GLI OGM (1)”Metti un gene nelle fragole”

Piante resistenti a climi avversi, prodotti che non marciscono, frutti senza semi, miglioramenti qualitativi e quantitativi… i risultati dell’ingegneria genetica sembrano entusiasmanti, ma i lati oscuri della medaglia sono tanti, a cominciare dagli impatti sulla salute umana e sull’ambiente. Per questo scienziati
ed organizzazioni inteazionali chiedono l’adozione di un «principio di precauzione», che però pare soccombere davanti alle regole del profitto dettate dalle multinazionali e dai loro potenti sponsors. (Prima parte)

Miglioramento genetico delle piante, sviluppo agricolo sostenibile, salvaguardia delle risorse naturali, contributo significativo a soddisfare la crescente domanda mondiale di derrate alimentari, miglioramento della qualità, della sicurezza e del valore nutrizionale degli alimenti (1): questi gli scopi della biotecnologia applicata al settore agricolo-alimentare secondo i fautori degli Organismi geneticamente modificati (Ogm o Gmo, dall’inglese Genetic modified organisms); miti da sfatare, al contrario, per gli oppositori.
Su quali termini, concetti e fatti si basa il dibattito sugli Organismi geneticamente modificati? La controversia coinvolge esclusivamente conoscenze scientifiche, oppure è strettamente connessa anche ad aspetti economici e commerciali non sufficientemente dichiarati? La complessità dell’argomento è un limite oppure un’opportunità utilizzata come pretesto per un’informazione parziale, o addirittura assente, nei confronti del cittadino- consumatore?

COSA SONO GLI OGM
Il termine «biotecnologia» deriva dalla congiunzione di biologia, intesa come studio degli esseri viventi e delle leggi che li governano, e tecnologia, intesa come studio dei processi e delle apparecchiature necessarie a produrre determinati beni e servizi.
Con biotecnologia si indica qualsiasi processo produttivo che preveda l’utilizzo di agenti biologici, cellule, o loro prodotti. Le sue origini sono molto antiche: basti pensare alle tecnologie fermentative applicate nella produzione di alimenti (ad esempio, del vino e della birra) e alle tecniche di selezione e reincrocio utilizzate in agricoltura e zootecnia. Solo negli ultimi decenni l’aumento delle conoscenze scientifiche e il progresso tecnologico hanno fatto intravedere nuovi orizzonti sperimentali e applicativi, in particolare nel campo della medicina, del disinquinamento ambientale e dell’agricoltura. Tecniche di ingegneria genetica quali la ricombinazione del Dna, la fusione di cellule animali e vegetali, l’introduzione diretta di Dna in una cellula, costituiscono le basi delle biotecnologie avanzate.
Gli organismi transgenici o, più propriamente, gli Organismi geneticamente modificati sono appunto gli animali, i vegetali, i miceti, i lieviti e i batteri nel cui genoma viene incorporato artificialmente un gene estraneo, chiamato transgene.
In campo agricolo, lo scopo è quello di inserire, nel Dna della pianta che si vuole modificare, uno o più caratteri (geni) che conferiscano alla pianta modificata le caratteristiche desiderate. Tali geni possono essere ottenuti da altre piante, da microrganismi oppure anche da animali: le tecniche di ingegneria genetica rendono cioè possibili incroci che sono impossibili in natura. Ne è un esempio la nota introduzione di geni di pesci (passera di mare) nelle fragole per aumentae la conservabilità, in base all’assunto che il gene che consente al pesce di sopravvivere in acque ghiacciate conserverebbe le fragole.
Un Ogm è «un organismo il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto si verifica in natura mediante incrocio o ricombinazione genetica naturale» (D.Lgs. 3.3.93, n.92). Se l’organismo transgenico è fertile, il gene estraneo potrà essere trasmesso alle successive generazioni, dando origine ad una «linea di organismi geneticamente modificati».
Attualmente sul mercato sono presenti soprattutto varietà Ogm di mais, soia, colza, pomodoro, cotone, patata, zucca e tabacco. Le principali modificazioni genetiche già in commercio o in fase di sperimentazione riguardano la resistenza agli erbicidi e ai parassiti, il controllo della fioritura della pianta, la produzione di frutti senza semi, la resistenza a stress (al freddo, alla siccità, alla salinità del terreno, ecc.), la ritardata marcescenza.
Le ragioni addotte per la diffusione degli Ogm in agricoltura sono essenzialmente due:
• aumenterebbero la produzione del raccolto, contribuendo così alla sicurezza alimentare;
• ridurrebbero l’uso delle sostanze chimiche, contribuendo così alla protezione ambientale.

