Il futuro ci guarda


Le serie Tv di buona qualità sono interessanti. Si prendono il tempo per dipanare le storie senza tagli. I personaggi sono approfonditi, le descrizioni accurate e le atmosfere complesse. Ne suggeriamo otto. Tra cui alcune di fantascienza per riflettere su dove andiamo.

Sapete che differenza c’è tra un film e una serie? Siete a casa, la sera, sul vostro divano, gli occhi già a mezz’asta, desiderosi di godervi un paio d’ore di relax. Vi hanno consigliato un film. Lo cercate sulle quattro piattaforme cui siete abbonati (ricordate quando la gente faceva i salti mortali per non pagare il canone Rai? Adesso si paga il triplo per le piattaforme private), lo trovate, ma dopo 10 minuti vi rendete conto che: 1. è lento e vi cala ancora di più la palpebra; 2. non vi interessa il tema; 3. è fatto male; 4. ha troppa violenza / è troppo volgare / troppo per adolescenti / troppo per boomer.

Quindi? Quindi vi armate di santa pazienza (nonostante siate stanchi per la giornata di lavoro e il vostro obiettivo fosse quello di rilassarvi, non di fare ricerche affannose) e cercate un altro film. Spesso non va meglio, e la ricerca riprende.

Le serie Tv, invece, hanno il grande vantaggio di dare sicurezza: quando ne iniziate una, sapete che per dieci, venti, cento serate, siete a posto.

Scherzi a parte, le serie hanno una caratteristica che le rende davvero interessanti: si prendono il tempo per dipanare le storie senza sincopi, senza tagli. I personaggi sono più approfonditi, le atmosfere più complesse e le descrizioni più accurate.

Certo, questo se sono di buona qualità, intelligenti, significative. Anche in questo caso la selezione è fondamentale.

Ve ne propongo alcune che giudico addirittura formative: come vedrete, certe serie sono distopiche, cioè di fantascienza: le suggerisco perché sono un bel modo per parlare di noi, mostrandoci dove potremmo andare a finire proseguendo con la nostra affannosa (e spesso ridicola) ricerca di «progresso».

Hijack

Comincio con una serie non distopica, anzi con un bellissimo racconto di soluzione nonviolenta dei conflitti.

Su un aereo, un mediatore si ritrova nel bel mezzo di un dirottamento. Farà di tutto per far arrivare l’aereo a destinazione salvando duecento persone. Anche sopportare di non essere capito e talvolta creduto dall’equipaggio e dagli altri passeggeri che non hanno chiaro il suo ruolo. Proprio come succede a tanti veri mediatori.

Sette episodi, una trama di quelle che spingerebbero i giovani a guardarle tutte in una notte intera, desiderosi di sapere come andrà a finire.

Chernobyl

In questa, di distopica c’è solo l’incredulità: davvero la sciagura è stata causata da una «prova di incidente»? Davvero hanno fatto di tutto per mettere a tacere la tragedia? Ancora adesso non si sa il numero esatto delle persone che sono morte sacrificandosi per andare a spegnere il reattore con mezzi inadeguati.

Cinque puntate – ve lo anticipo, pesantissime – che si concludono con un processo che è un capolavoro di sceneggiatura e di scrittura dei dialoghi.

Sugar

Un poliziesco scanzonato, ma che nel corso delle poche puntate si fa più serio, e pone anche un dilemma non banale: qual è il coinvolgimento giusto da avere nelle vicende altrui? Chi siamo veramente noi, e chi sono gli altri? Non posso dirvi di più perché non voglio anticipare un importante colpo di scena. Ma l’attore, Colin Farrell, è bravissimo e la trama è sottotraccia. Quella principale quasi non ha importanza: se volete cimentarvi nel capire in anticipo dove andrà a finire questo racconto, dovrete fare molta attenzione a certe frasi.

The signal

Bellissima serie con un finale ironico e provocatorio. Una stazione orbitante internazionale rileva un segnale proveniente dallo spazio. Inizia una battaglia tra scienziati: dirlo o non dirlo? Che conseguenze avrà la consapevolezza che una civiltà aliena sta cercando di comunicare con noi? Ovviamente, al trapelare della notizia, le reazioni sono fortemente contrastanti: dall’esercito che pensa subito a combattere alle comunità spontanee che preparano l’accoglienza. E il finale vi farà riflettere per giorni, promesso.

Humans

Entriamo nella distopia più classica. Ventiquattro episodi, tre stagioni (ma voi non dovrete aspettare, è già uscita tutta).

In un futuro prossimo la collaboratrice domestica sarà una cyber cameriera in «finta pelle e ossa». Gentile, educata, onnipresente, diventa cuoca e babysitter, segretaria e, all’occorrenza, amante.

Ma i robot cominciano a parlarsi. E a ribellarsi, pretendendo che i loro diritti vengano rispettati.

La rivolta è nell’aria, anche perché gli umani si dimostrano decisamente poco comprensivi.

Finale da piangere (se fate il tifo per loro, ovvio: se invece anche voi non vedete l’ora di avere un replicante che lavori per voi…).

Westworld

Serie quasi gemella di Humans. Qui i replicanti sono usati come attori di un parco giochi tematico, un Far West dove gli umani possono letteralmente fare di tutto con i «sintetici». E anche qui la ribellione è nell’aria.

Grande prova attoriale di Ed Harris e Anthony Hopkins. Grandissime scenografie. E interessanti riflessioni sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Però consiglio solo la prima stagione: nella seconda le cose si complicano inutilmente lasciando spazio allo spettacolo e togliendone alle riflessioni filosofiche.

Scissione

La più intellettuale, la più importante. Un’azienda propone ai suoi dipendenti di creare una scissione tra i ricordi che si hanno dentro e fuori l’azienda. Così i segreti non trapeleranno. Ma la cosa viene proposta come un benefit perché «non ci si porterà più il lavoro a casa».

Gli effetti sono dirompenti, e ci interpellano direttamente su cosa voglia dire agire nella società senza consapevolezza. Una sola stagione, nove puntate e, vi assicuro, bastano e avanzano.

Sweet tooth

Finiamo con una serie, almeno all’inizio, tenera. Racconta in due stagioni e 16 episodi (ma sta arrivando la terza) di un mondo in cui la popolazione umana è decimata da un virus. A causa del virus (ma non è sicuro) e delle devastazioni ambientali causate dagli umani, cominciano a nascere degli esseri ibridi, metà umani e metà animali.

A parte la bellezza delle bambine-orso e dei bimbi-cervo, ben presto questi esseri vengono perseguitati. Il resto lo lascio alle vostre prossime, lunghe serate.

Dario Cambiano




Copti. Una Chiesa che resiste


I Copti sono la comunità cristiana più ampia del Medio Oriente. Da sempre si devono difendere dalle persecuzioni. Ultimamente il dialogo ha portato miglioramenti. Le discriminazioni persistono, ma i semi di speranza cominciano a dare i primi frutti.

Sono trascorsi nove anni dal 15 febbraio 2015, giorno in cui fu scritta dall’Isis, il sedicente Stato islamico, una delle sue pagine più crudeli: venti egiziani e un ghanese che lavoravano in Libia furono sgozzati sulla spiaggia di Sirte. Erano cristiani e morirono sussurrando il nome di Gesù. La loro morte ha segnato profondamente la vita della Chiesa copta e non solo.

L’11 maggio del 2023, durante un incontro e un momento di preghiera comune tra papa Francesco e il capo della Chiesa ortodossa copta di Alessandria, Tawadros II, il papa ha annunciato che quei 21 cristiani decapitati sarebbero stati inseriti nel Martirologio romano come segno di comunione spirituale.

Erano cristiani copti, perseguitati e uccisi all’estero, come è accaduto anche a marzo di questo 2024, quando tre monaci egiziani copti ortodossi sono stati accoltellati durante un attacco nel monastero di San Marco apostolo e San Samuele il confessore a Cullinan, città a una cinquantina di chilometri da Pretoria, capitale del Sudafrica.

Una Chiesa bimillenaria

È da sempre su una strada in salita la testimonianza di fede per questa comunità cristiana, la più grande tra quelle antiche del Medio Oriente, con i suoi dieci milioni di fedeli stimati nel Paese (su centoundici milioni di abitanti) e altre centinaia di migliaia all’estero.

L’Egitto è la terra nella quale nacque il monachesimo con Sant’Antonio Abate, a cavallo tra il terzo e il quarto secolo dopo Cristo. La tradizione evangelica di Matteo racconta in queste stesse terre l’unica «uscita» di Gesù dalla Palestina, quando da bambino fu portato da Maria e Giuseppe nella terra del Nilo per sfuggire alla furia di Erode.

Qui, per la precisione ad Alessandria, che è ancora oggi la sede principale della Chiesa copto ortodossa, arrivò anche San Marco, uno dei quattro evangelisti che, con la sua predicazione e il suo martirio diede vita alla comunità.

Nella Chiesa copta, che vuol dire proprio «egiziana», la maggior parte dei fedeli è ortodossa, ma c’è anche una minoranza di cattolici: cristiani che seguono riti e liturgia orientale, ma legati alla Chiesa di Roma. I sacerdoti cattolici copti, come succede in altri casi di cattolici orientali, possono sposarsi. Le liturgie sono in lingua araba, quella parlata dalla popolazione, ma nei monasteri si studia e si coltiva l’antica lingua e cultura copta, che risale ai tempi degli antichi egizi.

Perseguitati fin dalle origini

È una comunità che fin dalle origini ha subito persecuzioni.

Può essere interessante constatare che diverse chiese, come quella dedicata a Maria Vergine, nella vecchia Cairo, o quella dedicata anch’essa alla Madonna lungo la sponda del Nilo nel distretto del Maadi, abbiano da sempre una via d’uscita segreta: un percorso di cunicoli e ponti grazie al quale è possibile fuggire in caso di attacchi, «portando via l’Eucarestia e le reliquie più importanti», come spiegano i leader religiosi locali.

Tuttavia, l’Egitto si pone oggi tra i Paesi dove il dialogo tra i rappresentanti delle diverse religioni sta producendo frutti importanti. Pensiamo, per esempio, alla sintonia tra papa Francesco e il grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyebb che ha portato a documento sulla Fratellanza umana firmato ad Abu Dhabi (Emirati arabi uniti) il 4 febbraio del 2019, che tanti semi di speranza sta spargendo nei Paesi vessati, negli anni passati, da persecuzioni e attentati.

Passi da fare

Se fino a qualche anno fa in Egitto si celebravano messe blindate, con esercito e finanche carri armati sulle porte delle chiese per difendere i cristiani dagli attacchi terroristici, oggi la situazione è migliorata, anche se un certo sentimento di discriminazione persiste. Meno morti, dunque, ma resta in alcuni ambienti l’aria di emarginazione (per i cristiani e le altre minoranze religiose) che si respirava negli anni passati.

Nel suo rapporto del 2023 sulla libertà religiosa, la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) spiega: «In effetti, sono stati compiuti passi positivi come l’incoraggiamento ad una maggiore unità nazionale tra musulmani e cristiani, il dialogo interreligioso e la tolleranza, la protezione dei siti appartenenti al patrimonio religioso e la legalizzazione di centinaia di chiese. Tuttavia, l’intolleranza sociale profondamente radicata e la discriminazione istituzionalizzata nei confronti dei non musulmani o di coloro che sono considerati musulmani devianti rimangono un grave problema sociale».

Acs sottolinea ancora che, «discriminati dalla legge e privi degli stessi diritti dei loro concittadini musulmani, i cristiani sono spesso oggetto di aggressioni e crimini. Le vittime riferiscono anche che, nella maggior parte dei casi, le forze di polizia non intervengono negli attacchi ai danni dei copti. Mentre i loro aggressori beneficiano dell’impunità legale, spesso sono i cristiani a essere incarcerati».

