Tamar, una palma nel deserto


Il Vangelo di Matteo si apre offrendo la genealogia di Gesù a partire da Abramo (Mt 1,1-16). Anche Luca ce ne dona una, che però è diversa (Lc 3,23-28) e parte da Adamo: questo significa che probabilmente nessuno dei due, quando scrive, ha certezza sui dati oggettivi e, in ogni caso, che la decisione di inserire certi nomi piuttosto che altri segue gli obiettivi che ciascuno dei due ha.

A questo punto ci incuriosisce ancora di più il fatto che Matteo decida di inserire nell’elenco maschile della genealogia ben quattro donne prima di Maria. La curiosità cresce quando ci rendiamo conto che tutte e quattro sono, in qualche modo, irregolari e offrono motivo di imbarazzo e scandalo. La prima di loro, forse, è quella più sconosciuta per noi, Tamar.

Il contesto

«Tamar» significa «palma». La sua storia è narrata nel capitolo 38 del libro della Genesi, quasi una parentesi nel racconto che, fin qui e da qui in poi, è incentrato sulle vicende di Giuseppe, penultimo e amatissimo figlio di Giacobbe.

È possibile che chi ha composto il libro volesse inserire una specie di pausa dopo la pagina nella quale si narra di Giuseppe che viene venduto dai fratelli a una carovana di madianiti (e da questi a Potifar, comandante delle guardie del faraone: Gen 37,36) e prima che la sua vicenda si sviluppi tra sogni e carriera.

Come in un film moderno, nel quale tra una vicenda e l’altra deve passare un po’ di tempo, il «regista» ci propone una divagazione con una vicenda secondaria, ma che ci conquista con la sua originalità.

La storia di Tamar, per quanto marginale, si inserisce molto armoniosamente nel contesto del racconto.

A questo punto del libro, Giacobbe ha dodici figli (vedi Gen 35,21-26), alcuni dei quali, tutti figli di Lia, si mettono d’accordo per venderne uno, il primo nato da Rachele, e fingere che sia morto sbranato da una bestia selvatica (Gen 36,31-33).

Da un atto divisivo, verrebbe da dire, nasce ulteriore divisione, perché un altro dei fratelli, Giuda, decide di lasciare la sua famiglia e andare a vivere da solo, sposando una donna del posto, una cananea (Gen 38,1-2), scelta che fino ad allora la sua famiglia aveva evitato e che susciterà molta irritazione nel padre. Dalla moglie, di nome Sua, nascono tre figli, Er, Onan e Sela. Al primo viene data in moglie Tamar, che resta però presto vedova (Gen 38,6-7).

Il levirato

Per capire ciò che segue dobbiamo ricordarci di una consuetudine degli ebrei, che era diventata una legge (cfr. Dt 25,5-10). Questa prevedeva che qualora un uomo fosse morto senza figli, sua moglie sarebbe dovuta essere data in sposa a un fratello, di modo che il primo figlio della nuova unione fosse ritenuto figlio del morto. Il motivo che sta alle spalle di questa legge, per noi strana, è che per il popolo ebraico la terra non apparteneva a chi la coltivava o viveva, ma a Dio che la concedeva in utilizzo agli ebrei, i quali non potevano quindi venderla o comprarla (ecco la radice di vicende come quella di Nabot, che non vuole cedere la propria vigna al re: 1 Re 21). Si tratta di leggi antiche che servivano a ricordarsi come sulla terra si fosse ospiti, e come nei suoi confronti si avesse la responsabilità di chi non è proprietario, ma amministratore.

La terra poteva, quindi, essere solo ereditata in una trasmissione da padre in figlio che serviva in ultima analisi a dire che ogni bene degli ebrei derivava in origine da Dio.

È anche questo il motivo per cui, in situazioni eccezionali in cui non ci fossero eredi maschi, ma solo femmine, la legislazione ebraica consentiva alle donne di ereditare e possedere, cosa che nelle società antiche era decisamente molto rara (Nm 27,1-7).

Non si sa quanto e fino a quando gli ebrei abbiano davvero rispettato questa regola, ma sappiamo che era nota e che serviva a spiegare alcuni passaggi di storie antiche. Agli antichi lettori della Genesi non ci sarebbe stato bisogno di spiegarla.

La discendenza di Er

Er, quindi, il primogenito di Giuda, rientra esattamente nel caso che abbiamo spiegato. Muore senza aver generato un figlio, e sua moglie, Tamar, che finora per noi è soltanto un nome (non ne conosciamo neppure l’origine), viene data in sposa al fratello più giovane, Onan, che si rifiuta di generare un figlio che poi non sarà suo, e muore a sua volta.

Ci ricordiamo qui della questione che viene sottoposta a Gesù circa i sette fratelli che, proprio nel rispetto della legge del levirato, prendono in moglie uno dopo l’altro la stessa donna, salvo morire prima di avere generato dei figli (Mc 12,20-23; Mt 22,25-28; Lc 20,29-33).
Se succedesse oggi, ci sarebbero sicuramente delle malelingue che commenterebbero che quella donna porta davvero sfortuna, senza escludere che sia stata proprio lei a ucciderli, e che sarebbe meglio starne alla larga.

Questo è precisamente quello che pensa anche Giuda (Gen 38,11), il quale decide di violare la legge, che prescriverebbe di dare Tamar in sposa al suo terzogenito, rimandando la donna da suo padre (e di fatto disconoscendola come nuora) con la scusa che Sela è ancora troppo giovane.

Non dimentichiamoci che, in quella società arcaica, non erano presi in considerazione i diritti delle persone sole e delle donne. Si era tutelati e difesi finché si stava dentro al clan patriarcale, altrimenti ci si doveva fare giustizia e difendere da sé. Quando Giuda ha deciso di andare a vivere da solo, fuori dalla famiglia del padre, ha scelto di vivere come in un Far West.

Le donne, per parte loro, erano protette sì, ma anche asservite prima al padre e poi al marito. Fuori da quella protezione, non avevano garanzie. Il mancato rispetto della legge del levirato, quindi, significa anche lasciare Tamar senza protezione, senza assistenza, senza possibilità di un nuovo matrimonio e di concepire e partorire. Viene restituita al padre, come fosse un elettrodomestico guasto, fuori garanzia, rimandato al fornitore.

C’è la vaga promessa che poi, un giorno, quando Sela sarà cresciuto, Giuda andrà a richiamarla, ma il fatto stesso di rimandarla dal padre serve a disilluderla: quando, anni dopo, sarà il momento, Giuda probabilmente non si ricorderà del suo dovere, e anzi farà di tutto per dimenticarsene.

L’inganno benedetto

In effetti, gli anni passano, ma Sela resta senza moglie e soprattutto Tamar senza marito. Nel frattempo, diventa vedovo anche Giuda. Quando va lontano da casa per tosare le pecore, Tamar lo viene a sapere e decide di agire (Gen 38,12ss).

Confidando forse nella natura maschile, o conoscendo bene il suocero, dismette i vestiti da vedova, si agghinda in modo elegante e si va a sedere sulla strada all’ingresso di un paese che Giuda avrebbe dovuto attraversare. Il messaggio è chiaro, e Giuda non se lo perde: una donna sola, ferma sulla strada, vestita bene, è una prostituta. E Giuda ne approfitta subito. Anzi, preso dalla generosità o dall’astinenza, le promette addirittura in pagamento un capretto. Ovviamente, non ce l’ha con sé, quindi le lascia un pegno, da recuperare quando sarebbe giunto con quanto pattuito: questo pegno sono il proprio cordone e bastone, oggetti personali e riconoscibili.

Una volta tornato a casa, Giuda, che almeno sui debiti si mostra onesto, manda un servo a saldare i conti, ma a questi gli abitanti del posto dicono che lì non c’è mai stata nessuna prostituta. A questo punto Giuda, per non farsi ridere dietro da tutti, suggerisce allo schiavo di lasciare perdere: lui ha provato a pagarla, ma se lei non si fa trovare, pazienza.

Qualche tempo dopo vengono a dire a Giuda che sua nuora è rimasta incinta. E lui, che pareva averla dimenticata, forse pensa di avere l’occasione di liberarsene definitivamente: dal momento che non è sposata, quel figlio non può che essere frutto di un’unione illegittima, e quindi lei deve essere condannata a morte, a meno che il padre non riconosca il figlio e sani la situazione.

Mentre però viene portata al rogo, Tamar allestisce il colpo di scena: «Conosco il padre. È il proprietario di questo bastone e di questo cordone. O suocero, tu che sei legalmente responsabile di me, controlla se riesci a sapere di chi sono» (Gen 38,25). E qui Giuda si riscatta, ammettendo la propria colpa che, per quel mondo, non è tanto quella di essersi unito a una prostituta, quanto di non aver rispettato la legge del levirato: «Lei è più giusta di me», ammette nei confronti di una donna indifesa chi aveva deciso di vivere senza leggi.

Il racconto, per togliere ogni scandalo, aggiunge che Giuda, pur riconoscendo come suoi i figli gemelli che nasceranno, non tornerà a dormire con Tamar.

Una fede coraggiosa e creativa

Il racconto potrebbe a prima vista sembrarci uno dei tanti, un po’ scandalosi e vergognosi, che punteggiano l’Antico Testamento.

Il fatto che Matteo lo abbia ripreso, tuttavia, ce lo riporta alla memoria e può anche suscitarci qualche interrogativo.

Anche le altre donne citate dall’evangelista nella genealogia di Gesù presentano tutte dei comportamenti che, in sé, potremmo trovare decisamente discutibili:  Raab, prostituta di Gerico, Betsabea, moglie rubata da Davide a un suo soldato, e Rut, la più pura che organizza, però, un inganno ai danni del suo futuro marito. Tutte, con questi comportamenti non certo perfetti, compiono la volontà di Dio, spesso con creatività (è il minimo che si può dire dello stratagemma di Tamar). Parrebbe quasi che Matteo porti esempi per giustificare Maria: è vero, Gesù non è figlio di Giuseppe, ma questo non significa che l’intenzione divina non possa passare anche da questo aspetto apparentemente discutibile, così come spesso è accaduto nella storia della salvezza.

Dio guarda cuori e intenzioni, non i comportamenti esteriori, e spesso, se si guarda oltre le apparenze, sono soprattutto le donne a essere premiate.

Quanto a Tamar, si mostra fedele al marito defunto, al suo ricordo, al comando divino, senza fermarsi alla forma, alla lettera della legge. Lei era ben disponibile a offrire un figlio a Er, ma non le è stato concesso. In fondo, era solo una donna, non aveva autonomia legale. E invece si mette in attesa paziente, sfrutta l’occasione, sopporta il rischio della vergogna, dell’umiliazione, addirittura della morte, per non venire meno alla sua fedeltà.

Confida che il Dio di cui si fida non guardi innanzitutto all’applicazione rigorosa delle leggi, ma all’intenzione che le anima. Sa che il Padre nei cieli non la guarderà con riprovazione, ma con la tenerezza sorridente di chi vede i propri figli inventarsi soluzioni impensate. Confida che quel Dio non applica in modo disumano delle regole, ma vede e ama la vita.

Angelo Fracchia
(Camminatori 03-continua)




«Culture e missione»


A Torino la missione si fa comunicazione. I Missionari della Consolata inaugurano un polo culturale missionario che vuole essere un ponte tra le loro attività nei quattro continenti e la città, ma non solo. Un punto di incontro tra culture, religioni e territorio.

Questo mese è stato inaugurato il polo culturale dei Missionari della Consolata a Torino, in un’ala della Casa Madre. Il centro è stato chiamato Cultures and mission (Cam), culture e missione. Chiediamo il perché del nome a padre Ugo Pozzoli, coordinatore di Missioni Consolata onlus (Mco), che gestisce il polo. «Il nome Cultures and mission (Cam) è stato scelto perché rappresenta un ponte tra il passato il presente e il futuro. Come Centro di animazione missionaria, il Cam è stato un luogo che per circa 40 anni ha accompagnato i cammini di formazione e di animazione missionaria giovanile a Torino. Con il nuovo significato, la sigla rimane la stessa ma assume uno spirito più ampio che vuole raccontare la missione di oggi e di domani».

Ma di cosa si tratta esattamente?

Padre Ugo ci spiega: «Il nuovo Cam nasce con l’intento di essere un polo di cultura, informazione e comunicazione, un ponte fra i missionari, la loro storia, il loro lavoro in quattro continenti, e la città di Torino, il luogo dove siamo nati e siamo tuttora presenti a vari livelli. Vorremmo che fosse una vetrina che parli del mondo alla nostra città e che parli della nostra città al mondo. Credo infatti che in passato si sia messo troppo l’accento, parlando di cooperazione missionaria, su quanto potevamo “dare” a chi presumibilmente aveva meno. Con questo progetto vorremmo raccontare anche il tanto, sia quantitativamente che qualitativamente, che noi possiamo ricevere dagli altri».

E continua: «Con la gestione di questo progetto, Mco desidera creare un laboratorio in cui far convergere il mondo della comunicazione, che fa capo alla redazione della rivista Missioni Consolata, le attività di animazione e formazione con cui cerchiamo di sviluppare temi come quelli legati alla mondialità, all’intercultura, al dialogo e, ultima ma non ultima, la spiritualità, che anima la nostra missione e senza la quale non saremmo qui a continuare la nostra opera. Penso alle cose belle che si potranno creare mettendo in sintonia il Cam e il nostro centro di spiritualità alla Certosa di Pesio».

