I Perdenti 59. Il «cura gaucho», san José Gabriel Brochero

testo di Don Mario Bandera |


José Gabriel del Rosario Brochero nacque a Santa Rosa de Río Primero (Córdoba, Argentina) probabilmente il 16 marzo 1840, sebbene sia stato registrato all’anagrafe un giorno dopo, quando ricevette il battesimo. I genitori, Ignacio Brochero e Petrona Dávila, erano poveri ed ebbero dieci figli. José, il quarto nato, si fece prete e tre delle sue sorelle seguirono la vita consacrata, entrando tra le Figlie di Maria Santissima dell’Orto, fondate da sant’Antonio Maria Gianelli.

Morì contagiato dalla lebbra il 26 gennaio del 1914. È stato beatificato da papa Francesco (suo conterraneo) il 14 settembre 2013, e successivamente canonizzato, sempre da papa Francesco, il 16 ottobre 2016.

Il discernimento vocazionale di Brochero, iniziato nell’infanzia, fu lungo e travagliato. Un suo amico, Ramón José Cárcano, testimoniò di averlo spesso udito esprimere dubbi e incertezze sul suo diventare sacerdote. Alla fine, José Gabriel entrò nel collegio seminario «Nuestra Señora de Loreto» a Cordoba il 5 marzo 1856, a sedici anni. Il 4 novembre 1866, fu ordinato sacerdote dal vescovo José Vicente Ramírez de Arellano.

Da novello sacerdote, José Gabriel fu impegnato su tre fronti:

  • fu collaboratore pastorale presso la cattedrale di Córdoba;
  • fu instancabilmente attivo nel soccorso agli ammalati e nell’assistenza ai moribondi quando nel 1867 scoppiò nella provincia di Córdoba, come nella capitale Buenos Aires, un’epidemia di colera;
  • servì come prefetto agli studi del seminario maggiore avendo ottenuto nel 1869 il titolo di maestro in filosofia presso l’Università di Córdoba.

Nel novembre 1869, fu destinato alla parrocchia di San Alberto di Villa del Tránsito. Qui si dedicò anima e corpo all’evangelizzazione della popolazione della vasta zona, alla cura degli infermi e anche all’organizzazione della società civile, promuovendo la costruzione di strade, ponti in pietra e persino una linea ferroviaria, tutto per ottenere dei collegamenti più rapidi con la città capoluogo di Córdoba e non lasciare nell’isolamento la popolazione di cui si prendeva cura.

Dicono che la tua morte fu causata dalla lebbra presa visitando i lebbrosi, ma il tuo servizio di sacerdote era già iniziato mentre era in corso un’altra grave epidemia.

Proprio così. Nel 1867, l’epidemia di colera aveva devastato la città di Córdoba colpendo oltre 4mila persone. Pensai che fosse naturale per me, come sacerdote, andare di casa in casa consolando e sostenendo le famiglie, assistendo nelle loro necessità materiali e spirituali gli ammalati, e dando una sepoltura cristiana alle vittime dell’epidemia.

Due anni dopo, era il 18 novembre 1869, fosti incaricato della cura d’anime in una parrocchia nel cuore della pampa.

Era la parrocchia di San Alberto di Villa del Tránsito. Vi giunsi da Córdoba dopo tre giorni di viaggio in sella alla mia mula malacara (faccia brutta). San Alberto era una parrocchia di poco più di diecimila anime, che si estendeva su un’area di oltre 4mila chilometri quadrati, popolata da gauchos, ovvero i cow boy dell’America del Sud, che erano addetti alle grandi mandrie di bovini e ovini loro affidati, sia nella pampa che sulle montagne, da semplici contadini attaccati alla loro terra e anche infestata da bande di briganti. Le comunicazioni erano molto difficili, soprattutto a causa della mancanza di strade percorribili tutto l’anno e alla presenza di ostacoli naturali come le catene montuose delle Sierras Grandes.

Un anno dopo il tuo arrivo, accompagnavi già uomini e donne a Córdoba per far compiere loro gli Esercizi spirituali secondo il metodo di Sant’Ignazio.

Una volta arrivato, la prima cosa che feci fu di dedicarmi anima e corpo alla gente, vivendo come loro e stando vicino a loro in ogni modo. Anche il mio modo di vestire si adattava all’ambiente. Mi vestivo come un gaucho con un poncho sulle spalle che copriva la talare, stretta in vita da una cintura di cuoio. In testa avevo un cappello dalle ampie falde; in mano il libro di preghiere e il messale, tenuti insieme con un nastro rosso per non perderli durante i viaggi.

Sigaretta in bocca, usavo un linguaggio semplice e diretto, molto colloquiale, e a volte forte, per farmi comprendere da gente analfabeta che parlava solo il dialetto. Mi chiamavano il cura gaucho perché sapevo cavalcare e domare muli e cavalli come loro. Così visitai tutte le famiglie e davo una mano a tutti, sia dal punto di vista materiale che spirituale. Passavo ore a confessare, e i miei preferiti erano i poveri, perché «Dio è dappertutto, però è più vicino ai poveri che ai ricchi. È come i pidocchi». I prediletti dei pidocchi sono proprio i più miseri, gli indigenti, quelli che non si lavano, né si vestono bene e non hanno cibo a sufficienza.

Oltre alla povertà materiale c’era ovviamente tanta povertà spirituale.

Per questo mi impegnavo molto nella predicazione attraverso visite nelle case, anche quelle più lontane. Mi fermavo anche due giorni in una famiglia, radunando amici e vicini, per avere tempo per confessioni, catechesi e messa. Cercavo di farmi invitare nella casa della «persona più condannata, più ubriacona e ladrona della zona, e che quindi avvisasse i suoi amici. In questo modo sapevo che quella gente sarebbe venuta ad ascoltarmi. Se fossi invece andato da una buona famiglia, quei furbacchioni non si sarebbero avvicinati. E là dicevo solo che volevo fare il loro bene a mie spese e che volevo insegnar loro il modo di salvarsi e qui tiravo fuori il Santo Cristo invitandoli agli Esercizi spirituali».

Esercizi spirituali? Ma non sono cose da preti, frati e suore?

Gli Esercizi, ispirati a sant’Ignazio di Loyola, «sono una via e un metodo particolarmente prezioso per cercare e trovare Dio, in noi, attorno a noi e in ogni cosa, per conoscere la sua volontà e metterla in pratica», mettendo ordine nella propria vita. Per chi accettava la proposta, organizzavo carovane per raggiungere Córdoba. Tali carovane superavano a volte le cinquanta persone, e d’inverno erano spesso sorprese da tormente di neve. Dopo le asperità del viaggio e grazie al clima di amicizia che si creava fra loro in quei giorni di ritiro, molti decidevano di cambiar vita.

Dato che il viaggio era lungo e difficile, pensasti di fondare una casa per Esercizi spirituali a Villa del Tránsito, la cui costruzione, avvenuta con la collaborazione attiva dei tuoi parrocchiani, durò dal 1875 al 1877.

Vero, e a quella casa fece seguito, nel 1880, una scuola per le bambine, perché non sopportavo l’idea che il mondo delle ragazze adolescenti fosse tagliato fuori dal progresso che stava arrivando anche nel cuore profondo dell’Argentina.

Spronasti la gente anche a costruire nuove strade, ponti in muratura, uffici postali e persino una ferrovia, ma lo sforzo maggiore lo dedicasti alle scuole rurali. Migliorando le possibilità di comunicazione e accrescendo la loro cultura aumentavi il benessere comune.

Bisogna dire che lungo tutta la mia vita ho profuso instancabilmente il mio impegno civile e religioso per spingere i miei parrocchiani alla costruzione di infrastrutture per migliorare le comunicazioni e uscire dall’isolamento. Nelle località più isolate, soprattutto, stimolavo anche a far sorgere case di accoglienza per i poveri e gli infermi oltre a scuole rurali per i bambini e i ragazzi più bisognosi.

Nemmeno il freddo o la pioggia ti facevano desistere dal promuovere incontri di catechesi per la formazione del tuo popolo e portare I sacramenti agli ammalati.

«Altrimenti il diavolo mi ruba un’anima», ripetevo alla mia gente.

Un giorno però il vescovo ti volle con sé nella città di Córdoba e ti nominò canonico della cattedrale.

Nell’aprile del 1898 accettai di essere nominato canonico della cattedrale di Córdoba e lasciai quindi la parrocchia il 30 maggio. Lo feci solo per obbedienza e perché la mia salute non era molto buona, sperando di potermi curare meglio in città. Ma la città non era per me e il 25 agosto 1902 fui nuovamente nominato parroco a Villa del Tránsito, dove rientrai il 3 ottobre, rinunciando al canonicato.

Per quanto gratificante fosse il ruolo di canonico della cattedrale, sentivo sempre più impellente la necessità di stare vicino alla gente per alimentare in essa la speranza di un futuro migliore e vivere con dignità la sua esistenza, specialmente quella dei più poveri.

Rientrato a Villa, hai continuato a scegliere quelli che erano in condizioni più difficili, senza guardare a rischi personali.

La vita dei più poveri era più importante della mia. E i più poveri erano i lebbrosi. Sì, nella mia parrocchia c’erano anche lebbrosi che erano abbandonati da tutti, ma Dio non li aveva dimenticati. Per questo li visitavo regolarmente. Tra di loro c’era un lebbroso che aveva un brutto carattere, bestemmiava e nessuno voleva avvicinarsi a lui. Riuscii ad avvicinarlo e lo visitavo regolarmente: gli portavo da mangiare, lo pulivo e bevevo il mate con lui. Era il mio modo per dimostrargli quanto valesse agli occhi di Dio.

Bevendo il mate con lui ti sei preso la lebbra.

