L’auto migliore è quella che non si ha


Dal 2035 nei paesi dell’Unione europea si potranno vendere soltanto auto elettriche. Si tratta di una vera rivoluzione?

Con 339 voti a favore e  24 astenuti, l’8 giugno 2022 il Parlamento europeo ha approvato la proposta della Commissione europea tesa a vietare la vendita di auto a motore a partire dal 2035. Per diventare operativo il provvedimento necessita di un’ulteriore ratifica da parte del Consiglio europeo, l’organo che rappresenta i capi di governo,  ma tutti la danno per certa dal momento che il 30 giugno è già stato dato un parere positivo di massima.

Cina, Stati Uniti e Ue

La decisione di mettere definitivamente al bando, seppur fra 13 anni, la vendita di auto a motore termico si iscrive nella più ampia battaglia contro le emissioni di anidride carbonica che l’Unione europea ha dichiarato di voler perseguire. Scelta che va ad aggiungersi alle misure già varate nel 2021 attraverso il provvedimento denominato «Fit for 55» che si pone l’obiettivo di ridurre le emissioni di anidride carbonica del 55% entro il 2030.

Con emissioni annuali pari a 3,5 giga tonnellate, ossia il 7,5% del totale mondiale, l’Unione europea è il terzo produttore al mondo di gas a effetto serra. Prima di lei c’è la Cina che ne emette 12 giga tonnellate e gli Stati Uniti che ne emettono 5,7 giga tonnellate. Ma, pur risultando fra i primi tre inquinatori mondiali, l’Unione europea si ritiene la più impegnata nella lotta contro l’anidride carbonica. Tant’è che, nel 2020, aveva livelli di emissioni ridotti del 34%  rispetto a quelli del 1990, benché organizzazioni come
Climate works foundation sostengono che il dato è falsato dal fatto che il calcolo comprende solo le emissioni prodotte internamente, mentre esclude quelle incorporate nei prodotti che importiamo dall’estero. Non solo beni finali come smartphone, auto, elettrodomestici, ma anche semilavorati come metalli, semiconduttori, pellami. Dato di non poco conto considerato che, negli ultimi anni, molte produzioni nocive sono state esportate in altri paesi consentendoci di alleggerire la nostra impronta di carbonio. Con il risultato che gli inquinatori risultano altri, magari la Cina o l’India, ma i veri beneficiari siamo noi, potendoci pure spacciare per virtuosi. Climate works foundation calcola che, se tenessimo conto anche delle emissioni incorporate nelle importazioni, la nostra quota di anidride carbonica risulterebbe più alta dell’11%.

Un ambito nel quale le nostre emissioni sono decisamente cresciute è quello dei trasporti. L’aumento più marcato si è avuto nel settore aereo dove le emissioni sono più che raddoppiate fra il 1990 e il 2019. Ma anche le emissioni su strada hanno visto un aumento del 20% nello stesso periodo. La conclusione è che oggi auto e furgoni contribuiscono al 15% di tutta l’anidride carbonica emessa nell’Unione europea. Ammontare che le autorità europee vogliono eliminare mettendo al bando l’auto a motore. Ma con quale prospettiva futura di mobilità?

Un autobus a idrogeno a Bolzano. Foto Sasa – Provincia autonoma di Bolzano.

Auto (bus) a Idrogeno

Di risposte possibili ce ne sono varie, ma quella verso la quale il sistema sembra orientarsi è una sola: il cambio di tecnologia. L’idea, insomma, è di continuare a concepire la nostra mobilità basata sull’auto privata, la quale invece di funzionare a benzina, funzionerà a elettricità. Ma con quale tecnologia e a quale costo economico, sociale e ambientale?

Ci sono due modi per fare funzionare automobili dotate di motori elettrici: con celle a combustibile e con batterie. Le prime dispongono di un serbatoio di idrogeno che alimenta un dispositivo elettrochimico (la cella combustibile) capace di produrre energia elettrica grazie a una particolare interazione fra   idrogeno e ossigeno. Il secondo tipo di auto, invece, funziona con batterie a ioni di litio che si ricaricano collegandosi alla rete elettrica. Entrambi i sistemi presentano le loro problematiche.

Nel caso delle celle a combustibile, il primo problema è come procurarsi l’idrogeno, un elemento abbondante in natura, ma non allo stato libero. Per cui va estratto da altri composti, in particolare acqua o metano. E qui arrivano i primi nodi. Per cominciare, i processi di separazione richiedono una grande quantità di energia elettrica che, se dovesse essere ottenuta bruciando combustibili fossili, tanto varrebbe continuare a viaggiare nelle auto a benzina. A maggior ragione se l’idrogeno venisse estratto dal metano perché, durante il processo, si accumulerebbe altra anidride carbonica come prodotto di scarto. In conclusione, l’idrogeno potrebbe essere annoverato fra i combustibili senza impatto climatico, solo se fosse estratto dall’acqua con energia elettrica ottenuta da sole, vento o altra fonte rinnovabile. Ma quanti impianti eolici, solari, idroelettrici, servirebbero per alimentare a idrogeno il miliardo e passa di auto oggi in circolazione? Del resto, una volta prodotto, l’idrogeno andrebbe distribuito in maniera capillare e questo è un altro scoglio perché, essendo molto leggero, non può utilizzare le tubature di metano oggi esistenti. Se poi si pensasse di trasportarlo con autocisterne, bisognerebbe prima comprimerlo utilizzando ulteriore energia elettrica. Senza dimenticare che, per caricarlo sulle auto, va messo in bombole addirittura in forma liquida, ossia raffreddato a 253 gradi sotto lo zero. E poi c’è la questione dei materiali utilizzati per le celle a combustibile. Un elemento chiave è il platino che però non è così abbondante, per cui si potrebbero porre problemi di approvvigionamento qualora l’auto a idrogeno dovesse diventare di massa.

Stante i molti nodi ancora irrisolti, il mercato dell’auto a idrogeno è ancora molto ristretto. A oggi, le uniche grandi case automobilistiche che ne producono sono Toyota e Bmw. Un certo sviluppo, invece, si registra nel settore dei grandi veicoli: camion, furgoni, autobus. In Italia, la Provincia autonoma di Bolzano già dal 2013 dispone di una flotta di autobus a idrogeno (in foto) che, nel maggio 2021, è stata arricchita di altri dodici esemplari. Quanto all’idrogeno, il rifornimento è  garantito grazie a un progetto di produzione locale cofinanziato con fondi europei.

Auto a batteria

Mentre l’auto a idrogeno stenta a partire, l’auto a batteria ricaricabile alla presa elettrica ha invece ingranato la marcia ed oggi occupa già l’1% del mercato mondiale. Ma, visti i costi di produzione, al momento i modelli in circolazione sono quasi solo di fascia alta. Tuttavia, l’industria confida di riuscire ad abbattere i costi e di potersi inserire, in tempi brevi, anche nei modelli più popolari. E basandosi sulla rapidità con la quale ai primi del Novecento scomparvero carrozze e cavalli, molti analisti scommettono che, nel 2040, a livello mondiale ci saranno due auto elettriche ogni tre nuove auto vendute. Oggi, il paese con il maggior numero di vendite di auto elettriche è la Cina. Nel 2021 ben 3,3 milioni, su un totale mondiale di 6 milioni di nuovi esemplari, sono stati venduti in questo paese. Ma non si sa con quali benefici reali per il clima dal momento che la Cina, in media perfetta col resto del mondo, ottiene solo il 30% dell’energia elettrica da fonti rinnovabili. Da questo si evince che, se il superamento delle auto a scoppio non va di pari passo con il superamento delle centrali elettriche funzionanti con combustibili fossili, forse ci guadagna l’industria automobilistica (che per vendere ha bisogno di continue novità), ma non il clima.

Fame di energia elettrica

Del resto, la questione climatica è solo uno dei problemi ambientali che stiamo vivendo, e per evitare di risolvere un problema creandone di nuovi, dovremmo affrontare il tema dell’auto elettrica in una prospettiva più ampia. Un tema centrale è quello del limite delle risorse, a sua volta intimamente connesso con quello dell’equità. La transizione elettrica, ossia il passaggio dalle centrali a combustibili fossili a tecniche di produzione di tipo rinnovabile, richiede apparecchiature costruite con minerali non così abbondanti sulla crosta terrestre. Due esempi sono il rame e il molibdeno. La loro richiesta futura è prevista in rapida crescita, ma non la loro estrazione. Il rischio è un collasso da scarsità che potrebbe essere evitato solo con una programmazione a livello mondiale. Attribuendo, cioè, a ogni nazione un massimale di assorbimento possibile tenendo conto dei bisogni di tutti. Ma da questo orecchio nessuno ci sente, meno che mai il Nord del mondo che continua ad avere livelli stratosferici di consumo di energia elettrica come se a questo mondo esistessimo solo noi.

In realtà, il pianeta è popolato da oltre otto miliardi di persone, molte delle quali in condizioni di vita subumana. Ad esempio, in Africa 700 milioni di persone non dispongono ancora di energia elettrica. Avrebbero diritto almeno a un pannello solare, ma rischiano di non poterlo avere finché noi non accetteremo di mettere un freno alla nostra insaziabile sete di energia elettrica per elettrodomestici, condizionatori, attività industriali e ora anche auto elettriche. Semplicemente perché c’è competizione per le risorse scarse.

In altre parole, bisogna scegliere se le risorse limitate esistenti sul pianeta le vogliamo utilizzare per i diritti di tutti o per i privilegi di pochi. Per entrambe le opzioni ormai non c’è più posto.

I costi delle batterie

Per trasportare cinque persone per un paio di ore su un’auto che viaggia a 150 chilometri all’ora, serve una batteria di quattro quintali, piena zeppa di grafite, alluminio, nichel, rame, manganese, cobalto, litio. Minerali presenti in maniera limitata sul pianeta, che per essere estratti e raffinati richiedono grandi quantità di energia e non solo. In Argentina, dove si estrae il 7% del litio mondiale, le comunità locali sono in lotta contro le imprese minerarie per il loro esagerato prelievo di acqua che mette a rischio le riserve di tutta la zona. In Congo, intanto, l’estrazione di cobalto è diventato tristemente famoso per le gravi condizioni di lavoro a cui sono sottoposti i minatori.

Le ondate di calore, la siccità, gli incendi, la perdita di raccolti agricoli, i mari pieni di plastiche, la perdita di biodiversità, l’esplodere di malattie virali inedite, le migrazioni massicce, dovrebbero farci capire che non possiamo proseguire lungo la strada della crescita infinita di produzione e consumi.

Come rispettare ambiente e diritto alla mobilità

Dobbiamo ritrovare il senso del limite che, applicato al tema della mobilità, significa adattare il mezzo alla distanza, usare per quanto possibile strumenti che potenziano la nostra muscolatura, usare mezzi condivisi sulle lunghe distanze, accettare di spostarci di meno e a velocità contenuta. L’invito, insomma, è a coprire a piedi i piccoli percorsi, a usare la bici per i medi tragitti, a usare mezzi pubblici e condivisi sulle lunghe percorrenze, a concepire il grande viaggio come un evento eccezionale della vita. Cambiamenti possibili che, pur non compromettendo il nostro diritto alla mobilità, possono garantire a tutti spazi di dignità nel rispetto del pianeta.

Francesco Gesualdi

 




Terzo settore e media, un rapporto in costruzione


La relazione fra mezzi di comunicazione e non profit è stata un argomento della presentazione del rapporto dell’«OsservatorioTerzjus», avvenuta lo scorso 21 settembre a Roma. Ne è emersa l’immagine di un notevole potenziale che, per il momento, appare sfruttato solo in parte.

Il Terzo settore fa audience o no? È questa la domanda che Sara Vinciguerra, responsabile comunicazione dell’Osservatorio giuridico del Terzo settore «Terzjus», ha rivolto ai partecipanti della tavola rotonda di cui era moderatrice, durante l’evento di presentazione del secondo rapporto sul tema che l’Osservatorio ha organizzato a Roma lo scorso 21 settembre@.

Indifferenza?

Stefano Arduini, direttore di Vita, mensile dedicato al mondo no profit, ha risposto sì con convinzione@: facciamo questo da trent’anni, ha spiegato, e ora Vita è anche un’impresa sociale che non starebbe sul mercato se non avesse pubblico. Tuttavia, ha detto Arduini, l’audience da sola non basta, almeno non per provocare effetti concreti nella realtà. La pandemia ha generato picchi inediti di attenzione per il Terzo settore e per il suo operato nell’assistere le persone più in difficoltà a causa delle restrizioni; ora quell’attenzione è diminuita, ma è tutto sommato rimasta alta, eppure i media generalisti non sembrano aver raccolto questo spunto per tradurlo in una maggiore e più stabile copertura delle notizie nell’ambito sociale.

Il Terzo settore, ha commentato Arduini, «ha il vento in poppa, ma naviga contro corrente»: vale il 5% del Pil, ha 900mila occupati diretti e altri 400mila indiretti, eppure sia la politica che l’opinione pubblica sembrano rimanere nel complesso indifferenti rispetto a eventi e pratiche che rischiano di danneggiare le organizzazioni attive nel sociale.

