prova a impegnarsi, sia pure senza tutte le carte in regola!). La prima chiesa cristiana, che, come abbiamo visto, non è senza difetti, su questo sa restare aperta, convinta che solo lasciando spazio all’iniziativa umana si dà spazio allo Spirito Santo.

Il terzo aspetto è il più significativo: la relazione personale con Dio. Questa è fondamentale e ineliminabile, e si ottiene (al tempo degli Atti, ma anche nel nostro xxi secolo) solo con l’apertura allo Spirito. Se con Apollo basta integrare la sua formazione, con gli altri fratelli occorre battezzarli perché conoscano e ricevano lo Spirito, perché senza quello non si è cristiani. E chiunque sia nato dallo Spirito, che non si sa da dove venga o dove vada (Gv 3,8), è una continua scoperta e sorpresa. Perché lo Spirito dà il dono della vita, la quale è arricchente e appagante se solo si accetta di non ingabbiarla.

Una forma di ingabbiamento, ad esempio, è quella di ridurre il Vangelo a formule e magia. Senza relazione con Dio, con lo Spirito, si è fuori strada. È quello che, pur con un tono un po’ favolistico, si racconta dei figli di un certo Sceva, esorcisti itineranti (At 19,13-17). Dio è per la vita, e per la vita piena, ma solo in una relazione con lui che sia autentica e sincera, personale e quindi senza usare Dio come un amuleto.

Rapporto con i poteri

L’Artemide di Efeso (© AfMC)

Il Vangelo non è astratto, atemporale. La vita della chiesa è incarnata. Paolo e la chiesa tutta devono fare i conti con i poteri che, storicamente, si trovano davanti.

In particolare, devono rapportarsi con il potere civile, che è costituito dai rappresentanti dell’Impero Romano, e con quello religioso, che ancora passa da una chiesa centrale in Gerusalemme che vorrebbe esercitare un certo dominio sulle altre chiese e che non guarda con enorme favore l’impostazione teologica di Paolo.

Probabilmente anche con la chiesa di Antiochia il rapporto non è più idilliaco come in passato. Luca, pur cercando di smussare la realtà, infatti, deve ammettere che la missione paolina verso i non ebrei, con la messa in discussione della legge mosaica, ha inquietato diversi cristiani della prima ora, che si sentono ancora innanzitutto «ebrei» (come abbiamo visto leggendo At 15).

Come dicevamo sopra, anche ciò che non si dice è significativo. Paolo, già guida di Antiochia (At 13,1) e capofila della missione ai non ebrei, torna da un viaggio che lo ha tenuto impegnato per almeno due anni, e tutto quello che Luca ha da dire è che: «Salì a Gerusalemme a salutare la Chiesa e poi scese ad Antiochia. Trascorso là un po’ di tempo, partì» (At 18,22-23). Luca dice troppo poco, e noi non possiamo fare a meno d’insospettirci. Paolo sente freddezza intorno a sé. Forse per questo motivo, prima di arrivare a Gerusalemme trova il tempo di «sciogliere un voto» (18,18), adempiendo una consuetudine ebraica che «sapeva di vecchio»: consisteva nell’astenersi dal radersi (almeno i capelli) e dal bere vino per un certo tempo, come invocazione o ringraziamento a Dio. Si direbbe quasi che Paolo si impegni in questa devozione come gesto di buona volontà verso i cristiani più conservatori. Forse inutilmente.

E intanto deve continuare ad affrontare le sfide di coloro che si sentono infastiditi dal suo modo di fare. Anche a Corinto ed Efeso, infatti, c’è chi cerca di bloccare «dall’esterno» la sua predicazione. A Corinto, come era già successo in tanti luoghi, sono gli ebrei a cercare di denunciarlo, con dei risultati tragicomici e non del tutto comprensibili (18,12-17). A Efeso è invece un orafo a sobillare la folla (19,23-40): la predicazione cristiana inizia a dare fastidio anche al paganesimo, e in uno dei suoi centri più rinomati e ricchi! In entrambi i casi non riescono a fermare l’annuncio: a Efeso è il cancelliere della città a invitare gli agitatori a calmarsi, a Corinto è lo stesso governatore a sancire che in ballo c’è solo una questione religiosa, interna agli ebrei.

Se questo da una parte dice, soprattutto a noi, che almeno per gli osservatori esterni cristianesimo ed ebraismo non erano ancora ben distinti, dall’altra indica, soprattutto ai lettori del tempo di Luca, che le autorità romane sono state più volte chiamate a prestare attenzione al nuovo movimento, e ad analizzarlo sono stati i loro rappresentanti più alti, senza che questi trovassero nulla di legalmente inquietante. Il cristianesimo disturba, agita, tocca interessi economici, ma non è contro l’ordine costituito. Per chi cresceva nell’Impero Romano, imparando ad apprezzarne l’ordine, era un particolare significativo.

Angelo Fracchia
(17-continua)




L’uomo e il virus: non è finita

testi di Rosanna Novara Topino |


In Italia e in Europa la pandemia ha allentato la morsa. Sul terreno sono rimasti migliaia di morti e grandi macerie. Il futuro rimane ancora incerto e i pericoli incombenti.

Quali sono state le misure adottate per contenere la pandemia? Le misure di contenimento sono variate da paese a paese. Si è passati da quelle molto leggere della Svezia al completo lockdown di altri paesi, come l’Italia. Nel nostro paese, nella cosiddetta «fase 1», durata dal 23 febbraio al 17 maggio (introduzione delle misure di contenimento e della gestione dell’emergenza epidemiologica della Covid-19 con decreto legge del 23 febbraio 2020), si sono interrotte le normali attività lavorative, fatta eccezione per quelle che permettevano il rifornimento dei generi di prima necessità alla popolazione, e le possibilità di movimento dei cittadini sono state limitate al rifornimento di generi alimentari, di farmaci e alle visite mediche con il limite di una sola persona per famiglia fuori casa, per favorire il distanziamento sociale ed evitare assembramenti. I controlli sui movimenti di persone all’aperto si sono intensificati, fino ad arrivare all’utilizzo di droni e di elicotteri.

Dopo la «fase 2» (18 maggio – 14 giugno), con la riapertura delle attività produttive e il progressivo ritorno a una maggiore libertà di movimento, dal 15 giugno al 14 luglio, l’Italia è entrata nella «fase 3», che ha consentito spostamenti tra regioni diverse (già dal 3 giugno), la partecipazione ai funerali senza il limite di 15 persone, gli esami di maturità in presenza, mentre sono rimaste sospese fiere, congressi, processioni, manifestazioni sportive con pubblico e tutte le altre forme di assembramento.

In questo momento (luglio 2020), in Italia è notevolmente diminuito il numero dei pazienti Covid in terapia intensiva e molti reparti dedicati sono stati chiusi. Inoltre, i nuovi casi positivi non presentano più i gravissimi quadri clinici riscontrati tra febbraio e aprile. Questo tuttavia non è il momento di abbassare la guardia, perché potrebbe esserci una recrudescenza dei contagi, come è già avvenuto a Singapore per la Covid e come avvenne a San Francisco (Stati Uniti) nel 1918 per la spagnola. Eppure una ripartenza è necessaria, perché mesi di sosta forzata hanno portato a un tracollo economico in diversi settori. Molte persone sono finite in cassa integrazione e qualcuno ha perso il posto di lavoro. Purtroppo, c’è chi si è già suicidato e molti sono coloro che sono diventati vulnerabili sotto il profilo psicologico. Inoltre, è necessario tornare quanto prima alle lezioni scolastiche e universitarie in presenza, perché le lezioni a distanza hanno portato ad acuire la disparità tra studenti con più risorse e quelli con meno (non solo con riferimento al digital divide, cioè alla maggiore o minore disponibilità di mezzi informatici).

La popolazione anziana ricoverata nelle Rsa è stata duramente colpita dalla pandemia. Foto: Sabine van Erp – Pixabay.

La strage degli anziani

Quello che è stato chiaro fin dall’inizio della pandemia è che la Covid-19, nelle persone altamente suscettibili, è così aggressiva da portare nel giro di una settimana o poco più il paziente in una situazione allarmante, se non critica, con necessità di ricovero in terapia intensiva e di ventilazione meccanica. L’elevata contagiosità del coronavirus ha portato nel giro di un mese o poco più al collasso delle strutture sanitarie in diverse città del Nord Italia, tra cui Bergamo e Brescia, e il numero dei deceduti è stato così elevato da rendersi necessario il trasporto delle bare in altre città per la cremazione con mezzi dell’esercito.

In molte famiglie è scomparsa almeno una persona, se non di più. E solo dopo due mesi dall’inizio della pandemia, a seguito di indagini della magistratura, in tutta Italia è emerso chiaramente che, nelle case di riposo per anziani e nelle Rsa (Residenze sanitarie assistenziali), il numero degli ospiti e degli operatori sanitari positivi al coronavirus è stato elevatissimo. Secondo le stime dell’Iss (Istituto superiore di sanità), le morti per Covid nelle Rsa sono state tra 9mila e 10mila, ma il dato è approssimato per difetto, non essendo stato fatto il tampone a tutti. Peraltro lo stesso scenario si è presentato in tutta Europa: una strage di anziani. Inoltre, nella sola Italia sono morti sul campo 163 medici, 40 infermieri, 24 operatori socio sanitari e 14 farmacisti. E a loro si aggiungono 121 sacerdoti.

Farmaci e vaccini

A livello di prevenzione della Covid-19, sono allo studio diversi tipi di vaccini (preparati con virus attenuati o con parti di virus), ma nella migliore delle ipotesi ci vorranno non meno di 18 mesi prima di arrivare ad un vaccino, sempre che sia possibile realizzarne uno veramente efficace. Il fatto che, dopo 17 anni, non ci sia ancora un vaccino per la Sars del 2003, non è un buon segnale.

Per quanto riguarda le cure, anche in questo caso non ne esiste una specifica per la Covid-19. In alcuni ospedali stanno utilizzando con discreti risultati dei cocktail di farmaci antivirali già utilizzati nella cura di altre gravi malattie come l’Ebola. In alcuni casi in fase precoce sembra funzionare l’idrossiclorochina, un farmaco antimalarico, anche se c’è ancora disaccordo tra i vari studiosi sui suoi possibili effetti collaterali e sulla reale efficacia, mentre per la prevenzione delle tromboembolie, che possono portare a embolia polmonare, ischemia cardiaca o cerebrale si fa ricorso, quando il rapporto rischio/beneficio lo consente, all’uso di eparina.

Recentemente all’Università di Oxford hanno ottenuto buoni risultati con l’uso del desametasone, un antinfiammatorio steroideo della famiglia del cortisone in grado di ridurre la mortalità del 35% dei pazienti intubati. Un altro metodo di cura, che si sta rivelando molto efficace è quello del plasma iperimmune donato dai pazienti guariti da Covid e contenente quindi gli anticorpi efficaci nel contrastare la malattia. Questo metodo ha trovato inizialmente parecchi oppositori, poiché il plasma non è brevettabile, non essendo un farmaco, e la sua donazione è totalmente gratuita, quindi non consente alcun giro d’affari.

La lezione

A giugno abbiamo assistito a una ricomparsa della Covid in Cina, con un nuovo focolaio nel mercato dell’umido di Pechino. La situazione è diventata estremamente preoccupante nei paesi dell’America Latina, soprattutto in Brasile e Perù, dove intere comunità di popolazioni indigene stanno rischiando la loro sopravvivenza più di chiunque altro per le enormi difficoltà di raggiungere gli ospedali e per la continua esposizione al virus legata alla presenza dei cercatori illegali d’oro e di pietre preziose nella foresta amazzonica (si veda MC di luglio e questo numero a pp. 51-56). Altrettanta preoccupazione è data dall’aumento repentino dei casi e dei decessi in India. In Africa, gli stati maggiormente interessati dalla Covid attualmente sono l’Egitto, l’Algeria, il Sudafrica, il Marocco e la Nigeria, ma complessivamente questo continente sembra il meno colpito dopo l’Oceania, anche se le cifre sono sottostimate per la difficoltà di effettuare screening corretti in molti paesi. Tuttavia, qui l’epidemia è ancora in aumento e ciò che desta maggiore preoccupazione è la presenza di soli 5mila posti di terapia intensiva in tutto il continente (in Italia sono stati raggiunti 6.100 posti nel mese di marzo). Tutto questo dovrebbe almeno insegnarci che l’uomo non è al di sopra o al di fuori del regno animale, di cui fa parte, e che ogni sua azione contro di esso e più in generale contro l’ambiente può avere gravi ripercussioni e rivelarsi un boomerang dalle conseguenze incontrollabili. Proprio come l’attuale pandemia.

Rosanna Novara Topino
(terza parte – fine)


I test

Alla ricerca di anticorpi

Per quanto riguarda i controlli sanitari, il test più utilizzato è quello del tampone naso-faringeo, che permette una prima analisi della presenza del virus mediante tecnica Pcr (Polimerase chain reaction) per l’identificazione dell’Rna virale. Un test più accurato è quello della raccolta di campioni biologici dalle basse vie respiratorie (espettorato, aspirato endotracheale, lavaggio bronco-alveolare). Per monitorare la presenza del virus nei vari distretti corporei si effettua la raccolta di campioni biologici aggiuntivi quali sangue, urine e feci. L’analisi del siero consente – inoltre – di valutare la quantità di anticorpi per il Sars-CoV-2 e grazie ad essa è possibile osservare l’innalzamento dei valori di immunoglobuline M (IgM, indicanti un’infezione allo stato iniziale) e di immunoglobuline G (IgG, infezione in stato avanzato). Oltre al prelievo rapido di una goccia di sangue mediante il pungidito, metodo che dà un risultato istantaneo, ma non sempre attendibile, attualmente la raccolta del siero viene effettuata con prelievo di sangue in vena e l’analisi viene condotta con metodo Elisa, i cui risultati sono più attendibili, soprattutto perché alcuni kit diagnostici testano gli anticorpi diretti contro la proteina spike (dominio S1), la regione più specifica e meno conservata del coronavirus della Covid-19. Altri kit individuano gli anticorpi contro la proteina N del nucleocapside del virus, una proteina più duratura e comune anche ad altri coronavirus, che infettano comunemente l’uomo (come quello del raffreddore), quindi sono possibili delle cross-reattività che danno dei falsi positivi. Per ottenere un risultato il più possibile attendibile, in alcuni laboratori hanno iniziato a testare non solo le IgM e le IgG, ma anche le IgA, gli anticorpi presenti nelle secrezioni, che hanno un ruolo fondamentale nel creare una prima risposta immunitaria al virus a livello delle mucose, tra cui quella dell’apparato respiratorio.