Sì, visitando i lebbrosi sono diventato anch’io lebbroso. Ho dovuto lasciare la parrocchia e ritirarmi presso una mia nipote, perché ero diventato molto debole e quasi cieco. Io che una volta ero come un cavallo di razza, pieno di energia, dovevo farmi aiutare per le mie necessità e anche per celebrare la messa. «Ma è un grandissimo favore che mi ha fatto Dio Nostro Signore liberandomi completamente dalla vita attiva e lasciandomi solo con la vita passiva, voglio dire che Dio mi ha dato come occupazione… di pregare per gli uomini passati, per quelli presenti e per quelli che verranno fino alla fine del mondo».

Il «cura gaucho» morì, o meglio visse la sua Pasqua, a Villa del Tránsito il 26 gennaio 1914, tre mesi dopo aver scritto una lettera al suo vescovo, in cui diceva: «Ora ho tutto pronto per il viaggio» («Ahora tengo ya los aparejos listos pa’l viaje»).

È certo, fosse anche solo per la complicità della comune origine argentina, che papa Francesco ha sempre stimato molto «el cura gaucho». Anzi, c’è da scommettere che quando nella messa crismale del 2013 (la prima nella sua nuova veste di «vescovo di Roma») ha chiesto ai preti di essere pastori zelanti con «l’odore delle pecore», pensava a lui. Come del resto ha lasciato trasparire alla sua canonizzazione, quando lo ha definito: «Pastore che odorava di pecora, che si fece povero tra i poveri, che lottò sempre per stare vicino a Dio e alla gente, che fece e continua a fare tanto bene come carezza di Dio al nostro popolo sofferente».

Nel 1916, in suo onore, la cittadina argentina di Villa del Tránsito dove morì, assunse il nome di Villa Cura Brochero.

Dichiarato venerabile da papa Giovanni Paolo II nel 2004, beatificato da papa Francesco il 14 settembre 2013 dopo il riconoscimento di un miracolo a lui attribuito, è stato canonizzato il 16 ottobre 2016. I suoi resti mortali sono venerati nel santuario della Madonna del Transito, a Villa Cura Brochero, mentre la sua festa liturgica è stata fissata il 16 marzo.

Come ultima sottolineatura segnaliamo che cresce sempre più in Argentina, come in altre parti dell’America Latina una richiesta abbastanza originale: che il santo sacerdote José Gabriel del Rosario Brochero, sia proclamato «protettore per il turismo equestre e per i cavalieri e le amazzoni che lo praticano».

I missionari e missionarie della Consolata lo hanno scelto come loro protettore e modello per questo anno 2021.

Don Mario Bandera




Amante della vita

Dio Padre, amante del creato.

Figli di Sendong https://www.flickr.com/photos/90412460@N00/7119030455/in/photostream/

Prima di invitarmi nel cammino della storia, mi hai nutrito e indirizzato; prima di insegnarmi a perdonare, mi hai perdonato; prima di darmi il potere di liberare, mi hai liberato.

Prima di chiamarmi a essere pienamente me stesso, tu stesso ti sei fatto pienamente uomo; prima di invitarmi a donare la vita, tu stesso hai donato la tua; prima ancora di tenermi per mano di fronte alla morte, tu stesso l’hai abitata, riempita di te e oltrepassata.

Dio Figlio, amante della vita.

Hai plasmato il creato e vi hai acceso la vita con il tuo soffio. Appassionato di noi, sei diventato uomo perché noi diventassimo Dio, e hai offerto te stesso come nutrimento perché la vita non morisse. Ti sei dato come Spirito d’amore, e ti dai, linfa della tua Chiesa, perché l’uomo di ogni tempo e ogni terra t’incontri e faccia di te la sua dimora, come tu dimori in lui.

Dio Spirito, amante dell’amore.

In questo tempo di preghiera, digiuno e condivisione,
 buon cammino di rinascita (dall’alto) da amico
Luca Lorusso

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  • amico progetto: Ospedale di Neisu
  • amico Parole di corsa, con Luca Bovio
  • amico Missione e Missioni

 


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Immagini e storie

testo di Sante Altizio |


Dopo un anno di Covid, l’industria del cinema è in serio affanno, ma non il desiderio di produrlo e di fruirne. E di storie da scoprire e dalle quali lasciarsi coinvolgere ce ne sono molte.

Cinema, anno buio

Scrivere di cinema in piena emergenza sanitaria suona stonato, che più stonato non si può.

Il 2020, per chi ricava il proprio reddito da ciò che si proietta sul grande schermo, è stato un anno a dir poco terribile.

Dopo un inizio che faceva sperare in un anno da record, la chiusura forzata delle sale cine-matografiche, iniziata a marzo, e ancora in corso mentre scriviamo, ha sancito un crollo del 90% degli incassi rispetto al 2019. Un dato empirico su tutti: il profilo twitter di Cinetel, che monitora il box office italiano, ha cinguettato l’ultima volta il 9 marzo 2020 così: «05/03-08/03 -95,41% vs stesso weekend 2019. Dal 1° gennaio +5,43% rispetto anno precedente».

È trascorso un anno da allora, e oggi siamo alle macerie per esercenti, attori, sceneggiatori, registi, case di produzione, distributori.

Se poi leggiamo questi numeri da Torino, dove vivo, tutto assume il tono del grottesco.

Per ricordare il ventennale del Museo del Cinema alla Mole Antonelliana, e la nascita della Film Commission Torino Piemonte, la capitale dei Savoia, avrebbe dovuto celebrare la settima arte con «Torino, città del cinema 2020». Un anno di eventi già programmati.

In giro ci sono ancora dei manifesti affissi e dimenticati.

Uno scenario apocalittico.

Botox

Eppure qualcosa si è mosso, e qualcosa vale la pena segnalare come segno di speranza per il futuro prossimo del cinema.

Prendiamo il Torino Film Festival (Tff), per giocare ancora in casa. Dal 20 al 28 novembre si è celebrata la sua edizione numero trentotto. Ovviamente in streaming, ed è andata benissimo.

Oltre 18mila biglietti venduti e 133 film in programma. Incasso superiore ai 100mila euro.

Insomma: la voglia di cinema è immune al virus. C’è luce in fondo al tunnel.

Al Tff, che rimane una delle più importanti vetrine del cinema indipendente d’Europa, ha vinto Kaveh Mazaheri, un giovane regista iraniano, al suo esordio su palcoscenici importanti.

Il suo film si intitola Botox, è una storia familiare a tinte thriller. Per la critica, ci troviamo di fronte a un talento degno dei Fratelli Coen. Per alcuni, e credo con ragione, Botox è un Fargo, girato tra le fredde montagne iraniane.

Il cinema iraniano non lo si scopre oggi, ma con Botox arriva l’ennesima conferma: là dove la vita è più difficile, la libertà in pericolo, l’espressione artistica repressa, nasce il cinema migliore.

Il sito specializzato MyMovies segnala che il film di Mazaheri non è ancora disponibile in streaming, ma lo sarà presto. Di sale, ovviamente, non si parla.

Cholitas

Rimanendo in ambito streaming, va segnalata la nascita di una piattaforma cinematografica totalmente gratuita, amerigofilm.it. Si tratta di uno spin off del Nuovi mondi film festival che da dieci anni si tiene nel piccolo comune montano di Valloriate (Cn), nell’alta Valle Stura, a due passi dal confine francese.

Il Nuovi mondi, che passa per essere il più piccolo festival di cinema di montagna del globo, è diventato un appuntamento imperdibile per i veri cinefili.

Il patrimonio che negli anni il festival ha accumulato grazie al concorso, è stato pubblicato su amerigofilm.it e offerto gratuitamente al pubblico.

Il nome Amerigo non è una scelta casuale: Amerigo Vespucci, navigatore, esploratore, cartografo, cinque secoli fa, fu il primo a rendersi conto che aveva di fronte a sé il nuovo mondo. «Visto il momento così particolare che stiamo vivendo – afferma Fabio Gianotti, direttore del festival – abbiamo pensato di condividere con il nostro pubblico, ma non solo, il nostro viaggio alla scoperta di mondi nuovi. Oggi, crediamo, sia una vera priorità. Il mondo che abbiamo conosciuto fino al marzo scorso è cambiato profondamente, e non è ancora chiaro cosa ci aspetta domani».

L’ultima edizione del festival si è tenuta a fine settembre, in presenza, nella finestra estiva che ci ha illuso che il peggio fosse passato. Ha vinto, quasi a furor di popolo, Cholitas, degli spagnoli Pablo Iraburu, Jaime Murciego. Il film strappa lacrime e sorrisi a ripetizione. È la storia di cinque donne indigene boliviane che decidono, a discapito della tradizione, dei mariti, di ciò che può dire la gente, di scalare l’Aconcagua, poco meno di 7000 m, la vetta più alta delle Ande, situata in Argentina. Lo decidono e lo fanno. Parliamo di una storia vera, di un film documentario di grande qualità, che ha vinto diversi premi in pochi mesi.

Las Cholitas sono diventate un caso e ora sono diventate un’icona per generazioni di donne andine. Ognuno ha gli/le influencer che si merita.

Tra qualche settimana potremo vedere Cholitas gratuitamente su amerigofilm.it.

Radici e le migrazioni

Chiudiamo con uno sguardo al piccolo schermo e alla tv generalista (sempre più assediata dalle piattaforme on demand). Su Rai3 dal 2011, la domenica, all’ora di pranzo, andava in onda Radici. L’altra faccia dell’immigrazione.

Davide Demichelis, autore e conduttore di valore, ripercorre a ritroso il viaggio che alcuni migranti, donne e uomini residenti in Italia, hanno fatto per arrivare nel nostro paese. Lo percorre assieme a loro, verso le loro radici, per scoprire insieme cosa si sono lasciati alle spalle.