La genesi

«Sono diversi anni che parliamo di recuperare la memoria dell’istituto – ci dice padre Stefano Camerlengo, superiore generale dei Missionari della Consolata -. Ci sono i giovani missionari che arrivano, nuove storie, e si sta dimenticando il passato. Secondo noi un gruppo che dimentica il proprio passato, non può costruire il futuro». E continua: «L’idea è dunque di recuperare il materiale che abbiamo per presentare la memoria e raccontare la nostra missione agli altri. Oggi il racconto di qualcosa di vissuto vale di più delle prediche.

Ci siamo chiesti: fare un museo classico? No, un museo è un po’ conservare il passato, ma non basta. Qualcosa che serva per l’animazione missionaria. Non qualcosa da ammirare, ma un discorso che deve provocare, fare capire alcune realtà e spingere a domandarsi: io che cosa posso fare? Come posso collaborare? Come posso costruire missione nel mio oggi?». Così il superiore generale e i suoi consiglieri hanno pensato che fosse un bene valorizzare le collezioni etnografiche e naturalistiche e gli archivi (foto, video, manoscritti) che l’istituto ha accumulato in 121 anni di esistenza, per realizzare qualcosa.

«Lo chiamo polo, perché non è museo, non è centro culturale, ma vuole raccogliere tante persone che, cristiane e non, si ritrovino intorno ai valori dell’umanità, e si vogliano incontrare in uno spazio fisico dove raccontarsi, parlare, ascoltare, e conoscere altre storie.

Abbiamo la fortuna, come istituto, di essere internazionali e interculturali: di cose da raccontare ne abbiamo. Ma vogliamo anche ascoltare le storie del territorio».

Continua padre Stefano: «Usando tecniche moderne, i materiali che abbiamo, e mettendo a disposizione missionari con le loro storie, ci presentiamo alla gente, non per farci vedere, ma per raccontare questa memoria storica. Con l’idea di presentare il passato, raccontando il presente e pensando al futuro».

E anche: «La missione incontra il territorio. Non più “venite in Africa”, ma “la missione è qui”. Noi siamo disposti a incontrare tutti: cristiani, non cristiani. Raccontiamoci. Chi è alla ricerca per dare un senso alla propria vita. Venite, vediamo se riusciamo a collaborare. Questa è la novità».

Un’équipe missionaria

Il nucleo propulsore del nuovo Cam è un’équipe di tre missionari, costituita un anno fa, che curerà la gestione del polo missionario, in particolare nei suoi aspetti d’incontro con la gente. La costituiscono il kenyano John Nkinga e gli italiani Fabio Malesa e Piero Demaria.

Padre John, 36 anni, giovane ed esuberante, è l’esempio vivente del fatto che la missione oggi è anche in Italia. Lui, missionario africano a Torino, lavora con le comunità di migranti (cfr. MC marzo 2022). Ci dice sul polo: «Vogliamo fare capire alle persone e alla città di Torino che esiste una cultura missionaria, e che non è un fatto nostro. Ha origine da un fondatore, passa dai missionari per arrivare alla gente. Non ci fermiamo all’animazione e basta. Parliamo di “cultura missionaria”. Vogliamo farla conoscere. Vuol dire fare animazione in modo diverso, più moderno, più pensato sui bisogni e le aspettative delle persone che camminano con noi».

Padre Fabio, 50 anni, originario della Sardegna, ha lavorato dodici anni in Mozambico (cfr. MC marzo 2023): «Oggi, soprattutto dopo il covid, le persone, e i giovani in particolare, hanno bisogno di trovare un posto dove possano sentire che le relazioni umane vengono curate, si sviluppano. Sono rari i posti così, e la gente si trova molto sola. Avere un luogo dove, attraverso l’accoglienza, si sente accettata, magari nella propria diversità, è il primo passo per costruire qualcosa insieme».

Padre Piero, 44 anni cuneese (cfr. MC marzo 2019), ha le idee chiare sul ruolo dell’équipe missionaria: «Noi dobbiamo rendere vivo il polo culturale. Una prima dimensione è quella dell’accoglienza. Abbiamo il compito di accogliere i gruppi: giovani, scuole, famiglie, parrocchie, associazioni. Un’accoglienza che va preparata. Tutto inizia al piano terra, dove presentiamo chi siamo noi e cosa è l’istituto.

Al primo piano c’è il museo vero e proprio e al secondo piano diversi spazi per i laboratori che saranno pensati a seconda dei target. È al secondo piano che la nostra presenza sarà più importante. Faremo laboratori su diversi temi: maschere, musica, lingue, cartine geografiche. Il tutto pensato a seconda dei gruppi che vi partecipano».

Continua Piero: «Il nostro ruolo è dunque di fare incontrare chi arriva con la realtà della missione. Perché il polo vuole trasmettere questo. In seconda battuta, inviteremo le persone più interessate a partecipare, costruire una rete e collaborare.

Anche allo scopo di mettere in circolazione i temi che ci stanno più a cuore: l’incontro tra le culture, la diversità, l’accoglienza del diverso, l’ecologia. E costruire un mondo un po’ più vivibile e pacifico».

Parola chiave: incontro

John: «Direi che la parola chiave per il polo culturale è “incontro”. Vogliamo offrire uno spazio e del tempo per incontrarsi. Qualcosa che si faceva già con il Centro di animazione missionaria (anch’esso Cam, ndr), e si potrà nuovamente fare. Non è un museo o uno spazio espositivo, ma un luogo per incontrarsi. Dove la cultura incontra la missione, la migrazione incontra la cultura, e così via».

Fabio: «Inizialmente pensiamo anche di “andare all’incontro”, ovvero andare nelle scuole portando qualche pezzo di museo, per parlare del polo, farci conoscere. Fare in modo che la gente venga, e da lì aprire un ponte con la città, la popolazione e le istituzioni.

Il Cam sarà un posto dove, attraverso la testimonianza di tanti padri, di passaggio a Torino, o collegati a distanza dalle missioni, grazie alle moderne installazioni, si farà cultura missionaria. Alcuni contenuti, come video e foto, possono essere rinnovati nel tempo, garantendo così una maggiore interazione con le persone».

Piero: «Vogliamo incontrare il territorio. Siamo interessati a tutti, ma in particolare ai giovani e alle famiglie. Attraverso famiglie più sensibili, si possono fare arrivare anche altri. La visita al museo può essere un primo contatto, ma avremo molte altre attività, ad esempio quelle in collaborazione con il Centro missio nario diocesano, che organizza formazioni per chi parte in missione».

Il cuore creativo

Partiti dall’idea e da un’esigenza, per arrivare a un’installazione multimediale che adotta tecniche innovative, e a spazi gestiti da un’équipe missionaria, è stato necessario un grande lavoro di una squadra di professionisti della comunicazione.

La società Mediacor, con una vasta esperienza in allestimenti multimediali, già protagonista della fortunata esposizione temporanea «Mater Amazonia» in Vaticano, è stata incaricata dai Missionari della Consolata della progettazione e realizzazione degli spazi espositivi e di quelli d’incontro. Anima di Mediacor, composta da sette soci, sono Paolo Pellegrini e Simona Borello.

Simona ci racconta: «Lo abbiamo immaginato come un luogo d’incontro. Incontro tra le culture, incontro tra i missionari e la città, incontro tra le religioni.

È stato progettato sia per vedere l’incontro che i missionari hanno avuto, e hanno tutt’ora, con le altre culture, sia per favorire l’incontro tra le persone e la missione. L’esposizione permanente è la narrazione del primo aspetto, di cosa succede quando si arriva al cospetto di una cultura e poi si cerca di entrare in essa. Si concentra sui vari aspetti che ci sono nel viaggio: le persone, la natura, la lingua, il modo di fare e di operare.

Questo fattore è stato utilizzato anche per l’approccio architettonico con il potenziamento delle aree nelle quali è possibile fare incontri, conferenze, e con la valorizzazione di alcuni ambienti che erano depositi, trasformati in salette. E poi c’è la sala dei laboratori. Il percorso è pensato per avere come parte integrante incontri con i ragazzi delle scuole, degli oratori.

Il polo vuole essere un punto di riferimento per la città, per le iniziative dei missionari o per quelle che la Chiesa locale voglia fare qui».

Simona non nasconde una certa soddisfazione per la realizzazione dell’opera e ci racconta le differenze con esperienza precedenti di Mediacor: «La cosa interessante è che si tratta di un polo culturale, per cui non c’è soltanto il discorso espositivo che abbiamo già gestito in altri casi. Qui c’era il desiderio di disegnare un luogo che poi potesse essere vivo e polifunzionale, e ospitare anche altre attività.

Un’altra differenza: visto che i missionari sono una realtà viva cui si aggiungono sempre cose nuove, alcuni spazi sono stati pensati per essere rinnovati periodicamente. Ad esempio l’ingresso dove ci sono i progetti in evidenza, o la parte di approfondimenti.

Un altro aspetto è il tentativo di far dialogare la tecnologia non solo la narrazione, ma anche con gli oggetti etnografici».

La parte d’installazione museale presenta un percorso che può essere gestito in modo completamente automatico, e condurre il visitatore o il gruppo nella visita.

C’è stata, inoltre, un’attenzione particolare alla inclusività, con l’ausilio di alcuni strumenti che utilizzano il linguaggio della comunicazione aumentata, per permettere anche ai bambini con disturbi specifici di apprendimento di beneficiare della visita. Anche la disabilità fisica è tenuta in conto, con un’architettura ad accesso totale.

Un gemello in Kenya

Padre Stefano Camerlengo ci rivela una notizia: «Un polo culturale missionario lo stiamo sognando anche a Nairobi, dove l’istituto ha cominciato la sua missione e dove ha una lunga storia. Inizia a Torino, continua in Kenya e poi va in tutto il mondo. Se oggi si vogliono capire meglio i Missionari della Consolata non basta andare a Torino, bisogna anche andare a Nairobi».

Padre Ugo conclude: «Il Cam ha rappresentato un investimento notevole, giustificato dalla volontà di valorizzare le nostre radici, dimostrando a noi stessi, e a chi collabora con noi, che, sebbene abbiano oltre 120 anni di storia, sono tuttora vive e generano missione, raccontano il Vangelo, sostengono l’umanità nelle sue stanchezze e nelle sue ferite. Speriamo che chi ci visiterà, chi accoglierà i nostri spunti e le nostre proposte, si lasci poi coinvolgere a partecipare, diventando un nostro sostenitore, tanto economicamente quanto magari mettendo a disposizione un po’ del suo tempo, collaborando in qualche attività del polo».

Marco Bello




Sommario MC aprile 2023


La rivista di aprile è disponibile online. Buona lettura.


Editoriale

Una Pasqua oscurata?

di Gigi Anataloni

Probabilmente quando leggerete queste righe il dramma di Cutro sarà sparito da un po’ dalle prime pagine, magari sarà ridotto a mero strumento per colpi bassi tra i partiti di governo e le opposizioni. Purtroppo, tragedie come questa finiscono troppo in fretta nel tritacarne dell’assuefazione, e vengono sostituite dal gossip e dalle vanità di turno. […]

Se davvero vivo la Pasqua, se davvero ascolto la Parola, non rimango seduto sul divano a guardare uno schermo nell’attesa di un miracolo, ma divento soggetto attivo di fraternità, costruttore di pace, operatore di giustizia. Giorno per giorno, passo dopo passo.

Allora sì, anche in mezzo alla violenza degli uomini e all’incontrollabile potenza degli avvenimenti naturali, terremo viva la luce della speranza, non lasceremo spegnere la nostra piccola candela accesa al fuoco di Cristo, e avremo la forza di lottare tenacemente per un mondo dove tutti gli uomini possano danzare insieme la gioia della vera pace.


Dossier

Italia: beni confiscati alle mafie.
La rivincita della legalità

Di Daniele Biella

La libera masseria di Cisliano (Milano). In Villa contro le mafie

La villa di un boss della ’ndràngheta, nei pressi di Milano, diventa un bene comune. Grazie a soggetti impegnati per la legalità, oggi accoglie persone con disagio abitativo, ragazzi da formare, giovani profughi.


Articoli

Pacifico: Le isole da sogno sono zone d’influenza

Territorio di caccia

Di Lorenzo Lamperti

Il Pacifico meridionale, con i suoi molteplici stati insulari, non solo è un paradiso terrestre che sta per scomparire a causa della crisi climatica, ma è sempre più teatro di contesa tra le superpotenze mondiali. Cina e Stati Uniti (con i suoi alleati) si sfidano con accordi economici e di sicurezza nell’area.

Un’immagine di alcune vie di Raqqa. Foto di Angelo Calianno.

Reportage dal Rojava, la Siria curda / 2

Terroristi passati e futuri

di Angelo Calianno

Siamo entrati in una prigione del Rojava per incontrare un ex terrorista dell’Isis. L’organizzazione islamista è in ritirata, ma non è morta. Se lo stato curdo dovesse cadere, potrebbe tornare a farsi minacciosa.

Un tratto del rio Chagres. Foto Diego Battistessa.

Panama: Storia di un incontro particolare

Zarco riposa sulla Luna

di Diego Battistessa

Manuel Antonio Zarco era un «cacique» degli Emberá, uno dei sette popoli indigeni di Panama. Negli anni Sessanta la sua strada s’incrociò con quella degli astronauti della Nasa che si preparavano a sbarcare sulla Luna. Zarco è scomparso nel 2010, ma la sua storia – incredibile e poco conosciuta – è sopravvissuta.