L’INVASIONE SILENZIOSA
Secondo il rapporto del Servizio internazionale per l’acquisizione delle applicazioni agrobiotecnologiche (Isaaa), le coltivazioni di piante geneticamente modificate (Gm) aumentano in tutto il mondo, con una superficie complessiva pari a 67,7 milioni di ettari e con una crescita, nel 2003, pari al 15% rispetto al 2002. Aumentano le colture Gm anche in Europa, in particolare in Romania, Bulgaria, Spagna.
Gli agricoltori che nel 2003 hanno utilizzato sementi geneticamente modificate sono diventati 7 milioni, un milione in più rispetto al 2002, e la maggior parte di essi (l’85%) vive in paesi in via di sviluppo; proprio in questi paesi si trova quasi un terzo della superficie mondiale coltivata con piante Gm, rispetto al 25% circa registrato nel 2002. Brasile e Sudafrica si sono aggiunti ai principali coltivatori di prodotti agricoli gm, ossia Stati Uniti, Argentina, Canada e Cina. Gli altri 4 paesi che coltivano superfici geneticamente modificate superiori ai 50.000 ettari sono Australia, India, Romania e Uruguay.
Nei paesi dell’Unione europea, invece, dopo una rapida crescita e raggiunto il massimo nel 1997, i rilasci di Ogm si stanno rapidamente contraendo. Le sperimentazioni sono state infatti scoraggiate dalla moratoria e dalla regolamentazione imposte su scala europea, e hanno subito un declino rilevante soprattutto in Francia e in Italia, i due paesi nei quali si erano più concentrate (rispettivamente il 29% e il 16% del totale europeo). Le diverse specie interessate, più di 70, riguardano principalmente le colture industriali quali mais, colza, barbabietola e patata (2).
Essendo una tecnologia coperta da brevetto, gli Ogm sono monopolizzati da un numero estremamente ridotto di multinazionali. La maggior parte del mercato delle sementi e dei prodotti fitosanitari è controllato da tre colossi: la Monsanto (gruppo Pharmacia), la Syngenta (già Novartis), e Aventis (creato dalla Hoechst e dalla Rhone-Poulenc e acquisito dalla Bayer nell’ottobre 2001 (3).

ALLERGIE ED ALTRI
IMPATTI SULLA SALUTE

Il dibattito affrontato dai media sugli Ogm riguarda soprattutto i possibili effetti sulla salute dei consumatori. I sostenitori degli alimenti Gm dichiarano che l’introduzione di cibi manipolati nella nostra dieta non possa causare rischi di nuove allergie. Come esempio, viene spesso citata l’introduzione del gene di banana nel pomodoro.
Secondo l’associazione Greenpeace, da sempre contraria all’applicazione delle biotecnologie in agricoltura, i biotecnologi omettono di precisare che l’esempio riportato considera cibi consumati abitualmente. «L’ingegneria genetica, però, riguarda spesso geni, e dunque proteine, che non fanno parte del consumo alimentare tradizionale: i rischi non sono prevedibili se il gene “trapiantato”, ad esempio nel grano, con cui facciamo pane, pasta ecc., proviene da uno scorpione o da una petunia o da altri organismi finora mai utilizzati nell’alimentazione».
La società Pioneer, prima compagnia mondiale nella produzione di semi, ha prodotto una soia più ricca di metionina (amminoacido essenziale che il nostro organismo non sa produrre) grazie ad un gene proveniente dalla noce brasiliana nota per la sua forte potenzialità allergenica (cioè molte persone sono allergiche a questo alimento). Test indiretti di laboratorio, finalizzati proprio a valutare la possibile insorgenza di nuove allergie, avevano dato tutti esito negativo. Un test allergologico ha invece dimostrato che persone allergiche alla noce brasiliana, ma non alla soia normale, erano allergiche anche alla soia manipolata della Pioneer, la cui commercializzazione è stata bloccata in extremis. Il problema è che la maggior parte degli Organismi geneticamente modificati può essere sottoposta solo a test di tipo indiretto, la cui affidabilità è messa in discussione.
Inoltre, negli Ogm viene inserito un gene resistente agli antibiotici, definito «marcatore», che permette di identificare le cellule in cui è riuscito il «trapianto» dei geni; successivamente esso non svolge più alcuna funzione, ma la sua eliminazione sarebbe troppo costosa e difficile.
Ecco perché c’è chi teme che la resistenza agli antibiotici possa trasferirsi all’uomo, rendendo inefficaci gli antibiotici comunemente assunti. Anche se il problema sembra superabile con nuove tecnologie che non prevedono l’utilizzo di geni marcatori, non ci si può non chiedere come mai, nonostante una tale eventualità, sia stata consentita la commercializzazione di tali prodotti. L’impatto sulla salute, tuttavia, non è il solo aspetto preoccupante che riguarda la diffusione degli Ogm.

I GENI COME
VITI E BULLONI

Se i fautori degli ogm sostengono che da sempre l’uomo ha modificato le piante, i critici ribattono che non tutte le modifiche sono equivalenti dal punto di vista ecologico e non tutte hanno impatti analoghi. I biotecnologi hanno dato infatti origine a nuovi organismi nati dall’ibridazione di specie diverse, che mai si sarebbero incrociati in natura.
«L’assunto è che una caratteristica possa essere trasferita da una specie all’altra semplicemente spostando un gene. In realtà, spostando geni da una specie all’altra produrremo effetti imprevedibili», dichiara Brian Goodwin, uno dei maggiori teorici della biologia. Mentre i sostenitori dell’ingegneria genetica dichiarano che questa tecnica è più precisa e prevedibile rispetto ai metodi tradizionali di ibridazione, la nota fisica indiana Vandana Shiva, insieme ad altri scienziati più cauti sull’argomento, pone l’accento sul fatto che «indipendentemente da come il transgene viene introdotto, c’è una totale impossibilità di prevedere quale sarà l’esatta collocazione del gene nel cromosoma», e continua affermando che «il luogo comune secondo cui l’ingegneria genetica è precisa e prevedibile è falso. Di fatto, non si tratta di vera ingegneria». Inoltre sottolinea come la selezione tradizionale non prevede affatto il trasferimento di geni da batteri e animali alle piante, ma incrocia «il riso con il riso e il grano con il grano».
Anche se molti scienziati iniziano a vedere i geni non più come semplici viti e bulloni di una macchina, che possono essere spostati o riordinati a piacere, proprio questa visione è invece la base fondante delle nuove biotecnologie, della nuova industria delle scienze della vita e del nuovo commercio genetico.

