Aria di miracolo

Nel mese di marzo scorso, è stata celebrata a Roraima (Brasile) l’inchiesta diocesana sulla guarigione «miracolosa» di Sorino Yanomami (un indigeno della foresta amazzonica), ottenuta attraverso la preghiera e l’intercessione del nostro beato Fondatore. I superiori generali dei missionari/e della Consolata hanno scritto: «Questo è un “miracolo missionario” molto in sintonia con lo spirito dell’Allamano per il quale santità e missione vanno insieme, sono facce della stessa moneta, nella missione la santità trova una casa, nella santità la missione trova il suo significato e i propositi più profondi. La speranza è che questo miracolo, così significativo per noi, sia riconosciuto dalla Chiesa e sia uno stimolo per noi e per tutti a crescere nell’amore per la missione ad gentes che il nostro Fondatore ci ha indicato come finalità specifica dei nostri Istituti e loro ragione di essere».

E il vescovo di Roraima, dom Mário Antônio da Silva, nella messa conclusiva dell’intensa settimana del «Processo diocesano», con commosso entusiasmo del cuore (e della voce), così ha ricordato: «Rivolgiamo lo sguardo al beato Giuseppe Allamano, ringraziando Dio per il dono della sua vita, della sua vocazione, e della sua opera missionaria. Egli, pur restando sacerdote diocesano a Torino, ha fondato gli istituti dei missionari e missionarie della Consolata. Molte volte mi hanno chiesto quante volte l’Allamano fosse venuto a Roraima e ho dovuto rispondere che storicamente non è mai arrivato fin qui. Ma lui è stato presente a Roraima per mezzo dei suoi missionari e missionarie per più di 70 anni, con il carisma, l’amore, l’impegno per la vita dei più poveri, dei popoli indigeni, dei popoli delle regioni più interne o che vivono lungo i fiumi, ai bordi delle strade e della periferia delle nostre città…

E questo “sacerdote diocesano” mi ha toccato il cuore, quando ho letto nei suoi scritti: “Maria, la Consolata, con la sua tenerezza penetra nelle intenzioni del suo Divino Figlio, sa quanto gli costiamo, sa che Gesù vuole la salvezza di tutti. Per questo, il desiderio più ardente della Madonna è che tutte le persone siano salvate; ed è per questo che Gesù è venuto nel mondo e lei, che è sempre stata unita a Lui, non può desiderare altro. E la Consolata – ci insegna ancora il beato Allamano – è nostra madre tenerissima che ci ama come la pupilla dei suoi occhi». Cos’è la tenerezza? La tenerezza è la capacità di amare, risvegliare la gioia nella persona amata, senza interesse, nella gratuità, nella vicinanza, nella docilità e – perché no? – nella gioia e nella santità».

padre Giacomo Mazzotti

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Tesoriere e segretario della Consolata

Per la rubrica «Cammino di santità» continueremo ad attingere ai numerosi e approfonditi scritti di padre Francesco Pavese, scomparso il 3 maggio 2020.

L’Allamano, più di una volta si è autodefinito «segretario» e «tesoriere» della Consolata. Ovviamente, sono termini che vanno presi in senso analogico, perché il tono con cui sono stati pronunciati era decisamente familiare. Esprimono, però, una convinzione dell’Allamano stesso, che possiamo capire dal suo pensiero sulla Madonna e poi dal contesto nel quale si è espresso parlando sia ai missionari che alla gente.

Non c’è dubbio che l’Allamano abbia vissuto un’intensa spiritualità mariana. Sapeva partecipare interiormente a tutti i misteri riguardanti Maria, e ogni sua festa, anche la più popolare, diventava motivo di riflessione e di incoraggiamento per impegnarsi nel bene.

La dottrina che sta alla base della sua spiritualità mariana risente molto della sua esperienza al Santuario della Consolata. Parlando della Madonna, infatti, ha spesso valorizzato la liturgia della festa della Consolata, e in particolare la colletta della messa, nella quale si leggono queste parole: «Signore Gesù Cristo, che nella tua ineffabile provvidenza hai disposto che ricevessimo ogni cosa per mezzo di Maria, tua SS. Madre, concedici benigno (ecc.)».

L’Allamano ha illustrato le parole di questa orazione richiamandosi alla mariologia di san Bernardo: «La Madonna, dice san Bernardo, è un acquedotto e una fontana. Una fontana perché tutte le grazie ci vengono di lì. “Hai voluto che ricevessimo ogni cosa per mezzo di Maria”. E poi un acquedotto perché tutto deve passare di lì. La Madonna è questo canale che porta a noi la grazia di Dio».

In altra occasione, parlando sullo stesso argomento, si espresse con termini simili: «Nessuna grazia il Signore ha voluto che venisse a noi, se non per mezzo di Maria, essa è tesoriera e dispensatrice». Ecco, per la prima volta, il termine «Tesoriere», ma riferito alla Madonna. Secondo l’Allamano, Maria è «tesoriera», in quanto ha l’incarico, per esplicita volontà di Dio, di dispensare le grazie ai fedeli.

Giuseppe Allamano credeva di avere un rapporto privilegiato di collaborazione con Maria, quasi prolungando questa sua funzione di dispensare i favori di Dio. La sua attiva e prolungata presenza di primo responsabile al Santuario, forse corroborata dall’esperienza personale di grazie ricevute, probabilmente lo induceva a convincersi che tra la Consolata e lui si erano come create un’intesa e una collaborazione speciali.

Si noti, però, che l’Allamano per lo più faceva precedere al titolo di «Tesoriere» quello di «Segretario», forse proprio per precisare questa sua funzione di totale subordine. In pratica, pensava di aiutare la Consolata a concedere i favori alla gente, prendendo nota delle varie necessità.

I contesti nei quali l’Allamano ha parlato di sé come «Segretario» e «Tesoriere» della Consolata aiutano a capire che cosa intendesse usan- do questi termini.

Nel 1922, durante la novena della Consolata, l’Allamano chiese alle suore che pregassero la Madonna per due intenzioni che in quel periodo gli stavano a cuore: perché la Santa Sede approvasse il miracolo per la beatificazione dello zio Giuseppe Cafasso e, perché approvasse definitivamente le Costituzioni dell’Istituto.

Ecco le sue parole, che sembrano quasi uno sfogo a motivo del ritardo che gli pareva di notare: «Pregate la Madonna che ci faccia questo regalo. Del resto, non perderemo la pace per quello se la Madonna non crede di darcelo. In sostanza io son qui [al santuario] tesoriere, segretario, e dovrei avere il diritto di prendere le grazie principali ed invece… Tutti vengono a dire: Io ho ricevuto questa grazia…; io ho avuto questa… Ed io? Io registro sempre, ma pregate che il Signore faccia la sua santa volontà: è poi tutto lì, vedete!». Come appare evidente, è un santo che si confida alle sue figlie, preoccupato sì, ma totalmente affidato alla volontà di Dio.

Due anni dopo, nel notiziario della Casa Madre inviato alle sorelle in missione, scrivendo sul miracolo del Cafasso che, a Roma, aveva avuto esito favorevole, si legge: «19 febbraio: giornata eucaristica alla Consolata per il ven. Cafasso. Tutti gli allievi e allieve di Casa Madre portano il loro contributo di preghiere fiduciosi di vedere presto innalzato agli onori degli altari il caro Venerabile.

L’amatissimo Padre [Allamano] lo troviamo così sollevato e lieto. Ci dice di averli già fatti lui i patti con la Madonna: “Tutte le preghiere – le ho detto – che oggi i missionari e le missionarie faranno per don Cafasso, rivolgetele a loro e fateli santi subito, incominciando dagli ultimi entrati, e credo che la Madonna avrà fatto così. Io sono il suo segretario, il suo tesoriere ed ho il diritto di essere ascoltato prima degli altri”. E noi ci siamo presentate alla Madonna sicure che la sua benedizione feconderà i nostri sforzi costanti per corrispondere ai grandi desideri dell’amato Padre». Questa volta, il suo rapporto privilegiato con la Madonna lo valorizzò in favore della qualità dei suoi figli e figlie che, in realtà, erano quanto di più prezioso egli avesse.

Questa autodefinizione dell’Allamano ci porta a credere che noi, missionari e missionarie della Consolata, abbiamo l’esperienza della continua ed efficace intercessione del nostro Padre Fondatore presso Dio e la SS. Consolata. Il suo benevolo aiuto ci fu stato assicurato da lui stesso, quando ci disse: «Per voi dal Paradiso farò più di quanto ho fatto sulla terra».

Questa non è stata solo la nostra esperienza. Quando era in vita, molti ricorrevano a lui, perché fosse lui stesso ad intercedere direttamente presso la Consolata. Padre Giuseppe Giacobbe, sacerdote dottrinario che riceveva le confidenze dell’Allamano, disse ai suoi confratelli che l’Allamano era un «Santo che consola e porta la Consolata in saccoccia».

padre Francesco Pavese


Processo di canonizzazione del beato Allamano

Dal 7 al 15 marzo 2021, si è svolta a Boa Vista (Brasile), nella diocesi di Roraima, la fase diocesana della causa di canonizzazione del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata, per il riconoscimento della guarigione miracolosa dell’indigeno Sorino Yanomami, attribuita all’intercessione del beato.

Domenica 7 marzo, l’evento è iniziato nella parrocchia della Consolata di Boa Vista con la celebrazione eucaristica presieduta dal vescovo diocesano di Roraima, dom Mário Antônio da Silva.

Alle 10 si è svolta la sessione pubblica di apertura del processo. Il collegio del tribunale era composto dal vescovo dom Mário Antônio da Silva, padre Lucio Nicoletto, vicario generale della diocesi, padre Raimundo Vantuir Neto, cancelliere della curia, padre Michelangelo Piovano, missionario della Consolata, notaio, Elizabete Sales de Lucena Vida, segretaria della curia e il dottor Augusto Affonso Botelho Neto, medico.

Oltre al collegio erano presenti padre Giacomo Mazzotti, missionario della Consolata, postulatore per la causa di canonizzazione del beato, il diacono Augusto Monteiro e le suore, missionarie della Consolata, Renata Conti postulatrice Mc e Maria José.

Iniziando la sessione, dom Mário si è detto onorato nell’aprire il tribunale diocesano per le cause dei santi con il compito di svolgere le necessarie indagini sulla causa di canonizzazione del beato Giuseppe Allamano. Padre Giacomo Mazzotti ha quindi presentato ufficialmente la petizione per aprire il processo sul presunto miracolo della guarigione di Sorino Yanomami, attribuito al beato Allamano.

Di seguito ha avuto luogo il giuramento dei componenti il collegio tribunalizio e, chiudendo la sessione, Dom Mário ha chiesto l’aiuto della preghiera a tutti coloro che avrebbero seguito il processo.

L’attività della Corte è proseguita per tutta la settimana con l’ascolto dei testimoni e ha avuto come momento particolare l’adorazione eucaristica e il canto dei vespri con il clero, i religiosi e le religiose locali, venerdì 12 marzo.

Lunedì 15 marzo, alle 8,30 si è svolta la sessione pubblica di chiusura del processo e alle 19 la celebrazione finale di ringraziamento nella cattedrale.

Ora, gli atti sono stati trasmessi alla Congregazione per le Cause dei santi, in Vaticano.

Suor Maria da Silva Ferreira

«È un momento davvero emozionante – racconta sr. Maria, missionaria della Consolata portoghese e testimone del presunto miracolo, avvenuto 25 anni fa -. Per certi aspetti si tratta di una data storica. Naturalmente, nessuno ha in animo di anticipare i tempi della canonizzazione di Giuseppe Allamano, ma vale la pena fin d’ora di raccontare le circostanze della presunta guarigione miracolosa. Era il 7 febbraio di 25 anni fa. L’indigeno Sorino, nella foresta, venne assalito da un giaguaro, che con forza gli strappò il cuoio capelluto. Ricordo che si ruppe in parte la scatola cranica, ci fu una fuoriuscita di materiale cerebrale e Sorino perse la vista. Furono momenti di grande concitazione, chiamammo i medici e non si pensava di poterlo salvare. Iniziava in quei giorni la novena del beato Giuseppe Allamano e lo invocammo per la guarigione di questa persona. Fu trovato improvvisamente guarito e già allora si gridò al miracolo».

All’epoca, i missionari e le missionarie della Consolata erano molto presi dall’attività con il popolo Yanomami e, stranamente, nessuno ha pensato di andare avanti con il riconoscimento della guarigione. Il Sinodo per l’Amazzonia è stato importante per risvegliare il ricordo di questo fatto. Tra il popolo Yanomami non ci sono quasi cristiani, e il riconoscimento del miracolo sarebbe anche un riconoscimento dal Cielo della nostra pluridecennale attività al fianco di questa etnia, nel nome del dialogo e della promozione umana. In ogni caso, il beato Allamano diceva di fare le cose “bene, senza rumore e senza fretta”. Ed è quello che accade con questa causa».