La media di spettatori sfiora il 4% di share, parliamo di circa 700mila persone che, seguendo il programma, dimostrano interesse verso un tema nodale della nostra contemporaneità. Eppure, dal 2018 la produzione di nuove puntate si è interrotta e da domenica 24 gennaio anche la messa in onda delle repliche è stata stoppata. Oggi si possono guardare tutte le stagioni dal 2011 al 2018 su Raiplay, ma cosa aspetta la Rai a produrre nuove puntate?

Sante Altizio




Sommario MC marzo 2021


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La cooperazione Usa dopo 4 anni di Trump


La cooperazione statunitense è uscita non troppo ammaccata dai quattro anni di governo di Donald Trump, nonostante egli abbia più volte tentato di ridurre i fondi per l’aiuto allo sviluppo o di deviarli verso i paesi amici. Ma il disinteresse del presidente uscente per il multilateralismo si è tradotto nel ritiro degli Stati Uniti da diversi accordi, trattati e agenzie Onu, aprendo numerosi spazi proprio alla potenza mondiale che Trump ha più duramente contrastato: la Cina.

Secondo i dati preliminari diffusi dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) nella primavera di quest’anno, gli Stati Uniti si sono confermati anche nel 2019 il massimo donatore mondiale di aiuto pubblico allo sviluppo, con 34,6 miliardi di dollari@.

Per sapere se l’aiuto statunitense si è mantenuto a questo livello anche nel 2020 occorrerà attendere i dati Ocse che arriveranno in primavera. Nel frattempo, però, ci si può comunque fare un’idea guardando a quanto ammontava l’aiuto all’estero (foreign aid) nel bilancio statunitense del 2020 e, per il 2021, che cosa prevedono le leggi di stanziamento di Camera e Senato.

Occorre tenere conto che l’aiuto pubblico allo sviluppo di cui parla l’Ocse è quello verso i paesi a basso e medio reddito, mentre il foreign aid statunitense comprende anche gli aiuti per i paesi ad alto reddito, come Israele, il Canada o gli stati europei@, e l’assistenza militare, cioè le operazioni di peacekeeping e le sovvenzioni che gli Usa forniscono ai paesi amici e alleati per permettere loro di procurarsi equipaggiamento americano e addestramento.

Bisogna ricordare inoltre che il processo di approvazione del bilancio negli Usa comincia con una proposta del presidente, presentata di solito il primo lunedì di febbraio, e prosegue con la discussione e modifica di quella proposta da parte di Camera dei rappresentanti e Senato, che decidono le varie assegnazioni di fondi dopo una serie di udienze con i responsabili delle varie agenzie federali che li gestiranno.

Le due Camere unificano poi le proposte che ciascuna di esse ha ottenuto modificando quella del presidente e votano il documento finale, che diventa la legge di bilancio definitiva, da firmare entro il 30 settembre di ogni anno, perché l’anno fiscale negli Stati Uniti va dal 1° ottobre al 30 settembre successivo@.

2011 Getty Images

Tagli evitati dal Congresso

Per il 2020 Trump ha proposto tagli all’aiuto intorno al 21%@ e per il 2021 del 24%@. Per il 2018, ne avevamo parlato in un precedente articolo@, la riduzione richiesta dal presidente era stata intorno al 28% e di due punti più alta per il 2019. Il Congresso, con scelte sostenute sia dai democratici che dai repubblicani, ha sempre ridimensionato parecchio le proposte del presidente e ha mantenuto stabile il volume dei finanziamenti@ sia per il Dipartimento di Stato che per l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale, Usaid, le due entità che gestiscono il grosso della cooperazione internazionale Usa@.

Un esempio piuttosto chiaro di questo scarso successo dell’amministrazione uscente nell’ottenere i tagli che desiderava è dato proprio dai fondi gestiti dall’Agenzia. Nel 2017 una delle ipotesi al vaglio del governo era quella di fondere Dipartimento di Stato e Usaid, tagliando anche un terzo dei fondi al primo e il 40% alla seconda. Il piano di fusione però è stato rapidamente abbandonato e le risorse di Usaid hanno continuato a crescere in modo piuttosto costante dai 17,54 miliardi di dollari del 2014 (quando era presidente Barack Obama) ai 20,67 miliardi del 2019@.

REUTERS/Carlos Garcia Rawlins

Che cosa è cambiato nella cooperazione USA

Se Usaid non si è vista tagliare i fondi, ha però subito una riorganizzazione, che era peraltro auspicata da più parti e che è stata bene accolta da molti analisti statunitensi. Di questa ristrutturazione fa parte, ad esempio, la scelta di unificare l’Ufficio per l’assistenza nei disastri all’estero con l’Ufficio Food for Peace, creando un nuovo Ufficio per l’assistenza umanitaria guidato da un funzionario di livello più alto@.

Un altro elemento della riorganizzazione riguarda il metodo di valutazione dei risultati, che si concentra ora di più sull’impatto, cioè sui reali cambiamenti che l’aiuto ha prodotto, e meno sulla performance, cioè sul verificare che le attività previste nei programmi di Usaid siano state svolte e completate come previsto@.

Al di là di Usaid, un altro cambiamento significativo riguarda le priorità che il governo di Donald Trump ha impresso, o tentato di imprimere, all’aiuto allo sviluppo. L’amministrazione, si legge nella scheda sugli Usa di donortracker@, sito di approfondimento sui temi dello sviluppo, vincola fortemente l’assistenza allo sviluppo alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti e alla crescita dell’economia.

Le priorità dell’amministrazione Trump sono state lo sviluppo economico, in particolare delle donne, e la finanza per lo sviluppo, cioè l’uso di risorse pubbliche per stimolare investimenti del settore privato in paesi a basso e medio reddito, dove il contesto politico e commerciale presenta troppi rischi per attrarre spontaneamente capitali privati. Per rafforzare la finanza per lo sviluppo, l’amministrazione Trump ha creato un ente ad hoc, la Development Finance Corporation, altra scelta accolta positivamente dagli esperti del settore.

Viceversa, i finanziamenti per la salute globale sono stati oggetto di tagli significativi nelle proposte di bilancio del presidente.

Donne Maasai aiutate da Usaid per un programma di alfabetizzazione

Visione vaga e conflittuale

Secondo un’analisi di Michael Igoe@ pubblicata sul sito Devex, è abbastanza raro che un presidente americano metta la cooperazione fra le massime priorità.

Trump, però, non si è limitato a ritenere poco rilevante lo sviluppo: se ne è completamente disinteressato, a meno che un particolare tema non fosse caro a qualcuno della sua cerchia ristretta. È il caso dell’Iniziativa per lo Sviluppo globale e la prosperità per le donne, voluta dalla figlia del presidente, Ivanka: un programma che diversi analisti hanno voluto interpretare come una specie di promozione del «marchio Ivanka», con la sua attenzione verso l’imprenditoria femminile e l’emancipazione delle donne, ma che ha anche ottenuto giudizi positivi fra i sostenitori della cooperazione.

Del resto, suggerisce l’articolo su Devex, un po’ di personalismo è fisiologico e prescinde dal colore dell’amministrazione: Raj Shah, direttore di Usaid durante l’amministrazione Obama, aveva un passato nella Bill and Melinda Gates Foundation come esperto di agricoltura e, da direttore dell’agenzia, ha promosso proprio iniziative di sviluppo agricolo come Feed the Future@.

A parte le iniziative caldeggiate dai suoi più stretti collaboratori, osserva il funzionario di area repubblicana Andrew Natsios, che aveva diretto Usaid durante la presidenza di George W. Bush, se Trump ha usato l’aiuto lo ha usato come strumento diplomatico punitivo: ad esempio, il presidente ha deciso di tagliare gli aiuti all’America Centrale perché riteneva che i governi della regione non stessero facendo abbastanza per fermare la migrazione, o ha ridotto i fondi per la Cisgiordania e Gaza per forzarle a partecipare ai negoziati di pace.

La filosofia di Trump sullo sviluppo «è caratterizzata dalla mancanza di una filosofia che vada oltre la competizione e la disgregazione», ha detto a Michael Igoe un ex funzionario dell’amministrazione Trump che ha chiesto di restare anonimo. «Non credo che il presidente entri nei dettagli della governance. […] Forse sa vagamente cosa sia Usaid, ma non credo che ne sappia molto, né credo che gli importi granché, francamente. Non fa parte della sua agenda politica».

Secondo Natsios, questa percezione approssimativa dell’aiuto e dello sviluppo è a sua volta la conseguenza di una visione della politica internazionale che si concentra solo sullo scontro fra superpotenze – con la Cina come principale avversario – e che non vede quanto sia centrale il mondo in via di sviluppo nell’equilibrio di potenza. «Credo che specialmente in Africa questo sia un grosso fallimento», aggiunge Natsios.

Il ritiro da trattati e agenzie Onu

Il disinteresse per lo sviluppo che Donald Trump ha mostrato si estende anche al multilateralismo, verso il quale il presidente ha mostrato aperta ostilità fino al punto di ritirare gli Stati Uniti da diversi trattati o organizzazioni internazionali.

Lo scorso luglio l’amministrazione aveva notificato alle Nazioni unite e al Congresso statunitense l’avvio della procedura di uscita dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms): l’uscita diventerebbe effettiva nel luglio di quest’anno (2021), ma il presidente eletto Joe Biden ha immediatamente dichiarato di volerla revocare il primo giorno del suo mandato@.

Il presidente uscente ha motivato la scelta di abbandonare l’Oms accusando quest’ultima di avere grosse responsabilità nella diffusione su tutto il pianeta della pandemia da coronavirus e di essere troppo dipendente dalla Cina@.

