Norme e precetti (Es 25-31; 35-39)


Si legge (e si è scritto anche qui) che il libro dell’Esodo è in fondo un percorso esistenziale di ingresso nella fede. È questo il motivo per cui rappresenta un testo ancora attualissimo e leggibile come un avvincente cammino umano, a patto di essere aiutati a capirne le modalità di espressione.

Ciò non toglie che, a prima vista, risulti ben difficile inserire in tale quadro i capitoli dal 25 al 39, fatto salvo il capitolo 32 che racconta l’episodio del vitello d’oro. Sono infatti pagine per noi estremamente noiose, nelle quali viene descritto con dovizia di particolari tutto ciò che riguarda il culto, a partire da come dovrà essere costruita la tenda del santuario, l’arca dell’alleanza, come dovranno essere i paramenti dei sacerdoti e così via. Noi facciamo fatica a capire come questi testi siano finiti in una vicenda per altri versi vivace e appassionante. Si tratta però di molti capitoli, circa un terzo del libro, e non si può quindi decidere di saltarli. Il nostro disagio forse tradisce il fatto che non li abbiamo capiti bene.

Uno sguardo alla struttura

Innanzi tutto, dobbiamo di nuovo ricordarci che ci troviamo davanti a un «libro» di circa 2.500 anni fa. È vero che continua a mostrare la sua modernità, in quanto parla di dinamiche umane che evidentemente non sono cambiate molto. Ma, nello stesso tempo, è scritto da autori che non potevano conoscere il romanzo moderno e che seguivano, invece, le convenzioni letterarie di quel tempo.

Qualcuna di queste convenzioni può risultarci utile per capire. Noi, infatti, siamo abituati a libri divisi in capitoli, paragrafi e capoversi (il «punto e a capo»), con elenchi numerati, con punteggiatura precisa e magari con l’uso di grassetto e corsivo. Tutti questi elementi della scrittura moderna, che ci aiutano a capire il procedere del discorso, nell’antichità non si usavano. Così come allora si faceva ricorso a «trucchi» ai quali noi non siamo più abituati. Possono sembrarci più complessi e meno chiari di quelli che usiamo noi, e in parte lo sono, ma non dobbiamo dimenticarci neanche che l’antichità aveva a disposizione molti meno testi scritti di noi e meno persone capaci di leggerli, il che significa che quelle poche affrontavano percorsi di alfabetizzazione più lunghi, e quindi anche più approfonditi e ricchi.

Principi di fondo

Per quello che ci interessa, può essere utile recuperare almeno tre principi di fondo.

a) Ciò che è più importante viene prima. Noi siamo abituati ad avere dei riepiloghi finali che sono spesso il cuore del discorso. Anzi, i libri gialli e le barzellette ci hanno abituato all’idea che fino all’ultima parola, potremmo non avere capito l’essenziale. Gli antichi, invece, tendevano a mettere riepiloghi e principi di fondo all’inizio. Certo, a volte c’era da seguire un ordine cronologico, ma anche in quel caso si inserivano all’inizio dei segnali per indicare che un determinato evento doveva essere considerato fondamentale, anche se narrato solo a un certo punto del percorso.

Per fare un esempio, quando nel libro dell’Esodo Dio dialoga per la prima volta con Mosè, gli dice anche che dopo l’uscita dall’Egitto gli israeliti lo avrebbero «servito su quel monte» (Es 3,12). Ovviamente il tema riemergerà solo al capitolo 19, ma intanto il lettore sa già che quell’aspetto è significativo.

b) Ciò che è più importante prende più spazio. Se ci pensiamo, lo fanno ancora i nostri maestri, che ritornano più volte sui concetti fondamentali, dilungandosi a presentarli anche se potrebbero farlo in mezzo minuto. Ma ciò che è esposto in mezzo minuto sarà più facile da dimenticare, mentre se di un’idea parlano per due ore, tutti se ne accorgeranno e la ricorderanno.

c) Si potrebbe ancora aggiungere un mezzo meno frequente, ma interessante per la lettura di questi capitoli: ciò che è inserito dentro a una «cornice» che lo inquadra, va interpretato all’interno di quel contesto. Ad esempio, Es 25-31 sembrano essere ripetuti in Es 35-39. Questo, tra l’altro, vuol dire che forniscono il contesto in cui dovranno essere interpretati i capitoli dal 32 al 34 (di cui ci occuperemo nelle prossime puntate).

Una vita concreta e organizzata

Cominciamo allora a trarre qualche conseguenza. Nei capitoli dal 25 al 31 di Esodo, Dio indica a Mosè come dovrà procedere a organizzare il tempio e il sacerdozio; nei capitoli dal 35 al 39, una buona parte di quelle indicazioni vengono ripetute per dire che Mosè ha fatto proprio come Dio gli aveva detto. Un doppione noiosissimo, diremmo (e, diremmo anche, a ragion veduta!). Al di là della noia, se riusciamo a leggere questi lunghi capitoli di spiegazioni minuziose e ripetitive alla luce dei tre principi spiegati sopra, possiamo darci la possibilità di capire qualcosa di importante: innanzitutto capiamo che la dimensione normativa e rituale della vita di fede, per il popolo uscito dall’Egitto è fondamentale. Questi testi occupano infatti un terzo del libro dell’Esodo.

Poi capiamo anche che, arrivando alla fine del libro, questi capitoli non rappresentano quelli più importanti. Di questi materiali, infatti, non si era offerta alcuna anticipazione nei capitoli precedenti, il che significa che non sono essenziali. L’aspetto rituale, liturgico, è importante e significativo, ma non è il cuore del discorso né il primo mattone.

Se l’Esodo fosse stato scritto oggi, questi capitoli sarebbero riassunti in qualche annotazione esplicita (come queste mie) o con qualche nota a piè di pagina. Gli antichi però non usavano le note e non erano abituati a spiegare il senso di ciò che narravano.

Chi leggeva, però, avrebbe perfettamente compreso che cosa significava concedere tanto spazio a questi temi e allo stesso tempo porli alla fine.

Il senso della concretezza

Iniziamo a cogliere allora che cosa gli autori del libro volevano che si capisse e ciò che probabilmente i lettori avrebbero intuito con relativa facilità.

Il percorso di fede tracciato dal libro si è finora giocato moltissimo sulle dinamiche personali e spirituali. Dalla liberazione dall’oppressione si è giunti alla percezione che era necessario fidarsi di una parola promettente, per poi decidere di legarsi definitivamente a questa presenza (Es 19).

Tutte dinamiche, diremmo, quasi psicologiche, sicuramente interiori. È vero che le scelte comportano anche delle decisioni concrete (dall’Egitto bisogna partire, dentro al mare occorre entrare…), ma queste restano occasionali e secondarie.

Giunti a questo punto del percorso, però, gli autori segnalano che la concretezza della vita può anche essere secondaria rispetto alla fiducia e alla decisione di abbracciare la relazione con Dio, ma non può essere trascurata. Siamo fatti anche di materia, di azioni e di abitudini.

Riprendendo un paragone che abbiamo già fatto, è una dinamica che ricorda la vita insieme di due persone che si amano. A tenerli insieme non sono delle regole, ma l’affetto reciproco, che però deve farsi anche pratico, stabilendo chi cucina, chi fa la spesa, chi pulisce, chi paga le bollette. Sono questioni senza dubbio secondarie, meno fondamentali dell’ispirazione di partenza, ma non possono essere tralasciate. La vita reale passa dal rendere concrete le intuizioni più profonde.

I contenuti

In particolare, il testo di questi capitoli si concentra sugli arredi del santuario (Es 25; 37), sulla sua architettura (Es 26-27; 36,8-38 e poi ancora il capitolo 38), sui sacerdoti (28-29; 39) e infine sugli strumenti al servizio della mediazione tra Dio e gli uomini (l’altare degli incensi, il propiziatorio, il tributo per il tempio, il bacile d’acqua, l’olio per l’unzione, l’incenso, il sabato, le tavole: Es 30-31; 34,29; 35; 38,8.21.24-31).

Nell’insieme delle indicazioni a volte molto minuziose, può essere utile riprendere almeno alcuni elementi.

a) Le differenze. Di solito, quello che è presentato nei capitoli 25-31 è ripreso quasi alla lettera in 35-39. In Es 25,1-7, però, si illustra il materiale necessario per il tempio, che in 35,4-29 è ripresentato in modo nettamente più articolato. Così, l’olio per i candelabri di cui si parla in Es 27,20-21 non trova paralleli nei capitoli successivi, dedicati all’attuazione del progetto.

È interessante che, pur nel contesto di una ripetizione completa e precisa delle indicazioni, per sottolineare che Mosè attua realmente ciò che Dio gli chiede, si ammetta che tuttavia non si dà una corrispondenza perfetta.
La realtà non coincide totalmente con il progetto divino,
che nessuna situazione umana adempierà pienamente.

Anche se la chiesa cristiana o il popolo ebraico tenteranno, in buona coscienza, di pensarsi come la realizzazione precisa dell’intenzione divina, esisterà sempre una differenza di cui tutti devono essere consapevoli. La pienezza del regno divino è sempre oltre ciò che l’uomo potrà costruire nella storia.

b) Un Dio presente e vigilante.

In Es 25,23-30; 37,10-16 si presenta quella che, nella tradizione religiosa non solo d’Israele, era concepita come «la stanza di Dio». Anche Israele, infatti, nell’immaginare il suo rapporto con Dio, copia le modalità che erano consuete tra i popoli che vivevano intorno a lui. Queste prevedevano di preparare alla divinità un ambiente in cui vivere, comprensivo di una tavola per pranzare, a volte strumenti per le diverse attività (arco e frecce, mattoni per gli dèi costruttori…), un letto in cui dormire. Ebbene, in questa presentazione dell’Esodo, di letto non si parla mai, né di strumenti di lavoro. L’unica a essere presente è una tavola, con un rimando al nutrimento che spesso, nel contesto del tempio, punta sui «sacrifici di comunione» (cfr. Lv 7, ad esempio), nei quali l’animale sacrificato era mangiato in parte da chi presentava l’offerta, in parte bruciato sull’altare, come se fosse Dio a cibarsene. Si immaginava, cioè, un banchetto in cui Dio era un commensale. Vale a dire che l’unico elemento che si ritiene di evidenziare è l’intenzione divina di vivere la comunione con i suoi fedeli. Per il resto, il Dio d’Israele non dormirà (cfr. Sal 121,4).

c) Tenda, non reggia. In Es 25,8 si presenta il santuario come «residenza» divina. Il termine utilizzato rimanda alle tende dei nomadi, una dimora preziosa ma non stabile, non fissa. Si suggerisce da subito che essenziale per Dio non è un luogo dove stare, una reggia, ma il poter risiedere insieme al suo popolo. Dal tempio potrà anche fuggire, ma essenziale è la comunione con i suoi fedeli.

d) Partecipazione attiva di tutti. In Es 31,1-11; 35,30-36,7; 38,21-23 si presenta la costruzione e abbellimento del tempio. Potrebbe stupire che non si dica che sia Dio a costruirlo, né Mosè ad eseguire l’ordine divino, bensì i «costruttori», dotati da Dio delle competenze necessarie. La relazione tra Dio e Mosè è privilegiata, ma si coglie sempre che i talenti e i doni di ognuno meritano di essere lasciati liberi di esprimersi, e che il rapporto tra gli uomini e il divino non sopporta di passare solo da pochi eletti. Non è Mosè e neppure Dio a fare tutto, ma ciò che accadrà sarà possibile solo per l’intervento attivo e variegato di ogni fedele.

Angelo Fracchia
(Esodo 15 – continua)




Ricostruire persone e comunità


Ricostruire è un altro modo per dire consolare. E oggi c’è bisogno di farlo per persone e comunità in tutto il mondo e, in modo concreto, in Europa. Laddove ci sono situazioni infrante, consolare è favorire il perdono che libera e la riconciliazione che ricuce.

Ero a Bogotá. Il superiore mi aveva chiesto, con una certa insistenza, di partecipare a un incontro di teologia organizzato dall’Università dei Gesuiti. Poteva essere una specie di penitenza o, forse, il fatto che non trovasse nessun altro.

Vi andai e rimasi contento.

Il linguaggio, anche se esatto e raffinato, era accessibile.

Mi interessò soprattutto quanto detto da un anziano gesuita, professore molto rispettato, ormai in pensione, che iniziò parlando del capitolo 40 di Isaia, il famoso passo che dice: «Consolate, consolate il mio popolo…».

«Israele si trova in una situazione disastrosa. Il tempio è distrutto, le mura della città abbattute, il sacerdozio, non esistendo più il tempio, non ha ragione di essere, la popolazione è stata dispersa, le persone con qualche capacità di lavoro sono deportate a Babilonia. Non servono parole o gesti consolatori. Qui c’è bisogno di una ricostruzione dalla radice».

Giunto a questo punto del suo intervento, il professore diede sfoggio delle sue conoscenze della lingua ebraica: «Le parole “consolare” e “ricostruire” hanno, in ebraico, la stessa radice», disse. «Quindi consolare sta per ricostruire».

Come missionario della consolazione sentii che il teologo gesuita parlava del mio carisma: l’impegno di ricostruire le persone, le situazioni, le relazioni.

Da allora, l’affermazione dell’antico professore, che non ho mai potuto verificare, l’ho sempre venduta, così come l’ho ricevuta.

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Persone e comunità distrutte

Oggi incontriamo molte persone che si sentono distrutte, non trovano ragioni per andare avanti. A volte si tratta di situazioni non particolarmente disastrate, ma senza soluzione, per l’incomprensione e il rifiuto continuo all’interno delle relazioni più intime e familiari.

La maggior parte delle persone che si avvicinano al sacramento della penitenza, più che altro cercano ascolto, consolazione, indicazioni per ricostruire se stesse o le relazioni con chi si è allontanato.

C’è, quindi, un estremo bisogno di ricostruire persone e comunità. Questo è il nome della consolazione, necessaria oggi in tutto il mondo e, in modo concreto, in Europa.

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Il perdono è liberazione

Come possono ricomporre la propria vita persone distrutte perché offese, violentate, calunniate, diffamate?

C’è una parola fondamentale: il perdono.

Se ne parla spesso, ma forse è importante sottolinearne alcuni aspetti.

C’è chi lo vede come un dovere morale: «Devi perdonare». Ma, a chi è stato ferito, si può chiedere di aggiungere al dolore subìto anche il peso di guardare con rispetto il proprio offensore?

Forse non è questo il perdono utile per ricostruire la persona.

Allo stesso tempo, però, se al male rispondiamo con il male, allunghiamo una catena che ci tiene schiavi.

Il perdono è spezzare quella catena.

Mi fanno del male? Rispondo in un altro modo. Non voglio che chi mi ha fatto soffrire continui a dominare su di me.

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Il perdono è liberazione, è costruire la propria vita con tutta la libertà possibile. Se è vero che il perdono non cambia il passato, può liberare però il futuro.

Ho diritto a provare rabbia di fronte a un fatto ingiusto, ma trasformare la rabbia in rancore, vivere di rabbia, è una disgrazia.

Se, invece, riesco a liberare la mia vita dal desiderio della vendetta, se non conservo il male dentro di me verso chi mi ha fatto del male, allora curo la ferita che mi è stata inferta e mi sento capace di affrontare il futuro con libertà.

Certamente perdonare non è dimenticare, ma è ricordare in modo nuovo e diverso.

Questo non vuol dire che mi sia riconciliato con chi mi ha offeso, ma almeno ho preso il largo, sento che non sono più alle dipendenze di chi mi vuole o mi ha voluto male.

È facile perdonare? No. Bisogna lasciare alle spalle l’oscurità della rabbia e del rancore per prendere una decisione che mi fa stare bene. E ciò che mi aiuta in questa decisione è essere convinto che devo cambiare il mio punto di vista, non per giustificare quanto è avvenuto, ma per cercare di comprendere.

La persona che mi ha fatto soffrire è certamente una persona, sotto molti punti di vista, orribile. Ma è pur sempre una persona.