Don Lucio Nicoletto

missionario fidei donum padovano, vicario generale della diocesi di Roraima, e delegato episcopale nell’inchiesta diocesana sul presunto miracolo di Sorino Yanomami, conosce bene i missionari e le missionarie della Consolata e conferma: «Roraima è cresciuta assieme ai padri e alle suore, grazie alle loro istituzioni educative. Sono stati dei missionari a tutto campo per cui, domenica 7 marzo, inizio del processo diocesano, in una certa maniera si è celebrato un riconoscimento della presen-za dell’Istituto, si è vissuto un atto di fede; per noi “miracolo” non è un fatto fuori dal normale, è riconoscere l’azione di Dio nella vita di ogni giorno, che agisce quando trova il cuore aperto delle persone. La gratitudine si esprime anche attraverso questo segno, che ora viene analizzato e comprovato.

Sorino, infatti, pur non conoscendo il messaggio cristiano, riconosce il bene che ha ricevuto, soprattutto grazie alle cure e all’attenzione delle suore che lo hanno sostenuto e hanno pregato per lui, dandogli così la possibilità di riprendere la vita che conduce-va prima dell’incidente, dopo che il giaguaro gli aveva fracassato il cranio». Un fatto sul quale, dopo 25 anni esatti, si indaga, per scoprire se davvero Dio ha visitato, guarito e salvato Sorino, umile e fiero abitante dell’immensa foresta amazzonica brasiliana.

padre Sergio Frassetto




Tra Italia e Africa


Un giallista torinese che indaga luoghi e quartieri abitati da un’umanità di poveri e immigrati. Un libro intervista che attraversa l’Italia in 10 delle sue ferite ambientali grazie alla voce di altrettanti sacerdoti. Una raccolta di reportage africani firmati dal compianto Raffaele Masto.

Gialli tra migranti

Uno dei grandi meriti di Andrea Camilleri è di avere creato, grazie al suo commissario Montalbano, una vera e propria «scuola italiana della letteratura gialla». Camilleri ha indicato una strada e tanti autori di casa nostra hanno provato a percorrerla. Alcuni con ottimi risultati.

Tra coloro che hanno appreso, e bene, la lezione di Camilleri, ce n’è uno torinese i cui libri meritano, a mio avviso, grande attenzione. Prima di tutto per la loro capacità di caratterizzarsi e rendersi originali all’interno di un genere letterario in sé molto lineare: trovare l’assassino.

Gioele Urso, che nella vita fa il giornalista, è autore di Calma & Karma. Torino rosso sangue, uscito nel novembre scorso per Golem Edizioni. Il titolo è l’unico particolare poco azzeccato: sembra il viatico alla lettura di un libro splatter. Invece no. Urso ha scritto una storia degna di nota. Delicata, profonda, socialmente rilevante.

Due anni fa aveva esordito con Le colpe del nero per le Edizioni del Capricorno. Titolo, questa volta, più che centrato.

Protagonista di entrambe le storie è il commissario Riccardo Montelupo (due omaggi in un solo nome: Montelupo è nel carattere, nelle movenze, nel metodo investigativo, un po’ il Ricciardi di De Giovanni e un po’ il Montalbano di Camilleri).

Il commissario di Urso è in forza alla questura di Torino, ha radici siciliane e una idiosincrasia innata per le ingiustizie sociali.

Accanto a Montelupo compare, sia nel primo che nel secondo libro, il giovane videogiornalista Gianni Incerti, con un fiuto da cronista di razza e una grande passione per il Milan degli olandesi. Per la cronaca, Urso è milanista, oltre che reporter.

Fin qui siamo quasi nella norma. Ciò che però rende, a mio avviso, il lavoro di Urso più interessante di altri, sono i contesti sociali nei quali si sviluppano le trame: nel primo era il Cie, Centro di identificazione ed espulsione, di corso Brunelleschi, nel secondo l’ex Moi, le palazzine di via Giordano Bruno costruite per le olimpiadi invernali del 2006, poi occupate da rifugiati.

I torinesi hanno ben chiaro che tipo di ferite sono stati quei due luoghi per la città. Il tema migratorio, le storie delle persone arrivate a Torino, in genere per essere sfruttate, abusate, usate, sono il cuore del racconto.

Non ricordo altri giallisti che abbiano scelto strutturalmente quel mondo per raccontarlo (e denunciarlo) nei loro libri.


Preti verdi

S’intitola Preti verdi, è uscito per Edizioni Terra Santa. Lo ha scritto il giornalista toscano Mario Lancisi, al quale si devono già diverse apprezzatissime pubblicazioni su don Milani.

È un libro che possiamo tranquillamente definire «necessario», e la ragione è racchiusa, prima di tutto, nel suo sottotitolo: L’Italia dei veleni e i sacerdoti simbolo della battaglia
ambientalista.

Mario Lancisi ha incontrato e raccontato la vicenda di dieci territori dall’ecosistema devastato e di altrettanti sacerdoti che hanno speso e spendono la propria vocazione per sanare la ferita inferta alle persone che quel territorio lo vivono.

Si tratta di don Palmiro Prisutto, don Giuseppe Trifirò, padre Nicola Preziuso, padre Maurizio Patriciello, don Marco Ricci, don Michele Olivieri, padre Guidalberto Bormolini, don Albino Bizzotto, don Gabriele Scalmana e padre Bernardino Zanella.

Il libro traccia un viaggio doloroso, quasi una Via Crucis che, dalla Sicilia, passando per Taranto e «la terra dei fuochi», porta al Veneto.

A segnare le tappe di questo terribile Giro d’Italia senza bicicletta sono le migliaia di morti provocate dalla devastazione ambientale. Bambini, donne, uomini, comunità intere decimate da forme tumorali le cui cause sono da ascrivere alla voracità di gruppi industriali e organizzazioni mafiose.

La dedica del libro è chiara: «A tutti i morti di tumore per l’inquinamento e i veleni provocati da uno sviluppo economico che mette al centro il profitto e non l’uomo».

A dare il via a questo coraggioso lavoro di Lancisi è l’enciclica Laudato si’ che rimette al centro del dibattito ecclesiale la tutela dell’ambiente, il rispetto del creato, i danni (spesso irreparabili) che ricadono su popolazioni inermi e incolpevoli.

E poi c’è la pandemia. Anch’essa è stata, per l’autore di Preti verdi un elemento nodale. «A noi interessa un’ipotesi di lavoro, che affiora anche in questo viaggio: forse c’è un nesso causa-effetto tra inquinamento della terra e coronavirus. Forse. Non è questa la sede per discuterne. Preme sottolineare che la dicotomia “salute e lavoro” che caratterizza il libro ha attraversato anche l’anno del Covid-19. Viene prima la borsa o la vita?».


L’Africa riscoperta

Cambiamo genere. Passiamo alle inchieste giornalistiche di un grande reporter che, purtroppo, il 28 marzo del 2020 ci ha lasciato: Raffaele Masto.

Raffaele è stato uno dei più attenti cronisti di «cose africane».

Come responsabile esteri della storica emittente milanese Radio Popolare, per oltre 20 anni, ha percorso l’Africa da Nord a Sud, e ne ha raccontato la vita, la sofferenza, le speranze puntualmente tradite. Ha scritto una dozzina di libri sul continente, alcuni tradotti in mezzo mondo.

I racconti di Raffa, come lo chiamavano gli amici, aveva un particolare marchio di fabbrica: non esprimevano amore per i potenti. La sua Africa era sempre letta attraverso gli occhi di un profugo che ha perso tutto, di una donna che prende l’acqua al pozzo, di un bambino che ha perso le gambe scambiando una mina per un giocattolo, di un autista di taxi, di un contadino in attesa della pioggia che non arriva mai.

A 12 mesi dalla scomparsa di Masto, i colleghi e gli amici di una vita hanno pubblicato, a firma di Raffaele, L’Africa riscoperta. Memorie di un reporter, una raccolta di alcuni dei suoi reportage più belli arricchita con una serie di post tratti dal suo blog «Buongiorno Africa!».

Quello che offre questo «libro di libri» è un diario di viaggio potentissimo. Chi ha letto qualcosa di Ryszard Kapuściński, tra queste pagine si sentirà a casa.

Raffaele Masto è stato un giornalista di razza, che lasciava la scrivania e andava a lavorare sul campo. Soprattutto girava al largo dai luoghi comuni.

Pochi mezzi, pochi soldi, ma idee chiare e un obiettivo ben definito: vedere con i propri occhi, se possibile, cercare di capire, e poi raccontare.

Esiste un sito dedicato a Masto, www.amicidiraffa.it. È nata anche un’associazione, è stato istituito un premio che porta il suo nome, e creato un centro di
documentazione. Il lavoro di Raffaele, la sua testimonianza, non devono andare perduti.

Sante Altizio




Crisi e conflitti da non dimenticare

Alle dieci situazioni di crisi segnalate a gennaio 2021 dal centro di ricerca International crisis group si sono aggiunti, nel corso di questi primi sei mesi, anche il peggioramento del conflitto nel Nord del Mozambico e un aumento dell’incertezza nella già fragile zona del Sahel, dopo la morte del presidente del Ciad, Idriss Déby Itno.

All’inizio del 2021 l’International crisis group (Icg), un centro studi sul conflitto con sede a Bruxelles e Washington, aveva segnalato dieci crisi da tenere sotto osservazione nel corso dell’anno@.

Si tratta di conflitti o tensioni in sei paesi – Afghanistan, Etiopia, Venezuela, Libia, Somalia e Yemen – e in una regione, il Sahel, delle difficili relazioni tra Usa e Iran e fra Turchia e Russia e del cambiamento climatico, una crisi che, a detta del gruppo di ricerca (e non solo), sta già toccando numerose popolazioni e creando i presupposti per i conflitti del futuro, che dipenderanno non dal clima in sé ma da come questo modifica la disponibilità di risorse naturali come l’acqua e la terra e da come questi mutamenti verranno governati.

In this file photograph taken on March 1, 2021, a woman walks in front of a damaged house in Wukro, north of Mekele which was shelled as federal-aligned forces entered the city. – Eritrean soldiers are blocking and looting food aid in Ethiopia’s war-hit Tigray region, according to government documents obtained on April 27, 2021, by AFP, stoking fears of starvation deaths as fighting nears the six-month mark. (Photo by EDUARDO SOTERAS / AFP)

Africa, conflitti vecchi e nuovi

Il continente che conta più situazioni critiche è l’Africa. Il conflitto nel Tigray, regione settentrionale dell’Etiopia al confine con l’Eritrea, non è ancora risolto, come ha spiegato lo scorso aprile Enrico Casale nel suo articolo per questa rivista@ e come confermano diversi media internazionali fra cui il New York Times@, che riporta la relazione resa al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dal sottosegretario Onu per gli affari umanitari, Mark Lowcock. I soldati dell’Eritrea, alleata del governo etiope in questo conflitto, non si sono ritirati come annunciato dal primo ministro etiope Abiy Ahmed ma, al contrario, sono rimasti nel Tigray e si sono resi responsabili di massacri, pulizia etnica e violenze sessuali.

Altro paese africano che fatica a trovare pace è la Somalia: lo scorso aprile il presidente Mohamed Abdullahi «Farmajo», il cui mandato quadriennale si è concluso a febbraio, ha ottenuto dal Parlamento un rinvio di due anni delle elezioni presidenziali. Secondo l’International crisis group@, questa estensione di fatto del mandato presidenziale – che ha già ricevuto forti critiche da Nazioni Unite, Usa, Unione Europea, Unione Africana e Regno Unito – ha almeno due conseguenze dannose.

La prima è l’aumento delle tensioni politiche, con alcuni leader degli stati federati o delle regioni che compongono il paese che appoggiano il presidente e altri – come è il caso dei presidenti degli stati del Puntland e del Jubaland – che si sono invece radunati intorno ad alcuni candidati dell’opposizione.

La seconda conseguenza è che le divisioni si sono manifestate anche all’interno delle forze armate e della polizia: il capo nazionale della polizia Hassan Hijar Abdi ha licenziato il capo della polizia di Mogadiscio, Sadiq «John» Omar, dopo che quest’ultimo aveva inviato i suoi uomini al Parlamento per impedire lo svolgimento della seduta in cui sarebbe stato approvato il rinvio delle elezioni, definendo l’estensione di fatto del mandato presidenziale un colpo di mano. Quanto alle forze armate, secondo le fonti dell’Icg, diversi soldati del reparto di élite Gorgor avrebbero abbandonato le basi dell’esercito somalo per ritirarsi nelle roccaforti dei rispettivi clan, mentre gli anziani di questi clan hanno chiarito che qualunque tentativo di Mogadiscio di disarmare le loro truppe locali innescherebbe combattimenti su larga scala.

Lo stallo politico e le dispute tra le forze di sicurezza, conclude Icg, stanno rafforzando i militanti di Al Shabaab che, incoraggiati dal ritiro parziale delle truppe etiopi e statunitensi alla fine del 2020, hanno già intensificato gli attacchi e ripreso gli assalti contro obiettivi militari somali e stranieri. La guerra fra il governo somalo e Al Shabaab dura da quindici anni.

