Se è vendibile, appartiene al mercato

testo di Francesco Gesuladi |


Ci sono due logiche: una liberista e una solidaristica. La prima guarda al profitto, la seconda alla dignità delle persone. Per quest’ultima sono nati i diritti umani e lo stato sociale. Uno stato, però, che diventa sempre più ristretto. Come dimostrato, in Italia, dalla vicenda dell’acqua.

Nella logica liberista la separazione dei compiti fra mercato ed economia pubblica è determinata da un criterio molto semplice: tutto ciò che è vendibile appartiene al mercato, tutto ciò che è indivisibile è assegnato al comparto pubblico. Che si tratti di cioccolatini o cure mediche, di cravatte o di acqua, di servizi alberghieri o  istruzione, non fa differenza:  nella misura in cui si tratta di beni e servizi parcellizzabili, e quindi vendibili a singoli soggetti, il mercato li rivendica come suoi. Col solo obiettivo di permettere alle imprese che li commercializzano di realizzare un profitto. Se invece si tratta di cura del territorio, di difesa dei confini, di mantenimento dell’ordine pubblico, ossia di servizi  non acquistabili da individui singoli, ma godibili obbligatoriamente in forma collettiva, allora sono lasciati alla dimensione pubblica.

Al contrario, nella logica solidaristica il criterio usato per stabilire cosa competa all’ambito pubblico e cosa al mercato non è economico, ma etico: tutto ciò che condiziona la dignità della persona appartiene alla comunità, tutto il resto può appartenere al mercato. La dignità è un concetto ampio che può essere espresso come l’insieme delle condizioni necessarie per permettere a chiunque di condurre una vita che possa definirsi umana. Condizioni che spaziano dalla politica (il godimento della libertà e della possibilità di partecipare alla vita democratica) alla fede religiosa (la libertà di professare il proprio credo); dall’ecologia (la possibilità di vivere in un ambiente sano) all’economia (la possibilità di soddisfare i bisogni di base). Aspetti che vanno garantiti a chiunque e per questo sono definiti diritti. Da un punto di vista etimologico, diritto viene da dirigere, verbo molto vicino a stabilire. Se ne può dedurre che diritto può essere tradotto «ciò che è stabilito dalla legge universale». E ciò che è stabilito è la possibilità per ogni individuo di godere di una serie benefici, tutele, garanzie, indipendentemente da ricchezza, razza, età, sesso. L’esistenza come unico criterio di ammissibilità.

L’incompatibilità tra diritti e mercato

Nel 1215, Giovanni Senzaterra, re d’Inghilterra, pone la prima pietra dei diritti politici con l’emanazione della Magna Charta, ma bisogna aspettare il 1948 quando i diritti sociali sono riconosciuti e inseriti nella Dichiarazione dei diritti umani adottata dalle Nazioni Unite. L’articolo 25 recita: «Ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute, il benessere proprio e della propria famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari. Ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà».

I diritti non si garantiscono però con i proclami: essi esigono un’organizzazione adeguata. Per parte sua, il mercato è una grande macchina, capace di garantire di tutto: beni fondamentali e beni di lusso, oggetti comuni e oggetti rari, prodotti leciti e prodotti illegali, mezzi di pace e mezzi di guerra. Con le sue migliaia, milioni di imprese di ogni dimensione e settore, da un punto di vista dell’offerta è ineguagliabile. Ma ovunque ci sono regole, e anche il mercato ha le sue. La regola principale è che si può chiedere di tutto, ma per ottenerlo bisogna pagare. Scopriamo così che il mercato non è per tutti. Il mercato è solo per chi ha soldi: chi ha denaro da spendere è accolto, corteggiato, riverito; chi non ne ha è  rifiutato, escluso, disprezzato.

Per definizione, i diritti sono universali e inalienabili. Appartengono a tutti per il fatto stesso di esistere. Per questo non sono appannaggio di una macchina selettiva come il mercato. Non dipendono neanche dalla benevolenza, perché ciò che spetta di diritto non può essere affidato al buon cuore. I diritti non si mendicano. I diritti nascono con la persona, e il loro rispetto si pretende dalla comunità che deve farsene carico attraverso un patto di solidarietà collettiva. Ed ecco la sostituzione del meccanismo del prezzo con il meccanismo della fiscalità che rompe qualsiasi relazione diretta fra ciò che si dà e ciò che si riceve. Sul fronte del dare chi più guadagna più versa. Sul fronte del ricevere, chi più ha bisogno più riceve. Per questo il meccanismo della solidarietà esige anche un altro principio che è quello della gratuità.

Lo stato sociale

Principi ripresi dalla nostra Costituzione che, all’articolo 2, definisce la solidarietà «dovere inderogabile», mentre all’articolo 53 sancisce che «il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Del resto dopo la seconda guerra mondiale in tutta Europa si fa strada la formula socialdemocratica che vuole il capitalismo addomesticato alle esigenze sociali. La sua espressione più alta si manifesta nei paesi scandinavi negli anni Settanta: salari alti, forme di assunzione stabili, ma soprattutto scuola, sanità e previdenza per tutti. Agli imprenditori è riconosciuta libertà di investimento e accesso al profitto, ma la priorità ce l’hanno i diritti. Di qui uno stato forte che organizza una solida rete di previdenza sociale contro disoccupazione, invalidità, vecchiaia. Uno stato forte che avoca a sé la gestione dei servizi fondamentali, non solo scuola e sanità, ma anche acqua, energia, trasporti, telefonia. Uno stato che all’occorrenza non si fa scrupolo a nazionalizzare le imprese private di pubblica utilità.

Contro lo stato sociale

Nel 1962, in Italia si procede alla nazionalizzazione del servizio elettrico e nasce l’Enel. Negli anni Ottanta il vento cambia. Mantenere lo stato sociale costa. Richiede una tassazione elevata. Fra i ceti ricchi cresce il malumore, c’è insofferenza per la pressione fiscale e c’è rabbia per l’impossibilità di mettere le mani su settori appetibili di esclusiva competenza pubblica. Decidono di passare al contrattacco. Hanno i soldi, posseggono quotidiani e riviste, addirittura televisioni, possono organizzare un’offensiva in grande stile contro il modello socialdemocratico. Denigrano lo stato, lo accusano di inefficienza, parassitismo. Attaccano i diritti, si scagliano contro l’ugualitarismo che indurrebbe a scarso impegno lavorativo. Rilanciano le vecchie parole d’ordine: mercato, concorrenza, privato. L’opinione pubblica sbanda, ha qualche esitazione, poi si lascia convincere. Il primo sfondamento avviene in Inghilterra. Nel 1979 i conservatori vincono le elezioni, Margaret Thatcher, la «Lady di ferro», diviene Primo ministro (incarico che rivestirà fino al 1990). Un decennio durante il quale taglia le tasse sui redditi più alti, inasprisce le tasse sui consumi, notoriamente pagate dai più poveri, e soprattutto privatizza: telefoni, acqua, gas, energia. Blair, che le succede, benché laburista, completa l’opera privatizzando le ferrovie. Destra e sinistra unite dalla medesima fede neoliberista.

Storia della privatizzazione dell’acqua

In Italia l’ondata delle privatizzazioni coinvolge anche l’acqua, non quella in bottiglia che già  era nelle mani dei mercanti, ma quella degli acquedotti. Neanche Mussolini aveva osato tanto. Lui, anzi, aveva fatto costruire vari acquedotti fra cui il completamento di quello pugliese. Dal 1903 gli acquedotti, e molti altri servizi di pubblica utilità, erano gestiti dai comuni secondo la formula delle aziende municipalizzate, entità a metà strada fra l’azienda e l’ufficio tecnico, in ogni caso strutture senza fini di lucro. Una formula introdotta dal governo di Giovanni Giolitti, che pur essendo un liberale convinto, sosteneva che certi servizi non potessero essere delegati ai privati. Una convinzione che avrebbero conservato anche i governanti moderni se non avessero ceduto alla pressione di cui le imprese sono state capaci.

L’offensiva sull’acqua è partita in sordina a inizio anni Novanta, con modifiche di legge su questioni tecniche, di quelle barbose che capiscono solo gli avvocati e i ragionieri. È proprio di quei cambiamenti che bisogna avere paura. Fondamentalmente la strategia per fare passare gli acquedotti da una gestione pubblica a una privata è stata pensata in due tempi: prima la fase di preparazione del campo, poi l’attacco finale. Il primo obiettivo era fare cambiare mentalità, scardinare l’idea del Comune-comunità che si fa carico dei bisogni fondamentali secondo logiche di solidarietà, per rimpiazzarla con quella del Comune-bottegaio che vende servizi secondo logiche di mercato. E, per farlo, si è cominciato a cambiare la struttura giuridica degli strumenti economici a disposizione dei comuni. È stata l’aziendalizzazione, la privatizzazione ombra, citata nella precedente puntata. I bracci operativi fino ad allora utilizzati dai comuni per gestire i loro servizi erano le aziende municipalizzate, strutture autonome da un punto di vista tecnico operativo, ma un tutt’uno col Comune da un punto di vista economico e politico. L’azienda municipalizzata faceva pagare un prezzo per i servizi che forniva, ma l’ammontare era deciso dal consiglio comunale in base a criteri sociali e se l’incasso non bastava per fare fronte a tutte le spese o agli investimenti da effettuare, provvedeva il Comune con integrazioni di altra natura.

Nel 1990 s’incrina questa logica istituendo le aziende speciali. Da un punto di vista linguistico la differenza è impercettibile, ma da un punto di vista giuridico è abissale. L’azienda speciale, pur essendo di proprietà del Comune diventa un corpo a se stante, una sorta di figlio maggiorenne che deve arrangiarsi da solo. D’ora in avanti non può più ricorrere alla mamma Comune: deve coprire tutte le spese da sola con i proventi delle sue vendite. I prezzi li decide lei stessa non più secondo logiche di equità sociale, ma secondo logiche di contabilità di bilancio. Per di più è una Spa, società per azioni. Per legge il suo compito è garantire profitti agli azionisti. Un cambiamento totale di prospettiva: la municipalizzata guardava alla gente, la Spa guarda agli azionisti. Potremmo dire «all’azionista» visto che il capitale è del Comune, ma la Spa ha la caratteristica che le quote si possono vendere, e altri soci possono aggiungersi. Le leggi che seguirono aprirono l’ingresso ai privati con le multinazionali dell’acqua che calarono come cavallette per entrare nelle società pubbliche costituite per gestire gli acquedotti. Così oggi abbiamo mostri come Acea, Hera, A2A, aziende quotate in borsa a partecipazione mista pubblico privato che si comportano come delle multinazionali qualsiasi. E a nulla è valso la schiacciante vittoria del sì ai referendum del 2011 che, di fatto, ha bocciato la gestione privatistica dell’acqua e soprattutto la possibilità di fare profitti sull’acqua. Alla volontà popolare sono stati contrapposti cavilli giuridici che hanno avuto la meglio. Non per la forza dei loro argomenti, ma per la debolezza della nostra resistenza.

Francesco Gesualdi
(seconda parte – fine)

In quanto diritto umano, l’acqua non può essere privatizzata. Foto: Manuel Darío Fuentes Hernández-Pixabay.

 




Ai confini del mondo (At 27-28)

testo di Angelo Fracchia |


Siamo al termine della grande opera di Luca, quella che, partendo dalla vita di Gesù (il Vangelo), è sfociata poi nel racconto della vita iniziale della Chiesa. Dal capitolo 16 la narrazione è concentrata sulla sorte di Paolo di Tarso che, alla fine del capitolo 26, troviamo a Cesarea Marittima, prigioniero del procuratore Festo, il quale lo avrebbe già liberato come innocente, se l’incarcerato non si fosse appellato al tribunale di Cesare (26,32).

Luca ci racconterà come è andata a finire? Non ancora perché ha in serbo altre sorprese per noi.