Daniel Ortega e Rosario Murillo. Foto Jairo Cajina – Presidencia de Nicaragua.

Nicaragua: La deriva autoritaria di Managua

La triste fine del sogno sandinista

di Paolo Moiola

Nel paese centroamericano, gli abusi della coppia presidenziale Daniel Ortega-Rosario Murillo non conoscono fine. Gli oppositori sono in carcere o in esilio, mentre la Chiesa cattolica è sotto assedio.

Italia, Missione Reu 08.

Apre il Cam: «Culture e missione»

di Marco Bello

A Torino la missione si fa comunicazione. I Missionari della Consolata inaugurano un polo culturale missionario che vuole essere un ponte tra le loro attività nei quattro continenti e la città, ma non solo. Un punto di incontro tra culture, religioni e territorio.

(Photo by Tiziana FABI / AFP)

Congo Rd: La visita di papa Francesco in Africa

Chi ha orecchie per intendere

di Fabrizio Floris

Nel gennaio scorso il papa si è recato nel paese martoriato da una guerra lunga e dimenticata. Ha denunciato sfruttamento e indifferenza. Il racconto di un testimone.

Sardegna: Reportage dalla festa di sant’Antonio abate

Maschere e campanacci

di Valentina Tamborra

In Barbagia, Sardegna, antichi riti rivelano il legame tra sacro e profano, e svelano i retroscena della cristianizzazione dell’isola.

Thomas e Rosa con Franco p Chepechucho G. Ospina e Balayangaki P. Danstan Mushobolozi

Missionari laici dalla Corea al Tanzania

Dove l’amore vince le paure

di Rosa Kang

Thomas Song e Rosa Kang, una coppia con due figli, nuore e nipoti, sono missionari laici della Consolata. Da giugno 2018 a gennaio 2022 sono stati  in Tanzania, nella «Faraja house» a Mgongo, vicino a Iringa. In queste pagine condividono il loro cammino.


Rubriche

Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

  • Un libro a ricordo di padre Giuseppe Alessandria e della sua espereinza in Mozambico, rapito dai guerriglieri.
  • Mina ci scrive di Nomadelfia in Tanzania.
  • I complimenti di Bruno alla rivista.
  • Una lettera del 1931 da Kaheti, Kenya, che parla ancora oggi.
  • Il nuovo libro di padre Gian Paolo Lamberto su Maria Maddalena.
  • Flash di tensioni tribali e fame da Baragoi, Kenya.

Camminatori di speranza /3

Tamar, una palma nel deserto

di Angelo Fracchia

Il Vangelo di Matteo si apre offrendo la genealogia di Gesù a partire da Abramo (Mt 1,1-16). Anche Luca ce ne dona una, che però è diversa (Lc 3,23-28) e parte da Adamo: questo significa che probabilmente nessuno dei due, quando scrive, ha certezza sui dati oggettivi e, in ogni caso, che la decisione di inserire certi nomi piuttosto che altri segue gli obiettivi che ciascuno dei due ha.

A questo punto ci incuriosisce ancora di più il fatto che Matteo decida di inserire nell’elenco maschile della genealogia ben quattro donne prima di Maria. La curiosità cresce quando ci rendiamo conto che tutte e quattro sono, in qualche modo, irregolari e offrono motivo di imbarazzo e scandalo. La prima di loro, forse, è quella più sconosciuta per noi, Tamar.

E la chiamano economia

Siamo in otto miliardi. Foto di Gerd Altmann – Pixabay.

Otto miliardi

di Francesco Gesualdi

Questa è la soglia superata dalla popolazione mondiale lo scorso novembre. Un dato che va interpretato visto che nei paesi occidentali il numero si sta contraendo, mentre in quelli africani sta aumentando. Con importanti ricadute a tutti i livelli.

Cooperando

Malaria: meglio, ma non basta

di Chiara Giovetti

Il 25 aprile è la giornata mondiale della malaria, malattia che, nei primi due mesi del 2023, ha già provocato la morte di circa 65mila persone. La pandemia da Covid-19 ha peggiorato le cose ma, anche dopo il ritorno dei servizi sanitari alla normalità, il mondo rischia di mancare l’obiettivo che si era dato per il 2030: ridurre i casi di malaria dagli attuali 60 a 6 ogni mille persone a rischio.

Allamano

Tre parole magiche

di Pietro Trabucco

Uno degli studiosi più attenti della vita del beato Giuseppe Allamano, del suo tempo e ambiente, è stato senza dubbio padre Igino Tubaldo. A cent’anni dalla sua nascita, lo ricordiamo con gratitudine, soprattutto per la voluminosa biografia in quattro tomi e altri innumerevoli scritti che ci ha lasciato.

Cosciente di quanto sia prezioso l’epistolario per una persona, poiché in esso ognuno esprime al meglio i sentimenti più intimi, padre Tubaldo ha voluto scandagliare con molta attenzione le 1.256 lettere scritte dall’Allamano. Al termine del suo lavoro ci ha svelato che tre brevi parole sono quelle che meglio hanno espresso il cuore del nostro padre verso i suoi figli missionari e missionarie.

Librarsi film

Nonviolenza da Oscar

«Coda. I segni sul cuore» e «The Guilty», Il colpevole

di Giorgio Bertuzzi e Dario Cambiano

Una ragazza, figlia di genitori sordi, scopre di avere un talento nel canto. Un poliziotto danese si lascia coinvolgere in un caso che non dovrebbe seguire. Due film diversi tra loro, ma accomunati dall’ascolto attivo dei protagonisti che affrontano i conflitti cambiando se stessi e le relazioni attorno a loro.




E l’Est è venuto da noi


Da quindici anni in Polonia per l’animazione missionaria e per «guardare a Est», dallo scorso 24 febbraio (2022) padre Luca Bovio  si trova coinvolto nell’emergenza Ucraina. Prima nell’accoglienza dei profughi, poi in una rete di solidarietà che porta sollievo alla popolazione in guerra e offre una testimonianza di pace.


Vedi: Come i Magi portando doni, dell’11 gennaio 2023.


«È stata come un’ondata. In pochissimi giorni sono arrivate in Polonia prima centinaia, poi migliaia di persone». Padre Luca Bovio, missionario della Consolata milanese, classe 1970, in Polonia dal 2008, ci racconta in collegamento da Varsavia l’inizio del conflitto in Ucraina dal suo punto di osservazione polacco.

«Giorno dopo giorno i numeri crescevano. Il telefono ha preso a squillare non stop.

Un giorno mi chiama una donna, appena entrata in Polonia. Parla ucraino. Io dico che non capisco, allora mi passa un volontario che traduce: “Guardi, questa signora con figli ha avuto il suo numero dall’Italia. Le vuole chiedere se può chiamare sua sorella, per dirle che sono arrivati in Polonia, che sono salvi”. Allora chiamo l’Italia. La donna che risponde, alla notizia si mette a piangere per la gioia. Poi mi dice: “Padre, però adesso mi dovete aiutare a farli arrivare a Milano”.

In quel momento tutti gli ucraini avevano i mezzi pubblici gratuiti. Mi viene in mente che a Cracovia ho un amico parroco che ha vissuto in Ucraina e ora sta vicino alla stazione. Lo sento: “Dario, per favore, puoi accoglierli tu?”.

Così la famiglia arriva a Cracovia. Don Dario scrive il loro nome su un cartello per trovarli tra le migliaia di persone che scendono dal treno. La famiglia lo vede, e lui li accoglie nella sua canonica.

Siamo nella prima ondata, loro devono arrivare in Italia, ma non hanno nessun documento. Allora chiamo l’ambasciata italiana a Varsavia che li aiuta. Li facciamo venire a Varsavia. Ricevono il visto. Sono contentissimi. Però, scopriamo che il volo costa 1.500 euro. In quel momento c’è un volontario accanto a me. Sentendo la storia dice: “Non preoccuparti, glielo pago io”. Ha preso i biglietti, e la famiglia quella sera stessa è arrivata a Milano».

Sul tragitto una inaspettata sorpresa. Incontriamo tre bambini che di casa in casa passano cantando i canti natalizi, tradizione presente in diversi paesi del centro Est Europa. Ci fermiamo per dargli della cioccolata. Ci sorridono e ci ringraziano.

Missione in Polonia

Padre Luca, prima di raccontarci l’ultimo anno segnato dalla crisi ucraina, parlaci della tua missione in Polonia.

«Io ho fatto parte del primo gruppo dei Missionari della
Consolata arrivati nel paese nel 2008. Siamo da quindici anni in Polonia, da dieci a Kiełpin, nella cittadina di Łomianki, a pochi km a Nord Ovest di Varsavia.

Nel 2022 abbiamo aperto una seconda comunità a Białystok, una città di 300mila abitanti a 50 km dal confine bielorusso.

La nostra presenza qui è legata all’animazione missionaria, cioè al tentativo di avvicinare la chiesa polacca alla missione e la missione alla Polonia.

Lo facciamo in molti campi, ma in particolare collaborando con le pontificie opere missionarie (Pom) polacche di cui io sono segretario nazionale. Questa struttura ci aiuta a entrare nella chiesa locale e nazionale, a presentarci come missionari e quindi a creare link, collegamenti a diversi livelli: ad esempio, formativo, spirituale, predicando nelle chiese, incontrando fedeli, giovani, seminaristi, ma anche a livello caritativo attraverso i tanti progetti che la chiesa polacca sostiene nel mondo intero, soprattutto nelle comunità Imc in Africa e Asia».

Lemianki, marzo 2022, padre Ashenafi smista abiti ricevuti dall’Italia per i profughi ucraini

Come sono composte le vostre due comunità?

«A Kiełpin siamo in quattro: io, padre Noé Moreno, mozambicano, arrivato poche settimane fa dall’Italia, e due seminaristi, Lucien Sakimato del Congo, e
Titus Maina del Kenya. Fin dall’inizio è stato con me anche padre Ashenafi Abebe, etiope, che da gennaio è a Roma.

A Białystok ci sono due giovani missionari: padre Juan Carlos Araya Carmona, argentino, e padre Ditrick Sanga, tanzaniano.

La nostra comunità interculturale colpisce molto qui in Polonia, dove la presenza di stranieri è piuttosto limitata. Siamo in sei, di sei paesi diversi e tre continenti.

La nostra semplice presenza, penso parli molto più di quanto possiamo dire dall’ambone.

Il nostro auspicio è di dare una testimonianza di fraternità, mostrare il volto di una chiesa universale».

Distruzioni a causa dei bombardamenti. Chiesa distrutta da quattro razzi.

L’Ucraina

Nell’ultimo anno hai fatto quattro viaggi in Ucraina, ma la prima volta ci eri stato nel 2018. In un tuo articolo su quell’esperienza hai scritto: «L’Ucraina è il paese che offre più opportunità per approfondire la conoscenza dell’Est e allacciare nuovi contatti».

«L’Imc ci ha mandati in Polonia con due obiettivi: quello dell’animazione missionaria, e poi quello di “guardare a Est”. In una prospettiva futura, nei tempi che il Signore conosce, da questa base polacca si potrebbe fare un passo ulteriore verso l’Europa orientale. Questo giustifica i viaggi che ho fatto negli anni passati in Bielorussia, nelle repubbliche baltiche e in Ucraina.

Nel 2018 sono stato a Leopoli, la prima città importante oltre il confine a Sud. È una città con molti elementi linguistici e culturali polacchi.

La guerra era già iniziata quattro anni prima: in Donbass nel 2014. Infatti, ricordo diverse chiese con foto di soldati sugli altari.

Scrivevo quelle parole nel mio articolo perché l’Ucraina ha tanti punti storici, culturali e religiosi comuni con la Polonia, molte potenzialità su cui lavorare.

Ora, è successo quello che non avremmo mai immaginato: noi volevamo andare a Est, e l’Est è venuto da noi».

A Leopoli nel 2018 hai trovato una chiesa molto «polacca».

«I cattolici in Ucraina sono una netta minoranza rispetto alla cristianità presente nel paese: la chiesa ortodossa nella sua totalità e nelle sue diverse espressioni è maggioritaria. Poi ci sono i greco cattolici (ortodossi, ma in comunione con Roma).

Il cattolicesimo, in effetti, è presente in Ucraina soprattutto attraverso la chiesa polacca».

Distruzioni a causa dei bombardamenti. Razzi e mine inesplose

24 Febbraio 2022

Ci racconti i primi giorni dell’aggressione russa?

«Sono stati sconcertanti. Nessuno si aspettava un attacco su scala così grande.

In pochissimi giorni sono iniziate ad arrivare in Polonia decine di migliaia di persone. Oggi si contano un milione e mezzo di profughi ucraini registrati. Chi è arrivato non ha trovato resistenze qui in Polonia. Mi ha colpito l’empatia di tantissime famiglie semplici che si sono date da fare per accogliere.

Ricordo immagini molto forti: treni carichi di persone, file di donne e bambini che aspettavano. Sono stato al confine a fine marzo, e i volontari raccontavano che gli ucraini stavano tre o quattro giorni in attesa, a piedi, nel freddo, prima di poter entrare in Polonia. C’erano donne che partorivano in coda.

Dall’altra parte vedevi polacchi che arrivavano al confine con pulmini o auto e mettevano fuori un cartello: “Varsavia, 5 posti”, “Danzica, 15 posti”, per portare i rifugiati a quelle destinazioni. Oppure mamme e papà polacchi che portavano i propri passeggini alla stazione. Li lasciavano lì per chi ne aveva bisogno. Ho visto una solidarietà straordinaria.