Fra questi eventi e pratiche, Arduino ne cita tre:

  • la tentata riforma del servizio civile proposta lo scorso marzo dalla allora ministra per le politiche giovanili del governo Draghi, Fabiana Dadone, in un disegno di legge poi accantonato, ma inizialmente elaborato senza coinvolgere i diretti interessati, cioè gli enti e i giovani@;
  • il persistere dei bandi al massimo ribasso per la fornitura di servizi socia-assistenziali@ ai quali il mondo della cooperazione sociale si oppone con decisione;
  • il rientro di alcuni enti del Terzo settore (Ets) nel campo di applicazione dell’Iva in seguito alla procedura di infrazione n. 2008/2010, avviata dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia per garantire il rispetto delle normative sulla concorrenza e che prevede per gli Ets non più l’esclusione dall’imposta sul valore aggiunto ma solo l’esenzione@.

Effetti concreti e produzione di senso

In parziale dissenso da Arduini si è espressa Maria Carla De Cesari, caporedattrice del Sole 24ore per la sezione «Norme e tributi»@. Proprio sulla questione Iva, ha detto De Cesari, i media sono stati capaci di rappresentare le esigenze e le posizioni del Terzo settore e, anche grazie a questa visibilità, «nel giro di poco tempo il legislatore ha preso una pausa», cioè ha inserito nella legge di bilancio 2021 un emendamento che rinvia al 2024 l’entrata in vigore della norma che riporta gli Ets nell’alveo Iva.

Il Sole24 Ore, ha concluso De Cesari, ha creduto nel racconto delle norme perché è il racconto di un mondo che cambia, ma anche nel valore economico di questo racconti. Il Terzo settore «movimenta professionisti che nel cambiamento devono accompagnare gli enti: creare conoscenza e competenza fa parte della mission del Sole, e di Norme e Tributi in particolare».

Di opinione molto diversa è invece Marco Girardo, responsabile dell’inserto di Avvenire «Economia Civile»@, che alla domanda della moderatrice ha risposto con un secco no: «Il Terzo settore non fa audience nell’attuale panorama dell’informazione, perché il “software” di questo panorama è la polarizzazione, che da un lato cerca di assecondare i consumatori per renderli sempre più soddisfatti e dall’altro sobilla cittadini sempre più arrabbiati».

Il Terzo settore sta in mezzo fra questi due poli e i suoi punti di forza sono l’autenticità e la capacità di creare relazioni. Su cento lettori generici di Avvenire, riferisce Girardo, quelli attivi – cioè i lettori che cercano un’interazione, fanno domande e creano una comunità di lettura – sono fra i venti e i trenta. Per il Terzo settore questo numero sale a sessantacinque o settanta su cento, segnando una richiesta di interazione molto più alta, da soddisfare poi attraverso i media più adatti: nel caso di Avvenire, la radio InBlu e i social network.

Nella sua rappresentazione da parte di un media, il Terzo settore in questo momento chiede «un orizzonte di approfondimento culturale forte»: un tempo di cambiamento e di difficoltà come quello attuale genera una forte domanda di senso e, conclude Girardo, «dove c’è una produzione forte di contenuti di senso c’è una riposta» in termini di audience.

Il rapporto con il servizio pubblico

Roberto Natale è intervenuto alla tavola rotonda@ a nome della neonata direzione Rai per la sostenibilità – Esg (= Environment, Social, Governance, ndr), che ha raccolto l’eredità di Rai per il sociale. Il Terzo settore, ha spiegato Natale, fa coesione sociale e questo già sarebbe sufficiente per giustificare l’attenzione da parte del servizio pubblico. A seconda di come viene trattato, poi, può anche fare audience, ma il racconto del Terzo settore è, a prescindere, un tratto costituivo dell’impegno di Rai per la sostenibilità. Quello che manca, constata Natale, è piuttosto il riconoscimento del ruolo politico del soggetto sociale.

Un esempio di questa mancanza è stato la copertura Rai delle consultazioni per la formazione del governo di Mario Draghi nel febbraio 2021, quando per la prima volta un presidente incaricato ha incontrato non solo le forze politiche ma anche i soggetti sociali. La Rai, ricorda Natale, ha seguito con varie dirette le consultazioni con i partiti, ma non quelle con sindacati, rappresentanze ambientaliste e forze sociali. Quella decisione su chi includere e chi escludere dalle dirette è stata indicativa di una sensibilità e la Rai ha bisogno che il Terzo settore la «aiuti a maturare questa sensibilità».

A questo proposito, il Forum del Terzo settore e il ministero del Lavoro, d’intesa con la direzione Rai, stanno cercando di costituire un tavolo di confronto proprio su servizio pubblico e Terzo settore. «Nell’attuale contratto di servizio – il testo che regola gli impegni Rai nei confronti dello Stato e in base al quale la Rai percepisce il canone – è rimasto solo il tema della disabilità e dell’accessibilità, un tema certamente importante ma che non può esaurire il significato del termine “sociale”».

Andare oltre l’immagine di «buoni»

Elisabetta Soglio, responsabile dell’inserto Buone Notizie in edicola il martedì con il Corriere della Sera, è più in linea con Stefano Arduini: se il Terzo settore non facesse audience, se al martedì non avessimo un aumento di copie vendute, ha detto la giornalista, Corriere Buone Notizie non esisterebbe. Si tratta anche di un’audience significativa, come ha dimostrato la presentazione, lo scorso 12 settembre, del libro di Claudia Fiaschi a conclusione del suo mandato come portavoce del Forum Terzo Settore@: nello stesso giorno del dibattito su Corriere TV fra la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni e il segretario del Pd Enrico Letta, nei giorni della grande attenzione verso il Regno Unito per la morte di Elisabetta II, a seguire lo streaming sul libro di Fiaschi sono state 398mila persone. «Questo vuol dire che se proponi bene il prodotto, se lo spieghi e lo motivi, le persone ti seguono».

Corriere Buone Notizie, ha ricordato Soglio, è nato nel 2017 anche per andare oltre l’idea che il Terzo settore è quello dei «buoni a cui tirare la giacchetta quando c’è bisogno. Non parliamo solo di buone pratiche, ma proponiamo anche temi: questi temi arrivano poi anche sul quotidiano e prima non c’erano».

Cosa fa notizia e come comunicare

Sara Vinciguerra ha poi chiesto ai partecipanti quali aspetti del rapporto Terzjus si prestano a diventare notizie da pubblicare sulle varie testate.

De Cesari e Arduino hanno citato la sentenza della Corte costituzionale n. 131 del 26 giugno 2020, che rappresenta una rivoluzione nel rapporto fra Ets e amministrazioni pubbliche. In quella sentenza, infatti, la Corte dà piena applicazione al principio di sussidiarietà contenuto nell’articolo 118 della Costituzione, affermando che gli enti riconosciuti come Ets hanno titolo a coprogrammare e coprogettare insieme alle amministrazioni pubbliche, cioè a partecipare alla definizione e realizzazione delle politiche pubbliche e non solo a fornire servizi in cambio di un corrispettivo, come era previsto dal Codice degli appalti@.

Girardo di Avvenire ha invece sottolineato che una notizia rilevante è emersa proprio durante la presentazione del rapporto, quando il presidente di Terzjus, Luigi Bobba, ha letto il messaggio del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Andrea Orlando, che annunciava l’avvio «dell’interlocuzione con la Commissione europea finalizzata all’invio della notifica delle norme fiscali soggette ad autorizzazione» da parte dell’Ue, autorizzazione necessaria per completare la disciplina fiscale introdotta dalla riforma@.

Roberto Natale della Rai ha individuato come elemento più interessante il valore economico del Terzo settore e il suo ruolo di pilastro dell’economia italiana. Ha poi sottolineato il bisogno di formazione dei giornalisti su temi del sociale: «Vi sento parlare con grande sicurezza, che ammiro, della coppia concettuale coprogrammazione e coprogettazione», ha scherzato: «Ma fermate due giornalisti, uno sono io, e chiedete loro che vi spieghino la differenza». Natale ha fatto presente che da alcuni anni i giornalisti hanno l’obbligo di seguire dei corsi che permettano loro di ottenere crediti formativi: anche per questo, ha sostenuto Natale, se il Terzo settore propone occasioni di formazione i giornalisti le coglieranno.

Elisabetta Soglio di Corriere Buone Notizie ha invece indicato l’impresa sociale come tema «più notiziabile», ma ha anche ricordato il commento, nella tavola rotonda precedente, di Chiara Tommasini della rete CsvNet, che unisce i centri di servizio per il volontariato in Italia. Tommasini ha insistito sull’importanza di dare attenzione agli enti più piccoli e alle difficoltà che si trovano ad affrontare a causa della riforma e anche alla necessità di chiedersi che cosa significhi davvero «piccolo», dal momento che ci sono organizzazioni di dimensioni molto ridotte che hanno però un ruolo fondamentale nel loro territorio.

Comunicare meglio

In chiusura, la moderatrice ha riferito che molti enti si chiedono come fare per comunicare meglio e ha girato la domanda ai partecipanti al dibattito. Fra le risposte, quella di Natale ha sottolineato l’importanza di una comunicazione unitaria da parte degli Ets e ha aggiunto che in questi mesi si definisce il nuovo contratto di servizio Rai, perciò è opportuno che gli «enti si facciano sentire in modo da poter contare negli assetti del servizio pubblico».

Arduini di Vita ha invece ricordato che le oltre 360mila organizzazione del Terzo settore possono aprire profili social a costo zero e ha esortato tutti a immaginare che potenza comunicativa emergerebbe se anche solo un decimo di queste organizzazioni agisse in modo coordinato su un tema al mese.

Chiara Giovetti

 




Castelnuovo Don Bosco


Nella piazza centrale di questo industrioso paese della provincia di Asti, fa bella mostra di sé un’insegna con la scritta: «Benvenuti a Castelnuovo Don Bosco, terra dei santi e del vino». Accostare «santità» e «vino» non appare agli abitanti del paese una dissacrazione. A parte il fatto che Gesù stesso ha fatto uso del vino per darci il più grande regalo che è l’Eucaristia, la coltivazione della vite e l’industria del vino fanno veramente parte della vita della gente e anche dell’infanzia dei loro quattro santi.

Il capostipite dei santi castelnovesi fu san Giuseppe Cafasso che, nel corso del XIX secolo, infuse ad una schiera di sacerdoti della diocesi di Torino la sua spiritualità seria e misericordiosa, favorita da un’attenta relazione con Dio e allo stesso tempo aperta alla carità verso il prossimo, soprattutto ai poveri e agli ultimi. Non per nulla essi vennero chiamati «Santi sociali».
Don Giovanni Bosco fu l’allievo più celebre di san Giuseppe Cafasso, mentre il beato Giuseppe Allamano, nipote di sangue, seppe ereditare in maniera esemplare lo stile di vita e di santità dello zio.

Fin da secoli lontani, l’industria del vino è sempre stata caratteristica di Castelnuovo che, grazie alla sua posizione geografica, si presenta ricca di vigneti che producono principalmente il Malvasia e il Freisa d’Asti. Le sue varie frazioni sorgono infatti su assolate colline, molto favorevoli alla coltivazione di questi vitigni. Introducendo un suo scritto inedito sulla vita del santo zio Giuseppe Cafasso, Giuseppe Allamano così amava descrivere in maniera un po’ poetica il paese nativo: «A dieci miglia circa da Torino, per quella parte che volge a oriente, posa sull’estremo declivio di lunga collina a destra ed a sinistra circondata da ridenti colli ricchi di vigneti che gli fanno nobile corona, con davanti verdeggiante e deliziosa pianura, Castelnuovo d’Asti, paese assai considerevole pel numero dei suoi abitanti e piccolo centro di commercio e di comodità pei molti paeselli che gli stanno vicino».

Giuseppe Allamano non ha mai lavorato nelle vigne, dato che all’età di 10 anni ha lasciato Castelnuovo per Torino per continuare i suoi studi nel Convitto di Don Bosco. Tuttavia i ricordi dei lavori della sua gente sono sempre stati vivi e presenti nella sua mente e hanno plasmato in qualche modo anche il suo carattere e personalità. Per lui la vita dei contadini tra le vigne di Castelnuovo si identificava con laboriosità, lavoro duro e diuturno, e propensione al servizio. Tali caratteristiche avrebbe trasmesso con insistenza ai suoi missionari e missionarie. Diceva loro: «Un missionario che non sappia e non abbia voglia di lavorare, non è un vero missionario». Era sua convinzione che il lavoro rende solidali con le persone umili e attenti ai bisogni dei poveri.

padre Piero Trabucco


La passione di dio

«Abbiate gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo» (Fil 2,5): l’esortazione di san Paolo ai Filippesi si addice bene all’identità del beato Allamano che, come profeta, ha saputo condividere la «passione» di Dio per l’umanità.

Passione e compassione

Sono molti i testi biblici che ci mostrano come Dio provi affetti ed emozioni, partecipi alle vicende umane ed entri nelle peripezie della storia: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze» (Es 3,7). È un Dio al cui essere appartiene il «pathos». Egli soffre e sperimenta sentimenti, commozioni, passioni. Dio esprime questo suo essere coinvolgendosi nella storia umana, perché la vera passione è «com-passione», assunzione di responsabilità. È così che la passione di Dio per l’umanità porta all’Incarnazione. Gesù Cristo è risposta d’amore e passione per ogni uomo e ogni donna.

I profeti hanno avuto una comprensione di Dio non teorica, ma reale, fino al punto di lasciarsi coinvolgere totalmente nella sua passione per l’umanità, come Geremia: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre. Mi dicevo: non penserò più a Lui, non parlerò più in Suo nome. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente» (Ger 20,7.9). Così il profeta è l’uomo che, in comunicazione con Dio, si identifica con il suo amore per l’umanità, in una partecipazione «appassionata» e «responsabile» agli eventi.