L’ultimo viaggio (At 27)

La prima sorpresa è un avvincente ed emozionante racconto di viaggio. I «racconti di viaggi» erano un genere letterario popolare a quei tempi. Per apprezzarlo anche noi conviene però che ci facciamo qualche idea su come si viaggiava nell’antichità.

Dovunque i romani giungessero, ampliando il proprio impero, si preoccupavano tra le altre cose di garantire delle comunicazioni efficienti, sia costruendo strade lastricate, che potevano cioè essere percorse anche con il brutto tempo, sia garantendo che i mari restassero liberi e sicuri. Era infatti il mare la via di comunicazione preferita. Le strade lastricate erano ottime per lo spostamento di truppe, comunicazioni leggere e veloci a cavallo, e movimenti di persone e merci tra le varie città, anche d’inverno. Ma su quelle strade ci si spostava per lo più a piedi o su carri trainati da animali, e si poteva trasportare relativamente poco; oltre tutto, quanto più ci si allontanava da Roma, tanto meno si trovavano strade.

Per questo le vere autostrade del tempo erano i mari. Non esistendo però il sestante per orientarsi, ed essendoci nel Mediterraneo diverse zone pericolose, si preferiva navigare sotto costa. Via mare si trasportavano soprattutto le merci più pesanti o che occupavano più spazio, come ad esempio il preziosissimo grano egizio che dava da mangiare a una capitale come Roma che sfiorava già allora il milione di abitanti. Non esisteva un servizio passeggeri, ma era sempre possibile unirsi ad altri che facevano la stessa rotta (una nave merci aveva quasi sempre posto sul ponte, e a Roma andavano in molti).

Il problema era che il Mediterraneo d’inverno diventava pericoloso, poteva essere scosso da burrasche anche improvvise. Per questo d’inverno non si navigava. Ovvio che, per amore di guadagno, qualcuno provasse ad anticipare la primavera partendo un po’ prima o a ritardare l’inverno partendo a ridosso del freddo. Questo è ciò che prova a fare la nave carica di grano su cui si è imbarcato il centurione che ha in custodia Paolo e alcuni schiavi destinati al mercato della capitale.

La baia di Mistra a Malta (china di Paul Gichui)

Un viaggio avventuroso

Una volta salpati da Creta, equipaggio e viaggiatori si rendono presto conto che non si riuscirà a procedere sulla rotta stabilita. I marinai cercano allora di spostarsi verso un porto migliore, ma incappano in una burrasca che li trascina al largo per due settimane (At 27,7-15). La paura più tremenda è quella di incagliarsi nelle Sirti, grandi banchi di sabbia vicino alla costa africana tra Cartagine e la Cirenaica (negli attuali golfi di Sidra e di Labes), a giorni di navigazione dalla terra più vicina, e di rimanervi finché le onde non abbiano sfasciato la nave.

Un Paolo affidabile

Luca presenta un Paolo che, in questa situazione, si pone come punto di riferimento: prova a orientare le scelte del centurione e del capitano della nave, a tenere alto il morale dei marinai, a confortare i compagni di viaggio. Non ci sembri un ritratto inverosimile: Paolo è prigioniero, è vero, ma è un cittadino romano, e questo lo pone in una situazione di privilegio. È poi persona abituata a viaggiare. E si mostra animato da una grande fiducia in Dio che non lo abbandonerà mai, benché a noi possa sembrare quasi magico l’intervento dell’angelo che gli assicura che nessuno di quella nave morirà.

È ancora Paolo che, al quattordicesimo giorno di deriva, quando la nave si sta avvicinando a un’isola che peraltro nessuno riconosce, invita a prendere forza mangiando. Le parole utilizzate («prese un pane, rese grazie, lo spezzò» At 27,35) potrebbero quasi ricordarci l’Eucaristia. Non è detto che Paolo l’abbia in effetti celebrata, ma Luca ci strizza l’occhio: il nutrimento di Paolo, il punto di riferimento di chi cerca salvezza resta sempre Gesù. Perché non c’è contrasto tra la salvezza cercata dagli uomini e quella offerta da Dio.

A Malta (At 28,1-10)

Paolo a Malta (china di Paul Gichui)

I viaggiatori approdano a Malta, l’isola sconosciuta che nesuno di loro pare aver mai sentito nominare. L’accoglienza è splendida, salvo che, nel raccogliere legna per far fuoco, Paolo viene morso da una vipera (28,3). Interessante, anche nella sua ingenuità, la reazione degli abitanti. Dapprima, vedendo che Paolo, scampato miracolosamente a un naufragio, viene morso da un serpente velenoso, pensano che sia una prova della sua colpevolezza: gli dèi, non essendo riusciti a ucciderlo in mare, lo giustiziano a terra. Poi, notando che Paolo non risente del morso, si persuadono al contrario che sia un essere divino, a cui niente può portare danno.

Questa volta Paolo non si ribella con decisione al travisamento della sua identità, come aveva invece fatto a Listra (14,12-15). Che non si sia accorto di ciò che si diceva di lui, impegnato com’era ad aiutare gli altri? Di certo continua a spiccare come figura guida, sereno e sicuro, attento ai suoi compagni (viene morso dalla vipera mentre raccoglie legna per scaldare tutti) e agli abitanti del luogo.

Durante i tre mesi di forzata permanenza è comunque sempre teso a fare del bene, anche con la guarigione miracolosa (28,8-9) non solo del padre del governatore, ma anche degli isolani, senza perdere l’occasione di predicare il Vangelo.

In Italia (At 28,11-28)

Alla fine, il centurione trova a Malta una nave proveniente dall’Egitto, probabilmente anch’essa carica di grano: il suo capitano doveva aver provato a sua volta a raggiungere Roma prima della brutta stagione, riuscendo a portarsi solo poco più avanti ma salvando il carico.

Partono e sbarcano a Siracusa. Da lì, Luca ci racconta il viaggio a piedi verso Roma. L’autore degli Atti pare che abbia fatto il viaggio insieme a Paolo fin da Cesarea Marittima, e ci offre tutti i dettagli sulle tappe affrontate, e sulle comunità incontrate, che ovviamente gli interessano di più.

Ancora una volta, è interessante ciò che l’autore dice, ma anche ciò che tace. I cristiani non sono solo a Roma, ma già anche a Pozzuoli (28,13-14). Quelli di Roma vengono incontro a Paolo «fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne» (28,15), il che ci permette di fare almeno due deduzioni. Intanto, Paolo è famoso, al punto che si organizza per lui un comitato d’accoglienza, anzi due. Proprio questo particolare, però, ci suggerisce che forse anche la comunità di Roma non è compatta e unita. Il Foro di Appio era il punto in cui un canale navigabile proveniente da Terracina si congiungeva con la via Appia, così da farne uno snodo importante a circa 60 chilometri da Roma (su una bella strada lastricata, ma comunque a quasi due giorni di viaggio per chi avesse a disposizione dei carri trainati da animali o fosse particolarmente forte e veloce nel camminare). Ma le Tre Taverne, anche se non siamo sicurissimi sulla loro posizione precisa, si trovavano sulla stessa via Appia a una quindicina di chilometri da Roma. Qualche ritardatario, oppure le comunità cristiane romane non erano riuscite a mettersi d’accordo?

Teoricamente queste comunità dovevano aver già ascoltato la lettera di Paolo ai Romani, ma paiono non sapere niente dell’opposizione contro di lui che si era diffusa a partire da Gerusalemme (28,21). Può stupirci, ma c’è da ammettere che le pretese del sinedrio di governare su tutto il mondo ebraico (i cristiani di origine ebraica si consideravano ancora ebrei), non sono messe facilmente in pratica. Peraltro, questi ebrei sanno che sul movimento dei cristiani c’è parecchia discussione (28,22).

Tale discussione si rinnova ancora intorno a Paolo, in grado di incontrare persone, dibattere, evangelizzare, argomentare e suscitare almeno domande e dubbi nei suoi interlocutori (28,23-24). Di nuovo, non stupiamoci per la libertà di movimento di un prigioniero indagato come Paolo: è in catene, è vero, e infatti un soldato è sempre con lui, ma è un cittadino romano, quindi trattato comunque con i guanti (anche se a Roma nella sua condizione si trovano in tanti, molti di più che in Oriente), e in ogni caso con dei capi di imputazione evidentemente alleggeriti dalle testimonianze dei procuratori.

Una conclusione aperta (At 28,30-31)

Decapitazione di Paolo (china di Paul Gichui)

Abbiamo già detto che a volte Luca sembra uno sceneggiatore per il cinema. Ma a Hollywood avrebbero di certo pensato a un lieto fine in cui Paolo venisse liberato, magari dopo aver parlato del Vangelo davanti all’imperatore. E invece gli Atti degli Apostoli qui ci offrono la seconda grande sorpresa di questi ultimi capitoli: la narrazione finisce con l’annotazione che Paolo poteva incontrare chi voleva e annunciava il regno di Dio, ma nulla si dice su come sia andato a finire il processo. Non solo manca il lieto fine, ma sembra che manchi la fine. Perché mai?

Oggi c’è chi fa notare che due anni (28,30) erano il tempo massimo di durata legale di un procedimento giudiziario. Peraltro, in tribunale si dava la precedenza ai processi più importanti, o che avevano alle spalle pressioni più potenti. Evidentemente il caso di Paolo non è stato ritenuto pericoloso per Roma, e nella capitale le pressioni del sinedrio non riescivano a farsi sentire. Può anche darsi che, finiti i due anni, Paolo sia stato semplicemente scarcerato, senza che il processo abbia avuto luogo. Che cosa abbia fatto dopo, Luca preferisce non dircelo.

C’è chi sostiene invece che proprio il silenzio di Luca suggerisca che il processo, per un motivo o per l’altro, sia andato a finire male, con la condanna a morte di Paolo. La tradizione romana vuole che l’apostolo sia in effetti morto martire alle Tre Fontane oppure lungo la via Ostiense. Già in questa occasione o più tardi? Non lo sappiamo. Ma si potrebbe ritenere che l’autore degli Atti non volesse finire la sua opera con quello che, umanamente, era un fallimento. Altri ribattono che come il martirio di Stefano non è presentato di sfuggita né tantomeno come un insuccesso, così la stessa glorificazione si sarebbe potuta narrare per Paolo.

Se ci teniamo però a quello che è scritto, dobbiamo ammettere che la conclusione ha delle somiglianze con quella del Vangelo di Marco (la conclusione originaria, in Mc 16,8), che Luca sicuramente conosceva, in quanto ne aveva usato diverse pagine per il proprio Vangelo. Quel Vangelo finisce con le donne che vanno via dalla tomba vuota senza dir niente a nessuno, perché avevano paura. Si ammette oggi che l’intenzione dell’evangelista doveva essere proprio di tenere aperta la porta ai lettori, perché si mettessero in gioco, si facessero domande e completassero l’opera delle donne.

Luca, alla fine degli Atti, ci dice solo che Paolo continuava a evangelizzare, senza ostacoli e senza paura. Sappiamo così che il Vangelo viene annunciato a Roma, centro del mondo, capitale di un impero che si poteva ritenere universale ed eterno. E allora Luca ci porta di nuovo al centro del discorso. È vero: negli ultimi quindici capitoli ha parlato quasi solo di Paolo, che per noi lettori è diventato il protagonista e il centro dell’attenzione. Ma Luca, lasciando aperto il racconto delle sue vicende, ci ricorda, quasi di colpo, che il protagonista non è l’apostolo. Il vero attore di quest’opera è lo Spirito che muove l’annuncio. Ed entrambi sono liberi di agire, persino nella capitale, in quella Roma che poteva essere considerata il centro del mondo, del potere, del male.

Paolo è in catene, ma il Vangelo è libero. E allora, ci suggerisce Luca, non c’è bisogno di aggiungere altro, perché tutto l’essenziale è stato detto. Possiamo scrivere la parola «Fine».