A picture shows burnt utensils in the village of al-Twail Saadoun, which was attacked during inter-ethnic violence, 85 kilometres south of Nyala town, the capital of South Darfur, on February 2, 2021. – The combined death toll from recent violence in Sudan’s restive Darfur region has risen above 200, after medics revised the toll from one set of clashes upwards by over 50. (Photo by ASHRAF SHAZLY / AFP)

Il groviglio del Sahel

Oltre a Etiopia e Somalia, il think tank menziona l’intricata e tesa situazione del Sahel, la fascia a Nord del deserto del Sahara che si estende dal Senegal all’Eritrea e che sta assistendo a un aumento della violenza interetnica e all’espansione dell’influenza jihadista, in particolare in Mali, Burkina Faso e Niger.

Dal gennaio 2013 nell’area è impegnato l’esercito francese, intervenuto su richiesta del governo del Mali con l’operazione Serval per fermare l’insurrezione dei ribelli tuareg del Mouvement national de libération de l’Azawad (Mnla), avvenuta l’anno prima nel Nord del paese. La ribellione dei Tuareg, favorita dal riversarsi in tutta la zona di grandi quantità di armi dalla Libia dopo l’uccisione di Muammar Gheddafi e il saccheggio dei suoi arsenali, ha dato il via a una serie di avvenimenti, fra cui il colpo di stato che ha estromesso il presidente maliano Amadou Toumani Touré e l’espansione nel Mali settentrionale dei gruppi islamisti, da Ansar Dine, sospettato di legami con Al-Qaeda, ad Aqmi (Al-Qaeda nel Maghreb islamico). All’operazione Serval è seguito nell’aprile 2013 l’invio di una «Missione Onu per la stabilizzazione del Mali» (Minusma) e, nel 2014, una seconda operazione francese, denominata Barkhane.

Eppure, scrive il Crisis group, dopo sette anni «resta difficile affermare che la situazione nel Sahel sia migliorata. Al contrario, i conflitti continuano ad aumentare di intensità e si moltiplicano i teatri di scontri violenti in tutta la regione». Una delle cause di questo mancato miglioramento sarebbe lo sbilanciamento degli interventi sulla componente militare, a scapito di quella che mira allo sviluppo e al rafforzamento della governance. Il Mali vive una profonda crisi quanto alla capacità di fornire servizi di base ai propri cittadini e di risolvere attraverso il dialogo e la mediazione le contese interetniche, anche molto violente, presenti soprattutto nelle aree rurali. Viceversa, le forze jihadiste – composte da numerosi gruppi, coalizzati principalmente nel Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Jnim) e nello Sato islamico nel grande Sahara – sono in grado di inserirsi in modo efficace in questi contrasti, offrendo protezione e appoggio in cambio di influenza e di reclute, minando così ancora di più il ruolo e la credibilità dello stato.

È anche per la già grande fragilità dell’area che le possibili conseguenze della morte del presidente del Ciad Idriss Déby Itno, avvenuta il 19 aprile scorso, suscitano particolare apprensione. Déby è morto mentre si trovava nel Nord del paese a visitare le truppe ciadiane impegnate a contenere l’attacco dei ribelli del «Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad» (Fact nell’acronimo francese) che hanno le proprie basi in Libia. Sarebbe deceduto, a detta dei suoi generali, per le ferite riportate combattendo, ma non è ancora del tutto chiaro come siano andate le cose. Aveva appena vinto le elezioni per la sesta volta dopo aver governato il paese «con il pugno di ferro per tre decadi»@ ed era visto dagli alleati occidentali, in particolare dai francesi, come un punto di riferimento per la stabilità del Sahel e la lotta ai gruppi jihadisti, in quanto al comando del migliore esercito dell’area.

Il generale Mahamat Idriss Déby, figlio trentasettenne del defunto presidente, gli è succeduto mettendosi alla testa di un consiglio militare di transizione che dovrebbe portare in 18 mesi il paese a nuove elezioni; ma questo atto ha già attirato diverse critiche, dal momento che la costituzione ciadiana prevede che siano il presidente dell’Assemblea nazionale o, in mancanza di questo, il vice presidente, a guidare il paese in caso di morte del capo dello stato.

Distribuzione di cibo ai rifugiati a Pemba ad opera della Caritas (foto AfMC / José Luis Ponce De Leon)

Cabo Delgado, migliaia di sfollati

«Quando abbiamo visitato Pemba lo scorso dicembre abbiamo assistito alla tragedia di mezzo milione di sfollati. Le cose continuano a peggiorare». Così twittava a fine marzo@ monsignor José Luis Ponce de León, missionario della Consolata e vescovo di Manzini, nel regno di eSwatini (ex Swaziland), riferendosi alla visita che aveva effettuato nella capitale della provincia di Cabo Delgado, Nord del Mozambico, insieme ad altri vescovi della Conferenza episcopale dell’Africa meridionale agli inizi del 2021. Nel post sul suo blog in cui raccontava di quella visita, il vescovo riportava che «Pemba, con una popolazione di 200mila persone, ha accolto 150mila sfollati»@.

In una nota del 21 aprile 2021, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur, o Unhcr nell’acronimo inglese), aggiornava a 700mila il numero degli sfollati, ai quali si stavano aggiungendo in quei giorni altre 20mila persone costrette a lasciare la città costiera Palma, a trenta chilometri dal confine con la Tanzania, dopo che era stata colpita circa un mese prima da una serie di attacchi islamisti@.

I rapporti mensili Crisis watch dell’Icg@ sono utili per ricostruire l’inizio e l’intensificazione dell’attività jihadista nell’area, che vede il suo esordio il 5 ottobre 2017 quando a Mocimboa da Praia, città portuale a circa 300 chilometri da Pemba, tre stazioni di polizia vennero attaccate da un gruppo che si chiama Ahlu sunna wal jammah (Aswj), noto anche come Al Shabaab, benché non abbia legami con l’omonimo somalo (Al Shabaab, peraltro, significa semplicemente «i giovani» o «la gioventù»).

Lo scorso marzo il Dipartimento di stato americano aveva classificato Aswj come uno dei rami dello Stato islamico in Africa centrale, insieme al gruppo Adf (Allied democratic forces), attivo fra l’Uganda e la Repubblica democratica del Congo@.

Il legame con l’Isis, tuttavia, non appare così forte e netto, dice il centro studi Acled (Armed conflict location & event data project@) creato da docenti dell’Università del Sussex, nel Regno Unito, e attivo nel raccogliere ed elaborare dati sugli eventi e i luoghi che riguardano i conflitti armati. Proprio la rivendicazione degli attacchi di Palma da parte dello Stato islamico, fatta utilizzando immagini false e rivendicazioni vaghe, farebbe pensare a un ruolo assai ridotto dell’Isis «centrale» nel determinare le strategie e le scelte operative di Al Shabaab, che rimane gestito da leader locali orientati a scopi altrettanto locali.

Incontro di preghiera nell’are di Nabasanuka, Tucupita, Venezuela (foto AfMC / Juan Carlos Greco)

Venezuela, insufficienza di cibo

A oggi, sono 5,4 milioni i venezuelani che hanno lasciato il paese, e chi è rimasto si trova a far fronte a grandi disagi per procurarsi i beni di prima necessità. Le principali difficoltà riguardano sempre l’elevata inflazione e la mancanza di carburante che limita i trasporti di persone e di merci.

Padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata attualmente a Nabasanuka, nella diocesi di Tucupita, raccontava via whatsapp lo scorso aprile che gli indigeni warao «superano la mancanza di carburante viaggiando in curiara [canoa, ndr] (tre giorni all’andata e altrettanti al ritorno) per acquistare sapone e dentifricio nel porto di Barrancas. Chi viaggia raccoglie gli ordini anche da anziani e ammalati che non possono remare per sei giorni. Ogni famiglia viaggia almeno una volta al mese in questo modo. Adesso stanno cominciando a viaggiare anche a Mariusa, verso la costa Nord del Delta, per procurarsi farina, o zucchero, o vestiti, scambiando i prodotti con banane o con l’artigianato locale».

Lo scorso aprile il governo venezuelano guidato da Nicolás Maduro ha raggiunto un accordo con il Programma alimentare mondiale (Pam) per fornire cibo a 185mila bambini in età scolare@. Secondo le stime pubblicate nel 2020 dallo stesso Pam, un venezuelano su tre non ha accesso a quantità sufficienti di cibo per soddisfare i requisiti nutrizionali minimi. Il governo non ha pubblicato i dati sulla malnutrizione infantile negli ultimi quattro anni ma gli ultimi disponibili, del 2017, ne registravano un aumento pari al 30%.

Chiara Giovetti


Conflitti nel mondo

È praticamente impossibile ricordare tutte le situazioni di conflitto esistenti nel mondo. Ci limitiamo qui a riportare i paesi in conflitto secondo il Centro studi del Council on foreign relations (aprile 2021).

Guerre civili: Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Siria, Sud Sudan.

Violenza criminale: Messico.

Guerre o tensioni fra stati: India e Pakistan, USA e Iran, Corea del Nord.

Instabilità politica: Libano, Egitto, Repubblica Democratica del Congo, Venezuela.

Violenza settaria: Myanmar, Repubblica Centrafricana, Nigeria.

Dispute territoriali: Russia/Ucraina, Turchia/ gruppi armati curdi, conflitto israelo-palestinese, conflitto in Nagorno-Karabakh, dispute territoriali della Cina con Filippine e Vietnam nel Mar Cinese meridionale, tensioni fra Cina e Giappone nel Mar Cinese Orientale.

Terrorismo transnazionale: Burkina Faso, Mali, Niger, Nigeria, Pakistan, Somalia.

Altre fonti, come il citato Crisis watch, affermano di seguire oltre 70 situazioni di conflitto in tutto il mondo, tra cui segnalano un peggioramento in: Mozambico, Niger, Senegal, Bangladesh, Bolivia, Paraguay, Indonesia, Giordania, Arabia saudita, Irlanda del Nord e altri paesi.

Chi.Gio.

 

 




Mosè in Egitto (Es 4,18-7,7)

Mosè è fuggito dall’Egitto e si è sposato con la figlia di un sacerdote madianita. Mentre ne porta il gregge al pascolo, incontra Dio, che lo invia a liberare il popolo ebraico dall’oppressione egizia.

È già iniziato per Mosè un percorso che in queste pagine dell’Esodo viene proposto come modello di un cammino di fede per tutti.

Mosè si mette in moto per curiosità. La meraviglia, però, comporta anche la disponibilità a lasciarsi scomodare, e Mosè, sia pure con tutti i suoi difetti e tentennamenti (che non contraddicono, ma semmai danno profondità alla fede), decide, alla fine, di partire.

Dopo averne chiesto al suocero il permesso, presi moglie e figli, ritorna verso il Nilo (Es 4,18-20).

Può sembrare una (piccola) carovana di nomadi, ma Mosè non vaga senza meta, percorre a ritroso la stessa strada che ha percorso molti anni prima. Allora era da solo e a piedi, oggi è con la sua famiglia e viaggia a dorso d’asino. Soprattutto, allora era un fuggiasco spaventato verso luoghi sconosciuti, ora viaggia con un obiettivo: parlare con il faraone e convincerlo a lasciare espatriare un popolo di schiavi. Un compito affidatogli da Dio, che gli ha anche fornito argomenti e strumenti per portarlo a termine (4,21-23): riuscirà nella missione?

Un episodio enigmatico

Proprio all’inizio del cammino di Mosè verso l’Egitto per compiere la missione ricevuta, si colloca un episodio enigmatico che tanto ha fatto scrivere ai commentatori: «Mentre si trovava in viaggio, nel luogo dove pernottava, il Signore gli venne contro e cercò di farlo morire. Allora Zippora prese una selce tagliente, recise il prepuzio del figlio e con quello gli toccò i piedi e disse: “Tu sei per me uno sposo di sangue”. Allora si ritirò da lui. Essa aveva detto sposo di sangue a causa della circoncisione».