Una vita nella luce del profetismo

L’Allamano è profeta perché è in comunicazione permanente con Dio e da Lui si lascia coinvolgere profondamente. Vive per compiere la sua volontà, come afferma: «Credetemi, c’è niente di più consolante e tranquillo che aver fatto la volontà di Dio».

In forme diverse la Parola di Dio è rivolta all’Allamano, per portarlo alla coscienza di una personale esperienza di Cristo «Missionario del Padre» che è mandato e che manda.

In questa comunicazione, il nostro fondatore viene coinvolto «empaticamente», vale a dire in modo da condividere i sentimenti e la passione di Dio, in un certo senso la sua «sofferenza», per il suo popolo. Alla domanda: «Come dobbiamo amare Dio?», l’Allamano risponde: «Con tutta l’anima. La volontà la diamo tutta a Dio, non volendo che ciò che egli vuole e come lo vuole».

Profeta in ogni attività sociale e apostolica

L’Allamano è attento alle necessità del suo tempo e partecipa alla «passione» di Dio nelle molteplici attività in favore della promozione umana, ispirato dalla celebre enciclica «Rerum Novarum» del papa Leone XIII. Così, attorno al santuario sorgono alcune associazioni che, nella loro denominazione sociale, portano il nome della Consolata, quali: «Pia unione della Consolata fra le operaie-Tabacchi»; «Pia unione della Consolata fra le tessitrici»; «Pia Unione della Consolata fra le operaie del cotonificio Poma»; «Laboratorio della Consolata», per la preparazione professionale e morale di innumerevoli lavoratrici e dirigenti. Inoltre, l’Allamano incoraggia la stampa cattolica, in un momento in cui pochi vi credono, offrendo appoggio morale e aiuti finanziari.

Un altro impulso profetico dell’Allamano lo troviamo nel suo interesse, oltre che per la formazione spirituale e apostolica, anche per quella sociale del clero, che lo porta ad organizzare, nel Convitto Ecclesiastico, corsi di sociologia teorica, diritto finanziario, sociologia pratica. Il periodico «Difesa e Azione» così descrive questa ispirazione: «Possiamo annunziare con viva soddisfazione che il Rev. Can. Allamano, il quale ha sempre avuto un’intuizione precisa dei bisogni dei tempi, intende che il corso di sociologia abbia a formare parte integrante dell’insegnamento del Convitto». Questi corsi hanno la motivazione di fare comprendere ai giovani sacerdoti i grandi movimenti politici, sociali e religiosi del momento, per non rimanere tagliati fuori dai problemi più importanti della diocesi e del mondo.

L’ispirazione profetica più significativa

Gli istituti missionari dell’Allamano costituiscono l’ispirazione profetica più significativa, o meglio, il punto di arrivo di tutte le altre attività che realizza, non tanto come una serie di piccoli progetti, ma come provvidenziale preparazione alla fondazione stessa.

L’ispirazione fondamentale di dare vita agli istituti missionari per l’Allamano non proviene da un’esperienza mistica, o da un’improvvisa illuminazione interiore, ma è frutto della sua capacità di leggere e comprendere le necessità apostoliche del suo tempo (situazione storica sociale e religiosa; persone, avvenimenti, ecc.), e soprattutto della comunione con Dio, centro della sua vita.

L’Allamano è uomo di grande fede e molto realismo. Per esempio, in riferimento alla sua guarigione da molti ritenuta prodigiosa, secondo la testimonianza di padre Lorenzo Sales, l’Allamano confida con semplicità: «Non c’è da pensare che vi siano state rivelazioni; né le cerco né le desidero. Quando ero presso a morire feci promessa, se fossi guarito, di fondare l’Istituto. Guarii e si fece la fondazione. Ecco tutto».

L’Allamano ha le idee chiare ed è convinto che l’opera è di Dio e che è Lui a portarla avanti: «Ecco, questa casa l’ha posseduta fin dal principio Nostro Signore ed è proprio sua, come un campo è del suo proprietario; quindi, non dite goffaggini col dire che il tale o il tal altro l’ha fondata, no, no, è la
Madonna che la fondò, ed il principio è venuto da Nostro Signore».

Figli e figlie dell’Allamano, con gioia continuiamo a contemplare il nostro padre fondatore come «profeta-voce di Dio» che ci invita a condividere con lui la «passione-amore» di Dio in favore di tutta l’umanità.

suor Luz Mery Restrepo González


UMILI, ULTIMI, EUCARISTICI

Domenica 28 agosto, nella casa generalizia delle missionarie della Consolata, le due famiglie fondate da Giuseppe Allamano si sono riunite attorno a mons. Giorgio Marengo, prefetto  postolico di Ulaanbaatar, Mongolia, creato cardinale da papa Francesco nel Concistoro del giorno precedente.

Nella sua riflessione, il neo cardinale, illuminato dalle letture della 22ª domenica del tempo ordinario (ciclo C), ha ricordato aspetti che appartengono all’insegnamento del fondatore, alla tradizione dell’istituto e sono una chiara indicazione su come essere cardinale missionario.

Che avrebbe potuto dire il nostro fondatore se avesse visto un suo figlio, missionario della Consolata, diventare cardinale? La Parola di Dio di questa domenica può rispondere a questa domanda e ci propone tre criteri che non sono affatto lontani dalla spiritualità di Giuseppe Allamano e che devono essere presenti nella vita del cardinale missionario della Consolata.

La prima lettura tratta dal libro del Siracide, parla in modo eloquente dell’umiltà. «Quanto più sei grande, tanto più fatti umi-le perché ai miti Dio rivela i suoi segreti» (cf. Sir 3,18-19); in cambio la condizione dei superbi è descritta come misera. Gesù ha preso l’ultimo posto e, come dice san Paolo, se vogliamo vantarci, dovremmo farlo perché lui ci ha chiamati, e non per altri motivi.

Anche il Vangelo tocca lo stesso argomento quando dice che i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi sono i primi invitati al banchetto del Regno (cf. Lc 14,13), e noi siamo quei poveri che sono i privilegiati del Vangelo. L’umiltà quindi, non può mancare nella vita del missionario della Consolata e nemmeno in quella del cardinale missionario della Consolata.

La seconda lettura, una bellissima pagina tratta dalla Lettera agli Ebrei, la voglio leggere in chiave eucaristica perché ci manifesta un aspetto molto tipico della vita del missionario e missionaria della Consolata. L’autore di questo scritto dice che «Non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità» (Eb 12,18), quelle sono manifestazioni potenti e misteriose del Dio dell’Antico Testamento, ma «vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente… a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova» (cf. Eb 12,22-24). Non dimentichiamo che quando ci avviciniamo all’Eucaristia ci stiamo avvicinando a Gesù in persona. Quello che i nostri occhi vedono sono i segni umili e poveri del pane e del vino nel quale Gesù si fa realmente presente alla nostra vita quotidiana. Lui lo fa rispettando fino a tal punto la nostra libertà che in quei segni diventa piccolo e quasi invisibile.

Giuseppe Allamano tutto questo l’aveva nel cuore: l’Eucaristia è il fine della missione, perché come meta abbiamo la costruzione di una comunità convocata attorno alla Cena del Signore, ma è anche il principio perché nell’Eucaristia trova la sua origine la missione come testimonianza, carità e giustizia.

Giuseppe Allamano voleva che i suoi missionari fossero eucaristici perché dall’Eucaristia nasce il servizio verso i più poveri e l’annuncio del Vangelo nei tanti contesti nei quali siamo chiamati a evangelizzare. Anche questo è un criterio valido per il cardinale missionario della Consolata.

Il Vangelo di Luca forse non ha bisogno di spiegazioni perché stabilisce in modo lampante la logica che lo sottende: i nostri posti sono gli ultimi e non i primi. «Non metterti al primo posto, ma vai a metterti all’ultimo perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato» (cf. Lc 14,8-11). La logica del Vangelo, che è molto diversa da quella del mondo, si vive stando nell’ultimo posto e non nel primo. E questo vale per tutti noi missionari della Consolata, anche per il cardinale.

Il Signore conclude la pericope con questa frase: «(Al tuo banchetto) invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; sarai beato perché non hanno da ricambiarti» (Lc 14,13-14). Spesso nella vita finiamo sempre per fare qualche calcolo del tipo: «Se sono una persona buona e onesta ho diritto almeno a qualcosa… se faccio un gesto di carità mi dovranno almeno dire grazie».

Un famoso poeta mongolo, morto non molti anni fa, Dashbalbar, scrisse questo verso in una poesia titolata «Sii come il cielo»: «Qualunque cosa ti succeda, sia che ti applaudano o ti insultino, tu sii amplio come il cielo».

Nella nostra vita missionaria ciò che domina non è il calcolo ma la gratuità, uno dei segni più coerenti con la logica del Vangelo dove tutti siamo figli dello stesso Padre «che fa sorgere il suo sole su cattivi e buoni, e fa piovere su giusti e ingiusti» (cf. Mt 4,45).

Gli esempi di chi vive secondo la logica del Vangelo li abbiamo a casa nostra, nei nostri santi: il beato Giuseppe Allamano e le beate Irene Stefani e Leonella Sgorbati. Nei diari di Leonella si riporta una frase che dice: «… ma quando potrò fare un gesto di gratuità pulito, senza attendere niente in cambio?». Lo Spirito l’ha plasmata e alla fine è stata così somigliante al Cristo da versare il suo sangue mescolandolo anche con quello delle sue guardie del corpo che erano di fede mussulmana; morendo ha detto tre volte «perdono».

Nella tradizione orientale i santi sono chiamati «i somigliantissimi» perché assomigliano in tutto e per tutto a Gesù. La vocazione missionaria ci mette nella condizione degli apostoli e ci porta dove il Vangelo non è ancora conosciuto. Là, dobbiamo essere una chiesa umile, eucaristica, ultima fra gli ultimi e costruita secondo la logica del Vangelo. Dobbiamo essere «somigliantissimi»; santi come diceva il fondatore.

Giorgio cardinal Marengo

 




Ogni pace e ogni guerra hanno una storia


Una giornalista racconta alcuni dei molti conflitti dimenticati del mondo, e ci dice che ogni guerra insegna qualcosa su come si può fare la pace. Un diplomatico italiano racconta gli ultimi giorni della Nato in Afghanistan, cercando anzitutto le radici lontane di un fallimento e di una speranza.

La meccanica della pace

Quando La meccanica della pace, firmato da Elena Pasquini, esce a metà luglio con People, è piena estate, e la guerra in Ucraina ha compiuto molte devastazioni. All’orizzonte non c’è alcuna speranza né di un cessate il fuoco, né, tantomeno, di una pace tra le parti. Di fronte a questo scenario che non favorisce l’ottimismo, mi sembra cosa buona e giusta consigliarvene la lettura.

Pasquini è una brava e capace giornalista che, da oltre venti anni, con grande sensibilità, osserva da vicino le crisi internazionali. Soprattutto quelle umanitarie, che sono sempre tante, troppe e molto spesso fuori dal circuito dell’informazione.
Esistono, ma non esistono.

Nel suo La meccanica della pace, non solo ci porta nei luoghi dimenticati dalle cronache di guerra in Africa, Medio Oriente e America Latina, ma ci racconta esperienze che dicono una pace possibile da trovare.

«Ogni guerra è diversa, ogni guerra distrugge qualcosa in maniera definitiva, vite, beni, risorse, storia, radici – scrive l’autrice -, ma ogni guerra insegna qualcosa su come si può fare la pace e che la pace è possibile. La pace non è un cessate il fuoco e neppure un accordo. E non è data per sempre. Una pace possibile è fatica, impegno incessante, vigilanza anche quando sembra raggiunta o scontata. E la risoluzione dei conflitti armati è “il più drenante” e logorante dei lavori».

Esiste quindi un meccanismo che mette in relazione gli opposti. La diatriba tra Caino e Abele non deve avere per forza un finale scontato. A loro è mancato un mediatore, o una mediatrice.

Nelle dieci storie raccolte nel libro, non a caso, molte protagoniste dei processi di pacificazione sono donne.

Per costruire la pace senza usare la guerra serve tanta voglia di sporcarsi le mani, grande determinazione, enorme spirito di adattamento, rispetto per tutti, ma proprio tutti, gli attori in campo. E no, non servono eroi.

«Fare la pace è dolorosa pazienza che una vittoria militare non garantisce – scrive Elena Pasquini -. Pace compiuta o parziale, che inizia quando si accoglie l’esistenza dell’altro, il nemico, e dove “nessuno vince tutto e nessuno perde tutto”. Serve qualcuno che inneschi la scintilla, che accenda la luce, che riconosca la realtà e metta in moto il meccanismo».

Chissà se e quando questa logica lineare, semplice nella sua essenzialità, inizierà a prendere il sopravvento sul linguaggio della violenza.

 

L’ultimo aereo da Kabul

C’è un altro libro, uscito quasi in contemporanea con Piemme, che, invece, racconta la storia di un fallimento diplomatico e porta la firma di Stefano Pontecorvo, già ambasciatore italiano in Pakistan, ma soprattutto rappresentante civile della Nato in Afghanistan.

È lui l’uomo che ha coordinato, nell’aeroporto di Kabul, l’evacuazione dei civili afgani in fuga dal ritorno dei taliban, in un contesto che definire apocalittico pare misurato.

Era la fine del mese di agosto dello scorso anno.