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Non sei ciò che hai fatto

Una chiacchierata fatta qualche tempo fa nel carcere minorile di Torino con un gruppo di interni, mi ha permesso di condividere questo tema.

Un giovane, che aveva commesso un grave delitto, mi ha detto: «Io sono un assassino». «No», gli ho risposto. «Allora che cosa sono?», ha ribattuto. «Sei una persona che ha ucciso». «Ma è lo stesso». «No, non è lo stesso».

Un giovane tunisino è intervenuto con una battuta: «Quando esco di qui voglio andare in Spagna». «Ti piace la Spagna?», gli ho chiesto. «È che là non mi conoscono», mi ha risposto. «È già un bel motivo per andarci. Ma che cosa vai a fare in Spagna?». «Voglio fare una banda». «E tu che cosa suoni?». «Ma non è per suonare. È per rubare». Allora io ho ribattuto: «Ma tu non sei un ladro». «E che cosa sono?». «Sei una persona che ruba». «Ma è lo stesso». «Penso di no. Non è lo stesso».

E così con un marocchino. «Tu non sei uno spacciatore. Sei una persona che spaccia».

Il dialogo è continuato a lungo e si è fatto acceso. Alla fine, ho detto: «Vi faccio un’ultima domanda e la finiamo lì. Chi è nato ladro, assassino o spacciatore?». La risposta è stata unanime: «Nessuno». «Come siamo nati? Come persone. Ecco quello che siamo. Poi non è uguale uccidere e aiutare, rubare o spacciare e servire gli altri. Allora ognuno si prenda le sue responsabilità. Ma tu non sei quello che hai fatto. Sei anche quello che puoi essere. Non sei solo il tuo passato, ma anche il tuo presente e il tuo futuro».

Se questa diventa una nostra convinzione, allora avremo purificato il nostro sguardo su chi ci ha fatto del male. Ma avremo anche purificato il nostro sguardo sul perdono più difficile, che è perdonare se stessi.

Ricostruire se stessi è l’impresa più grande, ma anche la più necessaria e liberatrice.

A volte risulta più facile offrire il nostro perdono agli altri che a noi stessi. Abbiamo in noi il desiderio di sentirci perfetti e invece è importante avere il coraggio di ritenerci limitati, fragili. Il perfezionismo non è utile, perché ci rende infelici, ci impedisce di accettare gli altri e noi stessi nelle nostre limitazioni.

Qualunque cosa sia avvenuta nella nostra vita, noi non siamo il nostro errore. Ci dobbiamo guardare con simpatia e fiducia sapendo che il passato non c’è più, il presente e il futuro sono nelle nostre mani.

Certamente possono rimanere in noi le radici del passato, radici che dobbiamo saper controllare e limitare nei loro sviluppi. È vero che il perdono non cambia il passato, il perdono verso gli altri e verso di noi libera il futuro.

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La riconciliazione

Se, con il perdono abbiamo ripulito e curato la nostra ferita, che, pur lasciando una cicatrice, non brucia più come agli inizi, adesso possiamo passare a curare la ferita con l’altro, con chi ci ha fatto del male.

Questo percorso lo chiamiamo riconciliazione.

Il perdono è sempre totale, senza condizioni. Sempre possiamo perdonare, perché ci fa stare bene, ci libera, ci rende creativi e padroni di noi stessi.

La riconciliazione, invece, non sempre è possibile. Se il nostro avversario si rifiuta, se è morto, se non so dove si trovi… allora posso perdonare, cioè rimuovere da me ogni desiderio di vendetta, di fare del male, ma non mi posso riconciliare.

Inoltre, la riconciliazione richiede la volontà da parte di tutti e due per percorrere un cammino che permetta l’incontro. E questo cammino si sviluppa attraverso varie tappe, che sono condizioni perché la riconciliazione sia reale.

Questo vale quando la riconciliazione è interpersonale o quando avviene tra due gruppi di avversari, o anche quando si tratta di riconciliazioni di tipo storico, ad esempio riconciliazioni nazionali come furono quelle molto interessanti elaborate in Sudafrica, in Perù o in Croazia.

Sono tentativi che non risolvono tutti i problemi, ma cercano di disinnescare conflitti maggiori e violenti.

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Memoria, verità, giustizia per un patto nuovo

Per percorrere in modo positivo il cammino della riconciliazione sono necessarie delle condizioni chiare.

Iniziamo con la memoria.

Non si costruisce la riconciliazione sul nulla. Qualcosa è successo, c’è stato un conflitto. La memoria non è una risorsa per ricordare, ma per ricostruire il passato con una finalità: assumere verso di esso un atteggiamento etico, cioè arrivare ad affermare «mai più, questo non deve succedere più».

Non si sta a esaminare il passato per distribuire colpe o errori: si scaverebbe una fossa che interromperebbe le relazioni. Si cerca, piuttosto, di arrivare insieme alla conclusione che quanto è avvenuto non è utile, non aiuta, non libera, non ci rende più umani.

Si passa poi al tema della verità. Anche qui non è importante la verità oggettiva, che è stata già in parte affrontata con la memoria, ma l’atteggiamento di reciproca sincerità. La verità delle relazioni, la fiducia rinnovata, la comunicazione sono necessarie per guardarsi in faccia e negli occhi affermando, senza il pericolo di inganno, che ci si può fidare, che si è recuperata una base solida su cui costruire o ricostruire la possibilità di una relazione solida.

Il passo successivo ci porta a riflettere sulla giustizia, che richiede due momenti: il primo, assumere la propria responsabilità, il secondo, offrire una riparazione.

Quando si è affermato che nessuno è il suo errore, si è anche detto che ogni atto ha un suo senso: non è lo stesso agire in un modo o in un altro. Ognuno può assumersi le proprie responsabilità.

Anche perdonare se stessi non equivale ad assolversi, ma significa non bloccarsi in una situazione.

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Assumere la propria responsabilità su ciò che è avvenuto può essere fatto nel dialogo o anche nel silenzio interiore. Allora è importante passare al secondo momento: offrire una riparazione, che può consistere in un oggetto donato, un gesto che esprima la volontà di riconciliazione. In questo caso sono importanti i gesti o rituali della pace: un abbraccio, un bacio, una stretta di mano…

Finalmente, l’ultimo passo nel cammino della riconciliazione consiste nel guardare verso il futuro e stringere un patto o accordo.

I patti si costruiscono in base alla necessità o alla convenienza. Se si considera necessario giungere a un accordo, allora bisogna che ognuno guadagni qualcosa e trovi il modo per superare le differenze.

È chiaro che, soprattutto nel momento del patto, è necessaria la presenza di un mediatore che possa facilitare un buon risultato. In un patto ben costruito nessuno perde, ma tutti guadagnano.

I patti, poi, possono avere diversi livelli. Ci sono patti di coesistenza, che potremmo anche chiamare patti di non aggressione. Ognuno vive per proprio conto, senza maggiori interferenze. Ci sono poi i patti di convivenza, dove si condivide, in qualche modo, qualche aspetto della vita. Infine, ci sono i patti di comunione, quelli tramite i quali si pianifica, si realizza, si valuta e si condivide tutto.

Ognuno sceglierà il patto possibile. Non è necessario, e a volte non è bene, per evitarsi inutili frustrazioni, puntare al patto più perfetto.

In ogni caso, anche una buona separazione è già anche una forma di riconciliazione. Quando non è possibile continuare insieme, si arriva alla conclusione che ognuno può prendere la propria strada, ma in modo serio e rispettoso. Ognuno ricupera la sua libertà rispettando la libertà dell’altro.

Ricostruire persone e situazioni infrante

Non sarà questa una strada di consolazione? Quella di ricostruire persone e situazioni infrante, aiutando perché ognuno personalmente, con il perdono, o comunitariamente, con la riconciliazione, ritrovi la propria libertà e armonia?

Qualche anno fa mi trovavo a Scutari, in Albania. Il vescovo mi aveva chiesto di parlare di questi temi a un gruppo di universitari albanesi e kosovari. Alla fine dell’incontro si è avvicinata una ragazza, che parlava bene l’italiano, come quasi tutti loro, e mi ha detto: «Lei ha parlato di me. Quello è il mio caso».

Avevo affermato, alla fine del discorso, che, a volte, io stesso consiglio di perdonare senza cercare la riconciliazione. Il caso più chiaro è quando si tratta di una ragazza violentata da suo padre. «Perdona», dicevo, «cioè, cerca di guarire questa enorme ferita. Tu ti meriti tutto l’amore e il rispetto di questo mondo. Sei una vittima, non sei colpevole. Riprendi nelle tue mani la tua vita, sentiti libera, costruisci il tuo futuro. Il segno di questa violenza rimarrà in te, come una cicatrice, non più come una ferita. Cerca di volerti bene e stai lontana da chi ti ha fatto del male». «E il comandamento che dice di amare i propri genitori?», mi ha domandato. «Sì, onora tuo padre, tua madre, ma anche tua figlia. È l’onore e l’amore per tutta la famiglia. Se tieni lontano tuo padre non gli farai nessun male ed eviterai che lui ne possa fare ancora a te».

Quella ragazza mi è saltata al collo e mi ha detto: «Grazie. Mi sento liberata. Sono felice».

Penso che, quel giorno, la consolazione sia arrivata a quella vita, che l’abbia ricostruita.

Anche in Europa c’è tanto bisogno di consolazione.

Gianfranco Testa


L’Università del Perdono è un’Associazione Onlus, senza fini di lucro, apolitica e aconfessionale, che intende promuovere uno stile di vita improntato al perdono e alla nonviolenza attiva.

L’Università mette in atto qualsiasi intervento o azione che possa essere funzionale alla diffusione dei valori del perdono e della nonviolenza, mettendo al centro l’uomo piuttosto che il conflitto.

www.universitadelperdono.org

desalvia.anto@gmail.com

 

 




Carbone, petrolio, gas vincono ancora


I combustibili fossili continuano a dominare la scena mondiale e a crescere di prezzo. In primis, per la speculazione. L’energia rinnovabile rimane una piccola percentuale dell’energia consumata.

Proprio quando il mondo sembrava deciso a volersi impegnare seriamente contro i cambiamenti climatici, è tornata l’angoscia per i prodotti energetici. Un’angoscia alimentata in parte dalla nostra indolenza, in parte da fatti contingenti. L’indolenza si riferisce alla nostra incapacità di agire finché eravamo in tempo. Da decenni, gli scienziati ci avvertono che i cambiamenti climatici sono dovuti all’accumulo di anidride carbonica emessa dai combustibili fossili e ci esortano a risolvere il problema convertendoci alle energie rinnovabili, principalmente eolico e solare. Ma noi abbiamo temporeggiato facendo orecchie da mercante. Imperterriti, abbiamo continuato a rifornirci di energia elettrica da centrali alimentate a gas e carbone dedicando alle rinnovabili solo le briciole. Secondo i dati dal Centre for climate and energy solutions, nel 2019 l’energia rinnovabile incideva solo per l’11,2% sul totale dell’energia consumata a livello mondiale per elettricità, trasporti e riscaldamento. Considerato che nel 2009 la percentuale era attestata su 8,7%, in un decennio il peso delle rinnovabili è aumentato di appena 2,5 punti percentuale, lasciando che i combustibili fossili continuassero a farla da padroni coprendo tutt’ora l’80% dei consumi energetici a livello mondiale.

Solo nell’ultimo decennio, il consumo mondiale di petrolio è passato da 4 miliardi di tonnellate nel 2010 a 4,4 nel 2019 registrando un aumento percentuale del 10%. Quanto al gas, il consumo è passato da  3.160 miliardi di metri cubi nel 2010 a 3.903 nel 2019, un aumento percentuale del 23%. Intanto anche un altro combustibile fossile ha registrato un aumento importante. Si tratta del carbone che, pur essendo molto più inquinante, è però meno caro e quindi preferito da paesi come Cina, India, ma anche Polonia, affamati di energia a basso costo per recuperare il terreno perduto sulla strada dello sviluppo industriale. Così il suo uso è passato da 7,2 miliardi di tonnellate nel 2010 a 8 miliardi di tonnellate nel 2019, l’11% in più. Con inevitabili conseguenze sulle emissioni di anidride carbonica, passate da 38,5 gigatonnellate nel 2010 a 43,1 nel 2019.

Dal punto di vista dei prezzi, benché i prodotti energetici siano soggetti a repentini cambiamenti, complessivamente nel secondo decennio del nuovo millennio, si è assistito a un certo ribasso. Segno che l’industria dei combustibili fossili ha saputo rispondere alle maggiori richieste di mercato, producendo addirittura qualcosa di più. Nel caso del petrolio, la quotazione è passata da 79 dollari al barile nel 2010 a 64 dollari nel 2019. Per il gas naturale, invece, siamo passati da 6,7 dollari per milione di Btu (British thermal unit) nel 2010, a 4,45 nel 2019. Ma questa situazione di relativa stabilità si è rotta con l’arrivo del Covid. I lockdown, decretati nel 2020 nelle maggiori economie del mondo, hanno provocato una caduta brusca nel consumo di prodotti energetici per l’arrestarsi di molte attività produttive, la cancellazione di viaggi aerei, la riduzione dei viaggi su strada. Complessivamente nel 2020 il consumo mondiale di petrolio si è ridotto del 9% mentre quello del gas del 2%, provocando una riduzione di prezzo che è stato rispettivamente del 34 e del 23%. Con beneficio anche per il clima, dal momento che il 2020 ha registrato una riduzione nelle emissioni di anidride carbonica nell’ordine di due miliardi di tonnellate. Ma la tregua è durata poco.

Centrale termoelettrica e animali al pascolo. Foto Peggychoucair-Pixabay.

Consumi e prezzi

Decisi a voler tornare a crescere, molti governi hanno stanziato somme enormi, tutte a debito, per finanziare spese e investimenti di ogni tipo, finalizzati a rilanciare le proprie economie. Basti citare il Next generation Eu, il piano di investimenti messo a punto dall’Unione europea, del valore di 750 miliardi di euro finalizzato alla transizione ed efficienza energetica, all’ammodernamento dei trasporti, alla ricerca industriale, al rafforzamento dell’edilizia sociale, al sostegno di produzioni strategiche. Come potremmo citare l’American rescue plan, il piano di rilancio americano decretato nel marzo 2021 che destina 1.900 miliardi di dollari a interventi a favore di famiglie, enti pubblici e imprese. Senza dimenticare il pacchetto di stimolo economico del valore di 940 miliardi di dollari decretato a fine 2021 dal governo giapponese.

Ed è successo che la ripartenza contemporanea di tutte le economie mondiali ha creato una crescita inaspettata di domanda di prodotti energetici che il mercato ha immediatamente tradotto in aumento dei prezzi. Nel caso del petrolio, le prime tendenze al rialzo si sono palesate già nel novembre 2020 per proseguire lungo tutto il 2021, fino a raggiungere gli 86 dollari al barile a fine anno. Ma la vera mazzata è stata per il gas naturale che, nel corso del 2021, è passato da 7 a 38 dollari per milione di Btu, un aumento del 400%. Eppure, l’Iea, l’Agenzia internazionale dell’energia, ha certificato che nel 2021 l’aumento dei consumi di gas è stato solo del 4,6%. Dal che si capisce che qualcuno ha avuto interesse a trasformare in incendio ciò che era solo un focherello. Questo qualcuno è il mondo della finanza che riesce ad agire incontrastata per l’incapacità della politica di metterle dei freni.

il ruolo dei futures

In Europa, uno dei luoghi in cui si determina il prezzo del gas è la Borsa di Amsterdam, dove non si stipulano solo contratti di compravendita a consegna immediata, ma anche contratti futures, tecnicamente a consegna futura la cui vera finalità è scommettere sull’andamento dei prezzi. Chi punta sul rialzo si impegna a comprare a una certa data futura ai prezzi di oggi; chi invece punta sul ribasso si impegna a vendere in futuro ai prezzi d’oggi. Ma quando il contratto giunge a scadenza, fra le parti non avviene nessuno scambio di prodotto fisico. Più semplicemente la parte perdente salda quella vincente versando la differenza fra il prezzo pattuito e quello che, nel frattempo, è maturato. Potrebbe anche succedere che nessuno paghi niente a nessuno come avviene quando le due parti sono diverse solo in apparenza mentre nei fatti sono entrambe espressione della stessa realtà economica che gestisce il gioco speculativo.