Sembra che Dio cerchi di far morire il suo inviato, che viene salvato dalla moglie tramite la circoncisione del figlio (Es 4,24-26). Qui rinunciamo a prendere posizione sulle decine di spiegazioni possibili di questo brano, nessuna delle quali abbastanza convincente da imporsi sulle altre. Ci limitiamo a quattro considerazioni.

a) Un uomo in «debito»

Mosè sarà presentato più avanti come la guida, il punto di riferimento, il riassunto della legge. Si corre il rischio di esaltarlo troppo. Per questo, il libro dell’Esodo, che pure lo tiene sempre al centro della scena, sottolinea come lui non agisca da solo, non sia perfetto, come abbiamo già fatto notare, e debba riconoscere il proprio debito nei confronti di altri: la propria sorella e la figlia del faraone alla nascita, un compatriota che (per liberarsene) lo mette in guardia sul fatto che il suo assassinio è conosciuto, un sacerdote madianita, e ora la moglie.

b) Tra dubbio e fiducia

Non tutto riusciamo a capire, nella nostra vita. Neppure in quelle circostanze che più sembrano guidate dalla volontà di Dio. Occorre accettare che ci siano aspetti e particolari della nostra esperienza che restano apparentemente staccati dal quadro generale. Anche le vicende che più sembrano muoversi in un orizzonte chiaro, definito, sostenuto dalla grazia divina, restano segnate dall’incertezza, dal dubbio, dal sospetto. Continuano a chiamarci alla fiducia, a metterci in gioco, sapendo che non tutto dipende da noi. E che molto non riusciamo neppure a capirlo.

c) Fidarsi della «promessa»

Ci potrebbe anche essere un invito a non fidarci troppo di coincidenze e calcoli. Se Mosè fosse superstizioso, potrebbe dire che quel suo viaggio di ritorno inizia sotto pessimi auspici, e che farebbe bene a tornare indietro. Ma Mosè non si fida di brutti segni, si fida di una parola che gli ha promesso grandi cose, anche se la promessa non garantisce dagli inciampi. L’essere umano compiuto deve restare lontano da scaramanzie e presagi, che sono ingannevoli. Dio non passa da quelli, ma da promesse e appelli alla ragionevolezza umana. Certo, non ci invita ad affidarci semplicemente al calcolo e alla ragione (ad esempio, c’è poco di ragionevole nelle relazioni e negli affetti, che pure ci danno da vivere), ma di sicuro Dio non parla per enigmi: si rivolge al nostro «io» più autentico e completo, ragionevolmente padrone di sé.

d) Legame con Abramo

La circoncisione è segno dell’alleanza tra Dio e Abramo. Dio aveva chiesto ad Abramo che circoncidesse i figli. Mosè tornava al suo popolo Israele senza averlo fatto. Non è che Dio punisca Mosè, ma simbolicamente, l’episodio sottolinea il legame tra la vita e missione di Mosè e la promessa fatta ad Abramo. Nell’ottica dei redattori finali del Pentateuco è, inoltre, anche un modo per legare il ciclo di Mosè con quello dei patriarchi che, in origine, erano due cicli narrativi separati.

Al punto di partenza

Nel suo cammino verso l’Egitto, sul monte di Dio, Mosè ritrova Aronne, di cui noi lettori abbiamo sentito parlare per la prima volta in Es 4,14, nell’episodio del roveto ardente, e che forse abbiamo immaginato più giovane di Mosè. Invece Es 6,20 ci informerà che è Aronne il primogenito, e sappiamo da Es 2,4 che anche Maria, la sorella, è più vecchia di Mosè. Questi, insomma, è il più giovane dei tre.

Quello che sarà il grande condottiero del popolo, colui che parlerà faccia a faccia con Dio, per il momento ci è presentato come assassino, pavido, incerto, balbuziente, nonché il più giovane della sua famiglia.

Come in molti altri casi nella Bibbia, Dio non ha paura di fare grandi cose con persone che noi uomini magari non sceglieremmo (tipici i casi di Giuseppe e poi di Davide). E questo non per insinuare che l’umanità non conta niente (Dio, infatti, non fa nulla senza Mosè), ma, al contrario, per indicare che anche chi si reputa scarso, insieme a Lui, può raggiungere grandissimi risultati.

Aronne, chiamato dal Signore, va incontro a Mosè, il quale gli spiega tutto ciò che gli è successo. I due vanno dagli anziani del popolo di Israele, coloro che detengono la sapienza e sono chiamati a guidare la propria gente, e questi li ascoltano e credono in Dio (Es 4,27-31). Ci troviamo di fronte a una situazione che sarà rarissima nel resto dell’Esodo. Come succederà ben poche volte in futuro, Mosè, Dio e il popolo sono in accordo, in piena sintonia. Tutto sembra risolto, deciso, chiaro.

Anche se, in verità, nulla è ancora fatto e compiuto, anche se quell’armonia è destinata a rovinarsi presto.

Primi inciampi

Mosè e Aronne, a questo punto, si presentano al faraone. Questi, come è stato preannunciato da Dio a Mosè, oppone il suo rifiuto alle richieste. Non solo, però, non acconsente al progetto divino di lasciare uscire il popolo, ma dichiara di non conoscere per nulla quel dio che ne avrebbe ordinato l’uscita, e stabilisce di appesantire le condizioni di lavoro degli ebrei, che da ora dovranno consegnare lo stesso numero di mattoni senza averne a disposizione le materie prime (Es 5,1-11).

Il faraone, comprensibilmente, fa il proprio interesse, puntando a delegittimare il sedicente capopopolo davanti agli ebrei. E ci riesce, tanto che questi iniziano a rimproverare Mosè per la nuova peggiorata condizione (Es 5,20-21).

Mosè, d’altronde, non fa quello che il popolo si aspettava: ha convocato gli anziani, le persone più sagge ed esperte, i rappresentanti di tutto il popolo, ma poi non li ha portati davanti al faraone, dove è andato, invece, accompagnato dal solo Aronne. In più, non ha riferito al faraone ciò che Dio gli aveva suggerito di dire, né si è premurato di operare quei prodigi che gli erano stati consigliati (Es 4,21-23). Semplice disattenzione o mancanza?

Di fronte alla contestazione degli anziani, poi, Mosè sembra prendersela con Dio, riversando su di lui la responsabilità dell’accaduto e accusandolo di non aver ancora fatto niente (Es 5,22-23). Come succede in tanti altri passi, Mosè non sembra proprio essere l’eroe senza macchia e senza paura che ci si poteva aspettare.

Eppure, Dio si appoggia a lui, si fa rappresentare proprio da lui.

Il discorso di Dio

È a questo punto (Es 6,1) che Dio reagisce e conforta Mosè rivolgendogli un altro discorso. Immaginiamoci al suo posto: se fossimo Dio e dovessimo rassicurare il nostro inviato, probabilmente sottolineeremmo la nostra forza davanti alla debolezza del faraone, destinata a essere sconfitta. Dio però non parla così. Lascia da parte la forza, e insiste su altre due ragioni per cui Mosè può fidarsi: la prima è la promessa di una discendenza e di una terra fatta ad Abramo, Isacco e Giacobbe, la seconda è l’oppressione degli ebrei.

Entrambe le ragioni si muovono sul filo delle relazioni personali. Per Dio l’unico motivo di saldezza è il credere alla sua promessa, che non è radicata nella sua forza, ma nella sua fedeltà.

È quasi un invito a Mosè e al popolo a cambiare modo di pensare: non è perché Dio è più forte del faraone che gli israeliti possono essere sereni. Questa è un’osservazione vera (di fatto, Dio è più forte del faraone), ma non è quella più significativa. Se il centro dell’azione di Dio fosse la sua forza, gli ebrei passerebbero da una schiavitù a un’altra (e, in un certo senso, è proprio quello che continueranno sempre a desiderare). Essi possono invece fidarsi di Dio, perché lui ha conosciuto i loro antenati, ha percorso un tratto di strada con loro, li ha accompagnati e ha rivolto loro una promessa. E ora vede i loro discendenti oppressi.

A guidare i pensieri di Dio non è la potenza o l’orgoglio, ma l’amore. Dio si muove perché gli ebrei stanno male, e perché ha garantito ai loro antenati che ciò non sarebbe successo.

Così inizia a cambiare il modo di ragionare di Mosè e dei suoi compatrioti, con un appello che continua a parlare anche a noi. Dio non cerca un popolo che lo lodi o gli offra sacrifici. Dio vuole la relazione, e vuole che questo popolo viva bene. Dio non ha bisogno delle nostre preghiere, ma di noi, del legame con noi. Quello che vuole stringere con l’umanità non è un contratto, ma una relazione di amicizia profonda. Potremmo addirittura dire che persino Dio non sia libero, perché è legato dall’affetto: non può tirarsene fuori!

Mosè… e noi

Chissà se è questo che Mosè intuisce quando si definisce, per ben due volte, «uomo dalle labbra incirconcise» (Es 6,12.30). La circoncisione era un segno del patto con Dio, del fatto di essere riservati per lui. Quando Mosè dice di avere le labbra non circoncise, può forse semplicemente ricordare che non è un buon oratore, e che anzi balbetta (cfr. Es 4,10). Ma questa interpretazione sembra superficiale e incoerente confrontata con tanta insistenza, e proprio in questo punto.

Si direbbe quasi che Mosè ammetta di non aver ancora capito fino in fondo qual è la relazione di Dio con il suo popolo, di non saperla spiegare. È vero che Dio gli suggerisce, di nuovo, di mandare Aronne a parlare al posto suo (Es 7,1), ma è come se Mosè, pur essendo ormai coinvolto nel progetto, riconoscesse di non averlo ancora compreso fino in fondo.

Perché i progetti di vita, le interpretazioni esistenziali, la relazione con Dio, non funzionano come una professione, per la quale devo essere stato promosso all’esame di laurea e a quello abilitante per poterla esercitare. La vita (ma in realtà è così persino per le professioni), la si capisce, se va bene, mentre la si vive, non prima. E più spesso dopo.

Questo però non toglie che il percorso possa essere fruttuoso, utile, e possa cambiare la vita anche agli altri. Mosè non ha capito ancora tutto, ma ha capito la cosa fondamentale: che la via d’uscita dalla situazione pesante in cui sono lui e il popolo si trova ascoltando Dio, fidandosi di lui. Allo stesso tempo, sente di non avere ancora imparato, lui per primo, a fidarsi fino in fondo, ma sa che, persino così, Dio gli concede di essere una guida per gli altri: incerta, limitata, ma autentica.

Perché Dio non fa nulla senza l’uomo, ma accompagna e sostiene l’uomo che è disposto a collaborare con lui.

Angelo Fracchia
(Esodo 04 – continua)




Se l’acqua dipende dai «futures»

testo di Francesco Gesualdi |


I «futures» sono scommesse di borsa per speculare sulle variazioni di prezzo di una merce. Un’idea (perversa) di quell’economia finanziaria che ora ha preso di mira anche l’acqua, cioè un bene e un diritto essenziale.

Si sono aperte le scommesse anche sul prezzo dell’acqua. Si tratta di una minaccia non solo economica, ma pure politica. Al momento succede solo negli Stati Uniti per iniziativa della Chicago mercantile exchange (Cme), la più potente società mondiale specializzata nell’intermediazione di prodotti finanziari connessi alle commodities: minerali, prodotti agricoli, prodotti energetici e ora anche l’acqua. Oltre a innumerevoli piattaforme informatiche, il gruppo Cme gestisce quattro borse valori di dimensione internazionale: due a Chicago e due a New York. Il compito di Cme è fare incontrare ogni giorno milioni di attori interessati a stipulare contratti di acquisto o di vendita con consegna a data futura secondo prezzi concordati nel tempo presente. Operazioni spesso svolte senza l’interesse reale a vendere o comprare ciò che è stato pattuito, ma con la speranza di trarre vantaggio dalle variazioni di prezzo che, secondo le proprie previsioni, dovrebbero intervenire fra il momento della firma e la consegna. Genericamente tali contratti vanno sotto il nome di futures, alla lettera «futuri».

Contrattazioni

I futures nacquero a metà Ottocento assieme alla borsa di Chicago, lo spazio mercantile creato per favorire lo scambio di derrate agricole. Un luogo di contrattazione di livello nazionale dove i grandi produttori agricoli potevano incontrare i grandi mercanti di derrate alimentari per concludere accordi di compravendita.

Inizialmente si trattava di un mercato spot, un luogo cioè in cui si trattavano quantità fisiche giacenti nei magazzini. Potevano essere sacchi di grano, di mais, di riso, di zucchero, che gli acquirenti si sarebbero portati via una volta concluso l’accordo. Ma, andando avanti, subentrò anche l’abitudine di avviare contrattazioni su quantità ancora da raccogliere. Forse per interesse di entrambe le parti: di chi comprava per garantirsi la continuità delle forniture e di chi vendeva per avere la certezza che i suoi raccolti sarebbero stati venduti. Ma anche per avere garanzie rispetto ai prezzi. In fondo l’agricoltura è sempre piena di incognite: basta una pioggia in più o in meno, lo sviluppo di insetti di un tipo o di un altro e si può avere un raccolto scarso o abbondante con inevitabili ripercussioni sul prezzo: in crescita se i raccolti sono scarsi, in diminuzione se sono abbondanti. Comprare in anticipo a prezzo prefissato mette entrambe le parti al sicuro, anche se qualora dovessero intervenire variazioni importanti, una delle parti contraenti si mangerà le mani per la perdita potenziale subita, l’altra se le fregherà per lo scampato pericolo.