Nonostante alcuni miglioramenti, per la fondazione pontificia che si occupa di tutelare e sostenere i cristiani perseguitati nel mondo, «non è ancora dunque garantita la possibilità di godere di più aspetti relativi alla libertà religiosa».

Nella World watch list 2024 di Open doors, che ogni anno stila la classifica dei Paesi dove è più difficile la vita dei cristiani, l’Egitto si colloca al trentottesimo posto. È sceso di tre posizioni rispetto all’anno precedente, confermando dunque un miglioramento della situazione della libertà religiosa. Ma anche oggi «i cristiani affrontano regolarmente discriminazioni a causa della propria fede in Gesù: licenziamenti o mancanza di opportunità professionali per gli uomini, molestie lungo le strade per le donne, bullismo a scuola per i bambini», nota la stessa Ong.

Gli incidenti sono più comuni nella regione dell’Alto Egitto, ovvero al Sud del Paese, a causa della presenza di integralisti islamici, specialmente nelle comunità rurali. «Il presidente Al-Sisi e il suo governo parlano positivamente della comunità cristiana egiziana, la quale, attraverso la Chiesa copta, è presente da lungo tempo. Egli include di proposito, all’interno di un’unica identità egiziana, tanto i musulmani quanto i cristiani. Tale posizione, tuttavia – spiega ancora Open doors -, non sempre viene riconosciuta e condivisa nelle aree al di fuori dei centri urbani principali: le autorità sono note per ignorare o sminuire le preoccupazioni dei cristiani egiziani». Ad esempio, «i cristiani incontrano difficoltà nel ricevere i permessi necessari alla costruzione di nuove chiese».

https://www.flickr.com/photos/pan_chaoyue/17154874181/in/album-72157651968786141/ – Chaoyue Pan_flickr – Un cristiano copto egiziano guarda un’icona sul muro del suo posto di lavoro ad Al-Mokkatam, o la città dei rifiuti, al Cairo, in Egitto, il 10 aprile 2015, in occasione del Venerdì Santo ortodosso. (Xinhua/Pan Chaoyue)

Donne rapite

Una delle situazioni emergenti in questi ultimi anni è quella delle donne rapite e convertite. Scompaiono nel nulla e poi si scopre, anche dopo anni, che sono state rapite, violentate e costrette a sposarsi e convertirsi all’islam.

È quanto avviene nelle zone rurali, nel Sud del Paese: un fenomeno più volte denunciato da leader e associazioni cristiane ma, di fatto, ignorato dalla comunità internazionale.

Parla di «incubo inimmaginabile» il rapporto Jihad of the womb: trafficking of coptic women & girls in Egypt (La jihad dell’utero: traffico di donne e ragazze copte in Egitto), pubblicato a settembre del 2020 da Coptic solidarity, un’associazione che da oltre due decenni si batte per la tutela e il rispetto della minoranza copta in Egitto.

Il rapporto fu presentato all’ufficio del Relatore speciale delle Nazioni Unite per la libertà di religione e di credo e all’Ufficio per la tratta di persone del Dipartimento di stato degli Stati Uniti.

L’incubo è quello di non fare più ritorno a casa perché le donne cristiane vengono date in sposa a fondamentalisti islamici con l’obiettivo di partorire e crescere – questa l’accusa della Ong – bambini musulmani.

Le forze dell’ordine locali, anche in presenza di denunce da parte delle famiglie delle donne, quasi sempre derubricano le sparizioni a «fuga volontaria».

Per Coptic solidarity dal 2000 al 2020 sarebbero state almeno cinquecento le donne cadute in questa forma di tratta.

https://www.flickr.com/photos/pan_chaoyue/19573569096/in/datetaken/ – CC Chaoyue Pan_ flickr – Coptic Catholic Mass
Egyptian Coptic Catholic altar boys attend the Christmas Eve mass at a church in Nasr City of Cairo, Egypt, on Dec. 24, 2014.

Uomini discriminati

Secondo Open doors, nella comunità cristiana d’Egitto, le persecuzioni non riguardano solo le donne, che comunque restano la fascia più fragile. «Molti uomini cristiani, in Egitto – si legge in uno dei più recenti rapporti della Ong -, affermano di sentirsi cittadini di seconda classe. La disoccupazione è in generale un grave problema in tutto il Paese, ma in alcune aree viene del tutto negato il lavoro ai giovani cristiani, il che li rende particolarmente vulnerabili allo sfruttamento. Gli uomini possono sperimentare questo tipo di discriminazione lavorativa semplicemente a motivo dei loro nomi, dal momento che da essi è possibile desumere l’appartenenza religiosa». Il nome di battesimo è, infatti, un segno di appartenenza forte per i membri della comunità cristiana, come anche la croce tatuata sul polso che, negli attacchi terroristici degli anni passati, aiutava i fondamentalisti a distinguere tra cristiani e non. I primi venivano trucidati, gli altri erano risparmiati.

Lo statuto personale

Sono oltre dieci anni che si parla in Egitto di una legge sullo statuto personale dei cristiani e delle altre minoranze religiose. La questione è legata soprattutto al diritto matrimoniale e a quello di famiglia. In un Paese a stragrande maggioranza musulmana si attende una regolazione che possa tenere conto anche dei valori cristiani all’interno di una relazione e nella costituzione di un nucleo familiare. Nonostante il confronto in corso e le tante commissioni e riunioni che si sono tenute negli ultimi dieci anni, volute dalla presidenza di Al-Sisi, questa legislazione non è mai arrivata ad approvazione.

Il testo sarebbe pronto ma manca sempre un tassello per quel via libera definitivo atteso dalle minoranze.

https://www.flickr.com/photos/pan_chaoyue/17155536665/ – Chaoyue PAN_flickr – Cristiani copti egiziani assistono alla messa ortodossa del Venerdì Santo nella Chiesa pensile del Cairo copto, in Egitto, il 10 aprile 2015.

Il ruolo dei francescani

Il villaggio di Der Dronka, ventimila anime a una decina di chilometri da Assiut, Alto Egitto, è interamente cristiano, e rischiereb- be di sparire senza gli «abuna», come sono chiamati i padri francescani.

Tutto ruota intorno al piccolo convento di fra Paolo, fra Shenuda e fra Youssef: la scuola, il mulino, il panificio, la falegnameria, finanche la raccolta differenziata dei rifiuti.

Saio e Vangelo, breviario e croce, ma spesso anche scarpe comode al posto dei sandali, per percorrere in lungo e in largo le strade polverose d’Egitto.

I francescani, un centinaio di religiosi distribuiti in una trentina di conventi, sono un pezzo della storia di questo Paese. Sono qui da 800 anni, da quando Francesco d’Assisi nel 1219 prese la nave ad Ancona per sbarcare a Damietta e incontrare il Sultano Melek. Si sa poco di quel faccia a faccia, è noto però che da otto secoli i frati operano in questa terra a maggioranza musulmana, all’insegna del rispetto e del dialogo. E in molti casi offrono alla gente non solo messe e pane, ma anche qualcosa di più, a partire dalle loro venti scuole e dai presidi sanitari distribuiti ovunque.

Al Cairo, il quartier generale dei francescani è la chiesa di San Giuseppe. Un’entrata laterale conduce a un ambulatorio all’avanguardia nel quale si offrono diversi servizi: dalle analisi del sangue alle ecografie, dal dentista al pediatra.

C’è un grande cinema da 350 posti che ospita importanti rassegne. A Gyza, a due passi dalle piramidi, c’è il Centro culturale francescano, dove si studia coptologia, lingua, arte e liturgia dei cristiani.

Ma neanche i frati di san Francesco sono stati risparmiati dalla furia degli islamisti: il 14 agosto del 2013, una data che i cristiani d’Egitto hanno stampata nella memoria, infatti, in un solo giorno furono bruciate contemporaneamente oltre sessanta chiese, e toccò anche ai frati.

A Suez, per esempio, al convento dell’Immacolata concezione.

Lo stesso giorno bruciò una chiesa francescana anche ad Assiut, san Francesco stimmatizzato. Una stanza del convento oggi è dedicata alla memoria di quella giornata, ed espone talari e libri della preghiera con i segni delle bruciature.

Una storia dolorosa che non ha mai scoraggiato i frati. Continuano, infatti, a nascere vocazioni e la loro opera è un punto di riferimento in molti villaggi.

Il caso Zaki

In Italia si è parlato molto del caso di Patrick Zaki, il ricercatore e attivista per i diritti umani egiziano, che si è laureato all’Università di Bologna, incarcerato nel suo Paese per diverso tempo.

Nelle narrazioni che hanno riguardato il caso, molto spesso si è dimenticato che Zaki ha vissuto anni in carcere per avere scritto un articolo in difesa proprio dei cristiani copti.

«Non passa mese senza tragici episodi ai danni dei copti, dai tentativi di espatrio nell’Alto Egitto, ai rapimenti, alla chiusura di chiese o agli attentati dinamitardi e simili», scrisse Zaki nell’articolo pubblicato sul sito Daraj nel 2019 sulla base del quale Patrick Zaki sarebbe stato rinviato a giudizio.

«Ogni mese si verificano tra gli otto e i dieci dolorosi incidenti a danno dei copti», sosteneva il cristiano Patrick prendendo spunto da «un gigantesco atto terroristico» che costò la vita a quattordici uomini delle forze di sicurezza egiziane: in quell’occasione gli abitanti di una città «protestarono contro la decisione dell’esercito» di intitolare una scuola a una recluta cristiana. «Un razzismo sistematico esercitato dagli abitanti del villaggio che i responsabili non hanno affrontato», cedendo alle pressioni della folla.

Zaki metteva a nudo uno dei problemi nel rapporto tra la maggioranza dei musulmani e le minoranze in Egitto: la debolezza delle autorità locali, soprattutto nelle zone rurali del Paese, di fronte alle pressioni degli islamisti.

Un atteggiamento di debolezza che il presidente Al-Sisi, forse anche per accreditarsi presso la comunità internazionale, ha cercato di smorzare.

La cattedrale della Natività nella nuova capitale amministrativa, la più grande chiesa cristiana del Medio Oriente capace di ospitare ottomila fedeli, inaugurata il 7 gennaio (data del Natale copto) 2019 proprio dal presidente egiziano con il capo della Chiesa copto ortodossa, Papa Tawadros II, ne è in qualche modo la prova.

La fratellanza umana

Un segnale di speranza arriva dai primi frutti concreti che, proprio al Cairo, stanno nascendo con la fondazione per la Fratellanza umana che si ispira all’accordo di Abu Dhabi e alla successiva enciclica Fratelli tutti di papa Francesco. Un lavoro condotto in prima persona da monsignor Gaid Yoannis Lazhi che per anni è stato segretario di Bergoglio e che ora, tornato nel suo Paese natale, è impegnato a tradurre in opere concrete lo spirito di fratellanza, con un’attenzione particolare per le fasce più deboli della società.

Si tratta di strutture caritative rivolte a tutti, senza distinzione di fede. C’è allora il ristorante «Fratello» che offre pasti ai più bisognosi, l’orfanotrofio «Oasi della pietà», ma soprattutto il progetto dell’ospedale Bambino Gesù del Cairo del quale monsignor Gaid è presidente: il sogno è quello di portare le cure di altissimo livello dell’ospedale pediatrico del Papa anche in Egitto. Opere che guardano alle persone, dunque, al di là di ogni appartenenza, e che costruiscono allo stesso tempo ponti, occasioni di dialogo, vie per una convivenza sempre più pacifica e rispettosa delle diverse anime che da sempre abitano nel Paese.

Manuela Tulli

https://www.flickr.com/photos/catholicism/33685860823/in/photostream/ – Catholic Church England and Wales_flickr.com – 7 maggio 2017 Vespri con e in onore di Sua Santità Papa Tawadros II




I costi della carne


Dalle stalle ai laboratori: è la carne cosiddetta «artificiale». In Italia è vietata da una legge ad hoc. Eppure, la carne «normale» ha ormai costi insostenibili. Ambientali ma non solo.