Oltre che dall’Oms, Trump ha deciso nel 2017 di uscire dall’accordo di Parigi sul clima – il ritiro è diventato effettivo il 4 novembre scorso, il giorno successivo alle elezioni vinte da Joe Biden – e dal trattato Inf (Intermediate-range nuclear forces treaty) con la Russia per la messa al bando dei missili nucleari a medio raggio, accusando Mosca di averlo violato.

Gli Usa hanno poi lasciato l’organizzazione delle Nazioni unite per l’istruzione, la scienza e la cultura (Unesco): non pagavano le quote di finanziamento dal 2011, quando era in corso il primo mandato di Obama, perché l’Unesco aveva accettato la Palestina fra i propri stati membri ed esiste una legge negli Stati Uniti che proibisce di finanziare organizzazioni che ammettano gruppi «privi degli attributi internazionalmente riconosciuti di uno stato»@.

L’ultimo ritiro in ordine di tempo è stato quello, dello scorso novembre, dal Trattato sui cieli aperti (Open Skies), che cercava di aumentare la trasparenza e la fiducia fra i 34 paesi membri permettendo a ciascuno di essi di raccogliere informazioni sulle installazioni e le attività militari degli altri, effettuando sorvoli con aerei senza armi dotati di telecamere e altri sensori. Anche in questo caso, il presidente ha giustificato l’abbandono del Trattato con le violazioni da parte della Russia, che ha rifiutato agli altri stati membri il permesso di sorvolo su alcune aree come quelle di Kaliningrad e Mosca e sul confine con le regioni georgiane dell’Ossezia e dell’Abkhazia@.

L’abbandono di tutti questi accordi e istituzioni ha lasciato ampi spazi proprio all’avversario che gli Usa di Donald Trump più si sono sforzati di contrastare, cioè la Cina, che ha collocato suoi uomini@ alla testa di quattro delle principali 15 agenzie Onu. Hanno infatti un direttore generale cinese l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), quella per lo sviluppo industriale (Unido), quella per l’aviazione civile (Icao) e l’Unione internazionale per le Telecomunicazioni (Itu).

Chiara Giovetti
[fine prima puntata]




Esodo: Una storia di ieri e di oggi

Un viaggio nel libro dell’Esodo con Angelo Fracchia |


Dopo due anni passati in compagnia degli Atti degli Apostoli, a scoprire come Luca traccia gli inizi e i fondamenti della Chiesa, dal direttore della rivista arriva la sfida a confrontarsi con un testo altrettanto fondamentale, non solo per i cristiani. Ci spostiamo nell’Antico Testamento dove si trova il libro dell’Esodo che ci terrà impegnati per un altro biennio.

Libri di vita, non di leggi

Nel comune sentire di tanti che non conoscono la Bibbia (però anche, ahimè, di tanti che dovrebbero conoscerla!), quel volumone, composto da ben 73 libri, contiene molti obblighi e divieti che ciascuno di noi dovrebbe rispettare per piacere a Dio (e quindi da Lui essere trattati meglio di chi invece non li rispetta). In realtà, le norme morali, che pure ci sono, ammontano solo a circa un ottavo dei versetti biblici, e spesso sono legate alle circostanze specifiche nelle quali sono state scritte, quindi non sono tutte applicabili universalmente e per sempre.

Nel libro sacro, piuttosto, si trovano tante testimonianze su come persone diverse, in contesti e tempi diversi, hanno vissuto l’esperienza dell’incontro con Dio e su quali sono state le sue conseguenze. Questi incontri e le loro conseguenze, a volte sono espressi nella Bibbia in forma di norme e leggi, ma più spesso in forma di racconti, inni, poesie e tanto altro. Diventa allora più facile capire perché alcune di quelle esperienze «ci parlano» meglio e più in profondità di altre, le quali invece restano più mute e lontane dalla nostra sensibilità.

Diventa allora più semplice capire e accettare il fatto che nella Bibbia ci sono alcuni testi che contano di più, sono più importanti e più centrali. E non c’è nulla di blasfemo o irrispettoso in questa constatazione.

È peraltro una valutazione naturale per i cristiani, almeno per il Nuovo Testamento (considerato più importante dell’Antico): i Vangeli sono più importanti delle pur preziose lettere di Paolo, e dentro i Vangeli il racconto della passione e risurrezione è assolutamente decisivo. Ed è significativo notare che i capitoli più importanti del Nuovo Testamento non ci offrano indicazioni su come comportarci, ma raccontino «soltanto» ciò che è successo a Gesù.

Al cuore dell’Antico Testamento

Un discorso simile si può fare per l’Antico Testamento, che noi cristiani rischiamo di trattare come se fosse tutto uguale. Nella tradizione ebraica il fondamento della scrittura è nella Torà, quella che in greco si chiama Pentateuco, ossia i primi cinque libri della Bibbia. Tra questi, il cuore è costituito dal libro dell’Esodo, che narra l’uscita dall’Egitto del popolo d’Israele, che così si scopre popolo, sulle orme del suo Dio.

Chi ha narrato al cinema l’impresa di Mosè, in pieno stile hollywoodiano, ha pensato che la storia potesse finire quando il popolo raggiunge l’altro lato del Mar Rosso e l’esercito del faraone annega nelle acque: un vero «lieto fine» secondo tutti i criteri cinematografici. Solo che la storia raccontata nel libro dell’Esodo, a quel punto, non è arrivata neppure a metà.

Il suo percorso è infatti molto più intelligente e profondo di tante sue trattazioni romanzate, e presenta anche un itinerario ideale del cammino di incontro con Dio: il credente che lo leggerà, attraverserà, in un certo modo, le tappe vissute dal popolo. Il percorso tracciato dall’Esodo rappresenta l’evoluzione che compie la fede nel suo crescere e maturare.

Gli antichi non erano abituati a scrivere trattati di psicologia o teologia, non redigevano saggi, ma raccontavano storie, dentro le quali mettevano in evidenza gli elementi importanti, ben visibili per chi era abituato ad ascoltarle.

Noi, ormai poco avvezzi a presentazioni di questo tipo, possiamo ritornare bambini (perché tramite le favole i bambini sono abituati a questo stile), oppure passare decenni a meditare questi testi, come facevano i monaci (ma di solito così tanto tempo non lo abbiamo, o non riusciamo a prendercelo), oppure, infine, possiamo farcelo spiegare un poco. Esattamente ciò che proveremo a fare noi.

Quale storicità?

Noi adulti ci mettiamo davanti al racconto dell’Esodo chiedendoci subito quale affidabilità storica abbiano le sue pagine. Al riguardo è stato scritto tantissimo e, di tanto in tanto, accadrà che anche noi faremo qualche cenno in merito.

Per ora ci basti ciò che oggi viene ritenuto più probabile (non sicuro!) da tanti.

È verosimile che un piccolo gruppo di persone abbia vissuto un’esperienza simile a quella narrata nel libro: la fuga da un regime poderoso e oppressivo, seguendo non la più normale «via del mare» nel Nord del Sinai, ma quella, meno presidiata, che passava attraverso le paludi del Mar Rosso settentrionale per avventurarsi poi attraverso le oasi (rare e magre) del Sinai meridionale.

Queste persone avevano percepito di essere state salvate da un Dio che le aveva scelte senza loro merito, se non quello di aver accolto una chiamata che chiedeva loro di seguirla senza avere certezze.

Una volta approdati in Palestina, questi fuggitivi liberati si sono legati a gruppi umani già presenti sul territorio, i quali, sentendo narrare la loro vicenda di fiducia in un Dio che aveva scelto gli oppressi e non i grandi della storia, hanno riconosciuto in quel Dio lo stesso Dio che anche loro adoravano. E hanno pensato che quella vicenda di fiducia e rischio, interpretasse bene anche la loro esistenza di contadini o di pastori (per il resto avversari). Poi, col tempo, le «tre storie» (dei fuggiaschi, dei contadini e dei pastori) hanno finito con il confluire in una storia sola.

Un approccio diverso

L’effettiva storicità degli eventi, che giustamente ci preoccupa quando parliamo di Gesù, è però in questo caso meno vincolante.

Noi oggi abbiamo un approccio alla «realtà storica» che è molto diverso da quello dell’antichità. Noi troviamo citate con le virgolette, nei nostri giornali, solo le parole esatte che sono state pronunciate. Può poi accadere che quelle parole vengano tolte dal loro contesto, che aiuterebbe a capirle bene (basti pensare alle citazioni di frasi di papa Francesco, che in pubblicazioni o film vengono estrapolate dal contesto per fargli dire quello che lui effettivamente non ha mai detto), ma se sono state dette così, ci sentiamo autorizzati a riportarle così.

L’antichità ha un approccio diverso: conta il senso profondo degli eventi, e per farlo capire gli autori antichi a volte inventavano particolari o avvenimenti. Lo stesso Tucidide, storico greco e non semita, ritenuto modello di obiettività storica, afferma, nella «Guerra del Peloponneso», che metterà in bocca ai suoi personaggi storici anche ciò che era verosimile o magari solo opportuno che dicessero in quella situazione. E lo afferma nell’introduzione, dando quindi alle sue parole il valore di un principio di fondo della sua narrazione storica. Se le cose raccontate da Tucidide riguardo a un fatto storico interpretavano bene quel fatto, non importava che alcune cose fossero inventate, o supposte, restavano «vere».

Il principio di fondo di Tucidite vale anche per l’Esodo, che è sicuramente vero e storico, perché rispecchia in modo autentico la vita e la storia di tanti credenti nei secoli.

Sicuramente non riusciremo a precisare sotto quale faraone sia potuto avvenire l’Esodo (il testo non lo chiama mai per nome), né se davvero così tante persone abbiano potuto sopravvivere nel deserto per quaranta anni. Non lo sapremo mai perché per gli autori del libro questi due elementi, e anche altri che oggi per noi sono importanti, erano del tutto marginali.