Tutti sanno che i contratti futures si stipulano solo per scopi speculativi. Ma poiché il mercato è stupido, o forse fin troppo cinico, non fa differenza fra contratti veri, stipulati per il reale interesse a commerciare, e quelli fasulli, stipulati per guadagnare sulle variazioni di prezzo. E facendo di tutta l’erba un fascio, interpreta come domanda reale quella che in realtà è solo domanda fittizia, creata apposta per mandare alle stelle i prezzi degli scambi reali. Non di rado con conseguenze sociali disastrose. In Europa, l’aumento del prezzo del gas ha fatto esplodere le bollette dell’energia elettrica e del riscaldamento, gettando milioni di famiglie nella disperazione. E anche se non si saprà mai chi ha orchestrato il tutto, è un fatto che nel 2021 le imprese energetiche hanno aumentato considerevolmente i propri profitti. Valga come esempio l’Eni, che è passata da  una perdita di 750 milioni di euro nel 2020 a guadagni per 4,5 miliardi nel 2021. O la Shell, che è passata da 5 miliardi di dollari di profitti nel 2020 a 19 miliardi nel 2021. Nel silenzio più assordante della politica che, volendo, potrebbe assumere provvedimenti normativi e fiscali per contenere la finanza speculativa. Ma tant’è: questo sistema non è organizzato per la dignità delle persone, ma per permettere a chi già è ricco di arricchirsi sempre di più.

il gas russo e quello degli altri

Intanto altre nubi si stanno addensando in Europa, gettando pesanti ombre sul futuro del mercato del gas. Si tratta delle «tensioni» con la Russia che è il secondo produttore e il primo esportatore al mondo di gas naturale. L’Unione europea importa il 41% del suo gas da Mosca, ma dopo l’aggressione russa all’Ucraina, sta cercando altri fornitori. Anche l’Italia, che dipende dal gas russo per il 38%, sta cercando delle alternative, ma non è detto che ne trovi di preferibili né da un punto di vista politico, né ambientale. Il governo ha individuato parte della soluzione nel potenziamento di forniture di gas naturale da parte di altri tre paesi con i quali l’Italia è già collegata attraverso gasdotti: Algeria, Libia e Azerbaigian. Peccato che tutti e tre siano classificati come paesi non liberi da parte di Freedom House, l’istituto statunitense che annualmente attribuisce un voto a tutti i paesi del mondo in base al loro rispetto per le libertà civili e i diritti politici.

Il governo italiano è convinto che un altro pezzo di soluzione risieda nel potenziamento di importazione di gas naturale liquefatto (Gnl), che però presenta due generi di problemi: è più costoso ed è più rischioso. Più costoso sia per il trasporto che avviene via nave, sia per il doppio cambio di stato del gas: prima da gassoso a liquido, poi di nuovo da liquido a gassoso. Più rischioso per gli incidenti a cui possono andare incontro le navi da trasporto, ma anche i rigassificatori di solito posti in mare a qualche chilometro dalla costa di fronte a città importanti, come quello che si trova davanti a Livorno. L’Eni ha fatto sapere che le quote aggiuntive di Gnl potrebbero arrivare da Stati Uniti, Mozambico, Qatar, Angola, Repubblica del Congo. Di essi solo gli Stati Uniti sono classificati come paese libero. Tutti gli altri sono classificati come non liberi a eccezione del Mozambico, definito parzialmente libero. Ma, al di là del dato politico, c’è quello sociale: tutte le organizzazioni non governative denunciano che in Africa lo sfruttamento delle materie prime non porta giovamento alla popolazione locale, mentre aggrava le disuguaglianze per l’alto grado di corruzione che arricchisce solo l’élite politica.

Una pipeline in Alaska. Foto David Mark-Pixabay.

Dubbi e speranze

Per finire, due parole sulla posizione degli Usa. Come esportatore di gas, gli Stati Uniti vivono la Russia come un concorrente: ogni metro cubo di gas esportato dalla Russia è un metro cubo di meno che può essere venduto dagli Usa. E allora è spontaneo chiedersi se la politica di isolamento messa in atto nei confronti della Russia, e sollecitata anche all’Unione europea, non sia dettata più da ragioni di egemonia commerciale ed economica che dalla volontà di difendere i valori politici e sociali dell’Ucraina. Se così fosse, si dimostrerebbe come il cinismo dei grandi sia senza limiti, come senza limiti sarebbe il servilismo dei piccoli disposti a tutto pur di assecondare i desiderata della potenza di riferimento.

L’unico modo per uscirne è convertirsi a un altro modello economico non più orientato alla crescita infinita di produzione, vendite e consumo, ma alla costruzione della dignità della persona nel rispetto del senso del limite.

Francesco Gesualdi




Beato Benedict Tshimangadzo Daswa


Il 13 settembre 2015, in un prato a Tshitanini, un paese non lontano dalla cittadina di Thohoyandou nel Nord del
Sudafrica, provincia del Limpopo, il cardinal Angelo Amato ha dichiarato beato Benedict Daswa, un maestro ucciso dalla gente del suo stesso villaggio per aver rifiutato di piegarsi alla stregoneria. Prima della beatificazione il suo corpo era stato riesumato e i suoi resti erano stati trasferiti nella chiesa che aveva contribuito a costruire, a Nweli, uno dei villaggi di Tshitanini.

Il beato Benedict Daswa

Tre fatti legano il beato Benedict Daswa al suo paese: è nato il 16 giugno 1946, in quello che sarebbe diventato nel 1976 il giorno dell’inizio della rivolta di Soweto che avrebbe segnato l’inizio della lotta contro l’apartheid, ed è stato ucciso il giorno della fine dell’apartheid (il 2 febbraio 1990). Infine riposa in una chiesa dedicata a Nostra Signora dell’Assunzione, patrona del Sudafrica.

Il beato Benedict nasce come Tshimangadzo Samuel Daswa il 16 giugno 1946, figlio primogenito di Tshililo Petrus e Thidziambi Ida Daswa. Ha tre fratelli più piccoli e una sorella. La famiglia, di religione tradizionale, appartiene alla tribù dei Lemba che vivono in quello che un tempo era il bantustan (territorio assegnato a una specifica etnia, ndr) del Venda, nel Nord del Sudafrica, vicino ai confini con Botswana, Zimbabwe e Mozambico. Dopo la morte del padre in un incidente, Daswa si assume la responsabilità dei suoi fratelli più piccoli e, appena comincia a lavorare, contribuisce a pagare per la loro educazione e li incoraggia sempre a studiare.

Durante le vacanze scolastiche va a stare con uno zio a Johannesburg dove trova un lavoro part time. Lavorando, diventa amico di un giovane bianco di fede cattolica. In più, molti dei suoi coetanei e compagni di scuola, dell’etnia Shangaan (un sottogruppo dei Tsonga, che vivono sia in Sudafrica – circa un milione e mezzo – che nel Mozambico e nello Zimbabwe – 4,5 milioni), sono cattolici. Daswa si converte così al cattolicesimo all’età di 17 anni. Prende il nome di Benedict da san Benedetto, il famoso santo del VI secolo, e in onore di Benedetto Risimati, il catechista che istruisce lui e altri sotto un albero (Risimati, vedovo, sarà ordinato sacerdote nel 1970 e morirà a 64 anni nel 1976). Dopo aver ricevuto la cresima da parte dell’abate vescovo benedettino Clemens van Hoek a Sibasa, antica capitale del bantustan, nel 1963, Daswa si dà da fare per insegnare la fede cattolica ai membri più giovani della sua comunità.

Un laico cattolico attivo

Dopo aver conseguito il titolo di studio di maestro, comincia a insegnare nella Tshilivho Primary School di Ha-Dumasi, diventandone preside nel 1979. È attivo nei sindacati degli insegnanti, nello sport e nella vita quotidiana del suo villaggio, Mbahe. Nella comunità, Daswa guida le funzioni domenicali quando il sacerdote non c’è e insegna catechismo ai giovani e agli anziani. Non ha ancora una casa tutta sua, ma d’accordo con la moglie, aiuta a costruire la chiesa di Nostra Signora dell’Assunzione a Nweli, affinché la comunità abbia un luogo decente per pregare. Questa chiesa ospiterà poi la sua tomba.

Amante della terra, coltiva con cura un grande orto, dal quale dona gratuitamente ortaggi ai poveri. Diventa membro, e poi anche segretario, del consiglio dell’headman (capo locale, equivalente più o meno al nostro sindaco, ndr) del villaggio. Nel consiglio si fa notare per la sua risoluta onestà, integrità e amore per la verità.

«Era aperto alla vita, al bene. Era uno che aiutava la gente. L’intero villaggio dipendeva dal suo piccolo orto per le verdure. Alcuni erano così poveri che lui lasciava loro le verdure anche senza pagare», ricorderà suo figlio maggiore, Lufuno, il primo di otto. Benedict sposa Shadi Eveline Monyai nel 1974, solennizzando la loro unione in chiesa nel 1980. Avranno otto figli, l’ultimo dei quali nascerà quattro mesi dopo la sua morte (Shadi, invece, morirà nel 2008).

La sua fede influisce profondamente sul suo modo di comportarsi, preoccupato com’è di vivere più il Vangelo che le tradizioni locali, e per questo è anche pesantemente criticato. Fa anche dei lavori che la tradizione ritiene riservati alle donne, come raccogliere legna e lavare i vestiti nel fiume, ma per lui condividere la cura dei bambini e le faccende domestiche con sua moglie fa parte dell’impegno matrimoniale.

Lufuno Daswa, che avrà 14 anni quando suo padre verrà ucciso, in seguito lo ricorderà come «un leader naturale» nella sua famiglia e nella Chiesa. «Tutta la famiglia era unita grazie a lui. Era un gran lavoratore. Era un visionario. Aveva piani per il futuro. Aveva fatto progetti per la nostra famiglia, per la nostra educazione. Era il 1980, ma già allora ci ha mandato nella migliore scuola della regione, la Catholic St. Brendan’s school. Noi potevamo andare da lui liberamente, come da un amico. Era tutto ciò che si poteva chiedere da un padre».

Benedict con la moglie Shadi Eveline

Tra fede e stregoneria

Sono proprio le sue scelte di fede a metterlo presto in conflitto con alcuni degli abitanti del villaggio e membri del consiglio del capo. Essi si risentono per la sua opposizione alla pratica della stregoneria, una pratica profondamente legata alla cultura tradizionale. Il conflitto ha origini nel calcio. Nel 1976, infatti, Benedict fonda una squadra chiamata Mbahe Eleven Computers. Dopo che la squadra subisce una serie di sconfitte, gli suggeriscono di chiamare un sangoma (guaritore stregone tradizionale, ndr) per fare dei riti propiziatori per far vincere la squadra. Benedict si oppone all’idea, ma nella votazione viene sconfitto, e lo stregone viene chiamato. Così lascia il club e forma una nuova squadra, gli Mbahe Freedom Rebels. Quella decisione scatena una lunga campagna di odio e gelosia nei suoi confronti da parte di alcuni. Viene perfino accusato di essere lui stesso uno stregone da gente invidiosa del suo successo, della sua bella famiglia, dell’orto che prospera e dell’amicizia che ha con il capo del villaggio.

Nel 1989 la crisi si acuisce. A novembre ci sono una serie di insoliti e fortissimi temporali con lampi, tuoni e soprattutto tanti fulmini che incendiano anche alcune capanne. Questo fenomeno si ripete di nuovo il 25 gennaio 1990. Per questo il 28 gennaio il capo villaggio convoca una riunione straordinaria del consiglio per vedere cosa fare. Benedict non riesce a essere presente all’incontro fin dall’inizio. Quando arriva il consiglio ha già deciso di cercare l’aiuto di un sangoma per scovare la «strega» che ha causato tutti quei fulmini. Ovviamente il sangoma non farà niente gratis, così per pagarlo decidono di richiedere cinque rand (più o meno l’equivalente di un euro, ndr) a ogni membro della comunità. Benedict cerca invano di far capire che i fenomeni meteorologici sono naturali e quindi non possono essere attribuiti alle streghe. Sottolinea anche che l’ascolto del reponso dello stregone causerà la morte di qualche persona innocente, ma inutilmente. Ci sono anche altri leader religiosi nel consiglio, ma la paura è più forte della loro fede.

Daswa allora si rifiuta di contribuire, sottolineando che l’uso di un guaritore tradizionale costituisce stregoneria e quindi è in conflitto con la sua fede. Così diversi membri del consiglio si sentono offesi per quella che percepiscono come una mancanza di rispetto per le loro convinzioni e cominciano a complottare per ucciderlo.

Il maestro Benedict in un momento gioviale con i suoi studenti

Una data importante

Il 2 febbraio 1990 – la festa della Presentazione del Signore al tempio – è una giornata intensa. Quel venerdì, è il giorno in cui il presidente Frederik Willem de Klerk annuncia la legalizzazione dei movimenti di liberazione (dell’African national congress – Anc, del Panafrican congress e del Partito comunista sudafricano) e la liberazione di Nelson Mandela. Daswa comincia il giorno lavorando nel suo orto dove raccoglie un bel po’ di cavoli, li mette in ceste che carica sul suo pickup, poi va fino a Makwarela dal medico per portare sua cognata con il bambino malato. Da lì si reca direttamente a Thohoyandou per consegnare al parroco, padre John Finn, tutto il carico di cavoli per i poveri. Mentre torna a casa incontra un giovane che cammina con un sacco di farina sulle spalle e gli dà un passaggio.

Riprende poi il viaggio per tornare a casa a Mbahe, quando alle 19.30, arrivando vicino alcampo da calcio degli Eleven Computers, nei pressi della scuola di cui lui è preside, vede la strada bloccata da tronchi e sassi. Benedict scende dal pickup per rimuovere i tronchi e subito un gruppo di uomini gli è addosso, lo pestano a sangue e lo colpiscono con pietre.

Il campo da calcio attraverso il quale ill beato Daswa ha cercato di fuggire ai suoi assalitori

Sanguinante, scappa attraverso il campo da calcio trovando riparo nella cucina di un rondavel (capanna rotonda tradizionale, ndr). Ma gli assalitori lo inseguono e minacciano di morte la proprietaria della capanna perché riveli il nascondiglio di Daswa. Due ragazzi lo tirano fuori a forza dal rondavel. Lui ne abbraccia uno, implorando per la sua vita. Un uomo però gli dà addosso brandendo una mazza di legno e gli sferra il colpo fatale. Benedict prega dicendo: «Dio, nelle tue mani, ricevi il mio spirito». Il colpo lo butta a terra con la testa rotta. Gli assalitori gli versano acqua bollente sulla testa, per assicurarsi che la loro vittima sia morta. E fuggono.

Il pick up del beato Daswa danneggiato dal lancio di sassi

Più forte del male

Il fratello di Benedict, Thanyani, è il primo membro della famiglia ad arrivare dove si trova il suo corpo. Quando la loro madre vede ciò che è stato fatto a suo figlio, sviene. Nei giorni che precedono il funerale di Benedict, padre Finn, le suore del Santo Rosario e la comunità cattolica vanno a casa Daswa ogni sera per pregare con la famiglia. «Ho un ricordo molto distinto: è stata la prima e unica volta che ho percepito la presenza del male», dirà padre Finn ricordando l’atmosfera di paura, tensione e ostilità nel villaggio.

Gli assassini non saranno mai condannati per mancanza di prove. Alcuni di loro continueranno ad andare ai Daswas (i centri dove si distribuisce cibo per i poveri, ndr) per ricevere frutta e verdura.