L’ultimo aereo da Kabul. Cronaca di una missione impossibile è un libro fondamentale, soprattutto per un motivo: alla catastrofe finale il suo autore dedica solo due capitoli, il nono e il decimo. Gli altri otto sono una approfondita analisi storica del contesto che ha preceduto tutto quello che abbiamo visto un anno fa, partendo dagli albori della storia afgana, ed entrando nelle dinamiche tribali, religiose, economiche. Tutto quasi completamente ignorato nei vent’anni di presenza militare occidentale in quel paese.

Pontecorvo, che è figlio di diplomatici, già da bambino viveva in quella fetta di Asia e, in quell’aerea sospesa tra cultura araba e persiana, all’ombra di Cina e India, vi ha trascorso più tempo che in Italia.

«Alle 18.21 di venerdì 27 agosto 2021 terminò formalmente l’avventura afgana della Nato – scrive l’ex ambasciatore -. In quel momento il C130 italiano sul quale ero imbarcato, ultimo rappresentante dell’Alleanza atlantica a lasciare il paese, passò il confine tra l’Afghanistan e il Pakistan. Per la prima volta in vent’anni l’Afghanistan era senza presenza Nato. Lasciammo il paese e lo lasciammo male, in mano a quegli stessi talebani che avevamo cacciato dal potere in poche settimane venti anni prima. E lasciammo un paese che aveva creduto in noi e una popolazione condannata ancora una volta, non certo per scelta, a un futuro ben diverso da quello che le avevamo fatto intravedere».

Avere ignorato la storia del contesto, averne ignorato i meccanismi (per recuperare il lessico della Pasquini), ha prodotto una sequela di errori che alla fine si sono sommati alla decisione presa dall’allora presidente Donald Trump di lasciare del tutto e definitivamente l’Afghanistan per motivi di pura politica interna.

L’ultimo aereo da Kabul è una sorta di manuale, un compendio di «cose da non fare se» ti occupi di diplomazia, se devi sanare ferite, se devi chiedere a tribù che si odiano da secoli di fare un governo insieme.

Interessante è, ovviamente, anche il punto di vista di Pontecorvo: uomo occidentale, che ha vissuto l’Oriente, ne è stato contaminato ed è stato chiamato a scrivere una delle pagine più tragiche della sua storia recente.

Traspare spesso nelle sue parole un senso di amarezza che però attenua nelle ultime pagine del libro, quando si chiede: ne è valsa la pena andare laggiù per vent’anni se il risultato è stato questo? La risposta è: sì. «Conosciamo la storia del bambino che mette il dito nel foro di una parete della diga e impedisce all’acqua di […] allargare la falla, salvando il suo villaggio dall’inondazione. […] Quel bambino è la Nato. Fino a che abbiamo tenuto il dito […], il sistema ha retto per gli afgani e per noi. […] Abbiamo lasciato un Afghanistan ben diverso da come lo abbiamo trovato. Vent’anni fa non vi erano praticamente scuole, sanità, educazione, le donne vivevano nel Medioevo. […] Tutto questo è cambiato e lo abbiamo cambiato noi. […] L’età media afgana è di 28 anni, una intera generazione è crescita esposta alla guerra, ai troppi morti causati da essa, ma anche avendo negli occhi un modello alternativo e la consapevolezza di cosa significhi vivere una vita diversa. Per l’Afghanistan vi è ancora una speranza».

Sante Altizio




Sommario MC novembre 2022

Il numero è disponibile dal 14 Novembre.


Editoriale

Missione donna

Non mi è mai venuto spontaneo pensare alla missione al femminile. Ma sempre di più è doveroso farlo, a maggior ragione in questi giorni segnati da figure femminili che, nel bene o nel male (lasciamo a voi giudicarlo), segnano la storia […] Come scordare, poi, che noi missionari della Consolata abbiamo la nostra ispirazione e il nostro modello proprio in una donna, la madre di Gesù, che noi, con i torinesi, chiamiamo affettuosa­mente Consolata? […] Le tre sante che hanno fatto da corona al mese missionario, non hanno fatto teorie, ma hanno vissuto una mentalità nuova centrata sull’amore, facendosi serve – non padrone – degli altri, fino a dare la propria vita perché le persone che hanno incontrato potessero essere vive, libere e amate. Ci hanno mostrato la strada, quella che Gesù indica per «farsi servi» gli uni degli altri. L’augurio è che tutti la percorriamo.


Dossier

Racconti da «Lingua Madre». Io sono tutte le donne

In queste pagine sono riportati alcuni dei racconti che hanno vinto il XIII Concorso Lingua Madre del 2018. Dello stesso Concorso, MC ha già pubblicato diversi testi nell’agosto 2016. Ringraziamo Daniela Finocchi, ideatrice del concorso, per averci offerto questi scritti. Siamo felici di pubblicarli proprio in questi giorni in cui le donne, a comin­ciare da quelle iraniane, sono protagoni­ste e promotrici di grandi cambiamenti.


Articoli

Una sorridente e felice Marielle Franco. Foto Wikifavela.

Brasile.

Vedute alternative

Voci di donna dalle favelas

Povertà, criminalità e promiscuità: di solito, sono queste le parole che descrivono le «favelas», luogo simbolico del Brasile. Proviamo a capirle attraverso donne di favela come Carolina Maria de Jesus (morta nel 1977) e Marielle Franco (assassinata nel 2018). Oggi altre donne seguono il loro esempio di lotta e speranza.

Kenya.

Dialogo con monsignor Hieronymus Joya, neovescovo di Maralal.

Servire con «Gioia»

Una storia da uomo tranquillo, ma costantemente in ricerca. Il che lo mette di fronte a scelte importanti. Un passo dopo l’altro diventa missionario, poi, con la forza della mitezza, continua il suo servizio a vari livelli. E non smette mai di formarsi. Fino a quando papa Francesco lo chiama.

(Photo by Carol VALADE / AFP)

Mondo.

Nascita e sviluppo delle compagnie di soldati di ventura russi

Wagner e i suoi fratelli

Operano da oltre dieci anni, ma solo di recente si è iniziato a parlare di loro. Agiscono nell’ombra, ma calcano i principali teatri di guerra. Sono organiz­zazioni strutturate, e orientate al business, nelle quali l’ideologia non c’entra. Facciamo il punto sulle compagnie dei contractor russi.

Italia.

Conversazione con padre Mario Barbero

Sperimentare il centuplo

Dei tre fratelli Barbero missionari della Consolata, padre Mario è quello di mezzo. Ha accompa­gnato oltre la metà della storia dell’Imc, tra Italia, Kenya, Usa, Congo e Sudafrica. Suoi amori: la Bibbia, i confratelli e le famiglie del «Marriage encounter» che ha promosso nel mondo.

The Skyvan PA-51

Argentina.

Il fotogiornalista Giancarlo Ceraudo e il progetto «Destino final»

Scattare la giustizia

I voli della morte, durante la dittatura in Argentina, hanno ucciso, facendole sparire, migliaia di persone. Con il suo progetto fotografico, Giancarlo Ceraudo, ne ha riparlato aiutando la giustizia a fare il suo corso.

Mondo.

Il fenomeno della schiavitù

C’era una volta (e c’è ancora)

Nel mondo sono cinquanta milioni le persone in schiavitù. In questo numero (incredibile) rientra chi lavora forzatamente e chi si sposa contro la propria volontà. La maggior parte delle vittime sono donne e bambini.

Foto Orren Jack Turner – Library of Congress.

Mondo.

Novembre 1922, novembre 2022

Albert Einstein, tra Nobel e famiglia

La vita del grande fisico tedesco non è stata facile. Problemi familiari, invidie, incomprensioni, accuse (anche di comunismo) non sono mai mancati. Lo ricordiamo a cent’anni dall’assegnazione del premio Nobel (ma non per la sua teoria della relatività).

Ospedale di Neisu

RD Congo.

Un centro di cardiologia nell’ospedale di Neisu

Per una salute che arriva al cuore

Le foreste del Nord Ovest del Congo sembrano l’ultimo posto al mondo dove ci sia bisogno di un centro di cardiologia. Eppure, povertà, violenze, guerre, cibo inadeguato, assenza di cure e uso di bevande acoliche tradizionali creano una situa­zione sanitaria che ha bisogno di risposte urgenti.


Rubriche

Esodo 19

Dio tra l’uomo (Es 40)

Ci è capitato più volte, nella lettura del libro dell’Esodo, di ricordare che alcuni sottintesi culturali antichi non sono i nostri e quindi abbiamo bisogno di una «traduzione» per comprenderli. […]

Ciò non toglie che anche per l’antichità un libro finisce all’ul­tima riga, e che il retrogusto la­sciato non può non risentire an­che delle ultime pagine. I conte­nuti più importanti del libro del­l’Esodo sono già arrivati, eppure anche il capitolo 40 non è sem­plicemente banale, e chi l’ha composto ha pensato di ren­derlo in qualche modo significa­tivo. Come?

Foto Marylin Murphy – Pixabay.

E la chiamano economia

L’auto migliore è quella che non si ha

Dal 2035 nei paesi dell’Unione europea si potranno vendere soltanto auto elettriche. Si tratta di una vera rivoluzione?

Cooperando

Terzo settore e media, un rapporto in costruzione

La relazione fra mezzi di comunicazione e non profit è stata un argomento della presentazione del rapporto dell’«OsservatorioTerzjus», avvenuta lo scorso 21 settembre a Roma. Ne è emersa l’immagine di un notevole potenziale che, per il momento, appare sfruttato solo in parte.

Allamano

Castelnuovo Don Bosco

Nella piazza centrale di questo industrioso paese della provincia di Asti, fa bella mostra di sé un’insegna con la scritta: «Benvenuti a Castelnuovo Don Bosco, terra dei santi e del vino». Accostare «santità» e «vino» non appare agli abitanti del paese una dissa­crazione. A parte il fatto che Gesù stesso ha fatto uso del vino per darci il più grande regalo che è l’Eucaristia, la coltivazione della vite e l’industria del vino fanno veramente parte della vita della gente e anche dell’infanzia dei loro quattro santi.

Librarsi

Conflitti nel mondo

Ogni pace e ogni guerra hanno una storia

Una giornalista racconta alcuni dei molti conflitti dimenticati del mondo, e ci dice che ogni guerra insegna qualcosa su come si può fare la pace.
Un diplomatico italiano racconta gli ultimi giorni della Nato in Afghanistan, cercando anzitutto le radici lontane di un fallimento e di una speranza.

 




Benvenuti ad Aguas Santas


Un progetto di accoglienza di migranti e rifugiati. Un servizio vissuto dai volontari della Fundação Allamano di Aguas Santas, nel Nord del Portogallo, come una chiamata alla missione ad gentes in Europa. Il Vangelo vissuto e portato alle periferie.

«Oggi abbiamo 28 ospiti. Sono tutti uomini, arrivati da noi dopo lunghi viaggi e brutte esperienze. A parte due quarantenni, gli altri hanno tra i 20 e i 30 anni. Gli ultimi due sono arrivati dall’Afghanistan». José Miranda, laico volontario della Fondazione Allamano, ci racconta l’accoglienza di profughi iniziata nel 2020 nella casa dei Missionari della Consolata di Aguas Santas, 10 km dalla città di Oporto, Nord del Portogallo. «Gli altri vengono da Pakistan, Togo, Camerun, Nigeria, Guinea Bissau, Guinea Conakry, Ghana, Mali, Gambia, Senegal».

I più poveri tra i poveri

Incontriamo José tramite una videochiamata. Camicia azzurra, occhiali tondi, capelli rasati a zero. Occhi sorridenti. Mani grosse ed espressive.

Ci parla di quella che considera un’attività di vera missione ad gentes in Europa, una delle risposte che i Missionari della Consolata stanno dando all’appello di papa Francesco di portare il Vangelo alle periferie.

«Abbiamo iniziato tre anni fa con un’accoglienza molto breve: l’Alto commissariato per le migrazioni, un organo del governo portoghese, ci aveva chiesto una disponibilità di qualche settimana. Solo letto e cibo. Nient’altro. Come un albergo. I migranti sono i più poveri tra i poveri. Da quell’esperienza abbiamo iniziato a pensare a un progetto di accoglienza più strutturato per accompagnarli all’autonomia».

Incontro ai bisognosi

José parla benissimo l’italiano: è stato dal 1995 al 1998 tra Rivoli (To), Vittorio Veneto (Tv) e Roma. «Ho 46 anni. Da piccolo abitavo vicino ai missionari di Aguas Santas. Andavo a giocare a pallone da loro. Poi mi hanno invitato nel gruppo dei giovani missionari della Consolata. Avevo 16 anni. Due anni dopo sono entrato in seminario a Lisbona. In seguito sono andato a Rivoli per imparare l’italiano nel 1995. Nel 1996 a Vittorio Veneto per il noviziato, e nell’agosto del 1997 a Roma per studiare teologia, ma dopo un anno sono tornato a Porto dai miei. Adesso sono sposato e ho due figli di 13 e 20 anni.

Lavoro in una ditta che trasporta container. Parlo sempre con tante persone di tutto il mondo. È un lavoro che mi piace.

Nel frattempo, sono rimasto legato all’Imc, e da qualche anno sono un volontario della Fondazione Allamano, nata dieci anni fa dalla volontà dei Missionari della Consolata di avere un “braccio sociale operativo” in un quartiere popolato da molti anziani e famiglie in difficoltà».