Angelo Fracchia
(20-fine)




«Mi hai sedotta»

Quando quel giorno ti sei fatto vicino, e mi hai condotta nel deserto, ho avuto paura.
Ti servivo da tempo e mi consumavo per te, ma tu sapevi che io servivo anche altri.
E io sapevo che tu eri geloso.
Mi hai portata nel punto più arido e lontano dalla vita, dove nessuno mi avrebbe cercata.
Lì la desolazione mi avrebbe uccisa prima della sete.

Lì ti sei fatto più vicino, e hai parlato al mio cuore (cfr. Osea 2,16-25).

Mi hai sedotta. Inaspettatamente. Mi hai sviata, portata via dalla mia strada, e mi hai mostrato che quel deserto attorno a me, era in me. Ero io.

Avevo temuto che mi avresti abbandonata alla sete, signore oscuro e dagli umori imprevedibili, ma in quel deserto mi hai riportata alla vita, mi hai riportata a me. A te.

Ti chiamavo padrone, e mi sono insabbiata in un deserto privo di punti di riferimento.

Ora tu mi chiamavi «mia sposa» e desideravi sentirti chiamato «marito mio, mio sposo».

Ti credevo lontano, ti cercavo come una serva il suo padrone, in attesa di retribuzione, ma tu hai superato le mie barriere, hai ritrovato i sentieri che io avevo confuso perché nessuno mi raggiungesse, e ora i miei frutti abbondano.

Hai sposato la mia vita, Signore, la mia condizione. Sei nato uomo come me, e hai rivelato che ogni uomo è degno di te.

Hai sussurrato al mio cuore con il vagito di una voce di bimbo, con il respiro affannato di un uomo morente e, inerme, mi hai sedotta con la tua inermità. Amante, mi hai rivelato la tua presenza di salvezza in ogni situazione, anche la più lontana da te.

Mi hai liberato dalla condizione servile e hai rinnovato per sempre la nostra alleanza d’amore. Ora ogni uomo potrà smettere di firmarsi Non-amato, Non-popolo-tuo. Ora ciascuno può sentire la tua voce chiamarlo: Mio amato, Popolo mio.

Ho ritrovato la mia identità. E tu sei mio Dio.

 

Nel deserto di questo tempo, zampillante d’acqua viva,
buon cammino di Avvento, buon Natale e buon anno nuovo da amico

Luca Lorusso

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Il nostro 2020 di solidarietà

testo di Chiara Giovetti |


Nel corso di quest’anno abbiamo sostenuto diverse famiglie del Mozambico nel loro lavoro di ricostruzione delle case distrutte dalle alluvioni e dal ciclone Idai del 2019. Abbiamo poi assistito i nostri missionari impegnati a mitigare gli effetti della pandemia e rafforzato il nostro programma di sostegno a distanza. Vi raccontiamo il nostro 2020 al servizio degli ultimi reso possibile dalla generosità di tutti voi.

Era il 3 aprile del 2019 quando padre Sandro Faedi, missionario della Consolata in Mozambico e all’epoca amministratore apostolico della diocesi di Tete, scriveva@: «Qui è stato un disastro. Alluvioni come ho vissuto a Vilanculos nel 2000», anno in cui un’ondata di maltempo come non si vedeva dagli anni Cinquanta del secolo scorso e un successivo ciclone provocarono 800 vittime e oltre mezzo milione di sfollati. Nel 2019 il bilancio è stato di poco diverso: 603 morti e 400mila sfollati, causati dal ciclone Idai, che ha raggiunto l’area della grande città costiera di Beira con vento fra i 180 e i 220 chilometri orari e ha colpito con piogge intense (200 millimetri in 24 ore) le province di Sofala, Manica, Zambézia, Tete e Inhambane@.

A Tete, continuava il racconto di padre Sandro, «centinaia di famiglie, si dice 860, sono state prese di sorpresa durante la notte, e hanno salvato a malapena la vita. Casa, oggetti, utensili, tutto alla malora. I morti… non si sa, forse una quarantina».

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

Ricostruzione dopo il ciclone

Insieme a padre Diamantino Guapo Antunes, superiore dei missionari in Mozambico che di lì a poco sarebbe diventato vescovo di Tete, padre Faedi ha identificato un gruppo di dodici famiglie di Nkondezi, un villaggio vicino a Tete particolarmente colpito dalle alluvioni. Grazie a donatori privati negli Usa, nell’aprile del 2019 e, a inizio 2020, al contributo della mostra di Solidarietà degli Amici di Missioni Consolata a Torino, è stato possibile raccogliere i fondi grazie ai quali le case di queste famiglie sono di nuovo in piedi.

«La costruzione delle case», scriveva lo scorso ottobre monsignor Antunes (diventato vescovo il 12 maggio), «è iniziata il 15 settembre 2019 dopo la cerimonia di benedizione della prima pietra. Un’azienda locale ha svolto il lavoro sotto la mia supervisione. Non tutte le case sono state costruite a Nkondezi come previsto.  Gravi situazioni di povertà urbana e solitudine degli anziani ci hanno spinto a sostenere la costruzione di case nella periferia della città di Tete, colpita anch’essa dagli effetti del ciclone Idai».

Monsignor Antunes segnalava un leggero ritardo rispetto ai tempi previsti per completare le case: ci sono state infatti delle difficoltà nel procurarsi cemento – il cantiere principale era distante dalla città di Tete, dove si trovano le materie prime – e anche alcuni rallentamenti causati dalla pandemia di Covid-19, che ha reso più complicato lo svolgimento dei lavori.

La costruzione delle casette è terminata il 1° luglio 2020, riferiva ancora il vescovo. Le famiglie hanno partecipato attivamente a tutte le fasi della realizzazione del progetto, collaborando secondo le loro possibilità e aderendo a una raccolta fondi locale per contribuire alla copertura di alcune spese. Anche la comunità ha collaborato offrendo manodopera non qualificata. Il costo della costruzione di ogni casa è stato 2.500 euro, per un totale di 30mila euro.

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

Coronavirus, il ciclone planetario

A metà marzo di quest’anno i nostri missionari in Africa e America Latina, hanno iniziato a inviare i primi brevi aggiornamenti sulla situazione dei contagi nei rispettivi paesi, e sulle prime misure adottate dai governi per contenere la diffusione del nuovo coronavirus.

Al di là dei numeri, che la scorsa primavera non erano ancora molto elevati nei due continenti, è apparso subito evidente che in paesi come quelli subsahariani o nelle zone amazzoniche di Brasile e Colombia, l’unico modo realistico per tentare di reagire efficacemente alla pandemia era fare prevenzione, cioè contrastarla diffondendo informazioni, disinfettante e dispositivi di protezione per evitare il contagio. Le strutture sanitarie, infatti, non avrebbero mai potuto reggere l’impatto di un numero elevato di pazienti e il tempo e le risorse per adeguare o costruire ospedali erano chiaramente insufficienti.

Dustribuzione di cibo a Daveyton in Sudafrica.

«La maggioranza dei paesi nel continente», ammoniva l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) lo scorso maggio, «non ha la capacità di gestire molti pazienti Covid-19 in condizioni critiche. Secondo un’indagine basata sui rapporti presentati dai 47 paesi membri della Regione Africa dell’Oms, i letti in terapia intensiva sono in media nove per milione di abitanti», meno di uno per centomila: in Italia a inizio pandemia i posti in terapia intensiva era intorno ai 5.100, una proporzione di 8,6 per 100mila abitanti, mentre la Germania ne aveva poco meno di 34@.

Un reportage di Reuters del maggio scorso segnalava che i tre giganti del continente africano – Nigeria, Etiopia ed Egitto – disponevano di 1.920 posti in terapia intensiva a fronte dei loro complessivi 400 milioni di abitanti e che vi erano spesso discrepanze fra i dati ufficiali e la reale capacità delle terapie intensive sul campo. L’Uganda, ad esempio dichiarava di avere 268 letti disponibili, ma secondo Arthur Kwizera, professore di anestesia e terapia intensiva all’Università di Makerere, vicino alla capitale Kampala, meno di un quarto avevano effettivamente il personale e gli strumenti per funzionare@.

La risposta sanitaria alla pandemia

A fine aprile, grazie alla generosità di alcuni donatori, sono dunque partiti i primi aiuti per tre delle strutture sanitarie dei missionari della Consolata in Africa: l’ospedale di Neisu, in Repubblica democratica del Congo, e i centri sanitari di Dianra e Marandallah, in Costa d’Avorio.

A partire da maggio, poi, diversi centri sanitari e missioni in Kenya, Uganda, RD Congo e Costa d’Avorio hanno ottenuto fondi messi a disposizione dalla Conferenza episcopale italiana, che ha distribuito un totale di circa 9 milioni di euro per 541 progetti in tutto il mondo.

Questi contributi hanno permesso di realizzare intense e capillari campagne informative, da un lato, e di acquistare mascherine, guanti, disinfettanti, pulsossimetri, dispositivi per l’ossigenoterapia, bombole di ossigeno, abbigliamento protettivo per il personale sanitario, termometri a infrarossi e altro materiale necessario per far fronte all’emergenza.

Donne rifugiata dal Malawi in Sudafrica, in attesa della distribuzione di cibo.

Un’iniziativa emblematica della collaborazione con i sistemi sanitari nazionali è stata quella realizzata in eSwatini (Swaziland fino al 2018) dalla diocesi di Manzini, il cui vescovo è un missionario della Consolata, monsignor José Luis Ponce de León.

In un post sul suo blog@, il vescovo ha raccontato come i fondi della Cei siano stati usati a Manzini per un’attività apparentemente insolita, cioè l’acquisto di radio. «Devo confessare la mia sorpresa quando qualcuno ha parlato di questa ipotesi», scriveva a settembre monsignor Ponce de León. «Sul serio? C’è bisogno di fornire radio alle famiglie?». Presto però l’esigenza è apparsa evidente: «Il governo ha fatto un ottimo lavoro di sensibilizzazione attraverso diversi media sia in siswati (la lingua del regno di eSwatini, ndr.) che in inglese, ma se le persone non hanno accesso a quei media. il messaggio non le raggiungerà».

Non solo salute: il sostegno alle comunità vulnerabili

Un altro aspetto della pandemia che è emerso immediatamente nei paesi africani e latinoamericani dove lavorano i missionari della Consolata, è stato quello dei danni economici inflitti dai lockdown alle già fragili economie delle famiglie. «Qui non ci sono ammortizzatori sociali, strumenti per iniettare liquidità nelle famiglie e nelle imprese», constatava padre Matteo Pettinari dalla Costa d’Avorio lo scorso marzo. Il confinamento per molte persone in Africa e America Latina ha significato non poter più disporre delle risorse economiche per nutrirsi, dall’oggi al domani.

Per questo una significativa parte del sostegno che i missionari hanno ricevuto dai donatori si è tradotto in sostegno al reddito delle famiglie.

Le comunità della Terra indigena Raposa Serra do Sol, in Roraima, Brasile, hanno quindi potuto beneficiare di un aiuto in generi alimentari di base, dispositivi di protezione e igienizzanti che stanno permettendo alle persone più vulnerabili di affrontare il confinamento.

Lo stesso vale per le comunità di migranti africani e di famiglie povere che vivono nelle periferie delle grandi città dove operano i missionari della Consolata in Sudafrica. A Daveyton, Johannesburg, 73 famiglie migranti e sudafricane hanno ricevuto i generi alimentari necessari per superare il periodo del lockdown durante il quale non era possibile nemmeno trovare uno di quei lavori giornalieri la cui paga, per quanto bassa, rendeva possibile procurare cibo per sé e per i propri familiari. A Mamelodi, township di Pretoria, le famiglie migranti e locali assistite sono 97 nella parrocchia di Saint Mary e 46 in quella di Saint Peter Claver.

