Popolazione e ambiente


In questa seconda puntata dedicata al tema demografico, affrontiamo le relazioni tra crescita della popolazione e impatti sull’ambiente. Con una evidenza: i poveri hanno molti più figli, ma la loro responsabilità sulla crisi ecologica è inferiore a quella dei ricchi.

Inumeri non sempre sono veritieri e niente lo dimostra meglio dell’argomento popolazione. Ad esempio, stando alle rilevazioni, la nazione più popolata del pianeta risulta essere la Cina che ospita 1 miliardo e 450 milioni di persone. Ma se mettiamo la popolazione a confronto con il territorio disponibile, scopriamo che lo stato a più alta densità, ossia con più alta concentrazione di popolazione, è il Principato di Monaco con 18mila persone per chilometro quadrato. La Cina arriva 84ª con 151 persone per chilometro quadrato. Un numero che la colloca dopo Malta (8ª), l’Olanda (27ª), la Gran Bretagna (52ª), la stessa Italia che si trova al 75° posto.

In conclusione, la popolazione la si può guardare sotto varie angolature, con graduatorie che cambiano di continuo.

 

L’equilibrio perduto

Con il passare dei decenni, un problema si è fatto sempre più acuto, quello che riguarda l’impatto della crescita demografica sull’ambiente. Salvo casi straordinari, come quello dell’isola di Pasqua che, attorno al 1400, fu deforestata per fare spazio alle statue note come moai, l’umanità ha sempre vissuto in equilibrio con il pianeta.

In altre parole, il prelievo di risorse e la produzione di rifiuti avveniva in maniera tale da rispettare la capacità della natura di rigenerare le risorse rinnovabili ed assorbire le sostanze di scarto. Un equilibrio che però ha cominciato a rompersi nel corso del secolo scorso, come conseguenza di un sistema economico che, in maniera ossessiva, aveva come unico obiettivo la crescita di produzione e consumo noncurante dei limiti del pianeta. Un’ossessione che ci ha portato a tutti i disastri ambientali che conosciamo oggi. In particolare, all’esaurimento di risorse, sia di tipo rinnovabile che non rinnovabile, e all’eccesso di rifiuti, primo fra tutti l’anidride carbonica il cui accumulo in atmosfera sta provocando i cambiamenti climatici.

Lentamente, stiamo capendo che questi ultimi sono un problema serio, ma quello che ancora ignoriamo è che le conseguenze non saranno uguali per tutti. Qualche assaggio, è vero, lo abbiamo anche in Europa con perdita dei ghiacciai, lunghi periodi di siccità, straripamento di fiumi, ma i veri drammi stanno avvenendo e, sempre di più, avverranno altrove.

Geografi e climatologi ci avvertono che le aree più esposte ai danni derivanti dai cambiamenti climatici saranno quelle del Sud del mondo con effetti diversificati: in alcune regioni il problema maggiore sarà l’aridità, in altre l’eccesso di acqua.

Fra le aree destinate ai danni da aridità c’è l’Africa mediterranea e subsahariana che sta già registrando una riduzione di piogge con inevitabili conseguenze sull’agricoltura e quindi sulla sicurezza alimentare.

Mentre metà della popolazione africana già vive in condizione di insicurezza alimentare, si teme che i cambiamenti climatici ridurranno le rese agricole del 30% entro il 2050. E, tuttavia, l’aumento di popolazione farà crescere la richiesta di cibo del continente del 50%.

L’Asia meridionale è l’altra grande area dove i cambiamenti climatici produrranno gravi conseguenze sia in ambito agricolo che sociale, ma per ragioni opposte a quelle dell’Africa.

In questa zona si assisterà a monsoni caotici e violenti che provocheranno vaste inondazioni e distruzione di tutto ciò che i venti troveranno lungo il proprio percorso. Fenomeni che paradossalmente produrranno anche scarsità di acqua potabile, perché le inondazioni dreneranno nei fiumi fertilizzanti e altre sostanze chimiche che avveleneranno le loro acque. Contaminazione aggravata dall’innalzamento del livello del mare che allagherà i campi con acqua salata compromettendo irrimediabilmente la loro fertilità. Le zone più a rischio sono le coste solcate dai delta. In particolare, si teme per il Bangladesh, paese piatto e densamente popolato con una grande quantità di famiglie ancora dipendenti dall’agricoltura. Se il livello del mare dovesse innalzarsi di 45 centimetri, come potrebbe succedere se non si riuscisse ad arrestare la crescita della temperatura terrestre, l’11% del territorio bengalese potrebbe essere invaso dal mare, con gravissime conseguenze umane, sociali ed economiche. Secondo alcune previsioni, da qui al 2050, in Bangladesh i cambiamenti climatici potrebbero costringere una persona su sette ad abbandonare la propria casa, per un totale di 18 milioni di sfollati.

Ciò che stiamo imparando dai cambiamenti climatici, se mai ce ne fosse bisogno, è che i processi naturali trascendono i confini politici creati dagli umani. Effetto serra, venti, correnti marine, sono fenomeni di tipo planetario che possono avere la propria origine in un punto del globo e provocare i propri effetti in un altro.

Le emissioni di CO2

Dal 1850 al 2011 l’umanità ha prodotto qualcosa come 1.500 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (CO2) attribuibili per il 27% agli Stati Uniti, mentre l’Unione europea se ne intesta un altro 24%. In termini di popolazione, gli Usa rappresentano solo il 4,2% della popolazione mondiale, mentre l’Unione europea il 5,6%. Da un punto di vista storico la Cina ha contribuito solo per il 13% delle emissioni globali, mentre la sua popolazione rappresenta il 18% della popolazione complessiva.

Quanto all’Africa, la sua partecipazione alle emissioni di CO2 è stata appena del 2%, ma la sua popolazione rappresenta oltre il 16% di quella mondiale.

La dimostrazione pratica di come i ricchi abbiano inquinato e i poveri ne paghino le conseguenze.

Oggi il maggiore emettitore di anidride carbonica in termini assoluti è la Cina che si intesta

il 27% delle emissioni annuali globali. Per correttezza dovremmo precisare che buona parte delle sue emissioni
andrebbero ascritte a consumatori di altre nazioni perché nella nuova geografia internazionale del lavoro, la Cina è stata ormai eletta a fabbrica mondiale.

Ma, pur sorvolando su questo aspetto, se distribuiamo le tonnellate di anidride carbonica emesse dalla Cina per i suoi abitanti, otteniamo un’emissione pro capite annuale di 7,3 tonnellate. Gli statunitensi, invece, ne producono mediamente 14,5 a testa, mentre gli europei 6.

Si calcola che, per rimanere in equilibrio con il pianeta, nessuno dovrebbe emettere più di 2,2 tonnellate di anidride carbonica pro capite all’anno, per cui la Cina è come se avesse una popolazione 3,3 volte superiore a quella che di fatto ospita. La popolazione degli Stati Uniti, invece, è come se fosse 6,5 volte più alta mentre quella dell’Unione europea 2,7 volte più elevata.

In altre parole, prendendo come riferimento le emissioni ammissibili, è come se la Cina ospitasse 4,7 miliardi di individui invece di 1,4, gli Stati Uniti 2,1 miliardi invece di 332 milioni e l’Unione europea 1,2 miliardi invece di 447 milioni.

La conclusione è che, contando le teste, oggi la Cina risulta avere una popolazione quattro volte più alta degli Stati Uniti. Contando le emissioni pro capite di anidride carbonica è come se ne avesse solo il doppio. Quanto all’Africa, che emette anidride carbonica corrispondente a una sola tonnellata a testa, è come se avesse 650 milioni di abitanti invece di 1,4 miliardi.

L’impronta ecologica

Molti altri aspetti potrebbero essere presi in considerazione per valutare la dimensione reale di ogni nazione: il consumo di acqua, il consumo di risorse e di cibo, i rifiuti prodotti. Ma ce n’è uno che in qualche modo li ricomprende tutti ed è la così detta impronta ecologica. Un concetto elaborato da alcuni ricercatori americani per valutare l’impatto dei nostri consumi sulla natura.

Più precisamente, l’impronta ecologica misura la quantità di terra fertile utilizzata da ogni individuo per sostenere i propri consumi. Purtroppo, noi abbiamo perso il contatto con la natura e abbiamo dimenticato che gran parte dei nostri consumi proviene dalla terra. L’esempio più evidente è il cibo. Ma anche la carta affonda le sue radici nella terra perché proviene dagli alberi. Perfino l’anidride carbonica che esce dalle nostre marmitte può essere espressa in metri quadrati di terra, perché è riciclata dalle piante. Ad esempio ogni volta che bruciamo un litro di benzina abbiamo bisogno dell’intervento di 5 metri quadrati di foresta.

Facendo tutti i conti, si scopre che ogni americano utilizza ogni anno 8 ettari di terra fertile, mentre un bengalese 0,8. Gli italiani stanno nel mezzo con 4,7 ettari.

Se prendiamo l’insieme delle terre fertili del mondo e le dividiamo per la popolazione terrestre, troviamo che ogni abitante può avere un’impronta di 1,5 ettari. All’incirca un terzo della popolazione terrestre sta sotto, ma poiché i benestanti sono largamente al di sopra, nel complesso l’impronta media mondiale è di 2,7 ettari che è l’80% più grande di quella ammissibile. Come dire che un pianeta terra non ci basta più. Già ora ce ne servirebbero quasi due. Non a caso l’anidride carbonica si sta accumulando nell’atmosfera per l’insufficiente presenza di organismi vegetali capaci di assorbirla.

In conclusione, se valutiamo la popolazione delle singole nazioni in base alla loro impronta ecologica, cambia tutto.

La popolazione cinese si rivaluta dell’80% passando da 1,4 miliardi a 2,6 miliardi. Quella statunitense si rivaluta del 433%, passando da 332 milioni a 1,7 miliardi. Quella italiana si rivaluta del 146% passando da 59 milioni a 145 milioni. Al contrario, quella indiana si riduce del 20% passando da 1,4 miliardi a 1,1.

Fertilità versus eccessi

Troppo spesso attribuiamo la responsabilità degli squilibri naturali a chi fa molti figli. Ma dimentichiamo che le popolazioni ad alta fertilità sono anche quelle con tassi di consumo e di inquinamento al di sotto della soglia di sostenibilità.

Per risolvere i problemi dell’umanità, piuttosto che puntare il dito contro di loro faremmo bene a mettere in discussione i nostri eccessi.

Francesco Gesualdi
(seconda puntata – fine)




Mosè, in faccia a Dio


Ci sono personaggi biblici che ci costringono a spiegare chi sono, per quale motivo sono importanti e dove andarli a rintracciare. Altri, invece, sono molto conosciuti e si ergono in tutta la loro maestosità spaventandoci quasi per quanto sono solenni e centrali. Tra questi spicca senza dubbio Mosè, colui che parlava faccia a faccia con Dio come con un amico (Es 33,11), colui che può riassumere in sé tutta la legge («Mosè e i profeti» è una sintesi dell’Antico Testamento utilizzata dallo stesso Gesù in Lc 16,29).

Raccontare tutto ciò che si dice nella Bibbia di questo uomo centrale è impossibile. Ma per suggerire che cosa la sua vicenda possa insegnare anche a noi e al nostro cammino di fede, può essere sufficiente concentrarci sulla sua chiamata, e poco di più.

Doppio traditore?

Le vicende della vita di Mosè sono narrate in gran parte nel libro dell’Esodo (che abbiamo approfondito nelle 20 puntate di questa rubrica durante il 2021 e 2022, ndr). Da questo veniamo a sapere della persecuzione scoppiata contro gli ebrei da parte del faraone egizio, che avrebbe richiesto alle levatrici di eliminare alla nascita tutti i maschi (Es 1). Mosè, dapprima nascosto dalla madre, viene poi affidato alle acque del Nilo e salvato dalla figlia del faraone, la quale chiamerà ad allevare questo piccolo ebreo, senza saperlo, proprio la sua madre naturale (Es 2).

Fin qui sembrerebbe una storia avventurosa e non senza precedenti. Tutti nell’antichità sapevano che era stato salvato dalle acque, allo stesso modo, anche Sharru-kin, chiamato da altri Sargon, ritenuto il fondatore e il più grande re dell’Impero accadico intorno al XXIII secolo a.C.