(RNT)

Nuovo coronavirus. Foto: Leo2014-Pixabay.


Italia, 35mila morti: com’è stato possibile?

La catena degli errori

Sicuramente è stato un grave errore, commesso peraltro da moltissimi altri paesi, sottovalutare la pandemia e non preparare per tempo un adeguato numero di posti di terapia intensiva, nonostante la Covid fosse già presente in Cina da diversi giorni. E il ritardo da parte dell’Oms nel dichiarare la Covid-19 una pandemia non ha certo aiutato a prendere per tempo le necessarie contromisure. Si è arrivati alla sospensione dei viaggi da e per la Cina troppo tardi, quando ormai erano giunte nel nostro paese troppe persone contagiate, a cui non è stato fatto alcun controllo sanitario. In ogni caso un buon numero di cinesi (o di italiani di rientro) è comunque riuscito ad eludere la chiusura dei voli diretti in Italia, arrivando in altri aeroporti europei e raggiungendo il nostro paese per via di terra, dopo essere stati a festeggiare il capodanno cinese nelle loro città natali.

Per quanto riguarda i tamponi, poiché era impossibile farli a tutta la popolazione, per mancanza di reagenti e di laboratori, inizialmente sono state seguite le indicazioni dell’Oms, che dicevano di farli solo alle persone asintomatiche, paucisintomatiche o con sintomatologia compatibile con Covid, quindi febbre alta e difficoltà respiratorie, che avessero avuto rapporti con persone provenienti dalla Cina o che fossero esse stesse provenienti da località asiatiche. In tale modo sono stati esclusi molti casi positivi, che, inconsapevoli di esserlo, hanno continuato a circolare liberamente diffondendo il virus.

Per molto tempo, pur essendo chiaro che stava aumentando in modo anomalo, rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti, il numero di anziani deceduti nelle Rsa, nessuno ha mai pensato di fare i tamponi agli ospiti e al personale sanitario di queste strutture. Solo adesso si stanno facendo i tamponi in tutte le Rsa e case di riposo, quando ormai i loro ospiti sono deceduti in gran numero. Tra l’altro, tali decessi spesso non sono stati conteggiati come Covid, non essendo state compiute le analisi su queste persone prima della morte. E questo è uno degli elementi per i quali si ritiene che il numero totale dei decessi per Covid sia sottostimato. Sicuramente è stato un grave errore la decisione di trasferire dei pazienti Covid in terapia sub intensiva in alcune Rsa, per fare spazio negli ospedali, senza tenere conto del pericolo di contagio (circolare del ministero della Salute del 25/03/2020). Oltre a questo, agli operatori sanitari sono stati forniti i dispositivi di protezione individuale (Dpi) con grande ritardo, per non parlare del fatto che alcuni di loro hanno riferito di avere ricevuto pressioni per non indossare le mascherine in pubblico, allo scopo di non creare allarmismo.

La pressione a cui è stato sottoposto il sistema sanitario nel nostro paese per tentare di fare fronte all’epidemia, ha portato a mettere in secondo piano i malati di altre patologie, con interventi chirurgici già programmati rimandati, visite specialistiche spostate di mesi e così via. Tutto questo per alcuni pazienti può rappresentare un pericolo. Secondo uno studio dell’Università di Birmingham pubblicato sul British Journal of Surgery, a causa della Covid potrebbero essere stati cancellati finora oltre 28 milioni di interventi chirurgici programmati al mondo (3 su 4, cioè il 72,3%). In Italia, le nuove diagnosi di cancro, dall’inizio dell’emergenza, si sono ridotte del 52%, gli interventi chirurgici hanno subito ritardi nel 64% dei casi e le visite specialistiche sono diminuite del 57%. I tumori e le patologie cardiovascolari non sono certamente meno gravi della Covid e tutti questi ritardi nella diagnosi e nella cura rischiano di compromettere la possibilità di sopravvivenza di molte persone, che diventerebbero perciò vittime collaterali dell’epidemia.

Uno dei più gravi errori commessi dal nostro governo è stato quello di emanare una disposizione (circolare n. 15.280 del 2 maggio 2020 del ministero della Salute) secondo la quale, nei casi conclamati di Covid, non si dovrebbe procedere all’esecuzione di autopsie e riscontri diagnostici. Fortunatamente in alcuni ospedali come il Sacco di Milano e il Giovanni XXIII di Bergamo le autopsie sono comunque state eseguite e si è così compreso che il danno maggiore da Covid non è a carico dei polmoni, ma del sistema circolatorio con formazione di trombi, che rallentano la circolazione del sangue, il quale una volta giunto ai polmoni non consente più una ventilazione corretta. La Covid sarebbe così una malattia infiammatoria del sangue. Quindi, i farmaci che prevengono la formazione dei trombi, come l’eparina possono dare un valido aiuto. Il risultato ottenuto dalle autopsie ha pertanto evidenziato che è stato un errore prima di tutto ospedalizzare i pazienti solo quando ormai giunti alla situazione di «fame d’aria» e, quindi, intubarli per la ventilazione meccanica. Secondo un’inchiesta del Wall Street Journal basata sui dati del Ssn britannico, il 58,8% dei pazienti Covid intubati è morto. A New York risulta deceduto l’88% dei 320 pazienti sottoposti a ventilazione meccanica. Secondo uno studio del Policlinico di Milano pubblicato da Giacomo Grasselli sul Journal of American Medical Association quasi un paziente Covid intubato su due muore, questo perché la ventilazione meccanica può peggiorare il preesistente danno polmonare.

(RNT)

 




Turismo e Covid-19, un’estate in salita

testo di Chiara Giovetti | foto simboliche del Kenya da AfMC |


La pandemia ha colpito molto duramente il settore del turismo e dei viaggi, in tutto il mondo. Mentre molti si chiedono se e come sarà possibile una ripresa e come cambierà il nostro modo di viaggiare, qualcuno insiste sull’importanza di usare questo momento per ripensare il turismo e renderlo più sostenibile.

Lo scorso giugno l’Organizzazione mondiale del Turismo (Unwto) ha pubblicato i dati sul turismo internazionale relativi ai mesi da gennaio ad aprile del 2020: rispetto all’anno precedente, i viaggi internazionali sono stati 180 milioni in meno, pari a un calo del 44 per cento in termini percentuali nel primo quadrimestre dell’anno.

Il dato più negativo si è registrato in aprile: meno 97 per cento. La perdita complessiva rispetto al 2019 negli introiti derivanti dal turismo – voce che rientra nelle esportazioni per il paese che riceve i turisti – è stata di 195 miliardi di dollari, con la regione Asia Pacifico capofila delle zone del pianeta più duramente colpite dalla diminuzione degli arrivi – meno 51 per cento -, seguita dall’Europa con il 44 per cento degli arrivi in meno, dal Medio Oriente (-40 per cento), dalle Americhe (-36 per cento) e dall’Africa (-35 per cento).

Alcuni timidi segnali di ripresa hanno cominciato a emergere a giugno, sempre a detta della Unwto, con l’avviarsi dell’emisfero Nord verso l’apice della stagione estiva e in seguito alla rimozione in diversi paesi delle limitazioni agli spostamenti e alla ripresa di voli internazionali@.

Occorrerà ovviamente aspettare la fine dell’anno per tracciare un quadro più solido, ma appare già piuttosto chiaro che si è interrotta l’espansione del settore turistico che da qualche anno sembrava inarrestabile – solo a gennaio le stime davano probabile una crescita del 3-4 per cento anche per il 2020 – e che secondo quanto riportato dal forum britannico World travel and tourism council (Wttc) aveva generato nel 2019 esportazioni per 1.700 miliardi di dollari e contribuito al Pil mondiale per il 10,3 per cento, pari a quasi novemila miliardi@.

A Bagamoyo, Tanzania, sull’Oceano Indiano

La perdita di posti di lavoro

L’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), agenzia delle Nazioni unite con sede a Ginevra, ha quantificato in 305 milioni i lavoratori di tutti i settori che potrebbero perdere il proprio impiego a causa della pandemia@.

Di questi, molti sono proprio nel settore turistico, dal quale nel 2019 dipendevano 330 milioni di posti di lavoro, uno ogni dieci a livello mondiale: per ogni lavoro creato direttamente, il turismo ne generava quasi uno e mezzo in modo indiretto o nell’indotto. I sotto settori dell’ospitalità e dei servizi di ristorazione da soli impiegavano 144 milioni di lavoratori a livello mondiale, di cui 44 milioni erano lavoratori in proprio.

A fornire una stima più precisa sul numero di posti di lavoro a rischio è ancora il Wttc, che ha identificato lo scorso giugno tre possibili scenari@ a seconda della durata dei divieti di spostamento:

  • nello scenario peggiore, che ipotizza restrizioni per i viaggi a corto, medio e lungo raggio prolungate rispettivamente fino a settembre, ottobre e novembre, gli impieghi persi nel settore del turismo e dei viaggi arriverebbero a 197,5 milioni, con una diminuzione del Pil mondiale di 5.543 miliardi e un calo del 73 per cento negli arrivi internazionali.
  • Lo scenario base, che anticipa di tre mesi la rimozione delle restrizioni, stima invece in 121 milioni i lavoratori che perderebbero il posto, con una riduzione del Pil mondiale pari a 3.435 miliardi di dollari, oltre la metà degli arrivi internazionali in meno e arrivi nazionali ridotti di un terzo.
  • Lo scenario migliore, ipotizzando spostamenti possibili con un ulteriore mese di anticipo rispetto allo scenario base, parla di una perdita negli impieghi pari a 98 milioni, con 2.686 miliardi di dollari di Pil mondiale in meno, arrivi internazionali diminuiti del 41 per cento e arrivi nazionali ridotti di un quarto.

La maggior parte delle aziende turistiche, si legge ancora nel rapporto dell’Oil, sono micro, piccole e medie imprese con meno di cinquanta dipendenti; un terzo della forza lavoro totale è attivo in aziende che hanno fra i 2 e i 9 dipendenti, e tre aziende su cinque, attive nell’ospitalità o nei servizi di ristorazione, sono microimprese o addirittura singoli lavoratori in proprio.

Pur avendo un ruolo fondamentale nel creare impiego, in particolare nei paesi a medio e basso reddito, le piccole imprese hanno spesso difficoltà ad accedere al credito, hanno scarse risorse per far fronte a eventuali perdite e faticano a beneficiare di eventuali incentivi se questi non sono mirati a esse e congegnati per raggiungerle.

Il traghetto a Likoni, Mombasa, Kenya

La situazione nei Paesi meno sviluppati

All’inizio di luglio, i 47 paesi meno sviluppati secondo la classificazione delle Nazioni unite, contavano circa 280mila casi di Covid-19. Il paese più colpito era il Bangladesh, con oltre 155mila contagi e quasi 2mila decessi, mentre il Laos chiudeva la lista con 19 casi e nessuna vittima@.

Come riporta l’Enhanced integrated framework (Eif), programma di sviluppo globale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) per i paesi meno sviluppati, il turismo rappresenta il 7 per cento delle esportazioni di questi stati.

Il ruolo del settore turistico è stato decisivo in passato per permettere a Capo Verde, Maldive e Samoa di migliorare le proprie condizioni al punto da uscire dal gruppo dei paesi meno sviluppati e unirsi a quelli con un grado di sviluppo più elevato.

L’Eif analizza la situazione zona per zona, e segnala per quanto riguarda il Pacifico che a complicare le cose si è aggiunto anche il ciclone Harold. Un paese come Vuanatu, in cui il turismo rappresenta un terzo del Pil, rischia di vedere la propria economia contrarsi del 13,5 per cento.

Quanto all’Africa, dove si trovano 33 dei 47 paesi presi in esame, il settore turistico e dei viaggi potrebbe perdere almeno 50 miliardi di dollari e almeno due milioni di posti di lavoro. La diminuzione dei viaggi aerei, inoltre, ha avuto un impatto anche sull’esportazione di prodotti, come i fiori recisi, che dipendono dallo spazio destinato al trasporto merci sui voli passeggeri.

Il Gambia, continua Eif, aveva perso di recente molti turisti a causa del fallimento del gruppo britannico Thomas Cook, mentre la Sierra Leone e l’Uganda stavano ancora affrontando le conseguenze dell’ebola. L’arrivo della pandemia in questi paesi già in difficoltà ha aggravato le cose.

Nel caso del Ruanda, dove il turismo – specialmente le attività legate al trekking e all’osservazione dei gorilla – rappresenta il 30 per cento dei ricavi delle esportazioni, il governo ha dovuto includere la chiusura dei parchi nazionali@ fra le misure adottate lo scorso marzo per limitare la diffusione del virus. I parchi hanno riaperto solo a metà giugno.

Vedutadel Monte Kenya

Prima adattarsi e poi ripartire

Aziende e operatori del settore turistico hanno dovuto immediatamente tentare di adattarsi alla nuova situazione e spesso lo hanno fatto riorientando su altri servizi le proprie competenze e attrezzature.

In Gambia, ad esempio, l’ente nazionale per il turismo ha collaborato con i gruppi di giovani che lavoravano come guide turistiche convertendoli in guide anti Covid e incaricandoli di percorrere i quartieri delle loro città per sensibilizzare i loro connazionali sui comportamenti da tenere per limitare la diffusione del contagio@.

A New York un’agenzia turistica gestita da un cittadino di origine cinese, Zhan Di, impegnata nel facilitare i viaggi dalla Cina agli Usa, ha utilizzato la propria piccola flotta di minibus turistici per il trasporto e la consegna dei prodotti venduti da Amazon@.

A Roma, Roberta d’Onofrio, che gestisce case vacanze attraverso la piattaforma Airbnb, ha proposto gli alloggi a persone in lavoro agile che avevano bisogno di un posto diverso sia dall’ufficio che dalla propria abitazione per lavorare durante i mesi delle restrizioni@.

Queste sono alcune delle strategie che hanno aiutato gli operatori del settore turistico a tenersi a galla, ma ora si pone la necessità di immaginare nuove configurazioni del modo di viaggiare e di alloggiare anche alla luce dei problemi causati dal turismo di massa che la pandemia ha messo in pausa ma che erano comunque lontani dall’essere risolti.

Competizione per fuoristrada nei dintorni di Nairobi, Kenya

Solo danneggiati o anche danneggiatori?