Sia come sia, i futures si affermarono così tanto che vennero addirittura accettati dalle banche come forme di garanzia per i prestiti che concedevano. In fondo se si trattava di futures di vendita la banca aveva la garanzia che, alla data prestabilita, sarebbe arrivato del denaro. Se si trattava di un future di acquisto la banca aveva la garanzia che sarebbe arrivato un carico di raccolto. Ma il vero elemento di novità che venne avanti con l’affermarsi dei futures fu l’entrata in campo degli speculatori, soggetti che non sono interessati a comprare e vendere nessun tipo di merce, ma solo a scommettere sull’andamento del suo prezzo in modo da guadagnare nel caso si sia visto giusto. Tradizionalmente le scommesse si fanno rispetto a delle gare, siano esse sportive, politiche, o di altro tipo, ed hanno come parti lo scommettitore e il botteghino che tiene il banco. Lo scommettitore punta una certa somma sulla vittoria di un giocatore e, in caso di successo, il banco si impegna a restituire la somma versata maggiorata di un premio. In caso di sconfitta, lo scommettitore perde tutto a vantaggio del botteghino.

L’acqua non è una merce da contrattare alla Borsa valori. Foto Gerd Altmann-Pixabay.

Scommesse dannose

Le scommesse attuate nell’ambito della speculazione finanziaria funzionano diversamente. Per cominciare, il rapporto si tiene fra due soggetti e si concretizza tramite un contratto di compravendita a consegna futura. L’abilità delle due parti sta nella capacità di indovinare come si muoverà il prezzo e, a seconda delle proprie previsioni, collocarsi nella posizione di compratore o di venditore. Chi avrà visto giusto guadagnerà, chi avrà visto sbagliato perderà. Per una migliore comprensione del meccanismo si vedano i semplici esempi contenuti nel box qui a sinistra.

La scommessa è una forma di gioco d’azzardo altamente discutibile da un punto di vista morale e sicuramente dannosa da un punto di vista umano e sociale. Ma quando si viene alla speculazione finanziaria, molti pensano che possiamo disinteressarcene perché riguarda solo i ricchi. Della serie: che si derubino pure fra loro, tanto noi non ne siamo toccati. Ma non è così. Le conseguenze delle scommesse realizzate tramite futures difficilmente rimangono confinate alle due parti contraenti, molto più spesso ricadono su tutti perché alcuni soggetti finanziari hanno una tale potenza di fuoco da poter spingere, con le proprie scelte, i prezzi nella direzione voluta. Così i mercati finanziari determinano le sorti dell’economia reale. Varie volte in passato i prezzi del petrolio hanno subìto bruschi rialzi o ribassi a causa delle scelte effettuate dagli speculatori. Lo stesso dicasi per il caffè, un settore che ogni anno vede la stipula di contratti a scopo puramente finanziario per volumi di merci anche venti volte più alti di quelli stipulati a scopo commerciale. Con somma gioia di chi gestisce le borse perché l’attività di intermediazione rende bene: complessivamente nel 2019 Cme ha registrato una media quotidiana di 19 milioni di contratti che le hanno procurato commissioni per quasi cinque miliardi di dollari. Detratte le spese e le tasse, i suoi azionisti, principalmente fondi di investimento come Capital Research & Management, Vanguard, BlackRock, si sono spartiti profitti per oltre due miliardi di dollari.

Penuria e tariffe

L’idea di promuovere i futures sull’acqua, a Cme è venuta in mente osservando la penuria di acqua che, da qualche tempo, colpisce la California. Uno dei periodi di maggior siccità è stato quello fra il 2012 e il 2016, durante il quale molte parti della Central Valley sono sprofondate anche di 60 centimetri come risultato della scarsità di piogge e della sete insaziabile di acqua da parte degli agricoltori. Per decenni le aziende agricole hanno pompato acqua in maniera indiscriminata fino a provocare un tale abbassamento delle falde acquifere da fare sprofondare strade, ponti, edifici. Ora lo stato della California ha deciso di proteggere i suoi acquiferi tramite una tripla strategia: migliore irreggimentazione delle acque piovane, limiti ai prelievi da parte dei pozzi privati, aumento dei prezzi applicati sull’acqua prelevata dai corsi d’acqua superficiali. Il tutto tenendo presente che anche negli Stati Uniti, come in molti altri paesi, le acque di fiumi e laghi sono gestiti da autorità pubbliche che però consentono, a chi ne fa richiesta, di prelevare acqua in cambio di una concessione a pagamento. Solitamente le richieste sono avanzate da imprese (siano esse pubbliche o private) che gestiscono i servizi idrici urbani, da industrie e centrali elettriche o anche da aziende private che poi rivendono l’acqua agli agricoltori a scopo irriguo. In California, la tariffa di concessione per il prelievo di acqua è passata approssimativamente da 224 dollari ogni mille metri cubi, nel 2009, a 446 nel 2015. E, dopo alcuni mesi di retrocessione, nel luglio 2020 la tariffa è tornata a impennarsi raggiungendo 703 dollari ogni mille metri cubi.

L’acqua è un diritto

Un andamento che ha attirato l’attenzione degli esperti finanziari di Cme i quali si sono convinti che l’acqua è ormai entrata in una fase di scarsità che la destina a un aumento costante del prezzo, seppur con lievi contrazioni transitorie interpretabili come le classiche eccezioni che confermano la regola. E sono giunti alla conclusione che i tempi erano maturi per avviare un mercato dei futures dedicato all’acqua, perché quando i prezzi si fanno instabili, emergono due gruppi di attori che si rivolgono al mercato dei futures: le aziende commerciali in cerca di meccanismi di stabilità e gli speculatori che sperano di guadagnare dai prezzi in movimento.

Così nel dicembre 2020 Cme ha inaugurato il mercato dei futures per l’acqua. Ma l’iniziativa non è piaciuta a tutti. Fra i critici Pedro Arrojo-Agudo, rappresentante speciale della Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite con delega particolare all’attuazione del diritto all’acqua potabile. In una nota dell’11 dicembre afferma con forza che «l’acqua non si può quotare a Wall Street alla stregua dell’oro o del rame. L’acqua è di tutti, è un bene comune. È direttamente connessa alle nostre vite e al nostro benessere». E ha continuato: «Sul mercato dei futures operano anche banche e fondi speculativi che usano i futures come strumento di scommessa. Se il loro interesse dovesse essere quello di spingere il prezzo dell’acqua sempre più su, si assisterebbe a una bolla speculativa come si ebbe nel mercato dei cereali nel 2008. Se dovesse succedere, milioni di famiglie e di piccoli agricoltori perderebbero l’accesso ad un diritto fondamentale come l’acqua».

Non è una merce

L’iniziativa di Cme minaccia l’acqua come diritto non solo per le ripercussioni economiche, ma anche per quelle culturali e politiche. Visto da questo punto di vista, il mercato dei futures è un altro tassello aggiunto al castello delle privatizzazioni, affinché pezzo dopo pezzo ci abituiamo a considerare l’acqua una merce qualsiasi da fare gestire al mercato. Tanto più che il mercato si presenta come il migliore gestore delle risorse scarse. E qui scopriamo che oltre all’inganno c’è anche la beffa perché lo stato di crisi profonda in cui si trova l’acqua non è dovuto solo ai cambiamenti climatici, ma anche al sovra sfruttamento e all’inquinamento che ha reso l’acqua inservibile. L’acqua, insomma, è una delle tante vittime di una concezione economica che dando valore solo a ciò che ha prezzo, maltratta tutto ciò che è comune semplicemente perché è gratuito. Ma, ciliegina sulla torta, dopo aver trasformato le risorse abbondanti in risorse scarse, il mercato pretende di essere lui a gestirle, sostenendo di essere l’unico a disporre dei mezzi per farlo. Il mezzo è quello del prezzo, altamente classista, perché dà non a chi ha bisogno, ma a chi ha denaro da spendere. L’unica alternativa possibile è quella di papa Francesco che, al punto 158 della Laudato si’, scrive: «Nelle condizioni attuali della società mondiale, dove si riscontrano tante ingiustizie e sono sempre più numerose le persone che vengono scartate, private dei diritti umani fondamentali, il principio del bene comune si trasforma immediatamente, come logica e ineludibile conseguenza, in un appello alla solidarietà e in una opzione preferenziale per i più poveri».

 Francesco Gesualdi




Perché l’Oms non funziona come dovrebbe

testo di Chiara Giovetti | foto AfMC |


Gli stati membri collaborano solo se a loro conviene e la struttura burocratica dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) è troppo lenta e inefficiente. La vicenda di Covax è solo il più recente esempio di mancanza di incisività per un’organizzazione nata con l’ambizione di coordinare la sanità a livello mondiale e oggi in evidente crisi.

Lo scarto fra paesi ricchi e paesi poveri nel numero di vaccini somministrati «cresce ogni giorno, e ogni giorno diventa più grottesco. Paesi che ora stanno vaccinando persone più giovani e sane a basso rischio lo fanno a spese delle vite del personale sanitario, degli anziani e dei gruppi a rischio in altri stati. I paesi più poveri del mondo si chiedono che cosa davvero intendano i paesi ricchi quando parlano di solidarietà»@.

Così Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha descritto durante una conferenza stampa dello scorso 22 marzo la situazione di disparità nell’accesso ai vaccini contro la Covid. A gennaio Tedros aveva detto che il mondo era sull’orlo di un catastrofico fallimento morale e che era necessario agire con urgenza per assicurare un’equa distribuzione dei vaccini. «Abbiamo i mezzi per scongiurare questo fallimento – ha poi ribadito il direttore dell’Oms a marzo – ma è scioccante quanto poco sia stato fatto per ridurre lo scarto».

Vaccini per tutti

Per tentare di garantire una più equa distribuzione dei test, degli strumenti terapeutici e dei vaccini per contrastare la pandemia, già dall’aprile dell’anno scorso, l’Oms ha avviato – insieme alla Banca mondiale, all’Alleanza globale per i vaccini (Gavi), e a diversi altri partner – l’iniziativa Act-A, che si propone di ampliare il più possibile l’accesso agli strumenti di lotta alla Covid (Access to Covid-19 tools accelerator).

La colonna portante dell’iniziativa Act-A per l’acquisto e la distribuzione dei vaccini si chiama Covax: secondo quanto si leggeva lo scorso marzo nel rapporto sul primo ciclo di assegnazioni@, l’obiettivo è quello di consegnare fra gennaio e maggio 2021 ai 142 partecipanti al programma 237 milioni di dosi di vaccino, per arrivare poi a due miliardi di dosi (1,8 miliardi secondo le proiezioni più recenti@) entro la fine dell’anno. Si tratta prevalentemente del vaccino AstraZeneca/Oxford – prodotto dal Serum Institute of India, che ha concluso con AstraZeneca un accordo per la licenza – e, in misura molto minore, del vaccino Pfizer Biontech.

Come spiegava l’amministratore delegato di Gavi, Seth Berkley@, Covax era nata per coinvolgere tutti i paesi del mondo, a prescindere dal loro reddito, in un unico sforzo per la negoziazione e l’acquisto dei vaccini, in modo da garantire la copertura vaccinale per il 3% della popolazione, corrispondente grosso modo al personale sanitario, su tutto il pianeta. La seconda fase sarebbe stata poi quella di arrivare a coprire il 20% della popolazione, con i paesi ad alto reddito che avrebbero comprato i vaccini autofinanziandosi e 92 paesi a basso reddito che avrebbero visto i costi coperti tramite le donazioni dei paesi più ricchi sotto forma di aiuto pubblico allo sviluppo.

Raggiunta la copertura vaccinale per il 20% della popolazione, Gavi prevedeva un meccanismo per cui, anche finanziandosi attraverso banche multilaterali, i paesi più poveri avrebbero ricevuto ulteriori vaccini sopportando una parte dei costi.

Bambino della Casa Hogar Estancia de Maria a Guadalajara, Messico

Promesse e realtà

Ad oggi, quasi nessuno dei paesi ad alto reddito utilizza la piattaforma Covax per negoziare e acquistare i vaccini. Pur con le eccezioni di Canada, Nuova Zelanda e Singapore, che comunque acquistano solo una porzione molto limitata di dosi tramite Covax, lo sfilarsi dei paesi ricchi dal meccanismo multilaterale ha contribuito a generare l’attuale situazione di stallo, in cui le principali economie mondiali usano i canali bilaterali e comprano direttamente dalle case farmaceutiche ritardando le spedizioni dei vaccini verso i paesi in via di sviluppo@.

Anche sul versante dell’appoggio da parte dei donatori, Covax fatica a decollare: secondo i dati dello scorso 21 marzo consultabili sul sito dell’Oms@, gli impegni a donare avevano raggiunto gli 11 miliardi di dollari: la Germania e gli Stati Uniti guidavano con 2,6 miliardi e altri 2,5 miliardi il gruppo dei primi dieci donatori, seguiti da Regno Unito, Canada, Commissione europea, Consorzio diagnostico per la Covid-19 (coordinato dall’Oms), Norvegia, Bill & Melinda Gates foundation, Arabia Saudita e Giappone.

L’Italia, che si era impegnata per 116 milioni di euro, si trovava al quindicesimo posto, mentre fra i donatori privati, oltre alla già citata Bill & Melinda Gates foundation, vi erano Reed Hastings e Patty Quilling, cioè il cofondatore e attuale amministratore delegato di Netflix e la moglie, che hanno promesso 30 milioni di dollari, seguiti dalla multinazionale di servizi finanziari Mastercard e dalla Chan Zuckerberg initiative del proprietario di Facebook e della moglie, solo per citarne alcuni.