Ma il mondo biblico ci stupisce sempre un po’. Lungi dall’indulgere a toni celebrativi o agiografici, la Bibbia, come sempre, ci presenta una vicenda, quella di Mosè, che proprio perfetta non è.

Ci viene narrato, infatti, che questo ebreo cresciuto alla corte del faraone, dopo essere uscito a vedere che cosa accadeva nel regno, incontra una guardia egizia che percuote un ebreo, e la uccide (Es 2,12). Anche se il Dio degli ebrei aveva vietato di uccidere ben prima della legge che avrebbe dato loro sul Sinai (Gen 9,5-6), nelle tradizioni umane un gesto di questo tipo è normalmente considerato eroico. Però Mosè non legge nel proprio gesto un atto di riscatto o l’occasione per acquisire un ruolo accanto ai suoi fratelli, anzi, al contrario, lo nasconde, e, quando il giorno dopo, scopre che in giro si sa dell’omicidio (Es 2,13-14), fugge nel deserto. Qui, nei pressi di un pozzo, incontra la sua futura moglie, Sipporà. Questa è figlia di un sacerdote, Ietro, il che potrebbe sembrare uno sviluppo nobilitante per Mosè, ma di fatto si tratta di un sacerdote di una tribù di pastori seminomadi, i Madianiti, stanziata nelle zone più povere del deserto. Lo stesso Ietro, peraltro, non deve essere in una situazione più florida dei suoi conterranei, se al pascolo deve mandare le proprie figlie nubili.

Insomma, l’inizio della vicenda di Mosè è segnato da un omicidio, una fuga e una «sistemazione» in un contesto di emarginati poveri e insignificanti. Tradisce chi lo ha allevato, senza unirsi ai suoi consanguinei; uccide e non se ne pente, ma ha paura delle conseguenze; si accasa in un contesto nobile, ma di un popolo disprezzato. E dopo essere cresciuto alla corte del faraone, inizia a fare il pastore per il proprio suocero (Es 3,1).

L’incontro e la chiamata

È qui che accade l’incontro che gli stravolge la vita. Mosè vede da lontano un rovo che brucia ma non si consuma, e decide di avvicinarsi a controllare. Inizia la vicenda della chiamata dell’uomo più importante dell’Antico Testamento. Sarà qualcosa di stravolgente e unico? Potrà insegnarci qualcosa?

Di certo possiamo dire che tutto inizia da un Dio che inscena qualcosa di straordinario (un fuoco che non consuma), ma perché la straordinarietà del segno venga colta c’è bisogno di attenzione e disponibilità da parte di Mosè, che vede il fenomeno e decide di non tenersene fuori, ma di avvicinarsi a vedere (Es 3,2-3).

Qui Dio lo chiama, svelandogli di aver visto l’oppressione del suo popolo e di voler intervenire. E inizia uno dei dialoghi più imprevisti e sorprendenti di tutta la Bibbia, tra Dio e un uomo.

Il Signore condivide, infatti, con il pastore improvvisato i propri piani: Mosè farà uscire il popolo di Dio dalla sua schiavitù e lo condurrà in una terra che verrà liberata dagli attuali occupanti, anche se quel popolo neppure si ricorda di essere stato legato in passato a quello stesso Dio.

In situazioni del genere altri personaggi biblici si mettono entusiasticamente a disposizione. Mosè no. La prima obiezione è che gli ebrei chiederanno come si chiama il Dio che vuole liberarli. È l’occasione per una delle definizioni divine più affascinanti e sfuggenti: «Sono (ma anche ero, sarò) ciò che sono (ero, sarò): tu dirai agli israeliti che “Io sono (ma anche ero, sarò)” mi ha mandato a voi» (Es 3,14).

Sfugge da qualunque definizione, si limita a dire che ci sarà, che resterà in relazione, che il popolo vedrà ciò che farà, aspetto, questo, più importante di qualunque nome o descrizione.

Mosè però non è soddisfatto. Dice che non gli crederanno. Dio allora gli insegna tre prodigi da compiere per mostrarsi credibile (Es 4,1-9), ma Mosè obietta ancora di non essere capace a parlare bene ottenendo in risposta l’osservazione che è stato Dio a plasmare la sua bocca, e che suo fratello Aronne potrà parlare al posto suo (Es 4,10-16).

A questo punto, Mosè decide di parlare in modo chiaro ed esplicito: «Signore, manda chi vuoi mandare» (Es 4,13), che nel modo di esprimersi dell’ebraico sottintende «… ma non me; manda un altro». Mosè ha finito le obiezioni, ma non vuole essere inviato. Dio, dal canto suo, si arrabbia, ma poi gli prospetta la soluzione, e gli rinnova l’invio.

Il più grande uomo sulla terra, colui che parlava con Dio faccia a faccia… non avrebbe voluto ascoltarlo, ha tentato di tutto per sottrarsi alla chiamata. E Dio si è anche irritato, ma non lo ha castigato, ha ribattuto con altre argomentazioni, si è impegnato alla pari con l’uomo. Dio ha un piano, un progetto, ma non agisce indipendentemente dall’uomo, chiede e insiste per avere la sua approvazione e collaborazione.

Il chiamato diventa colui che chiama

Non accompagniamo Mosè in tutto il suo percorso: i primi colloqui con il faraone, le piaghe, la notte di Pasqua, la fuga con tutto il popolo, il passaggio del mare, il cammino nel deserto tra sete fame e mormorazioni, la salita sul monte, il ritorno a valle e la scoperta che il suo popolo, non vedendolo arrivare, si era fuso un vitello d’oro da adorare.

Due episodi ulteriori però ci possono insegnare molto.

Proprio quando Mosè scende dal Sinai e trova il popolo in festa intorno a un idolo, sembra che sia Dio stesso a perdere definitivamente la pazienza: «Mosè, basta. Io adesso li distruggo. A te darò un altro popolo, e sarai grande. Ma questi, sono irrecuperabili» (Es 32,9-10).

A questo punto il Mosè timido e pigro, che aveva paura di sfidare il faraone, obietta a Dio stesso: «Perché dovresti distruggerli? Vuoi che si dica che non sei stato capace di nutrirli nel deserto? Ricordati delle promesse fatte ai patriarchi…» (Es 32,11-14). E Dio cambia idea, si pente.

È Mosè a ricordargli la sua parola, la sua dignità, il suo ruolo.

È Mosè a richiamare Dio ai propri doveri. Mosè, come un amico, alla pari, ricorda a Dio la sua vocazione. Era stato il Signore a insistere e argomentare perché l’uomo assumesse la propria chiamata, è l’uomo ora a rammentarla a Dio, come in un rapporto, appunto, tra amici.

Vedere Dio

Quindi, dopo aver riconfortato l’Altissimo, Mosè si occupa delle cose umane, stroncando con durezza il culto del vitello…

Subito dopo, però, e prima di tornare sul monte per riscrivere le tavole divine che ha spezzato, Mosè esprime un desiderio assolutamente comprensibile, dopo tanta strada e tante avventure insieme: «Mostrami la tua gloria» (Es 33,18).

L’uomo che ha guidato un popolo intero in imprese inimmaginabili, che parla faccia a faccia con Dio, chiede di poterne vedere la gloria. Questa non è semplicemente l’esaltazione di qualcuno, ma il suo senso profondo, la sua immagine più autentica e intima. Mosè chiede di capire Dio, ricerca e domanda che possiamo comprendere benissimo (noi potremmo dire, in termini diversi e più laici, che vogliamo cogliere il senso di ciò che facciamo).

E Dio, che da Mosè si è lasciato convincere e convertire, si nega. «Nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20), che a prima vista interpretiamo come «Chi mi vede, muore».

Il Signore ha tuttavia un piano di riserva: «Passerò davanti a te, coprendoti il volto. Vedrai solo le mie spalle, dopo che sarò passato» (v. 22).

Questa ultima indicazione aiuta forse a comprendere meglio il brano, anche alla luce del senso esistenziale che possiamo riconoscervi. Dio si può vedere solo alle spalle, dopo che è passato, dopo che ha già agito. In fondo, è ciò che ci accade con tutto ciò che è più autentico e profondo nelle nostre esistenze: ne cogliamo appieno il senso e il valore quando si sono chiuse, quando l’esperienza non è più attiva. Ecco che allora l’affermazione divina ha un doppio valore. Da una parte, si potrebbe parlare pienamente di Dio solo quando tutta la storia con lui si fosse chiusa, quando fosse conclusa e definita. Dall’altra, Dio sostiene che, almeno da parte sua, finché ci sarà vita, lui non si tirerà fuori dalla storia della relazione con Mosè, o con gli altri esseri umani. Si può vedere la gloria di Dio, il suo volto, solo morendo, perché solo allora, nella morte, si potranno tirare le somme definitive. Dio, infatti, non ha intenzione di ritirarsi dal rapporto con noi, e ci resterà sempre accanto, tutti i giorni della nostra vita. Non quindi «Chi mi vede, muore», bensì: «Per vedermi pienamente, occorre essere morti».

E noi?

C’è quindi qualcosa che possiamo imparare dal grande padre Mosè?

Di certo cogliamo che Dio non privilegia i perfetti, chi non ha dubbi o incertezze o limiti. Mosè è pieno di difetti, eppure diventa l’«amico di Dio». Non conta la perfezione, ma la capacità di mettersi sempre in discussione, in cammino.

E la vita di Mosè, a ben vedere, non si presenta neppure essa come perfetta: al di là delle colpe, dei limiti di parola o di carattere, guida per più di quaranta anni il popolo nel deserto ma muore prima di arrivare alla terra promessa. Eppure, resta colui con cui Dio parlava faccia a faccia. Dio non misura la nostra vita sulla qualità o quantità delle nostre realizzazioni, ma sulla profondità della relazione (anche complessa e contorta) con lui. E se non è lui a «giudicarci» sui nostri risultati, perché dovremmo farlo noi?

Angelo Fracchia
(Camminatori 04-continua)




Un gemito inesprimibile


Com’è possibile sperare ancora, Signore? Ci guardiamo attorno e vediamo l’intera creazione che geme e soffre le doglie del parto. E insieme a essa, gemiamo anche noi (Rm 8).
Cosa sperare ancora, in questo tempo che pare uccidere il futuro? Su questa Terra scossa da crisi ambientali, pandemie, conflitti armati, disastri naturali, carestie di umanità?

Possiamo attenderci ancora la salvezza? Una qualsiasi salvezza?

Il mondo attende la rivelazione dei figli di Dio. Ma cosa riveleranno?

Ci salveranno dalla morte? Saranno in grado di guarire le ferite che da troppo tempo aspettano di essere rimarginate? Oppure ci chiederanno di rassegnarci, in attesa dell’aldilà?

Questo ti domandi mentre cerchi nelle tenebre i segni di un’alba che tarda. E senti un soffio che ti lambisce il cuore, un canto che ti abbraccia, una preghiera insistente che intercede per te. È un gemito inesprimibile. Ti tenta con l’invito di sostituire l’angoscia con la pace.

La speranza è quella di non morire? O quella di vivere? Di resistere alla morte, o di attraversarla scoprendola abitata, iniettata di Lui.

Se Lui ti salva, ti salva dalla morte, o nella morte?

Quello che speriamo, non lo vediamo. Ciò che il nostro cuore teme ingombra la visuale, e ciò che desidera pare impossibile.

Hai sentito dire che le ferite possono diventare feritoie. Cosa puoi vedere se ci guardi attraverso? Vedi Lui e il suo amore da cui ha origine ogni cosa e nel quale tutto è ricapitolato e custodito. La vita eterna già oggi.

E fiumi di acqua viva sgorgano dal tuo seno (Gv 7,38).

Buon cammino nello Spirito, da amico

Luca Lorusso


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Le frontiere del mondo


Ogni giorno, 400 milioni di container attraversano il globo. Carichi di tutte le merci lecite (come ananas, o scarpe) e illecite (come droghe, o armi), per essi non esistono frontiere. Se si vuole capirne qualcosa, si trovano muri, filo spinato e, a volte, militari armati.

A ndrea Bottalico è ricercatore, redattore di «Napoli Monitor» e di riviste di inchiesta sociale.