IL PRINCIPIO
DI PRECAUZIONE

Come ricorda il biologo Giuseppe Barbiero dell’Università di Torino, la comparsa degli ogm ha accelerato significativamente il processo di selezione naturale, in quanto si svolge in un periodo di tempo molto ridotto e in condizioni del tutto differenti rispetto alla selezione artificiale utilizzata tradizionalmente in agricoltura e zootecnia. La comunità scientifica sembra oggi riconoscere che è necessario approfondire le conoscenze prima di commercializzare gli Ogm, per evitare una sorta di esperimento globale su scala planetaria. Non sono pochi, infatti, gli esperti che ritengono insufficienti le attuali conoscenze scientifiche sull’argomento.
Ci troviamo cioè in «condizioni di ignoranza», di fronte a fenomeni complessi e non prevedibili come quelli biologici, in presenza del rischio reale di commettere errori gravi da cui non si può tornare indietro e, soprattutto, in una situazione in cui nessuno sa come eventualmente correggere gli errori: in questo contesto dovrebbe valere il «principio di precauzione», ossia un approccio prudente al problema (4). Per questa ragione l’etichettatura dei prodotti agrobiotecnologici, il rispetto dei protocolli di sicurezza, l’adozione di particolari cautele finalizzate a non compromettere l’equilibrio ecologico danneggiando la biodiversità sono alcune delle misure che dovrebbero essere considerate sempre necessarie, in quanto, in caso di errore, è più facile risalire alle cause e porvi rimedio in tempi ragionevoli. «Tuttavia – continua Barbiero – anche il rispetto più rigoroso dei protocolli di sicurezza non ci garantisce contro il rischio intrinseco delle nuove biotecnologie, dovuto esclusivamente alla nostra ignoranza riguardo la fisiologia del genoma. Siamo allora di fronte a un nodo ineludibile: la comunità scientifica deve dare segni di disponibilità e rimettere in discussione l’intera filiera che dalla ricerca porta alla commercializzazione dei prodotti delle nuove biotecnologie».
La necessità di adottare il principio di precauzione non è evidente solo alla luce delle possibili conseguenze sulla salute umana, ma anche dei potenziali, e in alcuni casi già effettivi, impatti sull’ambiente.

AGRICOLTURA BIOLOGICA O
RIVOLUZIONE «GENETICA»?

In molti sostengono che l’incremento dei raccolti registrato negli ultimi 50 anni, con la cosiddetta «rivoluzione verde», non sia dovuta ad una migliore gestione delle risorse locali, bensì all’utilizzo di pesticidi e fertilizzanti, all’allevamento industriale di animali, e ad altre pratiche di agricoltura intensiva che hanno generato importanti conseguenze per l’uomo e per l’ambiente.
Oggi, le stesse aziende che si sono procurate una pessima fama con l’utilizzo di sostanze chimiche nelle produzioni agroalimentari, stanno proponendo una nuova «soluzione»: la cosiddetta «rivoluzione genetica», ossia l’utilizzo di semi modificati geneticamente, che ridurrebbe la dipendenza dai dannosi pesticidi di loro stessa produzione.
La maggior parte degli Ogm viene prodotta con caratteristiche che li rendano resistenti agli erbicidi; anziché comportare una diminuzione dell’uso degli erbicidi stessi, alcune stime dimostrano che ciò implica invece un aumento dell’utilizzo di tali sostanze.
Secondo Greenpeace, «che il meccanismo serva a far vendere più erbicidi lo prova il fatto che negli Usa le sementi transgeniche vengono vendute con un contratto, nel quale si stabilisce che gli agricoltori che utilizzano erbicidi che non siano della ditta produttrice della semente manipolata, possono essere perseguiti legalmente. Lo stesso contratto vieta agli agricoltori di conservare i semi provenienti dal raccolto per riseminarli l’anno successivo».
Ad esempio, la soia manipolata della Monsanto resiste a dosi massicce di Roundup, un erbicida prodotto dalla Monsanto stessa. In generale, una coltivazione di piante Gm di questo tipo può essere trattata con l’erbicida a dosi tali da uccidere le piante infestanti: sopravviverà soltanto la pianta Gm che è resistente. «Che poi – puntualizza Greenpeace – essa possa contenere dosi più o meno elevate di veleni chimici, è un fatto che non preoccupa l’industria chimica».
Tra gli «effetti collaterali», secondo i critici, anche lo sviluppo sia delle cosiddette «super-erbacce», in grado di invadere le altre specie presenti e causa di un ulteriore utilizzo degli erbicidi stessi, sia di «insetti super-infestanti».
L’utilizzo di prodotti chimici si estenderà inoltre in aree del mondo in cui attualmente non si fa uso di tali sostanze.
Alcune piante sono modificate geneticamente, invece, per produrre da sole i propri pesticidi: ciò provocherebbe fenomeni di resistenza a tali sostanze col conseguente aumento del loro utilizzo. Senza contare che l’inserimento di una tossina in una pianta rischierebbe di aumentare la tossicità della stessa e la sua diffusione nell’ecosistema.
«Ad oggi – continua Greenpeace – ciò che l’ingegneria genetica ci nega è la scelta delle tecniche genuine dell’agricoltura sostenibile sviluppate dalla modea agricoltura biologica. Ingegneria genetica e agricoltura biologica sono incompatibili».