In questo contesto, la parrocchia di Łomianki con cui collaboriamo è stata una delle prime ad accogliere, anche grazie agli ucraini residenti qui da tempo (quella ucraina è la più grande comunità straniera in Polonia: prima della guerra contava già un milione e mezzo di persone, ndr).

In poche settimane sono arrivate nella cittadina, che conta meno di 30mila abitanti, più di 2.500 ucraini, tutti ospitati dalle famiglie nelle proprie case».

Anche voi avete ospitato in casa vostra. C’è qualche storia che ti è rimasta impressa?

«Una è quella di Piotr, un papà con una figlia di 12 anni, provenienti dal Donbass. È una storia particolare, perché quasi tutte le famiglie che arrivano sono composte da donne con figli, dato che gli uomini non possono uscire dal loro paese.

Lui era un professore. È stato in casa da noi per tre settimane.

Ci ha raccontato la sua storia: la suocera, anziana e invalida, non può scappare. Allora lui e la moglie prendono la difficile decisione: la moglie dice, “io rimango con mia mamma, tu prendi nostra figlia, vai in Polonia e poi da mia sorella in America”. Lui e la figlia prendono un taxi. Tra un bombardamento e l’altro arrivano al confine. Ma lui teme che non lo facciano passare. Tanto che scrive il numero di telefono sul braccio della figlia nel caso li separino.

Prima di partire, lui e la moglie hanno firmato un documento nel quale spiegano la loro storia.

I soldati, leggendo, capiscono e li lasciano passare.

Ora sono negli Usa. Ricordo bene la bambina. Era veramente triste. Non esprimeva emozioni. Parlava solo con il papà».

Bucha

La vostra azione di aiuto e accoglienza è stata sostenuta anche dall’Italia, vero?

«Fin dall’inizio, in molti, singoli, parrocchie, gruppi, comunità Imc, in Italia ed Europa, si sono messi in moto per mandare aiuti: denaro, cibo, medicinali, vestiti.

Molte persone si sono messe in viaggio per dare una mano. Penso, ad esempio, a Clara da Torino. Un’infermiera che ha preso un mese di ferie per stare qui con noi; ma anche a una dottoressa dal Sudafrica, e poi un torinese che lavora in Canada.

Tra i tanti gruppi, mi viene in mente l’associazione Eskenosen, fondata da Mauro Magatti e Mino Spreafico: per l’inverno hanno lanciato la campagna “Scaldiamo Charkiv” (città a Est, poco distante dal confine russo), raccogliendo fondi per fornire stufe alle abitazioni. Hanno lavorato bene, e la risposta è molto buona. Poi, come fanno anche altri gruppi, hanno accolto molti ucraini con progetti di inserimento nel territorio in Italia.

Ecco, una cosa importante che non ho ancora detto è questa: attraverso di noi, tante persone sono arrivate in Italia e in altri paesi (cfr. MC 10/2022, ndr). Questo fa parte del nostro
“essere link”, così come succede quando ci sono gruppi che raccolgono aiuti, ma poi non sanno a chi darli. Grazie alla rete di contatti che noi abbiamo in Ucraina possiamo garantire che tutti gli aiuti arrivano sul posto».

Com’è andata dopo le prime settimane di emergenza?

«Il flusso di ucraini in arrivo e le presenze hanno iniziato a diminuire. Molti lasciavano la Polonia per andare in altri paesi, o per tornare in Ucraina. Le persone rimaste hanno cercato un po’ di autonomia iniziando a lavorare.

La pressione si è allentata e allora la nostra attenzione si è spostata dall’emergenza qui in Polonia all’Ucraina».

Tra le persone accolte c’erano anche africani.

«Sì. Città come Leopoli, Kiev, Charkiv, sono città universitarie con molti studenti stranieri. Con lo scoppio della guerra sono usciti dal paese anche loro.

A Łomianki abbiamo avuto una famiglia nigeriana, due giovani con una bimba piccola. Lei era incinta. Sono stati ospitati dai nostri vicini di casa per qualche settimana. Ora sono in Germania».

E famiglie miste ucraine-russe.

«Sì: il tessuto sociale dei paesi ex sovietici prevede questo “mescolamento”. Non sorprende che in molte famiglie ci siano genitori, nonni o bisnonni di una o dell’altra nazione.

Questa condizione delle famiglie rende ancora più difficile la comprensione del conflitto».

Charkiv. Nelle cantine della città, trasformate in rifugi sotterranei a causa dei bombardamenti

I viaggi

Nell’ultimo anno hai fatto quattro viaggi in Ucraina.

«Esatto. Nel primo viaggio a fine marzo siamo stati sul confine. Siamo entrati in Ucraina a piedi, per metterci in coda con i migranti in attesa di passare in Polonia e per ascoltare i volontari.

Era la fase in cui iniziavamo a spostare gli aiuti verso l’Ucraina.

Vicino all’ufficio delle Pom dove presto il mio servizio, c’è un altro ufficio che si occupa degli aiuti per la chiesa polacca che si trova nei paesi dell’Est. Il suo direttore, don Leszek Krzyża, conosce bene l’Ucraina. Per cui, in forza della nostra amicizia, abbiamo messo assieme i suoi tanti contatti nel paese con i molti aiuti che riceviamo noi missionari dall’Italia e da altrove.

I viaggi li abbiamo fatti assieme io e lui per capire a chi portare gli aiuti, cercando di non concentrarci in un solo luogo, ma di rispondere a tante richieste che arrivano da tutto il paese.

Nel secondo viaggio, a luglio, siamo arrivati a Kiev, visitando tra l’altro anche quei luoghi come Bucha in cui sono avvenuti dei massacri. È stata un’esperienza molto forte che mi ha fatto toccare con mano la crudeltà di questo conflitto.

Anche a novembre siamo tornati a Kiev, e poi, da Kiev siamo andati a Charkiv, la seconda città per grandezza dell’Ucraina, a soli 30 km dal confine russo.

Lì ho visto il senso di insicurezza che la popolazione vive costantemente. Sono sempre sotto attacco. Per questo motivo la città è sempre al buio, al pomeriggio spengono tutte le luci per non dare riferimenti visibili a russi.

I viaggi hanno lo scopo di incontrare le persone alle quali mandiamo gli aiuti. Attraverso la collaborazione con i vescovi locali in Ucraina, con i direttori delle Caritas, con religiosi e religiose, laici, persone che vivono sul posto, siamo in continuo contatto con le esigenze della gente.

Per l’inverno, una stagione già difficile di per sé, e resa ancora più difficile dai bombardamenti sulle centrali elettriche, uno dei nostri obiettivi è stato quello di portare generatori, pannelli di legno per chiudere le finestre rotte delle abitazioni, vestiti.

Con l’ultimo viaggio di gennaio, abbiamo iniziato ad andare anche più a Sud, per aiutare posti come Odessa, Mykolaiv, Kherson. Quest’ultima è stata liberata a novembre, ma è ancora sotto attacco da parte dei russi. Quindi vive una situazione umanitaria difficilissima. Anche lì cerchiamo di far arrivare tutto ciò che può portare un po’ di sollievo».

Distruzioni a causa dei bombardamenti. Incontriamo una bambina sorridente che si avvicina. Ai piedi a un solo pattino a rotelle. Le chiediamo dove sia l’altro pattino e lei ci risponde divertita, a casa.

La chiesa in Ucraina si sta dando molto da fare.

«Sì, è una testimonianza davvero bellissima e coraggiosa: religiosi, diocesani, suore, laici, famiglie. Molti sono di origine polacca, ma hanno deciso di restare. Sono sempre lì, notte e giorno, e rischiano la vita: a fine gennaio, ad esempio, un sacerdote e una suora della Caritas di Charkiv sono stati feriti mentre portavano aiuti in un villaggio vicino al confine.

La loro è la testimonianza di una chiesa che non scappa, non è lontana, non si perde in parole, ma, nella concretezza di questa realtà, offre sostegno».

Durante i viaggi hai avuto modo di parlare della guerra con molte persone.

«Parlo con molti. Non capiscono il perché del conflitto, sono stanchi. La speranza è che finisca presto, ma che finisca con un’integrazione delle componenti russe e ucraine, non con la separazione. La guerra non unisce, separa. Quello che si spera invece è che, finita la guerra, inizino dei percorsi di riconciliazione. Perché altrimenti non ci saranno i presupposti per far durare la pace. Basterà un fiammifero per far scoppiare un altro problema».

Distribuzione di cibo donato dai Missionari della Consolata in Polonia ai Frati Francescani Albertini di Zaporizia

Sfide inattese

Tu come hai vissuto questo impegno non previsto?

«La vita missionaria offre sempre sorprese inaspettate. Mai avrei immaginato di trovarmi in una situazione del genere. Però, di fronte a queste sfide cerco di rispondere dicendo eccomi, mi metto in gioco, quel poco che posso fare, lo faccio volentieri.

È un’esperienza che porterò per sempre con me nella mia vita di missionario».

Questa esperienza dell’Imc in Polonia cosa può dare al resto dell’istituto?

«Un istituto ad gentes risponde alle sfide che il mondo gli mette davanti, e credo che il nostro lo stia facendo, pur con tutte le sue fatiche e contraddizioni. In tutto il mondo, siamo in posti sfidanti. Non soltanto in Ucraina. Quello che vivo io in rapporto all’Ucraina, lo vivono tanti miei confratelli in altri contesti.

Sicuramente il tema dell’Est Europa, cruciale già oggi per il mondo intero, in futuro lo sarà sempre di più. Quindi credo che, se come Missionari della Consolata vogliamo essere sulle frontiere di quello che sta accadendo, sulle sfide più impegnative, non possiamo non esserci anche in questo contesto.

Un sogno dell’Imc è di fare un passo ulteriore a Est.

Ora si sta realizzando in questa forma. Vedremo in futuro quali saranno gli ulteriori possibili passi che si potranno fare».

Luca Lorusso

Distribuzione di aiuti alla popolazione in uno dei quattro spot organizzati dalla Caritas




Cinghiali (e lupi) alle porte di casa

In Italia, si stima la presenza di 2,3 milioni di cinghiali. I danni che producono sono enormi, ma la caccia libera non è la soluzione. Nel frattempo, anche sui lupi (pur presenti in poche migliaia ) si è aperta la discussione.

È un fatto che i centri abitati siano diventati molto attraenti per la fauna selvatica. Sempre più spesso, infatti, le nostre città si trovano a ospitare svariate specie di animali selvatici, diventati – per ragioni opportunistiche – tolleranti alla presenza umana. I motivi di questo fenomeno sono molteplici. Ad esempio, l’abbondanza di cibo scartato e di rifiuti organici dentro e fuori i cassonetti; la presenza di prede di piccola taglia, come topi o ratti, presenti in gran numero in strade e discariche, a loro volta presidiate dai gabbiani. Ci sono poi le condizioni climatiche cittadine più favorevoli rispetto a quelle che si trovano fuori dai centri abitati: in questi, solitamente, ci sono 1-2 gradi in più e, inoltre, ci sono meno vento e umidità. Anche l’acqua è più disponibile. Infine, qui si trovano tanti siti utilizzabili per la riproduzione. La tendenza all’inurbamento è tipica delle specie opportuniste o onnivore, che sono quelle più facilmente adattabili.

Tutto ciò può creare seri problemi di convivenza tra animali e umani, nonché il rischio di zoonosi, cioè di patologie causate da agenti patogeni trasmessi da animali, come nel caso della rabbia silvestre, trasmessa soprattutto dalle volpi (ma non solo da esse) e quello della peste suina, trasmessa dai cinghiali. Ecco, quindi, la necessità di controllare la presenza delle specie selvatiche vicino alle nostre abitazioni.

L’invasione dei cinghiali

Negli ultimi trent’anni, in Europa si è verificato un notevole incremento – sia numerico, che per distribuzione geografica – dei cinghiali. Originatosi in Eurasia e Nord Africa, si sta diffondendo in tutto il mondo. In Italia, sono ormai presenti ovunque, comprese le isole. Dal 1500 questa specie aveva subito una vera e propria persecuzione da parte umana, tanto per le trasformazioni ambientali, che per l’avvento delle armi da fuoco. Ne era derivata una sua progressiva diminuzione tanto che, all’inizio del XX secolo, i cinghiali erano presenti solo in nuclei isolati nelle regioni tirreniche del Centro e del Sud Italia, sul Gargano e in Sardegna. Nel 1919, la specie è però tornata sull’arco alpino, con la comparsa di alcuni esemplari giunti dalla Francia in Liguria e in Piemonte. Negli anni Cinquanta si sono verificate numerose immissioni di cinghiali provenienti dalla Slovenia in Friuli, a scopo venatorio e, sempre per lo stesso motivo della caccia, negli anni successivi tali immissioni sono proseguite con animali provenienti da allevamenti nazionali. Non è possibile conoscere il numero dei cinghiali attualmente presenti in Italia, a causa delle difficoltà e dei costi che comporterebbe un conteggio dei singoli capi. Tuttavia, secondo i dati più recenti dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), nel 2020 i cinghiali sarebbero stati circa un milione, raddoppiati rispetto al 2010, mentre, secondo Coldiretti, il sindacato dei piccoli imprenditori agricoli, nel 2022 il totale stimato sarebbe di 2,3 milioni.