Già prima che i trattori invadessero le strade d’Europa, gli allevatori italiani si erano fatti sentire presso il nostro governo con una richiesta singolare. Chiedevano una legge per proibire la produzione della carne detta «artificiale». Che significa? Da quando in qua la carne si produce nei laboratori invece che nelle stalle? In realtà, succede già negli Stati Uniti e a Singapore, mentre l’Unione europea ci sta pensando. Con grande preoccupazione degli allevatori di tutto il mondo che ovunque si battono contro la carne di laboratorio. Come andrà a finire dipende dalla forza che ogni categoria economica coinvolta nella partita sarà capace di mettere in campo nei confronti della politica. Al momento, in Italia hanno vinto gli allevatori che il 1° dicembre 2023 hanno ottenuto una legge, la numero 172, che vieta la produzione e la vendita di carne da «colture cellulari» nel nostro paese. Il futuro rimane, però, una questione ancora tutta aperta.

Allevamenti, metano e cereali

L’interesse degli studiosi per la carne prodotta in laboratorio è di vecchia data, ma ha avuto un’accelerazione da quando abbiamo capito che i cambiamenti climatici sono una cosa seria e che sono dovuti in gran parte all’agire dell’essere umano. Una responsabilità che risiede nella produzione eccessiva di gas a effetto serra. Di quei gas, cioè, che, accumulandosi in atmosfera, intrappolano i raggi solari provocando un surriscaldamento della superficie terrestre. Il gas maggiormente responsabile del fenomeno è l’anidride carbonica, ma ce ne sono anche altri come il protossido d’azoto e il metano. Ed è proprio quest’ultimo a chiamare maggiormente in causa la responsabilità degli allevamenti.

La Fao stima che i gas serra associati all’allevamento animale ammontino a 7,1 gigatonnellate, pari al 14% di tutti i gas serra prodotti dall’agire umano a livello mondiale. In sintesi, un settimo dei gas serra proviene dagli allevamenti animali principalmente come metano, prodotto non tanto dalle deiezioni, quanto dalla digestione dell’erba. Più precisamente il metano si forma nell’apparato digerente dei ruminanti: mucche, bufali, pecore, capre, cammelli, che passano ore e ore ogni giorno a ruminare l’erba che altrimenti non potrebbe essere digerita. Il processo di digestione è coadiuvato da batteri anaerobi produttori di una grande quantità di metano che l’animale espelle attraverso la bocca e la via intestinale.

Nel conteggio della Fao, tuttavia, oltre al metano emesso direttamente dai ruminanti, sono comprese anche le emissioni di anidride carbonica connesse alla produzione di soia, nonché mais e altri cereali dati in pasto agli animali.

Si stima che tra il 35 e il 40% dell’intera produzione mondiale di cereali sia destinata agli animali, una quota destinata a salire considerato l’aumento del consumo di carne.

Suoli, falde, acqua

Per di più i problemi ambientali creati dall’allevamento animale riguardano anche altri ambiti, come testimonia il territorio della Lombardia, dove suoli e falde sono contaminati dall’alta concentrazione di allevamenti. Altrettanto catastrofico è l’impatto sul consumo di acqua (ne servono 15 tonnellate per ogni chilo di carne), sul consumo di terre agricole e sulle foreste eliminate per fare spazio ai pascoli e alla produzione di soia.

Un insieme di problematiche destinate ad aggravarsi considerato che, nel Sud del mondo, c’è una classe media in crescita che pretende di mangiare carne nella stessa quantità del Nord del mondo.

In effetti esistono ancora profonde differenze nel consumo di carne a livello mondiale. L’istituto Our world in data informa che si va da un consumo pro-capite di 136 kg l’anno a Hong Kong, a 3 kg nel Burundi, passando per i 126 degli Usa, i 65 della Cina e i 70 dell’Italia.

In ogni caso, negli ultimi sessant’anni, si è assistito a un aumento considerevole di animali allevati: se nel 1960 si contavano bovini per un miliardo di capi e ovini-caprini per 1,3 miliardi, nel 2020 il numero di bovini è passato a un miliardo e mezzo, mentre quello degli ovini-caprini a due miliardi.

Carne, alimento critico

I costi ambientali della carne sono insostenibili. Foto Harlie Solozano – Unsplash.

Che la carne sia ormai diventata un alimento critico è fuori discussione, ma sulla questione di cosa fare per porre rimedio alle sue criticità esistono esistono varie posizioni perché, in economia, più che la razionalità vale l’interesse, per fortuna con qualche eccezione. Fra gli allevatori stessi ci sono dei genuini ambientalisti che propongono di ridurre il numero di capi allevati utilizzando i pascoli come principale fonte di alimentazione. Ma si tratta di una minoranza. La maggior parte degli allevatori vuole andare avanti come sempre, ossia badando solo a costi, ricavi e rese monetarie, tutt’al più facendo qualche ritocco d’immagine piuttosto che di sostanza.

Ad esempio, succede, che la brasiliana Jbs, fra le più grandi multinazionali dedite alla macellazione animale, pur vantandosi di impegnarsi nella sostenibilità ambientale, continua a essere accusata dalle associazioni ambientaliste di acquistare bestiame allevato su tratti deforestati dell’Amazzonia.

Al di là dell’immobilismo contrapposto dagli allevatori più conservatori, tre soluzioni sono oggi sul tavolo: una di tipo esclusivamente tecnologico, una di tipo comportamentale, l’ultima di tipo misto.

Cellule in laboratorio

La soluzione di tipo esclusivamente tecnologico è quella che propone di ottenere bistecche e fettine in laboratorio, tramite un processo che inizia estraendo cellule staminali dai muscoli di animali adulti viventi (bovini, maiali, polli) per poi farle moltiplicare in laboratorio attraverso complesse metodiche di nutrimento e di divisione cellulare.

Il paese più avanzato in questo genere di sperimentazione è rappresentato dagli Stati Uniti, dove la produzione è stata ammessa dalla Food & drug administration, l’organo di vigilanza alimentare e farmaceutica.

Una ventina di società, all’apparenza tutte start-up di giovani imprenditori, si sono già lanciate nel settore ottenendo un fatturato, nel 2023, pari a 121 milioni di dollari. Una somma a sei zeri che può fare una certa impressione, ma che rappresenta appena lo 0,11% di quanto è stato ricavato nello stesso anno dalla vendita di carne tradizionale sul mercato statunitense. In effetti la produzione di carne sintetica è ancora un’iniziativa in germe con molti nodi da sciogliere, non ultimo quello dei costi. Per diventare competitiva, la carne sintetica dovrebbe essere venduta sul mercato finale a non più di 10 dollari al chilo; in realtà produrla oggi costa ancora fra i 22 e i 120 dollari al chilo, a seconda del tipo di carne. Ma gli operatori del settore sperano di riuscire a dimezzare i costi per il 2030.

Gli allevamenti producono metano, uno dei gas serra responsabili della crisi climatica. Foto Iomig – Unsplash.

Abitudini alimentari

La carne sintetica piace a vari ambiti della società civile. Piace alle associazioni animaliste perché elimina la sofferenza animale. Piace a certi sanitari perché annulla l’uso di antibiotici oggi abusati nel mondo della zootecnia. Piace a chi si occupa di ambiente perché contribuisce ad abbattere i gas serra e a ridurre il consumo di terre fertili. Ma i risvolti sanitari possono essere molti e solo il tempo potrà dirci se la carne di laboratorio possa nascondere qualche proprietà mal tollerata dal nostro organismo, che oggi ignoriamo. In altre parole, ci vorrebbe maggiore prudenza in nome del principio di precauzione.

Quanto all’aspetto ambientale, una piena valutazione deve anche considerare l’aumento di materiale richiesto dalla costruzione di nuovi impianti industriali e l’incremento di energia elettrica richiesta per farli funzionare. Energia elettrica neutra o a forte impatto ambientale a seconda della fonte primaria utilizzata.

All’opposto della soluzione tecnologica c’è quella di tipo comportamentale secondo la quale il problema non è sostituirsi alla natura, ma inserirsi nel suo corso. In altre parole, ciò che bisogna fare è cambiare le nostre abitudini alimentari. Bisogna avere l’accortezza di cercare le proteine che ci servono in alimenti di tipo vegetale in modo da consumare meno carne e quella poca produrla in maniera sostenibile.

La carne – si sa – è particolarmente utile in età infantile perché contiene tutti gli ingredienti proteici utili alla crescita. Ma i nutrizionisti ci informano che si può ottenere un risultato altrettanto soddisfacente anche da una dieta che combina correttamente legumi e cereali. La classica pasta e fagioli tipica della dieta mediterranea che i medici non mancano mai di raccomandarci. Una dieta buona per la salute umana e per la sostenibilità del pianeta.

Uno studio condotto nel 2017 da Helen Harwatt e pubblicato sulla rivista Climatic Change, ha mostrato, ad esempio, che se tutti gli americani sostituissero la carne bovina con fagioli, ceci e altri legumi, il paese sarebbe vicino a raggiungere gli obiettivi di riduzione di gas serra che Barack Obama aveva indicato per il 2020.

Dieta vegetariana

Fra queste due posizioni si inserisce una terza proposta che offre un cambio alimentare in salsa tecnologica. Che si può riassumere nel tentativo di convertire le masse a una dieta vegetariana tramite un processo di finzione. Il ragionamento dei proponenti è che la gente è troppo attaccata alla carne per abbandonarla, per cui va fatta passare alla dieta vegetariana con l’inganno. Ossia, facendole credere di stare addentando un hamburger mentre mangia un pasticcio di fagiolini, cavoli, piselli, che – per forma, colore e sapore – assomiglia in tutto e per tutto a un hamburger fatto di carne. Un prodotto da non confondersi con il tofu o e il seitan, che benché comunemente definiti anch’essi «carne dei vegetariani», non presentano nessuna similitudine sensoriale con la carne. L’hamburger vegetale, invece, sanguina addirittura come l’hamburger animale. Un risultato ottenuto non per magia, ma grazie alla miscelazione di ingredienti estratti da varie specie vegetali fra cui soia, funghi e frutti tropicali, sottoposti a sofisticate lavorazioni.

Varie imprese hanno subito sentito odore di soldi nella «carne vegetale» e vi si sono buttate a capofitto, compresi miliardari come Bill Gates e colossi della stessa industria della carne, come Cargill e Jbs. Oggi il mercato della carne vegetale a livello mondiale vale 6,1 miliardi di dollari, non molto rispetto alle migliaia di miliardi di dollari che girano attorno alla carne vera e propria, ma pur sempre un ammontare interessante.

La deforesazione per far posto alle cotivazioni cerealicole e agli allevamenti sono sempre più frequenti e devastanti. Foto James Baltz – Unsplash.

Quale strada?

In conclusione, delle tre proposte, quella che personalmente ritengo meno risolutiva è la terza, che anzi mi pare dannosa per la sua connotazione consumistica. Meglio investire in risorse educative per cambiare le abitudini dei consumatori piuttosto che sprecare risorse materiali per manipolare prodotti che la natura rende già pronti all’uso in forma diretta. Anche la prima proposta mi genera scetticismo, quasi spavento, per l’avanzare eccessivo della tecnologia che da serva rischia di trasformarsi in padrona. Per non parlare dei suoi effetti di lungo periodo di cui non sappiamo niente. Alla fine, rimane in piedi solo la seconda proposta, quella della riduzione e della semplicità. La strada che ci rifiutiamo di imboccare, ma l’unica che potrà salvarci.

Francesco Gesualdi

 

 

 




Un malato alla piscina di Betzatà (Gv 5,1-9)


L’evangelista Giovanni ci dice che a Gerusalemme c’era una piscina dove si radunavano tanti malati. Si credeva, infatti, che la sua acqua potesse compiere guarigioni miracolose. Il primo che vi si fosse immerso quando l’acqua prendeva ad agitarsi, sarebbe stato guarito.