Lufuno Daswa, il figlio, ricorderà la sua ultima conversazione con il padre: «Stavo andando al secondo anno di scuola secondaria. Mi ha accompagnato alla
St. Brendan’s. Abbiamo chiacchierato a lungo. Mi stava insegnando alcune parole in sepedi, su come salutare mia madre. Abbiamo pregato e poi ci siamo abbracciati. Poi ha chiuso la portiera della macchina e io ho chiuso la mia, e lui se n’è andato. Penso che fosse il 22 gennaio, poco più di una settimana prima della sua scomparsa». Il funerale di Benedict è celebrato il 10 febbraio, il giorno prima del rilascio dal carcere di Nelson Mandela, nella chiesa di Nweli che Daswa ha contribuito a costruire. È presieduta da padre Finn con altri sacerdoti. Tutto il clero indossa paramenti rossi in riconoscimento della loro convinzione che Benedict sia morto martire per la sua fede.

Il maestro Benedict Daswa con i suoi studenti

Ricordo di un martire

All’inizio, la devozione a Daswa cresce localmente, fino a quando, alcuni anni dopo, il vescovo Hugh Slattery di Tzaneen ne viene a conoscenza. Il vescovo, che più avanti scriverà un libro sulla vita di Benedict Daswa, apre un’inchiesta sulla morte del martire nel 2005 e la completa nel 2009, quando viene inviata in Vaticano.

Nell’ottobre 2014, i consultori teologi della Congregazione per le cause dei santi raccomandano all’unanimità che Daswa sia dichiarato martire.

Benedict Daswa è beatificato il 13 settembre 2015 dal cardinale Angelo Amato, a nome di papa Francesco. Il successore di mons. Slattery, mons. João Rodrigues, presenta il decreto di beatificazione alla folla di oltre 35mila persone, tra cui il vicepresidente Cyril Ramaphosa.

I canti della celebrazione, a cui partecipano la madre, il fratello e la moglie con gli otto figli, sono sentiti a chilometri di distanza. C’è padre Augustine O’Brien che ha battezzato Daswa nel 1963, e padre John Finn, che ha celebrato il suo funerale.

Il cardinale Amato ricorda che Daswa è stato un uomo buono e gentile e, soprattutto «è stato un vero missionario di Cristo che è riuscito a convincere i suoi compagni ad abbracciare la fede cattolica».

Copertina della rivista Southern Cross

Il vicepresidente Ramaphosa sottolinea come la beatificazione sia un motivo di grande gioia per tutto il Sudafrica e che è la prima volta che la Chiesa cattolica riconosce come martire di Cristo un sudafricano.

Daswa è stato un uomo che ha avuto il coraggio di pagare di persona per quello che riteneva giusto, combattere la stegoneria per difendere la vita di anziane donne innocenti, pur sapendo di rischiare di perdere la sua stessa vita.

La festa di Daswa è il 1 ° febbraio.

 tradotto e adattato da «Southern Cross», giugno 2021

Funerale di Benedict nella chiesa di Nweli


Daswa e la politica

Nato il 16 giugno e martirizzato il 2 febbraio, due date molto importanti in Sudafrica. Daswa era politicamente schierato?

Non so se lo fosse o meno, ma certo era dalla parte della giustizia e dei poveri. Le persone di profonda fede, anche se dicono di non essere politicamente schierate, tendono a mettersi nei guai con il potere sia per il loro comportamento sia perché si fanno domande come: «Perché siamo poveri?». La loro preoccupazione di alleviare tutto ciò che mantiene le persone in schiavitù, li fa entrare in contatto con i poteri politici in modi che possono causare ad alcuni di loro persecuzione o addirittura la morte.

Penso poi che per noi cattolici il 2 febbraio abbia un significato più profondo di quello legato alla storia politica. È la festa della Presentazione del Signore. Molto interessante che quando Gesù fu presentato a Dio nel Tempio, la vita di Daswa fu presentata a Dio suo creatore. Che giorno per essere chiamati alla vita eterna.

suor Tshifhiwa Munzhedzi Op,
 postulatrice della causa di beatificazione


Cosa rende speciale il beato Daswa?

Se non fosse stato martirizzato, Daswa sarebbe stato uno dei tanti santi sconosciuti della Chiesa. Cosa lo rende così vicino alla gente? Cosa c’è in lui che affascina i comuni fedeli?
In primo luogo affascina come padre di famiglia.

Padre Finn presiede il funerale di Benedict nella chiesa di Nweli

La Chiesa ha molti santi, ma la maggior parte di loro sono religiosi. Il beato Daswa era sposato, un normale padre di famiglia, con figli e che lavorava come farebbe qualsiasi papà per sostenere la propria famiglia. D’altra parte, il suo processo di canonizzazione mostra proprio che i santi sono persone comuni che fanno cose ordinarie. È il modo in cui svolgono queste attività quotidiane che li rende diversi. Ognuna delle loro azioni è influenzata dalla loro fede in Dio e si connette costantemente con il loro Creatore. Questo è ciò che ha vissuto il beato
Daswa.

In secondo luogo, attira come educatore.

Daswa ha svolto il suo lavoro non solo concentrandosi sui risultati in classe. Vedeva i suoi allievi come esseri umani che hanno bisogno di essere guidati in tutti gli aspetti della vita. Lo ha fatto, e così ha insegnato loro responsabilità e abilità della vita. Era pronto a sostenere l’educazione dei suoi alunni anche quando era contro la volontà di genitori che non ne capivano proprio l’importanza. Nell’educare i bambini, ha aiutato a educare anche i genitori.

In terzo luogo, convince come convertito.

Come i primi cristiani, la sua conversione al cristianesimo è stata completa. Ha accettato Dio e ha vissuto la sua vita dedicandosi alla costruzione di quella relazione con Lui senza essere timido o vergognarsi di riconoscerlo in pubblico.

In quarto luogo, è una persona semplice.

Anche se il beato Daswa è andato a scuola e ha poi raggiunto una posizione sociale importante, è sempre rimasta in lui una grande semplicità. Penso che questa caratteristica lo renda attraente per le persone. È come se anche io potessi diventare quello che era lui. Penso che sia in quella semplicità che Cristo ha potuto trovare una casa dove dimorare.

E quinto, è esemplare la sua generosità.

Daswa era generoso, eppure non sembrava essere uno che potesse essere ingannato facilmente. Condivideva ciò che aveva con coloro che non avevano, ma si aspettava anche che la persona crescesse e si elevasse seguendo il suo esempio. Era ben consapevole che uno stomaco vuoto non può svolgere il suo lavoro come dovrebbe. Così, aveva schemi di alimentazione per i suoi alunni e dava frutta e verdura dal suo giardino ai vicini bisognosi.

suor Tshifhiwa Munzhedzi Op,
 postulatrice della causa di beatificazione

La tomba del Beato Daswa nelal chiesa di Nweli

 




Rimesse e rifugiati


Il 16 giugno è la Giornata mondiale delle rimesse familiari, mentre il 20 giugno è la Giornata mondiale del rifugiato. Due occasioni per farsi un’idea dell’ampiezza di questi fenomeni e per riflettere sulla vita delle persone che vivono lontano da casa e sul contributo che danno alle comunità di origine e di soggiorno.

Secondo le proiezioni diffuse lo scorso novembre dalla Banca Mondiale, le rimesse dei lavoratori migranti verso i paesi a medio e basso reddito avrebbero raggiunto nel 2021 i 589 miliardi di dollari, con un incremento del 7,3% rispetto al 2020, quando si erano attestate sui 549 miliardi. La ripresa del 2021, sottolinea la Banca, fa seguito alla tenuta osservata nei flussi del 2020, quando le rimesse si erano ridotte solo dell’1,7% rispetto all’anno prima, nonostante il pianeta si trovasse, a causa della pandemia da coronavirus, in una delle più profonde recessioni di sempre e le prime stime avessero indicato un possibile calo delle rimesse del 19,7%@.

Il fenomeno, si legge sul sito ufficiale della Giornata mondiale delle rimesse familiari, interessa un miliardo di persone, cioè circa una persona ogni otto, il 14% della popolazione mondiale: sono infatti 200 milioni i lavoratori migranti che inviano risorse e 800 milioni i loro familiari che le ricevono. Le famiglie beneficiarie usano tre quarti del denaro ricevuto per soddisfare bisogni primari: cibo, istruzione, cure mediche@.

Sempre secondo i dati presenti sul sito, il totale delle rimesse mondiali – considerando quindi tutti i paesi del mondo e non solo quelli a basso e medio reddito – sarebbe pari a 859 miliardi di dollari. La metà dei fondi inviati va alle aree rurali e per ottanta paesi queste risorse rappresenterebbero oltre il 3% del Pil.

Secondo le stime, che saranno poi corrette o confermate nel corso di quest’anno, i primi dieci paesi riceventi nel 2021 sono stati India (87 miliardi di dollari), Cina e Messico (53), Filippine (36), Egitto e Pakistan (33), Bangladesh (12), Vietnam e Nigeria (18) e Ucraina (16). Per alcuni paesi il peso delle rimesse sull’economia nazionale è decisivo: per Tonga, rappresenta il 44% del Pil, per il Libano il 35%, il 30% per il Kirghizistan.

Nel 2021, secondo i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), l’aiuto pubblico allo sviluppo a livello globale è stato di 178,9 miliardi di dollari: un terzo delle rimesse verso i paesi a medio e basso reddito@.

Difficoltà di misurazione

Non è facile quantificare con precisione i volumi delle rimesse familiari. La difficoltà emerge già dal confronto fra il dato riportato dal sito della Giornata mondiale circa il totale delle rimesse planetarie, gli 859 miliardi di dollari citati sopra, e il totale dei flussi di rimesse indicati dalla Banca Mondiale, secondo la quale sarebbero pari a 751 miliardi di dollari.

Come osserva uno studio del Migration data portal, un portale sulla migrazione curato dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) insieme ad altri partner, fra cui l’Agenzia per la cooperazione tedesca, occorre innanzitutto chiarire che Fondo monetario internazionale e Banca Mondiale usano, per determinare il volume delle rimesse, i dati statistici relativi alla bilancia dei pagamenti nazionale fornita dalle banche centrali dei vari paesi. In particolare, a comporre le rimesse contribuiscono due voci: da un lato, i compensi percepiti dai lavoratori dipendenti nel paese ospitante, a loro volta composti dai redditi dei lavoratori migranti temporanei e del personale di ambasciate, organizzazioni internazionali e società straniere; dall’altro, i trasferimenti personali da un paese all’altro, fatti da privati in favore di privati@.

La categoria «compensi dei dipendenti» può contribuire a «sovrastimare in modo significativo le rimesse dei migranti se un paese ha una grande presenza delle Nazioni Unite e/o di un’ambasciata e ospita fabbriche di società transnazionali che impiegano un gran numero di lavoratori. Questi dipendenti possono essere contati come “non residenti” o migranti nel paese e i loro stipendi essere registrati come rimesse».

Quanto ai trasferimenti personali, la categoria comprende le transazioni che vanno da un paese all’altro, a prescindere dal fatto che a inviare o ricevere denaro sia un migrante: per questo, l’invio di somme anche consistenti di denaro da parte di investitori privati o delle diaspore per effettuare investimenti, acquisti o altre transazioni finanziarie possono finire nel computo, anche se è difficile immaginare che queste operazioni siano rimesse familiari.

Se questi fattori portano a sovrastimare i volumi, ce ne sono altri che invece possono contribuire a sottostimarli: il Fondo monetario e la Banca Mondiale, spiega lo studio su Migration data portal, si concentrano sui fondi trasferiti attraverso i canali ufficiali, cioè le banche, mentre le piccole transazioni fatte tramite le agenzie come Western Union, le poste o i servizi via cellulare, come Sendwave legato a Mpesa per l’East Africa, non sempre sono inclusi, meno ancora lo sono i passaggi di fondi informali tramite parenti e amici. «Poiché questi trasferimenti non sistematicamente inclusi nella bilancia dei pagamenti possono avere volumi significativi, specialmente fra paesi del Sud del mondo, è possibile che i dati ufficiali sottostimino il fenomeno fino al 50%».

Nogales, Croci sul lato messicano del muro di confine con gli Usa in ricordo delle migliaia di morti nel disperato tentativo di passare il confine.

Costi alti per l’invio

Secondo quanto riportato da Ifad, il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo delle Nazioni Unite, in media i migranti inviano a casa una cifra compresa fra 200 e 300 dollari ogni mese o bimestre. Questa cifra, chiarisce Ifad, rappresenta solo il 15% di ciò che guadagnano, mentre l’85% rimane nei paesi ospitanti. Tuttavia, la cifra inviata può rappresentare fino al 60% del reddito familiare@.

I costi dell’invio dei fondi sono piuttosto elevati: in media il 6,4% della somma inviata nel secondo trimestre del 2021, con picchi fino all’8% nell’Africa subsahariana. Va un po’ meglio se si utilizzano i canali digitali, che nel primo trimestre dell’anno scorso hanno permesso di abbassare i costi fino al 5,1%. In entrambi i casi, comunque, i costi rimangono piuttosto lontani dalla soglia del 3% entro il 2030 indicata dall’obiettivo di sviluppo sostenibile 10c.

Le limitazioni di movimento imposte con i lockdown hanno fatto aumentare le transazioni digitali, che hanno raggiunto i 12,7 miliardi di dollari crescendo del 65% rispetto all’anno precedente.

Ma il principale ostacolo all’uso degli strumenti digitali continua a essere il fatto che questi necessitano di un conto corrente per essere attivati: moltissimi migranti e i loro familiari continuano a non avere conti correnti nei loro paesi d’origine.

Ai costi elevati si aggiungono poi in alcuni casi i rischi legati al mal funzionamento degli intermediari: lo scorso aprile il New York Times riportava una denuncia da parte dell’ufficio per la protezione finanziaria dei consumatori e del procuratore generale dello stato di New York ai danni della società di trasferimento fondi MoneyGram, accusata di aver danneggiato i consumatori ritardando inutilmente le transazioni, non effettuando i rimborsi delle commissioni richieste quando gli invii non venivano completati in tempo e omettendo di indagare e correggere gli errori commessi nei trasferimenti@.

Deep Sea slum, Nairobi. Punto Mpesa per trasferimento di soldi via cellulare.

Rifugiati in aumento

Secondo i dati aggiornati allo scorso novembre dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), c’erano nel 2021 nel mondo 48 milioni di sfollati interni, 26,6 milioni di rifugiati e 4,4 milioni di richiedenti asilo, per un totale di 84 milioni di persone: più o meno l’equivalente della popolazione della Germania.

Circa il 42%, cioè 35 milioni, sono bambini sotto i 18 anni. Due su tre di questi provenivano da cinque paesi: Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar, mentre il 39% era ospitato in cinque paesi: Turchia (3,7 milioni), Colombia (1,7), Uganda (1,5), Pakistan (1,4) e Germania (1,2). Sono i paesi in via di sviluppo ad accogliere l’85% dei rifugiati e tre rifugiati su quattro sono ospitati nei paesi limitrofi a quelli di partenza.

Questi dati non potevano tenere conto della guerra e della relativa emergenza umanitaria e migratoria in Ucraina, che al numero dei profughi e richiedenti asilo ha aggiunto 5,3 milioni di persone fuggite nei paesi confinanti@ e 7,7 milioni di sfollati interni@ (dati del 19 aprile 2022, vedi sotto).

Un’altra grande crisi umanitaria del pianeta è quella dello Yemen, con 4,3 milioni di sfollati interni, dei quali il 79% sono donne e bambini, e oltre 23 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria. Nell’aggiornamento di aprile 2022, l’Alto commissariato riportava che per garantire assistenza a queste persone nell’anno in corso erano necessari 291,3 milioni di dollari, ma al 12 aprile solo 49,2 milioni erano stati messi a disposizione dai vari donatori dell’Unhcr@. Resta poi irrisolta anche la crisi siriana, con 6,7 milioni di sfollati interni e 6,6 milioni di rifugiati nel mondo, di cui 5,6 milioni accolti nei paesi confinanti con la Siria@.