Lo scorso maggio, riporta il giornalista Christopher de Bellaigue sul Guardian, la Unwto ha avvertito che la crisi legata al coronavirus rischia di danneggiare il settore al punto che i progressi verso una maggior sostenibilità dei flussi turistici potrebbero non solo arrestarsi ma fare passi indietro. Dall’inizio della pandemia, ricorda il giornalista inglese, le compagnie aeree e quelle che vendono crociere hanno fatto una massiccia attività di lobbying chiedendo ai propri governi di concedere loro sgravi fiscali e di sacrificare le misure di tutela dell’ambiente a vantaggio di una più rapida e massiccia ripresa della mobilità@.

I danni del turismo di massa o comunque non sostenibile erano noti: «Dal carburante e particolati vomitati dalle moto d’acqua ai pesticidi che inzuppano i campi da golf, le innocenti evasioni dei vacanzieri somigliano all’ennesima botta inferta a questo povero vecchio pianeta. Ci sono poi il cibo abbandonato in frigo e gli agenti chimici usati per lavare le lenzuola dopo ogni singola nottata passata da un ospite in uno nei 7 milioni di alloggi Airbnb e il carburante cancerogeno bruciato dalle navi da crociera».

E, ancora, le emissioni di anidride carbonica, che – secondo uno studio del Nature climate change, la sezione della rivista Nature dedicata al cambiamento climatico -, sono aumentate fino a rappresentare circa l’8 per cento dell’impronta di carbonio a livello mondiale. Il grosso è dovuto ai viaggi aerei.

La crescita del settore turistico prima della pandemia stava rapidamente controbilanciando e superando gli effetti degli sforzi di decarbonizzare le proprie tecnologie.

Molti osservatori e operatori stanno constatando che la pandemia ci ha costretti a immaginare un turismo più sostenibile anche perché più locale.

Veduta del Monte Kilimanjaro dal Kenya

Paesi come il Kenya, il cui turismo è legato ai parchi naturali e agli animali selvatici dipendono in maniera quasi esclusiva da ricchi visitatori occidentali. Tali paesi hanno toccato con mano come l’interruzione dei viaggi metta a repentaglio non solo i posti di lavoro nel settore ma anche le aree protette e la loro fauna, che dagli introiti provenienti dal turismo dipendono per essere difesi dagli attacchi dei cacciatori di frodo e anche dal rischio che le riserve siano convertite in terreni agricoli.

In aprile, il ministro keniano del turismo Najib Balala invocava un cambio di paradigma che favorisca il turismo interno al Kenya e panafricano: «Non possiamo più permetterci di aspettare che arrivino i turisti internazionali. Se cominciamo ora, in cinque anni riusciremo a diventare resilienti rispetto a qualunque shock, compresi i disincentivi agli spostamenti imposti dai paesi occidentali».

Qualcuno, conclude de Bellaigue sul Guardian, ha già iniziato: il consiglio comunale di Barcellona, ad esempio, si è riappropriato di alcune parti della città prima abbandonate al turismo selvaggio, mentre il governatore di East Nusa Tenggara (Isole della Sonda), in Indonesia, aveva almeno tentato di limitare i flussi turistici alzando i prezzi per l’accesso al parco naturale dove vivono i draghi di Komodo, decimati dalla presenza massiccia di turisti che disturbava l’accoppiamento dei rettili, dalla caccia di frodo che privava gli animali della loro fonte di cibo e dal disboscamento che aveva distrutto il loro habitat.

La pressione delle compagnie che organizzano immersioni subacquee, degli hotel e dei ristoranti dell’area aveva spinto il governo a scavalcare la decisione del governatore e ripristinare l’accesso di massa al parco naturale. Ora la pandemia, in seguito alla quale entrare nell’area protetta è vietato a tutti tranne che alle comunità di pescatori che vivono nella zona, ha paradossalmente rimesso la palla al centro.

Chiara Giovetti

Il Fort Jesus a Mombasa, Kenya




I Perdenti 55. Hadewijch d’Anversa, beghina, mistica e poetessa

testo di Don Mario Bandera |


È interessante notare come alcuni termini che all’origine avevano un loro un preciso significato, ora ne abbiano un altro ben diverso. È il caso del sostantivo femminile «beghina» (mentre il corrispondente maschile – bagardo – non è mai stato popolare) che «nell’uso comune – scrive il vocabolario Treccani – [si riferisce a una] donna che ostenta una devozione puramente esteriore e formale; bigotta, bacchettona».

Questo termine, a partire dal XII secolo, fu utilizzato per indicare membri di associazioni religiose femminili formatesi al di fuori della struttura ufficiale degli ordini monastici e religiosi con lo scopo di una rinascita spirituale della persona e di un rinnovamento della Chiesa. A tali associazioni si univano donne nubili o vedove, donne pie, fortemente religiose, ma volutamente non monache. Si consacravano al Signore e vivevano in comunità (beghinaggi) o in piccoli gruppi, ma non abitavano nei conventi. Contraevano voti simili a quelli degli ordini religiosi, però privilegiavano la libertà individuale, non rinunciavano ai loro beni e si impegnavano a vivere del lavoro manuale e a distribuire il superfluo. Si affidavano a un consigliere spirituale, ma senza rispondere direttamente alle autorità ecclesiastiche.

Questi movimenti sorsero soprattutto nelle Fiandre (oggi parte del Belgio) intorno al 1150 e si diffusero largamente in Germania e in Francia, e, in misura minore, in Italia, avendo séguito proprio in tempi in cui nascevano i grandi ordini religiosi, come i francescani, i domenicani, i cistercensi. Il tempo di massima fioritura fu il XIII secolo, a cui seguì un periodo di declino con una ripresa nel XVII secolo che neppure la Rivoluzione francese riuscì a spegnere. Le ultime beghine erano ancora attive in Belgio negli anni ‘70 del secolo scorso.

Sebbene influenzate dalla vivacità religiosa del tempo e dalla voglia di rinnovamento che condividevano con i nuovi ordini mendicanti, queste associazioni presto caddero in sospetto di eresia a causa di interpretazioni molto personali e a volte esclusivamente letterali delle Sacre Scritture. Questo era dovuto al fatto di non avere una regola scritta, uni-forme e approvata, all’eterogeneità dei gruppi e alla larga diffusione tra il popolo, e all’essere spesso confuse con movimenti ereticali come Manichei, Catari, Osservanti, Albigesi, Flagellanti e Fratelli del Libero Spirito.

Il termine «beghina» ha un significato incerto e «deriverebbe dal verbo beggen (cfr. ingl. to beg) “pregare” e insieme “mendicare”, o dal francese antico bege (mod. beige), ossia dai “panni bigi” di rozza lana di cui si vestivano» (enc. Treccani). Probabilmente è stato utilizzato anche con connotazioni dispregiative e derisorie da parte dei membri delle istituzioni ecclesiali più antiche che guardavano con sospetto la nascita in seno alla Chiesa di simili movimenti.

Noi abbiamo voluto saperne di più colloquiando con Hadewijch d’Anversa, una delle rappresentanti di spicco del movimento delle beghine di quei secoli.

Carissima, di te conosciamo solo il nome e gli scritti che ci hai lasciato, parlaci un po’ della tua vita.

Sono nata nei pressi di Anversa da una famiglia aristocratica, e ho vissuto tra le Fiandre e il Brabante, tra la fine del 1100 e la metà del 1200, più o meno contemporanea o poco più giovane di san Francesco d’Assisi. Durante il mio periodo di «beghinaggio» misi per iscritto molte mie meditazioni.

Tra le tue opere c’è un gruppo in liriche di stile provenzale, ispirate non dal tuo amore di donna per un uomo o viceversa, bensì dal tuo immenso amore di donna per Dio.

Ho scritto molto nella mia lingua locale, il neerlandese, anche se conoscevo bene sia il latino che il francese. Ho lasciato quarantacinque Poesie Strofiche (Strofische Gedichten), frutto del mio amore per Dio. Ho scritto anche trentuno Lettere (Brieven) a carissime amiche che potevano capire e intendere il mio stato d’animo, e a cui raccontavo le mie pene e le mie gioie di innamorata di Dio.

Abbiamo anche la descrizione delle tue visioni, nelle quali, con più immediatezza, descrivi le tue mirabili esperienze mistiche.

Ho lasciato il racconto di quattordici Visioni (Visoenen) e ho scritto anche un testo definito la Lista dei perfetti (Lijst der volmaakten) dedicato a persone per me sante, oltre un gruppo di sedici Poesie miste (Mengeldichten), definite anche come «lettere in rima».

I miei scritti, soprattutto le poesie, vengono riconosciuti come esempio del vertice letterario (scritti da una donna tra l’altro!) raggiunto dalla letteratura mistica delle Fiandre e del Brabante nei XII e XIII secoli.

Dai tuoi scritti capiamo che il tuo cammino di ascesi mistica è stato un percorso esaltante che ti ha portata a vivere esperienze quasi impossibili da raccontare.

Tutto ciò che l’uomo può pensare di Dio o comprendere, e comunque immaginare, ebbene questo non è Dio. Perché se l’uomo potesse intenderlo e comprenderlo con i suoi sensi e i suoi pensieri, Dio sarebbe meno dell’uomo e noi avremmo finito di amarlo. La stessa cosa avviene con gli uomini senza profondità, presso i quali l’amore è presto alla fine.

La mia è stata come un’avventura interiore, una «fiera cavalcata» alla ricerca dell’Amato. Perché l’Amore è tutto, e ciò che conta è soltanto amare, senza preoccuparsi dei dogmi e della gerarchia ecclesiale.

Come hai vissuto il tuo amore per Dio?

Antico manoscritto delle visioni di Hadewijch d’Anversa

Possiamo dire che la vera ragione dell’amore è un’onda che cresce sempre, senza arrestarsi mai. Ciò che appartiene alla ragione è in opposizione con quel che soddisfa la vera natura dell’amore: la ragione non può infatti portar via nulla all’amore, né a sua volta può dargli alcunché.

Prima di possedere l’Amato – lo esprimo con il linguaggio simbolico della poesia provenzale del mio tempo -, bisogna fargli la corte per conquistarlo, agendo sempre cavallerescamente e con generosità, in tutte le cose e con qualsiasi persona, sconosciuta o meno che sia, secondo la dignità dell’Amato, per l’alta fama e per il bene che l’amante avrà presso di lui. Perché lui intende bene la cortesia: quando conosce le grandi pene e il duro esilio che ha sofferto la sua amante, nonché i suoi nobili sacrifici, allora non può non rispondere con l’amore e dare tutto se stesso. Ecco come si corteggia l’Amato!

Ma come è possibile arrivare a questi livelli?

L’aquila fissa il sole senza mai arretrare, come l’anima interiore guarda Dio senza distogliere mai lo sguardo da lui. L’evangelista Giovanni è il capostipite di questa spiritualità, di questo modo di amare Dio, dove non si pensa né ai santi né agli uomini, ma affidandosi completamente alle mani del Signore, si vola semplicemente nelle altezze divine. Quando l’aquilotto non può fissare il sole, viene gettato fuori dal nido. Così farà l’anima sapiente, la quale rigetta tutto ciò che può oscurare lo splendore dello Spirito, poiché all’anima – al pari dell’aquila – non si addice il riposo, bensì il volo incessante verso l’altezza sublime.

Perciò, secondo il tuo modo di vedere, Dio esercita nel più piccolo dei suoi doni tutte le sue più grandi virtù.

Le ricchezze di Dio sono molteplici; Dio è molteplice nell’unità e semplice nella molteplicità. Poiché Dio è questo, tutti i suoi figli conoscono le sue copiose delizie, davvero tutti, l’uno più dell’altro.


La mistica teologica della Hadewijch, rappresentante dell’affascinante mondo della mistica femminile del Medioevo fiammingo, è un esempio significativo di un fedele connubio tra esperienza mistica (da lei chiamata «conoscenza sperimentale») e contemplazione della Parola. Su Hadewijch d’Aversa non è ancora detta l’ultima parola. Per conoscerla meglio si deve soprattutto leggere la sua opera. Le sue Lettere ci restituiscono l’immagine di una donna colta, intelligente, sensibile, soprattutto rivolta a filtrare le sue abbondanti grazie mistiche alla luce del Dio trinitario. Una figura più attuale che mai. Possiamo dire che Hadewijch rappresenta un unicum nella storia della prosa e letteratura neerlandese: la somma maestria con cui ha saputo esprimersi nella sua lingua volgare, ci ha fornito un’opera magnifica. Un’opera pervasa dall’amore, concetto chiave della sua vita. La sua vita, infatti, è una continua ricerca dell’amore per poter soddisfare l’amore e con esso Dio. Le sue esperienze personali, raccontate alle sue amiche, dovevano guidarle alla pienezza dell’amore. Concludendo possiamo dire che la mistica dell’amore in quei secoli lontani ha preparato il terreno a una pedagogia ascetica che è presente ancora oggi nella vita della Chiesa.

Don Mario Bandera

 


NOTA BIOGRAFICA

(da https://it.wikipedia.org/wiki/Hadewijch)

Hadewijch d’Anvers (fine XII secolo – inizio XIII secolo) è stata una mistica e poetessa fiamminga, vissuta probabilmente nel ducato di Brabante (nel quale allora erano incluse città come Bruxelles, Anversa, Lovanio e Breda). Legata al nascente movimento delle «Beghine», fu tra le principali figure della letteratura volgare europea sviluppatasi in quel periodo. Scrisse anche opere in prosa. Non si posseggono notizie certe riguardanti la scrittrice, al di fuori delle indicazioni contenute nelle sue opere, tramite le quali ci ha svelato gli aspetti più intimi della sua anima. Confidò di essere stata conquistata dal «divino amore» all’età di dieci anni, che l’ha accompagnata per tutta la vita. Le sue opere furono incentrate sull’amore, sulle sofferenze e le estasi che produce all’anima. Nelle Brieven (Lettere), chiarì la sua dottrina mistica, costituita da una miscela di razionalità e passionalità sublimata. Ancora più significative furono le Strophische Gedichten (Poesie strofiche), realizzate riadattando gli schemi della lirica provenzale alla sua forte espressività, e ruotanti attorno al tema dell’Assoluto, dell’amore frutto della trasposizione dell’ideale cavalleresco, dell’umiltà come condizione di grazia e della contrapposizione tra quest’ultima e la fierezza.