Già guardando questo quadretto, potremmo fare qualche considerazione. Intanto, non siamo nella crema della società: storpi e zoppi non possono entrare nel tempio, e non hanno solitamente corpi da copertina… Gesù si trova qui, non alle terme o in palestra, tra i rifiutati della società civile e religiosa.

Sapendo già quello che sta per accadere, potremmo essere tentati di domandarci per quale motivo Gesù guarirà uno solo tra tanti malati. E poi, ancora, perché Gesù si scomoda se lì c’è già l’acqua che guarisce? Il malato, prima o poi ce la farà a immergersi per primo.

Ma intanto concentriamoci su Gesù che, arrivato alla piscina, si guarda intorno, e vede. Chi ama le persone, non potrà che amarne qualcuna, quelle che vede e incontra. È la prima obiezione che si muove a chi si sforza di alleviare le sofferenze altrui: «Non puoi farlo per tutti». Gesù pare pensare che però è sempre meglio farlo almeno per qualcuno. Lo sguardo di Gesù, lo sguardo di Dio, è quello di chi vede che cosa ha davanti, e non se ne tira fuori, si lascia coinvolgere. Anche se questo significa rassegnarsi a non raggiungere, contemporaneamente, tutti.

La prima reazione (Gv 5,9-18)

Come reagiremmo di fronte a una guarigione inattesa? Come reagiamo davanti ai salvataggi dei migranti nel Mediterraneo? L’umanità rimane simile a sé stessa, chi si mette in gioco è come se costituisse una implicita provocazione o rimprovero per chi avrebbe potuto fare e non ha fatto.

E uno dei modi per lasciarsene disturbare meno è trovare delle obiezioni: «Non avrebbe dovuto». Le obiezioni più solide, poi, sembrano essere quelle che hanno ragioni legali, meglio ancora se la legge viene da Dio.

Gesù ha guarito di sabato! E allora la prima reazione di alcuni di fronte a un paralitico che non solo cammina, ma si porta in giro la propria misera brandina, è di fargli notare che sta svolgendo un lavoro proibito in quel giorno.

Essi non vedono la persona, la sua situazione, la sua gioia e vita capace di esprimersi ora appieno, ma solo il caso legale. E siccome il guarito spiega che cosa gli è successo, il nuovo e più importante bersaglio diventa Gesù, che inizia a essere perseguitato (v. 16).

Gesù viene quindi interrogato, e lui risponde sostenendo di fare semplicemente ciò che fa il Padre. Gesù si conferma immagine di Dio, testimone affidabile del cuore del Padre, di ciò che Dio pensa e prova. Quel creatore che potevamo conoscere nella sua legge, nelle testimonianze antiche, scende nelle vie polverose e tra le malattie che sono tipiche del nostro vivere.

Ma di fronte a questa rivelazione, quella di un cuore di Dio che si commuove per le sofferenze dei suoi figli, la reazione è una feroce difesa delle regole che pure dovrebbero parlare di Dio. Davanti a un uomo che «si mette alla pari con Dio» (v. 18) ci si poteva stupire, di certo anche interrogare e mantenersi scettici, provare a vagliare e capire. Ma ai Giudei non succede niente di tutto questo: «Cercavano di ucciderlo» (v. 18). L’incontro con l’umanità, che stimola e risana, va semplicemente rimosso.

Destino di vita (Gv 5,26-30)

Quando si leggono brani biblici, come quando si segue un romanzo o un film, sarebbe opportuno andare secondo l’ordine pensato da chi ha scritto, in quanto esso veicola un senso preciso. Per una volta, però, anticipiamo la lettura di alcuni versetti per poi tornare indietro, perché questo aiuta a capire meglio. Partiamo, infatti, da ciò che per noi è forse più facile da comprendere.

Come capita spesso nel Vangelo di Giovanni, e in misura sempre maggiore andando avanti con la lettura, Gesù prende spunto da episodi di vita per ragionarci sopra e approfondirne il senso.

Di fronte alle contestazioni dei suoi oppositori, scandalizzati dal fatto che si «mettesse alla pari con Dio», Gesù ribadisce che quella è la sua condizione. Anzi, insiste sul fatto di fare precisamente ciò che fa il Padre. E il cuore dell’attività del Padre, e quindi anche del Figlio, è dare la vita.

Dio vuole la vita, una vita piena, e già questo non era scontato per gli interlocutori di Gesù. Potevamo trovarci di fronte a un Dio tiranno capriccioso che gode nel farci soffrire. Invece no, l’intenzione ultima del creatore è che chiunque lo incontri viva, e viva bene.

Per questo anche Gesù, che condivide lo stesso cuore del Padre, vuole che chi lo incontra viva, e viva bene.

E siccome tutta la nostra esistenza si gioca sul rischio di una morte che incombe su di noi sempre (nelle malattie, nei limiti, persino nelle incomprensioni…) e che si fa inevitabile e definitiva alla fine della vita, Gesù mostra il volto di un Dio che ama la vita umana tanto da portarla a una risurrezione alla fine dei tempi. Altrimenti la promessa di vita sarebbe soltanto provvisoria e quindi illusoria.

E poiché, però, la risurrezione non è un semplice esito «naturale» della vita umana, bensì un dono ricevuto da Dio nel momento in cui la storia, lasciata libera di esprimere anche tutto il proprio male, non poteva più aggiungere niente a ciò che aveva fatto (dopo aver ucciso e fatto dimenticare una persona, non si può più aggravarne la sorte), anch’essa non sarà semplicemente un neutrale ritorno alla vita, ma un sottoporsi a un giudizio.

Dio, infatti, restituendo la vita potrebbe limitarsi a riportare la storia indietro, mettendoci in un circolo da cui non riusciremmo più a uscire. Oppure, nel risuscitare, Dio può offrirci un’esistenza secondo i nostri sogni più autentici, confermando la nostra tensione al bene e alla vita, alcuni atteggiamenti, alcune scelte. Nel venire alla vita definitiva, alcuni si troveranno quindi confermati nei loro desideri, per loro quella risurrezione sarà di vita, mentre per altri sarà di condanna. Il criterio di valutazione di questo processo sarà la storia di Gesù, uomo e Dio pieno, così che sarà anche lui il giudice, colui che farà da discrimine tra i buoni e i cattivi, e lo farà semplicemente rispecchiando l’intenzione del Padre.

Il giudice Gesù, essere umano capace di compassione e di vedere l’umanità all’opera, pare qui concentrarsi semplicemente sull’amore della vita umana. Chi ama la vita come Dio, verrebbe da dire, non può che trovarsi dalla stessa parte di Gesù, di chi sarà risorto.

Solo nel futuro? (Gv 5,19-25)

«So che risorgerà nell’ultimo giorno» (Gv 11,24), dice Marta a Gesù parlando del fratello Lazzaro morto da quattro giorni. Quella fiducia nella risurrezione alla fine della storia, pur nota e relativamente diffusa, non era condivisa da tutti i credenti al tempo di Gesù. Aveva senso, quindi, per Giovanni, ribadirlo.

Prima di questa frase di Marta, però, l’evangelista spiega l’amore divino per la vita degli uomini parlando di una risurrezione presente: «Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole» (v. 21).

La risurrezione che noi potremmo dare per scontata riguardo al futuro (anche se non ci pensiamo molto) è una realtà già oggi. Già adesso risorgiamo.

Potremmo dirlo così: ora sappiamo che la nostra vita è nelle mani di un Padre che la vuole tutelare. Egli se ne prenderà cura fino alla fine. Anzi, oltre la fine, aggiunge Giovanni in un passo di cui noi abbiamo anticipato la lettura (cioè, ai vv. 26-30).

Perché la morte non è solo quella della vita biologica. Muore, pur restando in vita, anche chi non vede un senso nelle cose che fa e nel suo impegno e fatica, chi si sente abbandonato e solo e destinato all’oblio. Anche su questo Gesù e il Padre intervengono, sanando e offrendo la possibilità di credere che la mia vita sia significativa, utile, e destinata a restare.

Dopo duemila anni di cristianesimo, siamo «abituati» alla promessa della risurrezione, ma quella prospettata dopo la nostra morte ha senso a partire dalla nostra «risurrezione» quotidiana, dalla nostra percezione che per Dio ciò che noi viviamo sia prezioso: «I passi del mio vagare tu li hai contati, nel tuo otre raccogli le mie lacrime» (Sal 55,9).

C’è chi ha discusso se Gesù avesse parlato solo della risurrezione futura o anche di quella attuale, interrogandosi se per caso qualcuno abbia aggiunto ai suoi detti un aspetto che per lui non c’era. È però chiaro che la risurrezione futura e quella attuale si danno in sintonia, l’una non solo non esclude l’altra, ma in qualche modo la esige perché la vita sia autentica.

Se dovessi elemosinare un po’ di vita e felicità in questo tempo sapendo che tutto sarà cancellato dalla morte, come potrei goderne appieno? Al contrario, se dovessi aspettarmi gioia e vita piena solo nell’aldilà, cosa vivrei a fare?

Il discorso che Giovanni mette in bocca a Gesù, nella sua apparente ripetizione ci dice esattamente che i due aspetti si danno insieme, e stanno ugualmente a cuore a Gesù e al Padre.

Il desiderio del Padre

Il discorso di Gesù prosegue (da Gv 5,31) insistendo sul fatto che lui e il Padre dicono la stessa cosa, e che è Dio stesso a dargli testimonianza. Da una parte questa è una pretesa da dimostrare: che, cioè, il Dio dell’Antico Testamento sia coerente con Gesù. Dall’altra e insieme, però, è un invito a leggere la Bibbia con lo sguardo di Gesù: non è forse vero che tutto, in quegli strani, incoerenti, a volte fastidiosi libri, parla dell’amore di Dio per la vita e della sua intenzione di tutelarla?

Il messaggio del Vangelo di Giovanni è questo: Gesù si mostra una persona amante della vita, di quella vera, autentica, concreta, che quindi è anche fatta di scelte (perché vedere proprio quel malato? Perché guarire lui?), precisamente perché è situata nella storia, come siamo noi. Ma Gesù, amando la vita, perché manifesta in modo trasparente il volto di Dio, che è innanzi tutto un innamorato dell’esistenza.

E anzi, si mostra amante di una vita che si esprime soprattutto nelle relazioni. Ecco perché Gesù parla di testimonianza, che comporta di suo le relazioni personali, in quanto nessuno può testimoniare su qualcuno che non conosce.

Ecco perché Gesù interviene a liberare una persona da un male che le impedisce di entrare in relazione non solo con le altre persone, ma persino con Dio, in quanto come paralitico non poteva entrare nel tempio.

Ed è qui l’ultima suggestione del brano che abbiamo provato a leggere: l’impossibilità di accedere a Dio non è un impedimento, perché sarà il Padre stesso a trovare le strade per farsi incontrare da coloro che al tempio non possono entrare.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 06-continua)




La liberazione continua


La presenza della Consolata a Roraima ha una portata di livello storico. Nonostante questo, non riusciamo ancora ad averne una visione globale. Le fasi dell’evangelizzazione e le idee per il futuro.

La missione che i nostri due istituti dei missionari e delle missionarie hanno portato avanti a Roraima ha un valore enorme a livello storico. Si tratta del lavoro con gli Yanomami, i Wapichana, gli Ingarikó, i Wa-Wai e diversi altri.

Ne abbiamo parlato e scritto tanto, ma secondo me non abbiamo ancora la visione generale della profezia che è questa esperienza, sia per la storia del Brasile sia della missione stessa. Forse è la missione più completa che abbiamo realizzato.