Anche a San Pedro, grande città portuale della Costa d’Avorio, cinquanta famiglie locali hanno ricevuto aiuti alimentari – riso, olio, zucchero, salsa di pomodoro, latte in polvere – e igienizzante per far fronte alle ristrettezze derivanti dalle chiusure. «Alcuni si sono commossi quando ci hanno visto arrivare con gli aiuti», spiega padre Daniel Yoseph Baiso, missionario etiope responsabile del progetto, «non si aspettavano che qualcuno si occupasse di loro e che lo facesse senza distinzioni di credo religioso. Non avevano nessun modo alternativo per procurarsi cibo, tutto era chiuso. Chi ha potuto è andato a passare il lockdown nei villaggi intorno a San Pedro, ma chi è rimasto in città ha passato un momento veramente difficile».

I missionari della Consolata, inoltre, hanno anche sensibilizzato la comunità del quartiere attraverso messaggi diffusi via whatsapp, facebook e altri social network, sulle buone pratiche per evitare l’infezione avvalendosi della collaborazione di un gruppo di giovani molto attivo che frequenta la missione e, prima della pandemia, organizzava giornate di raccolta dei rifiuti nelle strade della zona e formazione alle tematiche ambientali.

Risposta Covid a San Perdo in Costa d’Avorio.

Il sostegno a distanza non si ammala di Covid

Missioni Consolata Onlus ha un programma di sostegno a distanza iniziato nei tardi anni Novanta. La persona che da oltre vent’anni coordina il programma, Antonella Vianzone, ricordava@ in un’intervista del 2012 che le adozioni sono nate come evoluzione naturale delle attività dell’ufficio cooperazione, aperto già nel 1970 grazie a una intuizione di padre Mario Valli, diretto poi da padre Giuseppe Ramponi nei primi anni Duemila e ora guidato da Antonella.

Oggi i sostegni a distanza sono circa 1.300, suddivisi in nove paesi fra Africa, America Latina e Asia. Nemmeno la pandemia ha scoraggiato i donatori, che hanno continuato a sostenere i bambini nonostante le difficoltà che dalle chiusure di marzo ad oggi rendono molto più complicato per tante persone riservare una quota del proprio reddito alla solidarietà.

«Qualcuno mi ha scritto o chiamato per chiedere di suddividere la donazione in più tranche oppure di ritardarne l’invio», spiega Antonella, che non si stanca mai di ricordare come il rapporto diretto, che ha di persona o per telefono, con i donatori – l’ascolto, il dialogo, l’empatia – sia una parte imprescindibile del suo lavoro. «Quasi nessuno ha annullato l’adozione: soltanto due persone hanno dovuto sospenderla, per quanto a malincuore, perché avevano perso il lavoro a causa della pandemia, non ce la facevano a continuare».

A partire dalla primavera inoltrata sono arrivate anche richieste di avviare nuovi sostegni. «Credo che sia la concretezza dell’aiuto a convincere le persone», riflette la responsabile. «In un tempo così incerto e difficile, chi dona vuole essere sicuro di aiutare davvero. E che cosa c’è di più essenziale e fondamentale di garantire a un bambino istruzione e salute?». Alcuni, conclude Vianzone, hanno avviato un sostegno proprio in memoria di un familiare mancato a causa del Covid-19, «quasi a voler dare alla persona cara che hanno perso nuova vita attraverso un atto di generosità».

Chiara Giovetti

In queste tre foto, il bello del sostegno a distanza: Malina (figlia della terra Samburu in Kenya) in prima elementare, al primo anno delle superiori e dopo l’esame di maturità, finito con ottimi voti, mentre è in attesa della chiamata all’università, coronavirus permettendo.




I Perdenti 57. Galileo Galilei, tra scienza e fede

testo di Don Mario Bandera |


«La mathematica è l’alfabeto in cui Dio ha scritto l’Universo». Queste parole pronunciate da Galileo Galilei presentano molto bene il nostro personaggio: fisico, filosofo, matematico e astronomo, egli è considerato il padre della scienza moderna perché con notevole anticipo sui suoi tempi creò un approccio scientifico alla realtà, basato sull’osservazione oggettiva.

Nato a Pisa nel 1564, Galileo iniziò nel 1580 a studiare medicina presso l’Università della sua città, prima di scegliere nel 1583 di specializzarsi in matematica. Fino al 1585 Galileo rimase a Pisa dove studiò anche fisica. Nella sua città fece la sua prima scoperta importante: si racconta che osservando
l’oscillazione di un lampadario fissato al soffitto della cattedrale di Pisa scoprì l’isocronismo, fenomeno che
stabilisce che il tempo di oscillazione di pendoli di eguale lunghezza è
costante qualunque sia l’ampiezza dell’oscillazione.

Dal 1589 insegnò a Pisa e nel 1592 venne chiamato presso l’Università di Padova dove
rimase come docente fino al 1610. I diciotto anni trascorsi nella città veneta furono
definiti da Galileo «i migliori di tutta la mia età». Nello studio di Padova creò una piccola
officina nella quale eseguiva esperimenti e fabbricava strumenti che vendeva per arrotondare lo stipendio: qui inventò nel 1593 la macchina per portare l’acqua a livelli più alti, che fu subito acquistata e utilizzata dalla Repubblica di Venezia.

Ci spieghi come mai un pisano come te lasciò il Ducato di Toscana, brillante per la sua cultura e le arti, per andare a insegnare a Padova?

Andai a Padova anzitutto perché la sua era una delle più antiche e prestigiose università italiane, ma soprattutto per la posizione del governo della Serenissima che la faceva essere una delle università con la maggiore libertà di pensiero e ricerca scientifica, rispetto a quelle di tutti gli altri stati europei, sia cattolici che protestanti. E per me quello, innamorato della matematica e della ricerca scientifica, era il posto ideale.

Il 9 ottobre 1604 nei cieli europei una supernova eccezionale fece vacillare tutte le teorie astronomiche ufficiali del tempo. Fu un fenomeno che ebbe molti osservatori, perché il quel periodo c’era una spettacolare congiunzione di Giove e Saturno. Era il momento buono per fare oroscopi e anche tu ne approfittasti per farne a pagamento.

Insegnavo matematica e astronomia (ancora tolemaica, anche se nel cuore cominciavo a essere copernicano). A quel tempo astronomia e astrologia viaggiavano insieme, convinti come si era dell’influsso degli astri nella vita delle persone. Per cui in molti mi chiedevano oroscopi.

Quella supernova, osservata e documentata dal suo nascere al suo scomparire, aveva cominciato a mettere in discussione la concezione allora dominante sulla natura del cielo e delle stelle. Non era una cometa e neppure un pianeta sconosciuto. Cos’era e da dove veniva? Così mi sono messo ad approfondire e, quando nel 1607 degli occhialai olandesi costruirono il primo cannocchiale, intuii le possibilità offerte da quello strumento che permetteva di vedere lontano.

Così costruisti il tuo primo cannocchiale (chiamato poi nel 1611 telescopio) modificato e perfezionato, e nel 1609 lo presentasti al governo della Serenissima.

Il nuovo strumento mi permise di acquisire informazioni precise sulla luna. Scoprii che la sua superficie non era liscia come pensavano gli antichi, ma presentava delle irregolarità. Il cannocchiale mi diede modo di studiare anche la Via Lattea, che si rivelò un insieme di stelle lontanissime, che allargavano all’infinito i confini dell’universo. Osservai pure che i pianeti del sistema solare avevano dei satelliti e scoprii anche i quattro maggiori satelliti di Giove. Scrutando il sole, poi, vidi con una certa sorpresa che sulla sua superficie c’erano delle macchie.

Le scoperte vennero pubblicate nel 1611 nell’opera Sidereus Nuncius, che inviai al granduca di Toscana Cosimo II de Medici, il che mi valse una posizione da insegnante a Firenze.

Quali erano le idee nuove che tu presentasti?

I miei studi mi portarono a sostenere l’autonomia della scienza da filosofia e teologia.

Lo esprimo in modo semplificato: proponevo che filosofia e teologia (e quindi la Bibbia) dovessero spiegare il perché dell’esistenza del mondo, ma che toccasse alla scienza spiegarne il funzionamento e le leggi. Per me solo la scienza poteva dare una conoscenza valida della natura. «È l’intenzione dello Spirito Santo d’insegnarci come si vadia al cielo e non come vadia il cielo», scrissi a Caterina de’ Medici, citando una frase del cardinale Cesare Baronio, per spiegarle questo concetto.

china di Paul Gichui

Nel 1611, la Chiesa e il Sant’Uffizio iniziarono a prestare attenzione alle tue opere, e nel marzo di quell’anno fosti convocato a Roma, da papa Paolo IV. Là ti venne ribadito che il nuovo metodo scientifico e il sistema copernicano contraddicevano i testi sacri.

Qualche anno dopo, precisamente nel 1614, a Firenze, frate Tommaso Caccini lanciò contro i matematici moderni, e in particolare contro di me, l’accusa di contraddire le Sacre Scritture con le nuove concezioni astronomiche ispirate alle teorie copernicane. Avevo infatti aderito alle idee di Keplero sui movimenti dei pianeti, tra cui quella in base alla quale la Terra compiva su se stessa un moto di rotazione, e alla teoria eliocentrica enunciata nel De revolutionibus orbium coelestium del 1543 dall’astronomo polacco Niccolò Copernico, per cui non il Sole girava attorno alla Terra, ma il contrario.

Il clima iniziò a farsi teso per i sostenitori di queste idee, e nel 1616 i teologi della Chiesa di Roma (come anche i Riformatori protestanti) affermarono che le idee copernicane erano eretiche perché contraddicevano le Sacre Scritture e le opinioni dei Padri della Chiesa.

Fu in quel periodo che formulai il metodo scientifico sperimentale in una serie di lettere scritte tra il 1613 e 1616, tra le quali la lettera a Caterina de’ Medici, chiamate poi Lettere copernicane, e nel Saggiatore, testo del 1623 dedicato allo studio delle comete. In queste due opere mi preoccupai di spiegare come la Bibbia avesse carattere morale e salvifico, ma non scientifico, per cui volevo chiarire l’approccio che si doveva avere nelle scienze. Le discussioni di carattere scientifico dovevano basarsi su ipotesi e teorie elaborate e confermate a partire dall’osservazione diretta della realtà naturale.

L’osservazione sistematica e scientifica della realtà naturale offriva un cammino nuovo ed esaltante al sapere. Le conferme ottenute aprivano la strada a quello che sarebbe poi rimasto il migliore metodo per comprendere i meccanismi della realtà naturale: il metodo scientifico sperimentale.

Quindi tu fosti uno dei primi protagonisti di quello che sarebbe stato un lungo contrasto tra religione e scienza?

Sì, perché con le sentenze di condanna da cui fui raggiunto, si voleva sottolineare che non ci poteva essere una scienza indipendente dalla visione religiosa biblica, come sostenevo io.

I tempi della cultura e della società nelle quali vivevo non erano ancora maturi ad accogliere le mie idee, ma io volevo che maturassero.

Nel 1633 accettai di presentarmi al tribunale dell’Inquisizione a Roma, per risolvere la questione che ormai si trascinava da prima del 1614, quando un frate di Firenze mi aveva denunciato al sant’Uffizio. Una questione che non riguardava solo me, ma anche altri studiosi (laici, religiosi e frati) che condividevano le mie idee.

Quindi non finì nel 1616 quando ti ammonirono per la prima volta a non professare né divulgare la teoria copernicana?

Dopo quell’ammonizione, il dibattito continuò, e in modo molto vivace, anche perché avevo un carattere forte e non mi lasciavo certo intimidire dai miei oppositori. In più il numero di coloro che condividevano la visione copernicana del mondo e si interrogavano sul vero rapporto tra scienza e Sacre Scritture cresceva. Fu in quel periodo che pubblicai il mio libro Il Saggiatore, che impressionò positivamente il papa Urbano VIII, con il quale mi incontrai poi molte volte.