Secondo la tradizione (che trae le proprie conclusioni a partire dalle scivolosissime cronologie bibliche) ci troveremmo intorno alla metà del XIII secolo a.C., ma neppure questo è sicuro. Il bello è proprio questo: che anche noi lo possiamo trascurare.

Il problema di partenza (Es 1,1-14)

Chi ha letto il libro della Genesi, o almeno i suoi ultimi capitoli, sa chi è Giuseppe, penultimo figlio del patriarca Giacobbe, che, con i suoi sogni, e la capacità di interpretarli, acquisisce un ruolo di primo piano nell’amministrazione egizia, tanto da poter accogliere i suoi fratelli e suo padre nella regione quando una carestia sparge la fame in tutta l’area. Ma è nella sorte delle cose umane di essere dimenticate, ed ecco che sorge in Egitto un faraone che non sa più chi sia stato Giuseppe (v. 8).

Il nuovo capo coglie solo il problema immediato, ossia che il popolo di Israele non è amalgamato con gli egizi ed è numeroso, tanto che, se l’Egitto fosse attaccato da nemici esterni, si potrebbe correre il rischio che si uniscano agli invasori (vv. 9-10). La paura del faraone sembra essere, soprattutto, quella della partenza degli ebrei, che si confermano, già solo per questo, oppressi.

Può darsi che si tratti soltanto di un trucco letterario per mettere in moto la trama, ma colpisce che il punto di partenza sembri essere la mancanza di memoria. Il faraone non conosce più Giuseppe, ma neppure il popolo di Israele pare essere particolarmente capace di ricordare: non richiama il proprio antenato, non invoca Dio, non tenta neppure di riprendere la strada del deserto. Semplicemente, si è rassegnato a una condizione di schiavitù.

A metà del libro, nella notte cruciale di Pasqua, molto si insisterà su questo invito a ricordare. Chi dimentica da dove viene, non sa dove potrebbe andare e si accontenta di restare schiavo. Quel Dio che aveva stretto un’alleanza con gli antenati non viene neppure invocato; sarà però lui stesso a mettersi in movimento, sebbene il suo popolo non si ricordi di lui.

Non si tratta in realtà neppure di un vero popolo: sono persone, separate tra di loro. È solo lo sguardo impaurito del faraone a renderlo un popolo. Quello sguardo, e poi quello compassionevole e protettivo di Dio.

Le due città

Senza entrare ancora nella questione di quando effettivamente sia avvenuto l’Esodo e quando il libro sia stato compilato, per ora ricaviamo qualche suggestione interessante, anche se soltanto probabile e non sicura, dal nome delle due città egizie costruite con il lavoro degli ebrei (Es 1,11). Ramses era infatti rimasto nella memoria come un faraone importante e potente, anche molte generazioni dopo la sua scomparsa. Citarlo significava spostare in un passato lontano la vicenda.

Intorno al VII secolo a.C., l’antica città di Pi-Ramses (nome completo, preferito dalle iscrizioni egizie), disabitata da secoli, venne utilizzata come cava di pietre già lavorate per la costruzione di una nuova città magazzino a Nord Est del Delta. Questa nuova città si trovò quindi con tante iscrizioni che citavano l’antica Pi-Ramses.

Nella stessa zona, venne allagata la città di Pitom, che fu quindi spostata e ricostruita altrove con il lavoro di braccianti non egizi. Che questi manovali non egizi potessero essere anche ebrei è molto probabile (2 Re 23,33-35 lascia intendere che diversi ebrei erano stati sequestrati come prigionieri di guerra proprio in quel periodo). Peraltro, la parola utilizzata per definire queste due «città-magazzino» (Es 1,11) è un prestito dalla lingua egiziana entrato nel lessico ebraico non prima del VII secolo a.C. Sembra insomma che l’autore dell’Esodo strizzi l’occhio al lettore, lasciandogli intendere che ciò che racconta riguarda vicende antiche, ma è rilevante anche l’oggi.

Fare memoria

Questi particolari potrebbero sembrarci (e in effetti sono) minimi, ma rivelano un atteggiamento che tornerà spesso in Esodo: ciò che ha riguardato la generazione che dall’Egitto è uscita, non interessa solo loro quella generazione, ma tutti coloro che in quella storia si ritroveranno. Non è un caso che il rito ebraico di Pasqua fa ringraziare «per quello che il Signore mi ha fatto quando mi ha liberato dalla schiavitù egiziana».

È questo il senso del memoriale, su cui tanto si concentrerà Esodo e quindi anche noi: non il ricordo nostalgico di un ottantenne che sa ancora i nomi di tutti i suoi compagni della prima elementare, ma l’ottantenne che, insieme alla moglie al suo fianco, richiama il giorno di sessanta anni prima in cui si sono incontrati.

Angelo Fracchia
(Esodo 01 – continua)

disegno orginale di Marco Francescato




Brevetti farmaceutici:

soldi pubblici, profitti privati

testo di Francesco Gesualdi |


Nati per proteggere i diritti degli inventori, i brevetti sono particolarmente odiosi quando riguardano i farmaci. La ricerca costa, ma è anche vero che spesso essa viene finanziata con denaro pubblico, come sta avvenendo per i vaccini contro il Covid-19.

La pandemia da Covid ha riacceso la discussione attorno ai brevetti farmaceutici, cosa che succede ogni volta che scoppia un’emergenza sanitaria. Successe nel 1997 quando ci fu l’emergenza Aids, nel 2013 quando scoppiò l’infezione da Ebola e succede oggi che siamo assediati dal Coronavirus.

Il brevetto è una protezione accordata dall’autorità pubblica agli inventori, per impedire che altri possano usare le loro invenzioni senza permesso e senza aver pagato un prezzo per il loro uso.

Si narra che il primo brevetto sia stato rilasciato in Inghilterra nel 1449 dal re Enrico IV a favore di tale John of Utynam, un produttore di vetro di origine fiamminga. L’attestato reale gli assicurava il diritto di produrre in esclusiva, per la durata di venti anni, il vetro speciale di sua invenzione. In quello stesso periodo, in tutta Europa la scienza muoveva i primi passi e le richieste di protezione si moltiplicarono. Fra il 1561 e il 1590 la regina Elisabetta I rilasciò una cinquantina di brevetti permettendo ai beneficiari di detenere il monopolio produttivo di prodotti come sapone, pellame, tessuti, metalli, carta. Ma la protezione non era gratuita e, pur di incassare, la Corona rilasciava brevetti anche a impostori che non avevano inventato proprio nulla di nuovo. Ne venne fuori un mezzo scandalo che, nel 1624, spinse il Parlamento inglese a mettere ordine nella materia emanando un’apposita legge sui brevetti. Nel 1790 fu la volta degli Stati Uniti e in breve di tutti gli altri paesi industrializzati che, a loro volta, si dotarono di una legislazione a tutela delle invenzioni. Ma le protezioni accordate avevano validità solo all’interno dei confini nazionali, per cui non scongiuravano il rischio che le invenzioni potessero essere copiate da soggetti esteri. Nel 1873 questa paura divenne così dilagante da mandare deserta la più importante fiera internazionale delle invenzioni che si teneva a Vienna. Tanto che nel 1883 i governi degli undici paesi più industrializzati si ritrovarono a Parigi con l’intento di formare un’area di protezione comune, all’interno della quale i brevetti rilasciati in un qualsiasi paese firmatario valessero anche negli altri. L’accordo, che prese il nome di Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale, prevedeva anche l’istituzione di un organismo di vigilanza denominato Birpi, Ufficio internazionale per la protezione intellettuale. Nel 1967 il Birpi venne soppresso e sostituito con la Wipo, Organizzazione mondiale per la protezione intellettuale, elevata addirittura al rango di Agenzia speciale delle Nazioni unite.

L’istituzione della Wipo fu il primo passo per estendere la protezione della proprietà intellettuale, ossia delle invenzioni e delle scoperte scientifiche, a livello mondiale. Fino ad allora tale problema non era sentito perché il mondo industrializzato era circoscritto a una manciata di paesi, collettivamente definiti Nord del mondo, che già avevano adottato regole comuni.

I brevetti ai tempi della globalizzazione

Col passare degli anni, altri paesi del cosiddetto Sud del mondo, in particolare Brasile, Argentina, India, Cina, Sudafrica, cominciarono a sviluppare il proprio apparato produttivo e fra le imprese del vecchio mondo industrializzato tornò la paura di essere derubate delle proprie invenzioni. Così sorse il problema di come obbligare anche i paesi del Sud ad adottare le stesse regole di protezione di proprietà intellettuale che il Nord applicava già da decenni. L’occasione si presentò a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, quando lo sviluppo dei trasporti e delle nuove tecnologie di comunicazione avevano intensificato gli interscambi planetari a tal punto che tutti i paesi si erano convinti della necessità di facilitare ulteriormente l’integrazione economica mondiale. Insomma tutti pensavano che fosse conveniente per ognuno aprirsi ai rapporti con gli altri, ma per riuscirci bisognava rendere i confini più porosi. Nasceva la globalizzazione che fondamentalmente chiedeva alle nazioni di tutto il mondo di ridurre al minimo i dazi doganali e di abbassare il più possibile le regole di carattere ambientale, sanitario, sociale, in modo da creare meno ostacoli possibile al fluire di merci, capitali e processi produttivi. In tutti gli ambiti fuorché uno: quello dei brevetti per i quali si chiedeva l’innalzamento di barriere protettive.