«C’è molta gente arrivata qui per il lavoro – spiega José -. Gli anziani, i bambini e i giovani sono i più bisognosi. L’idea era quella di fare qualcosa per loro: distribuire pacchi alimentari, aprire un centro diurno con attività ricreative e culturali, offrire servizi domiciliari nell’area della salute e sociale (la Fondazione supporta anche la fattoria pedagogica e gli orti comunitari nel centro Imc di Cacém, cfr MC 5/2022, nda).

La Fondazione è amministrata da volontari e diretta da Ana, assistente sociale, e Jacinto, che gestisce gli spazi interni e esterni della struttura.

La sua sede è nella casa Imc: un ex seminario dove ora vivono sette padri della Consolata più Delfino che ha fatto la professione a fine luglio».

I primi ospiti e il Covid

Quando la Fondazione ha deciso d’impegnarsi nell’accoglienza, i volontari hanno visitato altre realtà già attive, come i gesuiti di Lisbona. «Siamo stati a Lisbona a marzo 2020. Una settimana dopo si è fermato tutto per il Covid. Eravamo pronti per i primi nove rifugiati provenienti dai centri di accoglienza di Torino e Bari, ma la pandemia li ha tenuti bloccati fino a novembre.

Nel frattempo, però, l’Alto commissariato, a maggio 2020, ci ha chiesto di accogliere Michael, un ventiquattrenne del Ghana, in Portogallo da sei mesi.

È stato molto bello iniziare con lui. Durante il lockdown Michael ci ha aiutato in tutte le attività della casa. È un ragazzo molto in gamba, umile, con un sorriso facile. Gli piace ballare. Ha dato una mano anche nell’animazione missionaria, veniva agli incontri, stava con i giovani.

Michael ha attraversato l’Africa fino alla Libia dove ha lavorato per un po’. Dopo due o tre mesi senza essere pagato, sono arrivati alcuni uomini con le armi dicendo a tutti: “Nessuno vi pagherà, ma vi possiamo portare in Europa. Che ne dite?”. Quando qualcuno ha detto di no, l’hanno ammazzato. Allora tutti sono partiti. Dopo due notti nel mare, li ha raccolti una nave che li ha portati a Lampedusa. Un anno dopo Michael è arrivato in Portogallo».

I primi nove ospiti dall’Italia sono arrivati ad Aguas Santas a novembre 2020. Nella casa Imc la Fondazione Allamano ha allestito nove stanze con tre letti e un bagno ciascuna. «Si sta bene da noi – prosegue José -. L’Alto commissariato è venuto a visitarci, e ci ha detto che la nostra ospitalità è la più bella del Portogallo. Essere solo in tre per stanza, invece che in 10 o 15, permette ai rifugiati di avere un po’ di spazio personale».

Lingua e lavoro

Il protocollo di accoglienza prevede un’ospitalità di 18 mesi. È il tempo per iniziare un processo di integrazione e autonomia.

«Se vuoi rimanere nel paese, devi imparare la lingua – dice José -. Il portoghese non è facile, però, anche se alcuni di loro non erano mai andati a scuola, tutti hanno avuto molta buona volontà».

José ci racconta che tutti gli ospiti hanno iniziato a lavorare già dopo tre mesi. «Le aziende erano tutte contente. La maggior parte di loro è andata a lavorare nel settore delle costruzioni civili. Quattro hanno partecipato a un progetto di una multinazionale dell’arredamento, e hanno lavorato lì per otto mesi imparando anche il portoghese. Finito il progetto, due sono stati assunti, e sono molto contenti. Ora li stanno anche aiutando a trovare un’abitazione propria».

Cominciando a lavorare e a parlare portoghese, i rifugiati iniziano a essere autonomi.

Convivenza interculturale e interreligiosa

Dopo i primi nove arrivati a novembre 2020, a gennaio sono arrivati due ragazzi diciottenni dal Pakistan, tramite un altro programma per rifugiati in Grecia.

Gli ospiti già presenti erano tutti di origine africana. I due pachistani, perciò, apparivano molto diversi per la loro cultura. «Anche gli altri, però, erano tutti diversi tra loro. L’Africa ha molte culture. In più, ogni ragazzo ha una sua storia, ed è arrivato qui con uno scopo personale», dice José accennando alla grande quota di «diversità» presente nel piccolo gruppo di ospiti.

«Oggi sono ventotto. Sono arrivati un po’ per volta in gruppetti di due, tre o quattro. Noi abbiamo sempre detto di sì. La maggior parte sono ancora con noi.

Ricordo due ragazzi del Camerun che sono andati via dopo 15 giorni: ci hanno lasciato un biglietto per ringraziarci e per dirci che andavano in Francia. Il Portogallo non è uno dei paesi dove gli africani pensano di andare, se non quelli che parlano già portoghese. Piuttosto puntano a Germania, Inghilterra, Francia. È capitato altre due volte: con un ragazzo iracheno e uno siriano che avevano famigliari in quei paesi».

La maggior parte degli ospiti sono musulmani, i cristiani sono pochi, alcuni non sono credenti. «Questa è stata una bella sfida – sorride José -. Musulmani accolti dai missionari. Per me è un arricchimento grandissimo. Loro parlano molto della loro religione, e il rispetto reciproco è grande. Capita che, per andare in camera, passino davanti alla cappella dove, di giovedì, c’è sempre il santissimo esposto. E loro passano di lì con moltissimo rispetto. Quando facciamo degli incontri insieme, diciamo sempre una preghiera. Per loro è importante pregare anche con noi».

Negli ultimi tempi, in cinque hanno iniziato a chiedere di fare catechesi con uno dei missionari, Antonio Malila del Kenya.

Uno di loro, della Guinea Bissau, è stato battezzato durante la veglia pasquale di quest’anno.

«Noi di questo non parliamo molto, perché non è lo scopo dell’accoglienza, e non vogliamo creare confusione nelle persone. Però è stato un momento importante per tutti».

La quotidianità

«La maggior parte degli ospiti, ora lavora, esce presto la mattina, si preoccupa di tenere in ordine la propria stanza e i luoghi comuni, come la cucina e gli spazi esterni. Noi li aiutiamo con i documenti, con le questioni sanitarie, andiamo con loro dal medico, dall’oculista, dal dentista. Poi suggeriamo loro come presentarsi alle aziende, come fare il curriculum vitae e, quando è possibile, andiamo con loro per i colloqui.

Quando qualcuno ha un po’ di soldi da mandare in famiglia al paese di origine, li aiutiamo. Anche quando hanno voglia di giocare a pallone in cortile, cosa che succede spesso, li aiutiamo volentieri», conclude José allegro. Nella stessa struttura vive anche la comunità di otto missionari della Consolata. Vivono in una zona separata, però sono sempre presenti tra i profughi. «Soprattutto padre Antonio Malila, che è africano e ha un grande dialogo con loro, prendono il caffè insieme, fanno gite…».

Diventare autonomi

Michael, il primo ospite, è l’unico per il momento a essere andato via. Ha trovato una fidanzata, ed è uscito dalla casa dei Missionari della Consolata diverse settimane prima della fine dei 18 mesi del progetto, per andare a vivere con lei. Continua ad andare alla Fondazione Allamano per i pacchi di cibo e di prodotti per la vita quotidiana, ma anche per la vicinanza che ha sperimentato con i volontari.

«Degli altri, sono 14 quelli che hanno già finito i 18 mesi del progetto. Ma ci sono due problemi: il costo dell’abitazione, e i documenti di soggiorno che vengono rinnovati di sei mesi in sei mesi. Alcuni sarebbero già in grado di sostenere l’affitto di un alloggio, soprattutto se ci andassero in gruppetti, però, quando uno ha dei documenti solo per sei mesi, è difficile trovare un lavoro stabile, e anche una casa in affitto».

Famiglie ucraine

Nella primavera scorsa, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, anche il Portogallo ha iniziato a ospitare profughi da quel paese.

«C’è stata una risposta che nessuno immaginava – racconta José -. Ci sono state persone che sono partite per andare a prendere i profughi e portarli in Portogallo. Noi ci siamo detti: “Le nostre camere sono tutte piene. Però ci sono quattro stanze nella zona delle attività di animazione giovanile”. Allora ho detto ai missionari: “Anche noi vorremmo accogliere degli ucraini”, ed è stato facile ottenere un sì, nonostante nessuno sapesse cosa sarebbe successo, se l’ospitalità sarebbe durata poche settimane o anni.

Quando il sindaco di Maya ha deciso di accogliere delle famiglie, circa cinquanta persone, famigliari di ucraini già residenti in zona, hanno chiamato subito noi.

Alla fine, abbiamo deciso per un’accoglienza a tempo, fino all’estate. Così abbiamo chiesto al sindaco di garantirci che. nel giro di due o tre mesi, avrebbe trovato degli alloggi per le famiglie che sarebbero arrivate. Il bene deve essere fatto bene: a delle famiglie bisogna offrire un luogo dignitoso che permetta la vita di famiglia, non una semplice stanza, che va bene solo temporaneamente.

Sono venute quattro famiglie più una donna sola di 60 anni, per un totale di diciassette persone: una famiglia formata da due bimbe di uno e quattro anni, mamma, sorella della mamma con un’altra bimba, e nonna; la seconda era composta da una mamma con due figlie di diciassette e sedici anni e un figlio di dodici; la terza da una bambina di sei anni con la mamma e i nonni; infine, c’erano una donna di cinquant’anni con la madre».

Convivenza facile

«Mi ha stupito la volontà degli ucraini di vivere e di fare andare tutto bene. Due giorni dopo il loro arrivo erano già lì che s’impegnavano a fare cose, studiare il portoghese. Non li ho mai visti disperati. Hanno perso tutto, gli uomini sono rimasti in Ucraina per fare la guerra, eppure si mostravano sempre forti e sorridenti – esclama José con ammirazione -. Il nostro paese ha fornito loro i documenti di soggiorno per tutto il tempo che vogliono e un sussidio economico. Il comune li accompagna con gli assistenti sociali».

José mette l’accento sul bel clima di convivenza che gli ospiti hanno creato con le famiglie ucraine. «Sono stati da noi tre mesi. Oggi, diversi di loro lavorano. Due famiglie sono in case del comune per sei mesi gratuitamente. Le altre due famiglie hanno voluto ritornare in patria.

Con gli altri ospiti la convivenza è stata sempre facile: la casa ha un grande spazio esterno dove si trovavano tutti insieme, e si aiutavano. Non erano obbligati a parlarsi, ma si sono relazionati subito tra loro spontaneamente. È stata un’esperienza bella».

Missione in Europa

Per José, gli ingredienti principali di una buona accoglienza sono l’ascolto e la comunicazione dell’affetto.

«Essere straordinari nell’ordinario: noi abbiamo cercato di fare così. Il comune di Porto ha accolto 200 persone in un antico seminario. Questa è la mia idea di Chiesa. Una Chiesa che fa missione in Europa anche in questo modo.

Oggi è questo lo scopo principale della Fondazione Allamano: ci occupiamo degli anziani e dei giovani portoghesi, ma soprattutto dei migranti. Il nostro punto identificativo è l’accoglienza.

Noi abbiamo la fortuna di poter fare quello che la Chiesa e papa Francesco stanno chiedendo: andare alle periferie.

Quello che stiamo facendo con la fondazione mi fa molto felice. Non è semplice, anche per il finanziamento delle attività. Però si va avanti con la grazia di Dio».

Luca Lorusso
foto di José Miranda




Quel barattolo di latte in polvere

Il latte materno è migliore del latte in polvere. Eppure, soltanto il 44 per cento dei neonati è allattato al seno. Le colpe delle multinazionali e il ruolo delle nuove forme di pubblicità.

Nel febbraio 2022, la Food and drug administration (Fda), l’agenzia statunitense addetta alla vigilanza sanitaria, sospende la produzione di latte in polvere in uno stabilimento del Michigan appartenente alla multinazionale farmaceutica Abbott. La decisione è presa a seguito della morte per infezione batterica, negli Stati Uniti, di quattro neonati nutriti con latte artificiale proveniente dallo stabilimento posto sotto sequestro. Nel corso dell’indagine, durata alcune settimane, emergono numerose criticità, compresa la contaminazione dei macchinari con batteri pericolosi. In seguito, lo stabilimento viene riportato a norma, ma ci vogliono mesi prima che possa riprendere la produzione. Un periodo durante il quale il latte in polvere scarseggia, mandando in apprensione moltissime mamme che hanno deciso di nutrire i propri piccoli con latte artificiale piuttosto che al seno.

Latte in polvere. Foto silverson.com.