Si era già occupato delle condizioni di lavoro nei cantieri navali con Il fuoco a mare. Ascesa e declino di una città-cantiere del sud Italia (Monitor edizioni, 2016).

Quest’ultimo libro Le frontiere del mondo. Viaggio nella filiera del container, apparentemente breve, è in realtà ricchissimo di notizie, riflessioni e interrogativi.

Spazia su un’estensione geografica internazionale delineando le caratteristiche di numerosi porti – da Genova, Gioia Tauro, Marsiglia, Beirut, Anversa, a Rotterdam – di cui descrive gli aspetti strutturali popolandoli di abitanti che ne identificano il contesto sociale ed economico.

Il linguaggio scorre, il discorso non ha intoppi. L’oggetto del racconto è complesso, ma è molto apprezzabile l’insieme dato da profondità investigativa e buona scrittura, integrate con l’oggettività del reportage.

Bottalico traduce i dati della sua ricerca in narrazione, con una storia che si snoda nel tempo.

I personaggi si animano via via che il narratore si trova immerso nelle realtà, inaspettatamente sconosciute e misteriose, in cui svolge la sua analisi.

L’inventore dei container

Un primo bandolo per dipanare il racconto è offerto dal personaggio che diede inizio alla storia dei container: Malcolm Purcell McLean. Autotrasportatore di origini scozzesi, nato nel 1913 nella Carolina del Nord (Usa), con i suoi risparmi McLean comprò un camion di seconda mano e fondò nel 1934 una piccola impresa per il trasporto di prodotti agricoli, la McLean Trucking.

In pochi anni divenne proprietario di una flotta di 2mila camion e trenta terminal sul territorio degli Stati Uniti.

La sua fortuna dipese dalla messa in pratica di una sua intuizione sulla gestione del traffico internazionale delle merci: se invece di scaricare le merci dai camion per caricarle ogni volta sulle navi, si fossero caricati direttamente i rimorchi dei tir sulle navi, si sarebbe risparmiato tempo, denaro, lavoro.

Lo sviluppo dei container nacque da questa semplice osservazione.

Banane e cocaina

Raccontando le vicende di McLean, Bottalico sottolinea che «il vero affare delle compagnie di trasporti non è gestire navi o treni, ma spostare la merce». Presenta così la vera protagonista del suo libro: la merce.

«Oggigiorno più di quattrocento milioni di container si spostano in tutto il mondo trasportando il 90% di ogni cosa e irrorando il globo di prodotti».

La merce viaggia in incognito dentro enormi scatole di metallo, in quantità e con velocità crescenti. Questa accelerazione produce un impatto enorme a livello globale sulle relazioni sociali, gli ambienti di lavoro, le dinamiche di potere, l’ambiente.

Una delle tante pecche di questa pervasività è il fatto che, a fronte dell’enorme numero di container, si effettuano controlli sul loro contenuto su meno del 2%.

«Di conseguenza – aggiunge Bottalico – è possibile trovare cocaina all’interno di un container che trasporta ananas, o carne, o frutta esotica, o frutti di mare, o caschi di banane, e armi all’interno di un container di sacchi di cemento, o bobine di carta, e così via. Lecita o illecita, la merce si confonde tra la merce […] oltrepassando le frontiere a ritmi sempre più frenetici e secondo logiche precise anche se contorte, attraverso una fitta rete di società […], holding finanziarie e intermediari di varia natura, trafficanti e multinazionali […]».

Recinzioni e filo spinato

Bottalico trasmette un’idea della complessità del sistema merce ponendo domande alle quali non riceve risposte (cosa c’è in quel container? dov’è diretta quella nave? chi ha in concessione quell’area portuale?) e offrendo, pagina dopo pagina, confronti tra i porti (dalle banchine genovesi controllate dai camalli alle piattaforme deserte di Rotterdam) e dialoghi occasionali (il camionista che veglia di notte la sua merce, il marinaio che attende di imbarcarsi, lo spedizioniere che gestisce flussi logistici sull’intero pianeta).

Le descrizioni quasi fotografiche dei luoghi fanno da scenario, aiutando chi legge a trovare appigli in un discorso nel quale la merce continuamente sfugge.

«La strada parallela alla banchina – scrive Bottalico del porto di Gioia Tauro (RC) – è attraversata da camion pieni di cassette della frutta che cercano di evitare i fossi. Da quelle parti le gru si possono osservare meglio insieme alle navi ormeggiate in banchina. Un cancello alto e lungo crea una sorta di cintura con sofisticati sistemi di sorveglianza che separano il caleidoscopio portuale dal mondo di fuori. I militari presidiano l’ingresso di un’azienda. Si possono sentire i rumori delle operazioni di sbarco e imbarco, oltre le cancellate e le recinzioni che delimitano l’area portuale con filo spinato e le telecamere».

«Vago per un po’ in un labirinto per poi ritrovare la strada – racconta Bottalico di Rotterdam -. I duecento ettari del terminal con le sue quarantuno gru […] si riescono a scorgere appena sulla sponda opposta in lontananza. Più mi avvicino e più mi rendo conto della loro imponenza […]. Al lato opposto del terminal un antico mulino e alle spalle del mulino le due torri di raffreddamento della centrale nucleare di Doel. Il villaggio si trova nel mezzo, tra il terminal, il fiume e la centrale, intorno a un’area grande tremila campi di calcio».

Un libro da leggere e rileggere per apprezzare la varietà di storie, persone e paesaggi, per soppesare l’impossibilità di tracciare e controllare la merce e percepirne la pervasività e l’ormai inarrestabile espansione distruttrice.

Elena Camino

Ecco altri tre libri e un film per approfondire:

  • Sergio Bologna, Tempesta perfetta sui mari. Il crack della finanza navale, DeriveApprodi, Roma 2017, pp. 217, € 18.
  • David Abulafia, Il grande mare. Storia del Mediterraneo, Mondadori, Milano 2017, pp. 695, € 25.
  • Giorgio Nebbia, La violenza delle merci, Ecoistituto del Veneto Alex Langer, Venezia, 1999, pp. 48.
  • Allan Sekula, Noël Burch, The Forgotten Space, Icarus Film, New York 2010.




Freddy, un cyclone lungo un mese


Il ciclone Freddy ha colpito Malawi, Mozambico e Madagascar tra febbraio e marzo, e ha causato centinaia di vittime, travolto case e inondato campi. Ma ha anche distrutto centri sanitari e sistemi idrici in paesi che già erano in grande difficoltà a causa di un’epidemia di colera.

È durato più di un mese il ciclone Freddy, dal 4 febbraio al 14 marzo 2023, affermandosi come uno dei più lunghi di sempre, e ha colpito l’Africa sudorientale provocando 499 vittime in Malawi, 165 in Mozambico e 17 in Madagascar.
Si è formato sull’Oceano indiano, al largo della costa nordoccidentale dell’Australia, e ha percorso ottomila chilometri toccando terra una prima volta in Madagascar il 21 febbraio, e poi di nuovo il 24 febbraio e l’11 marzo in Mozambico@.
Secondo il Sistema globale di allerta e coordinamento in caso di catastrofi, struttura nata da una collaborazione fra Nazioni Unite, Unione europea ed Eurosat, i venti sono arrivati a 250 chilometri all’ora nel tratto a est delle Mauritius@, e intorno ai 170 chilometri orari all’approdo in Madagascar e nel secondo approdo in Mozambico. La popolazione in qualche modo esposta agli effetti del ciclone è stata di 2,9 milioni di persone.

Nei giorni successivi al dissiparsi del fenomeno, gli sfollati in Malawi avevano superato il mezzo milione, mentre in Mozambico erano oltre 163mila le persone ospitate in vari centri di accoglienza nelle province di Zambezia, Sofala, Tete, Inhambane e Niassa@.

«Per quanto riguarda la nostra zona», scriveva lo scorso marzo monsignor Diamantino Guapo Antunes, missionario della Consolata e vescovo di Tete, «nei distretti di Doa e Mutarara, nelle pianure e sulle sponde dei grandi fiumi, molte persone hanno perso la casa, hanno perso tutto. Centinaia di edifici sono crollati a causa della forza del vento e della pioggia. La situazione peggiore è l’alluvione provocata dall’esondazione dei fiumi Chire e Zambesi: l’intera regione è allagata, compresi i campi coltivati. Le strade sono interrotte, così come la ferrovia Beira-Tete».

Epidemia di colera

Il ciclone si è abbattuto su Malawi e Mozambico quando entrambi i paesi stavano affrontando un’epidemia di colera, cominciata a marzo 2022, e ha complicato le operazioni di contrasto alla diffusione dell’infezione, anche perché molte strutture sanitarie hanno subito danni.

Il dipartimento per la gestione delle catastrofi del Malawi segnalava@ infatti 81 strutture danneggiate, di cui 74 funzionanti ma non accessibili e 7 in cui il servizio era sospeso. In Mozambico, secondo l’Istituto nazionale di gestione e riduzione del rischio di catastrofi, i centri sanitari danneggiati erano 53, di cui 50 nella sola Zambezia@.

L’epidemia di colera in corso è definita dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) come la peggiore nella storia del Malawi. Lo scorso marzo Ifrc Go, la piattaforma della Croce rossa e Mezzaluna rossa internazionale per l’informazione sulle emergenze, riferiva che erano 54.677 le persone colpite dalla malattia nei precedenti 12 mesi trascorsi dal primo caso registrato (3 marzo 2022) e le vittime erano state 1.682@.

Quanto al Mozambico, il portale di informazione umanitaria Reliefweb riportava che la cifra cumulativa delle persone colpite dal colera dall’inizio dell’epidemia era di 11.158 in otto province, con un aumento di 479 casi in un solo giorno; le vittime erano state fino a quel momento 51. Dei 38 distretti colpiti dal colera, 37 segnalavano un focolaio ancora attivo e gli operatori umanitari impegnati sul campo si dicevano preoccupati anche di un possibile aumento delle malattie trasmesse attraverso l’acqua, come la diarrea e la malaria.

Ciclone e colera

L’Oms ha diffuso un avvertimento che descrive l’attuale epidemia di colera come una pandemia che mette a rischio un miliardo di persone in 43 paesi. Nel complesso, i casi in Africa sono stati circa 80mila in 15 paesi nel 2022 e, a gennaio di quest’anno, erano già 26mila in dieci paesi. Le vittime sono state 1.863 l’anno scorso e 660 quest’anno.

La diffusione del colera sembra a sua volta avere un legame con un precedente fenomeno meteorologico estremo, la tempesta tropicale Ana, che ha colpito il Malawi nel gennaio dell’anno scorso. Janet Kayita, rappresentante dell’Oms a Lilongwe, ha detto alla rivista The Lancet Microbe che «le piogge torrenziali e le inondazioni» causate da quel ciclone, così come «i danni estesi ai sistemi idrici e sanitari e il sovraffollamento, hanno creato le condizioni perfette per un’epidemia di colera»@.

Il colera, infatti, è una malattia provocata da un batterio, il vibrio cholerae (vibrione del colera), che si trasmette attraverso l’ingestione di acqua o cibo contaminati dal materiale fecale di individui infetti.

Scarse condizioni igieniche, assenza di impianti fognari adeguati e mancanza di acqua potabile, dunque, sono elementi che aumentano il rischio di contagio.

Inoltre, nel trattamento della malattia, che ha come principale sintomo la diarrea e provoca una rapida disidratazione, è fondamentale avere accesso ad acqua pulita per permettere la reintegrazione dei liquidi e dei sali persi. Per questo, la distruzione dei sistemi idrici, conseguente a un evento estremo come un ciclone, non solo aumenta le probabilità di contagio ma rende più difficile curare le persone che si sono infettate@.

Quattro cicloni in cinque anni

Freddy è il più recente dei fenomeni estremi che hanno colpito queste zone. Soltanto negli ultimi cinque anni ce ne sono stati una decina, di cui almeno cinque hanno provocato vittime e sfollati e creato danni a edifici e infrastrutture per decine di milioni di dollari.

Nel 2019 i due cicloni Idai e Kenneth hanno causato almeno mille morti e costretto 2,2 milioni di persone a sfollare, risultando così uno dei peggiori disastri naturali in Africa meridionale dall’inizio del secolo.