Chiara Giovetti


Ucraina, rimesse e rifugiati

Secondo i dati disponibili sul sito dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, al 26 aprile erano 5.317.219 le persone che avevano lasciato l’Ucraina dallo scoppio della guerra, il 24 febbraio. Di questi, 2,9 milioni si erano spostati in Polonia, 793mila in Romania, 627mila in Russia, 507mila in Ungheria, 437mila in Moldavia, 360mila in Slovacchia e poco meno di 25mila in Bielorussia@.

Su una popolazione totale di 44 milioni di persone, a fine aprile 24 milioni avevano urgente bisogno di assistenza umanitaria e protezione. Secondo le proiezioni dell’Unhcr i rifugiati potrebbero arrivare a 8,3 milioni a dicembre 2022@.

A metà 2020 gli ucraini che vivevano al di fuori del paese erano 6.139.144, di cui 2.778.617 uomini e 3.360.527 donne, più o meno equamente divisi tra Europa e Federazione russa. L’Unione europea ne ospitava circa 833mila, di cui quasi 290mila in Germania, 272mila in Polonia e poco meno di 250mila in Italia@.

La Banca mondiale riporta i dati più recenti della banca nazionale ucraina, secondo i quali le rimesse dei lavoratori ucraini verso il paese avevano superato nel 2021 i 19 miliardi e rappresentavano il 12% del Pil, cioè tre volte tanto il valore dell’investimento diretto estero. La stima per il 2022 è che i trasferimenti aumentino dell’8%: è infatti probabile che la quota di rimesse dei lavoratori ucraini dalla Russia, già diminuita dal 27% al 5% negli ultimi sei anni, subisca un ulteriore, drastico calo a causa della guerra, ma venga più che compensata dalle rimesse provenienti dalla Polonia e dagli altri paesi che ospitano lavoratori ucraini@.

C.G.


Le giornate mondiali Onu, storia

La Giornata mondiale dei diritti umani è la prima delle giornate mondiali stabilite dalle Nazioni unite: si celebra il 10 dicembre e fu approvata dall’Assemblea generale Onu nel 1950, per commemorare la proclamazione, il 10 dicembre 1948, della Dichiarazione universale dei diritti umani. Tale Dichiarazione è a tutt’oggi il documento più tradotto nel mondo: oltre 500 lingue. Per capire il peso di questa giornata è forse utile ricordare che fu stabilita cinque anni dopo la fine di una guerra che aveva causato decine di milioni di morti e aveva visto, appunto, i diritti umani violati e negati con una sistematicità, un’ampiezza e una ferocia forse mai viste prima nella storia dell’umanità.

Queste giornate, precisa il Centro regionale di informazione delle Nazioni Unite, «sono un’occasione per informare le persone su questioni importanti, per mobilitare le forze politiche nell’incanalare le risorse per risolvere problemi globali e per celebrare e rafforzare i successi dell’umanità».

Le giornate mondiali vengono proclamate dall’Assemblea generale su proposta degli stati membri e, in alcuni casi, dalle agenzie specializzate dell’Onu che vogliono portare l’attenzione su un tema specifico di propria competenza: ad esempio, la giornata mondiale per la libertà di stampa (3 maggio) è stata introdotta dall’Unesco e in seguito adottata dall’Assemblea generale.

Di solito, per ogni giornata mondiale viene predisposto un sito, o almeno una pagina web, dai quali è possibile scaricare materiale informativo e di sensibilizzazione e anche trovare gli eventi organizzati nel proprio paese e nel mondo in occasione della ricorrenza.

Fra le giornate mondiali più note e celebrate vi sono la Giornata internazionale della donna, l’8 marzo, quella della Terra, il 22 aprile e la Giornata internazionale della pace il 21 settembre.

Vi sono, inoltre, giornate indette da altre organizzazioni: il 16 giugno, ad esempio, è la giornata del bambino africano, una ricorrenza osservata dall’Unione africana e dai suoi membri@.

 

 




Un santuario al centro di una vita


Il «santuario» è quello della Madonna Consolata di Torino e la «vita» è quella del sacerdote Giacomo Camisassa. Così il biografo annota la venuta del giovane e attivo sacerdote Giacomo Camisassa al santuario da tutti considerato il cuore pulsante della spiritualità mariana del popolo torinese. Siamo nel 1880. Lo ha invitato don Giuseppe Allamano, appena nominato rettore, con una lettera dal tono familiare ma che sa vedere lontano: «Veda mio caro, faremo d’accordo un po’ di bene […] e procureremo di onorare il culto della cara nostra Madre la Consolata».

Di indole e carattere diverso, i due sacerdoti si completano mirabilmente nell’avventura di rendere nuovamente il santuario della Vergine Consolata quello che, per secoli, pur tra alti e bassi, è sempre stato considerato la casa della Madonna del popolo torinese, dove in tempi di calamità si prega per ottenere la guarigione, in tempi di guerre si supplica per la pace, e ogni giorno nella preghiera la gente trova consolazione e coraggio, avvicinandosi a Dio attraverso la Vergine Maria.

I primi anni assieme risultano per i due sacerdoti di intenso lavoro e i risultati si notano subito, come afferma Lorenzo Sales nella biografia del beato Allamano: «Sante Messe a tutte le ore; confessionali provvisti sempre di confessori; comunione distribuita ai fedeli quasi di continuo; cerimonie ben fatte; pulizia della chiesa curata fino allo scrupolo; nella sacrestia, per turno, sempre un sacerdote a ricevere i fedeli; poi ordine e puntualità massima; poi ancora e soprattutto preghiera e santità di vita». E la gente accorre numerosa al santuario, non solo in occasione delle festività, ma tutti i giorni.

Incoraggiati dall’arcivescovo, i nostri due sacerdoti mettono poi mano, con entusiasmo, ai lavori di ristrutturazione del santuario che necessita di un restyling radicale e non solo di un abbellimento superficiale. I fedeli aumentano e c’è anche bisogno di un ampliamento, impresa non facile dato il sito angusto in cui si trova la chiesa. E don Camisassa, che segue ogni cosa, suggerisce, progetta con le maestranze perché il risultato sia il migliore possibile. Anche le offerte non vengono a mancare perché la gente nota subito in quei due sacerdoti zelo, impegno e tanto amore alla Vergine Consolata.

L’Allamano e il Camisassa sanno pure guardare lontano. Non solo Torino ma tutto il mondo ha bisogno di avvicinarsi a Dio, passando per la mediazione della Vergine Maria. Ai due Istituti Missionari, che essi fondano all’ombra del santuario, danno il nome di «Consolata» con la missione di annunciare Cristo a tutti i popoli e la consolazione di Dio ai più poveri.

Anche ora dal Cielo continuano a intercedere e proteggere.

padre Piero Trabucco


Anno del Confondatore

I missionari e le missionarie della Consolata hanno dedicato l’anno 2022 al ricordo riconoscente del canonico Giacomo Camisassa, confondatore dei loro istituti, nel centenario della sua morte (18 agosto 1922). Egli fu vicerettore del Santuario della Consolata, amico e fedele collaboratore, compagno nel cammino del rettore, il beato Allamano, per ben 42 anni.

Giacomo Camisassa (1854-1922)

Nacque a Caramagna Piemonte (To). Dopo aver frequentato la bottega di un fabbro, nel 1868 entrò nell’oratorio salesiano di Torino, quindi nel seminario diocesano di Chieri per gli studi filosofici e, nel 1873, passò al seminario di Torino per la teologia. Qui ebbe assistente e direttore spirituale Giuseppe Allamano. Fu ordinato sacerdote nel 1878. Dal 1880 fu accanto all’Allamano come economo, poi come vicerettore del santuario e del convitto ecclesiastico della Consolata. Collaborò con l’Allamano alla fondazione dei missionari e delle missionarie della Consolata (1901 e 1910). Insieme all’Allamano fondò e diresse la rivista «La Consolata» che servì per far conoscere la vita del santuario e delle missioni. Dopo una breve malattia, morì il 18 agosto 1922. A buon diritto è riconosciuto «confondatore» degli Istituti dei missionari e delle missionarie della Consolata.

Amico al suo fianco

Così si sono espressi i superiori generali dei nostri Istituti parlando del Camisassa: «Egli fu un vero uomo di Dio, tutto dedito al Regno, alla Chiesa, alla Missione, ai nostri Istituti, capace di vivere “la beatitudine di essere secondo” coltivando un’amicizia profondissima, intensa, fedele, rispettosa con colui che egli considerava “padre”, il beato Giuseppe Allamano».

Il Camisassa è una figura importantissima nella vita del fondatore e, di conseguenza, anche per la nostra storia missionaria; merita, perciò, di essere ricordato e celebrato con speciale riconoscenza. È lo stesso fondatore a ricordarcelo: «Se non avessi avuto al mio fianco il can. Camisassa, non avrei fatto quello che ho fatto».

«Faremo d’accordo un po’ di bene»

Sono parole scritte a Giacomo Camisassa, nella lettera del settembre 1880, con la quale Giuseppe Allamano lo invitava e lo incoraggiava ad accettare l’incarico come economo nel santuario della Consolata. Il delicato incarico come rettore del santuario della Consolata, il fondatore lo aveva accettato con la condizione di poter lui stesso scegliere un collaboratore. La scelta del Camisassa non gli fu difficile, conoscendo il giovane sacerdote da quando l’Allamano era direttore spirituale in seminario.

«Faremo d’accordo un po’ di bene»: un’espressione che porta in sé un programma su come avrebbero portato avanti insieme l’incarico a loro affidato di guardarsi attorno e cogliere i bisogni e i movimenti dello Spirito, per dare risposte concrete non rimanendo solo in quello che era il loro dovere. I due non hanno fatto solo «un po’ di bene» ma attraverso la loro grande intesa e profonda comunione, hanno compiuto tanto bene nei 42 anni alla Consolata (1880 – 1922), intraprendendo iniziative di vario rilievo sempre nella ricerca della volontà di Dio, attenti ai segni che provenivano dalla realtà, dalla chiesa, dalla missione, nella realizzazione del «bene fatto bene senza rumore», e così facendo hanno portato frutti che perdurano nel tempo.

Confondatore

Ciò consente di riconoscere e riflettere sul suo ruolo nella fondazione e sviluppo dei nostri due Istituti. Egli ha lavorato costantemente e in maniera accuratissima per aiutare a «fondare» i nostri Istituti; era attento, premuroso e delicato nel suo rapporto con ogni missionario e missionaria. Non era solo un collaboratore, ma un vero fratello di cui l’Allamano ha potuto fidarsi, confidandogli preoccupazioni, gioie, desideri e anche la sua stessa vita spirituale… e tutto ciò era vicendevole, perché del fondatore il Camisassa aveva una stima e una fiducia illimitata.

Il Camisassa era la persona che stava sempre a fianco dell’Allamano con la sua genialità inventiva, la sua ampiezza di vedute; mai attirava l’attenzione su di sé, ci teneva ad essere secondo in maniera umile e discreta, anche se l’Allamano lo incoraggiava a portare avanti le sue intuizioni e progetti, sia nella giovane missione del Kenya come a Torino dove aveva tanti impegni.

Un progetto pensato e realizzato insieme

Il Camisassa ha visto nascere e crescere i nostri due Istituti e si è impegnato con tutte le sue forze fisiche e spirituali perché si realizzasse quello che era il sogno dell’Allamano; anzi, hanno sognato, insieme, pianificato, pregato e valutato, prima di prendere ogni decisione; ma lui fece tutto questo, senza mai passare davanti al fondatore.

Nella sua visita in Kenya, effettuata fra il 1911 e il 1912, il Camisassa informava dettagliatamente l’Allamano sullo sviluppo e tutto ciò che accadeva nelle missioni, in modo che il fondatore potesse valutare l’operato dei suoi missionari, il loro stato di salute, il livello spirituale, i sentimenti, le reazioni nelle varie situazioni missionarie, sia nel progresso e nei successi, come anche nelle difficoltà, che non sono mai mancate.

Sicuramente l’Allamano, nei primi passi della missione in Kenya, trovò nel Camisassa la persona sicura per portare avanti l’esecuzione delle varie imprese dei missionari, un esecutore intelligentissimo, rapido, pratico, risoluto, instancabile, una persona che si intendeva di tutto, non trascurava niente e incoraggiava i missionari a fare le cose nel migliore modo possibile.

L’unità dei due era così profonda, da poter affermare che abbiano percorso le strade della missione insieme, anche se l’Allamano non ha mai potuto visitare le missioni a causa della sua fragile salute; ma, attraverso il Camisassa, ha trovato il modo di essere presente nella vita dei suoi missionari e missionarie.

Costoro, riconoscenti per la sua opera, chiedono al Signore che il confondatore interceda per loro e li guidi dal cielo in quello zelo missionario e fedeltà a Dio e alla missione, che mai gli sono mancati in vita.

Direzioni generali Imc/Mc


Due olivi e due lampade

Nell’anno centenario della morte del canonico Giacomo Camisassa (18 agosto 2022), confondatore delle famiglie dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, padre Giuseppe Ronco, nella festa del beato Allamano celebrata il 16 di febbraio di quest’anno, ha parlato della loro amicizia durata tutta la vita.

Da sx: fratel Celestino Lusso, padre Tommaso Gays, padre Filippo Perlo, fratel Luigi Falda.Di fronte Giuseppe Allamano e Giacomo Camisassa. Foto dell’8 febbraio 1902, conservata nell’Archivio generale a Roma, n. 245

La vita del beato Allamano fu sempre orientata al Signore nell’ascolto della sua Parola, tesa alla realizzazione della sua volontà, per essere strumento del programma missionario che lo Spirito e la Consolata gli avevano stampato nel cuore. Fondò due istituti missionari per l’evangelizzazione dei popoli.

Gli fu accanto, nell’opera, il canonico Giacomo Camisassa, chiamato «Confondatore» quando l’Allamano era ancora vivo. Anzi, l’Allamano stesso attribuì al Camisassa la qualifica di «Fondatore» insieme con lui dell’Istituto missioni Consolata, e mons. Perlo, scrivendo al card. Willem Marinus Van Rossum definì l’Allamano e il Camisassa «Venerati Fondatori».

Mi pare opportuno, nell’anno centenario della morte del canonico Camisassa, riflettere sull’amicizia, fondata su Cristo, che si stabilì tra lui e l’Allamano. «Ci siamo sempre amati in Dio», diceva l’Allamano.

Tra loro, infatti, ci fu un’intesa straordinaria, sorgente di una stretta collaborazione che portò i due canonici alla realizzazione di opere grandiose. Il segreto di questa profonda amicizia è da ricercare nella loro spiritualità, fatta di concretezza e di carità semplice, ispirata alle intuizioni e agli esempi del Cafasso e volta al bene dei vicini e dei popoli lontani.

Fu un’amicizia che il canonico Nicola
Baravalle, nella sua testimonianza per il processo di beatificazione dell’Allamano, illuminò con un versetto biblico tratto dall’Apocalisse, descrivendone il senso più profondo: «Sunt duo olivae et duo candelabra lucentia ante Dominum», «Sono due olivi e due lampade che stanno davanti al Signore della terra» (Ap 11,4).

È risaputo come nella Chiesa l’amicizia spirituale tra due santi abbia sovente prodotto opere grandiose e tracciato itinerari di santità. Basti pensare ai legami di amicizia tra san John Henry Newman e Ambrose St. John. Entrambi inglesi e anglicani, insieme si convertirono al cattolicesimo, insieme entrarono nell’Oratorio di Filippo Neri, insieme vennero a Roma per studiare teologia e insieme furono ordinati sacerdoti. Insieme ritornarono in Inghilterra a lavorare, collaborando in tutto e abitando la stessa casa. La loro amicizia durò 32 anni e Newman volle essere sepolto nella stessa tomba di Ambrose.

Per l’Allamano e il Camisassa, l’amicizia fu uno stile di vita a cui sempre si ispirò il loro concreto modo di vivere e la loro attività.