Le fasi

Parlando di evangelizzazione in generale, la possiamo suddividere in tre fasi. Le prime due sono l’annuncio e l’adesione personale all’annuncio di chi lo riceve, ovvero il cammino di fede. La terza, che spesso manca, è il cambiamento sociale che la buona novella deve indurre. Il Vangelo, infatti, deve portare una rivoluzione sociale, un miglioramento della condizione umana.

A Roraima siamo riusciti ad andare avanti anche su questa terza fase e per questo la ritengo una missione completa.

Questa parte io la chiamo «cammino di liberazione». Anche questo percorso mi piace dividerlo in tre momenti. C’è il progetto di liberazione, ovvero il progetto di Dio, come quando chiedeva al suo popolo ebreo di uscire dall’Egitto e liberarsi dalla schiavitù.

Poi c’è la stabilità, una volta raggiunti gli obiettivi di liberazione del popolo: vuol dire che il cammino ha portato i suoi frutti.

Infine, l’ultimo passaggio: una volta arrivati alla terra promessa cosa si fa? Anche questa è una grande sfida.

Il cammino di liberazione

Applichiamo questo percorso a Roraima. Questo cammino è stato fondato su un progetto fatto insieme, missionari e missionarie con i capi dei vari gruppi indigeni. Un cammino che toccava non solo la promozione umana ma anche la spiritualità.

L’obiettivo era l’omologazione della terra (registrazione ufficiale di area protetta), ovvero gli indigeni avrebbero potuto dire «questa è casa nostra». E, sappiamo, la terra è davvero importante per i popoli indigeni. Fa parte dei diritti dell’uomo.

È stato un percorso di assemblee con i vari gruppi, con tutti i leader indigeni. Lo hanno chiamato «O la va, o la spacca». Ad esempio, hanno deciso che dovevano smettere di bere alcol. Se nella comunità qualcuno avesse bevuto, il missionario non l’avrebbe più seguita, non avrebbe più officiato battesimi e matrimoni, nulla, e la comunità sarebbe rimasta isolata.

Anche l’adesione ad alcuni progetti, come «Una vacca per l’indio», senza egoismi o protagonismi. Erano posizioni molto forti. Si creava un controllo sociale per portare avanti il cammino di liberazione. Questa era la prima forza di quel momento.

La seconda forza di questo primo periodo è stato il gruppo di missionari presenti. Erano molto uniti e solidali tra loro. Avevano tutti sposato la causa indigena, certo ognuno con la sua caratteristica, ma l’hanno portata avanti insieme. In una zona immensa come quella dove operavamo, se ci sono poche missioni isolate che portano avanti il progetto, si fa fatica. È l’unità d’intenti che fa parte dello stile di Giuseppe Allamano.

La terza forza è stata il metodo, ovvero il coinvolgimento diretto della gente e dei suoi leader.

In sintesi: progetto chiaro e condiviso; unità dei missionari che lo portano avanti; coinvolgimento della popolazione.

Un altro punto importante era che fosse un cammino in comunione con la chiesa locale. È vero che in quel periodo i missionari della Consolata erano anche la chiesa locale. Eravamo gli unici e avevamo anche il vescovo.

All’epoca i missionari hanno avuto anche un’altra intuizione. Si sono detti: «Finché la lotta resta interna, difficilmente saremo ascoltati, perché restiamo una minoranza. Dobbiamo portare questa lotta al mondo. In questo modo il governo riceverà pressioni dalla comunità internazionale». È il concetto di lobbying, che per quel tempo, gli anni 80, era una novità. Questo, talvolta, ha attirato critiche perché poteva sembrare segno di protagonismo. Ma occorreva uscire dal cortile, e in questo caso ha pagato.

La terra promessa

L’omologazione è stata raggiunta e i garimpeiros (minatori illegali, ndr) cacciati, almeno in un primo momento. E adesso? Il popolo ha raggiunto la terra promessa, si sono innescate delle nuove dinamiche. Ci sono quelli che si dimenticano il cammino di sofferenza fatto, arrivano altri che proprio non lo conoscono.

A livello delle persone, c’è chi ritorna a bere l’alcol, altri si mangiano tutte le vacche.

C’è una seconda questione: i missionari non sono più gli stessi. La maggioranza di quelli che si trovano a portare avanti la seconda fase del cammino di liberazione non sono quelli che lo hanno compiuto. Se non hai fatto il cammino è difficile poi vivere la liberazione.

Molti dei nuovi missionari arrivano da un altro continente, l’Africa, dove ci sono dimensioni di lotta diverse. Molti di loro sono alla prima esperienza missionaria e forse non hanno ancora chiaro cosa sia la missione.

Manca la memoria, e non è facile recuperarla dagli anziani.

padre Corrado Dal Monego, con due Yanomami, in una maloca nei pressi di Catrimani (2011). Foto Archivio MC

Un nuovo percorso

Abbiamo iniziato a impostare un nuovo percorso, quando ancora ero superiore generale. La domanda di base era: «Con i missionari attuali come possiamo continuare ad accompagnare questo popolo nel proprio cammino di liberazione?».

Adesso a Roraima c’è una pluralità di situazioni. Ci sono molti missionari di altri istituti. Le priorità della diocesi sono cambiate: l’appoggio ai popoli indigeni non è più esclusivo.

Dalle ultime riunioni che abbiamo fatto a Roraima, sono state suggerite due azioni importanti.

La prima: costruire dei locali e valorizzare il Centro di documentazione indigena (realizzato negli anni da fratel Carlo Zacquini, ndr). Esso aiuta a recuperare la memoria, quindi prendere decisioni condivise da tutti e coinvolge la diocesi.

La seconda: partecipare – come semplici membri, non come responsabili -, ai movimenti indigeni nati per la difesa dei valori e delle conquiste fatte.

Provocazioni

Infine, voglio lanciare tre provocazioni. Quale preparazione occorre, come missionario, per condurre un popolo alla liberazione? Dopo gli studi, abbiamo gli strumenti e l’umiltà di metterci a camminare con la gente?

Il missionario, oggi più che mai, deve essere compagno di viaggio, colui che «condivide il pane con».

Il Vangelo deve avere una forza eversiva, cambiare la vita. Altrimenti che Vangelo è, se non porta vita migliore?

Stefano Camerlengo

 




House of Mercy, casa di tutti


La Mongolia, dove il 28 giugno ci sono state le elezioni legislative, ha affrontato un inverno fra i più freddi della sua storia recente, perdendo milioni di capi di bestiame. Eppure è un Paese in crescita, tra grandi diseguaglianze e grandi opportunità. La Chiesa e i missionari ne accompagnano il cammino.

«Quando sono arrivato in Mongolia, nel 2004, Ulaanbaatar, la capitale, era una cittadina tranquilla, quasi sonnacchiosa. Poi è iniziato lo sfruttamento su scala industriale delle miniere, soprattutto di carbone, rame e oro, e l’economia è decollata».

Padre Ernesto Viscardi, missionario della Consolata classe 1951, racconta così l’inizio dei suoi vent’anni di missione in Mongolia e, anche adesso che da poco è stato trasferito a lavorare nella casa generalizia a Roma, quando parla di quei luoghi e delle persone che li abitano usa la prima persona plurale, come si fa con un paese e un popolo a cui si sente ormai di appartenere. «Certo, questa crescita ha generato anche problemi ambientali, corruzione e diseguaglianze: ma piano piano li stiamo affrontando».

Le difficoltà a cui padre Ernesto si riferisce riguardano ad esempio la contraddizione fra l’aumento delle esportazioni di carbone verso la Cina, che l’anno scorso hanno superato i 50 milioni di tonnellate@, e l’esigenza planetaria di ridurre le emissioni di gas serra per far fronte alla crisi climatica. E anche gli scandali legati alla corruzione e alla distrazione di fondi pubblici, con la vendita illegale di carbone , e le mancate restituzioni dei prestiti alla Banca di sviluppo della Mongolia da parte di aziende legate ad alcuni membri della classe politica@.

La cattedrale di Ulaanbatar il giorno della visita di papa Francesco, 14/09/2023

Un’economia in espansione

«La Mongolia», continua padre Viscardi, «è un paese giovane, in crescita economica, alla ricerca di una sua affermazione e presenza mondiale: insomma, un paese che ha un presente e un futuro». Diciannovesimo paese al mondo per superficie (è grande cinque volte l’Italia), la Mongolia ha una popolazione di 3,4 milioni di abitanti, di cui la metà vive nella capitale Ulaanbaatar. La crescita economica attesa per l’anno in corso, riportava ad aprile l’Asian development bank (Adb), è del 4%: c’è un rallentamento rispetto al 7% del 2023@, ma si tratta comunque di una crescita sostenuta, trainata dal settore minerario e dall’espansione della spesa pubblica.

È stata l’esportazione di carbone, acquistato per la quasi totalità dalla Cina che lo utilizza soprattutto per la produzione di acciaio@, a sostenere il settore minerario, ma un ruolo importante continua ad averlo anche il rame, estratto dalla più grande miniera del paese, quella di Oyu Tolgoi, di proprietà del governo mongolo per il 34% e del colosso anglo australiano Rio Tinto@ per il 66%. Altre risorse importanti sono l’oro, l’argento, il molibdeno e le terre rare@, impiegate in numerosi prodotti e tecnologie attuali, dai motori elettrici ai display ottici. Nel 2023 inoltre il gruppo francese Orano ha firmato un accordo per lo sfruttamento della miniera di uranio di Zuuvch Ovoo, nel Sud Est della Mongolia@.

Quanto al settore agricolo, riferiva sempre Adb, ci si aspetta una contrazione, perché l’inverno 2023/2024 è stato uno dei più rigidi della storia recente@, con fenomeni di freddo estremo – o dzud, in lingua mongola – che ha toccato i -47°C nelle regioni del Nord e dell’Ovest. «Sono morti almeno 4 milioni di animali», conferma padre Ernesto: «Non è stato come lo dzud del 2010, in cui ne morirono almeno il doppio, ma le perdite sono ingenti. In un paese con una media di 20 capi di bestiame per abitante, 65 milioni in totale, si fa preso a capire quanto questo settore determini la vita di migliaia di persone».

Le stime citate a fine maggio dal portale Reliefweb, quantificavano in 7,2 milioni i capi di bestiame persi, l’11% del totale. Le famiglie rimaste completamente senza animali risultavano essere 4.957 e, secondo l’Unicef, i bambini le cui esigenze di salute mentale, nutrizione e istruzione rischiavano di non venire soddisfatte erano circa 24mila.

Ulaanbaatar e la sua crescita

«Guardando Ulaanbaatar dalle colline che la circondano, fino a pochi anni fa si vedeva una coltre di smog che la copriva», racconta padre Ernesto. «Era la capitale più inquinata del mondo, ma oggi la situazione sembra migliorata, anche grazie all’uso del “carbone pulito” invece di quello grezzo». Si tratta di bricchetti di carbone lavorato in modo da ridurre le emissioni@, e sono diverse le fonti che confermano il miglioramento della qualità dell’aria della città, non solo rispetto al fumo emesso ma anche alla presenza di polveri sottili.

Il carbone viene usato dalle fasce più povere della popolazione per scaldare le abitazioni. In particolare nei cosiddetti gher district, i quartieri che si sono formati a partire dagli anni Novanta del secolo scorso con l’arrivo, dalle zone rurali e dalle steppe, di famiglie che per diversi motivi – spesso la perdita del bestiame – avevano dovuto spostarsi in città. Le gher (iurta in russo, gher in mongolo) sono le tende tradizionali, smontabili e trasportabili, nate per ospitare le famiglie di allevatori in movimento con il bestiame. A queste, si affiancano anche casette a un piano, molto essenziali. «Mentre l’elettricità arriva quasi dappertutto», continua padre Ernesto, «altri servizi come l’acqua corrente e il gas non sono disponibili nei quartieri più poveri, e le persone per scaldarsi devono bruciare carbone».