Nel 2021 ci sono state due tempeste tropicali, Chalane e Eloise, mentre nel 2022 la regione è stata colpita dalla tempesta tropicale Ana approdata in Mozambico il 24 gennaio 2022, e dal ciclone Gombe, a marzo dello stesso anno.

Dopo Idai e Kenneth, anche Missioni Consolata onlus ha sostenuto la ricostruzione di alcune delle case andate distrutte a Tete@.

«Anche stavolta c’è bisogno di tutto, cibo compreso», ha detto a marzo monsignor Antunes a proposito degli effetti del ciclone di quest’anno, «ma soprattutto è urgente pensare al dopo e mettere le persone in condizione di avere una seconda stagione di semina: dobbiamo fornire loro sementi il prima possibile, così che possano iniziare a coltivare appena le inondazioni saranno finite».

Un freno allo sviluppo

Il Mozambico, riportano ormai in modo abbastanza unanime diversi studi, è uno dei paesi più esposti agli effetti del cambiamento climatico@. La frequenza degli eventi estremi è aumentata negli ultimi anni e, stimava la Banca mondiale già nel 2019@, il paese potrebbe perdere 440 milioni di dollari all’anno soltanto per le inondazioni.

L’impatto del ciclone Freddy non è ancora stato calcolato in modo definitivo, ma Idai e Kenneth combinati avevano causato danni e perdite per 3 miliardi di dollari e avevano imposto costi di ricostruzione per 4,3 miliardi di dollari, in uno stato il cui prodotto interno lordo nel 2021 era pari a 15,8 miliardi di dollari.

Il Mozambico sta anche affrontando un conflitto nella provincia settentrionale di Cabo Delgado, dove dal 2017 una milizia islamista affiliata allo Stato islamico (Isis) sta affrontando l’esercito mozambicano e i suoi alleati nella regione, fra cui Rwanda e Sudafrica. Il conflitto ha finora provocato oltre 4.500 morti e un milione di sfollati e rifugiati.

Chiara Giovetti


Foto da vari autori e testimoni  inviate dal vescovo di Tete, monsignor Diamantino Antunes.



3 maggio, Giornata mondiale della libertà di stampa

Quest’anno ricorre il trentesimo anniversario dell’istituzione della giornata mondiale della libertà di stampa, proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1993 in risposta alla «Dichiarazione di Windhoek». La dichiarazione deve il suo nome alla capitale della Namibia, dove fu adottata il 3 maggio 1991 da un gruppo di giornalisti africani che partecipavano a un seminario dell’Unesco dal titolo: «Promuovere una stampa africana indipendente e pluralista», e due anni dopo il giorno della dichiarazione venne scelto per celebrare la giornata mondiale.

Il tema di quest’anno è: «Shaping a future of rights: freedom of expression as a driver for all other human rights» (Plasmare un futuro di diritti: la libertà di espressione come motore per tutti gli altri diritti umani). Gli eventi principali si svolgono alla sede dell’Onu di New York. Fra questi c’è la consegna del premio internazionale per la libertà di stampa Unesco-Guillermo Cano, dal nome del giornalista colombiano Guillermo Cano Isaza, direttore del giornale El Espectador, assassinato nel 1986 di fronte alla sede del giornale da sicari al servizio del cartello di Medellín guidato dal narcotrafficante Pablo Escobar e dai suoi associati.

Alla data di chiusura di questo articolo non è noto il vincitore del premio, dal valore di 25mila dollari; nel 2022 è stato assegnato all’Associazione dei giornalisti bielorussi come dimostrazione di sostegno ai «giornalisti di tutto il mondo che criticano, si oppongono e smascherano politici e regimi autoritari trasmettendo informazioni veritiere e promuovendo la libertà di espressione», come ha ricordato Alfred Lela, presidente della giuria internazionale del premio. Nel 2021, invece, il premio era andato a Maria Angelita Ressa, giornalista filippina naturalizzata statunitense che nello stesso anno aveva anche vinto, insieme al collega russo Dmitrij Muratov, il premio Nobel per la pace@.

Nel 2021, si legge nel rapporto dell’Unesco Journalism is a public good (Il giornalismo è un bene pubblico), i giornalisti uccisi sono stati 55, in calo rispetto al 2020 (62) e dimezzati rispetto al dato più alto nel periodo considerato (2010- 2021), cioè quello del 2012, quando ne furono assassinati 124. Aumentano invece i giornalisti in carcere, 293, il dato peggiore nei dodici anni presi in esame.

Nel quinquennio dal 2016 al 2020, il paese in cui sono stati uccisi più giornalisti è il Messico (61), seguito da Afghanistan (51), Siria (34), Yemen (24), Iraq e Pakistan (entrambi a 23).

I paesi arabi sono quelli con il tasso di impunità più elevato per gli omicidi dei giornalisti: il 98 per cento dei casi, infatti, rimane irrisolto@.

Secondo l’organizzazione non governativa International Press Institute (Ipi), che monitora la libertà di stampa nel mondo e tiene traccia degli abusi subiti dal personale dei media dopo l’invasione russa dell’Ucraina, in Russia sono 169 i giornalisti fermati, arrestati, indagati o sotto processo dall’inizio della guerra@.

Chi.Gio.

 




Sommario MC Maggio 2023

La rivista è online dal 14 maggio.


Editoriale

Cuore e verità

Le cifre parlano: 58 giornalisti uccisi nel 2022, 48 scomparsi, 65 trattenuti in ostaggio, 533 incarcerati, di cui 110 in Cina, 47 in Iran, e 169 giornalisti fermati, arrestati, inda­gati o sotto processo in Russia dall’inizio della guerra. Quasi quasi fare il giornalista è più pericoloso che fare il missionario. Un «mestiere», quest’ultimo, che ha il suo bel numero di vittime, come ricordato il 24 marzo scorso nella «giornata dei martiri»: 18 nel 2022, 22 l’anno prima, 20 nel 2020, con il record di ben 40 nel 2018, senza contare quelli «scomparsi», come padre Paolo Dall’Oglio in Siria nel luglio 2013.

Il 3 maggio ricorre la «giornata mondiale della libertà di stampa» proclamata dall’Onu, e il 21 la «giornata mondiale delle comunicazioni sociali», celebrata dalla Chiesa ne mondo, per la quale papa Francesco ha proposto il tema «Parlare col cuore. Secondo verità nella carità (Ef 4,15)».


Dossier

Parola di re

Marocco: successi e debolezze.
Viaggio nel paese maghrebino.
Dio, nazione, re

Nonostante i progressi e la presenza di un islam relati­vamente moderato, il Marocco rimane un paese con gravi problemi sociali e strutturali. Tra cui un’agricoltura molto arretrata, un elevato tasso di disoccupazione giovanile e una dinamica politica limitata. Tutte le decisioni essenziali rimangono nelle mani di una sola persona, re Mohammed VI.


Articoli

Il Papa in Sud Sudan.
È il tempo dei fatti

Dopo il Congo, papa Francesco è andato in Sud Sudan, insieme all’incaricato della Chiesa di Scozia, Iain Greenshields, e all’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby. Un viaggio progettato da tempo, ma che era stato rimandato per motivi di sicurezza. Monsignor Carlassare, comboniano, vescovo di Rumbek, ci racconta le sue impressioni.

(Photo by TONY KARUMBA / AFP)

Dadaab. Il campo profughi più grande d’Africa.
La città dei tendoni

Da 32 anni è una città fatta di ripari di fortuna, in mezzo al deserto. Ci abitano 350mila persone, e gli arrivi continuano. Intanto la guerra in Europa ha dirottato in Ucraina parte delle risorse. Alcune Ong e agenzie Onu continuano a dare assistenza a una popolazione (di rifugiati) che non può farcela da sola.

Il gruppo «donne di parola» si racconta in un libro
Donne che scrivono la storia

Cosa accade quando le vicende della gente comune si incontrano con la grande Storia? Ce lo illustrano le autrici de «Le storie siamo noi». Una preziosa operazione di riscatto della memoria e della tradizione orale, in cui emerge il ruolo di avanguardia delle donne, protagoniste spesso dimenticate.

Popoli indigeni e missionari
Mai fare tabula rasa

Un missionario racconta come è cambiata la propria percezione delle popolazioni autoctone. Un nuovo atteggiamento che ha dato buoni frutti. Per esempio, con il popolo dei Nasa, in Colombia, nella regione del Cauca, dove l’Imc è presente da quasi quarant’anni.

L’ecocolonialismo della transizione energetica
Idrogeno in Amazzonia

Una centrale elettrica a idrogeno nel cuore della foresta pluviale guianese. In nome della transizione energetica si rischia di devastare l’ambiente e uccidere l’identità originaria dei popoli indigeni.

 

Una guerra d’occupazione: il dramma degli sfollati
Nord Kivu senza pace

Nell’est del secondo paese africano per superficie, tra i più ricchi di risorse, imperversano gruppi armati sostenuti da paesi confinanti. Gli stessi sono alleati della Rdc a livello regionale. Le contraddizioni sono forti. Come pure non si spiega la presenza della missione Onu per la pace che in 23 anni non ha dato risultati. Ce ne parla un attivista per i diritti umani di Goma.

Luacano, ricostruire dalle macerie della guerra
Gocce di speranza

I Missionari della Consolata sono arrivati nel 2018 a Luacano, diocesi di Luena nella provincia di Moxico. Proprio nella regione dove, sedici anni prima, aveva avuto i suoi momenti conclusivi la guerra civile che ha stravolto la vita del paese dal 1975 al 2002 lasciando pesanti distruzioni e numerosi campi minati.

 


Rubriche

Noi e Voi

Nonviolenza e guerra in Ucraina

Pubblichiamo lo scambio di mail tra un nostro lettore e Pasquale Pugliese, autore dell’arti­colo «La guerra dei sonnambuli» uscito su MC di gennaio. Ringraziamo i due per averlo condiviso con noi e i nostri lettori.

Sudafricano con i sudafricani

L’annuncio della scomparsa, il 14 marzo 2023, di padre Rocco Marra ha portato una grande nube di tristezza su molti, sia missionari che laici nella delegazione (il gruppo dei 25 missionari della Consolata, ndr) del Sudafrica/eSwatini.

Una rivista che parli a tutti

Scrivo queste righe a lei perché da sempre, non da oggi, ho apprezzato lo spessore educativo della rivista. […] In conclusione, MC ha uno spessore di contenuto morale educativo molto elevato.

Nell’agenda di Gianni

La sua rubrica esordì su MC nel dicembre del 2015 con un titolo azzeccatissimo: «Persone che cono­sco». Perché Gianni Minà, scomparso lo scorso 27 marzo, conosceva tutti, ma proprio tutti. Famosa al riguardo è rimasta la battuta di Massimo Troisi: «Invidio quest’uomo per la sua agendina telefonica», disse l’attore napoletano.

E la chiamano economia

Popolazione e ambiente

In questa seconda puntata dedicata al tema demografico, affrontiamo le relazioni tra crescita della popola­zione e impatti sull’ambiente. Con una evidenza: i poveri hanno molti più figli, ma la loro responsabilità sulla crisi ecologica è inferiore a quella dei ricchi.

Camminatori di speranza /5

Mosè, in faccia a Dio

Ci sono personaggi biblici che ci costringono a spiegare chi sono, per quale motivo sono importanti e dove andarli a rintracciare. Altri, invece, sono molto conosciuti e si ergono in tutta la loro maestosità spaventandoci quasi per quanto sono solenni e centrali. Tra questi spicca senza dubbio Mosè, colui che parlava faccia a faccia con Dio come con un amico (Es 33,11), colui che può riassumere in sé tutta la legge («Mosè e i profeti» è una sintesi dell’Antico Testamento utilizzata dallo stesso Gesù in Lc 16,29).

Cooperando

Freddy, un ciclone lungo un mese

Il ciclone Freddy ha colpito Malawi, Mozambico e Madagascar tra febbraio e marzo, e ha causato centinaia di vittime, travolto case e inondato campi. Ma ha anche distrutto centri sanitari e sistemi idrici in paesi che già erano in grande difficoltà a causa di un’epidemia di colera.