Leggendo le lettere del Camisassa risulta che tra lui e l’Allamano l’intesa era piena. Nel loro vivere insieme si vedeva la complementarietà tra colui che pensa e colui che è capace di tradurre il pensiero nella vita quotidiana. Erano ambedue umili e tendenti a nascondersi.

Quanto l’Allamano stimasse il Camisassa, oltre ad averlo dimostrato con tutta la vita, appare anche dalle affermazioni proferite durante la sua malattia: «Era sempre intento a sacrificarsi, pur di risparmiare me; era un uomo che aveva l’arte di nascondersi e possedeva la vera umiltà».

Sperimentava la beatitudine di essere secondo!

L’amicizia tra l’Allamano e il Camisassa fu caratterizzata da uno spirito di sinodalità molto vivo. Pensavano e realizzavano tutto insieme, dialogando e dicendosi «sempre la verità». La loro amicizia e collaborazione sacerdotale, durata tutta la vita senza alcuna incrinatura, si manifestò in modo particolare nella fondazione dei due Istituti, rispettando ognuno il proprio ruolo, pur nella condivisione dello stesso ideale. C’era un desiderio ardente di comunione e di dialogo in vista di arrivare all’unità di intenti. Agivano insieme e concordi per il bene della missione e dei missionari. Ogni sera si incontravano e si comunicavano gli avvenimenti della giornata, non solo per un semplice scambio di notizie, ma nel desiderio di scoprire la volontà di Dio su di loro e sui loro progetti apostolici.

«Passavamo in questo mio studio lunghe ore… Qui nacque il progetto dell’Istituto, qui si è parlato di andare in Africa… insomma tutto si combinava qui». Dopo aver affiancato e sostenuto per 42 anni il canonico Allamano, il canonico Giacomo Camisassa fu il primo a cedere con la salute, e la sua sofferenza maggiore era quella di recare pena all’Allamano.

Erano circa le 20.00 del 18 agosto 1922; faceva caldo e umido: davvero estivo. Tutti erano a cena, quando nel suo delirio, all’improvviso, il Camisassa riuscì ad alzarsi dal letto, fece alcuni passi, barcollò e cadde: era morto.

Dice il canonico Nicola Baravalle: «Il canonico Allamano assistette all’agonia ed alla morte dell’amico senza una lacrima. E poi, portatosi in chiesa, appena inginocchiato proruppe in un pianto dirottissimo e restò parecchio assorto in Dio». È bello vedere l’Allamano piangere la morte dell’amico, portando davanti a Dio la ricchezza di una vita vissuta nell’amore.

Il 26 agosto 1922 ne diede notizia ai missionari in Kenya: «Le ultime parole del nostro caro defunto furono sull’unione tra i nostri missionari, gli uomini con le donne. Fu un’ultima volontà d’amore. Sta a noi essere fedeli a esso: è sacro! Egli viveva per noi e per le nostre missioni, e l’ultimo giorno lo passò pensando e parlando dell’Istituto».

padre Giuseppe Ronco




Il mondo al pronto soccorso


Il clima, la pandemia, la situazione in Ucraina precedente alla guerra. Tre film documentari sulle tre emergenze che, in modi diversi, stanno scuotendo il mondo. Quando il linguaggio cinematografico aiuta a guardare le cose per farsene carico.

A riveder le stelle

Emanuele Caruso, classe 1985, è un regista di cui si parla parecchio da alcuni anni, e non a caso.

Di origini siciliane e radici albesi, Caruso rappresenta, sia nella forma che nella sostanza, una sorta di piccola nuova frontiera della produzione cinematografica di casa nostra. Ha prodotto, tra il 2014 e il 2018, due film (E fu sera e fu mattina e La terra buona) finanziati interamente da compagne di crowdfunding di grande successo e, nonostante lo scetticismo che accompagna spesso chi ha il coraggio di buttare il cuore oltre l’ostacolo, anche nelle sale cinematografiche il pubblico ha risposto con un entusiasmo che ha di molto superato le attese.

Il 2 marzo, a Domodossola, è stata la volta della prima nazionale del suo nuovo film: A riveder le stelle, prodotto di nuovo con la sua Obiettivo Cinema.

Questa volta Caruso si è cimentato su un terreno già frequentato in gioventù: il documentario d’autore. Un gruppo di sei persone che non si conoscevano prima, tra cui gli attori Maya Sansa e Giuseppe Cederna, e il medico Franco Berrino, fondatore dell’associazione «La grande via», per sette giorni hanno macinato molta strada e scoperto la Val Grande, al confine tra Piemonte e Svizzera, 150 chilometri quadrati di natura selvaggia. A guidare il loro cammino c’era una semplice riflessione, che per il regista rappresenta il filo rosso che lega tutto il racconto: «Stiamo distruggendo il pianeta e nessuno fa niente. Nessuno, sono io».

Sulla pagina web dedicata al film, Emanuele Caruso scrive: «Quando, nei prossimi anni, il cambiamento climatico provocherà la più grande crisi che l’uomo dovrà mai affrontare, volgeremo il nostro sguardo al passato. Guardando indietro, ai tanti errori che con consapevolezza abbiamo commesso negli anni, ci porremo allora un’unica domanda: “Come abbiamo potuto permetterlo?”».

Il film è in distribuzione in alcune sale del Nord Italia, ma è possibile organizzare ovunque si voglia proiezioni per scuole e associazioni.

Tutti i dettagli sono sul sito www.obiettivocinema.com.

Ogni 90 secondi

Restando nell’ambito delle emergenze che ci riguardano tutti direttamente, va segnalato che il 31 marzo, giorno della fine ufficiale dello stato d’emergenza sanitaria in Italia, alle ore 23,30 su Rai1 è andato in onda Ogni 90 secondi. Storie di pronto soccorso tra emergenza e urgenza, un film documentario prodotto dalla Simeu, Società italiana medicina d’emergenza urgenza, firmato dal regista televisivo Davide Demichelis.

Il lavoro è un tributo a quei luoghi – sono 650 i pronto soccorso attivi in Italia -, che nel marzo del 2020 sono stati travolti dalla pandemia.

Uscendo dalla retorica dell’eroismo, Davide Demichelis viaggia da Nord a Sud alla scoperta della prima frontiera della sanità italiana e di chi, con dedizione e una professionalità altissima, permette che i pronto soccorso funzionino al meglio delle loro possibilità.

La forza del film è anche la rinuncia al catalogo delle debolezze del sistema. Quelle le conosciamo. Ciò che non conosciamo abbastanza, invece, sono le storie dei medici, degli infermieri, dei professionisti della medicina d’emergenza.

Li abbiamo scoperti a causa della pandemia, ma loro c’erano prima e ci saranno dopo. Certo per chi ha lavorato settimane di fila senza staccare mai, ha iniziato il turno a febbraio del 2020 e lo ha finito a maggio, nulla sarà davvero più come prima.

Quando la competenza e l’esperienza si fanno servizio e si mettono a disposizione, tutto sembra possibile. Il senso del dovere prende il sopravvento e il pronto soccorso diventa casa e famiglia, il luogo in cui rimarrai fino a quando sarà necessario. Non un minuto di meno.

In chiusura, un medico denuncia chiaramente quanto pesi ancora ciò che (forse) ci siamo lasciati alle spalle, afferma: «Se per assurdo dovesse restare un solo medico al mondo, quel medico sarà un medico di pronto soccorso. Non c’è nessuna alternativa possibile».

Per poter seguire la programmazione del film o organizzare una proiezione, scrivere a ufficio.stampa@simeu.it.

Il documentario è visibile anche sulla piattaforma di Raiplay.

Winter on fire

L’ultima emergenza, dopo quella ambientale e quella sanitaria, con cui chiudiamo questo numero di Librarsi, è la guerra in corso in Ucraina.

Su Netflix dal 2016 è presente un film documentario che ora è tempo, per chi non lo avesse fatto, di vedere. O magari anche di rivedere, perché alla luce degli avvenimenti e dello strano dibattito che circonda il conflitto, la visione di Winter on Fire del regista russo Evgeny Afineevsky può rivelarsi illuminante.

Il film, del 2015, è il racconto di quanto avvenne a Kiev dal novembre 2013 al febbraio del 2014 in Piazza Maidan.

Rileggere quei fatti, che portarono alla fuga del presidente Victor Yanukovic in Russia, oggi ha un sapore diverso. Evgeny Afineevsky compone un puzzle che rende con grande chiarezza la drammaticità di quelle settimane: da una parte c’era una grande fetta di opinione pubblica che voleva avvicinarsi all’Europa per dare all’Ucraina una vera indipendenza da Mosca, dall’altra una politica troppo debole e corrotta per andare fino in fondo e recidere il vincolo con la Federazione Russa.

Il film è crudo. La violenza dei Berkut, i corpi speciali della polizia poi disciolti, sui manifestanti è impressionante. Le scene dei cecchini che sparano sulla folla, che prendono di mira coloro che soccorrono i feriti, riporta alle pagine più buie dell’assedio serbo di Sarajevo. Ciò che però oggi più colpisce di Winter on Fire è la consapevolezza che quella vittoria di piazza è stata tradita di nuovo. A distanza di soli otto anni è ancora la voglia del popolo ucraino di essere Europa a segnare il tragico destino della sua nazione.

Sante Altizio




Sommario MC giugno 2022

Questo numero della rivista è disponibile online dal 16 giugno.


Editoriale.

Bambini al centro.

Articoli

Dossier

I primi 50 anni della Consolata in RdC – Dallo Zaire al Congo.

Rubriche


Editoriale

Bambini al centro

Giugno, per noi mese della Consolata, si caratterizza per avere tre «giornate mondiali» dedicate ai bambini: il 4 giugno, quella dedicata all’infanzia vittima di violenza, il 12 giugno contro il lavoro minorile e il 16 giugno, la giornata che ricorda i bambini africani. Tutto questo nella cornice di altre giornate mondiali significative: per l’ambiente il 5 giugno, per gli oceani l’8 giugno, quella contro la desertificazione il 17 giugno, poi contro la violenza sessuale nei conflitti il 19 giugno, e la giornata mondiale del rifugiato il 20. Temi tutti di drammatica attualità, come dimostra la terribile guerra in Ucraina e il sempre più grave degrado dell’ambiente di cui è segno, per esempio, la siccità che attanaglia il nostro e tanti altri paesi causando una estesa crisi alimentare.

Articoli

I popoli indigeni e le elezioni di ottobre -Fuori Bolsonaro, fuori i garimpeiros

Un garimpo sul rio Couto Magalhães, Kayanau, nella Terra indigena yanomami (Tiy); si noti la pista per gli aerei. Foto Bruno Kelly – HAY.

Dopo quattro anni di presidenza Bolsonaro, il paese latinoamericano versa in condizioni molto pesanti. In particolare, drammatica è la situazione dei popoli indigeni. Ne abbiamo parlato con dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e presidente del Cimi, organizzazione che quest’anno ha compiuto 50 anni (1972-2022).

Al bingo dello «shoop do Ismael» i primi due premi sono due revolver 357, il terzo è costituito da due litri di whisky. All’internet caffè di Lora, oltre alla connessione wifi, si possono trovare torte, snack, pizze, bibite gassate, succhi naturali. Da Nanda c’è, invece, una festa di carnevale con cabaret e musica.

Questo pubblicizzano i manifesti di tre locali pubblici.

Da Trento a Chişinău – Vicinanza e concretezza

Suor Rosetta Benedetti, missionaria trentina, sistema gli aiuti ricevuti da Trento e Mestre nel deposito della Casa Provvidenza, a Chişinău, capitale della Moldavia. Foto Luisa Legari.

La vicinanza al popolo dell’Ucraina, aggredito e violentato dalle truppe di Putin, si può manifestare in vari modi. Uno di questi è portare aiuti alla popolazione rimasta senza nulla. Diario di un viaggio di duemila chilometri, da Trento a Chişinău.

Se è vero che il viaggio ha valore e trova il suo significato non nella meta da raggiungere, ma nel percorso che ci porta a essa, allora questa volta ho proprio viaggiato. E non solo da un punto di vista fisico, ma anche con il cuore e con la mente.

Verso fine marzo mi è stata offerta la possibilità di recarmi nella repubblica di Moldavia per portare degli aiuti, viveri, medicinali, prodotti per l’igiene, al Centrul social pastoral «Casa Providentei» che si trova a Chisinau (Chişinău, è la scrittura corretta), dove opera da vari anni suor Rosetta Benedetti, missionaria trentina dell’istituto Suore della Provvidenza, assieme a due giovani consorelle rumene, suor Juliana e suor Michela.

Incontro con due donne maya ixil – Da vittime a protagoniste

Cristina Raymundo (a sinistra) ed Elena Guzaro, donne maya ixil del dipartimento guatemalteco del Quiché. Foto Simona Carnino.

Nel paese centroamericano la violenza contro le donne è normalità quotidiana. Ancora di più se indigene. Elena e Cristina, di origine maya ixil, hanno saputo trasformare la loro esperienza in un aiuto per altre vittime.

La cosa che colpisce di più quando si parla con Elena Guzaro è la dolcezza del suo sguardo, un misto di timidezza, fatica, ma anche determinazione. Di fianco a lei, Cristina Raymundo ha occhi vivaci e sinceri. Ti squadra in maniera diretta, senza abbassare la testa, visibilmente divertita.

Il documentario su Gianni Minà – l giornalista che non voleva gridare

Un sorridente Gianni Minà alla scrivania del suo studio. Foto archivio Gianni Minà.

È un racconto lungo oltre 60 anni. Una carrellata di personaggi famosi e, spesso, scomodi o incompresi. Tra sport, musica, cinema e politica.

Il documentario «Gianni Minà, una vita da giornalista» che ha aperto il 25 marzo scorso il Festival di Bari (Bif&st 2022), ha avuto una lenta ma costante gestazione, fino a pochi giorni prima della consegna agli organizzatori baresi. Dal 2008 io e Gianni abbiamo iniziato a pensare all’idea di memoria, a dare una logica, un ordine alla montagna di documentazione del suo lavoro fatta di supporti, documentari, materiale registrato e poi scartato o mai montato, interviste fatte ma non prese in considerazione dalla Rai, unico acquirente, qui in Italia, dei suoi lavori. Ma, soprattutto, abbiamo iniziato a condividere l’esperienza professionale di Minà con le nuove generazioni, per non disperderla e per mantenere accesa la luce sui fatti e sulle persone che non hanno mai avuto voce.

Evoluzione delle Società Benefit in Italia – Da prospettiva a solida realtà

Le imprenditrici che Reynaldi ha coinvolto in Burkina Faso per la produzione del burro di karitè

Si tratta di imprese (virtuose e innovative) in rapida crescita. Introdotte nel 2016 nell’ordinamento giuridico italiano come una nuova forma societaria, sono ora presenti nel nostro paese con oltre mille enti.

Le Società Benefit (Sb) rappresentano una forma d’impresa virtuosa e innovativa, che potrebbe essere definita l’evoluzione del concetto stesso di azienda: mentre quelle tradizionali, infatti, esistono per rispondere a bisogni reali della società, ma lo fanno allo scopo principale di avere un profitto, le Società Benefit integrano nella propria ragione sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di generare un impatto positivo sulla società e sull’ambiente.

Padre Lisandro Rivas, nuovo ausiliare di Caracas – Un Vescovo servo di consolazione

Consacrazione episcopale di Rivas Durán Mons. Lisandro Alirio

L’ordinazione episcopale del primo missionario della Consolata venezuelano nominato ausiliare di Caracas, ha coronato le celebrazioni del 50° anniversario della presenza dell’Istituto nel paese.

In una bella e sentita celebrazione nella chiesa di San Giovanni Bosco, nella capitale del Venezuela, sabato 12 marzo, il cardinal Baltazar Porras, amministratore apostolico dell’arcidiocesi, accompagnato da monsignor Jesús Gonzáles de Zárate, presidente della Conferenza episcopale venezuelana, e monsignor Raúl Biord Castillo, Sdb, vescovo di La Guajira, hanno consacrato i due nuovi vescovi ausiliari di Caracas: monsignor Lisandro.