Quale fu la causa dell’ultimo processo e condanna?

acquarello di Paul Gichui

Nel 1632, dopo anni di lavoro, pubblicai il libro Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, approvato anche dal consultore dell’Inquisizione di Firenze. Nel libro, oltre a sostenere e provare la teoria copernicana, ribadivo che la matematica, mezzo necessario per capire la razionalità della natura, non poteva essere in contraddizione con Dio, il quale è assoluta razionalità. Il libro ottenne un grande successo anche tra molti ecclesiastici e studiosi, ma fece infuriare i conservatori degli uffici romani che lo videro come una minaccia alla fede. In più, in alcuni ambienti, si cominciò ad accusare il papa di essere troppo tenero con le correnti eretiche.

Da qui la decisione di convocarmi a Roma per il processo, che iniziò il 12 aprile e si concluse il 22 giugno 1633 con la condanna.

Quando ti hanno condannato, sei finito in prigione?

La condanna prevedeva tre anni di prigione e la recita una volta alla settimana dei sette salmi penitenziali. Ma la prima cosa che dovetti fare fu l’abiura, nella quale giuravo di credere in tutto quello che «tiene, predica e insegna la santa Chiesa cattolica».  Ma per i salmi, hanno accettato che li dicesse mia figlia, suora di clausura, e presto la pena venne tramutata in arresti domiciliari che scontai fino alla morte nella mia villa di Arcetri, vicino a Firenze, chiamata «il Gioiello».

***

Il 10 novembre 1979, nella sala regia del Vaticano, accanto alla Cappella Sistina, in occasione del centenario della nascita di Albert Einstein, davanti a cardinali, ambasciatori, scienziati e uomini di cultura di tutto il mondo, Papa Wojtyla ha affermato: «La grandezza di Galileo è nota a tutti, come quella di Einstein. Ma, a differenza di colui che oggi noi onoriamo davanti al Collegio cardinalizio, nel Palazzo apostolico, il primo ebbe molto a soffrire – noi non sapremo nasconderlo – da parte di uomini e organismi della Chiesa».

Dopo aver ricordato che il Concilio Vaticano II aveva deplorato i conflitti che hanno indotto gli uomini a credere che ci sia contrasto tra scienza e fede, il Santo Padre ha così proseguito: «Io auguro che teologi, scienziati e storici, animati da uno spirito di sincera collaborazione, approfondiscano l’esame del caso Galilei e, nel riconoscimento leale dei torti, da qualsiasi parte provengano, facciano scomparire le lacune che questo caso ancora presenta, nella mente di molti, in una concordia fruttuosa fra scienza e fede, tra Chiesa e mondo. Io dò tutto il mio appoggio a questo compito che potrà onorare la verità della fede e della scienza e aprire le porte a future collaborazioni».

Secoli dopo la sua morte, nel 1992 la Chiesa ha riconosciuto formalmente la grandezza di Galileo Galilei, «riabilitandolo» e assolvendolo dall’accusa di eresia. Egli è sepolto a Firenze, in Santa Croce, nel mausoleo dei sommi italiani.

Don Mario Bandera




Nuova presenza dei Missionari della Consolata in Marocco


Dall’inizio di novembre i Missionari della Consolata hanno cominciato a rendere concreto un progetto da lungo sognato: un presenza in Marocco a servizio dei rifugiati sub sahariani.

Da alcuni anni i missionari della Consolata in Spagna stanno cercando un maggiore coinvolgimento nel lavoro degli immigrati. Soprattutto a Malaga, con la cura pastorale nella chiesa di Cristo Re e con il coinvolgimento sociale nella “Piattaforma di solidarietà con gli immigrati” e in altre forme, hanno iniziato ad aprirsi alla collaborazione con altre forze. Si è tenuto conto della situazione strategica delle città di confine, Ceuta, Melilla, Nador e Tangeri come indicato dalla Conferenza 2018 della Delegazione di Spagna e dal Consiglio Continentale dell’epoca.

La proposta del Vescovo: Oujda

Dopo tre visite da parte di gruppi di missionari della Consolata (missionari e laici insieme), a cui ho partecipato anche io, abbiamo ricevuto la proposta concreta del cardinale Crisbal Lopez, vescovo di Rabat, di assumerci la responsabilità di lavorare con gli immigrati a Oujda (Uchda, in spagnolo), una città marocchina nell’estremo orientale del paese, a circa 15 km dal confine con l’Algeria e a circa 60 km a sud del Mediterraneo. Oujda è la capitale della regione orientale vasta circa 1.000 km2, uno dei 12 grandi territori amministrativi marocchini. Si tratta di un punto di passaggio di tante persone provenienti da diversi paesi dell’Africa subsahariana, che qui arrivano con l’intenzione di raggiungere l’Europa dopo aver attraversato il deserto ed essere passati attraverso tante tribolazioni. Qui la lingua ufficiale è l’arabo, ma si parla anche il francese insieme al dariya, una variante dell’arabo.

Secondo il vescovo Christopher, da “Chiesa samaritana” che siamo, la parrocchia ha sentito il dovere di accogliere coloro che hanno bussato alla sua porta chiedendo aiuto. E per più di due anni, il parroco Antoine Exelmans, sacerdote francese “fidei donum” e attuale vicario generale della diocesi, ha organizzato questa attività che cerca, seguendo le linee guida di Papa Francesco, di “accogliere, proteggere, promuovere e integrare” gli immigrati.

In questa parrocchia di St. Louis, una chiesa del ventesimo secolo, viene offerto un servizio di accoglienza di emergenza tutto l’anno per i migranti in situazioni vulnerabili. Circa 1000 persone passano da qui ogni anno, ma nel 2020 sono già passate più di 2000 persone. Sono praticamente tutti subsahariani: più dell’80% proviene dalla Guinea Conakry, e altri provenienti da Camerun, Sudan, Madagascar, ecc. Molti di quelli accolti qui sono minorenni.

Il Consiglio della regione d’Europa dei Missionari della Consolata mi ha chiesto di coordinare il processo e la possibile presenza a Oujda. Dopo diversi mesi di corrispondenza con il Vescovo di Rabat, il 3 novembre sono arrivato a Rabat, e dopo alcuni giorni di introduzione alla realtà del Marocco e della chiesa qui con l’aiuto dello stesso vescovo, il 12 novembre ho iniziato questa esperienza a Oujda, a 530 km da Rabat, sede dell’arcidiocesi.

Principi di orientamento per la nostra presenza a Oujda

Fraternità

Anche se ero già stato qui in visita l’anno scorso, mi sono reso conto che l’arrivare fin qui è una bella esperienza impegnativa di vita di fede e di fraternità, che richiede di “conoscere la realtà dall’interno, anche con coraggiose opzioni di presenza…”

È una presenza di fraternità che si vive anche nella sua bellezza di realtà ecumenica ecumenico e fortemente interreligiosa con una convivenza pacifica in Marocco, un paese con più del 98% della popolazione che pratica l’Islam. Il re del Marocco Mohamed VI ha sottolineato a Papa Francesco nella sua visita apostolica in Marocco nel marzo dello scorso anno che “le religioni abramiche esistono per essere aperte e conoscersi, in una coraggiosa competizione per fare del bene l’una con l’altra”.

Legami con Malaga

Dopo la presentazione di cui sopra, è chiaro il rapporto che esiste tra la nostra presenza qui con l’Europa, e in particolare con la Spagna, o più in particolare ancora, con la nostra comunità a Malaga. A causa del nostro coinvolgimento in questo fenomeno a Malaga e del processo che culmina nella nostra installazione qui, considero questa presenza come un “allegato” alla comunità di Malaga, missionari e laici insieme.

Itineranza

È la caratteristica inarrestabile del fenomeno dell’immigrazione. Pertanto, nessuno sa quanto durerà la nostra presenza qui. Questa presenza comporta anche un certo “itineranza mentale”, cioè la flessibilità. Si tratta di una missione dinamica, corrispondente alla natura del fenomeno stesso, suscettibile di cambiamenti dovuti a fattori socio-politici, ecc. Inoltre, è essenziale tessere reti collaborative. Con la nostra comunità di Malaga, e con tutta la nostra regione Europa e BMI e l’intera congregazione. Naturalmente,  è importante anche l’appoggio e la collaborazione con altri organismi ecclesiali ed extra-ecclesiali.

Evangelizzazione e pastorale

Sappiamo che “la Buona Notizia è l’essenza e il contenuto di tutto ciò che siamo e facciamo come missionari” (PMC n. 86.1). Per parafrasare il vescovo emerito di Rabat, monsignor Vincent Landel, si può dire che “i cristiani sono l’unico Vangelo che leggono molti musulmani”. La Conferenza Episcopale della Regione del Nord Africa (CERNA) nella sua lettera pastorale del 2014 riconosce la presenza della Chiesa in queste terre come “servi della speranza” e quindi ci invita all'”apostolato dell’incontro”, come Maria, in questi “incontri dell’umanità”.

La presenza pastorale qui comprende anche l’accompagnamento alla comunità cristiana di circa 50 parrocchiani, la maggior parte dei quali studenti subsahariani, così come funzionari diplomatici, turisti, ecc. Allo stesso modo, per questo compito, aspetto con ansia l’arrivo di almeno altri due confratelli della Consolata.

Nel suo messaggio per la Giornata Mondiale dei Poveri 2020, Papa Francesco ci invita a “tendere la mano ai poveri” ricordandoci che “tenere gli occhi sui poveri è difficile, ma molto necessario per dare alla nostra vita personale e sociale la giusta direzione”. Speriamo di avere la cooperazione di tutti, che la saggezza del Signore ci accompagni, e contiamo sempre sull’intercessione della Madonna del Marocco.

Padre Edwin Osaleh
da Oujda, Marocco

(nostra traduzione da Consolata en Marruecos, nueva presencia, su www.consolata.org)




Camminiamo la speranza

Testo di Gigi Anataloni, direttore MC |


Papa Francesco conclude il primo capitolo della nuova enciclica «Fratelli tutti» con un invito: «Camminiamo nella speranza» (Ft 55). È un invito coraggioso e bello in questi tempi duri, sofferti e contraddittori in cui la tentazione è quella di gettare la spugna e prendere quel che si può senza preoccuparsi del futuro e degli altri.

Questa pandemia, con cui volenti o nolenti siamo costretti a fare i conti, se da una parte può essere l’occasione per tirar fuori il meglio di sé (come molti ci stanno dimostrando pagando anche con la vita), dall’altra fa emergere modi di essere e agire perlomeno discutibili e decisamente dannosi per tutti. Alcuni di questi atteggiamenti negativi sono cronici e fanno parte da sempre della nostra stessa fragilità umana. Altri invece sono nuovi, alimentati ad arte dalla concezione idolatrica e materialistica del mondo che oggi sembra dominare quasi ovunque.

La nuova enciclica elenca un numero impressionante di situazioni negative («Le ombre di un mondo chiuso») che abbracciano sia la dimensione personale che sociale. Partendo dai sogni andati in frantumi e dalla mancanza di progettualità, evidenzia tutte le «ombre» analizzando la «logica dello scarto» (che esclude bambini e anziani, alimenta il razzismo e specula sul costo del lavoro) ai «diritti umani non uguali per tutti» (la dignità  calpestata dei poveri e delle donne, la schiavitù e il traffico di persone), i «conflitti e paure» e la «globalizzazione del progresso fine a se stesso»; le «pandemie e flagelli» della storia e le «frontiere discriminanti», «l’illusione di una vera comunicazione» e le «sottomissioni culturali ed economiche», arrivando a sottolineare il «disprezzo e disistima dei poveri e dei marginali della storia e dell’economia».

È una lista di «ombre» dettagliata che non vi presento nella sua completezza perché riempirebbe da sola tutta questa pagina, ma che vale la pena di affrontare per svegliarci dal torpore e riconquistare la libertà di essere autenticamente uomini. Benché papa Francesco presenti un quadro duro e impietoso, non cede al pessimismo o alla rassegnazione, e reagisce invitando a camminare insieme nella speranza. Perché «la speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale […] per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa».