 




Con cuore grande, facendo del bene

a cura di Sergio Frassetto |


Vogliamo dedicare il nostro inserto al ricordo di padre Francesco Pavese, missionario della Consolata, scomparso il 3 maggio scorso; oltre che figlio devoto del fondatore, fu anche postulatore della sua causa di canonizzazione, ma, soprattutto, studioso e profondo conoscitore dell’Allamano, che fece conoscere attraverso i suoi numerosi scritti e la sua predicazione.

Come esempio, ecco alcuni pensieri di una sua omelia, tenuta a Castelnuovo Don Bosco, il 16 febbraio 2014.

Che cosa può dire a voi, oggi, il beato Allarmano? Almeno due cose. La prima è questa: siate cristiani tutti d’un pezzo, come erano quelli del suo tempo. Se questo paese ha offerto alla Chiesa e al mondo tanti santi, è perché le famiglie erano cristiane di prima qualità. Vi erano delle mamme di valore, come la mamma di don Bosco, come la mamma dell’Allamano, che hanno saputo indirizzare i figli sulla via della santità. Quando
l’Allamano ha manifestato il suo desiderio di essere missionario, la mamma, già ammalata, gli ha risposto: «Io non voglio ostacolarti, pensa solo se sei chiamato da Dio; quanto a me non pensarci!». Queste erano mamme!

L’Allamano ci insegna il metodo per vivere cristianamente nel modo migliore possibile, ad alto livello. È un metodo che ha ereditato dallo zio Giuseppe Cafasso, ed è questo: «Se volete essere cristiani di prima qualità, non pretendete di fare cose straordinarie, ma fate le cose bene, meglio che potete, nella vostra vita ordinaria di ogni giorno». Lui sintetizzava questo suo insegnamento così: «Il bene bisogna farlo bene, con costanza e senza rumore». È un metodo semplice, ma impegnativo e garantito.

Il secondo insegnamento che l’Allamano, oggi, ci offre, è questo: «Alzate il vostro sguardo e rendetevi conto che buona parte dell’umanità non conosce o non segue il vero Dio, cioè il Padre che Gesù è venuto a rivelare». L’Allamano era molto occupato nella sua diocesi. Un vescovo del suo tempo diceva: «Non c’era iniziativa di bene che non partisse dalla Consolata». Da quel santuario, l’Allamano creava un dinamismo apostolico di grande qualità. Eppure ha saputo alzare lo sguardo e interessarsi anche dei lontani, gente che lui non conosceva, ma che amava, perché era convinto che appartenessero all’unica famiglia di Dio. Ha fondato addirittura due Istituti missionari, uno per sacerdoti e fratelli coadiutori e uno per suore missionarie. Perché lo ha fatto? Perché aveva un cuore grande, che superava i confini del suo ambiente. L’Allamano è stato apostolo molto attivo in patria, nella sua diocesi, e apostolo molto attivo nel mondo,
attraverso i suoi figli e figlie. Come vostro concittadino, egli vi invita ad avere un cuore grande e a partecipare, come potete, a questa avventura missionaria della Chiesa, che dura da duemila anni.

padre Francesco Pavese

Devoto figlio di Giuseppe Allamano

Ricordo di padre Francesco Pavese

Nato il 2 aprile 1930 a Casorzo (Asti), padre Francesco Pavese divenne missionario della Consolata con la prima professione religiosa, alla Certosa di Pesio, l’8 dicembre 1951. Ordinato sacerdote, a Torino, il 19 giugno 1955, vi rimase come insegnante e direttore del seminario teologico dal 1960 al 1970, finché fu eletto superiore regionale dell’Italia, nel 1970.

Numerosi i chierici di teologia e filosofia: circa 130. Era evidente la sua capacità organizzativa. Sempre molto attese le sue conferenze settimanali, in cui univa insegnamento a fine diplomazia nel fare osservazioni disciplinari. Forse un po’ presuntuoso nell’affermare che non gli sfuggiva nulla. Ma, in realtà, con intelligenza e perspicacia, era attento e vigilante.

Nel 1976, iniziò il suo «soggiorno romano»: dapprima fu incaricato dell’ufficio generale Imc di formazione e studi; poi segretario del corso di teologia pastorale all’Università urbaniana e, dal 1985 al 2001, rettore prima del pontificio Collegio S. Paolo e, poi, del pontificio Collegio urbano; nel frattempo, venne anche nominato professore invitato della facoltà di Missiologia (Università urbaniana) e consultore a Propaganda fide.

Lo reincontrai a Roma nel 1980, membro della commissione che doveva stendere il testo delle Costituzioni Imc rinnovate, per accogliere l’insegnamento e spirito del Concilio Vaticano II. Lui un gigante in Diritto canonico e ricco di esperienza, io pivello ignorante. I suoi apporti erano mirati e convincenti. Lui era sempre il primo a farli presenti e suggerire soluzioni per gli inevitabili scogli. Non si imponeva. Lo ammiravo e imparavo.

Dal 2002 al 2011, divenne postulatore generale della causa di canonizzazione del beato Allamano; dal 2013, si ritirò a Torino in Casa Madre, dove, oltre i vari servizi pastorali, continuò nel suo lavoro di ricerca e pubblicazione di studi sul fondatore.

Per circa dieci anni fu postulatore della Causa di Canonizzazione del beato Giuseppe Allamano. Entrò nell’ufficio digiuno del fondatore. Divenne presto un postulatore convinto, operoso, amante del nuovo compito. Ne acquistò conoscenza approfondita, che per anni sbriciolò in tanti paesi, animando Esercizi spirituali e incontri. Conoscenza con amore, che non cessò con la consegna della postulazione al suo successore. Continuò a studiare e scrivere. Traeva da scritti conosciuti, ma aggiungendo interessanti dettagli inediti.

Accolto nella casa di Alpignano, si è spento all’ospedale di Rivoli il 3 maggio 2020, durante la drammatica emergenza del coronavirus.

(annotazioni di padre Giuseppe Inverardi)


Non voglio morire «sfaccendato»

Il 28 giugno 2015, celebrando i sessant’anni della sua ordinazione sacerdotale, p. Francesco Pavese ringraziò il Signore, la Consolata e l’Allamano per il suo sacerdozio e concluse con il proposito di continuare l’opera del Signore fino alla fine della sua vita. Ecco quanto disse.

Sono stato ordinato sacerdote sessant’anni fa proprio qui, in questa chiesa. Sono missionario della Consolata, e quindi formato nello spirito del beato Giuseppe Allamano.

Il primo sentimento è un grande grazie perché il Signore mi ha chiamato: è un grande dono e io stesso sono sorpreso di essere stato scelto e di essere stato aiutato a non fuggire, a non andare da un’altra parte.

E grazie, certamente per il sacerdozio. Per parlare del sacerdozio ci vorrebbe una vita intera, ma mi limito a sottolineare le sue due principali caratteristiche trasmesse a noi dal padre fondatore: è un sacerdozio eucaristico e mariano.

Voglio poi ringraziare il Signore perché il mio sacerdozio è missionario. Non mi lega alla diocesi dove sono nato, ma è un sacerdozio aperto, libero: sono stato disponibile di andare da qualsiasi parte dove l’Istituto mi avrebbe mandato.

Il nostro fondatore ci ha detto che dobbiamo essere degli apostoli zelanti, cioè avere l’ardore dentro. Le sue parole sono queste: «Ci vuole fuoco per essere apostoli», e io me le sono attaccate all’orecchio.

A coloro che partivano l’Allamano lasciava tre ricordi e anch’io li ho messi nel mio cuore:

  1. essere uomini di preghiera: se il missionario non prega non può convertire nessuno.
  2. essere uomini di bontà, di mansuetudine, di cortesia: il missionario vuole bene alla gente, la aiuta e condivide la sua vita con essa.
  3. essere uomini distaccati, liberi da se stessi, ma portatori di grandi ideali nel cuore.

E ringrazio il Signore ancora perché sono sacerdote, missionario e religioso, appartengo cioè a un istituto, a una comunità religiosa che ha come caratteristica la vita e l’opera in comune, e i consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza.

E riguardo a questi ultimi il beato Allamano diceva: «Con i voti, non si dà al Signore solo il presente, ma il futuro», cioè tutta la vita, senza alcun limite.

Il Papa diceva ai giovani: «Non andate in pensione troppo presto», e io lo dico di me stesso: ho dato al Signore il mio futuro; non c’è per me un tempo di pensione, finché le forze mi aiuteranno io devo continuare.

Sessant’anni sono tanti, non sono più un giovanotto, ma finché avrò le forze cercherò di tirare avanti e voi aiutatemi con la vostra preghiera perché non voglio morire «sfaccendato», ma sempre impegnato nell’opera del Signore.

Questi sono gli ideali che ho coltivato e oggi lo dico al Signore, alla Consolata e al beato Allamano: «Ho passato la mia vita per voi, ho fatto meglio che ho potuto e quello che non ho fatto bene pensateci voi».

A cura di Sergio Frassetto


Il tesoro dello scriba

Padre Francesco Pavese è stato chiamato a ricoprire la carica di postulatore generale dell’Istituto nel 2002 ed è rimasto in tale incarico fino a raggiungere gli ottant’anni, quando, secondo le norme della Congregazione dei santi, un postulatore deve cedere il posto a una persona più giovane.

Padre Pavese si era dedicato, dunque, al compito di postulatore con entusiasmo, svolgendolo con molta efficacia e creatività e prestandosi volentieri, dovunque venisse richiesto, per Esercizi spirituali, ritiri mensili e conferenze sul beato Allamano. Non si contano i viaggi fatti, anche all’estero, allo scopo di animare, soprattutto i missionari e le missionarie della Consolata, sul fondatore. I suoi articoli, pubblicati sulle riviste italiane dei nostri Istituti, venivano poi tradotti in più lingue, per renderli accessibili a più persone possibili.

E qui, l’immagine che mi viene in mente è quella presentata da Gesù, dopo il racconto di alcune sue parabole: «Ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).

Con la passione e la competenza che lo caratterizzavano, il nostro postulatore si mise, dunque, ad «estrarre dal tesoro» nascosto dell’Istituto, informazioni e notizie antiche, dando loro vita e rendendole nuove e attraenti, soprattutto alle giovani generazioni di missionari e missionarie.

Messa festa della Consolata a Casa Madre, Torino, presieduta da p. Stefano Camerlengo superiore generale

Degni di menzione particolare sono due pubblicazioni fatte durante il decennio in cui fu postulatore. La prima è l’accurato e minuzioso lavoro, fatto con suor Angeles Mantineo, sulle conferenze del fondatore per rispondere alla richiesta del Capitolo generale di rendere più «comprensibile» (soprattutto nel linguaggio), la «Vita Spirituale» del fondatore. Il libro usciva alle stampe nel 2007, con il titolo «Così vi voglio», tradotto, poi, in cinque lingue diverse.

Altra opera divulgativa fu la pubblicazione di «Giuseppe Allamano, uomo per la missione», (sempre in collaborazione con suor Angeles), un lavoro geniale, che rispondeva almeno a tre esigenze: fare conoscere tutto il materiale fotografico relativo all’Allamano e ai luoghi da lui frequentati; fare emergere episodi, luoghi e persone che raramente venivano evidenziati nelle biografie e che avevano giocato un ruolo importante nella sua vita; e, infine, usare uno stile giornalistico, così da attirare alla lettura anche persone meno abituate a opere impegnative. Il risultato? Un volume di quasi 300 pagine, scorrevole e tipograficamente accattivante, molto ben curato.

Ma penso che il lavoro a cui p. Pavese ha dedicato più tempo sia stata la lettura, attenta e costante, di tutto il materiale presente nell’Archivio generale dell’Istituto. Manoscritti e libri sono veramente tanti, particolarmente in ciò che concerne le deposizioni dei testimoni al processo di beatificazione, gli studi sul fondatore (biografie e monografie), le commemorazioni fatte nel corso di 60 anni, le testimonianze dei primi missionari e missionarie che conobbero il fondatore, i diari di missione…

Le «scoperte» delle lunghe ricerche, venivano poi inserite nel sito web (https://giuseppeallamano.consolata.org/), che costituisce una vera miniera on line di studi, pubblicazioni, testimonianze, conferenze e sussidi di impronta «allamaniana».

Nel 2013, p. Pavese lasciò Roma per trasferirsi a Torino. Raggiunta la veneranda età di 82 anni e vicino alla tomba del Fondatore, continuò a progettare e realizzare pubblicazioni, divulgando la sua impareggiabile conoscenza dell’Allamano attraverso articoli su varie riviste, con il tema d’obbligo, sempre lui: il beato Allamano!

Ultima sua fatica stampata fu il libro «Scegliendo fior da fiore: i 51 Santi di Giuseppe Allamano»: un grappolo di santi e sante (i più conosciuti e da lui amati) scelti, appunto, e presentati come «modelli garantiti», adatti a tutti e alle diverse situazioni.

Negli ultimi tre anni, p. Pavese aveva anche raccolto, in monografie (non ancora pubblicate), temi e argomenti vari, concernenti la spiritualità e la vita del fondatore. Ne ricordiamo alcuni, più caratteristici:

  • – Parole quotidiane del beato Giuseppe Allamano nel racconto dei testimoni;
  • – Quarant’anni di consolazione: la mariologia di Giuseppe Allamano;
  • – L’Allamano uomo: episodi di umanità vera;
  • – Giuseppe Allamano, l’uomo segregato nel silenzio;
  • – Che bello!: l’intensità spirituale dell’Allamano, nelle sue parole.

Al di là di quanto scritto e prodotto, p. Francesco Pavese ha lasciato all’Istituto, soprattutto un’eredità indelebile, un tesoro prezioso: il suo amore per il fondatore, la passione di farlo conoscere, con il desiderio pungente di vedere riconosciuta ufficialmente dalla Chiesa la sua santità.

Molti anni fa, a un missionario partente, che gli confidava il timore di non rivederlo più, l’Allamano rispose: «Ci rivedremo in Paradiso. Io, quando sarò lassù, vi benedirò ancora di più. Sarò sempre dal pugiol (balconcino)». Mi piace immaginare, ora, il nostro p. Pavese, accanto all’amato fondatore che, dal pugiol, ci guarda e, incitandoci col suo sorriso un po’ sornione, ci aiuta a camminare sulle strade della missione con coraggio, tanta fiducia e… in santità di vita.

padre Piero Trabucco

 




Il grande discorso di Atene (At 17,16-34)

testo di Angelo Fracchia |


Nel nostro percorso di lettura degli Atti degli Apostoli avevamo lasciato Paolo nel bel mezzo del suo secondo viaggio apostolico. Dopo aver attraversato l’odierna Turchia, era approdato in quella che anche oggi chiamiamo Grecia, dove aveva aperto strade nuove al Vangelo. Dovendo però fuggire da Filippi e da Tessalonica, era giunto, da solo, ad Atene, dove aveva atteso di essere raggiunto da Sila e Timoteo (At 17,15).