Dossier

I primi 50 anni della Consolata in RdC – Dallo Zaire al Congo

  • Tra guerre e dittature, 50 anni di strada – Partire dalle minoranze
  • Dal diario del pioniere – Prime lettere dallo Zaire
  • La nuova avventura – Kisangani, ultima periferia
  • Due decenni vissuti appassionatamente – Con il cuore si vince
  • La repubblica democratica di Felix Tshisekedi

Primi anni ‘70, periodo di grande fermento. La Consolata cerca un’esperienza di missione molto vicina alla gente, nella quale coinvolgere i giovani missionari. In un contesto di periferia, magari di foresta. Un’occasione si profila all’orizzonte.

L’Istituto Missioni Consolata (Imc) ha visto nell’andare in Congo, all’epoca Zaire, una presenza missionaria nuova. Prima di allora avevamo un’esperienza di missione in foresta solo in America Latina, ma non in Africa. In Tanzania e Kenya lavoravamo in territori semi aridi e di savana. La domanda di base, pensando a un nuovo contesto ambientale e umano, era: quali sono le sfide che possono nascere? I pilastri su cui volevamo costruire la missione in Congo erano i seguenti tre.

Rubriche

Faraja House

Noi e voi, dialogo lettori e missionari

Lettera su “verità e giustizia”.
Lettera dalal Faraja House in Tanzania.
Dalla Certosa di Pesio, un po’ di storia, i progetti gli incontri e le opportunità: tutto da scoprire.

Esodo – Norme e precetti (Es 25-31; 35-39)

Si legge (e si è scritto anche qui) che il libro dell’Esodo è in fondo un percorso esistenziale di ingresso nella fede. È questo il motivo per cui rappresenta un testo ancora attualissimo e leggibile come un avvincente cammino umano, a patto di essere aiutati a capirne le modalità di espressione.

Ciò non toglie che, a prima vista, risulti ben difficile inserire in tale quadro i capitoli dal 25 al 39, fatto salvo il capitolo 32 che racconta l’episodio del vitello d’oro. Sono infatti pagine per noi estremamente noiose, nelle quali viene descritto con dovizia di particolari tutto ciò che riguarda il culto, a partire da come dovrà essere costruita la tenda del santuario, l’arca dell’alleanza, come dovranno essere i paramenti dei sacerdoti e così via. Noi facciamo fatica a capire come questi testi siano finiti in una vicenda per altri versi vivace e appassionante. Si tratta però di molti capitoli, circa un terzo del libro, e non si può quindi decidere di saltarli. Il nostro disagio forse tradisce il fatto che non li abbiamo capiti bene.

 

Missione Reu 05 – Ricostruire persone e comunità

Ricostruire è un altro modo per dire consolare. E oggi c’è bisogno di farlo per persone e comunità in tutto
il mondo e, in modo concreto, in Europa. Laddove ci sono situazioni infrante, consolare è favorire il
perdono che libera e la riconciliazione che ricuce.

Ero a Bogotá. Il superiore mi aveva chiesto, con una certa insistenza, di partecipare a un incontro di teologia organizzato dall’Università dei Gesuiti. Poteva essere una specie di penitenza o, forse, il fatto che non trovasse nessun altro. Vi andai e rimasi contento.

La chiamano economia – Carbone, petrolio, gas  vincono ancora

Un pezzo di carbone, combustibile fossile ad altissimo impatto ambientale. Foto Pavlofox-Pixabay.

I combustibili fossili continuano a dominare la scena mondiale e a crescere di prezzo. In primis, per la speculazione. L’energia rinnovabile rimane una piccola percentuale dell’energia consumata.

Proprio quando il mondo sembrava deciso a volersi impegnare seriamente contro i cambiamenti climatici, è tornata l’angoscia per i prodotti energetici. Un’angoscia alimentata in parte dalla nostra indolenza, in parte da fatti contingenti. L’indolenza si riferisce alla nostra incapacità di agire finché eravamo in tempo. Da decenni, gli scienziati ci avvertono che i cambiamenti climatici sono dovuti all’accumulo di anidride carbonica emessa dai combustibili fossili e ci esortano a risolvere il problema convertendoci alle energie rinnovabili, principalmente eolico e solare. Ma noi abbiamo temporeggiato facendo orecchie da mercante. Imperterriti, abbiamo continuato a rifornirci di energia elettrica da centrali alimentate a gas e carbone dedicando alle rinnovabili solo le briciole. Secondo i dati dal Centre for climate and energy solutions, nel 2019 l’energia rinnovabile incideva solo per l’11,2% sul totale dell’energia consumata a livello mondiale per elettricità, trasporti e riscaldamento. Considerato che nel 2009 la percentuale era attestata su 8,7%, in un decennio il peso delle rinnovabili è aumentato di appena 2,5 punti percentuale, lasciando che i combustibili fossili continuassero a farla da padroni coprendo tutt’ora l’80% dei consumi energetici a livello mondiale.

I Perdenti special  – Beato Benedict Tshimangadzo Daswa

Il 13 settembre 2015, in un prato a Tshitanini, un paese non lontano dalla cittadina di Thohoyandou nel Nord del
Sudafrica, provincia del Limpopo, il cardinal Angelo Amato ha dichiarato beato Benedict Daswa, un maestro ucciso dalla gente del suo stesso villaggio per aver rifiutato di piegarsi alla stregoneria. Prima della beatificazione il suo corpo era stato riesumato e i suoi resti erano stati trasferiti nella chiesa che aveva contribuito a costruire, a Nweli, uno dei villaggi di Tshitanini.

Tre fatti legano il beato Benedict Daswa al suo paese: è nato il 16 giugno 1946, in quello che sarebbe diventato nel 1976 il giorno dell’inizio della rivolta di Soweto che avrebbe segnato l’inizio della lotta contro l’apartheid, ed è stato ucciso il giorno della fine dell’apartheid (il 2 febbraio 1990). Infine riposa in una chiesa dedicata a Nostra Signora

Cooperando – Rimesse e rifugiati

Il 16 giugno è la Giornata mondiale delle rimesse familiari, mentre il 20 giugno è la Giornata mondiale del rifugiato. Due occasioni per farsi un’idea dell’ampiezza di questi fenomeni e per riflettere sulla vita delle persone che vivono lontano da casa e sul contributo che danno alle comunità di origine e di soggiorno.

Secondo le proiezioni diffuse lo scorso novembre dalla Banca Mondiale, le rimesse dei lavoratori migranti verso i paesi a medio e basso reddito avrebbero raggiunto nel 2021 i 589 miliardi di dollari, con un incremento del 7,3% rispetto al 2020, quando si erano attestate sui 549 miliardi. La ripresa del 2021, sottolinea la Banca, fa seguito alla tenuta osservata nei flussi del 2020, quando le rimesse si erano ridotte solo dell’1,7% rispetto all’anno prima, nonostante il pianeta si trovasse, a causa della pandemia da coronavirus, in una delle più profonde recessioni di sempre e le prime stime avessero indicato un possibile calo delle rimesse del 19,7%@.

Allamano – Un santuario al centro di una vita

Il «santuario» è quello della Madonna Consolata di Torino e la «vita» è quella del sacerdote Giacomo Camisassa. Così il biografo annota la venuta del giovane e attivo sacerdote Giacomo Camisassa al santuario da tutti considerato il cuore pulsante della spiritualità mariana del popolo torinese. Siamo nel 1880. Lo ha invitato don Giuseppe Allamano, appena nominato rettore, con una lettera dal tono familiare ma che sa vedere lontano: «Veda mio caro, faremo d’accordo un po’ di bene […] e procureremo di onorare il culto della cara nostra Madre la Consolata».

Da due registi italiani e uno russo – Il mondo al pronto soccorso

Il clima, la pandemia, la situazione in Ucraina precedente alla guerra. Tre film documentari sulle tre emergenze che, in modi diversi, stanno scuotendo il mondo. Quando il linguaggio cinematografico aiuta a guardare le cose per farsene carico. A riveder le stelle, Ogni 90 secondo e Winter on Fire.

 

 

 




Un luogo dove vivere (Es 23,20-24,18)


Il libro dell’Esodo è il racconto dell’uscita d’Israele dalla «casa di schiavitù», dall’Egitto, per diventare un popolo libero. Esso ci mostra che per ottenere tale libertà, non basta essere liberati dall’oppressore, come si scopre strada facendo. Dio, dopo aver portato il popolo nel deserto, gli ha proposto un legame personale definitivo, «sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo» (la citazione è di Lv 26,12, ma è il senso di Es 19,5-6). Questo legame, che in qualche modo era regolamentato dal decalogo, è stato ripreso e chiarito in modalità che ora vederemo e che ci permetteranno di evidenziare alcuni elementi importanti. Oltre a una terra da cui uscire, infatti, c’era anche bisogno di una terra in cui vivere, e questa è stata promessa, anche se la promessa non riguarda solo la terra, ma allude a tante altre cose.

Un angelo davanti a te (Es 23,20)

«Se ci fosse Dio» è una frase che abbiamo sentito o ci siamo trovati a pensare molte volte. Molto spesso, la frase esprime quello che noi pensiamo che faremmo se fossimo noi Dio. Si tratta di una tentazione, a cui, in qualche modo, questo testo risponde: «Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato».

Dio promette che un «messaggero» (questo è il significato della parola «angelo») condurrà il popolo nella terra promessa. A chi si deve pensare? A un essere invisibile, non umano? A un intervento miracoloso? Nel Primo Testamento si parla spesso di «angeli», ma sembra sempre un modo per indicare l’intervento divino senza nominare Dio apertamente. Quasi mai leggiamo di interventi «magici» che risolvono le questioni. Normalmente gli uomini devono mettersi in gioco, conquistarsi la fiducia, interpretare e rischiare.

Sembra, insomma, che l’«angelo» di cui si parla sia un uomo. E non sembra che questi sia Mosè, altrimenti non verrebbe usato il futuro (peraltro, Mosè non arriverà nella terra promessa).

Dio invita il popolo ad avere fiducia: Lui interverrà. Ma non lo farà direttamente, bensì attraverso persone, delle quali bisognerà vagliare l’affidabilità, decidere se sono degne di fiducia.

È la presentazione della vita umana che non offre certezze ma invita a mettersi in gioco anche soltanto per valutare di chi fidarsi.

In tutta la storia dell’umanità occorre aspettarsi che Dio intervenga tramite persone umane che però potrebbero essere ingannevoli. Bisognerà, quindi, continuamente mettersi in gioco, cercare di capire, scommettere, fidarsi.

Il sogno di un legame

Il modo con cui Dio immagina la relazione con il suo popolo sembra davvero sognante: «Terrò lontana da te la malattia, non ci sarà donna che abortisce o sterile, ti farò giungere al numero completo dei tuoi giorni» (Es 20,25). Nell’originale ebraico tante parole sono tipiche della poesia, non di un trattato legale.

Il motivo si può cogliere nell’insistenza con cui Dio chiede che il popolo gli sia fedele, senza volgersi ad altri dèi.

Il richiamo alla fedeltà e il tono poetico (poco adatto a un trattato legale) ci possono fare avvicinare all’interpretazione più verosimile del passo: Dio non sta firmando un contratto, ma sta impegnandosi in un legame. Il paragone più vicino non è l’acquisto di una casa, ma un matrimonio. Dio sogna di essere amato, di vivere sempre insieme al suo popolo. Non è un legame di convenienza, ma di amore.

Ecco perché il testo insiste sul tenersi lontano dall’idolatria, sulla gelosia divina. L’immagine è precisa: Dio non vuole altri, perché è innamorato del suo popolo. Lo lega in un rapporto alla pari, perché lo ama. Con l’umanità non stipula un contratto di assicurazione, ma un legame di cuore per sempre, come uno sposo che sogna la sua vita insieme all’amata.

L’espulsione degli altri

Se da un lato Dio chiede al popolo di discernere chi sono i suoi angeli e di fidarsi di loro, da parte sua, sembra impegnarsi a scacciare chi occupa la terra che gli è destinata. Lo fa con attenzioni graduali e sorprendenti, affinché i nuovi occupanti non trovino poi una terra desolata e invasa da bestie selvatiche (23,29-30).

La nostra sensibilità moderna si stupisce e scandalizza: perché la salvezza di un popolo deve significare la morte o l’espulsione di altri?

Una prima risposta ha la sua radice nella mentalità semitica antica. Per quella cultura, chi si impegna in un compito deve innanzitutto dimostrare di esserne capace, di esserne all’altezza. Dio non può promettere agli ebrei che vivranno nella terra destinata a loro, se non è capace di fare piazza pulita di chi ci abita adesso. Noi amiamo vedere delicatezza e dolcezza, persino commozione e fragilità, anche nei potenti; la cultura che scrive queste righe, invece, voleva che il garante assicurasse di avere la forza necessaria per garantire.

Ma poi, strisciante, si insinua un’altra spiegazione appena andiamo a indagare più da vicino i nomi degli espulsi. In Gen 10,15-18 e 1Cr 1,13-16 troviamo elenchi più ampli, che arrivano a una dozzina di popolazioni. Qui ne troviamo «solo» tre, che ci lasciano un po’ perplessi: degli Ittiti sappiamo tanto, compreso il fatto che non si sono mai stabiliti in Palestina; i Cananei, invece, resteranno nella terra anche secoli dopo l’insediamento ebraico, continuando, soprattutto al Nord, a essere i vicini di casa, a volte più tollerati e a volte più odiati. Gli Evei, stranamente, non hanno lasciato alcuna traccia di sé se non in questi elenchi. Quando andiamo a controllare anche le liste più ampie, troviamo di nuovo popolazioni che avrebbero continuato a vivere insieme agli ebrei per lunghi secoli (Amorrei, Gebusei, Aramei) oppure altre di cui non abbiamo traccia se non in questi elenchi (Gergesei, Architi, Sinei, Semariti, Amatiti).

Agli archeologi e biblisti, dopo lunghe analisi, è venuto il sospetto che i nomi delle popolazioni che non hanno lasciato traccia di sé (in un territorio piccolo e arido come quello della Palestina) siano forse stati inventati. Come se Dio, innamorato del suo popolo, abbia esagerato il numero delle alternative a cui aveva rinunciato per la sua unica amata.

Non ci sembri irrispettoso. A noi pare che nella Bibbia debba trovare spazio solo ciò che è rigorosamente storico, secondo i nostri criteri moderni. Ma la storia, di fatto, ci dice che gli ebrei si infiltrarono quasi di soppiatto nella terra di Canaan, senza cancellare chi ci viveva già prima. In realtà questi testi che stiamo considerando sembrano più scritti poetici e retorici, che documenti storici. Storiograficamente potremmo ritenere falsa questa presentazione delle popolazioni scacciate, e considerarla invece come un tenero tentativo di ribadire al popolo d’Israele quanto il suo Dio ne è innamorato. Nel genere del canto d’amore, i particolari possono essere inventati, il contenuto di affetto, no.

Sul monte

Normalmente solo Mosè parlava con Dio, come ripete anche Esodo 24,2: «solo Mosè si avvicinerà al Signore». Di fatto, però, salgono sul monte anche Aronne, Nadab, Abiu e settanta anziani (24,9). E il loro messaggio sarà poi trasmesso a tutto il popolo.

Se è vero che, riprendendo anche l’umanissima tradizione della lontananza di Dio dall’umano, Esodo immagina che l’uomo non possa avvicinarsi al Signore senza morire (Es 20,19), qui però un’ampia rappresentanza del popolo lo incontra senza conseguenze (24,10-11). Da una parte Dio rimarca la sua distanza e alterità rispetto al mondo, dall’altra vuole incontrarsi con i suoi, e non sopporta di tenerli lontani o fare loro del male.

Sempre di più il comportamento di Dio si mostra comprensibile e affascinante se lo pensiamo diverso da un assicuratore, un legislatore o un condottiero, se lo vediamo come un innamorato che vuole mantenere la propria distanza e dignità ma, nello stesso tempo, e molto di più, non vuole in alcun modo perdere o fare del male al suo amato popolo.