I motivi di una così grande espansione del cinghiale in Italia sono dovuti sia alle immissioni a scopo venatorio, attualmente proibite (anche se ancora effettuate illegalmente in qualche regione del Sud), sia al progressivo spopolamento di vaste aree montane e rurali. Quest’ultimo fenomeno comporta sia una netta diminuzione del prelievo venatorio operato dall’uomo, sia una notevole sostituzione di terreni prima impiegati per l’agricoltura e la pastorizia con i boschi di vegetazione spontanea. Qui i cinghiali, che sono animali plastici e adattabili, possono trovare casa, benché il loro ambiente prediletto sia quello della macchia mediterranea, caratterizzato da vegetazione bassa e fitta, in cui possono nascondersi, come nel caso della smilacea, una pianta spinosa, tra i cui arbusti essi creano i loro viottoli. Peraltro, i cinghiali sono animali elusivi e intelligenti, capaci di sopravvivere in territori molto diversi tra loro e di cibarsi di un po’ di tutto, essendo onnivori opportunisti (benché la loro tendenza frugivora faccia prediligere loro ghiande, radici, tuberi, castagne in autunno-inverno e foglie, gemme e piccoli fusti in estate). Proprio perché sono animali opportunisti, quando le risorse naturali scarseggiano, i cinghiali, pur essendo considerati una specie sedentaria, sono capaci di percorrere anche decine di chilometri in cerca di cibo e, sempre più spesso, entrano nelle nostre città, attratti dai rifiuti organici presenti nei bidoni in strada. È chiaro che la loro presenza può essere percepita come pericolosa, anche se spesso la reazione umana risulta sproporzionata rispetto all’effettivo pericolo. Tuttavia, può capitare che una femmina di cinghiale con prole al seguito possa diventare aggressiva e quindi, se allarmata dalla presenza umana, attaccare l’uomo.

Inoltre, i cinghiali vanno nottetempo a compiere veri e propri scavi nei terreni da pascolo o agricoli, facendo razzia delle coltivazioni e arrecando gravi perdite economiche ad agricoltori e pastori. Si stima che i danni all’agricoltura in Italia, a causa dei cinghiali, dal 2015 al 2021 siano stati in media di circa 17 milioni di euro annui. Questa cifra non tiene conto dei danni (anche mortali) causati agli automobilisti negli incidenti stradali da essi provocati. Infine, occorre considerare il rischio di possibili infezioni trasmesse ai suini d’allevamento, visto che, dal gennaio dello scorso anno, i cinghiali sono stati individuati come i principali responsabili della diffusione della peste suina. Per tutto questo sono, quindi, moltissimi coloro che, a gran voce, chiedono il controllo e l’eliminazione di questi animali, indicando la caccia come soluzione. Siamo però sicuri che sia questa la strada migliore per risolvere il problema?

Una società matriarcale

In realtà, se consideriamo la biologia e lo stile di vita dei cinghiali, la risposta è certamente «no», anzi, con la caccia, si rischia di aggravare il problema invece di risolverlo. Infatti, nonostante il gran numero di capi abbattuti ogni anno (circa 300mila secondo l’Ispra), la loro popolazione continua ad aumentare. Per capire questo fenomeno, dobbiamo prendere in considerazione la biologia e l’ordine sociale dei cinghiali, che vivono in società matriarcali con a capo una femmina anziana, detta «matrona», che è la madre di tutte le altre femmine presenti nel branco e che è l’unica a riprodursi in condizioni normali, dal momento che essa emette particolari feromoni capaci di inibire la riproduzione delle femmine più giovani, impedendo che esse vadano in estro. La matrona normalmente si accoppia con il maschio più anziano, detto «salengano», che, pur essendo un animale potente, è caratterizzato da una bassa carica spermatica. Dalla loro unione nascono mediamente 4-6 cuccioli all’anno. Date le maggiori dimensioni delle matrone e dei salengani, essi sono le vittime predilette dei cacciatori, i quali, uccidendoli, privano il branco di controllo. In tal modo, le giovani femmine rimanenti entrano immediatamente in estro e si accoppiano con i giovani maschi ad alta carica spermatica. Il risultato è che in un branco, nel quale normalmente sarebbero nati solo i cuccioli della matrona, ogni anno ne nascono 20-30 dalle giovani femmine. Queste, per riprodursi, hanno soltanto bisogno di raggiungere i 30 chilogrammi di peso (indipendentemente dall’età), cosa piuttosto semplice vista la grande disponibilità di cibo sul territorio. L’età media di riproduzione delle femmine di cinghiale è scesa da 18 a 15 mesi. Quindi, è a causa delle battute di caccia che colpiscono gli animali più grandi e anziani, che ci ritroviamo popolazioni sempre più giovani e prolifiche.

L’intervento umano

Questo dimostra come spesso l’intervento umano in natura porti più danno che beneficio. Come se non bastasse, l’attività venatoria, oltre ad alterare l’organizzazione sociale dei cinghiali, ne altera la mobilità spingendoli verso le aree libere da cacciatori, come i luoghi abitati, i bordi delle strade e i parchi cittadini. Peraltro, bisogna distinguere la caccia sportiva dall’attività di controllo e dalla caccia di selezione. Mentre la prima è sostanzialmente un hobby, l’attività di selezione si fonda su basi ambientali ed è selettiva sugli animali da contenere scegliendo, in base a valutazioni biologiche ed ecologiche, quali colpire, utilizzando un’ampia strumentazione e non solo il fucile. La caccia di selezione è invece una via di mezzo tra le altre due. È effettuata da cacciatori, ma su base ecologica, per cui chi vuole diventare selecontrollore deve seguire dei corsi di formazione e superare un esame finale.

Tuttavia, è bene considerare che se ci sono voluti settant’anni per arrivare alla situazione attuale, questa non potrà essere risolta in breve tempo.

Come prevenire i danni

Sarebbe opportuno agire su più fronti. In primo luogo, limitare la pressione venatoria, per evitare il più possibile l’alterazione dell’organizzazione sociale dei cinghiali, che – come abbiamo visto – favorisce un maggiore numero di nascite. Inoltre, bisognerebbe predisporre delle aree libere dalla caccia, dove gli animali si sentano più sicuri e quindi invogliati a lasciare i luoghi abitati. Essenziale, inoltre, sarebbe evitare di lasciare i rifiuti organici in luoghi a loro accessibili, poiché la disponibilità di cibo non può che attrarli e rendere le giovani femmine più prolifiche.

Per quanto riguarda la prevenzione dei danni causati dai cinghiali all’agricoltura, potrebbe essere utile ricorrere a recinzioni elettrificate delle aree coltivate, così come la selezione oculata delle colture da impiantare. Infine, per la prevenzione degli incidenti stradali causati non solo dai cinghiali, ma dalla selvaggina in genere sono disponibili delle tecnologie piuttosto semplici, che percepiscono l’avvicinamento di un animale a bordo strada ed emettono luci e suoni, sia per spaventarlo che per avvisare gli automobilisti del pericolo. Il loro uso andrebbe sicuramente incentivato.

Prede e predatori

Poiché dove c’è la preda, lì si trova anche il predatore, ed essendo il cinghiale la preda per eccellenza del lupo, non poteva essere che quest’ultimo non facesse altrettanto rapidamente la sua comparsa vicino ai luoghi abitati.

In questi ultimi anni, sono stati numerosi gli avvistamenti vicino ai paesi o nelle periferie di grandi città in diverse zone italiane. Il lupo in Italia è una specie protetta, quindi non può essere oggetto di attività venatoria. Attualmente, in Italia si stima che ci siano circa 3mila lupi, mentre in Europa sarebbero circa 17mila. Le prede del lupo sono principalmente selvatiche ma, come noto, possono essere anche gli animali d’allevamento, soprattutto caprini e ovini, per l’estrema facilità di cattura. La totale protezione del lupo, in vigore in alcuni paesi europei, ha fatto sì che molti esemplari abbiano meno paura dell’essere umano; si parla di «lupi confidenti», che si addentrano nelle periferie dei centri abitati e fanno strage soprattutto di pecore e capre anche custodite all’interno di recinti, che questi predatori sono spesso in grado di saltare.

Da una parte, dunque, il lupo potrebbe essere alleato dell’uomo nel controllo dell’espansione dei cinghiali, dal momento che, come fanno spesso i grandi predatori, catturano più facilmente i piccoli che gli adulti. Per contro, i lupi causano gravi danni agli allevatori, anche perché sovente un singolo lupo che riesce a introdursi in un recinto di pecore o capre, ne uccide parecchie per cibarsi di una soltanto. Questo capita perché gli animali d’allevamento hanno perso i comportamenti delle prede selvatiche, quindi stanno fermi, oppure fuggono disordinatamente, mentre il lupo ha mantenuto le sue caratteristiche naturali di predatore, cioè è programmato per assalire l’animale oggetto di preda. Ecco perché è essenziale non fuggire di corsa dandogli le spalle. Tra l’altro, i lupi si avvicinano sempre più ai centri abitati seguendo anche le stagioni e le condizioni meteo, poiché sono le loro stesse prede, in particolare gli ungulati, a farlo. Normalmente l’inverno comporta carenza di cibo per gli animali selvatici, che tendono ad avvicinarsi maggiormente ai centri abitati. Secondo alcuni studiosi sarebbe opportuno derogare alla protezione assoluta del lupo, con degli abbattimenti controllati, in modo da riuscire a mantenere alta nel lupo la diffidenza verso l’essere umano.

Rosanna Novara Topino




La società-supermercato: lavora, guadagna, spendi


Nelle società attuali, il baratro della povertà è sempre incombente. Per tutti. Una possibile soluzione sarebbe il reddito universale. Tuttavia…

Nella società del supermercato, la possibilità di sprofondare nella povertà è sempre in agguato. Per tutti. Basta una ristrutturazione, una delocalizzazione, una recessione mondiale e tutto vacilla. In particolare vacillano i posti di lavoro che rappresentano la base della sopravvivenza per la maggior parte della popolazione.

Il discorso è vecchio: da quando l’economia è finita sotto il dominio dei mercanti, che hanno assunto anche il ruolo di produttori, è stato fatto ogni sforzo per espropriare le persone di qualsiasi modo di provvedere a se stesse, in modo da costringerle a non avere altra soluzione se non quella di vendere il proprio lavoro in cambio di un salario. Così è stata costruita la società del supermercato che funziona secondo l’imperativo: «lavora, guadagna, spendi».

Profitti e guerra tra poveri

Le imprese hanno un rapporto di odio con il lavoro perché esso è un diretto antagonista dei profitti. Per questo, fin dal sorgere della rivoluzione industriale le imprese si sono organizzate per abbattere il costo del lavoro, attraverso la doppia strategia dell’eliminazione e della riduzione: l’eliminazione del lavoro umano; la riduzione dei salari. La politica dell’eliminazione passa dallo sviluppo tecnologico con l’obiettivo di avere una predominanza della macchina sull’umano fino a creare linee produttive totalmente gestite da robot. La politica della riduzione salariale è più articolata e arriva fino a comprendere truffe, angherie, eversione contributiva. In questo, l’Italia è maestra: il 10,5% della ricchezza prodotta annualmente è ottenuta in nero.

L’arma prediletta per vincere la partita della riduzione salariale è però l’innesco della guerra tra poveri. Considerandolo una merce al pari di un cavolo o di un cappotto, il sistema pretende che anche il lavoro umano sia sottomesso alla legge della domanda e dell’offerta. Di qui l’interesse affinché il numero di persone che chiede lavoro sia sempre più alto dei posti disponibili. In altre parole, il mercato ha interesse a mantenere cronicamente un alto tasso di disoccupazione. I sindacati lo sanno: quando fuori dalle fabbriche c’è una lunga fila di persone che chiedono di essere assunte, non c’è nessuna speranza di far crescere i salari che anzi scenderanno. E se, fino a ieri, la strategia per creare disoccupazione era l’automazione, con la globalizzazione si è aggiunto

il trasferimento della produzione in altri paesi. Approfittando di un mondo terribilmente disuguale a causa di iniquità secolari, le imprese hanno cominciato a trasferire le produzioni meno qualificate e a più alta intensità di mano d’opera in paesi dove i salari sono dieci, venti, addirittura trenta volte più bassi che nei vecchi paesi industriali. E mentre in Europa, America del Nord, Giappone, si andavano perdendo milioni di posti di lavoro, un nuovo tipo di concorrenza si è impadronita del mondo. È la concorrenza fra lavoratori: i cinesi contro gli indonesiani, i bengalesi contro i cambogiani, gli italiani contro i polacchi, tutti contro tutti in un’assurda corsa al ribasso per accaparrarsi i pochi posti disponibili. Con grande soddisfazione della classe padronale che ora ha buon gioco a ricattare i lavoratori più pretenziosi, tacciandoli addirittura per privilegiati.

L’incubo della povertà. Foto Alĕs Kartal – Pixabay.

Da diritto a privilegio

La trasformazione dei diritti in privilegi è forse la forma più raffinata di manipolazione lessicale attuata dall’1% dell’umanità per soggiogare il restante 99%.