Atene era stata il grande faro della filosofia, dell’arte, dell’economia, del potere politico della Grecia nei secoli precedenti. Si trattava di una «nobile decaduta», ormai tagliata fuori dal potere politico (da due secoli passato a Roma, che l’aveva strappato non ad Atene ma ai macedoni), economico (le grandi vie commerciali passavano via terra dal Nord, ossia da Tessalonica e Filippi, oppure via mare dal Aud, da Corinto) e persino culturale. I centri di riferimento importanti erano ormai molti e, con la lingua greca diffusa in tutto il Mediterraneo orientale, il fulcro della cultura greca era ormai diventata Alessandria d’Egitto. Con tutto ciò, la fama antica continuava a illuminare la città, e l’Acropoli era sempre lì a dominarla, con la sua imponenza che colpisce ancora oggi.

È lì che Paolo tiene il suo discorso più completo ai «greci», ossia a coloro che non appartenevano all’ebraismo e che anzi si riconoscevano in un’impostazione religiosa «pagana». Non staremo a chiederci quanto davvero sia credibile che Paolo abbia tenuto quel discorso e se lo abbia fatto proprio come lo leggiamo. Per capire, lasciamoci accompagnare da Luca, da quanto dice, da ciò che tace… e, ancora una volta, anche da quanto ci dicono le lettere di Paolo.

Il contesto (At 17,16-21)

Paolo ad Atene si vede circondato da segni pagani, e questo lo irrita profondamente (At 17,16). In realtà avrebbe dovuto esserci abituato, perché il mondo in cui viveva era dominato da religioni politeiste che spesso si influenzavano a vicenda. Ma in effetti Atene esibiva una quantità eccessiva di questi segni, eredità dei secoli precedenti; una ricchezza che era espressa in un’abbondanza di edifici, statue e probabilmente dipinti e mosaici a tema religioso in ogni angolo.

Paolo sale sulla collina dell’Areopago, situata tra l’Acropoli e l’agorà della città, luogo di incontro e di liberi dibattiti, e lì parla del Vangelo, ma i passanti immaginano che intenda presentare una nuova coppia divina, «Dio e la Risurrezione», come se fossero Zeus ed Era. E gli danno anche appuntamento perché ne parli ancora con maggiori particolari.

Questo è il primo passo sbagliato. Chi si accinge ad ascoltare Paolo, infatti, non lo fa perché prova dentro di sé la sete di interpretare in modo profondo e proficuo la propria vita, di trovarvi il senso (come diremmo noi) o di essere salvati (come dicevano gli ebrei di quel tempo). «Tutti gli ateniesi, infatti, e gli stranieri là residenti non avevano passatempo più gradito che parlare o ascoltare le ultime novità» (At 17,21). La motivazione è semplicemente la curiosità, il passatempo.

Come il pane e l’acqua possono sembrare insipidi a chi non ha fame e sete, il Vangelo fatica a lasciarsi ridurre a passatempo.

Ciononostante, Paolo ritiene che valga in ogni caso la pena di provare.

Sintonizzarsi con l’ascoltatore (At 17,22-28)

Che cosa intenderà trasmetterci Luca nello scrivere il discorso di Paolo? Finora i discorsi di evangelizzazione che ci ha restituito negli Atti degli Apostoli partivano dai profeti, per mostrare la coerenza dell’azione di Dio fino a Gesù, definitiva offerta di comunione tra il divino e l’umano. Ma come avrebbe potuto partire dai profeti con persone che evidentemente non potevano conoscerli? Chissà, forse questo discorso di Paolo potrebbe costituire un modello di annuncio in contesti religiosi che non hanno nulla a che fare con la tradizione biblica. Ossia, in contesti che assomigliano di più a quello in cui viviamo spesso anche noi.

La prima cosa che si può notare è che Paolo segue le convenzioni retoriche del suo tempo. Queste prevedevano di iniziare rivolgendosi in modo piacevole e convincente all’uditorio, per guadagnarsene l’approvazione, così da giungere poi al tema centrale a piccoli passi, seguendo percorsi familiari per chi ascoltava. E Paolo si adatta a chi ha davanti: se non può partire dai profeti, prende l’avvio da quella retorica che ad Atene si insegnava.

E inizia proprio dimostrando
di apprezzare le persone che ha davanti: le definisce religiosissime, in quanto ha trovato, lungo la strada che porta all’Acropoli, anche un altare dedicato «al dio ignoto». Proprio il dio che egli intende svelare agli ateniesi. Paolo dimostra insomma di essersi guardato intorno con attenzione, di aver dominato la sua irritazione e di non voler iniziare mortificando gli ascoltatori, che anzi loda.

Se volessimo estrapolare dal discorso di Paolo delle indicazioni per il nostro annuncio di oggi, potremmo dire che occorre partire dall’analisi della realtà, valorizzandone i punti buoni.

L’apostolo passa poi a spiegare che non possiamo pensare a un dio che abbia bisogno dell’uomo per le proprie necessità. Dio ha fatto il mondo e non si aspetta certo che siamo noi a fargli una casa in cui stare. Piuttosto, il Dio che ha dato a tutti la vita, ha concesso a tutti i popoli uno spazio e un luogo affinché possano, in effetti, rintracciarlo guardando come è strutturato il mondo, anche se si tratta di una ricerca fatta a tentoni, come se ci aggirassimo al buio in una casa che non è nostra. Non impossibile, ma certo abbastanza faticoso e incerto.

In questa fase Paolo riprende in realtà la polemica ebraica contro gli idoli e allude a tanti brani dell’Antico Testamento, in un modo però da non renderli riconoscibili a chi non li conosca già, ma senza renderne necessaria la conoscenza per capire il messaggio. Il discorso scorre, ha una sua logica e, alla fine, risulterà particolarmente affascinante soprattutto per chi ammette che ciò che vediamo non è l’unica realtà autentica. Molti tra gli ascoltatori platonici o stoici probabilmente si sono trovati, per così dire, «a casa propria». Se poi qualcuno degli ascoltatori avesse conosciuto un po’ di Antico Testamento, avrebbe sorriso tra sé e sé riconoscendo le citazioni e potendo confermare che funzionavano bene.

Ciliegina sulla torta, Paolo riesce a concludere questa tappa del suo ragionamento («Non siamo noi a dare qualcosa a Dio, ma lui a farci vivere») citando un poeta greco. Questa volta può permettersi di richiamare l’attenzione sulla citazione (che in realtà è abbastanza breve e forse non così significativa) proprio per ribadire che in fondo non stava annunciando nulla di inaudito o inverosimile. Una lisciatina di pelo agli ascoltatori, con la quale Paolo dimostra di conoscere e apprezzare la letteratura che si insegnava nelle scuole di retorica.

Ciò che ha fatto Paolo fino a questo punto è stato di condurre gli ascoltatori ad ammettere che la realtà autentica di Dio è spirituale. Verità su cui molti di coloro che sono di fronte a lui probabilmente erano già d’accordo.

Lo snodo decisivo (At 17,30-32)

Non è un caso che non siamo ancora arrivati a sentire nulla di autenticamente cristiano. Paolo vuole arrivare lì. Forse però, stavolta ci arriva un po’ di corsa.

Fa notare che Dio ha deciso che non si cerchi più di incontrarlo come cercandolo al buio in una casa sconosciuta, ma si è svelato. Ha stabilito anzi un criterio tramite il quale «giudicare» il mondo. È probabile che gli ascoltatori pensino non tanto a un giudizio quanto a un vaglio (un setaccio, uno screening diremmo oggi), fatto da qualcuno che faccia comprendere che cosa nell’umanità è valido e che cosa no.

In ogni caso, Paolo deve arrivare a Gesù, peraltro non citandolo per nome. Di Gesù identifica soprattutto due cose. Quel «vaglio», quel setaccio che fa emergere quello che nella vita umana è degno di attenzione e rispetto e quello che non lo è, è un uomo. Non è per niente scontato. Si poteva pensare a una visione divina, al dono di un mistero svelato per scritto, a qualche miracolo. Invece no, è una vita umana, sicuramente particolare e straordinaria, ma pur sempre umana, soggetta a tutti i condizionamenti umani, dal nascere da una donna (Gal 4,4), al dover imparare a vivere, al sottostare a norme e convenzioni. È la sorpresa dell’incarnazione, dello scoprire che per Dio l’uomo è tanto importante che l’unico «metro» adeguato per dire quale possa essere una vita umana dignitosa è esattamente mostrarla in un uomo. Perché solo un Dio che non si vergogna dell’umanità può spiegare all’uomo come vivere bene.

Il secondo dato identificante è la risurrezione. Il che, a pensarci, è davvero coerente, perché se questa vita è il meglio che Dio possa pensare per l’uomo, non può darcela solo per pochi anni. Ma ciò andava contro i pregiudizi filosofici per cui nell’essere umano a contare è lo spirito, la mente, mentre il corpo è, nel migliore dei casi, insignificante e, nei peggiori, un ostacolo.

E quegli ascoltatori che avevano colto il messaggio di Paolo come un semplice passatempo, non sono disposti a lasciarsi mettere in discussione. Il discorso va contro i loro pregiudizi, per questo lo scherniscono e aggiornano la seduta a data da destinare. Un ascolto superficiale, disinteressato, per ammazzare il tempo, non cambierà mai la vita, e non farà mai andare in profondità. Non aiuterà certo a rendersi conto di aver perso un’occasione unica.

Esiti e bilancio (At 17,33-34)

Onestamente, non si può dire che sia andata bene. Ce lo fa capire Luca, che fa ripartire Paolo immediatamente da Atene, e stavolta senza che sia stato neppure perseguitato. Non ce n’è bisogno. Pare che questa superba sghignazzata degli ateniesi sia persino peggio dell’opposizione violenta che Paolo aveva già riscontrato tante volte.

Paolo ha dato sfoggio di un discorso sicuramente ben preparato e sapiente. Ma ha ottenuto solo una presa in giro. Da Atene se ne va a Corinto, ai cui abitanti, qualche anno dopo, scriverà che i greci cercano dei bei discorsi intelligenti, ma Gesù non si piega neppure a questi. Ecco perché nella comunità dei cristiani non ci sono tanti dotti o umanamente sapienti (1 Cor 1,20-31). «Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1 Cor 2,2), stupido per coloro che cercano una divinità alla moda e fragile per chi cerca un Dio potente (1 Cor 1,22-23). Verrebbe da dire che Paolo ha imparato la lezione, e non ripeterà più un discorso come quello dell’Areopago.

Se vogliamo, anche questo è un frutto positivo: l’evangelizzatore ha imparato che conviene andare al cuore delle cose. Inoltre, nonostante il discutibile approccio di Paolo, le sue parole hanno fatto breccia in alcuni ascoltatori che hanno accolto il Vangelo: tra di essi una persona influente nell’Areopago, Dionigi, e una donna, Damaris (At 17,34). D’altronde, se Luca avesse pensato che questo discorso fosse stato completamente fuori luogo, non lo avrebbe riportato.

Sembra invece che l’autore degli Atti voglia suggerirci che è giusto e buono provare a sintonizzarsi con lo stile e i temi cari all’uditorio, ma senza aspettarsi troppo, cercando di non allontanarsi mai da quello che è comunque il cuore del Vangelo. E sapendo che, comunque, anche nei contesti meno adeguati ad accoglierlo, il Vangelo continua a parlare al cuore delle persone, e che alcune risponderanno.

Angelo Fracchia
(16-continua)




Il capitalismo delle piattaforme digitali

Testo di Francesco Gesualdi |


L’intermediazione è sempre esistita, ma è cambiata con l’avvento di internet. Oggi dominano e-Bay, Airbnb, Uber e le varie piattaforme per la consegna del cibo a domicilio. Avvantaggiate anche dalla pandemia.

Gli inglesi, che in fatto di lingua sono piuttosto fantasiosi, l’hanno battezzata «gig economy», l’economia dei lavoretti. Si riferisce a tutte quelle attività che, un tempo, erano svolte da studenti desiderosi di procurarsi qualche soldo per le proprie spese personali, ma che, in tempi di disoccupazione, sono effettuate anche da chi deve mantenere una famiglia.

Fino a una ventina di anni fa, poteva essere il servizio occasionale reso come baby sitter o come manovale nei traslochi, ma oggi è un’attività strutturata che ruota attorno alle cosiddette «piattaforme».

Prima di internet, la parola piattaforma evocava una struttura da utilizzare come base d’appoggio di un carico o di una costruzione. È piattaforma la pedana di legno allestita per la realizzazione di uno spettacolo, come è piattaforma il carrello elevatore su cui salgono i vigili del fuoco per raggiungere i piani alti da soccorrere. E ancora sono piattaforme le imponenti strutture costruite in mare per ospitare le trivelle deputate alla perforazione del fondale marino alla ricerca di petrolio. In epoca digitale, la parola piattaforma ci porta invece in ambito virtuale, nei luoghi evanescenti di internet creati per mettere in comunicazione chi richiede qualcosa e chi lo offre.  In fondo si tratta di mercati che invece di svolgersi di persona nelle piazze o nelle borse, avvengono per via telematica tramite luoghi virtuali: le piattaforme online.