I pericoli del biberon

Eppure, le autorità sanitarie e pediatriche di tutto il mondo sostengono che il latte materno è il miglior alimento per i neonati. Avviato entro le prime ore di vita e continuato fino ai due anni di età, prima come alimento esclusivo, poi come alimento aggiuntivo, l’allattamento materno costituisce una potente linea di difesa contro tutte le forme di malnutrizione infantile compresa l’obesità. Inoltre, protegge i piccoli contro le infezioni più comuni mentre riduce nelle madri il rischio di diabete, obesità e certe forme tumorali. Per non parlare degli effetti benefici di tipo psichico e affettivo che l’allattamento al seno produce nei piccoli per lo stretto contatto con la madre. Ciò nonostante, nel mondo solo il 44% dei bambini sotto i sei mesi è allattato al seno. Lo sostiene l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità. Il grande concorrente è il biberon che però non si impone spontaneamente, ma come conseguenza di una potente macchina di persuasione occulta, che una recente indagine dell’Oms ha messo sotto la lente. Una pressione inaccettabile perché nelle famiglie più povere del Sud del mondo, l’allattamento artificiale espone i bambini addirittura al rischio di morte. Ogni anno muoiono 520mila bambini per complicanze dovute al biberon. Per assurdo la prima causa di morte è la denutrizione che si instaura quando le esigenze nutrizionali del bambino richiedono quantità di latte fuori dalla portata economica delle famiglie. E subito dopo vengono le complicanze igieniche per l’impossibilità di bollire i biberon e conservarli al riparo da contaminazioni. Mamme con pochi soldi, poche comodità, poche conoscenze igieniche, somministrano ai propri bambini latte eccessivamente diluito, in biberon a malapena sciacquati, con tettarelle esposte all’aria su cui si posano nugoli di mosche. L’inevitabile conseguenza sono infezioni intestinali che si rivelano mortali, non per la particolare gravità dei germi, ma per la perdita di acqua, sali e zuccheri dovuti alla diarrea. E molti dei bambini che sopravvivono mantengono per tutta la vita deficit cognitivi dovuti alla denutrizione infantile. Alcuni studiosi, amanti dei termini monetari, hanno stimato che le perdite cognitive dei bambini sottonutriti a causa dell’allattamento artificiale provocano alla comunità una perdita pari a 285 miliardi di dollari, lo 0,3% del Pil mondiale.

Nestlé e gli altri

Il latte in polvere della Abbott, multinazionale Usa.

La prima denuncia sulle conseguenze catastrofiche del biberon fra i bambini delle famiglie più povere fu fatta nel 1973 da parte della rivista britannica New Internationalist. All’inizio la reazione dell’opinione pubblica fu di sconcerto. Ma quando si scoprì che l’allattamento al biberon era indotto da una pubblicità ingannevole e da una macchina promozionale che, al momento di lasciare l’ospedale, regalava campioni di latte alle mamme, scoppiò l’indignazione che sfociò in campagne di boicottaggio verso le imprese più coinvolte. Famosa quella verso Nestlé che si protrasse per qualche lustro. Vista la gravità della situazione, nel 1981 l’Oms decise di intervenire, approvando un Codice di comportamento da fare rispettare alle ditte produttrici di latte in polvere. Il codice composto da una decina di punti è riassumibile in due concetti essenziali: «no» alla distribuzione di campioni gratuiti e «no» a qualsiasi tipo di comunicazione scritta, vocale o visiva che possa indurre le mamme a preferire l’allattamento artificiale a quello materno. Ma, nel corso degli anni, l’Ibfan (International baby food action network) e altre associazioni a difesa dell’allattamento materno, hanno denunciato numerose violazioni in tutto il mondo. Violazioni che, con l’avvento dell’era digitale, si sono fatte al tempo stesso più subdole e aggressive perché le donne sono raggiunte da messaggi pubblicitari non riconoscibili come tali. Ed è proprio per capire in quale misura le imprese del latte in polvere stiano utilizzando le tecnologie digitali e con quali effetti, che l’Oms ha condotto una ricerca in Bangladesh, Cina, Messico, Marocco, Nigeria, Sudafrica, Gran Bretagna, Vietnam, su un campione di 8.500 donne e 300 operatori sanitari.

Allattamento

Allattamento al seno. Foto Grisguerra – Pixabay.

Nel maggio 2022 sono stati pubblicati i risultati della ricerca e il primo dato emerso è che, in tutte le nazioni prese in esame, le donne nutrono una forte attrazione per l’allattamento materno, dal 49% in Marocco al 98% in Bangladesh. Nel contempo, però, hanno scarsa fiducia nella loro capacità di nutrire adeguatamente i propri piccoli per i dubbi insinuati dalla valanga di messaggi che circolano in rete: quasi tutti a favore dell’allattamento artificiale. Messaggi che consolidano credenze assurde come la necessità di somministrare latte in polvere nei primi giorni di vita, l’incapacità del latte materno di rispondere a tutti i bisogni nutrizionali dei neonati in crescita, la superiorità del latte in polvere integrato di tutti gli ingredienti che servono per una crescita equilibrata dei piccoli. Il rapporto conferma anche che la via digitale è il canale privilegiato utilizzato dalle industrie del latte in polvere come mezzo di persuasione. In alcuni paesi, oltre l’80% delle donne intervistate ha confermato di essere stata raggiunta dalla pubblicità sui sostituti del latte materno attraverso canali online. Del resto il 97% della popolazione terrestre gode di una qualche forma di connessione tramite telefonia mobile. Globalmente più di 3,6 miliardi di persone (all’incirca l’87% di chi naviga in internet) usa social media, una cifra destinata a salire a 4,4 miliardi per il 2025.

Spiate e sedotte

Le piattaforme digitali stanno diventando i canali pubblicitari più importanti. Nel 2019 più del 50% della spesa pubblicitaria globale si è diretta verso i canali digitali. Per il 2024 si prevede che la quota salirà al 68%, per un valore di 645 miliardi di dollari.

Le piattaforme digitali consentono alle aziende di diffondere i loro messaggi tramite più canali contemporaneamente: email, social media, siti specializzati in filmati, motori di ricerca, app. Per di più permettono agli inserzionisti di individuare con estrema precisione i loro possibili clienti. Ad esempio, quando le donne chattano via facebook con le loro amiche o parenti, possono essere spiate da algoritmi che, dal tenore delle conversazioni, possono stabilire se si tratta di donne incinte, magari per le informazioni fornite sulla propria salute, o per la richiesta di vestiario e altri oggetti necessari per l’arrivo di un nuovo bambino. Nel qual caso i dati sono immediatamente passati all’impresa di prodotti per l’infanzia che ha commissionato il servizio, affinché possa intraprendere l’attività di seduzione personalizzata via facebook, o altro canale comunicativo. Di solito l’approccio è soft e può basarsi sull’invio di messaggi affabulatori del tipo: «Vogliamo costruire una relazione con te in quanto madre, vogliamo sostenerti, vogliamo che tu ci veda come tuoi alleati, come degli amici che ti sostengono affinché tu possa avere una gravidanza felice e un parto sicuro». Poi può giungere l’invito a fare parte di un gruppo d’incontro, una sorta di club per mamme che si danno appuntamento per scambiarsi informazioni, consigli, sostegno. Così almeno viene presentata l’iniziativa. In realtà, si tratta di ciò che gli esperti chiamano «community marketing»: l’aggregazione di persone affini, per condizione ed esigenze di consumo, che, mentre interagiscono fra loro, sono bombardate da continui messaggi promozionali. Per di più, mentre chattano, ciascuna di esse è analizzata in dettaglio in modo da farne un bersaglio di proposte commerciali personalizzate.

Gli «influencer»

Altre volte la strategia commerciale è fondata sugli influencer, persone di spicco del mondo dello spettacolo, dello sport, della moda, della scienza, in contatto con migliaia, addirittura milioni di follower. Le imprese li ingaggiano affinché postino ai loro follower messaggi comprendenti riferimenti ai marchi che intendono reclamizzare. E poiché l’influencer invita i propri seguaci a rispedire essi stessi i messaggi ai propri conoscenti, si può ottenere una copertura pubblicitaria di milioni di persone. L’Oms ha appurato che le multinazionali del latte in polvere fanno largo uso degli influencer in particolare in Cina, Malaysia, Stati Uniti, Francia, Russia. E, dopo avere esaminato numerosi messaggi, è emerso che il marchio di latte in polvere che compare più frequentemente è quello di Danone (32%) seguito da Mead Johnson (15%) e
Abbott (6%).

Il rapporto ha appurato che un’altra formula molto utilizzata è quella che va sotto il nome di «promozione tra utenti», un metodo che prevede la partecipazione attiva del pubblico. In pratica, l’impresa promotrice chiede a chiunque accetti di far parte della sua rete promozionale di inventarsi messaggi pubblicitari che poi l’interessato invierà al proprio ventaglio di conoscenti. Il tutto stimolato da premi estratti a sorte fra i partecipanti. Il rapporto dell’Oms cita l’iniziativa di una multinazionale di prodotti per l’infanzia che ha indetto l’estrazione di smartphone di lusso fra tutti coloro che avessero accettato di inviare la foto dei propri bambini associate ai marchi da reclamizzare. E, allettandoli con la promessa di sconti, i partecipanti sono anche stati invitati a iscriversi a dei marketing club per l’approvvigionamento online di prodotti per l’infanzia. L’iniziativa è stata lanciata da diciassette influencer che hanno anche sollecitato i partecipanti a utilizzare hashtag affinché l’azienda promotrice potesse seguire più agevolmente l’andamento della campagna e, quindi, censire la presenza di nuovi utenti da ricontattare.

In conclusione, il rapporto dell’Oms dimostra che le multinazionali del latte in polvere ricorrono in maniera massiccia alla pubblicità online per fare crescere un settore che già vale 55 miliardi di dollari. È proprio arrivato il tempo di fare applicare regole minime affinché la vita non sia più sottomessa al profitto. Almeno nei primi mesi dell’esistenza.

Francesco Gesualdi

Gemelli (foto Gigi Anataloni)




Vivere di un Dio buono (Es 34)

Mosè ce l’ha fatta: è riuscito a convincere Dio a restare in comunione con il suo popolo dalla testa dura (Es 34,9). Viene quindi invitato di nuovo a salire sul monte, come prima, come se nulla fosse successo.

Ma, come sa bene chiunque viva in relazioni umane, non si ricomincia mai «come prima». I rapporti incrinati possono essere risanati e possono diventare anche più profondi, autentici e solidi. Ma non è possibile che ritornino come all’inizio. La nostra storia ci segna, diventa parte di noi, di un noi accresciuto, magari con più cicatrici, ma anche più vivo e vero. Vale anche per la relazione tra Dio e l’uomo.

Si riparte (Es 34,1-8)

Dio aveva minacciato di abbandonare il popolo perché morisse nel deserto (Es 32,9-10). A questa intenzione divina Mosè si era contrapposto, richiamando Dio al suo ruolo, alla sua vocazione (32,11-13). Dio aveva allora ipotizzato di far arrivare Israele alla terra promessa, ma senza seguirlo (33,1-3), ma anche su questo aveva dovuto ricredersi (33,15-17). Sono reazioni e dinamiche che ci dicono molto sul Dio d’Israele, e su cui torneremo.

Intanto, però, finalmente Dio richiama Mosè sul monte.

Prima di salire, gli chiede di tagliare due tavole di pietra, «come le prime». Non è chiaro chi avesse tagliato le prime due (Es 24,12; 31,18), quelle che Mosè aveva poi spezzato al vedere il vitello d’oro (24,12). Esodo dice solo che erano state scritte «dal dito di Dio» (31,18). Si può, fino a questo punto, supporre che il lavoro di taglio delle nuove pietre sia soltanto preparatorio, e che sarà poi Dio a scrivervi sopra di nuovo. Non sarebbe, in ogni caso, un passaggio secondario. Conosciamo troppo bene il valore delle reliquie per sottovalutare il gesto di Mosè, il quale, pur fuori di sé per l’offesa fatta a Dio, aveva comunque distrutto un’opera divina. Il fatto che Dio provveda a restaurarla significa che è disposto a passare sopra alla distruzione di un frutto delle sue mani. Ma quando poi Mosè scenderà dal monte con le due tavole in mano, non si dirà più che il «dito di Dio» vi ha scritto sopra. Dobbiamo supporre che, dal momento che non si dice niente, siano nuovamente opera totalmente divina? Oppure che, come le ha tagliate, sia stato ancora Mosè a scriverci sopra? Non lo si dice, e forse c’è un motivo. Ma anche su questo torneremo tra poco.

Perché una cosa chiara, in questa ripartenza, c’è.

Dio si presenta

Dio torna a stringere un’alleanza dicendo chi è, e lo fa in un modo estremamente solenne, ossia ripetendo per due volte il proprio nome. Questo accade molto di rado nella Bibbia, e mai da parte di Dio, ma sempre solo in preghiere di uomini. Chi è arrivato fin qui leggendo il libro dell’Esodo, non può che restarne stupito, e fa bene a riaccendere l’attenzione, se per caso si fosse assopita.

Se in precedenza Dio si era presentato semplicemente come «sarò ciò che sarò» (Es 3,14: occorrerà stare con lui, per conoscerlo) o come «il tuo Signore che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto» (Es 20,2: cioè colui che ha operato prodigi di salvezza per il popolo), qui riconduce tutto all’essenziale e proclama: «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6).

In questa presentazione può valere la pena richiamare il fatto che qui, l’autore di Esodo, pensa a un Dio che premia i suoi fedeli e punisce gli infedeli (Es 34,7). Detto questo, il premio e la punizione vengono elargiti con una sproporzione enorme: la colpa viene castigata fino alla terza o quarta generazione, secondo il modello per cui nonconta il singolo ma il clan, ma l’amore viene ricompensato fino alla millesima. In quel contesto culturale bisogna dire che Dio premia e punisce, ma, nello stesso tempo, che le due possibilità non sono alla pari, e davanti all’uomo si apre, con molta maggiore probabilità, la relazione con un Dio di amore.

Tanto è vero che il Signore applica a sé quattro parole pregnanti. «Pietoso» rimanda al dono gratuito, a un perdono regalato non perché sudato e meritato, ma perché Dio vuole perdonare. «Misericordioso», però, è ancora più profondo, perché richiama le viscere, anzi l’«utero»: l’idea è quella di un sentimento che prende alla pancia, irresistibile, da «farfalle nello stomaco». Dio, insomma, ammette di voler amare il suo popolo per scelta, ma anche perché non può farne a meno, perché è preso da un innamoramento totale.