La costruzione di un mondo pensato più per merci, capitali e interessi industriali che per le persone, esigeva l’adozione di una serie di nuove regole che richiese un intero decennio di trattative internazionali sui temi più disparati. Fra essi quello relativo alla protezione della proprietà intellettuale per il quale venne costituito un apposito tavolo che, alla fine, partorì un accordo denominato Trips, Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale, richiamato come fonte giuridica. Detto accordo comparve in bella mostra fra i sei trattati posti a fondamento   della nuova architettura commerciale internazionale, supervisionata da un nuovo organismo che debuttò nel 1994, sotto il nome di Organizzazione mondiale del commercio (Omc, Wto per dirla all’inglese).

«La ricerca costa»

Nel Sud del mondo, uno degli ambiti dove più si sentirono gli effetti negativi del giro di vite operato sui brevetti, fu quello farmaceutico. Fino ad allora vi erano stati paesi, fra cui India, Brasile, perfino Thailandia, dove l’assenza di obblighi di licenza verso i soggetti esteri proprietari delle formule aveva permesso il fiorire di un’industria farmaceutica locale che produceva farmaci a prezzi molto più bassi di quelli commercializzati dalle imprese proprietarie dei brevetti. La spiegazione fornita dalle grandi case farmaceutiche a giustificazione degli alti prezzi di vendita applicati sui propri prodotti è che la ricerca costa, a volte anche molto, mentre il tempo a  disposizione per recuperare i soldi investiti non va oltre i venti anni. Periodo dopo il quale ogni formula può essere usata liberamente dando luogo ai così detti farmaci generici. Considerato l’alto tasso di segretezza che avvolge le imprese, i conti nelle loro tasche non si possono fare, ma un aspetto che le case farmaceutiche evitano sempre di raccontare è quanto vale la compartecipazione dei soggetti pubblici sotto forma di contributi in denaro o di pezzi di ricerca eseguiti nelle università pubbliche. A tale proposito ci viene in aiuto un’indagine Ocse, secondo la quale  la spesa complessiva per ricerca farmaceutica e sanitaria nei trenta paesi più industrializzati nel 2014 ammontava a 151 miliardi di euro, di cui 100 sostenuti dalle imprese e 51 dai governi. Venendo al presente, il solo governo degli Stati Uniti ha erogato circa 10 miliardi di dollari a fondo perduto a favore di sette imprese farmaceutiche impegnate nella messa a punto di vaccini anti-Covid. Ricevere soldi pubblici e poi imporre prezzi salati è però cosa indecente. Meglio sarebbe che la ricerca per la cura delle malattie fosse sostenuta interamente dagli istituti pubblici e messa a disposizione gratuitamente a tutti, salvo coprire le spese con l’innalzamento delle imposte sui redditi d’impresa. La trasformazione del sapere in bene comune è l’unico modo per sbarazzarsi dei brevetti che creano disuguaglianza e gettano nella disperazione i più poveri.

La battaglia del Sudafrica di Mandela

Il primo paese a portare l’attenzione su quanto i brevetti possano essere devastanti per le popolazioni dei paesi più poveri, fu il Sudafrica che nel 1997 si trovò a fronteggiare una grave crisi da Aids. Gli unici farmaci antiretrovirali contro l’Hiv circolanti nel paese erano quelli prodotti dalle grandi multinazionali detentrici delle formule, che sperimentavano quanto fosse più lucroso essere padroni del mercato piuttosto che concedere licenze. A rimetterci erano i malati che avrebbero dovuto lavorare un anno di fila per poter sostenere la cura di un solo mese. A quei prezzi, neppure il governo era in grado di procurarsi tutte le dosi che servivano per curare le centinaia di migliaia di malati presenti nel paese. Eppure, c’erano nazioni che non avendo ancora applicato il trattato sulla protezione della proprietà intellettuale producevano quegli stessi farmaci a costi molto più bassi.

Perciò Mandela, che all’epoca guidava il Sudafrica, autorizzò l’importazione parallela dei farmaci anti Hiv da paesi come l’India e il Brasile. La reazione delle case farmaceutiche fu immediata e, invocando la violazione di tutte le regole a protezione dei brevetti, dichiararono di voler dare battaglia in tutte le sedi possibili: dai tribunali locali al gran giurì dell’Organizzazione mondiale del commercio. Fortunatamente ci fu una grande sollevazione della società civile che provocò una tale indignazione a livello mondiale da indurre le multinazionali a ritirarsi da tutte le iniziative giudiziarie da loro avviate. Tuttavia, il caso aveva fatto scuola e vari paesi del Sud del mondo pretesero che l’Organizzazione mondiale del commercio dichiarasse nero su bianco che le emergenze sanitarie sono motivazioni sufficienti per sospendere le regole a protezione dei brevetti.

Emergenza Covid-19

Nel 2003 una nota del Consiglio generale dell’Omc precisava tre punti fondamentali. Primo: le regole sulla proprietà intellettuale non possono e non devono essere di impedimento alla tutela della salute pubblica. Secondo: in caso di bisogno, i paesi in emergenza possono autorizzare al proprio interno la produzione dei farmaci necessari a fronteggiare la crisi, pur in assenza di licenza da parte dei detentori dei brevetti, purché venga pagato un indennizzo. Terzo: se nel paese in emergenza non esistono le condizioni industriali per produrre i farmaci che servono, essi possono essere importati dai paesi che, per le ragioni più varie, producono i farmaci senza licenza e, quindi, a basso prezzo.

Nonostante l’esistenza di tali salvaguardie, il 2 ottobre 2020 India e Sudafrica* si sono rivolti agli organi di governo dell’Omc per richiedere la momentanea sospensione del trattato sulla protezione della proprietà intellettuale sostenendo che è di ostacolo alla possibilità di procurarsi, con rapidità ed economicità, tutto ciò che serve per far fronte alla pandemia da Covid-19: dalle mascherine ai ventilatori, dai kit diagnostici ai farmaci antivirali, dai disinfettanti ai vaccini. Il 16 ottobre la richiesta è stata discussa all’interno del Consiglio di vigilanza del trattato, ma nessuna decisione è stata presa. Si è semplicemente preso atto che i paesi presenti erano divisi in tre gruppi: i più poveri favorevoli alla richiesta, quelli a reddito medio con richieste di chiarimenti e i più ricchi contrari. Segno di quanto sia ancora forte la sudditanza della politica nei confronti delle imprese. Una situazione che pone non solo problemi di etica, ma anche di democrazia.

 Francesco Gesualdi

Farmaci e vaccini: come ci si regolerà per il Covid-19? Foto Myriams Fotos – Pixabay.




Myanmar:

Lotta alla polio sui monti dei Chin

testo e foto di Dan Romeo | www.iviaggididan.it |


Era il febbraio del 2016 quando per la prima volta ho visitato il «Chin state», un piccolo stato che fa parte di quello che, con il dominio coloniale britannico, era chiamato la Birmania e poi, sotto la dittatura militare, è stato ribattezzato Myanmar.

Gli abitanti del Chin sono di origine sino-tibetana e occupano quella catena montuosa che copre approssimativamente la Birmania (oggi Myanmar) occidentale fino a Mizoram, nel Nord Est dell’India, e piccole parti del Bangladesh. Non costituiscono un unico gruppo, ma hanno tra di loro diverse etnie come Asho, Cho, Khumi, Kuki, Laimi, Lushai e Zomi, ciascuna con la propria lingua appartenente alla famiglia linguistica tibeto-birmana.

Per circa l’80% sono cristiani, mentre la popolazione rimanente è buddhista o animista. Il loro numero in Myanmar è incerto a causa dell’assenza di statistiche demografiche affidabili sin da prima della seconda guerra mondiale. Oggi si stima che ci siano circa mezzo milione di Chin nello stato omonimo e nel Sagaing, nel Nord Ovest del Myanmar.

Poveri e accoglienti

La maggior parte dei Chin vive in villaggi o piccolissime città. Le loro case sono tradizionalmente costruite in legno e appoggiate spesso in maniera precaria su pilastri consumati dal tempo; hanno tetti di paglia e pareti di bambù. Nonostante le loro condizioni di vita siano estreme, i Chin sono sempre disposti ad aprire le porte delle loro case con il sorriso per accogliere i rari stranieri che riescono a raggiungere i loro villaggi remoti. Hanno un desiderio insaziabile di conoscere e scoprire tutto ciò che sta al di là delle loro montagne.

Lo stato di Chin è una delle zone più povere del Myanmar. Più di sette persone su dieci sono sotto la soglia di povertà e circa l’80% delle famiglie vive in condizioni al limite della sopravvivenza e con carenza alimentare. Recenti statistiche stimano che un bambino su dieci muoia entro entro i cinque anni di vita, con un tasso di arresto della crescita infantile pari al 41% e con il 20% dei bambini sottopeso. Basti pensare che qui solo il 15% dei bambini è nato in una struttura sanitaria.

I bambini protagonisti

Nel 2016 Unicef Myanmar mi affidò l’incarico di documentare la campagna di vaccinazione contro la poliomielite appena lanciata. Il team sul campo mi informò della difficoltà del viaggio, soprattutto durante la stagione dei monsoni, quando interi versanti delle montagne franano a valle rendendo le strade impraticabili. Ma la proposta costituiva per me un’opportunità più forte di qualsiasi difficoltà. Mi ritrovai nella capitale dello stato del Chin, Hakha, dopo tre settimane di viaggio estenuante, prima in aereo e poi in auto su strade sterrate, spesso ridotte a pietraie, che si inerpicano sulle montagne al confine con l’India e il Bangladesh. Tracciati di terra di un giallo intenso su strapiombi mozzafiato, con pareti di roccia, spesso segnati da frane, contro le quali lungo tutto il percorso sono pronti scavatori e camion durante tutto l’anno.