I mercati virtuali

La prima piattaforma online venne allestita nel 1995 da un iraniano naturalizzato statunitense, tale Pierre Omidyar, che fondò e-Bay. Laureato in scienze informatiche, si era reso conto che internet era diventato un formidabile canale di comunicazione che la gente utilizzava non solo per scambiarsi foto, saluti e opinioni, ma anche per darsi appuntamenti, concordare iniziative e aiutarsi a risolvere piccoli problemi  quotidiani tramite lo scambio di oggetti o la condivisione dell’auto e altre apparecchiature domestiche. Insomma, internet aveva fatto emergere il lato collaborativo delle persone e qualcuno azzardò la nascita di una nuova economia che il mondo anglosassone battezzò «share economy», l’economia dell’amicizia e della condivisione. Però, come era già successo a molte altre iniziative solidali nate dal basso, anche la share economy attirò l’attenzione del mondo degli affari che aveva fiutato odore di soldi. L’attività intravista come via di guadagno era quella di intermediazione, un mestiere fra i più antichi dell’umanità. Anche nel vecchio mondo contadino esisteva il sensale, un personaggio che girava per le campagne in cerca di chi aveva bestie da vendere e di chi voleva comprarne. E, dopo avere fatto incontrare le due parti interessate, le aiutava a condurre le trattative con l’obiettivo di intascare una percentuale sul prezzo di vendita. Un’attività simile è tutt’oggi svolta dalle agenzie immobiliari che fungono da intermediari nella compravendita di case. Nella stessa categoria si collocano le borse valori, i luoghi in cui si contrattano titoli e materie prime e che devono il proprio nome al palazzo Ter Buerse, la prima sede commerciale costruita a Bruges a fine 1300 dalla famiglia veneta Della Borsa. Per certi versi perfino le banche possono essere catalogate fra le agenzie di intermediazione, per il ruolo di cerniera che svolgono fra chi risparmia e chi è in cerca di prestiti. Per cui le attività di intermediazione sono tante, sempre uguali per finalità, sempre diverse per substrato e modalità di svolgimento.

Uber e gli altri

Una caratteristica del capitalismo è la capacità di adattamento. Grazie ad essa, il sistema è riuscito non solo a garantirsi lunga vita, ma perfino a   trasformare le catastrofi in opportunità. Tipiche le guerre e i terremoti che dopo la distruzione hanno bisogno di ricostruzione. La stessa crisi climatica è vissuta come occasione di rilancio economico perché per passare dai combustibili fossili  alle energie rinnovabili serve una tale quantità di investimenti da rimettere in moto una massiccia attività produttiva. Ma il principale spirito di adattamento il capitalismo l’ha dovuto sviluppare verso la tecnologia. Angosciato dalla necessità di aumentare la produttività, ossia la quantità di produzione in rapporto al tempo e alla spesa, la tecnologia è sempre stata la sua alleata principale. Tuttavia, non senza contraccolpi, considerato che talvolta i cambiamenti sono così profondi da costringere le imprese non solo a rinnovarsi, ma addirittura a reinventarsi. Chi ci riesce sopravvive, chi non ce la fa soccombe. Ciò spiega perché nell’era del computer si siano affermate imprese create dal niente da parte di giovani con grande inventiva. Il riferimento è  a personaggi come Larry Page e Sergey Brin, fondatori di Google, Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, Jeff Bezos, fondatore di Amazon, ormai appartenenti tutti all’olimpo dei miliardari. Ma oltre a loro ce ne sono molti altri, non meno ricchi anche se meno appariscenti, che hanno costruito il loro  impero economico sulle opportunità offerte da internet. Fra essi gli opportunisti delle intermediazioni. Cominciò la già citata e-Bay, pensata per facilitare il commercio di beni usati fra privati. Una sorta di bacheca online dove chiunque può esporre ciò che desidera vendere, delegando alla piattaforma le funzioni di pagamento e di trasferimento del prezzo, ben inteso lasciandole una percentuale sull’incasso. Nel 2019 il valore complessivo dei beni transitati per e-Bay è stato di 22 miliardi di dollari, due dei quali trattenuti dalla piattaforma come corrispettivo del servizio reso. Più tardi, tale Brian Chesky e altri amici applicarono lo stesso modello all’affitto di camere, crearono Airbnb, un portale online che mette in contatto persone in cerca di camere per brevi periodi, con persone che dispongono di spazi extra da affittare. Ma benché rivoluzionarie sul piano commerciale, tali iniziative non hanno però avuto effetti di rilievo rispetto al lavoro. Queste piattaforme dispongono senz’altro di dipendenti, ma presumibilmente tutti assunti secondo i canoni classici del lavoro salariato.

Le novità arrivarono nel 2009, quando alcuni informatici, fra cui Travis Kalanick, si concentrarono sui trasporti. Avendo notato che in internet si stavano sviluppando contatti fra chi chiedeva passaggi e chi era disposta a darli, Kalanick, assieme ad altri amici, creò una piattaforma dedicata ai trasporti, che battezzò Uber. Quanto alla sua gestione avrebbe potuto seguire il modello e-Bay, ma si rese conto che lasciato allo spontaneismo le possibilità di guadagno erano piuttosto ridotte perché il passaggio era concepito più come servizio che come attività commerciale. I passaggi, infatti, venivano dati da chi avrebbe comunque effettuato il viaggio, chiedendo tutt’al più un contributo alle spese da riscuotere in forma diretta durante il passaggio. Perciò Kalanick capì che, se voleva guadagnarci, doveva industrializzare l’iniziativa.

La soluzione che si inventò fu quella di trasformare i normali conducenti proprietari di un’auto in tassisti. Detto fatto, sperimentò il suo piano a San Francisco agendo su due livelli. Da una parte lanciò un appello per chiedere a chiunque volesse effettuare trasporti a pagamento di iscriversi a una lista di disponibilità. Dall’altra creò Uberpop, un’applicazione a disposizione del grande pubblico per permettere a chiunque volesse un passaggio di poterlo richiedere.  Un’apparecchiatura retrostante avrebbe passato la richiesta a un conducente che avrebbe provveduto al servizio. Quanto al pagamento della corsa, il cliente avrebbe pagato direttamente a Uber tramite carta di credito, mentre il conducente avrebbe ricevuto da Uber un compenso stabilito da un tariffario interno, previa decurtazione di una percentuale a titolo di commissione d’ingaggio. A San Francisco l’esperimento funzionò e oggi Uber è presente in 700 città sparse in 80 diverse nazioni, con una  isponibilità complessiva di tre milioni di conducenti. Per un certo periodo è stato presente anche in alcune città italiane, ma nel maggio 2015 il tribunale di Milano dichiarò l’attività illegale perché in contrasto con le leggi nazionali che regolano il servizio taxi.

Sul piano finanziario, nel 2018 Uber ha incassato 50 miliardi di dollari, ma i conducenti lamentano coralmente compensi ridotti all’osso a fronte di alti costi  a loro carico.

I fattorini del cibo

Il modello ha fatto scuola e qualcuno l’ha applicato alla consegna di cibo a domicilio (anche Uber stessa con Uber Eats). Il primo a pensarci fu Will Shu, un analista bancario che, nel 2013, fondò Deliveroo, un’applicazione che permette di ordinare cibo a una serie di ristoranti inseriti nella sua lista. Il cliente ordina, Deliveroo incassa tramite carta di credito e paga il corrispettivo al ristorante decurtato di una commissione. Il prezzo complessivo richiesto al cliente comprende anche una quota per pagare il fattorino che esegue la consegna. Fattorino attinto da una lista interna formata da persone che si sono dichiarate disponibili a effettuare le consegne con mezzo proprio, solitamente la bici o la moto, per questo detti riders. Per cui, quando il cliente chiama, scattano due richieste contemporaneamente: una al ristorante affinché prepari il piatto, l’altra a un fattorino affinché effettui la consegna.

Oggi in tutto il mondo si contano decine di società che fanno consegna di cibo a domicilio tramite ordinazioni online (in aumento anche a causa della pandemia). In Italia, le principali sono le britanniche Deliveroo e Just Eat, la spagnola Glovo, l’italiana Foodys. Secondo una stima della Fondazione De Benedetti del 2018, tutte assieme ingaggiano 10mila fattorini. Milena Gabbanelli – Corriere della Sera, 18 giugno 2018 – descrive così la loro condizione: «Il lavoro è organizzato da un algoritmo, e punta su un continuo turn over. Le condizioni e i compensi cambiano continuamente e variano anche da città a città. Non sono previste maggiorazioni per lavoro festivo, notturno, pioggia o neve. Mediamente le piattaforme “ingaggiano” il 20% di lavoratori più del necessario per tutelarsi rispetto alle defezioni dell’ultimo minuto. Foodora (non più presente, ndr) assume Co.co.co., li paga 4 euro lordi a consegna che vuol dire 3,60 netti. Deliveroo ingaggia collaboratori occasionali, li paga 4 euro netti a consegna. Glovo ha collaboratori occasionali pagati 2,00 euro netti a consegna più 60 centesimi per chilometro percorso più 5 centesimi per ogni minuto di attesa al ristorante o in negozio oltre i primi cinque minuti».

I nuovi lavoratori

I riders sono solo la punta dell’iceberg dei cosiddetti gig workers. Oltre a chi pedala in bicicletta, c’è chi fa babysitteraggio, chi effettua pulizie per camere in affitto, chi svolge lavoro informatico occasionale. Complessivamente si stima che in Italia il pianeta gig economy occupi fra 700mila e un milione di persone, prevalentemente giovani. Eppure di loro non c’è quasi traccia nell’anagrafe dell’Inps, segno che non godono né di versamenti pensionistici, né di copertura assicurativa. Da un’indagine condotta dall’Inps nel 2018 su 50 imprese di servizi on line, si apprende che 22 di esse non hanno posizione contributiva, 17 risultano avere solo lavoratori dipendenti, 11 sia lavoratori dipendenti che collaboratori iscritti alla gestione separata. In conclusione, poco più di 2.700 lavoratori. Tutti gli altri sono considerati lavoratori autonomi, a cui non è pagato nient’altro che il servizio reso secondo un tariffario stabilito dalla piattaforma. Questo significa: niente ferie, niente indennità di malattia, niente assicurazione contro gli infortuni, niente versamenti pensionistici. Per mettere fine a questa totale mancanza di tutele, nel 2017 alcuni fattorini al servizio di Foodora, si appellarono al Tribunale di Torino per essere riconosciuti lavoratori dipendenti. Il tribunale rigettò la richiesta, facendo propria la tesi di Foodora che voleva i rider lavoratori autonomi in quanto proprietari dei  mezzi di produzione: bicicletta e smartphone non sono dell’azienda, ma dei fattorini stessi. I lavoratori ricorsero in appello e ottennero una vittoria parziale: i giudici non li riconobbero lavoratori subordinati ma neppure lavoratori totalmente autonomi, bensì una via di mezzo, lavoratori «etero-organizzati», ossia organizzati da altri e in quanto tali aventi diritto ad alcune garanzie tipiche dei lavoratori dipendenti: «sicurezza e igiene, retribuzione diretta e differita, limiti di orario, ferie e previdenza». Sentenza confermata in Cassazione e quindi pienamente esecutiva. Un buon passo avanti per la dignità del lavoro, anche se la politica deve fare la sua parte per colmare le lacune legislative che permettono ai profittatori del terzo millennio di spadroneggiare.

Francesco Gesualdi

Rider a Tokyo. Foto di Yuya Tamai.




La ricerca scientifica e lo stato dell’arte

testo di Rosanna Novara Topino |


È già trascorso metà 2020, ma la pandemia prodotta dal virus Sars-CoV-2 è ancora tra noi. Cerchiamo di capire a che punto siamo e cosa abbiamo imparato.

La probabilità di trasmissione e l’infettività del virus Sars-CoV-2 non sono modificabili in assenza di una terapia adeguata o di un vaccino, mentre una diagnosi tempestiva può servire a contenere il numero dei contatti. È chiaro che tale diagnosi può essere effettuata solo mediante un test di laboratorio detto Pcr (della «Reazione a catena della polimerasi» per lo studio dell’Rna virale a seguito di tampone naso-faringeo o di aspirato endo-tracheale o lavaggio bronco-alveolare), ma poiché risulta impossibile sottoporre tutta la popolazione a questi test, su indicazione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in un primo momento sono stati testati solo coloro che avevano avuto in qualche modo contatti con persone provenienti dalla Cina o da altri paesi asiatici, in cui si è manifestata inizialmente la pandemia. Successivamente, per mancanza dei reagenti necessari, in Italia (come già in Cina) è stato deciso di sottoporre a test solo coloro che presentavano, oltre ai sintomi, febbre elevata da più giorni senza avere beneficio dai comuni antipiretici. Infine, si è arrivati a casi di morte con sintomatologia compatibile con Covid-19, ma senza test, di persone anziane in «Residenze sanitarie per anziani» (Rsa) oppure di persone decedute in casa (senza avere ricevuto cure adeguate ed essere state sottoposte al tampone) o di persone che avevano lavorato a contatto con malati Covid.

Stando così le cose, è chiaro che il numero delle morti per Covid-19 nel nostro paese è ampiamente sottostimato. Secondo l’Inps («Analisi della mortalità nel periodo di epidemia da Covid-19» dello scorso 20 maggio), a fine aprile ci sono stati quasi 19mila decessi non conteggiati nelle morti da Covid-19.

È altrettanto chiaro che il sistema sanitario italiano in questa situazione ha rivelato tutti i suoi limiti, conseguenza dei tagli alla sanità pubblica degli ultimi decenni (si legga Gesualdi su MC giugno, ndr).

Un operatore sanitario mentre esegue un test. Foto di Dean Calma / IAEA.

Covid-19 e inquinamento atmosferico

Facendo un confronto tra l’andamento della Covid-19 e molte delle grandi pandemie del passato, come le influenze spagnola, asiatica, aviaria e suina, possiamo osservare che hanno avuto tutte origine in Asia, per poi diffondersi nel resto del mondo, passando prima per l’Europa, poi nelle Americhe e infine in Africa, Australia e Oceania.

Secondo uno studio condotto in Cina (Su, 2019), esisterebbe un’associazione tra l’inquinamento atmosferico e l’aumento del rischio di malattie infettive influenza-like (simil-influenzali). Al momento non sembra, tuttavia, essere plausibile che le particelle Pm2,5 e Pm10 siano capaci di veicolare il Sars-CoV-2, dal momento che l’essiccamento, i raggi UV e le temperature oltre i 25°C danneggiano l’involucro del virus.

In Italia, tuttavia, è stata fatta l’ipotesi di un possibile collegamento tra la diffusione del coronavirus e l’inquinamento atmosferico mettendo in relazione l’alta concentrazione del virus nella pianura Padana e l’inquinamento che la caratterizza, essendo quest’area riconosciuta come una delle più inquinate d’Europa. Probabilmente qui l’inquinamento atmosferico potrebbe agire sia come carrier (portatore), facilitando il trasporto del virus, sia come amplificatore dei suoi effetti sul polmone. Recentemente è uscito uno studio dei ricercatori di Harvard (Xiao Wu, 2020) negli Stati Uniti, che hanno evidenziato la relazione tra l’esposizione a lungo termine a Pm2,5 e il rischio di morte per Covid-19. Ci sarebbe un eccesso di mortalità del 15% sul totale della popolazione, per un aumento di 1g/m3 della concentrazione atmosferica di Pm2,5. Questo potrebbe spiegare la maggiore diffusione del virus nelle regioni settentrionali, rispetto al resto dell’Italia.