Parole che mi hanno aperto il cuore, perché la speranza è l’anima della missione e ogni missionario (ogni discepolo) è un «camminatore di speranza».

 

E  la speranza non delude. È bello vedere in questi giorni persone audaci che continuano a non arrendersi alle «ombre», ma vivono fino in fondo la loro umanità, anche pagando di persona. Il nostro presidente Mattarella ha riconosciuto la bella testimonianza di Willy e don Roberto, ma accanto a loro ci sono le migliaia di infermieri e medici, insegnanti e volontari, sacerdoti e religiosi che si sono dedicati a servire gli altri e continuano a farlo con generosa dedizione anche a costo della propria vita. La loro testimonianza ci incoraggia ad andare avanti, anche se a piccoli passi. Noi oggi vinciamo «le ombre» non con azioni dirompenti, ma con la forza di innumerevoli piccole candele che brillano nel buio. Piccole candele di amore che ci permettono di guardare in faccia al nostro vicino («prossimo») per quello che è, chiamandolo per nome, creando relazione, scoprendolo come sorella o fratello, persona umana al di là degli stereotipi e degli slogan.

Camminare (nel)la speranza è scegliere e difendere la vita, soprattutto dei più indifesi e fragili come i bimbi non ancora nati e indesiderati e gli anziani. È accogliere ogni persona come persona, senza discriminazioni ed etichette (di «razza», di genere, di provenienza, di condizione sociale). È «gentilezza» e attenzione all’altro, passando dall’io al noi, senza mettere il «mio» diritto al primo posto sempre e a ogni costo. È fermarsi e staccare la spina dalla frenesia delle cose da fare e avere per essere all’altezza delle aspettative del mondo. È reagire all’informazione martellante, veloce, ossessiva, che gioca con i tuoi sentimenti e le tue paure invece di farti usare la testa.

È dare tempo al silenzio e alla preghiera, all’ascolto della Parola di Dio, contro il rumore che ci assorda. È andare a messa la domenica come atto di amore agli altri e dichiarazione di libertà contro la dipendenza dai riti idolatrici del divertimento e consumismo che svuotano le tasche ma non riempiono il cuore. Forti della speranza che non delude, camminiamo insieme per costruire un mondo secondo il sogno di Dio.

 




Le perdite allo stato, i profitti ai privati

Testo di Francesco Gesualdi |


Nelle privatizzazioni, la lotta è tra statalisti e liberisti. Nella realtà, il ragionamento dei liberisti è più opportunista: «no» all’intervento dello stato quando le cose vanno bene, «sì» quando le cose vanno male. La vicenda Autostrade-Benetton.

La vicenda del Ponte Morandi ha riacceso i riflettori sulle privatizzazioni, anche se alla fine tutto si è trasformato in un processo alla famiglia Benetton, piuttosto che in una riflessione sul principio in sé delle privatizzazioni. Privatizzare, la parola stessa lo dice, significa «rendere privato ciò che è pubblico». Un concetto di per sé semplice, ma complicato dal fatto che le modalità di passaggio ai privati sono molteplici e che la stessa privatizzazione si presta a molteplici interpretazioni. Volendo schematizzare, il termine può riferirsi a tre diversi scenari: la privatizzazione totale, la privatizzazione parziale, la privatizzazione ombra, di cui, però, parleremo meglio nella prossima puntata.

Liberisti e interventisti

La privatizzazione totale si ha quando lo stato vende definitivamente una sua proprietà o una sua attività a un soggetto privato totalmente indipendente. Se lo stato debba gestire o meno servizi e attività produttive ha sempre rappresentato un tema di grande contesa che ha diviso economisti e forze politiche in schieramenti contrapposti: di qua i liberisti, che vogliono limitare la presenza dello stato ai soli ambiti che tutti hanno interesse a mantenere collettivo (magistratura, polizia, difesa dei confini, anagrafe); di là gli interventisti, che pretendono di estendere la presenza dello stato a tutti quegli ambiti che condizionano la dignità dei cittadini: sanità, istruzione, alloggio, acqua, rifiuti, trasporti e molti altri. Così in teoria. Di fatto i liberisti hanno sempre avuto un atteggiamento oscillante (e opportunista): di assoluta opposizione all’intervento dello stato quando le cose per loro vanno bene, ma di richiesta di protezione in caso di mala parata. Della serie: «privatizziamo i profitti, socializziamo le perdite».

Nascita e morte dell’Iri

Quando nel 1929 le economie di tutto il mondo entrarono in crisi con fallimenti a catena di banche e imprese produttive, tutti invocarono l’intervento dei governi per salvare il salvabile. Richiesta accolta anche da Mussolini che, nel 1933, istituì l’«Istituto per la ricostruzione industriale», in sigla Iri, incaricato di sottrarre al fallimento i principali gruppi bancari e industriali che spaziavano dalla siderurgia alla produzione energetica, dalle costruzioni navali a quelle automobilistiche. Quando lo stato italiano si ritrovò proprietario dei maggiori stabilimenti industriali, pensava di detenerli in maniera transitoria, tanto quanto sarebbe bastato per superare la burrasca. Invece, la situazione si stabilizzò e nel dopoguerra il fondo venne rafforzato attribuendogli l’incarico di pilotare lo sviluppo economico del paese. In particolare, avrebbe dovuto sostenere lo sviluppo del Mezzogiorno e potenziare la viabilità ritenuta fondamentale per la crescita dell’economia italiana. Non a caso, nel 1950, venne costituita la Società autostrade che, partendo dall’autostrada del Sole, costruì l’intelaiatura autostradale italiana. Negli anni Settanta, l’Iri fu chiamato nuovamente a svolgere funzioni di salvataggio di imprese in crisi e si indebitò in maniera pesante. Il che fu poi usato come pretesto per avviare un processo di smantellamento dell’ente che si concluse nel 2000 con la sua liquidazione. Così tornarono in mani private aziende che, oltre a svolgere servizi importanti come la telefonia e la gestione autostradale, garantivano rendite sicure dal momento che erano in una posizione di monopolio, ossia di operatori senza concorrenti che, oltre ad avere un mercato sicuro, potevano fare i prezzi che volevano. Tesi confermata dalla Corte dei Conti che, in un rapporto del febbraio 2010, segnala come, nel caso delle utilities (energia, trasporti, telecomunicazioni), «l’aumento della profittabilità delle imprese regolate sia attribuibile in larga parte all’aumento delle tariffe» piuttosto che a investimenti migliorativi.

Il caso autostrade

Complessivamente, dal 1991 al 2001, la vendita delle proprietà pubbliche ha fruttato allo stato 97 miliardi di euro. Sarà stato davvero un affare per il popolo italiano? I sostenitori del «sì» ritengono che sia stato conveniente perché ci siamo sbarazzati di aziende in perdita che procuravano soltanto debiti e perché abbiamo raggranellato qualche soldo per ripagare il nostro debito pubblico. Ma non tutte le aziende dismesse erano in perdita, mentre l’effetto sul debito pubblico è stato solo del 7%. Purtroppo, non si può fare a meno di constatare che, dietro al fenomeno delle privatizzazioni, c’è stata anche una buona dose di scelta ideologica. In effetti a partire da fine anni Settanta del secolo scorso, l’idea statalista cominciò a retrocedere per fare posto a quella liberista che vuole il mercato protagonista assoluto del sistema economico e perfino sociale. Prova ne sia che il processo di privatizzazione coinvolse l’intero mondo industrializzato con il suo apice nel 1999, anno in cui gli introiti da vendite delle proprietà pubbliche, raggiunsero i 140 miliardi di dollari a livello mondiale. Purtroppo, anche l’Unione europea spinse in questa direzione pretendendo dai paesi membri l’applicazione di trattati europei fondati su regole che antepongono i meccanismi di mercato all’interesse collettivo.

In Italia, l’ubriacatura liberista risucchiò nel tritacarne delle privatizzazioni molti beni e molti servizi. Fra i pochi sfuggiti, le infrastrutture stradali che sono rimaste di proprietà pubblica: le autostrade, infatti, appartengono al governo centrale per il tramite del ministero dei Trasporti. In effetti, la Società autostrade, che l’Iri mise in vendita nel 1999, ormai era solo una società di gestione, la quale, per esercitare la propria attività, doveva ottenere una concessione da parte del governo che continuava a possedere il bene autostradale. E fu così che, contestualmente alla privatizzazione totale della società, avvenne la privatizzazione parziale del bene, per la possibilità concessa alla società privatizzata di gestire gran parte della rete autostradale. In seguito, la concessione venne rinnovata più volte secondo modalità fortemente criticate dalla Corte dei Conti che, in un suo rapporto dell’ottobre 2019, parla di scarsa trasparenza, scarsa correttezza giuridica, scarsa correttezza economica. Il risultato è che, su un totale di 6.700 km di rete autostradale, oltre l’85% sono stati affidati a società private e solo il 15% sono rimasti in carico ad Anas, la società di proprietà pubblica adibita alla cura delle strade. Le società concessionarie private che gestiscono circa 5.700 km, oggi sono 25, ma la parte del leone la fa «Autostrade per l’Italia», che da sola controlla oltre il 50% della rete in concessione, fra cui l’Autostrada del Sole, l’Autostrada Adriatica, la Firenze-Mare.

Oltre a precisare l’ambito delle autorizzazioni, le concessioni definiscono i diritti e i doveri dei concessionari compresi gli investimenti che devono realizzare ai fini migliorativi e gli innalzamenti tariffari che possono operare per recuperare il capitale investito e garantirsi un guadagno. Come segnala la stessa Corte dei Conti, i rendimenti inseriti nelle concessioni autostradali sono stati fissati a livelli molto alti, in certi casi addirittura oltre il 10%, provocando una costante lievitazione delle tariffe e quindi dei profitti delle società concessionarie. E si vede. Nel 2017, l’anno prima che il Ponte Morandi crollasse, Autostrade per l’Italia aveva realizzato ricavi per quasi 4 miliardi di euro, di cui 2,5 utilizzati per spese di gestione, 465 milioni versati allo stato per il canone di concessione e più di un miliardo distribuito agli azionisti come profitti. Ed è qui che entrano in scena i Benetton che, per il tramite di Atlantia, detengono l’88% di Autostrade.

Le autostrade sono un simbolo del fallimento delle privatizzazioni in Italia. Foto: Schwoaze-Pixabay.

Lo stato e i Benetton

Nel 1999, quando la società venne messa in vendita, i Benetton si limitarono a comprarne il 30%, non avendo altri soldi da spendere. La quota restante la comprarono nel 2003 a debito, dopo che una riforma del diritto societario aveva introdotto un meccanismo che permette di comprare le aziende a debito potendosi sbarazzare del debito stesso. Il meccanismo si chiama leverage buyout, in tutto e per tutto un gioco di prestigio finanziario. L’imprenditore che intende effettuare l’acquisto lo fa attraverso una società creata ad hoc che, oltre a rappresentare lo strumento giuridico della compra-vendita, ha anche il compito di raccogliere prestiti presso terzi. Poi, ad acquisto avvenuto, la società acquirente viene fusa con la società acquistata, per cui il debito passa a quest’ultima con tutti gli obblighi che ne derivano. Nel caso specifico la famiglia Benetton creò la società NewCo28 per raccogliere prestiti pari a 6,5 miliardi di euro necessari a completare l’acquisto di Autostrade per l’Italia. Ad acquisto effettuato, NewCo28 venne incorporata in Autostrade e il debito lo stanno ancora pagando gli automobilisti attraverso i pedaggi.