Ulaanbaatar ha raddoppiato la propria popolazione negli ultimi vent’anni e, secondo diverse proiezioni, nel 2035 raggiungerà i due milioni di abitanti.

Secondo i dati più recenti dell’ufficio nazionale di statistica (2022)@, il tasso di povertà nel paese è del 27%, supera il 35% nelle zone rurali mentre scende al 23% nelle città. Nella capitale, i poveri sono il 21,6%, una persona su cinque. Nel 2023 il tasso di inflazione è stato dell’8%, in calo rispetto al 13% dell’anno precedente, ma ancora sufficiente per erodere di molto il potere d’acquisto delle famiglie.

La mancanza di un’adeguata nutrizione e di accesso a servizi sanitari di base, l’alcolismo, i problemi di salute mentale e la violenza domestica accompagnano e, a loro volta, aggravano le condizioni di povertà.

House of Mercy, casa di tutti

È alle persone che si trovano in queste situazioni che si rivolge la House of Mercy (Casa della misericordia), un centro dove persone con diversi tipi di problemi possono trovare un rifugio: un «punto di riferimento per una molteplicità di interventi caritativi, mani tese verso i fratelli e le sorelle che faticano a navigare tra i problemi della vita», l’ha definito papa Francesco che l’ha inaugurata lo scorso 4 settembre al termine del suo viaggio apostolico in Mongolia, Paese nel quale i cristiani sono circa 1.500.

«Il discorso del papa il giorno dell’inaugurazione e benedizione della House of Mercy@ è la nostra magna carta, sintetizzando i valori fondamentali e lo stile che ispirano il lavoro del centro», spiega il cardinale Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulaanbaatar, che ripercorre anche le tappe dell’ideazione del progetto.

L’immobile che lo ospita era stato per anni una scuola materna ed elementare gestita dalle suore di San Paolo di Chartres, che nel 2019 decisero di venderlo per concentrarsi sul lavoro in un nuovo edificio scolastico nel quartiere di Bayankhooshoo. Monsignor Marengo, missionario della Consolata all’epoca appena nominato vescovo, si consultò con il nunzio apostolico Alfred Xuereb e con tutte le istanze della Chiesa locale, e prese la decisione di comprare la struttura. Gli istituti e congregazioni avevano già delle loro attività nei settori della carità e dell’assistenza, per questo, continua il cardinale, «ci rendemmo conto che serviva un luogo che fosse espressione della Chiesa locale in sé, non di un ente specifico, e che aiutasse le parrocchie a concentrare in un luogo le iniziative di carità, così da “alleggerire” il loro servizio e dare anche un’immagine più corretta di quello che sono, cioè non primariamente degli spazi di erogazione di servizi ma soprattutto dei luoghi di avvicinamento alla fede».

Per avviare la ristrutturazione occorreva individuare almeno alcune delle attività da svolgere nell’edificio. «Dall’analisi della realtà», ricorda monsignor Marengo, «capimmo che dovevamo rivolgerci alle persone senza fissa dimora, spesso affette da dipendenze come l’alcolismo, che d’inverno rischiano di morire congelate se rimangono all’esterno; oppure alle madri sole con figli a carico e spesso anche vittime di violenza domestica, che hanno bisogno di un riparo; o, ancora, alle famiglie che arrivano in città dalla campagna e hanno bisogno di una sistemazione temporanea». Altri utilizzi del centro, che da fine maggio ha iniziato a offrire il servizio mensa, si definiranno con il tempo, una volta che sarà pienamente attivo, «in base alle priorità di carità che scopriremo lavorandoci».

Cibo, sanità, riparo, ascolto

Il centro si trova nel distretto di Bayangol, che ha un tasso di povertà del 15%, quindi più basso della media cittadina, ma è attraversato da forti disparità nel tenore di vita, che si manifesta nel mescolarsi di comunità urbane e rurali e nel giustapporsi di complessi residenziali di lusso, gher tradizionali, condomini dai costi abbordabili e case unifamiliari.

Al piano terra, il centro ha un ambulatorio di primo soccorso che raccoglie l’esperienza della Saint Mary’s Clinic, una piccola struttura sanitaria attiva per oltre un decennio vicino alla cattedrale. «Oggi», continua monsignor Marengo, «con l’apertura di un centro sanitario pubblico a poca distanza dalla cattedrale, ha più senso per noi trasferire le attività della clinica all’interno della House of Mercy e offrire lì un servizio di primo soccorso, per indirizzare poi i pazienti bisognosi di cure più complesse agli ospedali della città, sempre in coordinamento con le autorità pubbliche».

Oltre all’ambulatorio, il piano terra ospita la mensa, la cucina e dei locali di ricovero temporaneo, soprattutto per l’inverno, mentre al primo piano si trovano le camere di accoglienza per le donne che fuggono dalla violenza domestica o da altri pericoli e, al secondo piano, le camere per il personale, i volontari e gli ospiti a breve termine, oltre a una sala di formazione e una cappella.

«Non possiamo ancora indicare con precisione un numero di beneficiari», spiega fratel Andrew Tran Le Phuong, religioso salesiano e coordinatore del centro. «Inizieremo con un numero di persone che sia gestibile per noi in questo momento, in base alle nostre risorse umane, finanziarie e all’esperienza da acquisire. La Casa della Misericordia non è solo un centro di servizi ai bisognosi, è un luogo in cui aiutiamo i poveri a riconnettersi con la famiglia e la società».

La responsabile locale delle attività sarà Otgongerel Naidansuren Lucia, Oghi, come la chiamano tutti, una donna mongola la cui disabilità – usa protesi per camminare poiché è priva degli arti inferiori dal ginocchio in giù e delle mani – non le ha impedito di guidare, usare il computer e il cellulare e diventare una risorsa fondamentale per la Chiesa locale, con la quale lavora da 18 anni, prima in una parrocchia e, ora, al centro.

In linea con le indicazioni del Papa, la House of Mercy cercherà di avvalersi il più possibile del lavoro dei volontari laici. L’idea del volontariato, continua fratel Andrew, ha un importante elemento educativo, anche per cambiare la visione distorta secondo cui i missionari hanno molte risorse e sono qui per fornire servizi. Questo è un modo per educare le persone all’idea che non tutto è riducibile a un rapporto economico.

La collaborazione per mandare avanti il centro, riprende il cardinale Marengo, è aperta davvero a tutti: «Ai missionari e religiosi cattolici che vorranno venire a dare il loro tempo per servire i pasti, per ascoltare le persone, per fare attività con le madri e i bambini, ma anche ai nostri amici protestanti e buddisti e ai volontari internazionali. Perché questo servizio per la Chiesa non è semplicemente assistere: è manifestare la propria identità».

Chiara Giovetti


ATTIVITÀ AIUTATE DA MCO

Oltre alla House of Mercy, sostieniamo anche alcune altre attività dei missionari e missionarie della Consolata.
Il progetto Amico Saint Paul Mongolia@ ha contribuito a creare a Zuunmod, circa quaranta chilometri a sud di Ulaanbaatar, un Children and youth centre, cioè un centro per l’infanzia e la gioventù con attività di doposcuola, creando un parco giochi e sistemando gli spazi e i materiali didattici del laboratorio di lingua e musica.

Il Centro «Il sole che sorge» a Chingeltei, nella periferia Nord di Ulaanbaatar, accompagna circa una trentina di bambini nella crescita personale e nello studio, con un aiuto per fare i compiti ma anche spazi di socializzazione e apprendimento attraverso giochi, sport, attività creative come il canto, la danza e il disegno e un mini Centro ricreativo estivo portato avanti con l’aiuto di volontari locali@.

Ad Arvaiheer, città di circa 30mila persone a 437 chilometri a Sud Ovest di Ulaanbaatar, i missionari hanno diverse attività fra cui il Day care centre che ha sede in una gher attrezzata presso la missione e offre attività educativa e pasti a una trentina di bambini dai 2 ai 5 anni; un programma di doposcuola e di attività ricreative per bambini e ragazzi; un progetto di formazione in attività sartoriali per circa trenta donne della zona e altre attività che sono descritte nei dettagli sul sito dei missionari della Consolata in Mongolia@.

Chi.Gio.

 




Il pastore bello


Il pastore conosce le sue pecore ed è conosciuto da loro.
Il mercenario non conosce le sue pecore e non si lascia conoscere.
Il pastore, se vede il lupo, si mette in mezzo tra il lupo e le pecore per proteggerle.
Il mercenario, se vede il lupo, manda avanti le pecore perché lo proteggano.

Il pastore dà la sua vita per le sue pecore (Gv 10,11-16), perché le sue pecore sono la sua vita, la sua gioia.

Il mercenario salva la propria vita. Non vorrebbe sacrificare le pecore, perché gli sono utili,
ma se è necessario per mettersi al sicuro, lo fa.

Quando il pastore è assunto in cielo, le sue pecore diventano pastore le une per le altre
e, tutte insieme, pastore per quelle che non sono ancora con loro.

Quando il mercenario muore, le sue pecore gareggiano per prendere il suo posto, il suo potere.
E calpestano le altre. Vogliono le altre con loro solo per se stesse.

Tu, Signore sei il nostro pastore. Non manchiamo di nulla.
Noi siamo le tue pecore, ci chiami per nome, ci custodisci, non lasci che nulla ci colpisca,
non lasci che moriamo in eterno.
Raccogli ogni minuto di ogni ora di ogni giorno delle nostre vite.
E tieni tutto con te.

Inviati come pastori,
raduniamo in Lui la vita nostra e di chi ci è affidato,

buona estate missionaria
da
amico

Luca Lorusso


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L’economia di Gandhi


Il Mahatma propone una «vita vivibile», in cui si persegue la pace. L’economia deve essere al servizio della persona e non il contrario. Ciascuno può fare la sua parte. Ad esempio scegliendo la «povertà volontaria».

L’azione nonviolenta richiede un intervento in prima persona di ognuno.

Su questo assunto si basa il libro di Erica Cupelli.

La visione di Gandhi è illuminante ancora oggi, così come lo era, ad esempio, nell’81, quando l’economista Romesh Diwan ebbe a dire, a riguardo della crisi economica di quegli anni: «Questa crisi è stata portata in superficie a causa dell’incapacità della teoria economica di spiegare gli attuali fenomeni di stagflazione (recessione e inflazione concomitanti, ndc), produttività e altro. La questione riguarda concetti alquanto fondamentali: razionalità, massimizzazione, minimizzazione, ottimizzazione, equilibrio. Senza questi fondamenti, l’intero edificio logico dell’economia neoclassica cade».

Economia gandhiana

Il cuore dell’economia di Gandhi è già stato trattato – ma non in italiano – dall’economista Das Amritananda, secondo il quale il Mahatma suggerisce di badare all’impatto dello sviluppo tecnologico sul lavoro e sulle persone: «Aumenterà la povertà? Lo stile di vita delle persone migliorerà? Quali saranno le conseguenze per l’ambiente? Solo attraverso la realizzazione del pieno impiego i poveri diverranno membri della forza lavoro tale da permettere loro di provvedere autonomamente alla loro sussistenza con dignità».

«Lavorare meno, lavorare tutti!», è uno slogan che ricordo di aver urlato per le strade di Milano, alle manifestazioni degli anni 70 e 80. Può darsi che sia stato gettato allora quel seme che mi ha portato poi a decidere di lavorare meno, guadagnare meno, avere meno per poter scegliere di non fare un lavoro che non voglio, o che non è etico, o che sfrutta qualcuno, o che uccide (compresi gli animali), ecc.

Su questa scia ho trovato nel libro di Erica Cupelli pagine di proposte operative su come organizzare il lavoro, altro che «sogni utopici».