IL BIO-INQUINAMENTO
L’agricoltura si caratterizza per la complessità di saperi, tecniche e coltivazioni evoluti con le caratteristiche dei territori e delle popolazioni che li abitano: si è così sviluppata una moltitudine di sistemi agrari complessi e diversificati, da cui si sono sviluppate specifiche culture alimentari e gastronomiche.
Questa diversità è oggi a rischio: come evidenzia Greenpeace, la dispersione nell’aria del polline, il trasferimento dei transgeni dalle colture Gm alle erbe spontanee, la dormienza dei semi che li può portare a germinare a distanza di qualche stagione, l’alterazione dei microrganismi del suolo, possono rappresentare un pericoloso mezzo di dispersione degli Ogm e di inquinamento genetico. Una volta rilasciato in natura, un nuovo organismo creato dall’ingegneria genetica potrebbe essere in grado di interagire con altre forme di vita, riprodursi, trasferire le sue caratteristiche e mutare in risposta alle sollecitazioni ambientali. Addirittura «è possibile che colture trasformate per produrre farmaci o altri composti di interesse industriale possano fecondare piante destinate all’alimentazione umana, con l’inevitabile risultato di trovare nuove sostanze chimiche nella catena alimentare umana» (5).
A tutt’oggi non è infatti possibile prevedere le conseguenze dell’immissione di Ogm in un ecosistema. L’elemento preoccupante è che il materiale genetico possa trasferirsi da un organismo all’altro al di fuori del controllo umano. Ad esempio, è stato verificato che i geni «trapiantati» possono velocemente passare dalla colza Gm a piante affini, infestanti e non. Ricerche condotte in Germania hanno mostrato che il gene per la resistenza al glufosinato può trasferirsi, mediante il polline, in piante distanti 200 metri e dati più recenti indicano che l’inquinamento genetico può avvenire anche a distanze maggiori. La commercializzazione di mosche, zanzare e vermi, ingegnerizzati in laboratorio per diversi scopi, porterebbe ad una loro rapida diffusione nell’ambiente.
L’evidenza ha dimostrato l’alta frequenza ed entità delle contaminazioni non solo in campo aperto, ma anche nelle fasi di stoccaggio e trasporto. «Le attuali strategie di contenimento genetico non possono funzionare in modo affidabile in campo aperto. Possiamo ragionevolmente attenderci che gli agricoltori ripuliscano meticolosamente i propri macchinari agricoli, tanto da rimuovere tutti i semi geneticamente modificati?» (6).
«Poiché il bioinquinamento si verifica quando gli Ogm non sono confinati in ambiente chiuso, gli scettici degli Ogm vorrebbero sospendere i test sul campo e le coltivazioni Gm, non le medicine ottenute tra le mura di un laboratorio», chiarisce Vandana Shiva (7).
(Fine prima parte – continua)

BOX 1 Le iniziative anti OGM di regioni e comuni

• Il 13 ottobre 2003, in seguito alla semina illegale di mais Ogm nel comune di Sant’Elpidio a Mare (AP), la regione Marche ha avviato le operazioni di smaltimento dell’intero raccolto.
• Nell’aprile del 2003, il Tar del Lazio ha respinto il ricorso delle multinazionali di produttori e importatori di Ogm che chiedevano di sospendere la circolare del ministero delle politiche agricole e forestali che vietava la produzione e commercializzazione di sementi, soia e mais che anche accidentalmente contenessero Ogm.
• La regione Friuli ha proposto nel giugno 2002 la creazione di una macro-regione europea «Ogm-free».
• Nel luglio 2003 la regione Piemonte ha disposto la distruzione di 381 ettari di mais geneticamente modificato con un’ordinanza del presidente. Respinto il ricorso al Tar della multinazionale Pioneer, la regione ha provveduto al rimborso degli agricoltori coinvolti nella vicenda.
• La regione Campania ha approvato una legge (n. 15 del 24 novembre 2001) per la quale «i prodotti contenenti organismi geneticamente modificati non devono essere somministrati nelle attività di ristorazione collettiva riguardanti le forme scolastiche e prescolastiche, negli ospedali e nei luoghi di cura della regione Campania appartenenti alle Aziende sanitarie locali e alle Aziende ospedaliere, ai comuni, alle province, alla regione, agli altri enti pubblici ed ai soggetti privati convenzionati».
• La regione Veneto con la legge regionale n. 6 del 1° marzo 2002 «tutela la salute quale fondamentale diritto dell’individuo e promuove tutte le azioni necessarie a prevenire i possibili rischi alla salute umana derivanti dal consumo di alimenti contenenti organismi geneticamente modificati (Ogm) o prodotti derivati da Ogm».
• La regione Liguria con legge regionale n. 13 del 19 marzo 2002 impone il «divieto di introduzione di organismi geneticamente modificati sia vegetali che animali, in particolare in agricoltura e allevamento, compresi gli allevamenti ittici e le attività di trasformazione dei prodotti».
• La regione Basilicata ha emanato una legge (n. 18 del 20 maggio 2002) in cui è fatto divieto di coltivazione in pieno campo di piante transgeniche.
• La regione Abruzzo ha disposto con la legge regionale n. 6 del 16 marzo 2001 che il principio di precauzione sia applicato «nelle decisioni che riguardano l’uso per qualunque fine di organismi geneticamente modificati o di prodotti da essi derivati».