In quanto agli altri due termini che l’ultima versione della Bibbia Cei ci restituisce con «amore e fedeltà», il primo indica il sentimento di un genitore, quell’affetto che non pretende di essere ricambiato e che esisterà per sempre e comunque, intatto e disponibile, mentre «fedeltà», collegato alla parola che è diventata il nostro «Amen», segnala l’affidabilità e la solidità. Dio dice di non poter fare a meno di amare i suoi, e di farlo con costanza, generosità, totalità e fedeltà.

Un (altro?) decalogo (Es 34,10-28)

A questo punto Dio (ri)condivide i termini dell’alleanza con il suo popolo, mediante quelle che, al v. 28, sono indicate come «le dieci parole», il modo per chiamare il decalogo già offerto al popolo al capitolo 20. Questa nuova offerta del decalogo sarebbe anche comprensibile (Dio riprende l’alleanza con il popolo), se non fosse che i comandi sono diversi.

Come è possibile? Che cosa è successo?

I redattori dell’Esodo sono stati disattenti? O hanno lo hanno fatto apposta, per suggerire qualcosa al lettore? E che cosa? Come nei libri gialli, anche stavolta rimandiamo la risposta a tra poco.

Del «nuovo decalogo» evidenziamo qui almeno un comandamento, che peraltro non si trova solo qui (si era già letto in Es 23,19 e tornerà in Dt 14,21) e che sarebbe poi diventato particolarmente significativo nella storia del popolo ebraico: «Non cuocerai un capretto nel latte di sua madre» (Es 34,26). Perché? Il senso è che l’uomo ha il diritto di sfruttare la vita animale per nutrirsi, ma non deve dimenticarsi che è vita, dono divino. Utilizzare il latte, alimento che permette di diventare adulti, per cuocere un capretto che, quindi, adulto non diventerà, sarebbe quasi uno scherzo crudele. È vero che né il capretto né la capra coglierebbero questo sarcasmo, ma chi cucina sì, e deve mantenersi compassionevole e misericordioso come Dio. E per essere sicuri di non violare questo comandamento, gli ebrei evitano del tutto di unire nel cibo carne e latte o latticini, mantenendo in cucina due set completi di stoviglie, che non devono mescolarsi. Così, si dice, ogni volta che ci si accinge a cucinare, si deve decidere quale tipo di cibo preparare, e ci si ricorda di dover essere rispettosi verso tutto il creato, che ci dona da vivere ma non deve essere umiliato. È un adattamento possibile al sogno divino di un mondo senza violenza (cfr. Gen 1,29-30).

Qualche risposta

Proviamo a cogliere meglio il senso del racconto, abbozzando anche qualche risposta ai quesiti che abbiamo lasciato sospesi.

L’essere umano è abituato alla dinamica del premio-castigo: se mi comporto bene, sarò premiato, altrimenti sarò castigato. È una logica iscritta talmente nel profondo, che riemerge a volte anche nei rapporti di amicizia o di amore più gratuiti e generosi. Ed è una dinamica che ricompare con forza anche nelle tradizioni religiose. Le religioni antiche, poi, ancora più di quelle che conosciamo oggi, si concentravano moltissimo sulle azioni e sul fare, il che si presta più facilmente a ribadire questa logica.

Il mondo dell’Antico Testamento non fa eccezione, e sono numerosi i passi che richiamano al dovere dell’osservanza di regole o rimarcano come la conseguenza dell’infedeltà sia la punizione. Nello stesso tempo, però, il percorso del popolo d’Israele con Dio lo rende sempre più consapevole che quella relazione è diversa. Il Dio d’Israele è il più importante di tutti gli dei (più tardi si arriverà a dire che è l’unico), eppure ha scelto, come «sua proprietà», un popolo piccolo e debole, dal quale è stato tradito più volte, ma che lui non ha mai abbandonato.

È quello che il racconto del doppio dono delle tavole della legge ribadisce: Dio aveva salvato dalla schiavitù il popolo, gli aveva liberamente chiesto se volesse diventare il «suo popolo» (Es 19,4-8), e, a quel punto, gli aveva dato delle norme che erano state disattese subito, tanto che aveva pensato di abbandonarlo. Ma ha accettato di ritornare nella relazione, affermando di essere un Dio «misericordioso e pietoso, ricco di amore e di fedeltà». E ridà le tavole, «come le prime», offrendo nuovamente dieci comandamenti, che però non sono identici ai primi.

Il racconto intende suggerire che cruciale è la relazione, la quale ovviamente comprende anche dei comportamenti conseguenti, ma in realtà le regole e le leggi non sono il cuore del discorso. Il cuore è la relazione che Dio è disposto a salvaguardare anche a costo di rimangiarsi la propria parola. Non un Dio «che non deve chiedere mai», severo e austero, dunque, ma un Dio amante, che per il suo amore viscerale verso l’uomo perde anche la faccia (o la vita, come comprenderà e vivrà Gesù: cfr. la parabola della vigna di Lc 20,9-13).

E che Dio pensi innanzitutto alla relazione, e a una relazione alla pari, è in fondo detto anche dallo strano gioco sull’autore delle «seconde tavole». Chi le ha scritte? Dio o Mosè? Dal testo non si capisce, e in fondo sembra quasi che Dio, sorridendo, suggerisca che non è importante. Come nel rapporto tra amici, come in una coppia ben affiatata, non è significativo decidere chi metta a disposizione o faccia che cosa.

È la stessa dinamica che i cristiani vivono nell’eucaristia, dove il grano e l’uva sono doni divini, che però devono essere coltivati e non diventano pane e vino senza lavoro, e, una volta offerti, vengono restituiti trasformati ai fedeli. È come in un’amicizia profonda, dove ci si scambia doni di continuo, finché non sia più possibile dire chi abbia dato che cosa, ma si deve giustamente parlare di «comunione».

Un Mosè trasformato

Quando Mosè torna a valle, il suo volto è pieno di «raggi» (Es 34,29). Questa parola in ebraico coincide con «corno», il che ha dato origine alla immagine del Mosè «cornuto» che vediamo, tra l’altro, anche nella statua michelangiolesca.

È il segno che la relazione di Mosè con Dio lo ha cambiato irrevocabilmente. Sembra quasi che gli autori dell’Esodo vogliano suggerire che chi incontra Dio in profondità, intimamente, con quello sguardo «faccia a faccia» da cui Dio non è disturbato né rifugge, resta cambiato, diventa persona nuova. Il suo volto acquisisce uno splendore che rende insostenibile il guardarlo (v. 30), tanto che per parlare con gli altri, con quelli che non hanno ancora completamente incontrato Dio, Mosè si dovrà coprire il volto con un velo, per non abbagliarli.

Si direbbe quasi che la comunione profonda con Dio inizi a portare nel mondo quello splendore del corpo glorioso che sarà pieno solo nell’incontro definitivo, come i discepoli di Gesù  sperimenteranno alla trasfigurazione (Mc 9,2-6), dove pure l’apparire del volto «autentico» di Gesù riempie i discepoli di paura, anche se pure di fascino.

Si può dire che stare con Dio trasformi gradualmente l’uomo in lui, così da essere sempre più profondamente e completamente se stesso. L’uomo pieno, perfetto, diventa come Dio. Come Gesù ridirà con la sua stessa vita.

Angelo Fracchia
(Esodo 18 – continua)

Paesaggio della penisola del Sinai lungo la strada che da Dahab va verso Sharm el Sheikh (foto Benedetto Bellesi)




Il piccolo popolo di Batack


A Batack, villaggio nella zona centro occidentale del Camerun, la gente vive prevalentemente di agricoltura. Case di fango e bambù, e costruzioni dai tetti appuntiti in lamiera ondulata (in passato fatti di paglia) costellano il paesaggio come denti d’argento.

Elysée, uno dei giovani maestri della scuola elementare, mi accompagna con la sua motocicletta a fare visita al signor Tchapa, il presidente dell’associazione locale Covideba.

La sua residenza è un vero e proprio museo della cultura camerunense e africana: libri, statue, tappeti, quadri, antiche maschere tribali, reperti e testimonianze della cultura bamiléké.

Tchapa è una figura rappresentativa dell’intera comunità di Batack. Tutti i suoi sforzi sono volti a migliorare le condizioni di vita del villaggio e dei suoi abitanti che si definiscono Petit peuple de Batack.

Con la sua organizzazione è promotore di opere e progetti a favore dell’educazione scolastica, dell’agricoltura, dell’assistenza sanitaria.

Un uomo di grande umanità che, pur vivendo da solo, ha fatto della sua casa un luogo di riferimento per decine di persone con cui condivide spazi e risorse.

Il maestro Elysée

Il popolo bamiléké

Questa zona, ricca di montagne, altipiani e di una vegetazione lussureggiante che incornicia le strade rosso rame, è la casa del popolo Bamiléké, gruppo etnico organizzato in diverse chefferie (chiefdom in inglese, dominii o regni governati da un capo tradizionale, o chef, ndr) risultanti da un complesso movimento di migrazioni e conquiste avvenute nel XVIII secolo e in seguito alla penetrazione coloniale.

Quando i tedeschi raggiunsero la cresta dei monti Bamboutos, designarono la popolazione della zona con l’espressione Ba Mbu Léké, che significa le «popolazioni della valle».

I Bamiléké sono oggi raggruppati in sette dipartimenti (Bamboutos, Haut-Nkam, Hauts-Plateaux, Koung-Khi, Menoua, Mifi e Ndé) e in un centinaio di chefferie, di cui dieci di primo grado (Bandjoun, Bamougoum, Babadjou, Bana, Foto, Banka, Bangang, Bangangté, Batcham e Bafou).

Batack appartiene al dipartimento di Haut-Nkam segnato nel corso dei decenni da guerre tribali che hanno portato all’attuale configurazione delle chefferie.

Tipici villaggi mosernizzati con il tetto in lamiera invece del tradizionale tetto conico, sedi di chiefdom o Chefferie, dette in italiano dominio o capitanato.

Un mosaico di regni

Durante i nostri dialoghi serali, Tchapa mi racconta che nei territori del dipartimento di Haut-Nkam, molti membri dell’etnia Tikar arrivavano come cacciatori o guaritori e, in seguito, si univano in alleanze per soggiogare le popolazioni locali.

Tutta la regione è disseminata di chefferie, comunità locali guidate da capi depositari di un potere ancestrale, garanti dell’ordine, sia sul piano spirituale che sociale, culturale, amministrativo ed economico, delegati in questo dalle istituzioni pubbliche.

Lo chef di Batack è «Sa majesté Nguelieukam Deuna Christophe».

Povertà e diseguaglianze

Con un Pil pro capite di circa 1.500 dollari all’anno nel 2019, il Camerun si colloca a un livello medio basso sia in riferimento al reddito che all’indice di sviluppo umano.

A causa delle precarie condizioni alimentari e sanitarie, l’aspettativa di vita è di circa 59 anni. Quasi il 50% della popolazione vive con meno di tre dollari al giorno e lo sviluppo socioeconomico è fortemente influenzato da disuguaglianze persistenti, soprattutto nelle zone rurali come quella di Batack.

Anche la disuguaglianza di genere è importante.

Questi fattori portano a differenze anche nell’accesso alle opportunità educative.

L’assenteismo degli insegnanti e la corruzione nel ministero dell’Istruzione influiscono sulla qualità della scuola. Solo grazie a giovani insegnanti dediti come Elysée, le piccole comunità come Batack possono garantire l’istruzione ai bambini del villaggio.

L’accoglienza della comunità

Nonostante il contesto di povertà, l’accoglienza che l’intera comunità del villaggio mi riserva è emozionante.

Adulti, donne e bambini, si privano di quel poco che hanno per donarlo a me in segno di ospitalità: un mango, una papaia, un ananas, arachidi, semi di mais, cibo a base di manioca.

Di episodi come questi ne ho vissuti molti negli ultimi anni in Africa come in Asia, ma ogni volta mi fanno pensare, come se fosse la prima, al divario tra la nostra società «iper connessa» e la generosità e la condivisione di cui sono capaci queste popolazioni.

Dan Romeo
www.iviaggididan.it

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L’invasione dei superbatteri


I microrganismi patogeni si evolvono (anche a causa dei nostri comportamenti) e resistono ai farmaci. Presto potrebbero causare più decessi del cancro. Già oggi alcuni superpatogeni fanno paura.

Da un secolo a questa parte, la medicina e la farmacologia hanno fatto continui progressi che hanno permesso di curare patologie dall’esito infausto fino ai primi quarant’anni del Novecento.

È del 1928 la scoperta da parte di Alexander Fleming della penicillina, una molecola prodotta da un fungo e capace di aggredire la parete cellulare dei batteri, provocandone la morte. I microrganismi (batteri, virus, funghi, protozoi, eccetera) sono spesso in competizione tra loro e una delle strategie più collaudate è proprio quella di produrre sostanze antibiotiche (a cui i produttori sono immuni) per sterminare gli avversari. In questa «guerra molecolare», in cui l’uomo è l’ultimo arrivato, antibiotici e fenomeni di resistenza sono le due facce di una stessa medaglia. Questo è il motivo per cui i microrganismi patogeni trovano spesso una strada per non soccombere sviluppando resistenza ai farmaci in uso (antimicrobico-resistenza o farmaco-resistenza). Oggi, uno dei principali problemi di salute pubblica è quello della nascita di superpatogeni, capaci di resistere a pressoché ogni forma di difesa di cui l’uomo dispone.