Trascrivo alcuni passaggi: «Gandhi propone una “vita vivibile”, in cui si persegue la pace. Per questo motivo si dovrà lavorare quanto basta per comprare il pane quotidiano, così che il resto del tempo possa essere dedicato a ciò che ha vero valore, non la ricchezza materiale, ma ciò che nobilita l’anima. Allora ci si potrà prendere cura dei propri figli, assistere le persone anziane, fare volontariato, coltivare le proprie passioni, mentre, al tempo stesso, molte più persone potranno lavorare. Il miglior lavoratore sarà dunque colui che si sente a suo agio nella semplicità, l’unica via che può portare alla felicità, fatta di affetti, emozioni, vita. Con la speranza di aver illustrato in modo adeguato i fondamenti etici dell’economia gandhiana, la sfida […] sarà quella di tradurli in concetti praticabili, pur essendo consapevoli del fatto che ciò diventerà possibile solo con una profonda e sincera trasformazione del cuore».

Otto punti, un regolamento

Ditemi se non siete d’accordo con le indicazioni qui sotto, dal paragrafo Attenzione al lavoratore: «1. le ore di lavoro non superino le 6 giornaliere e le 32 ore settimanali; 2. l’orario sarà flessibile per venire incontro alle esigenze personali di ognuno; 3. l’ambiente sia quanto più possibile naturale e pieno di luce; 4. non vi siano turni notturni, eccetto per quei lavori che, per il benessere della società, richiedono tale servizio (esempio: medici, infermieri, pompieri, poliziotti); 5. nel caso di turno notturno, una persona deve essere remunerata maggiormente rispetto a un turno normale; 6. il turno di notte deve essere svolto a rotazione e non più di una volta alla settimana per ogni lavoratore; 7. venga promossa la cultura tramite l’inserimento di biblioteche negli ambienti di lavoro; 8. siano inseriti dei corsi di aggiornamento periodici […]».

Sette punti, un programma

Gli aspetti fondamentali dell’economia gandhiana possono riassumersi in sette punti: 1. proprietà nonviolenta e comunitaria gestita tramite l’amministrazione fiduciaria, cioè la delega ad alcuni esperti interni alla comunità; 2. produzione nonviolenta e uso di tecnologie appropriate; 3. consumo consapevole e limitazione volontaria del possesso dei beni superflui; 4. lavoro nonviolento e lavoro per il pane; 5. cooperazione; 6. distribuzione nonviolenta delle risorse e uguaglianza; 7. socialismo comunitario e nonviolento.

Undici consigli, una realtà

A riprova del fatto che la proposta di questo libro per un’economia diversa non è un sogno utopico, ci sono le testimonianze della vita nei villaggi indiani ai tempi di Gandhi, Vinoba Bhave e altri: «Gli ashram divennero di fatto dei luoghi di sperimentazione diretta in cui il non possesso, l’uguaglianza, il non sfruttamento, l’amministrazione fiduciaria e la scelta di una vita semplice come espressione della povertà volontaria, caratterizzavano ogni membro».

La visione di Gandhi, sperimentata nei villaggi e negli ashram indiani, si basa su questi consigli, applicabili in ogni comunità: 1. allenamento spirituale per autodisciplinarsi; 2. decentramento; 3. valorizzazione dei punti di forza della comunità; 4. scelta e utilizzo di tecnologie che siano a servizio dell’uomo; 5. incoraggiamento al lavoro manuale; 6. cura e attenzione alla natura; 7. servizio alla comunità; 8. liberazione da ciò che vincola e rende schiavi; 9. tutela dell’eguaglianza (economica e socio politica); 10. condivisione di ciò che si ha; 11. scelta di una vita semplice.

La scelta di una vita semplice è l’espressione della «povertà volontaria», formula che mi piace di più di «semplicità volontaria», anche se può spaventare.

Riassuntino colorato

Se tutte le parole lette finora sono state troppe, le trovate riassunte nella copertina del libro, i cui colori riassumono il modello gandhiano in modo immediato: il verde (valori, cultura, società) contiene e fonda il blu (economia), e non viceversa, come scrive l’autrice Erica Cupelli: «Lo schema visualizza il modello gandhiano, che guarda il mondo secondo i valori etici che […] fondano una economia al servizio dell’uomo e non viceversa».

Cinzia Picchioni


Piccola bibliografia

  • Mohandas Karamchand Gandhi, Una grande Anima. Pensieri spirituali per la vita concreta, a cura di N. Salio e C. Toscana, Red edizioni, Como 1998, pp. 128, 7,23 €.
  • Nanni Salio (a cura di),
    Gandhi. Economia gandhiana e
    sviluppo sostenibile
    , Seb27, Torino 2000, pp. 84, 12,50 €.
  • John Ruskin, Cominciando dagli ultimi, San Paolo, Milano 2014, pp. 128, 12 €.
  • Michael J. Sandel, Quello che
    i soldi non possono comprare.
    I limiti morali del mercato
    , Feltrinelli, Milano 2015, pp. 233, 11 €.
  • Roberto Mancini, L’amore politico. Sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Lévinas, Cittadella, Assisi 2005, pp. 296, 15,90 €.
  • Ernst Friedrich Schumacher,
    Piccolo è bello. Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa, Mursia, Milano 2011, pp. 310, 18 €.



Cosa non si vede in Oppenheimer


Nel film di Christopher Nolan colpisce tutto quello che non viene rappresentato: ad esempio, le conseguenze delle bombe sul Giappone, le alternative alla guerra, l’opposizione della scienza al potere militare.

A cosa serve recensire un film uscito quasi un anno fa? Serve a riflettere sui temi che propone, analizzando il film alla giusta distanza emotiva.

Il tempo, le riflessioni altrui, le cose che accadono, possono cambiare molto la prospettiva.

«Oppenheimer» è un film magniloquente. Maestoso, sì, ma non vuol dire che mi sia piaciuto.

È una biografia divisa arbitrariamente in tre fasi. E dura tre ore.

La prima ora è dedicata a spiegarci che Julius Robert Oppenheimer era un genio (nel famoso libro di Vladimir Propp, Morfologia della fiaba, sarebbe identificata come la «certificazione dell’eroe»). La seconda parte è dedicata alla costruzione e all’impiego della bomba atomica. La terza è centrata sul processo subito da Oppenheimer per essersi rifiutato di proseguire gli studi sulle armi nucleari.

Morti invisibili e guerra ineluttabile

Quello che colpisce di più di questo film è quello che non si vede.

Certo, il fisico nucleare non è mai stato a Hiroshima. Ma nel film non c’è una sola inquadratura dedicata all’utilizzo finale del lavoro fatto da lui e dal suo imponente seguito di scienziati.

Questa è forse la critica più netta, che viene, tra l’altro, proprio dai sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki: perché nel film non viene mostrata neanche un’immagine dell’inferno scatenato sulle due città giapponesi? E non si dice mai, aggiungo io, che il vero obiettivo era quello di compiere un’azione dimostrativa nei confronti dell’Unione Sovietica, il nemico numero uno degli Usa nei quarant’anni successivi.

Inoltre, non viene mai messa in dubbio la necessità della guerra come soluzione dei conflitti, neanche con un’espressione dubitativa sul volto di qualche comparsa. La guerra c’è, e basta.

Una prospettiva insostenibile, tanto più oggi, quando i governanti del mondo parlano di nuovo di ineluttabilità della guerra: allora, almeno in un film, un accenno alle vie alternative, alla diplomazia, alla nonviolenza, si sarebbe potuto inserire.

Di fronte al rischio per la stessa sopravvivenza della comunità umana, è oggi di vitale importanza aprire a visioni diverse.

Scienza sottomessa

Il secondo elemento riguarda il rapporto tra gli scienziati e l’apparato industriale militare.

Quegli anni furono il punto di svolta per l’Occidente: la scienza si sottomise all’esercito, e da allora divenne la sua ancella. Questo è accennato nel film, ma non è approfondito, mentre invece è uno dei cardini su cui si basa l’intera storia del Novecento.

E poi la pellicola di Christopher Nolan si sarebbe potuta soffermare sulla grande tensione che ci fu dopo il 1933 tra gli scienziati di tutto il mondo: essi si trovarono divisi, per la prima volta, da valutazioni politiche.

Gli anni 30 segnarono, infatti, il primo momento in cui la comunità scientifica internazionale smise di essere coesa, di scambiarsi informazioni, di condividere esperienze, e cominciò a guardarsi con sospetto.

Il ciclo del nucleare

Terzo elemento, quello più nascosto: nel film mancano totalmente i riferimenti al ciclo del reperimento e dell’arricchimento del materiale radioattivo necessario per la costruzione della bomba atomica. Manca quindi una visione sistemica di tutto il ciclo del nucleare: da dove viene l’uranio? Quali conseguenze hanno gli esperimenti sulle persone? Cosa è successo alle popolazioni attorno al sito della prima detonazione nel deserto del New Mexico il 16 luglio 1945? Bisogna sapere, bisognava dirlo, che i primi a subire gli effetti prodotti dalle bombe atomiche non furono i giapponesi, ma molti degli abitanti dell’area di Alamogordo, Usa.

Movimenti contro l’atomica

La terza parte del film si concentra sul processo maccartista a Oppenheimer, che si era rifiutato di proseguire con le ricerche sulla bomba all’idrogeno, avendo, presumibilmente, considerato già abbastanza devastante quella convenzionale (a fissione di plutonio). Di tutto quel periodo storico, successivo alle esplosioni in Giappone, però, non si citano mai le grandi organizzazioni e i movimenti nati contro l’atomica negli anni 50.

Si pensi al Bulletin of the atomic scientists fondato proprio da Oppenheimer già nel Dicembre 1945. Si pensi alle Pugwash conferences on science and world affairs fondate da Joseph Rotblat e Bertrand Russell, nate nel 1957 e che hanno ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1995.

Associazioni e movimenti che si sono battuti per sessant’anni, fino ad arrivare al fondamentale risultato di tutte queste lotte: il Trattato delle Nazioni Unite per la proibizione delle armi nucleari, entrato in vigore nel gennaio 2021, preceduto dal Premio Nobel per la pace del 2017 conferito alla Campagna internazionale contro le armi nucleari (Ican).

Neanche nei titoli di coda si riconosce l’importanza di queste associazioni.

Film militarista?

Dunque? Oppenheimer è un film che si concentra sulla vicenda di un uomo e dell’apparato gigantesco che ha diretto, ma non sottolinea quanto in essa si sia sviluppato l’evento che più di ogni altro ha contribuito ad avvicinare l’umanità alla propria fine.

C’è una scena che mi ha fatto pensare: quando il protagonista vede il lampo accecante della bomba che scoppia, nel silenzio che ne segue, mormora: «Ora sono divenuto morte». Ma le immagini dicono tutt’altro: la nuvola dell’esplosione è fiammeggiante, imponente, devastante e… affascinante. Come l’eruzione di un vulcano.

Questa scena mi ha ricordato quella di Salvate il soldato Ryan alla fine della lunga rappresentazione dello sbarco in Normandia: guardando la spiaggia, le decine di navi e di mezzi, la distesa di morti, il protagonista dice, «però, che spettacolo».

Sottolineare l’aspetto epico di un evento, non significa forse legittimarlo? Oppenheimer, in definitiva, credo sia un film militarista.

Un’ultima cosa: che relazione c’è tra questo film e il documentario uscito in contemporanea: Nuclear now, di Oliver Stone?

Forse è solo una coincidenza che Christopher Nolan e Oliver Stone si siano occupati di nucleare. Forse. Oppure bisogna rendersi conto che c’è un tentativo di rilanciare la «normalità», la «necessità» dell’energia atomica.

Dario Cambiano




Allamano. Il dono della vocazione


Nel suo messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per le Vocazioni, celebrata nella IV domenica di Pasqua, papa Francesco invitava a «considerare il dono prezioso della chiamata che il Signore rivolge a ciascuno di noi, suo popolo fedele in cammino, perché possiamo prendere parte al suo progetto d’amore e incarnare la bellezza del Vangelo nei diversi stati di vita».