I risultati li conosciamo. Mentre in Italia la disoccupazione è attestata all’8% e quella giovanile attorno al 24%, la stabilità del lavoro non esiste più. Il contratto a tempo indeterminato è diventato un sogno irraggiungibile che in ogni caso deve prima passare per le forche caudine di innumerevoli contratti temporanei che permettono alle imprese di sbarazzarsi di chiunque provi a rivendicare i propri diritti. È tornato il lavoro a cottimo, il lavoro a chiamata, il subappalto, il falso lavoro autonomo che libera le imprese committenti dall’obbligo dei versamenti assicurativi e contributivi. In conclusione, se un tempo i poveri erano essenzialmente i senza lavoro, oggi se ne trovano tanti che, statisticamente parlando, sono classificati come occupati. Sono i cosiddetti «working poors», persone povere nonostante lavorino. Una definizione coniata dall’Organizzazione internazionale del lavoro negli anni Novanta per denunciare il lavoro malpagato nel Sud del mondo, che oggi, però, coinvolge anche il mondo ricco, con tassi preoccupanti.

I criteri di misurazione della povertà tengono conto di vari aspetti, fra cui il salario orario, le ore di lavoro, il carico familiare, per cui fornire un indicatore semplificato di livello di povertà è praticamente impossibile. Tuttavia, un rapporto del ministero del Lavoro, pubblicato nel novembre 2021, informa che, in Italia, un quarto dei lavoratori ha una retribuzione individuale bassa e più di un lavoratore su dieci si trova in situazione di povertà (cioè, vive in un nucleo con reddito netto equivalente inferiore al 60% della mediana). A questo va aggiunto che, secondo l’Istat, in Italia 8,8 milioni di individui (14,8% della popolazione) sono classificati come «poveri relativi», cioè hanno un livello di consumo inferiore al 50% della media nazionale. Di questi, oltre la metà (5,6 milioni di individui) sono addirittura «poveri assoluti», ossia non riescono a soddisfare neanche i bisogni fondamentali.

Contro la povertà

Questi dati ci dicono che urgono interventi contro la povertà che, a mio avviso, debbono muoversi su tre piani.

Il primo è quello del «tamponamento»: chi non dispone dei mezzi per vivere deve essere soccorso in maniera appropriata dalla struttura pubblica che deve organizzare l’aiuto in una logica di redistribuzione. Paolo Acciari e altri ricercatori hanno appurato che, in Italia, la quota di ricchezza privata posseduta dal 50% più povero (circa 25 milioni di individui) è retrocessa  dall’11,7%  nel 1995 al 3,5% nel 2016. Nello stesso periodo la quota dell’1% più ricco è salita dal 16% al 22% con beneficio soprattutto per lo 0,01% posto all’apice della piramide, appena 5mila individui, che hanno visto la propria quota crescere dall’1,8% al 5% del patrimonio totale. Tradotto in termini monetari, ciascuno di loro è titolare di un patrimonio medio pari a 83 milioni di euro, un valore 473 volte più alto della media nazionale.

Uno stato serio tiene l’attenzione costantemente puntata sul livello delle disuguaglianze e interviene tramite il fisco, il sostegno ai più poveri e il rafforzamento dei servizi, per riequilibrare le cose. In Italia le risorse per soccorrere i più poveri ci sono. Bisogna semplicemente avere il coraggio di andarle a prendere dove si trovano, ossia nelle tasche dei ricchi. Molto spesso, invece, si preferiscono fare operazioni stile capitalismo compassionevole che soccorre i poveri tramite l’apertura di nuovo debito pubblico. Esattamente come hanno fatto gli ultimi governi che hanno finanziato il reddito di cittadinanza a debito, ossia buttando il peso finanziario sulle spalle delle generazioni future. Scelta «vigliacca» di chi non vuole inimicarsi nessuno e governa alla giornata senza un progetto di società di lunga durata.  Dopo il soccorso, deve venire il sostegno all’autonomia e se decidiamo che la via dell’autosostentamento è quella del lavoro salariato, allora bisogna intervenire affinché il lavoro sia dignitoso. Non può essere, come succede oggi, che al senza reddito sia imposto l’accettazione di qualsiasi lavoro, qualcunque esso sia, sotto minaccia di sospensione di ogni forma di assistenza. Questa politica non fa altro che perpetuare la povertà. Al senza reddito bisogna offrire delle proposte di lavoro, ma deve trattarsi di lavoro dignitoso. Ecco perché il secondo piano di intervento di lotta alla povertà è l’imposizione alle imprese di nuove regole in materia di assunzione, di licenziamento, di tutela delle libertà sindacali e anche di salario minimo. In Italia abbiamo retribuzioni contrattuali, quindi legali, anche di cinque euro l’ora e chiunque le percepisca è condannato alla povertà, anche se lavora a tempo pieno. Dunque, va fissata per legge una soglia di salario minimo, sufficiente, come dice l’articolo 36 della Costituzione, ad «assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa».

Contemporaneamente, bisogna intervenire per ridurre, per legge, l’orario di lavoro, in modo da ripartire fra tutti il lavoro esistente. Le macchine stanno espellendo persone dai posti di lavoro e se di lavoro ne serve di meno dobbiamo ridurre la giornata lavorativa in modo da includere tutti. Keynes lo aveva già detto quasi cento anni fa. Tuttavia, sta crescendo anche il movimento di chi vorrebbe ripartire il reddito anziché il lavoro.

L’incubo della povertà. Foto Wilhan José Gomes – Pixabay.

Il reddito universale

È la proposta del reddito di base universale: un assegno dello stesso importo staccato a favore di tutti, vita natural durante, indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla situazione occupazionale e perfino dalla ricchezza. Una proposta che ha il merito di dichiarare tutti i cittadini uguali perché riconosce a tutti il diritto di ricevere un minimo vitale senza dover fornire nessuna altra giustificazione se non quella di esistere. Positiva anche perché porrebbe fine all’apartheid nei confronti dei lavori domestici e di cura della persona, che oggi non hanno alcuna considerazione sociale. Per di più potrebbe operare miracoli sul piano della qualità della vita, sia per la ritrovata sicurezza nei confronti della precarietà generata dal mercato, sia per la recuperata libertà di poter dedicare del tempo allo studio, al fai da te, alle relazioni affettive e sociali.

Il reddito di base potrebbe però essere letale per le casse pubbliche. È stato calcolato che, per garantire in Italia un reddito universale di 10mila euro all’anno, una cifra di poco superiore alla linea della povertà relativa, non a tutti, ma ai soli maggiorenni, ci vorrebbero 480 miliardi di euro, l’85% delle entrate tributarie. Che significherebbe la scomparsa dello stato come agente economico, col risultato di una società più insicura perché lascerebbe i cittadini soli di fronte ai bisogni fondamentali che non possono essere affrontati individualmente: alloggio, istruzione, sanità, infrastrutture. La conclusione sarebbe che chiederemmo allo stato di immolarsi sull’altare di un’azione redistributiva a esclusivo vantaggio del mercato, perché avremmo cittadini con più capacità di consumo individuale, ma totalmente sprovvisti di solidarietà collettiva, con grande gioia di banche e assicurazioni.

Servizi pubblici gratuiti

Personalmente, piuttosto che inseguire sogni impossibili, preferirei utilizzare le risorse disponibili per rafforzare i servizi pubblici da garantire gratuitamente a tutti. Non solo istruzione e sanità, ma anche acqua, energia, alloggio, trasporti. Una scelta che avrebbe un doppio vantaggio: per la sicurezza delle persone, e per l’occupazione. Per la sicurezza, perché quando si ha la garanzia dei bisogni fondamentali, non serve molto altro denaro per vivere. Per l’occupazione perché per produrre servizi serve personale. Il che smonta lo stereotipo secondo il quale solo le aziende private creano occupazione. In realtà, se la comunità si convincesse che è suo dovere garantire i bisogni fondamentali a tutti, diventerebbe il più importante motore di lavoro. La conclusione è che, se la comunità decidesse di diventare imprenditrice di se stessa per i bisogni fondamentali dei cittadini, libererebbe tutti dalla povertà e offrirebbe a tutti un’occupazione garantita.

Francesco Gesualdi




Giacobbe, il lottatore


Nei salmi e nei profeti ricorre molto frequentemente il nome di Giacobbe. È lui, infatti, chiamato anche Israele, a rappresentare l’unità del popolo ebraico: lui, il capostipite dei dodici patriarchi delle tribù d’Israele.

Potremmo immaginare che si tratti di una figura esemplare, magari raccontata in toni agiografici ed esaltati, ma, a leggere il libro della Genesi che in gran parte è dedicato a lui, si scopre una persona pessima, imbrogliona, violenta e pavida, anche se astuta e decisa.

Sotto la superficie, però, scopriamo anche un percorso di crescita umana molto moderno, con un approdo forse sorprendente e di certo profondo.

In lotta con il fratello

Giacobbe è il gemello di Esaù, nato prima di lui e con il quale ha combattuto fin dalla gravidanza, tanto che la madre aveva deciso di andare a «consultare il Signore» (Gen 25,22: non ci è dato sapere come), ottenendo come risposta: «Due clan nel tuo ventre e due popoli dalle tue viscere si separeranno. Un popolo prevarrà sull’altro popolo e il maggiore servirà il minore» (Gen 25,23). Giacobbe esce dal grembo aggrappato al tallone del fratello, come se avesse tentato fino all’ultimo di precederlo.

I due gemelli continueranno a confrontarsi e differenziarsi: Giacobbe, che preferisce restare nelle tende e coltiva la terra, è il cocco di mamma; Esaù, tutto peloso e rosso, amante della caccia, è il preferito di papà Isacco (figlio di Abramo). Il primogenito, al quale verrà trasmessa la benedizione divina, che erediterà la parte principale dei beni di famiglia, è Esaù. Questi, però, un giorno, mentre torna stanco e deluso dalla caccia, trovando Giacobbe a mangiare, gli offre la primogenitura in cambio di un piatto di minestra (Gen 25). Si potrebbe pensare a un semplice scherzo tra fratelli, ma quando più avanti il padre Isacco, ormai cieco, sente avvicinarsi la morte e chiede a Esaù di andare a cacciare e preparargli un piatto prima di ricevere la benedizione, la madre Rebecca, di nascosto, cuoce un capretto e pone sulle braccia di Giacobbe la pelle dell’animale, perché si spacci per il peloso fratello e ottenga la benedizione da primogenito (Gen 27).

A questo punto Giacobbe deve però fuggire per salvarsi la vita: viene allontanato da casa con la scusa di andare a scegliersi una moglie non tra gli abitanti del paese in cui Isacco è ospite straniero, ma nella terra da cui era venuto il nonno Abramo (Gen 28-29). Arriva nella zona di
Carran in cerca del cugino
Labano, trovando quasi subito sua figlia Rachele, che porta al pascolo le greggi e della quale si innamora immediatamente.

In lotta con il suocero

Giacobbe decide di chiederne subito la mano, ma si trova invischiato in un’altra famiglia problematica.

Il «prezzo» richiesto per il matrimonio da un padre sicuramente non ricco (altrimenti non manderebbe la figlia a pascolare), sono sette anni di servizio da parte di Giacobbe. Per una volta questi non decide per interesse e accetta. La notte delle nozze, però, «lo scaltro Labano» gli porta nella tenda nuziale, al buio, non la bellissima Rachele ma la sorella più vecchia, Lia «dagli occhi smorti». Al mattino, chiarisce a Giacobbe che non era consuetudine che la sorella più giovane si sposasse per prima, ma che avrebbe potuto sposare anche Rachele, in cambio di altri sette anni di servizio (Gen 29).

Giacobbe si trova così con due mogli, due sorelle che competono tra di loro per i figli, in quanto Rachele, pur amata, dapprima sembra sterile (Gen 30), mentre Lia, mal sopportata, gliene partorisce invece sette. Col il tempo Giacobbe, pensando di non essere gradito al suocero, progetta di andarsene, non prima di essersi procurato un gregge, di nuovo ottenuto con l’inganno (Gen 31). Quando infine parte, non lo fa alla luce del sole, ma di nascosto, approfittando dell’assenza del suocero, che lo inseguirà, cercando di ottenere indietro almeno gli amuleti sacri che Rachele aveva rubato per togliere al padre la protezione dei suoi dèi (ancora inganni, ancora falsità, ancora illusioni superstiziose).

Dove rifugiarsi?

A questo punto però Giacobbe deve decidere dove andare. Ha due mogli, un gregge numeroso, schiavi e schiave. È un uomo ricco, ora, ma non ha una patria. Decide di dirigersi verso l’antica terra del padre e del fratello, confidando che il tempo abbia calmato la rabbia e desiderio di vendetta di Esaù.

Mentre è per strada viene a sapere che Esaù gli sta venendo incontro. Il comitato d’accoglienza, però, è composto da quattrocento uomini armati.

L’ingannatore Giacobbe, che finora non si è fatto scrupolo di usare tutto ciò che poteva per il proprio interesse, salvo perdere la testa solo per la moglie Rachele, decide ora di sacrificare eventualmente anche lei. Divide infatti tutta la sua schiera in due gruppi, ognuno composto da una moglie, le sue schiave e schiavi, i figli e metà del gregge. E lui? Lui, come è opportuno che faccia ogni capofamiglia valoroso e sprezzante del pericolo… resta indietro. Invia doni a Esaù per placarlo e manda avanti tutta la sua famiglia e i suoi beni, ma non mette in pericolo se stesso. Anche la simpatia che potremmo provare nei confronti di uno scavezzacollo sbruffone e simpatico, viene probabilmente meno.

Fianco montagnoso della valle del Giordano (fto AfMC/Benedetto Bellesi)

Il guado dello Jabbok

Arriva però il momento in cui Giacobbe deve fare i conti con la propria vita.