Amico

Un gemito inesprimibile

Com’è possibile sperare ancora, Signore? Ci guardiamo attorno e vediamo l’intera creazione che geme e soffre le doglie del parto. E insieme a essa, gemiamo anche noi (Rm 8). Cosa sperare ancora, in questo tempo che pare uccidere il futuro? Su questa Terra scossa da crisi ambientali, pandemie, conflitti armati, disastri naturali, carestie di umanità?

Possiamo attenderci ancora la salvezza? Una qualsiasi salvezza?
Il mondo attende la rivelazione dei figli di Dio. Ma cosa riveleranno?
Ci salveranno dalla morte? Saranno in grado di guarire le ferite che da troppo tempo aspettano di essere rimarginate? Oppure ci chiederanno di rassegnarci, in attesa dell’aldilà?

Librarsi

Un libro sulla filiera dei container
Le frontiere del mondo

Ogni giorno, 400 milioni di container attraversano il globo. Carichi di tutte le merci lecite (come ananas, o scarpe) e illecite (come droghe, o armi), per essi non esistono frontiere. Se si vuole capirne qualcosa, si trovano muri, filo spinato e, a volte, militari armati.




Tre parole magiche


Uno degli studiosi più attenti della vita del beato Giuseppe Allamano, del suo tempo e ambiente, è stato senza dubbio padre Igino Tubaldo. A cent’anni dalla sua nascita, lo ricordiamo con gratitudine, soprattutto per la voluminosa biografia in quattro tomi e altri innumerevoli scritti che ci ha lasciato. Cosciente di quanto sia prezioso l’epistolario per una persona, poiché in esso ognuno esprime al meglio i sentimenti più intimi, padre Tubaldo ha voluto scandagliare con molta attenzione le 1.256 lettere scritte dall’Allamano. Al termine del suo lavoro ci ha svelato che tre brevi parole sono quelle che meglio hanno espresso il cuore del nostro padre verso i suoi figli missionari e missionarie.

La prima parola è «coraggio». Questa espressione poteva significare: avanti, stai tranquillo, stai di buon umore, non preoccuparti. La usa 397 volte nelle sue lettere, soprattutto scrivendo ai suoi figli e figlie nelle lontane missioni dell’Africa. La frequenza di questa parola esprimeva quanto lui quotidianamente coglieva, pregando la «sua» Madonna Consolata. Riconosceva quanto arduo e difficile fosse il compito di aprire una nuova strada all’evangelizzazione e voleva dire loro tutto il suo amore di padre e la protezione materna della Consolata. Un esempio: «Coraggio, dunque. Ti ripeto: coraggio e pensa che io ti amo, anche perché con i voti perpetui sei mio figlio perpetuo. Scrivimi spesso».

La seconda parola è «caro/a», utilizzata 330 volte. Per lui non era un semplice e formale aggettivo con cui aprire le sue lettere. Voleva subito trasmettere con tale espressione la sua vicinanza, condivisione e tutto il suo amore nei riguardi dei suoi figli e figlie. Lui, sempre misurato, con questo termine manifestava tutta la sua carica affettiva, umana e spirituale. E i suoi missionari lo sapevano bene e contraccambiavano con altrettanto affett. Ma questo termine non lo utilizzava solo con i missionari e missionarie: non sono rare le espressioni come: «Cara Consolata», «Cari africani», «Cari defunti», «Caro vicerettore».

La terza parola è «ti benedico» e ricorre, nel suo epistolario, 470 volte. Essa rifletteva non solo il suo dovere di sacerdote, ma anche l’atteggiamento di un «patriarca biblico» che sentiva la sua responsabilità su questo suo «popolo missionario». Scriveva a padre Angelo Dal Canton e a fratel Anselmo Jantet, ritornati dalla loro prigionia in Etiopia nel dicembre 1915: «Tutte le sere senza eccezione vi mandai la mia speciale benedizione con due segni di croce». Dopo la morte dello studente Baldi Eugenio (+14/06/1917) in guerra, scriveva ai missionari: «Nella sua ultima lettera dal fronte mi diceva: “Non so se al giungerle questa mia sarò ancora vivo; in ginocchio le domando la sua santa benedizione”. L’ebbe in tutti i giorni e più volte al giorno». Così anche alle suore missionarie: «La mia benedizione a tutte e a ciascuna».

Tre parole, tre perle, che rivelano il cuore di un fondatore e padre.

padre Piero Trabucco

Periferia di Bonaventura, Colombia


Fiducia nella divina Provvidenza

Padre Lawrence Ssimbwa, missionario della Consolata ugandese, da vari anni lavora in Colombia fra gli afroamericani della costa nella diocesi di Bonaventura, in una realtà di periferia caratterizzata da grande povertà e abbandono dove l’opera di evangelizzazione ha bisogno di appoggiarsi a una profonda fiducia nella Provvidenza.

Tutto nelle mani di Dio

Chiamiamo Divina Provvidenza la preoccupazione di Dio per tutta la creazione o i suoi interventi per mezzo dei quali le creature sono guidate al loro fine. Tutto ciò che Dio ha creato lo conserva e lo governa attraverso la sua Provvidenza.

La fiducia nella Divina Provvidenza è molto evidente nella spiritualità del beato Giuseppe Allamano. Non si può parlare di lui senza metterlo in relazione con essa. Era un esempio di fiducia totale nella Provvidenza perché metteva tutto nelle mani di Dio. Esortava spesso i suoi figli, missionari e missionarie a confidare totalmente del Signore.

Secondo il beato Allamano «fiducia» è sapere che Dio accompagna sempre i piani quotidiani degli esseri umani, e che la vita non dipende solo dai loro sforzi, dalle capacità intellettuali, dalle ricchezze acquisite. Tutto, in larga misura, dipende dalla cura amorevole di Dio che manda la pioggia sui giusti e sui malvagi (Matteo 5,45), per cui noi, come discepoli missionari di Gesù Cristo, lasciamo tutto nelle mani del Signore senza paura.

«Non fondiamo la nostra confidenza nei mezzi umani che sono in noi: talento, forze e virtù ecc., o che sono negli altri. Facciamo sempre quello che possiamo da parte nostra, poi lasciamo tutto nelle mani del Signore, senza timore. Egli lascia mai l’opera a metà» (Così vi voglio, p. 139).

La missione: luogo della Divina Provvidenza

La missione appartiene sempre a Dio e è il suo principale protagonista. Durante tutta la sua vita, Giuseppe Allamano ha chiarito che la missione è la magnifica opera di Dio e dipende interamente dalla sua Divina Provvidenza. I discepoli missionari del Signore sono semplicemente dei collaboratori che agiscono secondo la sua santa volontà.

Lui, come padre e fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata doveva preoccuparsi della loro formazione, ma anche del sostegno materiale dei due istituti in patria e nei luoghi di missione. Tuttavia, non ha mai perso il sonno a causa di questa grande responsabilità perché aveva piena fiducia nella Divina Provvidenza.

Ha detto: «Io non dubito della Provvidenza. Senza questa fiducia ci sarebbe da perdere la testa. Alle volte accade che si arriva a sera e non c’è denaro per una fattura che scade. Ebbene il giorno dopo i denari arrivano e si salda il debito. Vi assicuro che non ho mai lasciato di dormire tranquillamente per questo fastidio» (Così vi voglio, p. 140).

La Consolata è la vera fondatrice

E come riponeva tutta la sua fiducia nel Signore, Giuseppe Allamano confidava anche nella potente intercessione della Consolata. Affermava che Maria Consolata era la vera fondatrice dei due istituti e che lui era semplicemente uno strumento messo da Dio per concretizzare quest’opera. Fondato su questa convinzione attribuiva un po’ tutto all’opera del Signore per intercessione della Consolata.

In innumerevoli occasioni ha parlato dell’amore materno della Consolata per l’istituto: «Sì, noi siamo figli di questa nostra madre tenerissima, che ci ama come pupilla degli occhi suoi, che ideò il nostro istituto, lo sostenne in tutti questi anni materialmente e spiritualmente ed è sempre pronta a tutte le nostre necessità. La vera fondatrice è la Madonna» (Così vi voglio, p. 216).

Come ogni madre si prende cura dei suoi figli e delle sue figlie, così anche la Consolata ha sostenuto gli istituti fondati dal beato Giuseppe Allamano. Ha detto: «Tutto quello che si è fatto è opera della SS.ma Consolata. Ella ha fatto per questo istituto dei miracoli quotidiani: ha fatto parlare le pietre, piovere denari. Nei momenti dolorosi la Madonna intervenne in modo straordinario e questo senza parlare delle grazie concesseci lungo l’anno, anche di ordine temporale, come il pane quotidiano. Sì, anche per questo lascio l’incarico alla Madonna» (Così vi voglio, p. 216).

Il fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata riponeva grande fiducia nell’intercessione materna di Maria Consolata, tanto da affidare tutto alle sue cure. Era convinto che non avrebbe mai smesso di intercedere per i suoi missionari che annunciavano il Vangelo del suo Figlio Gesù, nostro salvatore. Animato da questa fiducia, in diverse occasioni ha detto: «Per le spese dell’istituto non ho mai perso il sonno e l’appetito. Dico alla SS.ma Consolata: pensaci tu!, se fai bella figura sei tu!» (Così vi voglio, p. 217).

Conclusione

Questa è la grande esortazione del beato Giuseppe Allamano ai suoi figli. Con essa ci aiuta a capire che la missione è opera di Dio e dipende interamente da lui. Sta a noi continuare a lavorare, ma con questa incorruttibile sicurezza. La Provvidenza di Dio non ci delude. «Vorrei proprio che i nostri istituti in genere e tutti voi in particolare aveste sempre questa grande fiducia in Dio» (Così vi voglio, p. 141).

padre Lawrence Ssimbwa

Padre Lawrence in visita a una famiglia


Carlo Acutis e Giuseppe Allamano

I missionari e le missionarie della Consolata, ogni anno scelgono un patrono speciale da invocare nella loro preghiera. Quest’anno hanno scelto il beato Carlo Acutis, adolescente morto nel 2006 e beatificato da papa Francesco nel 2020. La sua vita, le sue virtù e i suoi amori evidenziano vari aspetti in comune con la vita e la santità del beato Allamano.

Un giovane di oggi

Il motivo che ci ha indotto a scegliere il beato Carlo Acutis come nostro patrono per l’anno 2023 è stata la sua vita semplice e profonda, l’amore appassionato per l’eucaristia, la frequentazione assidua della Parola, il rapporto intimo e delicatissimo con Maria, l’attualità della sua persona e della sua esperienza, l’approccio fruttuoso e maturo al mondo della comunicazione come dimensione da abitare e nella quale seminare il Vangelo.

Fin da piccolo Carlo manifesta una grande curiosità sul mondo che lo circonda, sul mistero della vita e specialmente riguardo le questioni di tipo religioso. La sua curiosità si accompagna a un’intelligenza viva e propositiva. Carlo si appassiona al mondo del computer, lo studia, legge libri di ingegneria informatica e, quando riesce a carpire i segreti della rete, utilizza la sua conoscenza per aiutare i suoi amici, specialmente i più deboli.

Innamorato dell’eucaristia

All’età di sette anni riceve la prima comunione. Da allora, secondo il racconto della mamma, «non mancò mai alla messa quotidiana e alla recita del santo rosario». È fortemente innamorato dell’eucaristia, tanto da divenirne un vero apostolo, non solo presso i suoi amici, i suoi coetanei e i più piccoli, quando ne diventa catechista, ma anche verso la sua comunità, manifestando una delicata sensibilità cristiana che diventa una delle più affascinanti caratteristiche della sua vita. L’adolescente Carlo Acutis con parole molto significative, amava ripetere, come fosse uno slogan: «L’eucaristia è la mia autostrada per il Cielo».

L’infinito come meta

Purtroppo, la storia terrena del giovane Carlo non dura a lungo. Ai primi di ottobre del 2006 si sente male. Inizialmente si pensa a una semplice febbre o influenza, ma il persistere dei sintomi e le successive analisi mediche portano a una diagnosi infausta: leucemia di tipo M3, incurabile.

Carlo viene ricoverato nell’Ospedale San
Gerardo di Monza. Nei giorni del suo ricovero, nonostante i forti dolori che lo affliggono, Carlo non si lamenta mai, anzi, alle infermiere che gli chiedono come sta, egli sempre risponde: «Bene, qui c’è gente che sta peggio di me». Conscio della sua prossima fine, fa la sua ultima offerta: «Offro al Signore le sofferenze che dovrò patire per il papa e per la Chiesa, per non dover andare in Purgatorio e per poter andare direttamente in Paradiso».