Intanto, dall’agosto del 1999, sono state 445 le amministrazioni italiane che hanno deliberato contro l’introduzione di ogm sul proprio territorio. Dal primo comune dichiaratosi «anti-transgenico», Bubbio, in provincia di Asti, all’ultimo in ordine di tempo, Ceglie Messapica, in provincia di Brindisi.
Per poter piantare il cartello con il logo di «Comune Ogm Free» le amministrazioni devono prima deliberare il loro impegno a tenere lontani dal proprio territorio gli organismi geneticamente modificati, impedendo le coltivazioni e le sperimentazioni agricole.

Fonti: www.legambiente.com; www.comuniantitransgenici.org

BOX 2 la chiesa e gli OGM…

La chiesa deve prendere coraggio e restare coerente con la sua morale per dichiarare inaccettabili gli Ogm. Lo chiede padre Alex Zanotelli sull’ultimo numero della rivista Nigrizia. Zanotelli teme che il Vaticano possa cedere alle pressioni americane in questa materia e chiede ai teologi, ai missionari, agli episcopati del Terzo mondo di farsi sentire con decisione sull’argomento per evitare che la chiesa usi due pesi e due misure nella morale che riguarda la manipolazione della vita. «Già la scorsa estate – scrive padre Alex – sono rimasto di stucco nel leggere sulla Stampa l’intervista del card. Renato Martino, presidente del Pontificio consiglio per la giustizia e la pace, sulla possibilità di usare cibi geneticamente modificati per risolvere il problema della fame. In molti hanno reagito all’intervista – ordini religiosi e istituti missionari soprattutto. Anche per questo, credo, il cardinale ha convocato, il 10-11 novembre scorso, 67 esperti per avere più pareri sugli organismi geneticamente modificati. Il fatto è che gli esperti scelti erano quasi tutti favorevoli agli Ogm. Non a caso uno dei convocati, Dorine Stabinsky, americana, ha parlato di “squilibrio”».

Dello stesso parere due gesuiti che operano in Zambia, Peter Henriot e Roland Lesseps, i quali hanno rimarcato: «Gli Ogm non possono trovare riscontro nell’insegnamento della dottrina sociale della chiesa, perché non rispettano né i diritti umani né l’ordine della creazione». Netta anche la reazione dei missionari italiani (Conferenza degli istituti missionari d’Italia, Cimi). Si noti che alla conferenza in Vaticano non c’era nessun rappresentante degli episcopati del Sud del mondo. Mentre sappiamo che gli episcopati sudafricano, brasiliano, filippino e zambiano si sono espressi negativamente sugli Ogm.
Sulla questione, critico anche l’intervento di padre Giulio Albanese, comboniano, direttore dell’agenzia Misna. E anche l’opinione di don Albino Bizzotto (Beati i costruttori di pace), Lidia Menapace e Francesco Iannuzzelli (Peacelink) che, sulla questione Ogm, hanno inviato una lettera aperta a mons. Martino.

Fonti: Ettore Colombo, www.vita.it (08/01/2004); www.oneworld.net. (02/04/2004)

Silvia Battaglia




L’energia e un modello senza futuro

Che accadrebbe se domani le nazioni del Sud volessero consumare come quelle del Nord? Come mai le guerre «giuste» riguardano sempre paesi importanti dal punto di vista delle risorse energetiche? L’attuale modello di sviluppo non ha futuro: le risorse sono in via di esaurimento, i danni ambientali sono sempre più consistenti (inquinamento, effetto serra, ecc.). Ma non basta passare alle energie rinnovabili. Occorre cambiare i nostri stili di vita. Quotidianamente. (Seconda parte)