Dopo la caduta del Ponte Morandi molti hanno capito che andava processato non solo chi si era reso colpevole di negligenze, ma l’intero sistema delle concessioni decisamente troppo a favore delle società di gestione. Invece di riconoscere questa necessità e proporre una riforma complessiva sul modo di gestire le autostrade, il governo ne ha fatto una questione di mala gestione da parte dei Benetton e ha annunciato di voler revocare la concessione rilasciata a loro favore, forse con l’intento di correggere almeno le storture più eclatanti. Se si fosse riusciti a togliere la concessione ai Benetton, così era il ragionamento, il governo avrebbe potuto indire una nuova gara e stipulare una nuova concessione su basi totalmente diverse con il nuovo concessionario.

Fin da subito si è però capito che la revoca era una strada impraticabile per le enormi penali che lo stato avrebbe dovuto pagare. Così, per due anni non è successo nulla, almeno in apparenza. In realtà, dietro le quinte governo e impresa hanno continuato a interloquire per trovare un’altra soluzione: il ridimensionamento dei Benetton in Autostrade, in modo da fare passare il potere decisionale a nuovi soggetti disposti a rivedere i termini della concessione. A luglio 2020 è arrivato l’annuncio: i Benetton hanno accettato di vendere una parte cospicua delle loro quote in Autostrade a una cordata diretta da Cassa depositi e prestiti, banca controllata dal ministero del Tesoro e finanziata dal risparmio postale. Tuttavia, i particolari dell’accordo, compreso il prezzo di vendita, non sono stati annunciati: saranno pattuiti in privato fra le parti. Dunque, ci sarà ancora da attendere per capire se l’operazione si tradurrà in una bacchettata ai Benetton o in un ennesimo regalo a loro favore. Visti i trascorsi, è meglio non farsi troppe illusioni.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)

 




La plastica è nel nostro piatto


Il problema più grave è quello non visibile a occhio nudo: le microplastiche. Ormai esse si trovano ovunque: nelle acque, nei terreni, nelle nevi ad alta quota. Nei prodotti d’igiene. E nel nostro cibo.


*la prima parte di questo articolo è in MC aprile 2020


La visione di ammassi di plastica galleggianti in acqua o dispersi per terra, solitamente suscita più clamore di una forma d’inquinamento molto più insidiosa, quella da microplastiche. La loro dispersione nell’ambiente è legata principalmente a due diverse fonti.

Una è rappresentata dalla manifattura di prodotti plastici, che usa come materia prima piccoli granuli di resina chiamati «pellets», «nibs» e «microbeads». Questi ultimi possono essere dispersi accidentalmente nell’ambiente durante il trasporto, a seguito di un uso inappropriato dei materiali da imballaggio o per deflusso diretto dagli impianti di trasformazione. In seguito al dilavamento dei terreni dovuto alle piogge, questi materiali possono finire negli ecosistemi acquatici.

La seconda fonte sono i rifiuti in plastica abbandonati nell’ambiente e soggetti a vari tipi di degradazione: la fotodegradazione ad opera della radiazione solare; la biodegradazione compiuta da organismi viventi, soprattutto microbi; la degradazione termossidativa a temperatura modesta, quella termica ad alta temperatura e l’idrolisi dovuta alla reazione con l’acqua.

I principali composti chimici presenti nelle plastiche sono il polietilene, il polipropilene, il polistirene, il polietilene tereftalato e il polivinilcloruro, costituenti di oggetti come le bottiglie, le posate e le stoviglie di plastica, i contenitori per il cibo, le reti da pesca, le pellicole.

Micro e nanoplastiche

Poiché le microplastiche e le nanoplastiche a occhio nudo non le vediamo, siamo portati a considerarle come insignificanti, mentre in realtà sono molto più insidiose per la nostra salute delle plastiche di maggiori dimensioni. Esse si trovano praticamente ovunque nelle acque di ogni latitudine, sul terreno e nelle nevi in alta quota. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, è stata recentemente condotta (settembre 2019) una campagna di campionamenti delle nevi valdostane da parte dell’European research institute (con la Cooperativa Erica e la società VdATralier). La ricerca ha evidenziato come ogni anno precipitino sulle montagne valdostane, a causa degli eventi atmosferici, 200 milioni di frammenti di plastica (equivalenti a circa 25 Kg) di cui 80 milioni sono microplastiche. Questo valore è probabilmente sottostimato, considerando che parte delle nevi fondono, quando si alza la temperatura, riversando il loro contenuto nei ruscelli. È quindi chiaro che le microplastiche e le nanoplastiche in tal modo possono raggiungere tutti i bacini idrografici intermedi fino ad arrivare al mare. Lo stesso viaggio viene intrapreso prima o poi da tutti i minuscoli frammenti sparsi sul terreno, ogni volta che si verificano delle precipitazioni. A questi si aggiungono le microplastiche e le microfibre riversate quotidianamente nelle acque di scarico di ogni centro abitato e quelle generate direttamente in mare dalla frantumazione e degradazione delle reti e delle attrezzature da pesca, oltre che dei rifiuti in plastica gettati dalle imbarcazioni e di quelli giunti attraverso i fiumi. Quindi, il mare è ricchissimo di microplastiche e microfibre derivanti dagli oggetti che comunemente usiamo nella nostra vita quotidiana e nelle nostre attività. Ad esempio, la nostra lavatrice mediamente provoca a ogni normale lavaggio il rilascio di circa 1.900 microfibre per ogni capo d’abbigliamento sintetico, corrispondenti a circa 100 fibre/litro per il lavaggio di tutti i capi, quantitativo che costituisce il 180% delle fibre di un analogo abbigliamento in lana. Durante la stagione invernale, inoltre, utilizzando più indumenti, il rilascio di microfibre aumenta del 700%. A quelle rilasciate in acqua, si devono aggiungere quelle depositate al suolo. Secondo una ricerca condotta nel 2016 dall’Università di Parigi Est, sull’area cittadina (circa 2.500 Km2), ogni anno, cadono al suolo 3-10 tonnellate di microfibre provenienti dagli abiti sintetici. I microbeads e i frammenti spigolosi di polietilene sono invece contenuti in prodotti di uso quotidiano come lo scrub facciale, alcuni tipi di shampoo e di saponi, il dentifricio, l’eyeliner, le creme solari, i detergenti esfolianti, in quantità che talora raggiungono il 10% del peso del prodotto e che, negli ultimi anni, hanno sostituito i tradizionali ingredienti naturali, come le mandorle tritate, la farina d’avena e la pomice. È stato calcolato che ogni persona produce circa 2,4 mg di microplastiche al giorno.

Negli ecosistemi acquatici le microplastiche riescono a espletare tutto il loro potenziale distruttivo. Esse possono causare danni fisici come il soffocamento degli invertebrati filtratori. Oltre a questo esse sono responsabili dell’assorbimento e del bioaccumulo di sostanze fortemente tossiche con proprietà mutagene, cancerogene e teratogene come gli ftalati, i Pcb, il bisfenolo A, le organoclorine e i metalli pesanti. Purtroppo i fr ammenti di plastica in acqua si comportano come delle spugne, assorbendo le sostanze tossiche disciolte e può succedere che un piccolo frammento riesca a concentrare su di esso una quantità di sostanze tossiche pari a un milione di volte quella presente nelle acque circostanti.

Disastro marino

Non c’è più alcuna zona dell’oceano, inteso come insieme di tutti i mari terrestri, che non sia contaminata dalle microplastiche, anche laddove non si vedono rifiuti plastici galleggianti, come nel passaggio a Nord Ovest nel mare Artico, dove una serie di campionamenti delle acque ha rivelato la presenza di smog di microplastiche e di nanoplastiche. Le ricerche condotte in questo mare hanno messo in evidenza il fatto che le microplastiche qui trovate non derivano da processi di degradazione in loco di rifiuti in plastica di maggiori dimensioni, ma sono state trasportate dalle correnti oceaniche, quindi provengono dai continenti in cui la plastica viene prodotta e dispersa in acqua. Tra l’altro i sistemi di depurazione e filtraggio delle acque (laddove esistono) non riescono a trattenere le microplastiche e le nanoplastiche, per via delle loro ridottissime dimensioni. Tutti i campionamenti effettuati in diverse parti dell’oceano hanno evidenziato come solo l’8% dei frammenti trovati è più grande di un chicco di riso.

Date le loro ridottissime dimensioni, le microplastiche e le nanoplastiche entrano a fare parte della catena alimentare, rilasciando le sostanze tossiche che trasportano, le quali sono caratterizzate da un processo di bioaccumulo o biomagnificazione, cioè il loro quantitativo all’interno degli organismi aumenta man mano che si sale lungo la catena alimentare. Frequentemente gli animali a vita bentonica, cioè viventi sui fondali marini si nutrono delle microplastiche, con tutto il loro contenuto di sostanze tossiche. Tra questi animali vi sono le cozze e le vongole, che spesso finiscono nei nostri piatti, i crostacei cirripedi (balani), gli invertebrati detritivori come oloturie, isopodi, anfipodi e policheti. Le nanoplastiche possono essere ingerite invece dagli organismi planctonici, che sono il cibo per elezione della balenottera comune (Balaenoptera physalus) e dello squalo elefante (Cetorhinus maximus), animali di grossa taglia che in tal modo accumulano nel loro tessuto adiposo quantità rilevanti di ftalati (mediamente 45 ng/g di grasso nella balenottera) derivanti dal plancton contaminato. I pesci sovente ingeriscono microplastiche, contaminandosi con le sostanze tossiche trasportate e quelli predatori, che si nutrono delle specie più piccole, accumulano nel loro tessuto adiposo ingenti quantità di tali sostanze.

Un piatto «ben» condito

Secondo la Coldiretti, in Italia consumiamo mediamente 25 Kg a testa di pesce all’anno, mentre il leader europeo del consumo di pesce è il Portogallo con 56 Kg procapite all’anno. È logico pensare che, attraverso il cibo, ci ritroviamo nel piatto la plastica, che abbiamo disperso in mare qualche anno prima, per giunta condita dalle sostanze tossiche che è riuscita ad assorbire, oltre a quelle di cui è normalmente costituita. Tra le prime possono figurare anche il Ddt e i pesticidi, finiti più o meno accidentalmente in acqua. Tra i costituenti della plastica, quelli che vengono maggiormente trasferiti dalle microplastiche e che risultano particolarmente pericolosi per la nostra salute sono gli ftalati. Queste sostanze trovano impiego nella fabbricazione delle materie plastiche in Pvc, perché ne migliorano la modellabilità e la flessibilità. Essi hanno inoltre diversi altri impieghi poiché consentono la persistenza dello smalto sulle unghie, quella del profumo nei deodoranti e quella della pigmentazione delle vernici. Data la loro elevata tossicità, la loro concentrazione nei giocattoli e negli articoli di puericultura, spesso messi in bocca dai bambini piccoli, a livello europeo non può superare lo 0,1% (Dir. 2005/84/Ce). Tra gli ftalati più pericolosi per la salute riproduttiva, in quanto interferenti endocrini, ci sono il Dehp o ftalato di bis (2-etilesile) e il prodotto della sua idrolisi o Mehp, cioè mono (2-etilesile) ftalato. Inoltre, il Dbp o ftalato di dibutile e il Bbp o ftalato di butilbenzile.

Gran parte delle bottiglie di plastica finiscono nelle acque. Foto: Kate Ter Haar.

La biomagnificazione

Pericolosissimo è il cosiddetto effetto cocktail dovuto sia al bioaccumulo, causa di una maggiore concentrazione, sia alla mescolanza di più sostanze tossiche, che comportano una tossicità ancora più marcata. In molti organismi marini sono stati riscontrati alterazione riproduttiva e dello sviluppo e diminuzione della sopravvivenza.