Anche limitandosi solo alle promesse, il deficit di finanziamento a marzo restava di circa 22 miliardi di dollari, di cui 3,2 miliardi mancanti proprio a Covax. Quanto al lato degli esborsi effettivi, secondo una ricostruzione dell’Economist@ al 25 marzo per sostenere le attività di Act i donatori avevano effettivamente versato solo mezzo miliardo di dollari, di cui 300 milioni per i vaccini. La somministrazione è comunque iniziata il 1° marzo scorso, con il Ghana e la Costa d’Avorio come primi paesi beneficiari per l’Africa e la Colombia per l’America Latina, ma per i paesi a reddito basso e medio basso la strada sembra ancora molto in salita.

Alla data di chiusura di questo articolo, su 475 milioni di dosi somministrate nel mondo 126 milioni erano andate agli Stati Uniti, 60 milioni all’Unione europea e 30 milioni al Regno Unito: una frazione della popolazione mondiale pari a un decimo ha ricevuto poco meno della metà dei vaccini. In Africa, dove abita circa un sesto degli abitanti del pianeta, le dosi inoculate erano 8,5 milioni, il 2% del totale.

Quanto alle dosi acquistate, secondo il monitoraggio effettuato ogni due settimane dal centro studi statunitense Duke global health innovation center@, a metà marzo su 8,6 miliardi totali 4,6 erano dei paesi ad alto reddito (il 53,7%), 1,5 miliardi (17%) dei paesi a reddito medio alto, 703 milioni (8%) dei paesi a reddito medio basso e 670 milioni (7,8%) dei paesi a reddito basso, mentre l’iniziativa globale Covax aveva comprato il 13% delle dosi, pari a 1,1 miliardi di dosi.

Le numerose richieste, promosse da Ong come Medici senza frontiere e appoggiate dall’Oms, di sospendere i brevetti dei vaccini non hanno sortito ad oggi alcun effetto a causa principalmente delle resistenze di Usa, Ue, Svizzera e Regno Unito@.

Gesto simbolico di intercessione in tempi di Covid in Sud Corea

L’Oms e i ritardi della Cina

Le iniziative promosse dall’Oms per combattere il coronavirus non hanno ottenuto l’adesione e i risultati sperati anche a causa della scarsa collaborazione da parte delle principali economie mondiali e del prevalere della logica del bilateralismo.

La mancata collaborazione da parte della Cina è stata anche il motivo principale dei ritardi con cui nel gennaio del 2020 l’Oms ha allertato il mondo sul coronavirus e sulla gravità della situazione. Se pubblicamente l’Oms lodava la Cina per la gestione dell’epidemia, riportava nel giugno scorso Associated press (Ap)@, il dietro le quinte era però ben diverso: vi era notevole frustrazione tra i funzionari dell’Oms per i ritardi significativi con cui il governo cinese condivideva informazioni cruciali, ad esempio quelle sul genoma del virus, nonostante la rapidità con cui gli scienziati cinesi le avevano fornite a Pechino.

Le lodi pubbliche, continua Ap riportando il contenuto di alcune registrazioni degli incontri interni all’Oms in quelle settimane, erano parte di una strategia per invogliare il governo cinese a collaborare in una fase in cui – nelle parole del più alto funzionario dell’Organizzazione in Cina, Gauden Galea -, «ci danno le informazioni un quarto d’ora prima che vengano trasmesse su Cctv», la televisione pubblica cinese.

Burocrazia elefantiaca e immobilista

La scarsa collaborazione ricevuta non toglie, tuttavia, che l’organizzazione funzioni da anni in modo tutt’altro che impeccabile.

I ritardi dell’Oms nel dare l’allarme su un’epidemia non sono una novità: nel 2015 l’organizzazione fu duramente attaccata per aver aspettato due mesi prima di dichiarare emergenza globale l’epidemia di ebola in Africa occidentale l’anno prima. A trattenere l’Oms, nonostante i suoi funzionari sul campo inviassero a Ginevra numerose e accorate segnalazioni e richieste d’aiuto, fu il timore di danneggiare l’economia regionale e di compiere quello che i governi della zona avrebbero potuto leggere come un atto ostile@.

L’Oms condivide molte delle pecche del più ampio sistema di cui fa parte, le Nazioni Unite: in un articolo apparso nel 2016 sul New York Times dal titolo «Amo le Nazioni Unite, ma stanno fallendo»@, un funzionario Onu di lungo corso come Anthony Banbury individua i principali problemi della struttura nel suo sistema sclerotizzato di gestione del personale e nella tendenza a prendere decisioni basate sulla convenienza politica – ad esempio non scontentare gli stati membri – invece che sui valori fondanti dell’organizzazione o sulla realtà dei fatti sul campo.

Per quanto riguarda il primo ostacolo, spiega Banbury che, durante l’epidemia del 2014, era capo della missione Onu per la risposta di emergenza all’ebola, «troppo spesso, l’unico modo per accelerare le cose è infrangere le regole. È quello che ho fatto ad Accra [in Ghana] quando ho assunto un’antropologa come consulente indipendente. Si è rivelata qualcuno che valeva il proprio peso in oro. Le pratiche di sepoltura non sicure erano responsabili di circa la metà dei nuovi casi di ebola in alcune aree. Dovevamo capire queste tradizioni prima di poter persuadere le persone a cambiarle. Per quanto ne so, nessuna missione delle Nazioni Unite aveva mai avuto un antropologo nello staff prima di allora; quando io ho lasciato la missione, lei non è stata confermata».

Distribuzione di cibo ai più poveri in eSwatini.

«Un covo di squali»

I rapporti disfunzionali all’interno dell’agenzia sono anche l’oggetto delle critiche di Laurie Garrett, esperta di salute globale presso il centro di ricerca statunitense Council for foreign relations e giornalista scientifica. In una colorita intervista a Global health now, sito di informazione sulla sanità della Johns Hopkins Bloomberg school of public health, ha detto: «L’unico consiglio che ho dato a ogni direttore generale – e tutti lo ignorano, anche se poi, anni dopo, tutti mi dicono: “Come avevi ragione!” – è: cerca di ridurre al minimo i tuoi viaggi. Perché questo posto [il quartier generale dell’Oms] è un covo di squali». A detta di Garrett, sui programmi da realizzare ci sono grandi battaglie fra i dipartimenti, che si sabotano a vicenda per difendere il proprio territorio. Può succedere di veder «sparire improvvisamente interi programmi nei paesi poveri di tutto il mondo […] perché il direttore generale non era lì per dire “no”. E l’altro problema, con i direttori che viaggiano così tanto, è che si trovano in uno stato permanente di jet lag e iniziano a perdere la propria capacità di giudizio […] perché letteralmente non sanno in quale fuso orario si trovano»@.

Quella di Tedros è stata la prima elezione a scrutinio segreto estesa a tutti gli stati membri dell’Oms; prima, la decisione era presa a porte chiuse da una trentina di rappresentanti dei paesi ad alto reddito e da un gruppo di altri membri a rotazione. I casi di corruzione da parte dei paesi di provenienza dei candidati per assicurarsi i voti erano non solo numerosi, ma anche sfacciati.

L’Oms ha, storicamente, ottenuto diversi successi, come l’eradicazione del vaiolo e la realizzazione di grandi campagne vaccinali su tutto il pianeta. Molti esperti, specialmente alla luce dell’attuale crisi, invocano una profonda riforma dell’organizzazione per renderla più efficiente ma anche più indipendente dai condizionamenti politici@ per poter agire davvero come ente di coordinamento globale in un mondo in cui, ammonisce Gavi, nessuno vince finché non vincono tutti@.

Chiara Giovetti

 




I Perdenti 61. Salvo D’Acquisto, donare la vita

 

testo di don Mario Bandera |


Dopo le convulse settimane che fecero seguito all’8 settembre 1943, periodo nel quale la macchina bellica italiana si sfasciò, prima ancora che il paese potesse riprendersi dal collasso, uomini e donne dal carattere nobile seppero trovare nelle loro coscienze e nelle loro qualità di fondo le forze che permisero al nostro paese di risollevarsi e di guardare con fiducia al futuro. In questo contesto, il giovane vicebrigadiere Salvo D’Acquisto fu capace di assumere il ruolo gigantesco e pur umile di un martire cristiano. Per capire meglio la vicenda di questo giovane bisogna ricostruire l’episodio accaduto il 23 settembre di quell’anno a Palidoro, una località sulla costa tirrenica a pochi chilometri da Roma. Truppe naziste avevano occupato la zona e un reparto di paracadutisti tedeschi della 2ª Fallschirmjäger-Division (2ª divisione cacciatori) era accasermato presso alcune vecchie postazioni già in uso alla Guardia di Finanza nelle vicinanze della località Torre Perla di Palidoro.

Qui, nel tardo pomeriggio del 22 settembre 1943, alcuni di loro, mentre ispezionavano l’antica torre saracena in riva al mare, usata dalla Finanza come deposito di materiale illegale sequestrato ai pescatori, furono investiti da un’esplosione, probabilmente causata da un ordigno rudimentale usato da pescatori di frodo, a suo tempo sequestrato dai finanzieri. Due paracadutisti morirono e altri due rimasero feriti.

Quel che realmente accadde non si conosce ancora con precisione, ma certo la reazione dei soldati fu immediata e dura, pensando a un attacco di partigiani.

Salvo, com’era la situazione generale in quel momento?

Nella zona, abitata prevalentemente da gente impoverita dalla guerra, non operavano gruppi partigiani. A Torrimpietra si tirava avanti con fatica, tanto che io stesso avevo spesso condiviso le razioni della caserma con i più poveri.

Che ci faceva un napoletano come te in quella zona?

Nato nel ‘20, ero cresciuto nel quartiere del Vomero. Avevo cercato di studiare, partecipavo alla vita della parrocchia e mi piaceva cantare, ma presto avevo dovuto cominciare a lavorare con un mio zio. Quando a 18 anni ho ricevuto la cartolina di leva, ho scelto di entrare nei carabinieri, come già diversi miei parenti avevano fatto. Entrato nel ’39, nel 1940 mi hanno mandato con il mio reparto in Libia, dove sono anche stato ferito a una gamba. Rientrato nel 1942, a settembre ho frequentato il corso accelerato per allievi ufficiali a Firenze e ne sono uscito come vicebrigadiere. Ho chiesto io stesso di essere mandato in una stazione di periferia per essere più vicino ai poveri. Mi hanno mandato a Torrimpietra, non lontano da Fiumicino. In breve avevo conosciuto quasi tutti. Poi è successo quel terribile incidente.

Dopo la morte dei soldati, che accadde?

Quel 22 settembre 1943, la sera tardi, dopo lo scoppio della bomba, poiché i soldati non parlavano italiano, hanno cercato del personale della polizia italiana per fare le indagini e trovare i colpevoli. A Palidoro non c’era la stazione dei Carabinieri, il comando più vicino era a Torrimpietra. Là mi hanno prelevato, perché al momento ero il militare più alto di grado in quanto il maresciallo comandante era assente.

Cosa hai fatto, allora?

Pressato dal comandante tedesco, che mi aveva dato tempo solo fino al mattino, ho provato a fare delle ricerche per capire cosa fosse successo, ed è apparso subito chiaro che si era trattato di un incidente e non di un attentato. Ma il comandante dei parà tedeschi non ne volle sapere. Era un tipo che aveva già usato violenza sulla gente in altri luoghi e voleva un colpevole a tutti i costi. Ha quindi scatenato i suoi che hanno prelevato 22 ostaggi tra la popolazione della borgata, assolutamente presi a caso. Tra loro, nella retata, c’erano perfino un venditore ambulante e un commerciante di Santa Marinella che passavano casualmente in quel momento sull’Aurelia.

Quindi, ti venne ordinato di individuare tra i prigionieri l’autore dell’attentato.

Dopo aver interrogato gli ostaggi, cercai in tutti i modi di far capire al comandante tedesco che nessuno di loro poteva essere un attentatore, perché era chiaro che era stato un incidente. La loro risposta fu rabbiosa. Mi presero a pugni e a calci, lasciandomi svenuto sul pavimento. Mi ripresi qualche momento dopo, in tempo per ascoltare questa affermazione urlata da un ufficiale nazista: «Se il colpevole non salta fuori, morirete tutti».

Quindi, portarono via gli ostaggi?

Anch’io fui costretto a salire sul camion con loro. Ci portarono ai piedi della Torre di Palidoro. Sulla sabbia erano già piantate, rigorosamente in fila, cinque vanghe di modello militare; dietro di esse un drappello di soldati con i mitra imbracciati. Dovevamo scavarci la fossa.

Condannati senza nemmeno un processo?

No, ci fu una farsa di processo: l’ufficiale passò davanti a tutti noi ostaggi ben allineati, e a ciascuno domandò se fosse l’autore dell’attentato. Ottenne evidentemente una serie di «no» terrorizzati. Dopo questa parodia, l’ufficiale nazista tracciò una lunga riga sulla sabbia col frustino e disse: «Va bene, scavatevi la fossa».