Carlo ama ripetere: «La nostra meta deve essere l’infinito, non il finito. L’infinito è la nostra patria. Da sempre siamo attesi in Cielo», e spesso dice anche: «Tutti nascono come originali ma molti muoiono come fotocopie». Per marciare verso questa meta e non «morire come una fotocopia», Carlo dice che la nostra bussola deve essere la Parola di Dio, con cui dobbiamo confrontarci costantemente.

I suoi funerali sono una scoperta per gli stessi genitori: vi partecipano persone di ogni ceto sociale, soprattutto poveri, immigrati, bisognosi, ammalati, che raccontano un Carlo inedito. Egli è descritto come un giovane che si avvicinava a loro, li aiutava, li faceva sentire amati, ma il tutto nel nascondimento, senza farsi vedere neppure da sua madre. È un atteggiamento tipico dei santi. Chi ama Gesù nascosto nell’eucaristia non può non amarlo sofferente nell’umanità.

Sacramentini

La figura di Carlo Acutis non è legata a miracoli straordinari o atti di romanzesco eroismo. Egli è stato un giovane come tanti altri, tuttavia, nella sua normale giovinezza, ha saputo cogliere qualcosa che la maggior parte dei suoi coetanei ignorano del tutto: il potere e la grazia dell’eucaristia.

Nell’esperienza di Carlo ci sembra di ritrovare alcuni aspetti che il nostro beato fondatore ha vissuto e trasmesso ai suoi figli e figlie. L’Allamano ci esortava ad essere «sacramentini», ad avere un grande amore per l’eucarestia e a celebrarla con devozione e dignità, a identificarci con il Cristo nel suo mistero pasquale.

La recita giornaliera del santo rosario è per Carlo espressione di delicato amore per la santa Madre di Gesù, di cui il nostro fondatore era innamorato, presentandocela come nostra madre tenerissima, la Consolata.

I social al servizio del Vangelo

La passione di Carlo per il mondo della comunicazione è un altro aspetto che, quali missionari e missionarie, ci interpella da vicino. Siamo consapevoli del valore della comunicazione per la nostra famiglia religiosa, che ha come fine specifico l’annuncio del Vangelo ai non cristiani, e di come il mondo digitale possa offrire una grande opportunità di annuncio. In nostro padre fondatore fu un sacerdote convinto dell’importanza della comunicazione e fu aperto e attento ai mezzi del suo tempo. Non c’è dubbio che l’Allamano stimasse e sostenesse con convinzione il giornalismo cattolico.

Papa Francesco, nei suoi messaggi annuali in occasione della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, evidenzia in più modi l’importanza della rete come mezzo attraverso il quale il messaggio cristiano può raggiungere nuove frontiere: «Anche grazie alla rete il messaggio cristiano può viaggiare “fino ai confini della terra” (At 1, 8). Aprire le porte delle chiese significa anche aprirle nell’ambiente digitale, sia perché la gente entri, in qualunque condizione di vita essa si trovi, sia perché il Vangelo possa varcare le soglie del tempio e uscire incontro a tutti».

Chiediamo a Carlo di esserci vicino nel nostro cammino missionario e di intercedere presso Dio affinché gli occhi della nostra mente e del nostro cuore si aprano a riconoscere le vie della missione oggi.

padre Stefano Camerlengo e suor Simona Brambilla

 

 




Nonviolenza da Oscar


«Coda. I segni sul cuore» e «The Guilty», Il colpevole

Una ragazza, figlia di genitori sordi, scopre di avere un talento nel canto. Un poliziotto danese si lascia coinvolgere in un caso che non dovrebbe seguire. Due film diversi tra loro, ma accomunati dall’ascolto attivo dei protagonisti che affrontano i conflitti cambiando se stessi e le relazioni attorno a loro.

Coda. I segni sul cuore

A volte vincono. Sì, a volte – raramente – i film nonviolenti arrivano ai vertici del riconoscimento mondiale.

È stato così per Coda. I segni sul cuore che ha vinto tre Oscar nel 2022: il più ambito, quello per il miglior film, quello per l’attore non protagonista, Troy Kotsur, e quello per la migliore sceneggiatura non originale.

Coda è il remake statunitense di un film francese del 2014, La famiglia Bélier, una pellicola talmente bella che al Centro studi Sereno Regis, dove ci occupiamo di educazione alla pace, lo usiamo spesso nei nostri corsi.

Tra l’altro, Coda è passato come film fuori concorso anche all’edizione 2021 del Tff (Torino film festival, ndr) ed è uno dei film segnalati dal premio «Gli occhiali di Gandhi», il premio del Centro studi Sereno Regis, in collaborazione con il Tff, alla cinematografia nonviolenta.

È una storia che esemplifica in modo semplice, ma non superficiale, come un conflitto si può risolvere in modo nonviolento.

La trama è semplice: la diciassettenne Ruby, figlia di due persone sorde (c.o.d.a., dall’inglese child of deaf adults, figlia di adulti sordi), scopre di avere un talento nel canto. Inizia a prendere lezioni, finché il suo maestro le propone di continuare gli studi trasferendosi in un’altra città.

Il film racconta come Ruby riesca nel compito di accompagnare i genitori, impossibilitati a riconoscere la sua dote, a mettersi nei suoi panni, coinvolgendoli, rassicurandoli, e mettendosi a sua volta nei loro panni, cosa che rappresenta una delle lezioni basilari della nonviolenza: riconoscere i bisogni dell’altro, il quale non è un avversario, ma una persona con cui trovare il giusto modo di relazionarsi.

Le scene fondamentali che illustrano in modo magistrale la soluzione nonviolenta del conflitto sono tre.

La prima è quella nella quale emerge il problema ed esplode il conflitto: il desiderio della ragazza di trasferirsi si scontra con la contrarietà dei genitori, i quali, con la partenza della figlia che li aiuta nella loro azienda a conduzione famigliare, perderebbero un valido aiuto.

La seconda è la rappresentazione delle difficoltà oggettive dei genitori nel comprendere il talento della figlia (qui il regista mette anche il pubblico nella condizione di capire lo stato d’animo dei genitori). La terza è quella della soluzione finale del conflitto: la ragazza riesce a rendere partecipi i genitori della sua performance usando la lingua dei segni (uno dei motivi per cui è stato fatto il remake statunitense del film francese: la lingua dei segni europea è diversa da quella Usa).

Il film della regista Sian Heder si differenzia dall’originale francese di Éric Lartigau, per il fatto che i ruoli di persone sorde sono stati interpretati da attori effettivamente sordi, a cominciare da Marlee Matlin, che vinse l’oscar come migliore attrice per Figli di un dio minore del 1986.

Andatelo a vedere e, se possibile, guardate anche La famiglia Bélier: un confronto che vi riserverà delle belle sorprese.

D.C.

Il colpevole (The Guilty)

«Il colpevole (The Guilty)» è un thriller del 2018, terzo film del danese Gustav Möller.

Si potrebbe definire un film claustrofobico, incredibilmente ambientato in sole due stanze. Eppure ha una forte e determinante componente nonviolenta. Vediamo perché.

Asgar è un agente di polizia di Copenaghen, temporaneamente demansionato, per un motivo che scopriremo più avanti, al servizio di risposta alle chiamate di emergenza. È il classico lavoro da 112: smistare le telefonate. Una noia.

Un giorno, però, riceve la chiamata di una giovane donna che dichiara di essere stata rapita dall’ex marito, e Asgar decide di oltrepassare i limiti professionali prendendosi segretamente carico dell’investigazione e mettendosi in gioco per salvare la donna.

Svolgere un’indagine esclusivamente al telefono, però, è pericoloso, e il protagonista deve confrontarsi con un inaspettato ribaltamento della situazione.

Spesso, fare supposizioni partendo da poche informazioni, può portare a commettere gravi errori, anche se si hanno le migliori intenzioni.

Ciò che appare un limite del film, cioè la messa in scena in sole due stanze, amplifica la tensione, spingendo a entrare nello spazio emotivo dei protagonisti.

Il regista lancia una vera e propria sfida allo spettatore, cercando di emozionarlo con il semplice riferimento a «ciò che accade fuori». Una sfida indubbiamente vinta.

Così come è vinta la sfida della sostenibilità ambientale della produzione: niente sparatorie, niente auto incendiate, niente palazzi che crollano.

«Il colpevole», il cui titolo originale è Den Skyldige, merita di essere visto non solo perché è un thriller emozionante e magnetico, ma anche perché offre spunti di riflessione sulla nonviolenza.

La grande empatia di Asgar nell’aiutare la donna al telefono, a prescindere dai suoi doveri, ne è un esempio. Il protagonista va contro l’etica professionale per salvare una persona sconosciuta, facendosi coinvolgere dalla sua vicenda e mettendoci tutto il suo impegno.

Inoltre, è interessante notare come il dialogo sia l’unico strumento utilizzato per risolvere il conflitto e, in una situazione estrema, per salvare una vita.

Non solo. Il dialogo diventa cura e diventa perdono, per sé e per gli altri: mettendosi nei panni della donna, nel suo dramma, il poliziotto trova il coraggio di affrontare le proprie responsabilità (il motivo – che non sveliamo – per il quale è stato «messo a riposo» in ufficio) e, in definitiva, di perdonarsi.

Un chiaro esempio di come la relazione profonda tra esseri viventi, il vero ascolto, partecipe e responsabile, siano le basi fondanti di un percorso di risoluzione nonviolenta dei conflitti.

Giorgia Bettuzzi e Dario Cambiano




Malaria: meglio, ma non basta


Il 25 aprile è la giornata mondiale della malaria, malattia che, nei primi due mesi del 2023, ha già provocato la morte di circa 65mila persone. La pandemia da Covid-19 ha peggiorato le cose ma, anche dopo il ritorno dei servizi sanitari alla normalità, il mondo rischia di mancare l’obiettivo che si era dato per il 2030: ridurre i casi di malaria dagli attuali 60 a 6 ogni mille persone a rischio.

Secondo l’ultimo rapporto sulla malaria dell’Organizzazione mondiale della sanità, i decessi causati da questa malattia nel mondo non sono aumentati nell’ultimo anno considerato (2021): sono anzi diminuiti a circa 619mila, contro i 624mila del 2020@.

Il risultato non era scontato, perché la pandemia da Covid-19 ha determinato fra il 2020 e il 2021 l’interruzione di servizi di diagnosi, cura e prevenzione contro l’infezione, facendo tornare i decessi ai livelli del 2012, e interrompendo così un ventennio di decremento quasi ininterrotto che aveva visto il suo dato migliore nel 2018, anno in cui morirono per questa malattia poco meno di 567mila persone.

I casi di malaria, si legge ancora nel rapporto, sono continuati ad aumentare tra il 2020 e il 2021, anche se a un ritmo molto più lento rispetto al 2019-2020 e si sono attestati a circa 247 milioni nel 2021, rispetto ai 245 milioni nel 2020 e ai 232 milioni nel 2019.

Quasi la metà delle infezioni sono avvenute in soli quattro paesi: Nigeria (26,6%), Repubblica democratica del Congo (12,3%), Uganda (5,1%) e Mozambico (4,1%). Sempre quattro paesi hanno avuto poco più della metà delle morti per malaria a livello globale: ogni cento decessi, 31 sono avvenuti in Nigeria, 13 in Congo Rd, 4 in Tanzania e altrettanti in Niger.

Dei decessi globali fra i bambini di età inferiore ai 5 anni, 2 su 5 sono avvenuti in Nigeria.

A causare la malaria è un parassita trasmesso attraverso la puntura di zanzare del genere Anopheles (vedi box sul fondo). Un motivo di preoccupazione che il rapporto Oms segnala è la diffusione anche in Africa, negli ultimi dieci anni, della Anopheles stephensi, zanzara capace di adattarsi e diffondersi nei contesti urbani. Originaria dell’Asia meridionale e della penisola arabica, è in grado di trasmettere sia i parassiti P. falciparum che P. vivax e ed è resistente a molti degli insetticidi utilizzati nella prevenzione della malaria.

da www.paginemediche.it

Covid e cambiamento climatico

Secondo il rapporto dell’Oms, le interruzioni dei servizi essenziali contro la malaria durante la pandemia di Covid-19 hanno riguardato soprattutto la distribuzione delle zanzariere trattate con insetticida e il numero di diagnosi e di trattamenti della malattia.