Fin qui non si è fatto nessuno scrupolo di passare sopra le persone quando serviva ai suoi interessi. Per una sola, in realtà, aveva deciso di spendere quattordici anni della sua vita, cui ne aveva aggiunti altri sei. Ma anche quella amatissima moglie ha appena deciso di sacrificare, se servisse, in modo da salvare la propria pelle.

Sulla strada verso Canaan, però, arriva anche per lui il momento di attraversare lo Jabbok. Si tratta di uno uadi, ossia del letto di un torrente in secca per gran parte dell’anno, ma che, quando (raramente) piove sull’altopiano desertico da cui proviene, può diventare improvvisamente gonfio di acqua e impossibile da guadare.

Inoltre, in zone in cui la vegetazione è scarsissima, quell’acqua violenta ha scavato un solco molto profondo e stretto nella roccia, il che significa che attraversare uno uadi può voler dire restare esposti per molto tempo ai tiri di frecce di qualunque inseguitore. Fino a lì Giacobbe può immaginare di riuscire a scappare abbastanza agevolmente. Da lì in poi, rischia di restare in trappola.

Il libro della Genesi (32,25-32) racconta che per tutta la notte Giacobbe combatte con uno straniero, senza riuscire a batterlo. Il fortissimo, abile, vincente Giacobbe trova un ostacolo più forte di lui, che gli impedisce di attraversare lo uadi, mentre tutti i suoi sono già di là.

Uno scrittore moderno, forse, avrebbe descritto l’esperienza di Giacobbe parlando di una notte trascorsa nell’angoscia del dubbio, nell’incertezza. L’autore sacro invece di presenta Giacobbe in una lotta con un forestiero. Questi, quando si avvicina l’alba, gli chiede di lasciarlo andare.

Giacobbe accetta, ma solo dopo aver preteso di essere benedetto e di conoscere il nome dell’altro. Le due richieste sono ancora figlie del «vecchio Giacobbe», che si garantisce e premunisce. Per evitare che l’esito dello scontro sia una maledizione, chiede infatti di essere benedetto; per essere sicuro che l’altro poi non cambi le proprie parole, gli chiede il nome, così da poterlo maledire all’occorrenza.

Il forestiero lo benedice, però non gli svela il proprio nome. Colpisce Giacobbe all’anca (quindi poteva farlo anche prima?) e svanisce. Prima di andarsene, però, gli cambia il nome in Israele, «perché hai combattuto con gli uomini e con Dio e hai vinto». Solo adesso Giacobbe si rende conto di aver vissuto un’esperienza decisiva, di «aver visto Dio ed essere rimasto vivo», e si avvia, sia pure zoppicando, verso Canaan.

Giacobbe emerge dalla sua notte di prova decidendo di andare avanti, pur consapevole che stavolta non ha tutto sotto controllo, non ha garanzie, se non una parola di benedizione che è una promessa non impugnabile, non assicurata. Stavolta si trova di fronte alla scelta tra tenersi al sicuro perdendo tutto tranne la vita, oppure fidarsi dell’ignoto che è però illuminato da una sfuggente promessa. E decide per la seconda.

Un uomo nuovo

Il Giacobbe che ha visto Dio è diventato una persona nuova. Già in precedenza aveva avuto visioni, ma ne aveva ricavato semplicemente che Dio lo avrebbe protetto. Ora invece è una persona diversa.

Divide di nuovo il suo gruppo in due schiere, vedendo arrivare Esaù, ma questa volta passa davanti, accogliendo il fratello e mettendosi nelle sue mani.

Per la prima volta nella sua vita, Giacobbe rinuncia a mantenere il controllo della situazione, si affida all’altro. Non ha l’assicurazione degli amuleti, non ha vie di fuga, è solo e quasi nudo davanti all’arrivo del manipolo armato del fratello.

E il fratello arriva, lo guarda, scoppia in lacrime e lo abbraccia. Con il suo primo gesto di fiducia profonda, Giacobbe ha salvato i suoi e la propria vita, e impostato finalmente un rapporto fraterno con Esaù e una nuova relazione con Dio.

Certo, neppure il vecchio Giacobbe muore tutto in una volta: dopo l’incontro con Esaù, accoglie l’invito a risiedere in Canaan, ma non vuole stare nella sua stessa zona né camminare insieme a lui (non si fida ancora del tutto?). Intanto, dopo questa esperienza, sarà sempre più spesso un uomo portato in giro da altri. Crederà alla morte dell’amatissimo figlio Giuseppe, il primo figlio di Rachele (Gen 37,31-35), piangerà la morte di Rachele mentre gli partorisce il secondo e ultimo figlio, Beniamino (Gen 35,16-20), accetterà, pur in lacrime, che questi venga portato in Egitto come pegno per ottenere del cibo (Gen 42,36-43,15), e alla fine si lascerà portare là anche lui, controvoglia (Gen 46,1-7).

L’uomo tranquillo e sicuro di sé ha lasciato spazio a una persona che sa riconoscersi debole, che si affida alle scelte degli altri, che accoglie senza rabbia la sofferenza, che non si vergogna più della propria fragilità, perché ha imparato a fidarsi di un Dio che conosceva già, ma che pensava forse di poter usare come aveva fatto con tutto il resto.

Dopo aver visto Dio, Giacobbe è un vecchio zoppicante, piangente, debole, ma finalmente pronto a vivere in modo più adeguato la propria vita, a essere considerato il patriarca dei patriarchi, a farsi condurre dai figli e da Dio su un cammino di cui non vede la fine, ma nel quale sa che non sarà abbandonato.

Diventa così un modello di umanità anche per tutti i suoi figli spirituali, tra i quali anche noi: non nella forza, nel controllo e nella «scaltrezza» sta il segreto di una vita piena, fruttuosa, ma nello scoprire di che cosa potersi veramente fidare, nell’affidamento, nell’accoglienza anche della propria debolezza e limite. Nel legarsi alla parola di Chi non ci toglie fatica e lacrime, ma ci garantisce che l’esito sarà la nostra vita autentica.

Angelo Fracchia
(Camminatori 02-continua)




Davos in calo, diseguaglianze in aumento


Il 53° Forum economico mondiale di Davos si è svolto dal 16 al 20 gennaio scorsi. Il titolo di quest’anno, «Cooperazione in un mondo frammentato», suggeriva una maggior attenzione ai temi dello sviluppo e della cooperazione. Ma, al di là di qualche iniziativa isolata e limitata, i risultati non sono incoraggianti, specialmente in un tempo in cui le diseguaglianze aumentano ancora.

Nella sua più recente edizione, il Forum di Davos sembra essere tornato alle origini, quando era un evento per manager concentrato sull’economia e sulla finanza e non un vertice su temi geopolitici a cui partecipavano anche capi di stato e di governo. Lo ha scritto Liz Hoffman, ex cronista del Wall Street Journal che oggi scrive per Semafor, la newsletter di notizie fondata da Ben Smith e Justin Smith, due noti giornalisti statunitensi ed ex direttori rispettivamente del sito Buzzfeed e del gruppo di media Bloomberg.

L’European management forum, come si chiamava all’inizio, fu fondato nel 1971 su iniziativa dell’ingegnere ed economista tedesco Klaus Schwab per aiutare le aziende europee a mettersi al passo con le tecniche di gestione usate negli Stati Uniti. Nel 1987 cambiò nome in Forum economico mondiale (in inglese: World economic forum, Wef) e cominciò ad assumere un ruolo sempre più rilevante come evento di politica internazionale: «I leader greci e turchi qui hanno firmato l’accordo del 1988 che ha evitato una guerra», scrive sempre Hoffman su Semafor@.

«I ministri della Corea del Nord e della Corea del Sud si sono incontrati di persona per la prima volta dalla fine del loro conflitto. Shimon Perez e Yasser Arafat si sono dati la mano per una foto. In poco tempo, Davos è diventato il luogo in cui discutere della scarsità d’acqua e della disparità di reddito, un’era che ha raggiunto l’apice con la marcia per il clima di Greta Thunberg nel 2020».

Lo scorso gennaio, a Davos erano assenti molti dei leader mondiali: per gli stati del G7 era presente solo il cancelliere tedesco Olaf Scholz, mentre mancavano sia il presidente Usa, Joe Biden, che quello cinese Xi Jinping. La lista dei partecipanti, riportava Euronews a gennaio@, contava «2.700 persone, tra le quali 52 capi di stato o di governo, 19 governatori di banche centrali, e 116 miliardari, il 40 per cento in più rispetto a dieci anni fa». Fra questi ultimi, tuttavia, non figuravano quest’anno Bill Gates e George Soros, e l’Italia ha mandato solo il ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara.

Le iniziative lanciate a Davos

Negli anni, i dibattiti e gli incontri del Forum di Davos hanno anche portato al lancio di iniziative rilevanti nello sviluppo e nella cooperazione, come la nascita dell’Alleanza globale per i vaccini (Global alliance for vaccines and immunisation, o Gavi), che ha contribuito a vaccinare centinaia di milioni di bambini nel mondo.

Anche quest’anno, riporta il sito di approfondimento sui temi della cooperazione, Devex@, sono state avviate alcune iniziative di interesse per lo sviluppo. Una di queste è stata annunciata durante un evento dal titolo: «Sbloccare gli investimenti, non l’aiuto, per i mercati frontiera», cioè i mercati degli stati con sistemi economici più stabili rispetto ai paesi meno sviluppati, ma comunque più a rischio per gli investitori rispetto alle cosiddette economie emergenti.
Costa d’Avorio, Kenya e Tanzania sono tre esempi di mercati frontiera, mentre Sudafrica, Messico e Indonesia lo sono di mercati emergenti.

In questo evento, Samantha Power, che dirige l’agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, Usaid, ha annunciato@ il lancio di un fondo del settore privato che si chiamerà Enterprises for development, growth and empowerment fund (Edge) e che verrà finanziato dal governo Usa con 50 milioni di dollari.

Un’altra iniziativa emersa al Forum è la Coalizione dei ministri del commercio sul clima@, che è composta da 50 ministri di 27 giurisdizioni, con quattro capofila – Ecuador, Unione Europea, Kenya e Nuova Zelanda – e dovrebbe promuovere politiche commerciali utili a far fronte ai cambiamenti climatici attraverso iniziative locali e mondiali.

Grafico tratto dal rapporto di Oxfam sui trucchi dei ricchi per diventare più ricchi.
1. Compra un bene (asset), una compagnia che aumenti di valore e che non sia tassata almeno fino a quando non la vendi.
2. Usa la tua ricchezza per influenzare i politici e i media a tuo vantaggio.
3. Ignora le leggi sulle tasse, tanto le autorità non hanno la capacità di sfidarti.
4. Nascondi le tue entrate e ricchezze in paradisi fiscali.
5. Evita le tasse sull’eredità, ci sono tanti modi per passare senza imposte le tue ricchezze agli eredi.

Il rapporto Oxfam sulle diseguaglianze

Il 16 gennaio 2023, giorno dell’apertura dei lavori a Davos, la confederazione di organizzazioni non profit Oxfam ha pubblicato il rapporto Survival of the richest@ (Sopravvivenza dei più ricchi, ma nella sua versione italiana il titolo è La diseguaglianza non conosce crisi) e Gabriela Bucher, direttrice esecutiva di Oxfam international, il segretariato con sede a Nairobi che coordina la confederazione, ne ha presentato alcuni dei dati salienti proprio al Wef, durante la tavola rotonda dal titolo Reversing the tide of global inequality (Invertire l’ondata di disuguaglianza globale)@.

Il mondo sta assistendo a un’esplosione delle ineguaglianze, ha detto Bucher, la pandemia ha colpito un mondo già molto iniquo, ne ha esposto le fratture e le ha amplificate. Durante la pandemia c’è stata un’accelerazione nell’accumulazione nelle mani di quell’1% dell’umanità – ottanta milioni su otto miliardi – che detiene il 45,6% della ricchezza globale. Questa accelerazione si vede nella redistribuzione della nuova ricchezza creata nel biennio 2021-2022, in cui l’1% più ricco ha ottenuto il 63% di quella nuova ricchezza e il restante 99% della popolazione mondiale il 37%. Prima della pandemia, la proporzione era di circa metà ciascuno.

La soluzione non può venire solo dalla crescita economica, se la redistribuzione rimane così ineguale: «Che cos’è la prosperità e come la misuriamo? Ha a che fare con il Pil oppure con la vita delle persone? A San Paolo del Brasile, per esempio, due persone che vivono a pochi isolati di distanza possono avere un’aspettativa di vita di 22 anni diversa l’una dall’altra».

Occorre un intervento di tipo fiscale: un’imposta patrimoniale fino al 5% sui multimilionari e miliardari del mondo, si legge nel rapporto, permetterebbe di raccogliere 1.700 miliardi di dollari all’anno, sufficienti per far uscire dalla povertà due miliardi di persone e finanziare un piano globale per porre fine alla fame. E i super ricchi continuerebbero comunque ad arricchirsi: il tasso di accumulazione della ricchezza di cui hanno goduto, specialmente negli ultimi tre anni, è talmente elevato che l’aumento dei loro patrimoni sarebbe di gran lunga superiore alla quota che perderebbero per un prelievo del 5%.