«La Danimarca esporta migliaia di tonnellate di biscotti per gli Stati Uniti, gli Stati Uniti esportano migliaia di tonnellate di biscotti in Danimarca. E uno dice: “ma saranno diversi”. Sì, e allora? Perché non si scambiano la ricetta?! E allora, un po’ di buonsenso, questo, questo vorrei vedere…».
Sono le esilaranti parole di Beppe Grillo durante uno dei suoi spettacoli (1), quando con ironia, anche feroce, riesce a comunicare dure verità. Una di queste è che la richiesta mondiale di energia (per usi industriali, domestici e per i trasporti) è in costante aumento e, di conseguenza, è sempre maggiore l’utilizzo di risorse per la sua produzione. Se le nazioni industrializzate continueranno a prelevare e consumare i combustibili fossili al ritmo attuale e se le nazioni in via di sviluppo le imiteranno, nel breve e medio periodo il pericolo maggiore non sarà tanto quello dell’esaurimento delle risorse (che rimane comunque un fattore importante), quanto quello dei danni irreversibili all’ambiente e, di conseguenza, alla salute umana.
Secondo i dati dell’Inteational energy agency (Iea), in 27 anni, dal 1971 al 1997, l’aumento di produzione è stato del 40% per il petrolio, del 60% per il carbone, del 140% per il gas naturale ed è quasi triplicato per l’energia elettrica in generale. In Italia i consumi finali di energia sono in crescita significativa (2).

GLI IMPATTI AMBIENTALI
DEI COMBUSTIBILI FOSSILI
L’analisi degli impatti ambientali della produzione e del consumo dell’energia va affrontata considerando tutto il ciclo della fonte energetica: dalla sua estrazione, all’energia prodotta negli utilizzi intermedi e finali, fino allo smaltimento dell’energia degradata e delle scorie.
Per quanto riguarda i combustibili fossili per la produzione di energia (carbone, petrolio, gas naturale) si possono individuare 2 grandi categorie di impatto: impatti a livello locale (nell’acqua, nell’aria, nel suolo) e impatti su scala planetaria. L’estrazione di combustibile (fossile, ma anche nucleare) causa infatti varie forme di inquinamento idrico, dovute ad esempio a perdite di petrolio, al raffreddamento degli impianti termoelettrici, alla fuoriuscita di inquinanti radioattivi del ciclo nucleare; in generale, qualsiasi processo energetico richiede quantità d’acqua anche notevoli, che vengono prelevate a scapito di altri usi (es. uso potabile o agricolo).
In atmosfera, invece, vengono immessi i prodotti gassosi della combustione (anidride carbonica, ossidi di azoto, ossidi di zolfo), idrocarburi aromatici, metalli pesanti, polveri, elementi radioattivi. Infine, oltre ai rifiuti prodotti, per i quali va cercata una qualche destinazione, qualsiasi fase del ciclo del combustibile implica un’occupazione di territorio sottratto ad altri utilizzi (es. all’uso agricolo, forestale, ecc.). Nel caso di miniere a cielo aperto (carbone e uranio), le scorie prodotte possono rendere inutilizzabile il suolo anche per decenni. Spesso, inoltre, i giacimenti si trovano all’interno di foreste o aree selvagge: l’esigenza di costruire strade di accesso e impianti può quindi trasformarsi in causa di deforestazione.
L’impatto ambientale non è mai slegato da quello sociale: spesso i siti di estrazione sono all’interno di foreste abitate da popoli indigeni e diventano causa di inquinamento e distruzione del territorio su cui essi vivono, se non di vero e proprio sfollamento di intere popolazioni.
A livello planetario, invece, desta preoccupazione l’immissione nell’atmosfera di anidride solforosa, derivante essenzialmente dalla combustione di prodotti petroliferi e di carbone, da cui deriva il fenomeno delle piogge acide: esse hanno effetti negativi sulla salute umana, corrodono la vegetazione, edifici e monumenti, ed inquinano le acque di laghi e fiumi.
Il problema più urgente e preoccupante è però rappresentato dal potenziale cambiamento del clima a livello mondiale, fenomeno dovuto all’effetto serra e la cui causa principale risiede nell’aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera.