Il beato Allamano considerava la vocazione missionaria come un dono straordinario di Dio al punto di ritenere «fortunati» quei giovani che avevano sentito il suo invito a seguirlo sulla via della missione. «Egli – diceva il fondatore dei missionari della Consolata ai suoi – vi ha chiamati all’apostolato per sola sua bontà. L’ha fatta a voi questa grazia, a preferenza di tanti altri che ne erano più degni e che vi avrebbero forse corrisposto meglio. E perché proprio a voi? Perché vi ha amati di un amore particolare. Ha fatto con voi ciò che fece con quel giovane del Vangelo: “E Gesù fissatolo, lo amò e gli disse: vieni e seguimi” (Mc 10,21). Ecco che cosa è la vocazione! È questo sguardo di predilezione di Gesù».

La risposta alla vocazione spinge tante persone a consacrarsi e a offrire la propria esistenza al Signore nel silenzio della preghiera come nell’azione apostolica, talvolta in luoghi di frontiera e senza risparmiare energie, portando avanti con creatività il loro carisma e mettendolo a disposizione di coloro che incontrano.

Annunciare il Vangelo a quanti non lo conoscono, spezzare la propria vita, insieme al pane eucaristico, per i fratelli, seminando speranza e mostrando a tutti la bellezza del Regno di Dio: è questo il Dna della vocazione missionaria seminato nel cuore di tanti giovani dal beato Allamano.

La crisi di vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa nel mondo occidentale a cui assistiamo oggi, tra le altre cause, è certamente determinata dalla crisi di identità di cui soffre l’uomo moderno che porta a cercare la propria realizzazione in surrogati che alla lunga si rivelano incapaci di soddisfare il desiderio di felicità che abita il cuore delle persone.

«Ascoltare la chiamata divina – scrive ancora papa Francesco – lungi dall’essere un dovere imposto dall’esterno, magari in nome di un’ideale religioso, è invece il modo più sicuro che abbiamo di alimentare il desiderio di felicità che ci portiamo dentro. La nostra vita si realizza e si compie quando scopriamo chi siamo, quali sono le nostre qualità, in quale campo possiamo metterle a frutto, quale strada possiamo percorrere per diventare segno e strumento di amore, di accoglienza, di bellezza e di pace, nei contesti in cui viviamo».

Sergio Frassetto

Seminatori di consolazione

Contemplando l’icona della Consolata, come faceva l’Allamano dal coretto del Santuario, suor Maria Luisa Casiraghi evidenzia le caratteristiche, i valori e i sentimenti che noi missionari siamo chiamati a incarnare per essere presenza di consolazione nel mondo.

Dal «coretto» il fondatore la contemplava

Noi missionari e le missionarie ci possiamo definire: «Seminatori e seminatrici di consolazione attraverso vie e modi che lo Spirito e le contingenze della vita ci fanno intravedere». Per fare questo cammino bisogna affidarci alla Consolata, dialogare con lei, accogliere le intuizioni dello Spirito.

Ma come? Quando desideriamo conoscere qualcuno cerchiamo di incontrarlo, parlargli, stare il più possibile in sua compagnia per carpire i suoi segreti, arricchirci della sua esperienza, accogliere i suoi consigli.

Il fondatore in questo ci è modello. Sappiamo infatti quanto tempo lui trascorreva in preghiera nel coretto del santuario della Consolata contemplando l’icona a lui e a noi tanto cara per comprendere meglio la volontà di Dio, il cammino da intraprendere e per avere il coraggio e la forza di realizzare ciò che Dio voleva da lui.

Penso che nel coretto del Santuario della Consolata, mentre contemplava il volto di Maria, il fondatore vedesse tratteggiati gli atteggiamenti e i lineamenti che noi missionarie e missionari avremmo dovuto incarnare per portare la consolazione alle persone nei luoghi e nelle situazioni che avremmo incontrato nel nostro cammino. Contemplando l’icona di Maria il fondatore focalizzava le sue virtù e meditava come noi, suoi figli e figlie, che avremmo portato nel mondo il suo nome, dovevamo viverle.

Come davanti a uno specchio

Mi sono posta più volte davanti all’icona della Consolata come davanti a uno specchio per cogliere qualche particolare che mi suggerisse i passi ancora da fare, i cammini da iniziare, gli atteggiamenti da vivere per divenire sempre di più una presenza di consolazione. E, contemplando questa icona, sono stata colpita da vari particolari, soprattutto dalle mani del bambino Gesù: una mano tiene stretto il pollice della Madre che così s’intreccia con la sua e l’altra indica a noi Maria. In questo intreccio di mani scorgo ciò che il fondatore spesso sottolineava quando ci incoraggiava a rivolgersi e a pregare la Consolata. Egli diceva: «È importante avere fiducia nella Consolata: senza di lei possiamo fare poco o nulla, con lei tutto. Fìdati della Madonna, è tua madre! Voglile bene! Senza di lei non si può volare e camminare nella santità. La nostra ala in più è lei, la madre di Gesù, la Consolata».

Essere «conche» per essere «canali»

Un secondo messaggio che ho visto scaturire contemplando Maria lo collego a un’altra espressione del Fondatore in cui affermava: «A riguardo del prossimo dobbiamo essere conche, non solo canali. Ma riguardo ai beni materiali dobbiamo essere solamente canali e non conche». La prima attitudine di Maria che emerge dai Vangeli è quella dell’accoglienza che fa posto allo Spirito, che si svuota per lasciarsi guidare da lui sulle strade di Dio.

Questo è l’atteggiamento che il fondatore voleva che noi coltivassimo per diventare conche e fonti vive. Essere conche ripiene di Spirito aiuta a comprendere l’importanza poi di divenire canali in cui scorrono generosamente i beni che vogliamo condividere con il nostro prossimo.

C’è bisogno di genuinità, di schiettezza, di verità per vivere la missione in modo autentico ed efficace.

I beni materiali vanno condivisi, lasciati andare nella corrente, nel canale che scorre e non trattiene, ma irriga e feconda il campo di tutti nella logica del «gratuitamente avete ricevuto e gratuitamente date». Solo così la missione diventa annuncio della consolazione, del dono che Dio fa al mondo: il suo unico figlio, tanto amato, offerto per la salvezza di tutti, un figlio che Maria ha rivestito della sua natura umana.

Seminare la buona notizia

Ancora: Maria, in questa icona non tiene il bambino stretto a sé, ma lo offre all’umanità. Il suo atteggiamento è rivolto anche a noi: non tenere stretta la buona notizia della salvezza, ma seminarla nelle pieghe del quotidiano per trasformare l’ordinario in straordinario. L’annuncio non nasce da noi, ci viene donato affinché lo condividiamo con parole, gesti, silenzi… come Maria ha fatto nella sua vita: poche parole, molti gesti per aprire cammini e orizzonti nuovi e tanti silenzi, non sterili, ma che hanno generato vita.

E termino con l’augurio fatto parecchi anni fa ai missionari e alle missionarie dall’allora arcivescovo di Torino, il cardinale Anastasio Ballestrero. Diceva: «Quando si è portatori di un annuncio di consolazione non si può esserlo autenticamente senza un entusiasmo che brucia dentro, senza un fervore totale che investe la vita e senza un ardore che non conosce stanchezza. Il popolo di Dio e tutti i popoli hanno bisogno di vedere che i missionari e le missionarie sono così: creature incandescenti che dovunque arrivano accendono il desiderio di Dio e dovunque passano lasciano un segno profetico profondo, efficace e fecondo». E, a questo segno, noi missionari e missionarie della Consolata diamo il nome di «consolazione».

Suor Maria Luisa Casiraghi

Ho speso tutto

Quando nel 1880 l’Allamano assunse la direzione del Santuario della Consolata, questo si presentava brutto e decadente, così, nel 1883 diede inizio a lavori di restauro esterno dell’edificio, su disegno dell’ingegnere Giovanni Battista Ferrante, che riportò il complesso alle linee originarie dell’architetto Filippo Juvarra. I lavori furono ultimati nel 1885. A convincere l’Allamano della necessità di intervenire nuovamente con lavori più radicali sull’edificio fu la prospettiva delle grandiose feste che si sarebbero dovute celebrare nel 1904, in occasione dell’ottavo centenario del ritrovamento dell’immagine della Consolata da parte del cieco di Briançon, avvenuto il 20 giugno 1104, secondo un’antica tradizione. Il progetto dei restauri fu affidato all’architetto Carlo Ceppi e i lavori di trasformazione furono compiuti tra il 1899 e il 1904. Attraverso l’inserimento di quattro cappelle ovoidali, sistemate attorno all’esagono guariniano, e la realizzazione di altri interventi architettonici e decorativi, la chiesa assunse una forma maestosa che dall’esterno si arricchiva di cupolini e volute, a coronamento delle nuove cappelle, mentre all’interno risplendeva di marmi e stucchi dorati così come la conosciamo oggi.

Per preparare il progetto dei restauri fu scelto il principe degli architetti torinesi, il conte Carlo Ceppi. «Ma, mio caro canonico, – fu il preambolo dell’architetto al Camisassa – che cosa possiamo fare qui? Siamo strangolati in tutti i modi». «Signor conte – replicò il Camisassa -,  il Juvarra sfondò le pareti e creò quel magistrale ampliamento dove fece sorgere l’altare della Vittoria. Come ha fatto lui perché non possiamo fare anche noi altrettanto ai fianchi?». «La cosa è fattibile, e la faremo», concluse l’architetto, e si mise all’opera.

All’architetto che gli faceva presente che non sarebbe bastato un milione, l’Allamano rispose: «Ne metteremo due, tre, purché Torino abbia un santuario degno della sua Patrona».

«Quando io facevo restaurare il santuario – confidò l’Allamano – (ebbene, c’è andato un bel milione, sapete) qualcuno diceva: “Uh, che spreco! Perché adoperare del marmo così prezioso? Marmo d’Egitto? Si potrebbe mettere marmo finto come in quell’altra chiesa!…”. Ed io dicevo: “Per il Signore, per la Madonna non è mai troppo, non si spreca mai”. Alcuni mi dicevano: “Perché cambiare il pavimento? Mettere marmo di prima classe? […]. Quando si tratta della Madonna non bisogna aver paura anche di fare dei debiti, di fare delle imprudenze, e poi con la Consolata non si fanno delle imprudenze. Io per la Consolata ho speso tutto».

La riflessione conclusiva dell’Allamano svelò da dove egli prendeva l’ispirazione e il coraggio: «I lavori, con visibile protezione di Maria, furono deliberati proprio il 10 dicembre 1898, festa della S. Casa di Loreto, quasi per farci notare che “Lei stessa si è edificata la casa”. […]. Questa non è opera nostra, ma è proprio opera della Madonna».

Giuseppe Allamano, per le feste centenarie della Consolata, oltre ai lavori di restauro del tempio, volle regalare alla Vergine due preziose corone di brillanti che furono apposte al quadro. Le celebrazioni centenarie iniziarono l’11 giugno 1904 per terminare il 20, festa della Consolata. Il giorno 19 si svolse la processione per le vie della città, con la partecipazione di sei cardinali, 23 vescovi e 104 parroci, oltre alle congregazioni religiose e ai fedeli in numero incalcolabile. Il giornale «La Stampa» fece questo commento: «Certo è riuscita una manifestazione religiosa imponente che non ha precedenti nella memoria dei torinesi».


POSTULATORE > P. GIACOMO MAZZOTTI

Chi ricevesse una grazia per intercessione del beato Giuseppe Allamano è pregato di notificarlo ai seguenti indirizzi:
POSTULAZIONE MISSIONI CONSOLATA
• Viale Mura Aurelie, 11-13 – 00165 Roma
• Corso Ferrucci, 14 – 10138 Torino
E-mail: postulazione@consolata.org
https://giuseppeallamano.consolata.org