Batteri e resistenza: un problema serio

Solo nel nostro paese ogni anno muoiono circa 10mila persone a causa dell’antimicrobico-resistenza. L’Italia, con la Grecia e la Romania, è uno dei paesi europei con i maggiori tassi di antimicrobico-resistenza. In particolare, negli ospedali italiani i ceppi del batterio Klebsiella pneumoniae (Kpc) resistenti ai carbapenemi (classe di antibiotici ad ampio spettro, con struttura molecolare simile a quella delle cefalosporine e delle penicilline) sono già intorno al 50%, mentre quelli di Acinetobacter resistenti sono circa l’80-90%. E queste sono solo due delle specie di batteri che stanno creando seri problemi ai pazienti ospedalieri. Si stima che in Europa siano già circa 33mila i decessi annuali legati all’antimicrobico-resistenza con un impatto di circa un miliardo e mezzo di euro a livello economico sia per le spese sanitarie, sia per la perdita di produttività. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), se la tendenza attuale non verrà modificata, nel 2050 l’antimicrobico-resistenza sarà responsabile di circa 2,4 milioni di decessi all’anno solo nei 38 paesi dell’area Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) con un impatto economico da 3,5 miliardi di dollari annui. Secondo uno studio commissionato dal governo britannico, a livello mondiale i decessi annui legati a questo fenomeno potrebbero raggiungere i 10 milioni nel 2050 (superando gli 8 milioni di morti previsti per il cancro), con una riduzione del Prodotto interno lordo (Pil) stimabile nel 2-3%, che potrebbe tradursi in una perdita fino a 100mila miliardi di dollari a livello mondiale da qui al 2050. Oltre all’impatto sui singoli sistemi sanitari, infatti, un aumento delle resistenze ai farmaci avrebbe ripercussioni sulla forza lavoro in termini di mortalità e di morbosità e quindi sull’intera produzione economica. Di fatto, si sta diffondendo un panico silenzioso negli ospedali, ma per la maggior parte delle persone, dei gruppi politici e di quelli d’affari sembra essere un problema molto lontano. Del resto, governi e istituzioni di tutto il mondo, dopo aver ripetutamente ridotto i fondi a disposizione della ricerca, sono piuttosto riluttanti a rendere pubbliche epidemie di infezioni resistenti ai farmaci.

Batterio di Escherichia coli al microscopio elettronico. Foto WikiImages – Pixabay.

Pericoli e ricerca

L’Oms ha stilato una lista dei principali batteri che presentano antibiotico-resistenza, classificandoli in base alla loro pericolosità e alla loro resistenza, in modo da promuovere la ricerca e lo sviluppo di nuovi antibiotici. L’accento è posto in particolare sui batteri Gram-negativi resistenti a molteplici antibiotici. Questa lista è suddivisa in tre categorie, a seconda dell’urgenza di nuovi antibiotici: priorità fondamentale, elevata e media. I batteri appartenenti al primo gruppo sono quelli resistenti a più farmaci, rappresentando una particolare minaccia in ospedali, case di cura e tra i pazienti che necessitano di ventilatori e di cateteri. Tra questi ci sono Acinetobacter, Pseudomonas e vari componenti della famiglia delle Enterobacteriacee (tra cui Klebsiella, Escherichia coli, Serratia, Proteus). Essi possono causare gravi infezioni, spesso mortali, come setticemie e polmoniti e sono diventati resistenti a un gran numero di antibiotici compresi i carbapenemi e le cefalosporine di terza generazione, tra i migliori antibiotici attualmente a disposizione. La seconda e la terza categoria della lista comprendono altri batteri sempre più resistenti ai farmaci e capaci di causare malattie più comuni come gonorrea e salmonellosi.

La Candida auris, il fungo killer

Un altro superpatogeno, che desta sempre più preoccupazione come emergenza di salute pubblica, non è un batterio bensì un fungo, la Candida auris. Si tratta del cosiddetto fungo killer, che è molto resistente ai farmaci ed è capace di uccidere la metà dei soggetti colpiti in tre mesi. La sua diffusione, cominciata in sordina, ha raggiunto ogni zona del globo. Fu identificato per la prima volta nel 2009 nell’orecchio di una donna giapponese di circa 70 anni e da allora è stato rinvenuto in tutto il mondo, nelle Americhe, in Asia, in Africa, in Australia e in Europa, dove sono stati identificati 52 casi al Royal Brompton Hospital di Londra nel 2015 e 85 casi al Politecnic La Fe di Valencia nel 2016. Si rivela molto pericoloso per chi ha il sistema immunitario immaturo o compromesso come i neonati o gli anziani, i fumatori, i diabetici e le persone con patologie autoimmuni costrette ad assumere farmaci steroidei, che funzionano come immunosoppressori. I ricercatori che hanno studiato la Candida auris ritengono che essa sia comparsa in contemporanea e in modo indipendente negli stati di tre diversi continenti, in particolare in India, in Sudafrica e in Sud America e questo fatto singolare non può essere imputabile solo all’abuso di antibiotici e di antimicotici, quindi alla farmaco-resistenza.

Il riscaldamento globale

Un recente studio suggerisce che i cambiamenti climatici possano avere favorito la diffusione del fungo killer e la sua capacità di infettare gli esseri umani. Confrontando il comportamento di Candida auris con quello di altre specie micotiche strettamente imparentate dal punto di vista genetico, i ricercatori si sono resi conto che il fungo killer sa adattarsi molto bene all’aumento della temperatura e sarebbe perciò predisposto a infettare l’essere umano, a differenza della maggior parte dei funghi, che sono incapaci di sopravvivere alla nostra temperatura corporea e vengono quindi facilmente eliminati dai nostri meccanismi di difesa. Secondo uno degli autori di questo studio, Alberto Casadevall (John Hopkins Bloomberg School of public health) «il riscaldamento globale porterà alla selezione di lignaggi fungini, che sono più tolleranti alle alte temperature e che dunque possono violare la zona di restrizione termica dei mammiferi». Si tratta di un’ipotesi ancora da verificare, ma senz’altro suggestiva e meritevole di ulteriori approfondimenti. Sicuramente sono necessari migliori sistemi di sorveglianza per segnalare rapidamente nuove infezioni fungine come quella di Candida auris.

I batteri e i loro geni

Cosa causa l’antibiotico resistenza? Alla base di questo fenomeno vi è una serie di cause. Sicuramente la resistenza ai trattamenti è un fenomeno naturale presente in tutti gli organismi. I batteri, rispetto ad altri patogeni, hanno una marcia in più rappresentata dalla capacità di trasferimento genico orizzontale, che li caratterizza, cioè la capacità di trasmettere materiale genetico ai loro simili senza passare attraverso la riproduzione. Spesso nel materiale trasferito si trovano geni che conferiscono la resistenza a qualche farmaco. Questo consente ai batteri di essere più veloci nell’evolvere le loro difese. Dall’analisi di campioni di acque profonde un centinaio di metri è stata rilevata la presenza di batteri con geni della resistenza ad alcuni antibiotici. Questo dà un’idea di quanto sia diffuso questo fenomeno.

La «Candida auris», un fungo molto pericoloso. Foto notiziescientifiche.it.

Antibiotici vecchi e nuovi

Ci sono antibiotici nuovi, che generano resistenza già poco tempo dopo la loro immissione sul mercato, mentre alcuni antibiotici vecchi di decenni come le tetracicline si dimostrano ancora efficaci contro la filariosi, una malattia parassitaria dei cani veicolata dalle zanzare. Le case farmaceutiche si dimostrano un po’ restie a investire nello sviluppo di nuovi antibiotici, perché è sempre più difficile produrne uno che duri a lungo come le tetracicline. L’insufficienza degli investimenti nella ricerca di nuove terapie è un problema evidenziato anche dall’Oms.

L’uso sconsiderato ed eccessivo di antibiotici è sicuramente una parte del problema. Questi farmaci, infatti, sono inutili per la cura delle patologie di origine virale, dal momento che i virus non sono esseri viventi, a differenza dei batteri, dei funghi, dei protozoi e dei parassiti pluricellulari, quindi non possono essere uccisi dagli antibiotici.

Inoltre, spesso l’antimicrobico-resistenza si osserva in microrganismi isolati da pazienti con diagnosi effettuata in ritardo, che hanno avuto prescrizioni non adeguate, che hanno assunto farmaci qualitativamente scadenti o che non hanno effettuato per intero il ciclo di cura. È infatti molto pericoloso interrompere il ciclo di cura non appena si attenuano i sintomi della malattia. Queste variabili possono portare alla selezione di ceppi sempre più resistenti e la difficoltà di trattare le infezioni aumenta i rischi delle procedure mediche come la chemioterapia, gli interventi chirurgici e odontoiatrici.

Il problema allevamenti

Un’altra fonte di rischio di antimicrobico-resistenza è l’uso massiccio di antibiotici, che si è fatto finora in campo veterinario, soprattutto negli allevamenti intensivi, i quali massimizzano la resa economica, ma anche la diffusione delle malattie che necessitano di un trattamento antibiotico. Poiché è complicato curare i singoli individui malati di un allevamento, solitamente vengono trattati tutti gli animali presenti, malati e sani. Questo abuso di antibiotici per curare gli animali d’allevamento supera quello in campo umano. Inoltre, questi prodotti vengono anche usati per stimolare la crescita degli animali. I batteri farmaco-resistenti, che vengono selezionati negli allevamenti, hanno diverse possibilità di diffusione: possono infettare gli operatori del settore; essere ingeriti, se la carne viene consumata senza un’adeguata cottura; finire nelle feci usate come fertilizzanti e raggiungere i campi coltivati oppure passare i loro geni ad altri batteri secondo il meccanismo del trasferimento genico orizzontale già visto. A tal proposito, l’Agenzia europea per la regolamentazione dei farmaci (Ema) ha fissato una soglia per l’uso della colistina, che dovrebbe essere limitata ad un massimo di 5 mg per chilogrammo di bestiame.

Come prevenzione, va detto che sono senz’altro importanti le raccomandazioni sulle norme igieniche personali di base, come il lavaggio frequente delle mani, come abbiamo sperimentato durante la pandemia di Covid. Tuttavia, sono misure ampiamente insufficienti. È infatti indispensabile, da parte delle amministrazioni nazionali e locali prendere provvedimenti seri contro le infestazioni di roditori e di insetti ematofagi.

Negli allevamenti intensivi si fa un uso massiccio di antibiotici con gravi conseguenze. Foto Ralphs fotos – Pixabay.

Dalla storica peste ai superpidocchi

Non dimentichiamo che la Yersinia pestis, che ha più volte decimato le popolazioni europee nel corso dei secoli, è un batterio trasmesso all’uomo dalle pulci dei ratti e dei topi, roditori di cui purtroppo attualmente le nostre città sono piene. Proprio come capitò nel Medio Evo, quando il batterio si diffuse in comunità affollate e malnutrite di città fiorenti, uccidendo circa il 30% della popolazione europea. Cosa succederebbe se questo batterio si ripresentasse adesso, magari dopo avere acquisito qualche gene dell’antibiotico-resistenza? E che dire della diffusione dei pidocchi diventati resistenti agli insetticidi attualmente in uso, tanto da essersi meritati l’appellativo di superpidocchi? Questo fenomeno è la diretta conseguenza dell’abuso fatto per anni del Ddt, che colpisce il sistema nervoso dei pidocchi provocandone la morte. Dopo decenni di esposizione, in alcuni pidocchi sono comparse mutazioni genetiche, che li hanno resi insensibili a questo insetticida. Mentre i loro simili non resistenti venivano sterminati, la popolazione resistente è aumentata enormemente e a nulla è valsa la sostituzione del Ddt con insetticidi naturali a base di piretrine o dei loro analoghi sintetici, i piretroidi, che hanno un meccanismo d’azione simile a quello del Ddt. In Europa si sta ricorrendo a metodi alternativi come l’uso di siliconi e di oli sintetici per incapsulare i pidocchi e provocarne la morte; tuttavia, i casi d’infestazione sono in aumento. Oltre al fastidio rappresentato dall’infestazione, non dimentichiamo che i pidocchi potrebbero trasmettere il tifo petecchiale, essendo tra i vettori della Rickettsia prowazekii, il batterio che causa questa patologia.

Zanzare e superzanzare

Ritroviamo lo stesso fenomeno della resistenza a piretrine e a piretroidi nelle zanzare, che sono i vettori del plasmodio della malaria, malattia che, nel 2019, ha colpito 229 milioni di persone in tutto il mondo con circa 409mila morti, la maggior parte dei quali nell’Africa subsahariana. Naturalmente anche il Plasmodium malariae si è dato da fare ad acquisire la farmaco-resistenza nelle zone dove la malaria è endemica, per cui attualmente i ceppi ancora sensibili alla clorochina sono presenti solo più nell’America centrale, nei Caraibi e nel Medio Oriente, mentre la resistenza all’artemisina è stata osservata per la prima volta nel Sud Est asiatico nel 2008 e, da allora, si è diffusa in tutta la regione ed ha raggiunto l’India.

Oltre alla malaria, le zanzare sono responsabili anche della diffusione di altre gravissime infezioni come la febbre gialla, la chikungunya, la filariosi e la più recente zika. Da quanto abbiamo visto, risulta evidente che i molteplici agenti patogeni contrastati per decenni grazie alla scoperta e alla produzione di diverse classi di antimicrobici stanno riuscendo poco per volta ad aggirare l’ostacolo tornando a rappresentare un serio pericolo.

Rosanna Novara Topino