Prendendo la lista dei miliardari del mondo stilata ogni anno dalla rivista Forbes e che quest’anno conta 2.668 nomi, Oxfam ha infatti calcolato due possibili scenari da oggi al 2030: nel primo, attraverso interventi fiscali e altre misure redistributive, la ricchezza totale dei super ricchi tornerebbe ai livelli del 2012, cioè a circa 5mila miliardi di dollari. Viceversa, se l’accumulazione dovesse continuare ai ritmi attuali, nel 2030 i membri della lista di Forbes controllerebbe un patrimonio netto complessivo pari a circa 30mila miliardi di dollari: il doppio di quello che, secondo le proiezioni dell’Ocse@, sarà il prodotto interno lordo dell’Unione europea fra sette anni. Già oggi, ricorda il rapporto, 81 uomini detengono più ricchezza del 50% più povero del pianeta e i 10 più ricchi fra loro possiedono di più di 228 milioni di donne africane messe insieme@.

Chiara Giovetti

 

Davos 2023, panel per sblocacre gli investimenti (da screenshot)

Davos 2023, panel sul ridurre le diseguagiianze (da screenshot)


28 marzo, Giornata mondiale della Tubercolosi

Il più recente rapporto sulla tubercolosi pubblicato dall’Organizzazione mondiale della sanità stima che nel 2021 si siano ammalate di tubercolosi (Tbc) 10,6 milioni di persone, +4,5% rispetto al 2020. I decessi sono stati 1,6 milioni, di cui 187mila tra le persone sieropositive all’Hiv. È stata la prima volta in diversi anni che i casi di tubercolosi sono aumentati, dopo una diminuzione costante fra il 2005 e il 2020. La pandemia da Covid-19 ha ridotto i servizi sanitari per molte malattie, ma il suo impatto sulla risposta alla tubercolosi è stato particolarmente grave. La conseguenza più ovvia e immediata, si legge nel rapporto, è stata un forte calo globale del numero riportato di persone con nuova diagnosi di Tbc. Con la malattia non diagnosticata e non trattata, più persone sono morte e sono aumentate le nuove infezioni.

La tubercolosi è una malattia trasmissibile che fino alla pandemia da Covid-19 era la principale causa di morte nel mondo provocata da un singolo agente infettivo, anche più dell’Hiv/Aids. La Tbc è causata dal bacillo Mycobacterium tuberculosis, che si diffonde quando le persone malate espellono i batteri nell’aria, ad esempio con la tosse. Si stima che circa un quarto della popolazione mondiale sia stata infettata, ma la maggior parte delle persone non svilupperà la malattia. Senza trattamento, che consiste nell’assunzione di antibiotici, il tasso di mortalità è del 50%. Esiste una forma di Tbc resistente ai farmaci caratterizzata da batteri che sono resistenti almeno all’isoniazide e alla rifampicina, i due farmaci più potenti contro la malattia@. Oggi esiste un solo vaccino autorizzato, il Bcg: permette di prevenire le forme gravi di tubercolosi nei neonati e nei bambini piccoli, ma non protegge abbastanza gli adolescenti e gli adulti, che rappresentano quasi il 90% delle trasmissioni di tubercolosi a livello globale. A settembre 2022, c’erano 16 vaccini candidati nei trial clinici: 4 in fase I, 8 in fase II e 4 in fase III.

La Tbc, ha detto Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, al Forum di Davos lo scorso gennaio@, è la malattia dei poveri, non è più un problema di salute pubblica nei paesi ricchi, dai quali però vengono le risorse necessarie a finanziare gli studi su vaccini e terapie.

Lo schema che vediamo spesso all’opera, ha ricordato Tedros, è quello osservato, ad esempio, con Ebola nel 2014: è bastato che un solo caso arrivasse in un paese ad alto reddito perché anche i paesi ricchi cominciassero a preoccuparsi, tanto che nel 2018, quando vi è stata un’altra ondata di infezioni in Repubblica democratica del Congo, l’impegno per contenerla e trovare un vaccino è stato immediato. Quanto alla pandemia da Covid-19, che fin da subito ha interessato paesi emergenti o ad alto reddito, lo sforzo per contrastarla è stato senza precedenti. Occorre suscitare anche per la lotta alla tubercolosi un simile livello di impegno: per questo il direttore dell’Oms ha annunciato a Davos l’intenzione di istituire un nuovo Consiglio per l’accelerazione della ricerca, cercando di coinvolgere «finanziatori, agenzie globali, governi e utenti finali nell’identificazione e nel superamento degli ostacoli allo sviluppo del vaccino contro la tubercolosi».

Per cercare di creare la volontà politica necessaria a rendere più rapida ed efficace la lotta alla malattia, il direttore del Fondo globale per la lotta contro Aids, tubercolosi e malaria, Peter Sands, ha suggerito alcuni punti di discussione. Il primo è fare leva con i paesi donatori sull’«argomento morale»: anche la tubercolosi è una pandemia; eppure, le risorse investite per contrastarla sono pochissime. Le persone colpite da Tbc non valgono il denaro che andrebbe speso esattamente come quelle colpite da Covid? Un’altra strategia, ha aggiunto Sands, è quella della paura: la tubercolosi ha dei tassi di mortalità che fanno sembrare il Covid una malattia moderata e, anche se la sua trasmissibilità non è nemmeno lontanamente comparabile a quella del coronavirus, l’esperienza di questi ultimi anni ci ha insegnato proprio che non si può contare sul fatto che la trasmissibilità rimanga sempre uguale. Per questo occorre accelerare i tempi per eradicare questa malattia il prima possibile.

Chi.Gio.

Tedros Ghebremesyos direttore generale dell’OMS intervine a Davos 2023 sulla tubercolosi (da screenshot)




Il tuo sguardo io cerco


È arrivato di corsa, affannato. Aveva una domanda che lo agitava: come faccio a non morire? Negli occhi la determinazione di ottenere una risposta e la convinzione di avere a suo vantaggio una vita ineccepibile, fin dalla giovinezza (cfr Mc 10,17-31).

Hai fissato lo sguardo su di lui. Ne hai contemplato la verità. E lo hai amato, cogliendone la miseria. «Una cosa sola ti manca», gli hai detto per indicargli la salvezza annidata proprio lì, nella grazia di avere una falla.

E gli hai offerto una via di uscita da sé: te.

Non mi ha stupito che, al tuo invito di lasciare tutto, il tale sia tornato sui suoi passi. Mi ha stupito, però, l’immagine del cammello che non passa nella cruna di un ago, e il tuo sguardo, questa volta fisso su di me: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio».

«Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito», ho detto allora per eludere quei tuoi occhi che mi mettevano a nudo.

«In verità io vi dico – hai aggiunto -: voi fate bene molte cose, mi seguite, avete lasciato tutto. Siete primi. Siete ricchi di opere giuste e sante.

Ora, però, i primi saranno ultimi e i ricchi saranno rimandati a mani vuote.

Sì, i primi saranno ultimi perché possano essere ristabiliti primi dal Padre, e i ricchi saranno rimandati a mani vuote perché abbiano la gioia di ritrovare la fame, e con essa i beni di cui essere ricolmati.

La vita eterna, infatti, non è un premio o una conquista, ma una realtà
donata dal Padre».

Mi guardavi ancora. «Nessuno è buono, se non Dio solo». E mi sono detto: il centuplo sei tu, la vita eterna è la tua vita in me e la mia in te. Lasciare tutto, allora, non è più lasciare qualcosa di mio per ricevere altro, ma lasciare che ogni cosa mia rimanga ciò che è: un tuo dono per me.

Buon cammino di Quaresima, a mani vuote, da amico

Luca Lorusso

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Fiori nei cannoni


La storiografia italiana sul «no» alle armi è ancora troppo ridotta rispetto al grande lavoro per la pace condotto nel nostro paese da molti attori. Alle panoramiche nazionali si affiancano studi utilissimi su luoghi specifici (come Torino) o personaggi che varrebbe la pena conoscere meglio.

Nella storia dell’obiezione di coscienza italiana, il 2022 che ci siamo lasciati da poco alle spalle ha coinciso con il cinquantesimo anniversario dalla promulgazione della legge 772/72, quella che ha riconosciuto l’obiezione di coscienza al servizio militare e istituito la possibilità di un servizio civile sostitutivo.

Per la storia dell’antimilitarismo italiano, quella dell’obiezione è stata una lotta di indubbio rilievo. Essa ha preso avvio nei primi anni del secondo dopoguerra e – nell’arco di un venticinquennio scandito dai processi agli obiettori e dall’attivismo intellettuale di un gruppo, piccolo ma prestigioso, di uomini di cultura – ha condotto a un risultato legislativo concreto: permettere che l’impegno richiesto dallo stato ai ragazzi maggiorenni potesse svolgersi non solo in forme militari ma anche nella modalità di un servizio civile.

Il caso torinese

Con Non un uomo né un soldo (Edizioni Gruppo Abele, 2022) Marco Labbate, ricercatore dell’Università di Urbino, ha ripercorso lo sviluppo di questa storia entro un ambito locale, quello torinese e piemontese.

Questa scelta ha la sua ragion d’essere nella considerazione di William G. Hoskins che Anna Tonelli riporta nelle prime righe della prefazione a questo libro: «Sempre più storici che lavorano su un quadro più grande hanno capito che per molte importanti domande nel loro campo le risposte dovranno essere ricercate negli studi al microscopio di regioni e luoghi particolari».

Il caso di Torino nella storia dell’obiezione di coscienza italiana si adatta perfettamente a questo schema, perché il piano locale e quello nazionale si intrecciano di continuo e servono a illuminarsi reciprocamente.

Da un lato, Torino può essere definita una capitale dell’obiezione di coscienza, dal momento che alcuni fatti che lì si sono svolti hanno avuto un rilievo nazionale: un esempio su tutti, il processo a Pietro Pinna, primo caso mediatico nel 1949 di obiettore di coscienza nell’Italia repubblicana, che portò l’obiezione al centro del dibattito pubblico.

Il Tribunale di Torino è stato poi teatro anche di altri importanti processi e dell’attivismo di Bruno Segre, che può ritenersi l’avvocato per antonomasia degli obiettori italiani.

Dall’altro lato, aspetti, temi, istanze di carattere nazionale hanno avuto una ricaduta nel contesto della realtà torinese. La contestazione dei cappellani militari, ad esempio, svoltasi in tutta Italia, ha registrato manifestazioni di protesta anche nel capoluogo piemontese. Segno di un serrato confronto sui temi della pace e della guerra che si è giocato in quegli anni all’interno dello stesso mondo cattolico e che ha rappresentato un aspetto non secondario della storia in questione.

Le lotte per i diritti civili

Il libro ricostruisce, dunque, con grande dettaglio e precisione, il microcosmo piemontese delle lotte per l’obiezione e degli attivisti e dei movimenti che le hanno portate avanti. Contribuisce, quindi, a chiarire questa vicenda nel suo complesso nazionale e rappresenta una sorta di integrazione a un altro libro dello stesso autore uscito in precedenza, Un’altra patria (Pacini, 2020), che ha come oggetto la storia dell’obiezione di coscienza sull’intero territorio italiano, tra il 1945 e il 1972, al momento lo studio più completo al riguardo.

Nella sua prospettiva d’insieme, la storia dell’obiezione al servizio militare può essere intesa come parte di un movimento più ampio di lotte per i diritti civili che hanno contribuito a consolidare le libertà individuali nel cammino dell’Italia repubblicana e a rafforzarne l’impianto democratico nel solco della Costituzione.

Obiettare negli anni ‘30

Non va dimenticato che, se è vero che l’obiezione di coscienza ha raggiunto la fase culminante della propria storia in età repubblicana a partire dalla fine degli anni Quaranta, è però altrettanto vero che, nei decenni precedenti, alcuni casi di obiettori avevano già fatto la loro comparsa.

Se ne possono trovare, ancorché pochi, sia negli anni della prima guerra mondiale, sia in epoca fascista.

Tra questi, ad esempio, figura Claudio Baglietto, amico di Aldo Capitini, il maggiore teorico della nonviolenza nell’Italia del Novecento.

Baglietto, all’inizio degli anni Trenta, sembrava avviato a una brillante carriera accademica alla Normale di Pisa, ma il corso delle cose sarebbe stato stravolto da un suo gesto dirompente: in seguito al conseguimento di una borsa di studio nel 1932, si recò a Friburgo dove decise di non fare più ritorno in Italia per non essere costretto a svolgere il servizio militare.

La morte lo colse ancora molto giovane a Basilea, nel 1940.

Da poco tempo un libro a più mani, esito di un convegno di studi e curato da Magda Tassinari, sua pronipote, e Beppe Olcese, intitolato Guerra, pace, nonviolenza. Attualità di Claudio Baglietto, Biblion, 2022, ci ha permesso di conoscere un po’ meglio la storia della sua vita, spesa all’insegna di una tensione morale che meriterebbe maggiore notorietà.

Pacifismo italiano

Si può, infine, considerare il tema dell’obiezione di coscienza con uno sguardo più ampio, che permetta di valutarne la sua storia inserendola all’interno dei movimenti pacifisti e antimilitaristi sviluppatisi in Italia nell’intero secolo XX.

È un tema del quale la ricerca storiografica italiana si è occupata raramente e nel quale molto rimane ancora da esplorare e da indagare con metodo critico.

Uno degli studi di riferimento a cui rimandare resta quello di Amoreno Martellini, Fiori nei cannoni (Donzelli, 2006), che fornisce un quadro d’insieme entro il quale collocare lo sviluppo delle idee pacifiste e nonviolente nell’Italia novecentesca, cercando di tratteggiare i principali itinerari sociali, politici e culturali sui quali si sono mosse. Tra questi, uno dei più rilevanti è, senza dubbio, l’ambito dell’obiezione di coscienza all’uso delle armi e alla sistematica preparazione della guerra.

Massimiliano Fortuna