Per due settimane sono poi passato di villaggio in villaggio, di casa in casa con gli operatori sanitari per sensibilizzare sui benefici della vaccinazione contro la poliomielite e somministrare i vaccini. Una campagna che ha cercato di colmare i ritardi decennali causati da strutture inadeguate e soprattutto da anni di guerra civile che hanno provocato la fuga e la migrazione di gran parte della popolazione.

in basso, in primo piano, la cattedrale di Hakha, la capitale del territorio Chin.

Il racconto di Eint

Particolarmente toccante per me fu la testimonianza di Eint, una mamma di sette figli, che con il suo ultimo nato appena vaccinato in braccio, mi raccontò che non avrebbe mai dimenticato quanto era accaduto un anno prima, nell’ottobre 2015, quando suo figlio di circa due anni era stato in condizioni fisiche precarie e, nonostante le medicine, aveva continuato ad avere una febbre persistente. «Un giorno, dopo aver partecipato a una festa nel villaggio dei miei genitori, tornati a casa, notai che mio figlio era febbricitante e cadeva a terra ogni volta che cercava di alzarsi».

Per questo Eint lo aveva portato d’urgenza in ospedale. Dopo la visita medica, «i medici mi hanno detto che era la poliomielite. È stato un momento molto duro e complicato», mi disse Eint. «Mi sentivo una mamma inutile».

Suo figlio era uno delle decine di migliaia di bambini che ogni anno contraggono l’infezione da virus della poliomielite, ma era stato salvato grazie alla prontezza della madre che lo ha portato all’ospedale ai primi sintomi.

La sfida

I servizi di immunizzazione, specialmente nelle aree difficili da raggiungere come lo stato del Chin, rappresenta una sfida per il sistema sanitario del Myanmar. Di conseguenza, i bambini sono meno protetti dai virus. Nei villaggi dove la maggioranza della popolazione è musulmana, ci sono anche barriere linguistiche e culturali che aumentando la distanza tra la comunità e il personale sanitario e i volontari.

La violenza intercomunitaria scoppiata nel 2012 nel vicino stato di Rakhine – dove vivono i Rohingya – ha complicato ulteriormente la situazione e, di conseguenza, i bambini di tutte le comunità corrono rischi maggiori.

Sono stato testimone di come l’Oms, insieme a Ong internazionali e al ministero della Salute del Myanmar, stia cercando di debellare la polio, sia con l’informazione e campagne di sensibilizzazione che con la vaccinazione sistematica in tutto il Myanmar e in particolare nelle aree più remote come Rakhine, Chin, Magway, Bago e Ayeyarwady. Le immagini di queste pagine cercano di documentare l’ambiente nel quale vive la minoranza cristiana Chin e la campagna di vaccinazione rivolta a salvare bambini sotto i cinque anni dalla polio.

Daniele Romeo
dan@dan.ph

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I Perdenti 58. Beato Carlo Acutis

L’Eucaristia «è la mia autostrada per il Cielo». Sono le parole semplici e significative di un adolescente, espresse nel linguaggio tipico dei giovani d’oggi. Quel ragazzo era Carlo Acutis.

Carlo nasce a Londra, dove i genitori si trovano temporaneamente per motivi di lavoro, il 3 maggio 1991, da Andrea Acutis, di una nota famiglia di Torino, e Antonia Salzano, una coppia di genitori dediti al lavoro e alla famiglia. Appena un mese dopo la nascita di Carlo, la famiglia si stabilisce, per motivi di lavoro del padre, a Milano dove il piccolo Carlo inizia a frequentare le scuole prima presso le Suore Marcelline e, poi, nel liceo classico «Leone XIII», diretto dai Gesuiti.

Curiosità viva

Fin da piccolo Carlo manifesta una caratteristica tipica del suo carattere: quella di avere una grande curiosità sul mondo che lo circonda e sul mistero della vita. È talmente curioso – specialmente sulle questioni religiose – che la mamma inizia a seguire un corso di teologia per riuscire a soddisfare le domande che il figlio, man mano che cresce, le pone. La sua curiosità si accompagna a un’intelligenza viva e propositiva: Carlo si appassiona al mondo del computer, lo studia, legge libri di ingegneria informatica e, quando riesce a carpire i segreti della rete, utilizza la sua conoscenza per aiutare i suoi amici, specialmente i più deboli. Prende a modello di vita alcuni giovani santi: Francisco e Jacinta Marto, i pastorelli di Fatima, Tarcisio, Luigi Gonzaga, Domenico Savio.

Anche al catechismo si distingue per la sua attenzione, per la capacità che ha di entrare nel mistero di Dio.

Amore all’Eucarestia

All’età di sette anni riceve la prima comunione: da allora, come racconterà la mamma, «non mancò mai alla messa quotidiana e alla recita del santo rosario». S’innamora così tanto dell’Eucaristia che ne diviene un vero apostolo, non solo presso i suoi amici e coetanei e verso i più piccoli quando ne diventa catechista, ma anche verso la sua comunità, attraverso una delicata sensibilità cristiana che resta una delle più affascinanti caratteristiche della sua vita.

Assisi

Carlo ha un legame speciale con Assisi, «un luogo che il giovane milanese amava e in cui ha respirato il carisma di Francesco – scriverà di lui William Stacchiotti su La Voce -. Lo considerava il posto che lo faceva sentire più felice e qui aveva espresso il desiderio di essere sepolto. Carlo ha iniziato a frequentare la città dal 2000 dopo che i genitori acquistarono un’abitazione nel centro storico a fianco alla chiesa di Santo Stefano. Durante le festività natalizie e pasquali e nelle vacanze estive, amava trascorrere il suo tempo in città insieme ai suoi amici frequentando la piscina e giocando a calcio. Una vita serena, spensierata, vissuta con gioia con i suoi coetanei e con le persone incontrate nei suoi lunghi soggiorni. Egli non era un semplice turista o un pellegrino come i tanti che affollano la città del Poverello».

La malattia fulminante

Ma la storia terrena di questo giovane non dura a lungo. Agli inizi di ottobre del 2006 si sente male. Si pensa inizialmente a una semplice febbre, un’influenza, ma il persistere dei sintomi e le successive analisi portano a una diagnosi infausta: leucemia del tipo M3, incurabile.

Carlo viene ricoverato nell’Ospedale San Gerardo di Monza. Entrando dice a sua madre: «Da qui non uscirò più», le sue sono parole di un’autentica profezia. Nei giorni del ricovero, nonostante i forti dolori che lo affliggono, Carlo non viene mai sentito lamentarsi, anzi, alle infermiere che gli chiedono come sta, lui sempre risponde: «Bene, c’è gente qui che sta peggio di me. Non svegliate mia madre che è stanca e si preoccuperebbe». Ormai conscio della sua prossima fine, fa la sua ultima offerta: «Offro al Signore le sofferenze che dovrò patire per il papa e per la Chiesa, per non dover andare in Purgatorio e per poter andare direttamente in Paradiso». Il 9 ottobre chiede l’unzione degli infermi, tre giorni dopo, il 12 ottobre, si spegne serenamente, raggiungendo quel Cristo che tanto ha amato nella sua breve vita.

Originale, non fotocopia

Amava ripetere: «La nostra meta deve essere l’infinito, non il finito. L’infinito è la nostra patria. Da sempre siamo attesi in Cielo». Sua inoltre è la frase: «Tutti nascono come originali ma molti muoiono come fotocopie». Per orientarsi verso questa meta e non «morire come fotocopie», Carlo diceva che la nostra bussola deve essere la Parola di Dio, con cui dobbiamo confrontarci costantemente. Ma per una meta così alta servono mezzi specialissimi: i sacramenti e la preghiera. In particolare, Carlo metteva al centro della propria vita il sacramento dell’Eucaristia che chiamava «la mia autostrada per il Cielo». Così lo ricorda mons. Michelangelo M. Tiribilli al Sinodo dei giovani del 2018.

Amore ai poveri

I funerali sono una scoperta per gli stessi genitori: si presentano alla celebrazione persone di ogni ceto, soprattutto poveri, immigrati, bisognosi, ammalati, che raccontano un Carlo inedito, un giovane che si avvicinava a loro, che li aiutava, che li faceva sentire amati, tutto nel nascondimento, senza farsi vedere neanche dalla mamma.
È un classico dei santi, chi ama Gesù nascosto nell’Eucaristia non può non amarlo sofferente nell’umanità.

Carlo, in uno dei suoi video, ha espresso il desiderio di essere sepolto in terra ad Assisi, e viene, quindi, inumato in una tomba della famiglia nel cimitero della città francescana.

Amico di Gesù

La figura di Carlo Acutis non è legata a miracoli straordinari o atti di romanzesco eroismo, Carlo è stato un giovane come tanti giovani, ma nella sua normale giovinezza ha saputo cogliere qualcosa che la maggior parte dei suoi coetanei fa fatica a cogliere: il potere e la grazia dell’Eucaristia. Fra le tentazioni del mondo che ammalia e stordisce, Carlo è riuscito a sentire la voce sottile del Signore, che chiama a una vita vera; fra i fuochi della gioventù e le tormente del XXI secolo è riuscito a sentire quel sussurro di una brezza leggera, che è stato per lui e, attraverso lui, per molti, una trasfigurazione che lo ha fatto somigliare a quel Gesù che tanto ha amato. Carlo Acutis è la dimostrazione che non esistono tempi o età in cui è più difficile vivere la fede, perché Gesù non è un ideale o un pensiero filosofico, Gesù è una persona viva, che ama, che si fa amare, e l’amore non ha tempo e non ha età.