L’età e il genere dei malati

Finora il Covid-19 ha colpito con maggiore rischio di malattia grave e di morte le persone oltre i 60 anni di età, soprattutto se portatrici di altre patologie come diabete, ipertensione arteriosa, malattie cardiovascolari, malattie respiratorie croniche e cancro. La fascia d’età più colpita in Italia è quella degli anziani tra gli 80 e 89 anni (39,7%). Tuttavia, ultimamente e un po’ ovunque nel mondo, si sono verificati decessi anche tra persone di età inferiore e senza patologie pregresse. Gli under 30 rappresentano il 5% dei malati nel nostro paese. Finora la mortalità è risultata più elevata (per tutte le fasce d’età, ad eccezione degli over 90) negli uomini, che nelle donne e questo dato non è solo relativo all’Italia, ma è rilevato su scala mondiale. Probabilmente questo fatto si spiega con l’interazione tra sistema endocrino e immunitario, essendo quest’ultimo modulato dagli ormoni sessuali. Gli estrogeni femminili potrebbero avere una funzione protettiva soprattutto contro le malattie cardiovascolari, che possono essere un fattore di rischio di mortalità da Covid. Inoltre, sul cromosoma X sono stati mappati circa un migliaio di geni, contro il centinaio del cromosoma Y e molti di questi sono correlati a funzioni immunitarie. Sebbene nella femmina uno dei due cromosomi X risulti inattivato, è possibile che qualche sua parte non lo sia del tutto, permettendo una risposta immunitaria maggiore di quella maschile. Questo fatto si spiegherebbe con una maggiore competenza del genere femminile nella protezione della specie e sarebbe dimostrato anche dal fatto che, nel corso di questa pandemia, al momento non è stato riscontrato il coronavirus nel liquido amniotico o nel latte materno.

Le possibili cause

Gabbie di animali in un «wet market» di Manila (Filippine). Foto di Wayne S. Grazio.

Cosa può avere provocato la pandemia? L’ipotesi più accreditata è legata alla presenza a Wuhan di un grande mercato del pesce e dell’umido, dove vengono venduti animali selvatici di ogni tipo, tra cui pipistrelli, serpenti, pangolini, zibetti, oltre che animali domestici come cani e gatti. Mercati come questo sono molto diffusi in Cina e rappresentano un giro d’affari plurimiliardario, dal momento che gli animali selvatici rappresentano una vera prelibatezza sulle tavole delle classi sociali più elevate e vengono, inoltre, utilizzati nella medicina tradizionale cinese. Il volume d’affari di questo commercio di animali, tra selvatici e d’allevamento, si aggira sui 18 miliardi di dollari e circa 6,3 milioni sono gli addetti negli allevamenti cinesi. Questo commercio è particolarmente diffuso nelle aree rurali. Uno dei principali problemi è che in questi mercati vengono venduti animali vivi (spesso stipati in grande numero nelle gabbie), che vengono scelti dall’acquirente e poi macellati sul posto in precarie condizioni igienico sanitarie e questo fatto potrebbe senz’altro essere alla base del salto di specie da animale a essere umano.

Non è un caso se le autorità cinesi a gennaio, dopo l’emergere dell’epidemia, abbiano deciso di chiudere il mercato di Wuhan, ripristinando le stesse misure restrittive già adottate ai tempi della Sars e successivamente revocate. Poi, lo scorso 20 maggio, l’amministrazione della metropoli cinese ha introdotto il divieto di cibarsi di animali selvatici (fonte Cbs News).

Le ipotesi sul laboratorio di Wuhan

Un’altra ipotesi su ciò che può avere provocato la pandemia è un incidente di laboratorio o meglio la fuga accidentale di pipistrelli infettati con il coronavirus dal National Biosafety Laboratory di Wuhan, certificato come conforme alle norme e ai criteri di Bsl-4 (biosicurezza di livello 4 per lo studio degli agenti patogeni più pericolosi al mondo e delle malattie emergenti). Si sa che nell’istituto di virologia di questo centro sono stati intrapresi esperimenti con coronavirus su pipistrelli catturati nelle grotte dello Yunnan, finanziati con una sovvenzione di 3,7 milioni di dollari da parte del governo degli Stati Uniti (fonte Daily Mail). Inoltre, secondo il Washington Post, alcuni diplomatici statunitensi a Pechino avevano scritto nel 2018 un dossier sul centro ricerche di Wuhan evidenziando la pericolosità degli studi condotti sui coronavirus di pipistrello e il rischio di pandemia.

Non sarebbe la prima volta che un’epidemia nasce da esperimenti di laboratorio (come nel caso della sindrome di Marburg), tuttavia è un’ipotesi che va verificata, altrimenti resta soltanto un’ipotesi.

Rosanna Novara Topino
(fine seconda parte)

L’infografica sintetizza bene le conseguenze della distruzione delle foreste; il Wwf chiama le foreste «il nostro antivirus». © Arimaslab per WWF Italia, 2020.


Il potenziale di trasmissibilità

Il parametro «Erre con zero»

Un parametro importante che ci permette di valutare l’andamento dell’infezione è l’R0, cioè il numero di riproduzione di base, che indica il dato di infezioni secondarie che un individuo infetto può trasmettere in una popolazione completamente suscettibile a un nuovo patogeno (in questo caso Sars-CoV-2). Esso misura la potenziale trasmissibilità della malattia, in assenza di misure di contenimento. Quanto maggiore è R0, tanto più facilmente può diffondersi la malattia infettiva: se R0 è pari o superiore a 2, significa che ogni positivo mediamente infetta due persone; un R0 inferiore a 1 indica che l’epidemia può essere contenuta. Secondo l’Oms, l’R0 di Covid-19 è compreso tra 1,3 e 3,8 sulla base dei dati raccolti da enti di ricerca di tutto il mondo. Quello della Sars era compreso tra 2 e 4 con una media di circa 3 e quello della Mers inferiore a 1. Questo parametro dipende dalla probabilità di trasmissione per singolo contatto tra una persona infetta ed una suscettibile, dal numero dei contatti della persona infetta e dalla durata dell’infettività (che, secondo studi cinesi, può arrivare fino a 50 giorni, mentre qui in Italia una ragazza bolognese è risultata positiva fino al giorno 75). Dopo l’introduzione delle misure di contenimento, si preferisce usare l’Rt, che indica il numero di infezioni secondarie che possono verificarsi, dopo che tali misure sono state introdotte in un determinato territorio. (R.N.T.)

Epidemie e pandemie

I fattori scatenanti

Quali sono i fattori che possono scatenare un’epidemia/pandemia? Uno di essi è sicuramente la colonizzazione di un nuovo ambiente, specialmente a seguito di deforestazione. Questa infatti porta l’uomo a contatto con animali selvatici potenziali serbatoio di virus che normalmente non si incontrerebbero. Altro fattore è l’urbanizzazione che porta spesso a una elevata densità di popolazione ed è caratterizzata da sacche di povertà nelle periferie delle grandi città. La scarsa igiene personale o dell’ambiente dovuta spesso alla mancanza di adeguati sistemi fognari e/o di acqua potabile. La perdita dell’immunità in una popolazione (l’«immunità di gregge») per la riduzione del numero delle vaccinazioni o per la mutazione degli agenti patogeni. L’abuso di antibiotici con la conseguente comparsa della resistenza ai medesimi. Il cambiamento negli stili di vita che possono comprendere l’abuso di droghe, nuove abitudini sessuali e/o alimentari. La globalizzazione degli scambi commerciali e dei viaggi in genere che rende raggiungibile in poche ore ogni parte del mondo, contribuendo alla diffusione ovunque dei vettori degli agenti eziologici. L’uso dei pesticidi, che ha eradicato determinate malattie in alcune aree del mondo, ma ne ha favorito la diffusione in altre, soprattutto in seguito alla comparsa di insetti vettori resistenti agli stessi pesticidi. Infine, i possibili incidenti di laboratorio.  (R.N.T.)




Sicurezza e cooperazione, facciamo chiarezza

testo di Chiara Giovetti |


A ogni rapimento di personale delle organizzazioni non profit sul campo riemergono una serie di pregiudizi o semplicemente di luoghi comuni legati alla scarsa informazione su un mestiere, quello del cooperante, che in Italia fatica a essere considerato un lavoro vero.

«Alla fine, con i militanti eravamo diventati amici@». Non sono parole di Silvia Romano, la ragazza milanese rapita in Kenya nel novembre del 2018 e liberata nel maggio del 2020 dopo essere stata per 18 mesi prigioniera dei terroristi somali di Al Shabaab, ma quelle – riportate dall’agenzia Adnkronos – di Cosma Russo, dipendente Agip rapito dai ribelli del Movimento per l’emancipazione del delta del Niger (Mend) in Nigeria nel dicembre 2006 insieme ai colleghi Francesco Arena e Roberto Dieghi.

Cosma Russo e Francesco Arena, rapiti in Nigeria

«Torneresti laggiù?»

Quel sequestro si concluse con la liberazione degli ostaggi: il Mend decise di lasciar andare Dieghi nel gennaio del 2007 a causa delle sue condizioni di salute non buone, mentre Arena e Russo furono liberati due mesi dopo, in marzo. Il quotidiano La Repubblica riportando le parole della moglie di Arena ipotizzò che fosse stato pagato un riscatto, ma Eni, il gruppo di cui Agip fa parte, ha sempre smentito con forza.

In una intervista a un giornale on line, Girodivite, Francesco Arena si era detto pronto a ripartire non appena l’azienda gli avesse comunicato la sua nuova destinazione, aggiungendo di non essere interessato a lavorare al petrolchimico di Gela, la sua città d’origine, dove si sarebbe sentito più recluso che nella giungla@.

Il sequestro e la sua conclusione furono seguiti dai media italiani: Stefano Liberti del Manifesto riuscì anche ad andare a intervistare Arena e Russo durante la prigionia e al momento della liberazione erano presenti le telecamere delle Iene e il giornalista Massimo Alberizzi@. Ma la vicenda, una volta terminata con il rilascio, non ebbe lunghi strascichi di polemiche, di discussioni nei talk show e di particolari approfondimenti sui giornali. Nessun commentatore all’epoca accusò i rapiti di essere in combutta con i rapitori per aver detto di questi ultimi che erano stati gentili, né mise in discussione il fatto che un tecnico di un’azienda petrolifera potesse tornare a fare il proprio lavoro in aree pericolose.

Tre anni prima, Simona Pari e Simona Torretta, cooperanti della Ong Un Ponte Per…, rapite a Baghdad da un gruppo di uomini armati che si definivano «Seguaci di Al-Zahawiri», e rilasciate dopo tre settimane, erano state duramente criticate per l’abito tradizionale iracheno che indossavano al loro rientro in Italia, dopo la liberazione, e per aver dichiarato che speravano di poter tornare in Iraq a lavorare@. Il quotidiano Libero le definì «vispe terese», diversi commentatori le accusarono di essere delle ingrate@ e nacque un dibattito – abbastanza scomposto e basato su notizie false – sugli stipendi dei cooperanti@.

Simona Pari e Simona Torretta, rapite in Iraq

Triste copione

A ogni sequestro di operatori della cooperazione si ripete in modo abbastanza simile questo stesso copione: i rapiti vengono accusati di leggerezza, di irresponsabilità o addirittura di connivenza. Se, poi, un sequestrato, una volta libero, dichiara di voler ripartire, questa sua volontà viene vista come un capriccio o addirittura come una provocazione. La stessa intenzione di tornare a fare il proprio lavoro anche in aree a rischio, se è manifestata da un ingegnere dell’Agip, viene invece a malapena commentata.

L’impressione è che molta parte dell’opinione pubblica italiana non veda la cooperazione come una professione, ma come un’attività che c’entra più con il fare del bene a tempo perso. Il fatto che nei dibattiti, sui social come in Tv, questa visione venga contrastata opponendole quella agli antipodi – la retorica della meglio gioventù, dell’Italia migliore, dell’eroismo, del sacrificio, eccetera – non solo complica un dialogo già difficile. ma impedisce alla cooperazione di acquisire il semplice, legittimo. status di lavoro a tutti gli effetti. Non un avventuroso passatempo, né un immolarsi alla causa degli ultimi: un lavoro.

Greta Ramelli (C) e Vanessa Marzullo, rapite in Siria / ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Cooperanti

I cooperanti sono le persone che lavorano per le organizzazioni che fanno cooperazione internazionale per lo sviluppo. Questa cooperazione è un ambito ben preciso, regolamentato da leggi dello stato – la più rilevante delle quali è la legge 125 del 2014 – e presente anche nel nome del ministero che contribuisce a regolarla e gestirla, il Maeci, cioè il ministero per gli Affari esteri e la Cooperazione internazionale. L’altro ente che la regola è l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, Aics, che fra le altre cose tiene l’elenco di quelle che agenzia e ministero riconoscono come organizzazioni in possesso dei requisiti per svolgere attività di cooperazione e per gestire fondi pubblici. Prima della legge 125 si chiamavano Ong, organizzazioni non governative, oggi ci si riferisce a loro con l’acronimo Osc, organizzazioni della società civile, anche se di fatto l’espressione Ong è tuttora di uso comune.

È bene ribadirlo: Africa Milele, l’organizzazione con cui Silvia Romano ha lavorato a Chakama, in Kenya, così come Horryati, l’associazione con cui collaboravano Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, rapite e poi rilasciate in Siria nel 2015, non sono Ong (o Osc) e non hanno un riconoscimento ufficiale da parte del Maeci. Nessuna delle tre ragazze all’epoca del rapimento era, quindi, una cooperante. Un Ponte per…, l’organizzazione di Simona Pari e Simona Torretta, invece è una Ong, così come lo è il Cisp, per cui lavorava nel Sahara occidentale Rossella Urru, rapita insieme a due colleghi nell’ottobre del 2011 e liberata nel luglio del 2012. Care International, l’organizzazione cui apparteneva Clementina Cantoni – sequestrata e poi liberata a Kabul nel 2005 – è una Ong internazionale (per la precisione una famiglia di Ong nazionali fra loro confederate) ma non ha una «filiale» italiana.

Tutto questo significa che le organizzazioni al di fuori dalla lista dell’Aics siano amatoriali e poco serie? No, o almeno non per forza. Ma chiamare cooperante chiunque si trovi in paesi a medio o basso reddito a svolgere attività nell’ambito sociale crea solo ulteriore confusione.