© Report Difesa

Il lavoro di scavo durò quel tanto da far maturare nella coscienza di Salvo D’Acquisto la sua decisione. D’Acquisto aveva quasi 23 anni, ma era già una personalità decisa, anche se «prima» appariva perfino timido e incolore.
Fece chiamare l’ufficiale e si proclamò autore dell’attentato e unico responsabile di tutto. Quindi, Salvo ebbe appena il tempo di gridare «Viva l’Italia», e una raffica di mitragliatore lo colpì. Il suo corpo cadde senza vita nella fossa già scavata. Un ufficiale si chinò sulla vittima e sparò il colpo di grazia alla testa del giovane; alcuni soldati tedeschi poi coprirono con terra e sabbia il cadavere.

Il suo corpo rimase sepolto lì per una decina di giorni, poi due donne della zona lo dissotterrarono e gli diedero degna sepoltura presso il cimitero di Palidoro.

L’autoaccusa di Salvo D’Acquisto è stata considerata un grande atto di eroismo che gli è valsa una medaglia d’oro al valor militare e il processo di canonizzazione iniziato nel 1983. Le sue spoglie, riportate a Napoli nel 1947 e tumulate presso il sacrario militare di Posillipo, si trovano oggi nella basilica di santa Chiara a Napoli.

Don Mario Bandera

 


Diventerà davvero beato?

 

Una risposta possibile da questi passaggi tratti da articoli di due giornali cattolici (il testo completo è reperibile online).

 

Sin qui dunque l’eroe. Per giunta l’eroe morto disarmato invece che con le armi in pugno. E il santo? La questione della santità? Il 23 settembre 1983, quarantesimo anniversario della morte, l’allora ordinario militare Gaetano Bonicelli disse: «Salvo D’Acquisto ha fatto il suo dovere in grado eroico, ben oltre quello che il regolamento gli chiedeva. Ma perché l’ha fatto? Forse, in quel momento tragico, gli sono risuonate nel cuore le parole di Cristo: “Non c’è amore più grande che dare la vita per chi si ama”. Ma anche se la memoria del testo evangelico non l’ha aiutato, la forte educazione cristiana ricevuta in famiglia e nella scuola gli ha fatto cogliere l’essenziale del Vangelo». Parole con le quali il presule avviava la causa di canonizzazione di quel giovane autore di un gesto da martire che, come afferma oggi anche il fratello Alessandro, ebbe certo presente l’onore dell’Arma, la fedeltà alla patria, ma pure si abbandonò a Dio che quel «giorno di amore supremo» attinse in un campo dove aveva seminato. Una semina iniziata in famiglia, nelle scuole e negli ambienti religiosi delle Figlie di Maria Ausiliatrice, poi dei Gesuiti e dei Salesiani, frequentati sin dall’infanzia e dall’adolescenza. Dove affiora la prima educazione, non sfuggita nella documentazione per la causa di beatificazione svoltasi presso l’Ordinariato militare d’Italia, con un supplemento d’inchiesta nella diocesi di Napoli, dal 1983 al 1991, mentre nel 1999 si è resa necessaria una nuova inchiesta per indagare la possibilità del martirio (come per Massimiliano Kolbe). […]

Di lui, le cui spoglie riposano nella basilica di santa Chiara a Napoli dal 1986, resta in ogni caso la sintesi fatta da Giovanni Paolo II: «Ha saputo testimoniare la fedeltà a Cristo e ai fratelli. Ecco perché può definirsi un santo che ha contribuito per costruire la civiltà dell’amore e della verità».

Marco Roncalli
da Avvenire 14/10/2020

 

Dopo un rallentamento, sembra che la causa di beatificazione per «offerta della vita» abbia ripreso slancio. Mons. Gabriele Teti, postulatore della causa ed ex carabiniere, racconta che Salvo «a Roma incontrò un amico con il quale aveva fatto il corso da carabiniere. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, ci fu un grosso gruppo di Carabinieri che passò alla clandestinità, per combattere i tedeschi a Roma. un commilitone lo invitò a lasciare la divisa per unirsi ai partigiani. Rispose che il suo dovere era tutelare l’ordine, la sicurezza e l’incolumità delle persone che gli erano state affidate e che il suo compito non era di andare via». Salvo era nato e cresciuto in una famiglia molto religiosa. Confida il postulatore: «Già nell’infanzia piccoli episodi fanno capire la sua indole. Tornando da scuola, donò le sue scarpe a un bambino che incontrava e che era scalzo. Un’altra volta si avventò a salvare un bambino che stava per finire sotto un treno». La causa di beatificazione si è arenata sul problema del martirio. Ora il sacrificio di Salvo rientra più facilmente nella categoria «offerta della vita», criterio introdotto da Papa Francesco l’11 luglio 2017 con il motuproprio Maiorem hac dilectionem: «Sono degni di speciale considerazione e onore quei cristiani che, seguendo più da vicino le orme e gli insegnamenti del Signore Gesù, hanno offerto volontariamente e liberamente la vita per gli altri e hanno perseverato fino alla morte in questo proposito. L’eroica offerta della vita, suggerita e sostenuta dalla carità, esprime una vera, piena ed esemplare imitazione di Cristo ed è meritevole di quella ammirazione che la comunità dei fedeli è solita riservare a coloro che volontariamente hanno accettato il martirio di sangue o hanno esercitato in grado eroico le virtù cristiane». Il «dono della vita» è simile ma non uguale al martirio.

Pier Giuseppe Accornero
da La Voce e Il Tempo, 19/10/2020




Il tempo del vento

testo di Luca Losusso |


Questo è il tempo di un nuovo patto d’amore. È il tempo delle primizie del raccolto, del rinnovo dell’alleanza tra te e il tuo Dio, riscritto con il vento sul tuo cuore, e non più con il dito sulla pietra.
Oggi è il tempo nel quale lo Spirito si mette in ascolto della tua vita. Più intimo a te di te stesso, Lui abita in te, opera insieme a te, prega con te, attesta che sei figlio di Dio, e che, se sei figlio, sei anche erede, coerede di Cristo, suo fratello (cfr Rom 8). Non erede di oggetti lasciati da un morto, ma di vita trasmessa dal Vivente.

Lo Spirito ti dice la verità su di te e sul mondo. Anche il maligno, a volte. Questi per condannarti e condannare, lo Spirito per liberarti e liberare e promuovere la vita. Lo Spirito ti conduce alla verità tutta intera, non solo a una parte, non solo al male e al peccato, e alla tua incapacità di risolverli, ma alla tua condizione di creatura compresa nel progetto d’amore del Padre, alla tua dispersione ricapitolata con l’intera creazione in Cristo.

Lo Spirito santo ti santifica. Non sei tu, infatti, che ti rendi santo. È Lui. Non hai ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura. Lo Spirito rende figli adottivi, e per mezzo di Lui tu gridi Abbà, Padre. Chi potrà separarti dal suo amore? Chi muoverà accuse contro di te? Chi condannerà?

Oggi è il tempo nel quale le nazioni sapranno che Dio Padre è il Signore, perché mostrerà la sua santità in te (cfr Ez 36,23). L’ardente aspettativa dell’intera creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio.

Questo è il tempo dello Spirito che soffia. Con Lui e secondo le sue vie cammini.

Anche il tempo di pandemia è tempo di vele spiegate al vento dello Spirito.

Buona Pentecoste da amico

Luca Lorusso

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On demand

testo di Sante Altizio |


Con le sale chiuse per Covid, il cinema è più che mai domestico, magari su «piattaforme», come quella tutta italiana che offre contenuti originali. Vale la pena, poi, fare i conti anche con lo smartphone, che la pandemia ha reso ancora più centrale nella fruizione di contenuti audiovisivi.

VatiVision

È metà marzo mentre scrivo, e l’Italia è tornata a essere quasi tutta (di nuovo) «zona rossa».

Una delle conseguenze inevitabili è il perdurare della chiusura dei luoghi di ritrovo, cinema compresi. Nessuna nuova uscita nelle sale, nessun nuovo film da guardare sgranocchiando popcorn. In Italia.

In Cina, invece, il paese da cui la pandemia ha preso il volo, i cinema sono tornati a essere affollatissimi. Da metà marzo nelle sale cinesi è tornato un film uscito nel 2009: il pluripremiato e già campione d’incassi Avatar, di James Cameron. In poco più di un fine settimana ha incassato quasi 9 milioni di dollari. Un segno positivo per il futuro prossimo della settima arte.

Con le sale chiuse, l’attenzione del pubblico, che continua a vivere il proprio tempo libero soprattutto in casa, si concentra sulle piattaforme che offrono contenuti in streaming.

Netflix ha annunciato da poco di avere superato i 200 milioni di abbonati nel mondo. Calcolando a braccio, possiamo dire che sul pianeta Terra, non c’è palazzo che non abbia almeno un abbonato al colosso statunitense. Ed è lì, o su Amazon Prime, l’unico vero competitor di Netflix, che le «prime cinematografiche» arrivano puntuali, mese dopo mese.

In mezzo ai giganti nascono realtà piccole e di qualità che vale la pena segnalare. Ce n’è una tutta italiana, nata da meno di un anno, a suo modo interessante: VatiVision, presieduta da Luca Tomassini, classe 1965, insegnante alla Luiss e, ricorda Wikipedia, uno dei padri della telefonia mobile di casa nostra.

Il nome VatiVision, in realtà, è in parte fuorviante, perché, anche se apprezzata dalla Chiesa, non è un’iniziativa del Vaticano. La piattaforma ha un catalogo piuttosto nutrito di film, serie tv, cartoon e documentari con una dichiarata impronta educational e di ispirazione cattolica. È una piattaforma on demand dove è possibile sia acquistare che noleggiare i contenuti.

Molti titoli sono di produzione recentissima e toccano temi come i diritti civili, l’immigrazione, i conflitti dimenticati, le relazioni sociali. Con uno sguardo decisamente europeo, aperto, per nulla italocentrico.

Se dovessi consigliarvi come spendere i 4,99 € di un noleggio, sicuramente suggerirei Est, dittatura last minute, film del 2020 di Antonio Pisu, ambientato nella Romania del 1989. Racconta di un viaggio che parte da Cesena e vede coinvolti tre venticinquenni (uno dei quali interpretato da Lodo Guenzi, giovane frontman di uno dei gruppi musicali più in vista della scena italiana, Lo stato sociale) che decidono di fare dieci giorni di vacanza oltre la cortina di ferro, proprio mentre la cortina va in frantumi.

All’ultima Mostra internazionale del cinema di Venezia ha fatto molto parlare di sé.

Est, dittatura last minute, non è un’esclusiva VatiVision (lo trovate anche sulle maggiori piattaforme specializzate). Tuttavia fate «due passi» sul sito www.vativision.com, resterete sorpresi dalla qualità dei titoli proposti. Il livello è alto. Tra essi si possono ritrovare titoli importanti del passato e piccole esclusive, soprattutto interessanti reportage dal Sud del mondo.

Sante Altizio

Alberto Ravagnani

Vale la pena fare i conti anche con un altro strumento che la pandemia ha reso ancora più centrale nella fruizione di contenuti audiovisivi: lo smartphone.

TikTok è uno dei social network più recenti e diffusi con oltre un miliardo di utenti nel mondo. È l’unico basato esclusivamente su contenuti video non più lunghi di 30 secondi.

Nato in Cina, al centro di numerose polemiche in tema di sicurezza informatica, bloccato negli States, la app è scaricata e utilizzata soprattutto da giovanissimi.

TikTok è il terreno ideale per un giovane sacerdote che, durante il lockdown dello scorso anno, quando l’imperativo categorico era #iorestoacasa, si è chiesto in quale modo continuare a parlare con i ragazzi della sua parrocchia, anch’essa «chiusa per Covid».

Alberto Ravagnani, sacerdote di 27 anni, dall’Oratorio San Filippo Neri di Busto Arsizio, ha così iniziato a cimentarsi con YouTube, poi Instagram e infine è sbarcato su TikTok, diventandone, in pochi mesi, una vera star. Ha oltre 90mila followers (550mila se si considerano tutti i suoi social), e ogni suo TikTok raccoglie decine di migliaia di like.

Il suo canale merita di essere visto e colpisce perché don Alberto, forte delle sue poche primavere, ha un gran dono: fonde con naturalezza linguaggio alto e linguaggio basso. Usa con sapienza la tecnologia, la postproduzione video, cura l’audio, gli effetti, la color correction. E poi ci sono i testi, le brevi sceneggiature che scrive lui prima di girare.

Il suo studio è diventato un piccolo set, semplice ma curato fin nei dettagli. È bravo.

«Sono un prete, vivo in oratorio, insegno a scuola. Ogni tanto faccio cose sui social. La fede mi fa godere di più la mia vita. Per questo ne parlo. W la fede». Questa la sua breve bio su YouTube.