Un’alleanza

In diverse occasioni, nel Primo Testamento, Dio viene ritratto nel gesto di stringere un’alleanza con gli uomini (Gn 6,18; 9,9-17; 15; 17,2-21; Es 6,4-5 …). In tutte queste situazioni il modello di alleanza è quello paritario. Dio, cioè, non stringe un patto con gli uomini tenendoli in condizione subalterna, come fossero dei sudditi.

Spesso noi non riusciamo a cogliere tutti i sottintesi di riti antichi che sicuramente erano meglio noti ai primi lettori dell’Esodo di venticinque secoli fa, ma qualcosa capiamo lo stesso. Il sangue, ad esempio, è simbolo della vita e dice la serietà del patto: idealmente, chi lo viola sarà tenuto a effondere il sangue proprio, in punizione. Ma è interessante che (in Es 24,6-8) il sangue venga sparso mezzo sul popolo e mezzo sull’altare: Dio non si tira fuori, non si ritiene superiore, anzi, minaccia anche se stesso di vendetta e punizione se violerà l’accordo.

I riti di iniziazione spesso calcano la mano sul rischio di morte, perché l’accordo è questione importante che va presa sul serio: questo vale anche, simbolicamente, nell’iniziazione cristiana, come si intuisce dal fatto che in greco il verbo «battezzare» significava «affogare». Qui, però, Dio si mette in gioco allo stesso modo: la sua natura è diversa da quella dell’uomo, ma lui accetta di «scendere» al livello umano, per un accordo che sia di vera reciprocità.

È significativo il fatto che non riusciamo a capire con precisione quale sia il contenuto di questa alleanza: è il decalogo (Es 20,1-17)? È il corpo legale più ampio (Es 20,22-23,19)? È qualcos’altro che non ci viene raccontato?

Cose da innamorati

Sembrerebbe che il cuore dell’accordo sia l’accordo stesso. Come, di nuovo, tra innamorati, a Dio pare interessare soprattutto stringere un accordo alla pari con un popolo di cui è innamorato. I contenuti dell’accordo sembrano secondari e riformabili (Dio li riformerà tante volte lungo la storia). Quello che non cambia pare essere solo la sua intenzione di continuare a relazionarsi con l’essere umano.

Si direbbe quasi che la vera terra che Dio promette è la relazione tra sé e l’uomo, tramite il popolo ebraico.

Un innamorato che fantastichi di vivere con la sua amata in una bella casetta solitaria sui monti, vivendo di allevamento e scaldandosi a legna, quando poi si trovasse a vivere in un appartamento con riscaldamento centralizzato e lavoro d’ufficio, potrebbe ritenere di avere compiuto il proprio sogno comunque: il sogno infatti è quello di vivere con la propria amata, non i dettagli del modo in cui vivere insieme.

E Dio sembra essere interessato soprattutto, o meglio solo, a continuare a vivere con il suo popolo. L’unico ostacolo immaginabile a tale sogno è il (possibile) rifiuto del popolo ad accogliere la piena comunione di vita con lui.

Angelo Fracchia
(Esodo 14 – continua)




Mondo, fabbrica di disuguaglianze


Un tempo le disuguaglianze interessavano soprattutto le classi sociali, oggi riguardano anche le nazioni. Allora si riferivano soltanto a reddito e patrimonio, oggi includono anche alcuni parametri ecologici. Con una certezza: i ricchi sono inviolabili. Sempre e ovunque.

L’uguaglianza è una delle aspirazioni più antiche dell’umanità, ma a giudicare da come stanno andando le cose, abbiamo ancora molta strada da fare. L’8 dicembre scorso, a firma del World inequality lab, è uscito il Rapporto 2022 sulle disuguaglianze mondiali e le notizie non sono incoraggianti. Il rapporto certifica che le disuguaglianze vanno crescendo a tutti i livelli. Un tempo ci si limitava ad analizzare le differenze esistenti nella distribuzione del reddito e del patrimonio, con l’esplodere della crisi ambientale si dedica molta attenzione anche alle disparità esistenti nell’ambito dell’impronta di carbonio e, più in generale, di quella ecologica.

Le disuguaglianze non parlano direttamente della condizione delle persone, quanto delle differenze che esistono fra loro.  Quando i mondi erano chiusi, i raffronti avevano senso solo all’interno delle singole realtà territoriali. Nei tempi antichi avremmo potuto studiare le differenze esistenti all’interno dell’impero egizio, dell’impero babilonese, dell’Impero Romano, o di quello di Carlo Magno. Raffronti allargati non avrebbero avuto molto senso perché le realtà sociali e geografiche erano poco comunicanti tra loro.

Nord e Sud

A partire dal 1500, l’Europa iniziò però ad andare alla conquista del resto del mondo per appropriarsi delle sue ricchezze. In un primo tempo, lo fece per servire le necessità belliche dei propri sovrani, poi quelle economiche delle proprie imprese. In quell’epoca accanto alle differenze tra classi, iniziarono anche quelle tra le nazioni.

Sul finire della Seconda guerra mondiale, quando la struttura coloniale era ancora in piedi, il mondo era formato da una ristretta cerchia di paesi localizzati nel Nord, con una buona capacità produttiva e tecnologica, che convivevano con una massa di paesi del Sud senza alcun tipo di infrastruttura e di capacità produttiva se non quella agricola e mineraria al servizio delle esigenze economiche del Nord del mondo.

Benché si vadano restringendo, le differenze costruite in quel tempo sono ancora ben visibili a livello di produzione e consumi. Basti dire che il Nord del mondo, che ospita appena il 16% della popolazione complessiva, assorbe tutt’ora il 38% di tutta l’energia impiegata a livello mondiale.

Volti della diseguaglianza. Foto Leroy Skalstad – Pixabay.

Il reddito pro capite

Volendo, invece, fare una fotografia più particolareggiata del livello di ricchezza raggiunto da ogni paese, ha senso utilizzare come parametro il reddito pro capite, che si ottiene dividendo la ricchezza annuale prodotta per il numero di abitanti presenti nel paese. Un esercizio matematico che, pur non essendo di alcun aiuto per conoscere la reale distribuzione della ricchezza, dà un’idea di massima della ricchezza disponibile in rapporto alla popolazione. Da questo punto di vista, la Banca mondiale divide il mondo in quattro gruppi: paesi a basso reddito, a reddito medio basso, a reddito medio alto, a reddito elevato.

Al primo gruppo, anche detto Quarto mondo, appartengono i paesi con reddito pro capite inferiore a 1.185 dollari all’anno. In tutto 73 nazioni, per oltre la metà localizzate in Africa, che ospitano 1,7 miliardi di persone corrispondenti al 22% della popolazione mondiale. All’ultimo gruppo, anche detto Primo mondo, appartengono i paesi con reddito pro capite superiore a 12.696 dollari. In tutto 77 nazioni localizzate principalmente in Europa e Nord America, con una popolazione complessiva di 1,2 miliardi di persone corrispondenti al 16% della popolazione mondiale. Ai due estremi il Burundi con meno di 800 dollari pro capite all’anno e il Lussemburgo che supera i 122.000 dollari pro capite all’anno.

Tutto ciò indica quanto sia ancora profonda la ferita inflitta dal colonialismo al Sud del mondo e quanto pesi ancora sulla incapacità di molti paesi di rimettersi in piedi da un punto di vista   economico, umano e sociale. Anche perché, a un certo punto, è finito il colonialismo inteso come occupazione straniera, ma non è finito il dominio economico che, anzi, si è riorganizzato attorno a nuove alleanze che hanno portato all’emergere di una inedita classe mondiale comprendente super ricchi di ogni nazionalità.

La ricchezza

Per ragioni di tipo metodologico, il rapporto del World inequality lab ha preferito depurare la popolazione mondiale dei bambini in modo da concentrarsi solo sugli adulti stimati in 5,1 miliardi. Ha poi stabilito che, in base alle condizioni di vita, la popolazione può essere suddivisa in tre fasce d’appartenenza: la classe povera, quella media e la ricca.

La classe povera corrisponde al 50% del totale (2,5 miliardi di adulti), quella media al 40% (2 miliardi) e quella ricca al 10% (517 milioni). Il rapporto segnala come è distribuita la ricchezza fra i tre gruppi precisando che la ricchezza ha due facce: quella del reddito e quella del patrimonio.

Il reddito si riferisce agli introiti incassati tramite il lavoro o i profitti in un certo periodo di tempo. Il patrimonio si riferisce a tutto ciò che si è accumulato nel tempo sotto forma di beni durevoli (case, auto, elettrodomestici) e di valori finanziari. Nel 2021, il reddito complessivo, a livello mondiale, è stato calcolato in 86mila miliardi di euro, di cui solo l’8% è stato goduto dal 50% più povero. La quota più alta è stata goduta dal 10% più ricco che ha intascato il 52% del reddito complessivo. E il brutto è che, nel corso del tempo, la situazione è addirittura peggiorata. Considerato che, nel 1820, il 10% più ricco si appropriava del 50% del reddito prodotto a livello mondiale e il 50% più povero intascava il 14%, se ne conclude che, nel 1820, il reddito del 10% più ricco era 18 volte più alto del 50% più povero, oggi è salito a 38 volte. Disparità che si riflettono anche rispetto al patrimonio. Nel 2021 il patrimonio privato complessivo ammontava a 377mila miliardi di euro ed era distribuito in maniera ancora più iniqua del reddito: solo il 2% risultava di proprietà del 50% più povero, mentre il 10% più ricco possedeva il 76% di tutto il patrimonio esistente.

Se vogliamo, la situazione è ancora peggiore perché, nella classe ricca, c’è una casta ristretta, corrispondente all’1% di tutti gli adulti, che da sola si appropria del 19% del reddito mondiale. E se concentriamo l’attenzione sul patrimonio, scopriamo che appena 56,2 milioni di adulti possiedono il 45,8% di tutto il patrimonio privato, qualcosa come 3,4 milioni di dollari a testa.

L’inquinamento dei ricchi e quello dei poveri

Disparità che si riflettono anche nei livelli di inquinamento: il 10% più ricco è responsabile del 49% delle emissioni di anidride carbonica, con l’1% più ricco che contribuisce da solo al 15%. Per contro il 50% più povero è responsabile solo del 7%.

Le statistiche non dicono quale sia la nazionalità degli appartenenti al 50% più povero, ma considerato che il loro reddito medio si aggira sui 2.700 euro all’anno è probabile che risiedano quasi totalmente nei paesi del Sud del mondo. Invece, conosciamo la nazionalità dell’1% più ricco, i famosi 56,2 milioni di adulti che siedono all’apice della «piramide della ricchezza». Ce la rivela il Credit Suisse col suo Global wealth report. Come c’era da aspettarsi, la fetta più ampia di super ricchi ha un passaporto statunitense (39%), seguita da quelli con un passaporto europeo (31%), precisando che quelli di nazionalità italiana sono 1.480, pari al 3% del totale mondiale. Un tempo al terzo posto venivano quelli di nazionalità giapponese, ma ora sono stati sorpassati da quelli di nazionalità cinese che rappresentano il 9% del totale. Fra le altre nazionalità, oltre a quella canadese, sudcoreana, taiwanese, compaiono quella russa, indiana, brasiliana, messicana, saudita.

Se abbandoniamo il livello mondiale e scendiamo nel dettaglio delle singole nazioni, troviamo che il paese più iniquo, fra quelli con dati disponibili, è il Sudafrica dove il 10% più ricco si appropria del 66,5% del reddito prodotto e detiene l’86% del patrimonio privato. In questo paese la ricchezza detenuta dal 50% più povero ha addirittura segno negativo, indice del fatto che i poveri possiedono solo debiti.

Il paese più equo, invece, sarebbe la Slovacchia dove il 10% più ricco assorbe il 28% del reddito prodotto e detiene il 43% del patrimonio privato. Su valori simili si trova anche l’Italia dove il 10% più ricco si prende il 32% del reddito prodotto e detiene il 48% del patrimonio privato.

Fra le ragioni per cui le disuguaglianze continuano a crescere, due meritano particolare menzione: la globalizzazione selvaggia e una politica fiscale accomodante con i ricchi.

Volti della diseguaglianza. Foto Leroy Skalstad – Pixabay.

Lo stato a difesa dei redditi dei ricchi

Uno degli effetti della globalizzazione è stata la riscrittura della geografia mondiale del lavoro. Libere di spostare la produzione dove il lavoro costa meno, molte imprese hanno chiuso i loro stabilimenti nel vecchio mondo industrializzato per rifornirsi presso contoterzisti sorti come funghi in Cina, India, Bangladesh, Indonesia.

Ad un tratto tutti i lavoratori del mondo si sono ritrovati uno contro l’altro: quelli italiani contro quelli polacchi, quelli spagnoli contro quelli bengalesi, tutti pronti a vendersi per un salario più basso in modo da conquistare il lavoro tanto agognato. Ed è successo che la quota di prodotto nazionale lordo andato ai salari si è ridotta ovunque. Mediamente a livello mondiale è diminuita del 9% passando dal 72%, nel 1982, al 63%, nel 2017.

L’Italia rispecchia esattamente questa media. L’iniquità distributiva poteva essere compensata dall’intervento riequilibratore degli stati tramite il sistema fiscale. Ma – ahinoi – anche su questo piano da anni assistiamo a scelte che tendono a favorire i ricchi. Lo testimoniano la riduzione delle aliquote sugli alti redditi, l’abbattimento delle tasse di successione, la mancata introduzione di una seria imposta sul patrimonio. E l’Italia non fa eccezione. Basti dire che l’ultima legge di bilancio riduce ulteriormente le aliquote sull’Irpef, l’imposta sulle persone fisiche, che da cinque passano a quattro, dove la prima rimane ferma al 23% per i redditi fino a 15mila euro e l’ultima rimane ferma al 43%. La riforma è stata presentata come una scelta di equità perché la tassazione del 43% è stata abbassata a 50mila euro, mentre prima si applicava oltre i 75mila euro. Ma il vero scandalo non sanato è che chi guadagna centinaia di migliaia di euro all’anno paga come chi guadagna 50mila euro. Non così nel 1974, quando l’imposta sulle persone fisiche fece la sua prima comparsa. A quel tempo gli scaglioni erano 32, con l’ultimo al 72% sui redditi oltre 258mila euro. Somma che, rapportata ai prezzi di oggi, corrisponde a 3,3 milioni di euro. Redditi da capogiro che ben pochi raggiungono. Eppure, nessuno vuole toccarli. Per adulazione? Per calcolo politico? Per paura di ritorsioni? Forse per tutto un po’, ma di certo c’è che oltre ad acuire le disuguaglianze, l’inviolabilità dei ricchi priva le casse pubbliche di introiti importanti che rendono i governi sempre più deboli e incapaci di garantire i servizi richiesti da una società moderna.

Lo stato e la vendita dei beni comuni

Questa situazione di penuria genera anche un altro fenomeno: lo spogliamento degli stati di ogni tipo di proprietà, perché la necessità di far cassa li induce a vendere tutto ciò che è bene comune: strade, edifici, terreni, attività produttive. Nei primi anni Ottanta, i governi dei paesi occidentali possedevano fra il 15 e il 30% della ricchezza complessiva presente nei loro paesi, oggi molti di loro registrano una quota pari allo 0%. In alcune nazioni il capitale pubblico è addirittura negativo perché i debiti superano il valore delle proprietà pubbliche. Il nuovo rapporto sulle disuguaglianze documenta che in questa situazione si trovano Stati Uniti e Gran Bretagna, ma forse anche l’Italia considerato che il nostro debito pubblico supera il 150% del Pil.

Tutto questo, però, non è frutto della malvagità della natura, ma della volontà umana. Per cui può essere cambiato, se ciascuno di noi lo vuole. E lo vorremo nella misura in cui rafforzeremo le nostre convinzioni morali e la nostra volontà di partecipazione.

Francesco Gesualdi