Il miracolo

Il 12 ottobre del 2010, mentre si celebrava il ricordo di Carlo nella parrocchia di Nostra Signora Aparecida di Campo Grande, in Brasile, al momento della benedizione con una sua reliquia, si avvicinò al sacerdote celebrante un uomo con il suo bambino in braccio, affetto da pancreas anulare, una rara malattia, che causava al bambino continui conati di vomito, anche se ingeriva solo liquidi. Giunti dinanzi alla reliquia, il bambino chiese al padre cosa dovesse dire e il padre rispose: «Chiedi di smettere di vomitare». Baciando la reliquia il bambino ripeté le parole «smettere di vomitare». Da quel momento il vomito cessò per non tornare più. Nel mese di febbraio del 2011 i genitori sottoposero il bambino a nuove analisi ed emerse che il piccolo era totalmente e inspiegabilmente guarito. Questo miracolo è stato riconosciuto dalle Commissioni della Congregazione delle Cause dei Santi per la beatificazione di Carlo.

Beatificazione

Constatata la grande fama di santità di cui Carlo ha goduto sin dal giorno della sua morte, il 15 febbraio 2013 fu istruito il processo diocesano per la sua beatificazione, conclusosi il 24 novembre 2016.

Carlo fu dichiarato venerabile il 5 luglio 2018.

Il 6 aprile 2019 fu riesumato (come è tradizione fare nel caso di cause di beatificazione) e il corpo fu trovato in buono stato di conservazione, ancora con tutti gli organi integri. Ne fu prelevato il cuore (come reliquia) e il corpo fu trattato per la conservazione. Fu quindi traslato nel Santuario della Spogliazione, dove si venera all’interno di un monumento funebre, dotato di vetro, che permette, durante le ostensioni, di vederne il corpo.

Il 20 febbraio 2020 fu promulgato il decreto sul miracolo. La cerimonia religiosa della sua beatificazione si tenne il 10 ottobre 2020, celebrata nella sua amata Assisi.

Patrono dell’Internet?

Nell’esortazione apostolica Christus vivit – scritta a fine marzo 2019 -, papa Francesco, dopo aver ricordato tanti santi e sante giovani, ha un ricordo particolare per Carlo e le sue brillanti doti informatiche. «Ti ricordo – scrive nei nn. 104-106 – la buona notizia che ci è stata donata il mattino della Risurrezione: che in tutte le situazioni buie e dolorose di cui parliamo c’è una via d’uscita. Ad esempio, è vero che il mondo digitale può esporti al rischio di chiuderti in te stesso, dell’isolamento o del piacere vuoto. Ma non dimenticare che ci sono giovani che anche in questi ambiti sono creativi e a volte geniali. È il caso del giovane venerabile Carlo Acutis.

Egli sapeva molto bene che questi meccanismi della comunicazione, della pubblicità e delle reti sociali possono essere utilizzati per farci diventare soggetti addormentati, dipendenti dal consumo e dalle novità che possiamo comprare, ossessionati dal tempo libero, chiusi nella negatività. Lui però ha saputo usare le nuove tecniche di comunicazione per trasmettere il Vangelo, per comunicare valori e bellezza.

Non è caduto nella trappola. Vedeva che molti giovani, pur sembrando diversi, in realtà finiscono per essere uguali agli altri, correndo dietro a ciò che i potenti impongono loro attraverso i meccanismi del consumo e dello stordimento. In tal modo, non lasciano sbocciare i doni che il Signore ha dato loro, non offrono a questo mondo quelle capacità così personali e uniche che Dio ha seminato in ognuno. Così, diceva Carlo succede che “tutti nascono come originali, ma molti muoiono come fotocopie”. Non lasciare che ti succeda questo».

Queste parole di papa Francesco hanno incoraggiato l’iniziativa di chiedere che Carlo sia proclamato il patrono del web.

don Mario Bandera

Clicca qui per andare al sito ufficiale sul beato Carlo Acutis
con accesso all’Associazione Carlo Acutis e al Progetto TUCUM.




Guerre di ieri e di oggi


Parliamo di guerra. Lo facciamo attraverso le parole di tre autori molto eterogenei tra loro. Tre modi diversi di ricordare, raccontare e vivere la tragedia della guerra che, forse, hanno in comune un obiettivo: esorcizzarla.

La guerra dei Bepi

Andrea Pennacchi è padovano, classe 1969. Attore e scrittore di teatro. Il grande pubblico lo conosce grazie al suo intervento settimanale a Propaganda Live, programma di attualità, politica e società su La7 (l’ex Gazebo di Rai3).

A settembre è uscito, con la casa editrice milanese People, La guerra dei Bepi. Quindici euro molto ben spesi.

Si tratta di un testo teatrale adattato, ma non troppo, alla narrativa, nel quale Pennacchi viaggia attraverso tre guerre: la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, e poi quella Somala.

Dall’aprile del 1945 l’esercito italiano non è più coinvolto in uno scontro bellico fino al 2 luglio del 1993. L’incantesimo si rompe a Mogadiscio, al checkpoint Pasta, dove i soldati italiani sono impegnati nell’operazione Unosom.

Andrea Pennacchi fa parte di quel contingente militare. Volontario. E non per caso.

Suo nonno, da tutti chiamato Bepi, ha combattuto nelle trincee del Carso.

Suo padre, nome di battaglia Bepi, ha combattuto tra le fila partigiane. Arrestato, deportato, sopravvissuto in qualche modo ai lager.

Andrea, nipote e figlio dei due Bepi, va alla ricerca delle sue radici nel modo più complesso, pericoloso e contraddittorio: in guerra.

«Quando ho deciso di fare il servizio militare – racconta -, ero desideroso anche io di far parte di quell’epos che aveva attraversato la storia della mia famiglia, volevo in un certo senso essere anche io un Bepi».

Il testo è godibile, forte, veneto, divertente, tragico, serio, comico, tagliente, proprio come il Pennacchi che abbiamo conosciuto in Tv.


Admira e Bosko

Andrea Roccioletti, torinese, classe 1979, è un libraio, ma anche (forse soprattutto) un art performer di gran talento. Tra i suoi studi, la Scuola di applicazione dell’Esercito, come civile. Ramo peacekeeping.

Nel 2019 ha scritto per l’editore torinese Autori Riuniti, un romanzo breve dal titolo Admira e Bosko. Sarajevo 1993.

Ancora il 1993, ma due mesi prima i fatti di Mogadiscio di cui parla La guerra dei Bepi.

La storia di Admira Ismic e Bosko Brkic è conosciuta: lei, una ragazza musulmana, lui, il suo fidanzato serbo ortodosso, in una Sarajevo assediata. Il 19 maggio del 1993 furono uccisi, mentre cercavano di fuggire assieme attraversando il ponte Vrbanja, dai cecchini serbi
(vedi MC 10/2017, I Perdenti 28).

A rendere originale il lavoro di Roccioletti non è solo la scelta dello strumento, il romanzo, ma il fatto di averlo scritto con una giovane scrittrice di origine tunisina, Miriam Tahri.

L’amore tra un ortodosso e un’islamica, scardina le logiche imposte dall’assedio. Amore e guerra lottano tra loro, e l’amore, in guerra, soccombe.

La domanda che ci facevamo nel ‘93 era: «Com’è possibile stia accadendo a pochi chilometri da qui?». Il libro di Roccioletti e Tahri, ha sempre sotto traccia questa risposta: «Non solo è stato possibile, ma potrebbe esserlo ancora. Magari non più a Sarajevo, ma più vicino. Magari a casa nostra».

Nell’incipit c’è tutta la capacità dell’autore di prendere per mano il lettore: «Adesso. Io sono l’assassino. Sono certo che leggerai le prossime righe con alcune aspettative. Forse ti aspetti che io ti racconti il mio punto di vista […], che ti racconti come si diventa un assassino […], così che tu possa trarre qualche lezione dalla mia esistenza; ma essa è al tuo servizio tanto poco quanto lo è stata al mio, perché sul male inflitto e quello subito, pennelliamo una doratura di significato che niente dura alla prova del tempo».

Andrea Roccioletti non lo trovate sui social, ma ha un sito: www.roccioletti.com.

Parole buone per superare la crisi

Arriviamo così a Sergio Astori, bergamasco, docente all’Università Cattolica, medico chirurgo specializzato in psichiatria. Anche il suo libro parla di guerra, della guerra mondiale in corso, iniziata nella lontana metropoli di Wuhan, in Cina, a fine 2019, e arrivata in Europa, segnando in modo decisivo le nostre vite. La prima guerra pandemica da molti decenni a questa parte.

La chiave di lettura di Astori capovolge lo schema della visione corrente sulla crisi in corso.

Già il titolo del libro segna la differenza: Parole buone. Pillole di resilienza per superare la crisi.

Proprio perché la pandemia, durante il lockdown di primavera, ci ha precipitati in un linguaggio bellico, il prof. Astori e un piccolo ma tosto gruppo di collaboratori, ha iniziato a cercare, raccontare, diffondere #ParoleBuone, testi che affrontano la «solidarietà», la «prossimità», la «semplicità», l’«ascolto», il «rischio», per accendere una luce di speranza in un tempo di vero e proprio smarrimento collettivo, di fronte alle bare, alle ambulanze, agli infermieri stravolti, ai medici che muoiono curando.

Nella prefazione, Luca Rolandi, giornalista e ricercatore storico, scrive: «Non esiste la normalità, il benessere economico che nasconde abissi di dolore psicologico e morale, esiste la tenerezza dell’amore e della solidarietà […] perché le Parole Buone aiutano […] l’uomo a vivere di ciò che sta sopra di lui».

Le Parole Buone raccolte nel libro, sono state in primavera un’oasi per centinaia di persone barricate in casa. La multimedialità messa a punto dal gruppo di lavoro (social, radio, carta stampata, linguaggio dei segni) ne ha permesso la capillarità.

Quelle parole, nate qualche mese fa, sono ancora drammaticamente attuali. La guerra non è ancora finita. Il libro di Sergio Astori ci aiuterà a superarla.

Sante Altizio