In una sua recentissima intervista su «Avvenire» ha detto: «I social network non sono il male. Sui social può capitare il male perché dietro ci sono anche persone che fanno il male».

Su YouTube, il suo video più gettonato (650mila visualizzazioni in 10 mesi) s’intitola: A cosa serve pregare (non è una perdita di tempo), il suo TikTok più visto, Ora di religione, conta 2,4 milioni di visualizzazioni.

«Se non impariamo a “essere tutto a tutti”, come diceva San Paolo – ha raccontato don Alberto in un’intervista alla tv della svizzera italiana che si trova in rete – come arriviamo alle persone? Se non ci facciamo “social”, come arriviamo ai ragazzi che stanno sui social? Più di qualcuno ce lo perderemo per strada».

Sante Altizio

 




La chiamata (Es 3,1-4,17)

Testo di  Angelo Fracchia |


Con il terzo capitolo dell’Esodo entriamo nel cuore della vicenda di Mosè. Inizia un’avventura unica, che sarà fondamentale per la relazione tra il Dio d’Israele e il suo popolo, ma che si lascia anche interpretare come modello ideale di un percorso di fede. Nella nostra lettura, cercheremo di evidenziare entrambe le dimensioni di questo itinerario.

Ci troviamo di fronte a Mosè, salvato miracolosamente da bambino, cresciuto alla corte del faraone, fuggito per aver difeso un ebreo (uccidendo un egiziano). Diventato genero di un sacerdote di Madian, un personaggio rilevante ma che appartiene a un popolo disprezzato e, in più, non certo ricco, dato che si trova a dover mandare le proprie figlie a pascolare le sue greggi. Mosè diventa parte di quella famiglia e si prende cura di pascolarne il gregge.

L’incontro all’Oreb

Il territorio che dalla Giudea arriva all’Egitto è un deserto, ma non dobbiamo pensare a una distesa di dune di sabbia. È punteggiato da oasi, e se lo si attraversa in quei rarissimi momenti in cui piove, lo si trova addirittura trasformato in un prato fiorito e pieno d’erba nutriente e gustosa per le greggi. Al di là del deserto, ci dice il libro dell’Esodo (3,1), Mosè raggiunge il monte di Dio. Molto si è discusso e molto si discuterà sull’identificazione di questo monte, come su altre domande riguardanti la geografia dell’Esodo: in questo nostro percorso eviteremo di occuparci di tali questioni, che sono assolutamente interessanti, ma non hanno né una risposta sicura né ricadute sul messaggio religioso del libro. A noi interessa di più l’esperienza di Mosè e capire come percepisce quanto gli succede.

Mosè vede bruciare un rovo senza che si consumi e decide di avvicinarsi per capire meglio.

Per Mosè, come per noi, e per qualunque percorso di crescita umana, il punto di partenza necessario è la voglia di capire, di vedere, di conoscere. La disponibilità a mettersi in gioco, a non starsene in disparte da spettatori. Se Dio non avesse posto sulla strada di Mosè quel segno curioso, Mosè non si sarebbe fermato; ma se Mosè non avesse voluto andare a vedere che cosa accadeva, la sua vita sarebbe stata più semplice, sicuramente più vuota, e noi non avremmo mai sentito parlare di lui. E chi avrebbe condotto il popolo ebraico fuori dall’Egitto?

Un Dio coinvolto

Dopo essersi avvicinato al roveto ardente, Mosè sente una voce che lo invita a togliersi i calzari, perché si trova in un luogo santo.

Chi tra i lettori ha già sentito la voce di Dio? Magari dal crocifisso, come capitava nei film di don Camillo. Forse nessuno. O forse qualcuno racconterebbe di aver percepito la voce di Dio in momenti delicati della vita: nel consiglio di un amico, in un’intuizione improvvisa, nella serenità giunta come dono, nel coraggio di affrontare una certa scelta. Noi preferiamo essere più razionali nel presentare queste esperienze, mentre l’antichità si fa più facilmente prendere dal gusto del racconto e parla di una voce da un roveto. Forse davvero c’è stato qualche evento sovrannaturale, ma può anche darsi che si tratti solo di un modo di esprimersi metaforico, come anche noi oggi possiamo parlare di una guerra tra la testa e il cuore, senza davvero pensare che i sentimenti stiano nel petto e non nel cervello. Non possiamo sapere di preciso che cosa abbia sperimentato Mosè, ma in ogni caso si è sentito destinatario di un messaggio, partecipe a una conversazione.

E il senso di questa conversazione è chiaro: «Il mio popolo è davvero afflitto, l’ho visto, e ho deciso di scendere ad aiutarlo» (Es 3,7-8).

Non è una presentazione banale, ed è densa di sottintesi. Il libro dell’Esodo aveva già ammesso l’oppressione del popolo, che aveva alzato grida di lamento (Es 2,23). Queste grida però non sembravano essere rivolte in particolare a Dio. È invece Dio a essersi mosso per primo, perché non si è dimenticato di Abramo, Isacco e Giacobbe (Es 2,24; 3,6).

Il popolo afflitto resta il popolo suo. Lungo i secoli non era intervenuto a ricordare la propria esistenza, ma ora non può più tenersi lontano. Dio non si muove per farsi servire e adorare, ma quando l’uomo ha bisogno, si identifica con l’umanità sofferente, si mette al suo fianco. Mosè diventerà chi sappiamo perché ha accettato di mettersi in gioco, ma anche Dio si è messo in gioco: non se ne sta sulle nubi a guardare distaccato la storia, ma si sente coinvolto. E si sente coinvolto dalla sofferenza. Non per compiacersene, ma per guarirla, per toglierla: «Fammi scendere a liberarlo» (3,8).

Il nome di Dio

Comincia qui un lungo botta e risposta tra Dio e Mosè. Nella Bibbia non mancano personaggi che si offrono generosamente per collaborare con l’Altissimo (pensiamo ad esempio a Isaia: «Eccomi, manda me!»
(Is 6,8). Non tutti, però, si offrono senza indugi. Mosè, il più grande, colui che parlava faccia a faccia con Dio (Dt 34,10), l’intermediario per la liberazione dall’Egitto e per il dono della legge, non solo era un assassino fuggiasco e pavido, ma osa anche dire di no a Dio.

Una delle prime obiezioni che muove è che non sa chi ha davanti: «Ecco, io vado dai figli d’Israele e dirò loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? Che cosa dirò loro?» (Es 3,13).

Dio in realtà si era già presentato, rimandando ad Abramo, Isacco e Giacobbe (i «vostri padri», appunto: Mosè si era distratto). Ma questo rimando poteva suonare generico: nelle vite dei padri erano successe tante cose, alcune delle quali incoerenti tra di loro. Non sarebbe stato meglio una presentazione più dettagliata, precisa? Quando ci offrono un lavoro, pretendiamo di sapere con che contratto saremo assunti, qual è la retribuzione, quante ferie ci spettano, con quali garanzie. Ma quello che Dio offre non è un lavoro.

Ci sentiremmo molto in imbarazzo (speriamo) se un simile discorso si facesse all’inizio di un’amicizia o di un amore.

Anche Dio sembra perplesso di fronte alla domanda, come se non se l’aspettasse. Poi esce in un «Sono ciò che sono» (3,14), che potrebbe essere tradotto anche come «Sarò ciò che sarò» o «Continuerò ad essere ciò che sono». E prosegue, quasi convinto da una trovata che sembrerebbe estemporanea: «Dirai così agli israeliti: Sarò/sono/continuo a essere mi ha mandato a voi». Potremmo addirittura renderlo con «Ci sarò». Mosè ha chiesto un nome, una definizione, un’identità precisa e un perimetro della missione chiaro; ma di fronte a questa richiesta, che sembra quasi prospettare un lavoro, Dio risponde con la più alta e coraggiosa promessa: «Io ci sarò, io sarò con voi». Se ci pensiamo, noi sappiamo essere molto generosi nelle nostre promesse, le quali spesso si fanno grandi come le nostre speranze o desideri, anche se non siamo padroni del nostro futuro. Possiamo però garantire che non scapperemo, che non ci tireremo fuori. E che cosa accadrà, si vedrà strada facendo.

Manda un altro

Le obiezioni di Mosè non si fermano qui. «Non conto niente» (3,11), «non mi crederanno» (4,1), «non so parlare» (4,10), fino a una frase che le nostre traduzioni, giustamente, ci restituiscono alla lettera, ma di cui rischiamo di perdere il senso profondo e l’improvvisa reazione irritata di Dio. Quando, parlando in italiano, diciamo che Andrea esce da tre mesi con la stampella o esce da tre mesi con Lucia, non intendiamo dire la stessa cosa: nel secondo caso parliamo di una relazione profonda, di affetto reciproco, quanto meno iniziale. Se sentiamo dire che una certa offerta è «per molti», capiamo che non è per tutti, anche se questo di per sé non è stato detto.

Quando Mosè dice: «Signore, manda chi vuoi mandare» (4,13), a noi può sembrare una faticosa assunzione del proprio incarico (che Dio voglia mandare Mosè è chiaro, sta cercando di convincerlo da un quarto d’ora…). Ma nel modo di parlare ebraico quella frase sottintende «tranne me». Come se Mosè dicesse a Dio: «Mi hai convinto, il progetto è veramente affascinante. Ma non contare su di me. Trovati un altro, e sarà un successo». Ecco perché Dio perde un po’ la pazienza.

Anche se non può costringere Mosè. Come con un amico che può anche spazientirsi, ma vuole la collaborazione, non può forzarlo e non farà nulla senza di lui.

Qualche insegnamento

Possiamo provare a tirare un po’ le fila di questa tappa, cogliendo anche che cosa possa voler dire a noi.

L’inizio del libro dell’Esodo ci presenta un Dio che si sente coinvolto con l’umanità. Soprattutto con quella che soffre. Non è il motore immobile dei filosofi, che se ne sta nei cieli a guardare un po’ severo ciò che succede sulla terra. È piuttosto un padre che soffre per i suoi figli, finché non ce la fa più a resistere, e scende sull’Oreb.

E non è un Dio che voglia agire senza gli uomini. Con Mosè insiste, discute, prova a convincere, si arrabbia… ma non si muoverà senza di lui. Il Dio della Bibbia prende totalmente sul serio l’uomo, non lo tratta da burattino. Se Mosè dicesse di no, sarebbe no. Ecco perché Dio si prende il fastidio di tentare di convincerlo, non può passare sopra alla sua libera scelta. La libertà dell’uomo per Dio è tanto sacra da non poter essere forzata neppure da lui. Ecco perché è tanto grande e impegnativa la responsabilità umana.

E, insieme, questa non è un’opportunità riservata solo agli eletti, ai migliori, ai perfetti. Mosè ci può sembrare non migliore né peggiore della maggior parte degli esseri umani. Anche nel suo tentativo di non prendersi responsabilità. Dio non chiama a grandi cose l’umanità perfetta: al limite, la rende indimenticabile, se solo inizia a fidarsi di lui.

Cominciamo poi a cogliere le modalità della relazione con questo Dio: non c’è una proposta da ponderare con la calcolatrice. La chiamata divina non è una proposta assicurativa. È piuttosto un progetto di vita: come ogni progetto di vita (che sia un legame coniugale, una consacrazione, una professione, una scelta di stile o di residenza…) ci sono degli elementi che lo rendono conoscibile, credibile, attraente, ma alla fine se non si decide di fidarsene, di lasciargli spazio, di stare al gioco… non accade. Se ci impegnassimo nella vita solo in ciò che si dimostra affidabile e garantito, non faremmo nulla. Come nelle amicizie, anche nel rapporto con Dio l’unico modo di avere garanzie sulla credibilità della sua chiamata, è ascoltarla. Ciò di cui ci fidiamo, potrebbe tradirci, ma ciò di cui non ci fidiamo, non mostrerà mai le sue potenzialità, siamo noi a tradirne la promessa.

E Dio è promessa, è potenzialità, è slancio sul futuro, è relazionalità. Non è una definizione statica, non è il difensore dell’ordine, bensì della vita, che è disordinata, anche incoerente ma solare e piena di frutti. Per questo non può sopportare di rinchiudersi in una definizione, che possiamo controllare e che ci dice tutto. Il Dio di Mosè è un Dio capace di sorprendere, di invitare a scommettere, a mettersi in gioco. Capace di pentirsi ma anche di rilanciare, di ripartire. Non è il dio dei filosofi (o anche, a volte, del catechismo), racchiudibile in una griglia molto ben organizzata, ma è il Dio dei profeti, degli artisti, di chi ama. E se è vero che viene incontro al bisogno non espresso del suo popolo promettendo intanto la liberazione ma sapendo già che non basterà (allude al servizio che il popolo gli offrirà sul monte, Es 3,12, ma poi non se ne parlerà più finché non sarà ora), ciò che promette non è la programmazione dettagliata di tutto quello che dovrà succedere, ma «solo» la garanzia che la relazione non verrà mai meno: «Io ci sarò».

Angelo Fracchia
(Esodo 03 – continua)