Nel 2020, nei 46 paesi nei quali erano state pianificate campagne di distribuzione, i sistemi sanitari nazionali e i loro partner sono riusciti a distribuire solo poco più di 200 milioni di reti protettive contro i 270 milioni previsti.
In Congo Rd, Eritrea e India, la percentuale non ha raggiunto il 60%; in Kenya non ha superato il 2%, mentre Costa d’Avorio e eSwatini non hanno effettuato alcuna distribuzione.

Nel 2021, i paesi che avevano in programma tali distribuzioni erano 43 e le zanzariere da distribuire 171 milioni. Ne sono state distribuite 128 milioni, cioè solo tre quarti: otto paesi non hanno raggiunto il 60% (Benin, Eritrea, Indonesia, Nigeria, Isole Salomone, Thailandia, Uganda e Vanuatu) e sette paesi (Botswana, Repubblica Centrafricana, Ciad, Haiti, India, Pakistan e Sierra Leone) non hanno distribuito nessuna delle zanzariere previste.

Quanto alle mancate diagnosi, se nel 2018 e 2019 i test effettuati nei paesi dove la malaria è endemica erano stati rispettivamente 392 e 450 milioni, nel 2020 sono diminuiti a 398 milioni e nel 2021 si sono fermanti a 435.

Il calo registrato nel 2020, precisa il rapporto, è stato dovuto principalmente al minor numero di test effettuati nella regione africana (10,5 milioni in meno) e nella regione del sud est asiatico (38 milioni in meno, di cui 37 milioni in India).

Un altro elemento di preoccupazione, rileva il rapporto, è l’effetto potenziale del cambiamento climatico sulla diffusione della malattia. «Nonostante le incertezze su come inciderà sulla malaria, è certo che il cambiamento climatico avrà un effetto sulla distribuzione geografica e sull’intensità e stagionalità delle malattie trasportate da un vettore», come appunto le zanzare.

Lo scorso febbraio, il New York Times riportava uno studio realizzato dagli studiosi del «Centro per le scienze della salute globale e della sicurezza» dell’Università di Georgetown, negli Stati Uniti, secondo il quale «nel secolo scorso le zanzare che trasmettono la malaria nell’Africa subsahariana si sono spostate ad altitudini più elevate di circa 6,5 metri all’anno e si sono allontanate dall’Equatore di 4,7 chilometri all’anno»@.

Un ecologo dell’università della California a Los Angeles, intervistato nell’articolo, ha sottolineato l’importanza di raccogliere dati per capire esattamente come e quanto velocemente le zanzare e altri animali portatori di malattie si stiano muovendo nel mondo. Ci si aspetta che i climi più caldi siano vantaggiosi per le zanzare perché esse, così come i parassiti che trasportano si riproducono più velocemente a temperature più elevate.

© Yofre Morales – disinfestazione contro malaria

Malaria e anemia, la banca del sangue di Dianra

La malaria porta con sé diverse complicanze, che sono più gravi nei bambini e neonati, nelle donne incinte e nelle persone anziane. Fra queste c’è l’ipoglicemia, una riduzione patologica dei livelli di glucosio nel sangue, che dà sintomi come sudorazione, tremori, debolezza e, quando è grave, anche confusione, convulsioni e coma@.

C’è poi l’anemia che si manifesta perché il parassita invade i globuli rossi per riprodursi e ne provoca la distruzione. Nei casi di anemia grave, spiega il dottor Stéphane Gnanago – medico del centro di salute Joseph Allamano gestito dai Missionari della Consolata a Dianra, in Costa d’Avorio – la distruzione dei globuli rossi determina un ridotto «apporto di ossigeno agli organi e ai muscoli e può portare a insufficienza respiratoria, collasso cardiocircolatorio e arresto cardiaco». In contesti come quello di Dianra, uno dei motivi dell’aggravarsi degli effetti della malaria, come l’anemia, è la reazione tardiva da parte dei pazienti: «Le famiglie portano i bambini al centro di salute solo all’ultimo minuto», spiega il dottor Gnanago, «dopo aver tentato di curarli con rimedi tradizionali. E quando arrivano qui, i bambini sono già in condizioni gravi».

Il programma nazionale di lotta alla malaria in Costa d’Avorio, commenta padre Matteo Pettinari, missionario della Consolata responsabile del centro di salute di Dianra, fornisce test e trattamenti per la malaria in modo gratuito. Ma se i pazienti aspettano troppo prima di andare al centro, le terapie di base non sono più sufficienti. Per questo, continua padre Matteo, «avere a disposizione le sacche di sangue e poter effettuare trasfusioni ci permette di salvare vite: delle 579 sacche di sangue di cui il nostro centro ha potuto disporre nel 2022, solo 9 sono state usate per le donne ricoverate in maternità mentre 570 sono andate ai pazienti del dispensario. Di queste, 556 sono state usate per curare bambini in anemia severa: un’enormità».

© AfMC / Dianrà, Costa D’Avorio

Neisu, ordinaria emergenza

Nel 2021 l’ospedale Nôtre Dame de la Consolata di Neisu, nella Repubblica democratica del Congo, ha effettuato 2.778 test per la malaria, una media di oltre 7 al giorno. La malattia è risultata la prima voce fra le patologie diagnosticate sia in consultazione esterna – 2.482 casi su 4.885 pazienti, il 50,8% dei pazienti visitati – che in medicina interna: 220 pazienti ricoverati su 1.139, il 19%, dati 2021.

In pediatria, la malaria grave e la malaria grave anemica sono di gran lunga la principale causa di ricovero, con, rispettivamente, 732 casi (il 34%) e 520 (24%) su 2.155 bambini ospedalizzati. Su 30 bambini deceduti in pediatria nel 2021, per due la causa è stata la malaria grave e per 15 la malaria anemica grave. Circa tre donne su dieci fra quelle accolte in maternità avevano la malaria.

«L’ospedale», spiega il responsabile Ivo Lazzaroni, missionario laico della Consolata, «è integrato nella sanità pubblica congolese dal 2007, e aderisce ai programmi di prevenzione del sistema sanitario nazionale.

Ogni mese, i 12 infermieri titolari degli altrettanti centri di salute sul territorio vanno a Isiro, capoluogo della provincia dell’Alto Uélé, consegnano i dati sulla malaria e sulle altre patologie monitorate ai funzionari della zona di salute (zone de santé, in francese, articolazione territoriale del Ssn congolese, ndr) e ricevono zanzariere e farmaci (ad esempio il Coartem, a base di artemisina) da portare a Neisu per l’ospedale e i centri».

Le zanzariere sono destinate alle donne incinte, che le ricevono nel corso delle formazioni loro offerte durante le consultazioni prenatali, in cui le ostetriche spiegano alle donne che questi oggetti «non devono venire regalati ai bambini per farci le reti delle porte di calcio», scherza Ivo, «ma sono fondamentali per la loro salute».

E queste formazioni purtroppo non bastano: «Anche noi – spiega Ivo – siamo alle prese, come Matteo, con famiglie che vengono molto tardi a portare i bambini in anemia severa. Purtroppo non abbiamo l’autorizzazione dalla zone de santé a fare le trasfusioni direttamente nei centri e posti periferici, quindi le donne devono portare il bambino all’ospedale. Ma le distanze sono grandi: il nostro centre de santé più lontano è a oltre 60 chilometri dall’ospedale e non è facile per queste madri trovare un passaggio in moto per venire di corsa. Per questo accade a volte che il bambino muoia nel tragitto o poco dopo l’arrivo in ospedale».

Ikonda, restare comunque in guardia

«Qui nella regione di Njombe la malaria non è endemica», spiega padre Marco Turra, responsabile del Consolata Ikonda Hospital, in Tanzania. «I pochi pazienti che abbiamo affetti da questa malattia vengono dalle zone calde, soprattutto da Mbeya e Morogoro. L’anno scorso abbiamo fatto il test a 4.660 pazienti e solo 134 sono risultati positivi», meno del 3%. «Ora che ci troviamo nella stagione delle piogge», continua padre Marco, «solo il mese scorso abbiamo avuto 14 casi: è una malattia molto legata a fattori climatici».

Non essendo Njombe una regione endemica, spesso il problema viene sottovalutato: «Si pensa prima ad altre malattie, poi, se la febbre non passa, si considera anche l’ipotesi di malaria. A volte invece non ci si fida dei test e, in presenza di sintomi compatibili vengono somministrate le terapie. Di recente abbiamo avuto un paziente con una patologia polmonare proveniente da questa regione. All’inizio non si è pensato alla malaria, poi invece è risultato positivo. Ora è guarito».

© AfMC – prelievo di sangue per test malaria al Catrimani, Roraima, Brasile

Aumento dei casi in Amazzonia

La malaria è fra le malattie protagoniste anche del peggioramento delle condizioni di vita del popolo indigeno yanomami, che vive nell’Amazzonia brasiliana e con il quale i Missionari della Consolata lavorano da metà degli anni Sessanta. Durante un’intervista con un’emittente televisiva brasiliana@ padre Corrado Dalmonego, missionario della Consolata che lavora nella missione di Catrimani, nella Terra indigena yanomami da quindici anni, ha ricordato che «nel 2022 si sono registrati 21mila casi di malaria fra gli indigeni yanomami, e l’anno prima erano circa 20mila. Ma nel 2013-2014 i casi erano duemila: sono decuplicati. E alla malaria vanno aggiunte le malattie respiratorie e gastrointestinali».

Fattori responsabili di questa emergenza sanitaria, così definita lo scorso 20 gennaio dal nuovo governo basiliano guidato da
Inacio Lula da Silva, sono l’invasione delle terre indigene da parte dei cercatori d’oro e la corruzione, che ha distratto le risorse finanziarie destinate ai servizi sanitari per le terre indigene: entrambi fenomeni favoriti dal disinteresse e dall’aperta ostilità del governo di Jair Bolsonaro nei confronti delle comunità originarie dell’Amazzonia brasiliana.

Chiara Giovetti

© AfMC / Trasfusioni di sangue a bambini affetti da conseguenze della malaria


Che cos’è la malaria e come la affrontiamo

La malaria è una malattia umana febbrile acuta causata dal parassita Plasmodium che viene trasmesso attraverso le punture delle zanzare femmine infette del genere Anopheles. Due delle cinque specie di plasmodi responsabili della malaria sono particolarmente pericolose: Plasmodium falciparum, il parassita che causa più morti e anche il più diffuso nel continente africano, e Plasmodium vivax, la specie dominante nella maggior parte dei paesi al di fuori dell’Africa subsahariana.

I primi sintomi – febbre, mal di testa e brividi – di solito compaiono da 10 a 15 giorni dopo la puntura infetta; possono essere lievi e per questo difficili da riconoscere. Senza trattamento, la malaria da P. falciparum può progredire in malattia grave o perfino causare la morte entro 24 ore.

La diagnosi avviene con l’individuazione al microscopio dei parassiti nel sangue del paziente (la cosiddetta goccia spessa) oppure, ove il microscopio non sia disponibile, attraverso test antigenici rapidi, che individuano appunto un antigene, cioè una sostanza estranea al nostro organismo – in questo caso una specifica proteina – prodotta dal parassita nel nostro sangue.

La prevenzione avviene attraverso la profilassi comportamentale, che mira a evitare il contatto con la zanzara vettore del parassita e che si basa sull’utilizzo di zanzariere trattate con insetticida e di insetticidi da spruzzare negli ambienti. C’è poi la profilassi con farmaci antimalarici, che prevede l’assunzione di un ciclo completo di questi farmaci nei momenti di maggiore esposizione al rischio di contrarre la malattia, che si sia o meno già infetti.