La prima osservazione dell’ingestione di microplastiche da parte di sei differenti specie di pesci risale al 1990. Le specie maggiormente colpite da questo fenomeno sono quelle planctofaghe. Sono stati rinvenuti frammenti plastici nel 35% delle specie ittiche pelagiche del Pacifico settentrionale e nel 36% delle specie mesopelagiche e demersali costiere (come halibut e platessa) dell’Atlantico. Particolarmente problematici dal punto di vista del ritrovamento di microplastiche e microfibre nello stomaco dei pesci si sono rivelati gli estuari dei fiumi. In queste aree, i pesci bentonici, che si nutrono dei sedimenti sui fondali, risultano le specie più colpite. In questi ambienti sono particolarmente accentuati i rapporti di predazione, con l’inevitabile conseguenza del fenomeno della biomagnificazione, per trasferimento degli inquinanti tossici dalle specie di piccola taglia ai predatori di maggiori dimensioni.

Tra le specie di pesci, che compaiono comunemente sulle nostre tavole, sono risultate contaminate da ftalati le sardine (Sarda sarda), le acciughe europee (Engraulis encrasicolus), le triglie di scoglio (Mullus surmuletus), i merlani comuni (Merlangius merlangus).

Naturalmente il processo di biomagnificazione continua in tutte le specie di uccelli, rettili e mammiferi che si nutrono di pesci contaminati. Sono state rinvenute fibre plastiche nell’apparato digerente e sostanze tossiche nel tessuto adiposo di orsi polari, foche e cetacei.

Poiché all’apice della catena alimentare ci sono i grandi predatori e tra questi l’uomo, era inevitabile trovare prima o poi le microplastiche e nanoplastiche nei nostri organi e tessuti.

Un team di ricerca dell’Università statale dell’Arizona, grazie ad una tecnica di imaging chiamata spettrometria -Raman, per la prima volta ha analizzato 47 campioni prelevati da diversi organi di persone decedute, tra cui fegato, polmoni, milza e reni, trovandoli tutti positivi per la presenza di microplastiche e di nanoplastiche. Al momento non sappiamo ancora quali siano gli effetti della presenza delle microplastiche e delle nanoplastiche sulla salute umana, ma le problematiche come infertilità, infiammazione e cancro riscontrate nei modelli animali non fanno presagire alcunché di buono.

 

Misure  insufficienti

È evidente che non possiamo più limitarci al riuso della plastica, alla raccolta differenziata e al suo riciclo (che non può proseguire all’infinito, come quello del vetro o dei metalli). È indispensabile limitarne la produzione, sostituendola con materiali completamente biodegradabili, perché per quanto siano stati messi a punto dei metodi di cattura delle plastiche galleggianti nei fiumi, per impedire che esse raggiungano il mare e di eliminazione delle microplastiche (peraltro ancora a livello sperimentale) dalle acque, non sarà mai possibile ripulire le acque e i fondali di tutto l’oceano (anche perché ancora in gran parte inesplorati). Sicuramente ciascuno di noi può fare la sua parte, a cominciare dalle scelte che facciamo al momento dell’acquisto, dando la preferenza a prodotti in altro materiale, a cibi venduti sfusi, senza packaging in polistirolo o plastica, ad abiti in fibra naturale e a calzature in pelle e cuoio. È inoltre di fondamentale importanza educare i nostri ragazzi ad un minore consumo di plastica. Solo scegliendo prodotti alternativi si può influenzare il mercato e, di conseguenza, la produzione della plastica.

Rosanna Novara Topino
(Fine)

*la prima parte è in MC aprile 2020


La pandemia ha portato sul mercato prodotti monouso che hanno evidenziato l’inciviltà di troppi. Foto: Ecogreenlove-Pixabay.

L’incomprensibile ritorno dell’«usa e getta»

Tonnellate di rifiuti sanitari

La riapertura delle scuole in tempo di Covid ha portato il ministero dell’Istruzione alla decisione di imporre l’uso a tutti – docenti, operatori scolastici e studenti – delle mascherine chirurgiche monouso, per la massima tutela, secondo gli esperti del Comitato tecnico scientifico incaricato dallo stesso ministero, della salute di tutti coloro che si trovano nell’ambiente scolastico. In pratica, ogni istituto scolastico dovrà fornire giornalmente una mascherina chirurgica monouso a tutti. Secondo tale piano si dovrà giungere a una fornitura quotidiana di 11 milioni di mascherine chirurgiche per tutte le scuole italiane.
Perché la scelta della mascherina chirurgica usa e getta? Secondo gli esperti del Comitato tecnico, perché la mascherina chirurgica è certificata in base alla sua capacità di filtraggio e risponde alle caratteristiche richieste dalla norma Uni En Iso 14683 – 2019, per quanto riguarda la capacità di barriera contro i microbi di ogni tipo. Le mascherine di stoffa lavabili e riciclabili, nella maggior parte dei casi non rispondono a tale norma. In realtà però esistono in commercio anche mascherine riutilizzabili e certificate, le cui prestazioni sono del tutto analoghe a quelle delle mascherine chirurgiche. Sarebbe sufficiente cambiare tipo di fornitura.
Gli esperti del comitato tecnico non hanno tenuto conto del fatto che 11 milioni di mascherine usa e getta giornaliere corrispondono a 44 tonnellate di rifiuti in più da smaltire mediante incenerimento, l’unico modo corretto di smaltimento dei rifiuti sanitari.
Siamo proprio sicuri che questa sia la migliore forma di tutela della salute? Anche perché le mascherine chirurgiche contengono sostanze plastiche, essendo realizzate in polipropilene o poliestere (che costituiscono il «tessuto-non tessuto» o Tnt di cui sono fatte) e l’incenerimento delle materie plastiche è senza dubbio fonte di sostanze tossiche, come le diossine, che rappresentano un rischio certo per la salute pubblica, a differenza di quello potenziale da Coronavirus. Tutto ciò si aggiunge alla già elevata quantità di mascherine e guanti monouso abbandonati per terra o in mare da persone che dimostrano in tal modo il loro grado di inciviltà.
C’è poi da dire che non è corretto indossare la stessa mascherina chirurgica per più di quattro ore, altrimenti essa perde completamente la sua efficacia perciò, nelle scuole a tempo pieno dove la permanenza è di otto ore, ciascuno dovrebbe avere a disposizione un paio di mascherine al giorno. È evidente che tutto questo rappresenta una spesa enorme per le casse dello stato ed un peso enorme per l’ambiente, che si potrebbero evitare ricorrendo alle mascherine lavabili, che tra l’altro possono anche essere sterilizzate in casa mediante bollitura, mentre le chirurgiche non sono quasi mai sterili.
Oltre a questo va detto che la scuola, che dovrebbe insegnare ai ragazzi a rispettare l’ambiente, obbligandoli ad indossare le mascherine monouso, fa esattamente l’opposto. A conti fatti, questo provvedimento risulta altamente diseducativo. Anziché abituare i ragazzi al riuso e al riciclo, per diminuire l’impronta ecologica, proprio la scuola li abitua a un inutile spreco di materie prime.

R.N.T.




Ladakh, un viaggio dell’anima

Testo e foto di Daniele Romeo |


Il Ladakh è indiscutibilmente uno dei luoghi più belli in cui viaggiare e sperimentare sensazioni profonde. È un luogo che ha qualcosa da offrire a tutti, che si tratti di un appassionato di fotografia, un amante della natura o anche di qualcuno alla ricerca del vero significato della vita.

Nel grembo del maestoso Himalaya, il Ladakh è la terra della bellezza paesaggistica incontaminata, della spiritualità autentica e della natura umana più genuina.

Gran parte del paese si trova a un’altitudine superiore a 3.500 metri. Da molti è definito «Piccolo Tibet» per via della sua somiglianza morfologica, religiosa, culturale e architettonica con il Tibet. Costituisce la più grande provincia dell’India settentrionale ed è un centro spirituale del buddhismo tibetano. È anche sede di una larga comunità islamica.

Una bellezza mozzafiato

Spesso chiamato «la terra dei passi di montagna», si trova in India nella regione frastagliata del Jammu Nord occidentale e del Kashmir. La regione è circondata da catene montuose ed è nota per le sue splendide vedute himalayane. Il paesaggio arido, roccioso e aspro, è punteggiato da monasteri (gompas) e da strutture bianche a forma di cupola, chiamate stupa, contenenti reliquie buddhiste. Alberi e campi verdi e rigogliosi, sapientemente irrigati dal popolo Ladakhi con l’acqua dei torrenti glaciali, segnano gli insediamenti umani. Bandiere di preghiera tibetane pendono da ponti, cortili e recinzioni, mosse dal vento.

Il Ladakh è noto per essere autosufficiente, producendo gran parte del proprio carburante, cibo e acqua. Tuttavia, il recente rapido aumento del numero di visitatori ha minacciato questa regione ecologicamente fragile. Gli hotel di nuova costruzione consumano sempre più l’approvvigionamento idrico, già compromesso dal lento scioglimento dei ghiacciai; allo stesso tempo orde di turisti inquinano in maniera irresponsabile un’area incontaminata solo fino a un decennio fa.

Un regno Indipendente

Un tempo regno indipendente lungo la Via della Seta, il Ladakh è stato fortemente influenzato dalle vicine terre del Tibet e dai regni musulmani a Ovest (in particolare Kashmir e Turkestan orientale, ora provincia cinese dello Xinjiang). Come il Tibet, ha abbracciato il buddismo, introdotto da vari missionari indiani e monaci erranti. Mentre il Tibet è rimasto chiuso all’influenza straniera, il Ladakh ha svolto un ruolo importante nel commercio della regione. I suoi mercati erano un crocevia di mercanti che portavano con sé molte religioni e culture diverse. E sebbene lo stesso Ladakh abbia affrontato la sua dose di sconvolgimenti politici, oggi ospita anche oltre 3.500 rifugiati dal Tibet.

Un anno fa, nel 2019, l’India ha approvato un disegno di legge, noto come J&K Reorganization Bill, che ha riscritto la geografia dell’estremo stato settentrionale di Jammu e Kashmir, dividendolo in due territori indipendenti: il Ladakh e il Jammu e Kashmir. Questa decisione ha ricostituito il Ladakh come territorio autonomo, separato dal resto del Jammu e Kashmir. Nonostante questa mossa abbia raccolto critiche diffuse sia dall’interno che dall’esterno dell’India, è servita a garantire al paese una nuova identità che lo distingue geograficamente, amministrativamente e demograficamente dalle regioni vicine come uno dei territori, insieme a Sikkim e Arunachal Pradesh, con la maggior diffusione del buddismo in India.

Mentre le montagne del Ladakh collegano letteralmente terra e cielo, gli antichi monasteri forniscono un ponte spirituale tra il passato e il presente. La cultura e le tradizioni promuovono il concetto di interdipendenza e sostenibilità: due ragioni per cui le persone hanno prosperato per migliaia di anni in un ambiente pur ostile e difficile.

Il viaggio

Un viaggio in Ladakh non è per tutti. Ci sono centinaia di chilometri di terra arida e nessun segno di insediamento umano. Bisogna adattarsi costantemente al clima e imparare sul campo dopo ogni tornante.

Non si tratta semplicemente di raggiungere la meta. È come il viaggio della nostra vita, dove impieghiamo la maggior parte del tempo per raggiungere la destinazione finale ma se non ci piace il percorso, difficilmente può avere un qualche senso.

Un viaggio in Ladakh è fatto per godere del percorso, per innamorarsi delle strade, delle curve, dei sentieri sconnessi, delle difficoltà, del caos che provoca un solo camion che si incrocia, delle frane. Sbalordirsi nel vedere le strade ad altezze che si pensavano irraggiungibili, sentire la bellezza di paesaggi lunari.

Un luogo mistico. Infinite montagne rocciose, decine di monasteri, paesaggi spettacolari, temperature sotto lo zero, notti stellate, fiumi imponenti, laghi azzurri come se qualcuno li avesse dipinti, ma soprattutto persone straordinarie. Un paradiso in terra.

Ci sono emozioni che non si possono esprimere a parole. Conoscere culture remote è una di queste. Il Ladakh è un’altra, e per questo esiste la fotografia.

Daniele Romeo
www.iviaggididan.com

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