L’EFFETTO SERRA
E IL CAMBIAMENTO CLIMATICO
La Commissione scientifica intergovernativa sui cambiamenti climatici (Ipcc), costituita da alcune centinaia di scienziati, è stata istituita nel 1988 proprio per valutare le informazioni scientifiche disponibili sui mutamenti del clima. L’aumento di anidride carbonica nell’atmosfera, causato soprattutto dagli impianti di produzione di energia, concorre al graduale aumento dell’effetto serra.
Come è noto, questo fenomeno comporta il riscaldamento del pianeta e possibili cambiamenti del clima, con effetti differenti: riduzione delle risorse idriche e desertificazione in alcune regioni; crescita delle piogge, degli uragani e delle inondazioni in altre; scioglimento dei ghiacciai, aumento del livello del mare, rischio di diffusione di malattie infettive tipiche delle zone tropicali anche nelle regioni temperate, ecc.; tutti rischi dai quali l’Italia non è certo esente.
Secondo Lester Brown, presidente del Worldwatch Institute di Washington, la stabilità climatica va ripristinata tramite il passaggio da un sistema economico basato sull’energia derivata dallo sfruttamento dei combustibili fossili ad una basata sulle fonti energetiche rinnovabili e sull’idrogeno.
Tuttavia, anche le fonti rinnovabili presentano un impatto ambientale, variabile in modo significativo a seconda della fonte e della tecnologia, anche se nettamente inferiore agli impatti dei combustibili fossili.
ESISTONO FONTI «PULITE»?
Qualche esempio: occupazione del territorio (ad esempio da parte di pannelli solari) a scapito di altri usi (es. agricoli); impatto visivo e inquinamento acustico della produzione di energia eolica, che tra l’altro può essere prodotta soltanto in zone dove soffiano venti con una determinata velocità; deforestazione, desertificazione e possibile produzione di emissioni inquinanti legate alla produzione di biomassa a scopi energetici; modifiche del territorio, dell’assetto idrogeologico, della stabilità dei territori montani e del clima locale, nel caso di sfruttamento dell’energia idrica, specie dove ciò comporti la costruzione di grandi laghi artificiali. Senza contare che scarseggiano i luoghi dove costruire nuove dighe, mentre cresce l’opposizione delle popolazioni che vivono nei pressi.
Per quanto riguarda il nucleare, i rischi sono legati all’impatto radiologico, alla sicurezza di alcune fasi del processo (in particolare la sicurezza del reattore nucleare), al trattamento e messa in sicurezza delle scorie radioattive.
Ogni tecnologia va quindi analizzata non solo dal punto di vista delle emissioni, ma in base agli impatti che possono derivare da qualsiasi fase, dalla progettazione allo smaltimento. Ad esempio, le cosiddette «celle a combustibile» non producono praticamente emissioni, ma la produzione dell’idrogeno necessario al loro funzionamento avviene tramite metano, che dà origine a sottoprodotti da reimpiegare in qualche modo.
A conti fatti, non esiste un sistema di produzione di energia privo di conseguenze sull’ambiente e sulla popolazione. Il termine energie «rinnovabili» non coincide con «pulite», come invece spesso viene fatto credere. L’imperativo dovrebbe consistere nel ridurre innanzitutto lo sfruttamento e l’utilizzo delle fonti energetiche, rinnovabili e non: l’energia più pulita è quella non prodotta. Pertanto, «il futuro è nelle energie pulite», frase tanto amata da media, politici e cittadini, va intesa diversamente dall’usuale.

LA SOLUZIONE È DAVVERO
NELLE FONTI RINNOVABILI?
Dopo aver ridotto gli sprechi ed i consumi energetici, lo sforzo maggiore dovrebbe essere rivolto alla produzione di energia tramite le fonti rinnovabili: il sole, il vento, la biomassa, ecc. (vedi MC, febbraio 2004). Oltre ad avere un impatto ambientale inferiore, tali fonti sono distribuite, anche se con densità diverse, su tutto il globo.
Tuttavia, in Italia, nel 2002 l’offerta complessiva di fonti rinnovabili si è ridotta di oltre il 10%, a causa della diminuzione della produzione idroelettrica, che rappresenta la principale fonte rinnovabile del paese. Questa minore produzione è conseguente alle scarse precipitazioni registrate da gennaio a ottobre 2002, fatto che conferma tra l’altro come tutti gli aspetti ambientali siano tra loro strettamente connessi.
Le fonti rinnovabili possono quindi fornire un importante contributo allo sviluppo di un sistema energetico più sostenibile e alla tutela dell’ambiente, ma anche ad incrementare il livello di consapevolezza e partecipazione dei cittadini, nonché a fornire opportunità economiche. Tuttavia, è fondamentale considerare che la nostra civiltà è oggi basata sul petrolio, perché esso rappresenta una fonte energetica versatile, applicabile agli usi più diversi. I combustibili fossili, ad esempio, permettono il funzionamento di tutta una serie di oggetti che non potrebbero lavorare ad elettricità, basti pensare al settore dei trasporti. Inoltre, consentono potenze (la potenza è l’energia nell’unità di tempo) relativamente alte e concentrate in uno spazio sufficientemente piccolo. Tutto il sistema energetico si basa sulle grandi potenze, adatte ad alimentare grandissimi insediamenti urbani ed enormi impianti di produzione industriale concentrati in determinati luoghi.
Le energie rinnovabili, invece, basti pensare al solare e all’eolico, foiscono potenze basse e diffuse sul territorio, permettendo di produrre energia su piccola scala, con impianti di produzione e di utilizzo di piccola taglia, a bassa potenza. Quindi, in realtà, l’energia rinnovabile non può sostituire immediatamente i combustibili fossili, ma solo quando cambierà il nostro modello di sviluppo e quindi il nostro stile di vita (3).
Come sarebbe il nostro stile di vita se potessimo disporre di una quantità di energia pari alla decima parte di quella attuale? Il 70% della popolazione mondiale, che vive nei paesi in via di sviluppo, usa solo il 30% dei consumi globali di energia. Esistono tuttavia forti differenze anche tra i paesi ricchi: ad esempio, per produrre un’unità di prodotto interno lordo, Usa e Canada utilizzano il doppio dell’energia consumata da Francia, Giappone, Italia.