Infine, dall’ottobre 2021, l’Oms ha anche raccomandato l’uso del vaccino contro la malaria Rts, S/AS01 per i bambini nelle aree con trasmissione da moderata ad alta della malaria da P. falciparum. La prima parte della sperimentazione di fase 3 (2009-2014) del vaccino ha mostrato una diminuzione di oltre la metà dei casi di malaria nel primo anno dopo la vaccinazione e una riduzione del 40% nei 4 anni successivi. Nella seconda parte della sperimentazione di fase 3 (2017-2020) i partecipanti hanno ricevuto il vaccino appena prima del picco della stagione della malaria: la sua efficacia nel prevenire la malattia è stata intorno al 75%.

Il miglior trattamento disponibile indicato dall’Oms, in particolare per la malaria da P. falciparum, è la terapia combinata a base di artemisinina (Act). Altri principi attivi usati sono la clorochina, la meflochina e numerosi altri di cui l’Oms tiene una lista aggiornata nella quale indica anche quali sono consigliati nelle diverse regioni del mondo.

I motivi di preoccupazione relativi alla malaria – resistenze delle zanzare agli insetticidi e del parassita ai principi attivi nelle terapie, mutazioni genetiche nel parassita che inficiano l’affidabilità dei test e la diffusione delle zanzare Anopheles in zone in cui non erano presenti – sono monitorati dall’Oms e consultabili nella «mappa delle minacce»@.

Chi.Gio.

Fonte: Oms

 

 




Otto miliardi


Questa è la soglia superata dalla popolazione mondiale lo scorso novembre. Un dato che va interpretato visto che nei paesi occidentali il numero si sta contraendo, mentre in quelli africani sta aumentando. Con importanti ricadute a tutti i livelli.

Non si conosce se si sia trattato di un nastro rosa o celeste, né su quale porta sia stato appeso, ma le Nazioni Unite sostengono che il 18 novembre 2022, da qualche parte nel mondo, c’è stata una nuova nascita che ha portato la popolazione globale oltre la soglia degli otto miliardi.

La popolazione cresce quando le nascite superano le morti, ma questo risultato può essere ottenuto attraverso una varietà di combinazioni che condizionano fortemente l’età media dei cittadini. Ad esempio, dove l’alto tasso di natalità convive con un alto tasso di mortalità degli adulti, la crescita della popolazione è caratterizzata da un’età media bassa: la popolazione è più giovane (come accade in gran parte dei paesi africani). Se, al contrario, la crescita è caratterizzata da una bassa natalità che si accompagna a una mortalità altrettanto bassa degli adulti, è probabile una prevalenza di popolazione adulta e anziana (come accade, ad esempio, in Italia).

Queste differenze si fanno sentire sul piano economico perché l’età condiziona la capacità di lavoro e, quindi, di produzione.

Storia della popolazione

Nel mondo, la popolazione ha cominciato a crescere in maniera significativa nel 1800 a partire dall’Europa.

Oltre a un’alta natalità (una media di 4 figli per donna feconda), varie altre ragioni hanno contribuito al fenomeno: una migliore alimentazione, città più pulite grazie alla costruzione di sistemi fognari più moderni, scoperte mediche e farmaceutiche che hanno iniziato a limitare la mortalità infantile e adulta. Si calcola che, fra il 1800 e il 1850, la popolazione europea sia passata da 187 a 266 milioni di abitanti, un aumento del 42% che ha fatto parlare di rivoluzione demografica. La crescita demografica, però, non è stata accompagnata da un’uguale crescita di posti di lavoro. Di conseguenza, sono stati tantissimi coloro che hanno scelto di cercare miglior fortuna all’estero. In totale, si stima che, fra il 1800 e il 1930, i migranti europei siano stati 60 milioni, soprattutto verso le Americhe e l’Oceania.

Intorno al 1910 la popolazione europea o di origine europea (includendo Stati Uniti, Canada, Oceania e anche paesi latino-americani di forte immigrazione, come l’Argentina) rappresentava più di un terzo di quella mondiale (contro il 20 per cento di un secolo prima), e cresceva più rapidamente di quella del resto del mondo. Ma poi la corsa è rallentata e, pur con un breve sussulto negli anni Sessanta (conosciuto come «baby boom»), il numero di nascite per donne feconde (tasso di fertilità) è sceso sotto il due: un livello cioè che porta la popolazione a contrarsi.

Nel frattempo, la popolazione stava cominciando a crescere nei cosiddetti paesi del Terzo Mondo: pratiche come la bollitura dell’acqua, le vaccinazioni e le disinfestazioni con il Ddt nelle regioni malariche, riducevano la mortalità, mentre la natalità rimaneva a livelli sostenuti. Basti dire che nel 1950, in Rwanda, Kenya, Filippine, la media di figli per donna fertile era superiore a sette, mentre in Cina e India era attorno a sei. Fatto sta che, fra il 1950 e il 1987, la popolazione mondiale è raddoppiata passando da 2,5 a 5 miliardi di individui. Un raddoppio in 37 anni non si era mai visto nella storia dell’umanità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Eberhard Grossgasteiger – Unsplash.

Il caso Cina

Dopo il 1987 la popolazione mondiale ha continuato a crescere, ma non allo stesso ritmo perché il tasso di natalità si è ridotto quasi ovunque. A ogni latitudine, ma per ragioni diverse: dove per il diverso ruolo sociale conquistato dalle donne; dove per la maggiore istruzione che ha permesso a esse di avere un maggiore controllo del proprio corpo; dove per la promozione massiccia di anticoncezionali; dove, ad esempio in India, per l’istituzione di premi per tutti coloro che accettavano di sottoporsi a sterilizzazione; dove per il divieto alle coppie di oltrepassare un determinato numero di figli.

Quest’ultima pratica è stata assunta in particolare in Cina nel 1980 quando Deng Xiaoping ha proibito alle coppie di avere più di un figlio. Chi trasgrediva la regola rischiava di perdere il posto di lavoro e di pagare multe esorbitanti. Si poteva addirittura arrivare all’assurdo che il secondo o il terzo figlio non potesse essere registrato all’anagrafe condannando i malcapitati a non avere nessun riconoscimento sociale.

Nel 2015 la regola del figlio unico è stata tolta tornando a quella di due figli che era in vigore durante gli anni Settanta. Poi, nel maggio 2021, è stato addirittura introdotto il permesso di avere fino a tre figli. Troppo tardi. Nel 2022 la popolazione cinese è calata di circa 850mila persone. Secondo le Nazioni Unite, se dovesse persistere la tendenza alla perdita di popolazione, la Cina passerebbe dagli attuali 1,4 miliardi di abitanti a 1,2 nel 2050 e scenderebbe sotto il miliardo entro il 2075. Stando così le cose, già nel corso di questo 2023, l’India dovrebbe sorpassare Pechino come nazione più popolosa del pianeta. Nel frattempo, la Cina è diventato il paese con il più alto numero di anziani: nel 2019 le persone oltre sessanta anni erano 254 milioni; nel 2040  si prevede che saranno 402, il 28% dell’intera popolazione. Con gravi ripercussioni per il sistema economico: la riduzione del numero di persone in età lavorativa potrebbe provocare un calo della produzione, un aumento del costo del lavoro e una crescita vertiginosa della spesa sanitaria e sociale per l’assistenza ai più anziani.

Il caso africano

A livello mondiale il tasso medio di fertilità è di 2,4 figli per donna fertile, appena sopra il 2,1, detto «tasso di conservazione», perché considerato il livello minimo utile a impedire alla popolazione di contrarsi. Ma moltissime nazioni sono ormai sotto questa soglia. In Italia, ad esempio, siamo a 1,24, in Spagna a 1,23, in Corea del Sud addirittura a 0,85. Le Nazioni Unite prevedono che la popolazione di 61 nazioni si ridurrà di almeno l’1% fra il 2022 e il 2050.

Gli unici paesi in controtendenza sono quelli più poveri, soprattutto dell’Africa, continente con un tasso medio di fertilità di 4,3, lo stesso che avevamo in Europa nel 1800.

Secondo i dati della Banca mondiale, relativi al 2020, il primato spetta al Niger con 6,9 nascite per donna fertile. Seguono la Somalia con 6,4, la Repubblica Democratica del Congo con 6,2, il Mali con 6, l’Angola con 5,4, la Nigeria con 5,3. In conclusione, l’Africa subsahariana è l’area del mondo con il più alto tasso di crescita demografica, tanto da aspettarsi un raddoppio entro il 2040, passando da 1,1 a 2,1 miliardi di persone.

Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, la popolazione mondiale continuerà a crescere fino a raggiungere 10,4 miliardi nel 2100, poi dovrebbe stabilizzarsi o addirittura diminuire. Ma continuare a trattare il tema della popolazione mondiale come un tutt’uno non ci dà il vero quadro della situazione. In effetti in tema di popolazione il mondo va diviso in tre fasce: quella a rapida crescita demografica, quella a modesta crescita, quella a crescita zero o negativa. Ognuna di esse presenta i propri problemi e le proprie specificità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Sam Chen – Pixabay.

Paesi in denatalità

Nel 2021 si sono contati una quarantina di paesi con crescita negativa, guidati dalla Lituania che ha subito una riduzione demografica dell’1,19%. Fra essi compare anche l’Italia che nel 2021 ha avuto un calo complessivo di residenti dello 0,3% rispetto al 2020. Già nel 2008 il Parlamento europeo aveva lanciato grida di allarme precisando che la denatalità avrebbe voluto dire invecchiamento della popolazione, meno persone al lavoro e quindi meno soldi per sanità e previdenza sociale a causa delle minori entrate fiscali.

Nel 2021 gli over 65 in Italia erano 13,9 milioni e rappresentavano il 23,5% della popolazione totale. Nel 2050 la loro quota è attesa al 34,9%, e c’è chi trema pensando alle difficoltà che ci attendono. Una popolazione di vecchi non può badare a se stessa: senza un’adeguata base di giovani disposta a farsene carico è destinata a soccombere sotto il peso degli enormi bisogni economici, sociali, sanitari, assistenziali.

Nella situazione opposta si trova l’Africa con tre quarti della popolazione al di sotto dei 35 anni, 900 milioni di individui. Quasi metà di loro, 35% dei residenti, è in età da lavoro collocandosi fra i 15 e i 35 anni. E, tuttavia, un terzo dei giovani africani è disoccupato e un altro terzo sottoccupato. Solo il 17% ha un lavoro salariato regolare, ed è lontana la prospettiva che questa quota possa crescere. Ogni anno in Africa il mercato del lavoro vede l’ingresso di 10-12 milioni di nuovi giovani, ma l’offerta di nuovi posti non supera i 3 milioni. Di questo passo, avverte la Banca per lo sviluppo africano, nel 2025 i giovani africani senza alcuna prospettiva di lavoro saranno 263 milioni. Situazione destinata ad aggravarsi considerato che, nel 2050, le persone fra i 15 e i 35 anni in Africa sono attese a 850 milioni. In conclusione, l’unica prospettiva di vita per molti giovani africani è la migrazione, principalmente dalle campagne verso le città e dai paesi africani a più bassa capacità produttiva verso quelli a maggiore capacità produttiva. Già oggi 19 milioni di africani si trovano in un paese del continente diverso da quello di nascita. Ma altri 17 milioni si trovano in continenti diversi dall’Africa.

Il ruolo delle migrazioni

Considerato che il mondo è formato da aree con una penuria di giovani e altre con un eccesso,  sarebbe interesse di tutti un riequilibrio attraverso una maggiore libertà di movimento delle persone. I paesi che stanno invecchiando potrebbero ringiovanirsi e i paesi con molti giovani potrebbero migliorare la propria economia tramite le rimesse degli emigranti. Ma in Europa, e in particolare in Italia, solo pochi hanno messo a fuoco che questa è la strada da battere. Fra essi Tito Boeri che, da presidente dell’Inps, non ha perso occasione per ricordarci il ruolo insostituibile dei migranti: senza i due milioni e mezzo di lavoratori stranieri che pagano le tasse e versano i contributi, il sistema previdenziale italiano non ce la farebbe. Chi invece sembra non averlo capito è la politica che pure avrebbe il compito di individuare i problemi e trovare le soluzioni. Il fatto è che i fenomeni si mettono in moto da soli, e quando la politica li intercetta, spesso succede che invece di gestirli in un’ottica di bene comune li cavalca per fini elettorali. Paradossi della democrazia.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)

Siamo in otto miliardi. Foto di Humberto Chavez – Unsplash.