Rossella Urru rapita nel Sahara occidentale.

E volontari

I volontari sono un’altra categoria ancora: possono essere persone che operano in progetti di cooperazione nell’ambito del servizio civile internazionale – e in questo caso percepiscono un assegno di 439 euro mensili più un’indennità giornaliera che va dai 13 a i 15 euro a seconda dell’area geografica in cui si svolge il servizio@ – o persone non in servizio civile ma comunque impiegate dalle Osc nell’ambito di un progetto di cooperazione insieme ai cooperanti. Un decreto interministeriale del 2015 fissa la retribuzione mensile per i cooperanti a 1.519,67 euro, e per i volontari in 849,40 euro@.

Per tutto questo personale, la sicurezza sul campo e gli obblighi assicurativi sono stabiliti chiaramente per legge e per contratto.

La parola «volontario» si usa comunemente anche per definire tutti quelli che passano un periodo sul campo – a volte a proprie spese, altre godendo di vitto, alloggio e un minimo di rimborso – per svolgere delle attività che possono o no avere la forma di progetto o semplicemente per conoscere il paese ospitante. È il caso dei campi di lavoro offerti da congregazioni religiose o da associazioni di vario tipo e dimensioni, che di solito prevedono itinerari e attività chiaramente definiti, condizioni di sicurezza adeguate e una copertura assicurativa@.

Argentina 2018 foto del gruuppo dei volontari polacchi con padre Juan Araya / © Imc Polonia

Regole chiare per la sicurezza

Vi è, inoltre, un mondo di piccole associazioni che operano in modo meno rigoroso, come ha sottolineato su vita.it la deputata Lia Quartapelle, intervenendo nel dibattito sulla sicurezza di cooperanti e volontari@: «Purtroppo però nei Pvs operano non solo Ong con una professionalità consolidata, ma anche tante associazioni, anche molto casalinghe, come sembra essere l’associazione Africa Milele con cui era partita Silvia, che stanno in piedi con la logica del volontarismo e della buona volontà».

Quartapelle, poi, allarga il ragionamento oltre il contesto delle Ong: «Giulio [Regeni] era legato a una università straniera; Greta [Ramelli] e Vanessa [Marzullo] sono partite con un biglietto low-cost e una borsa piena di medicine comprate con soldi raccolti attraverso una colletta. [Luca] Tacchetto era in vacanza, appoggiato alla famiglia della sua fidanzata. Gabriele Del Grande era entrato in Turchia per fare il giornalista con un visto turistico, in quella che è la dura gavetta dei freelance-attivisti». «I soggetti che inviano persone in contesti di rischio», dice la deputata, «devono essere legalmente responsabili per la loro sicurezza»: le Ong sono responsabili del personale che inviano in quanto datori di lavoro, mentre le università, le associazioni e i giornali «non lo sono. Ma devono diventarlo».

«Vanno a cercare se stessi»

Non c’è, nel nostro paese, la cultura del gap year, dell’anno sabbatico, molto diffusa invece nel mondo anglosassone, per cui non solo è normale ma è anche visto generalmente di buon occhio che un ragazzo, appena finito il college o l’università, si prenda un anno per viaggiare, provare diversi lavori, fare volontariato e, in definitiva, farsi un’idea più concreta e realistica di quello che vuole sia il passo successivo nella sua vita.

Forse è anche per la mancanza di questa consuetudine che in Italia sono in molti a liquidare le partenze dei giovani verso paesi del sud del mondo come un non meglio definito, astratto e idealistico viaggio alla ricerca di se stessi. Può esserci del vero in questa lettura, ma non è la sola possibile: un periodo all’estero fa anche curriculum. Che intenda perseguire una carriera nella cooperazione o voglia far valere l’esperienza all’estero in altri ambiti lavorativi, chi include nel proprio profilo un’esperienza di volontariato in Africa, Asia, America Latina, lo fa anche per dimostrare che è in grado di usare una lingua straniera, che è incline a confrontarsi con culture e condizioni diverse da quelle di provenienza e, probabilmente, che è indipendente, capace di informarsi e organizzarsi. Questi sono requisiti che anche nel mercato del lavoro italiano pare comincino ad acquisire più interesse di un tempo@.

Etiopia 2017 Roksana, volontaria polacca, insegna matematica a scuola / © Imc Polonia

«Si può fare del bene anche nel proprio quartiere»

Chi identifica la cooperazione con l’idea di fare del bene non perde occasione, ad ogni rapimento o incidente che coinvolge personale sul campo, per commentare che il bene si può fare anche in Italia.

Ancora una volta, c’è del vero ma non è questo il punto. In un mondo nel quale le persone vanno in vacanza sulle coste italiane ma anche a Zanzibar e in cui le aziende commerciano con altre regioni del proprio paese ma anche con il Vietnam, anche i professionisti del settore sociale possono lavorare nelle periferie abbandonate delle città italiane quanto nelle aree remote dei paesi a basso reddito.

Un cooperante, in definitiva, è un professionista che decide di mettere le proprie competenze in un settore al servizio (stipendiato, certo) di un progetto di cooperazione in un paese che non è il suo, magari dopo aver lavorato nello stesso settore in patria e tornando a farlo alla fine del periodo passato all’estero.

Oggi ci sono anche decine di master universitari che contribuiscono a formare figure professionali con le competenze specifiche del cooperante, ma quello nella cooperazione era un lavoro anche prima dell’avvento di questi master e prima dell’introduzione stessa della parola «cooperante».

L’ambito sanitario ne è un esempio molto chiaro – sono decine, probabilmente centinaia, i medici attivi negli ospedali italiani che si sono impegnati e si impegnano tuttora in progetti di cooperazione sul campo – ma non è il solo. Ingegneri, amministratori, interpreti, giornalisti, contabili sono solo alcuni dei profili professionali che non di rado passano più volte nel corso della carriera da un impiego in un’azienda privata o nel settore pubblico a un lavoro nella cooperazione.

Chiara Giovetti

Bambino dell’Ufariji a Nairobi, Kenya, con Liliana Valle / foto di Liliana Valle




I Perdenti 54. Giorgio Perlasca, diplomatico per amore

testo di don Mario Bandera |


Giorgio Perlasca nasce a Como il 31 gennaio 1910. Dopo qualche mese, per motivi di lavoro del padre Carlo, la sua famiglia si trasferisce a Maserà, in provincia di Padova. Negli anni Venti aderisce con entusiasmo giovanile alla nascente ideologia fascista, in particolar modo alla sua versione dannunziana. Tanto che, per sostenere le idee di Gabriele D’Annunzio, litiga con un suo professore che aveva condannato l’impresa del Vate a Fiume, e per questo motivo è espulso per un anno da tutte le scuole del Regno.

Coerentemente con le sue scelte ideologiche, nel 1936 parte come volontario per la guerra di Etiopia e nel 1937 per la Spagna, dove combatte in un reggimento di artiglieria al fianco del generale Franco. Tornato in Italia al termine della guerra civile spagnola, nel 1939, il suo rapporto con il fascismo entra in crisi essenzialmente per due motivi: l’alleanza che il governo di Mussolini stringe con la Germania, contro cui l’Italia aveva combattuto una guerra solo vent’anni prima, e per le leggi razziali entrate in vigore nel 1938 che sancivano la discriminazione degli ebrei italiani. Rinuncia quindi alle sue idee giovanili, senza però diventare un oppositore al regime. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, si trova con permesso diplomatico nei paesi dell’Est Europa come agente di una ditta di Trieste che importa carne per l’Esercito italiano. L’armistizio tra l’Italia e gli Alleati dell’8 settembre 1943, lo coglie mentre si trova a Budapest in Ungheria.

Sentendosi vincolato dal giuramento di fedeltà al Re d’Italia, e nonostante le nostalgie fasciste di gioventù, rifiuta di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, ed è quindi internato per alcuni mesi in un castello riservato ai diplomatici dove gli viene prospettato il trasferimento in Germania. Nel mese di ottobre del 1944, quando i tedeschi che occupano l’Ungheria affidano il potere alle Croci Frecciate, ovvero ai filonazisti magiari, iniziano le persecuzioni sistematiche e le deportazioni nei campi di sterminio dei cittadini di religione ebraica.

Davanti alla grande sinagoga di Busapest

In un contesto così difficile e violento come ti muovesti in quei frangenti a Budapest?

Approfittando di un permesso che mi diedero per andare a Budapest per una visita medica, riuscii a nascondermi e fuggire. Mi nascosi prima presso vari conoscenti, quindi, grazie a un documento che attestava la mia partecipazione alla guerra civile spagnola e al foglio che mi assicurava assistenza diplomatica per il mio lavoro di importatore di carne per l’esercito, trovai rifugio presso l’ambasciata spagnola.

Quel documento della guerra di Spagna, firmato nientemeno che dal Generalissimo Franco, fu fondamentale per te.

Grazie a quello, in pochi minuti diventai cittadino spagnolo con un regolare passaporto intestato a Jorge Perlasca, e iniziai a collaborare con Ángel Sanz Briz, l’ambasciatore spagnolo che, assieme ad altri ambasciatori di paesi neutrali presenti in Ungheria (Svezia, Portogallo, Svizzera, Città del Vaticano), stava già rilasciando salvacondotti per proteggere gli ebrei ungheresi.

Già, ma a fine novembre 1944 Sanz Briz lasciò l’Ungheria per il suo rifiuto di riconoscere il governo filonazista appena nato.

Il giorno dopo, il ministero dell’Interno ungherese, venuto a conoscenza della partenza di Sanz Briz, ordinò di sgomberare le case di proprietà della Spagna, dove avevano trovato rifugio molti cittadini ebrei.

E fu a quel punto che tu, Giorgio Perlasca, commerciante italiano di bestiame, con una conoscenza perfetta della lingua spagnola, prendesti la decisione più importante della tua vita.

l documento redatto a mano con le credenziali che accreditano Giorgio Perlasca come diplomatico dell’Ambasciata spagnola in Ungheria, presentato al Ministero degli Esteri d’Ungheria nel novembre 1944.

Infatti, mi precipitai presso il ministero dell’Interno urlando: «Sospendete tutto! State sbagliando tutto! L’ambasciatore spagnolo Sanz Briz si è recato a Berna in Svizzera, per comunicare più facilmente con il suo governo a Madrid. La sua è una missione diplomatica importantissima. Informatevi presso il ministero degli Esteri. Esiste una precisa nota di Sanz Briz che mi nomina suo sostituto per il periodo della sua assenza».

È proprio vero che la fortuna aiuta gli audaci, difatti fosti creduto e le operazioni di sgombero furono sospese.

Il giorno dopo su carta intestata e con timbri autentici, compilai di mio pugno la nomina ad ambasciatore spagnolo e la presentai al ministero degli esteri dove le credenziali diplomatiche vennero accolte senza riserve.

Nelle vesti di diplomatico tenevi in piedi pressoché da solo l’ambasciata spagnola, organizzando l’incredibile impostura che ti portò a salvare e sfamare giorno dopo giorno migliaia di ungheresi di religione ebraica ammassati nelle case protette lungo il Danubio.

Cercavo di tutelarli in ogni modo dalle incursioni delle Croci Frecciate, mi recai più volte con Raoul Wallenberg, l’incaricato personale del re di Svezia, e con il nunzio della Santa Sede monsignor Angelo Riotta, alla stazione per cercare di recuperare più gente possibile.

Protetto dalla mia posizione di diplomatico spagnolo riuscii persino a ingannare il ministro dell’Interno ungherese, minacciando una supposta ritorsione spagnola sui cittadini ungheresi viventi in Spagna e addirittura in America Latina, se avesse autorizzato l’incendio del ghetto di Budapest.

È vero che trattavi ogni giorno con il governo ungherese e le autorità tedesche di occupazione, rilasciando salvacondotti che dicevano: «Parenti spagnoli hanno richiesto la sua presenza in Spagna; sino a che le comunicazioni non saranno ristabilite ed il viaggio possibile, Lei resterà sotto la protezione del governo spagnolo».

Questi salvacondotti li rilasciavo utilizzando una legge voluta nel 1924 dal ministro spagnolo Miguel Primo de Rivera che riconosceva la cittadinanza spagnola a tutti gli ebrei di ascendenza sefardita (ovvero di antica origine spagnola) scacciati alcuni secoli prima (31 marzo 1492) dalla regina Isabella la Cattolica dal suolo iberico. Lungo i secoli essi si erano dispersi in tutta Europa.

La legge Rivera in un certo qual modo fornì la base legale dell’intera operazione organizzata coraggiosamente da te, che permise di mettere in salvo più di cinquemila ebrei ungheresi.

Direi proprio di sì.

Perlasca e Cossiga il 30 giugno 1990

Il busto dedicato a Giorgio Perlasca davanti all’Istituto di Cultura Italiana di Budapest

Dopo l’entrata a Budapest dell’Armata Rossa sovietica, Giorgio Perlasca viene fatto prigioniero, liberato dopo qualche giorno, e dopo un lungo e avventuroso viaggio per i Balcani e la Turchia rientra finalmente in Italia. Da eroe solitario diventa un «uomo qualunque»: conduce una vita normalissima e chiuso nella sua riservatezza non racconta a nessuno, nemmeno in famiglia, la sua storia di coraggio, altruismo e solidarietà. Grazie però ad alcune donne ebree ungheresi, ragazzine all’epoca delle persecuzioni, che attraverso il giornale della comunità ebraica di Budapest ricercano notizie del diplomatico spagnolo che durante la Seconda guerra mondiale le aveva salvate, la vicenda di Giorgio Perlasca viene alla luce.

Le testimonianze dei sopravvissuti salvati sono numerose e ben documentate, la notizia diventa di dominio pubblico, arrivano i giornali, le televisioni, si pubblicano libri su quella drammatica vicenda.

Lo stesso Perlasca – vincendo la sua naturale riservatezza – accetta di recarsi nelle scuole per raccontare quel che aveva compiuto. Non certo per protagonismo, ma perché ritiene necessario rivolgersi alle giovani generazioni affinché follie come quella del nazismo non abbiano mai più a ripetersi.

Giorgio Perlasca muore il 15 agosto del 1992. È sepolto nel cimitero di Maserà, a pochi chilometri da Padova, sulla sua lapide a fianco delle date di nascita e di morte, è incisa un’unica frase in ebraico: «Giusto tra le Nazioni».

Don Mario Bandera

Libro dedicaro a Giorgio Perlasca