GUERRE «GIUSTE»?
SÌ, SE C’È L’ENERGIA…
La caratteristica delle fonti rinnovabili di essere distribuite su tutto il pianeta e di essere quindi disponibili direttamente dalla popolazione che deve utilizzare l’energia, scongiurerebbe i rischi derivanti dai combustibili fossili, localizzati in particolari zone geografiche del pianeta: secondo molti addetti ai lavori, tale rischio si manifesta con l’attuale concetto di «guerra giusta».
La distribuzione mondiale delle riserve accertate di petrolio indica infatti una forte concentrazione nel Medio Oriente (oltre il 66,5% delle riserve), in Asia, Africa, Comunità di stati indipendenti (Csi, comprende parte dell’ex Unione Sovietica, ndr) mentre quelle europee ed americane sono più modeste. Le riserve accertate di gas naturale sono localizzate per il 30,4% nei paesi mediorientali, per il 38,3% nella Csi e per il 7% nel Nord America. Il fatto che i 2/3 delle riserve conosciute di petrolio siano concentrate nel sottosuolo di Arabia Saudita, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Iran, fa sì che la regione rappresenti una zona strategica prioritaria per l’Occidente, e in particolare per gli Stati Uniti. Come riporta Ritt Goldstein, la paura di non poter effettivamente disporre di tanta energia quanta ne serve per mantenere inalterato il proprio stile di vita sembra innescare la necessità di accedere al petrolio, prospettando anche «la necessità di interventi militari», esigenza evidenziata in un rapporto americano dell’inizio del 2001 (5).
Secondo Luigi Sertorio, poiché l’energia fossile non è perenne, né equamente distribuita, si crea un nuovo concetto di «guerra giusta»: «La guerra non è per il sopruso locale territoriale, ma per il diritto al benessere di chi ha la capacità tecnologica di accedere alla sorgente del denaro, cioè l’energia» (6).
È impressionante notare quante guerre siano state combattute nel Novecento in aree ricche di fonti energetiche: dalle grandi battaglie dell’Africa settentrionale a quelle rumene, all’infinità dei conflitti in Medio Oriente, passando per i Balcani e culminando con il terrorismo in Cecenia e le guerre contro l’Iraq (7). Anche se le ragioni ufficiali sono differenti, è evidente che le aree interessate a questi conflitti coincidono perfettamente con le zone ricche di petrolio. Come ricorda anche Michele Paolini nel suo ultimo libro (8), il petrolio non è infatti solo estrazione: strategico è anche il controllo degli oleodotti e dei corridoi petroliferi.
Poiché il nostro stile di vita è assolutamente dipendente dalla disponibilità di energia, si potrebbe pensare che qualsiasi forma di energia potrebbe rappresentare motivo di scontro. Tuttavia, il fatto che il petrolio si trovi concentrato in particolari aree geografiche e che sia destinato all’esaurimento accresce enormemente questi rischi (9).
DALLA THAILANDIA
A SCANZANO IONICO
Per 8 anni la popolazione della provincia di Prachuap Khiri Kan, in Thailandia, si è battuta contro il progetto di costruire nella regione due grandi centrali elettriche a carbone, per timore dei loro possibili impatti sull’ambiente e sulla salute dell’uomo. Quando il premier thailandese visitò uno dei possibili siti nel gennaio 2002, fu accolto da 20.000 dimostranti. Con l’aiuto dell’organizzazione ambientalista Greenpeace, gli abitanti della provincia hanno cominciato a installare ciò che realmente desiderano: impianti per la produzione di energia solare ed eolica (10).
Possono essere molti gli esempi di situazioni nelle quali la popolazione locale si oppone a scelte di governo ritenute non sostenibili. Come dimenticare la folla umana che a Scanzano Ionico, nel novembre 2003, ha dimostrato contro la costruzione dell’impianto di stoccaggio delle scorie radioattive?
Tuttavia, se esprimere il proprio dissenso, tramite un referendum o azioni dimostrative nonviolente, è lecito ed opportuno, altrettanto importante è anche agire coerentemente nella propria quotidianità.

LA RESPONSABILITÀ
DELLE SINGOLE FAMIGLIE
Le famiglie italiane sono responsabili annualmente di più del 30% dei consumi energetici totali. Le famiglie producono il 27% (e precisamente: il 18% per usi negli edifici e il 9% per usi di trasporto) delle emissioni nazionali di gas serra. Nel settore domestico il consumo riguarda il riscaldamento delle abitazioni e degli ambienti di lavoro, l’illuminazione, l’uso degli elettrodomestici. Secondo recenti studi, una famiglia media italiana potrebbe risparmiare, senza fare rinunce, ma semplicemente usando meno l’energia, il 40% delle spese per il riscaldamento e il 10% per gli elettrodomestici (vedi box).
Nel settore trasporti il risparmio energetico si basa, ad esempio, sulla riduzione dei consumi dei singoli mezzi su strada e sul potenziamento del trasporto collettivo, senza dimenticare che una riduzione della velocità, sia per il trasporto terrestre sia aereo, comporta risparmi consistenti. Il settore agricolo può vantare consumi energetici inferiori a causa del modesto sviluppo tecnologico del settore.
Per il settore industriale, invece, ridurre i consumi energetici potrebbe anche voler dire ridurre i costi; tuttavia, ancora oggi i costi di produzione sono tagliati sostituendo il lavoro umano con nuove tecnologie, che spesso richiedono più energia delle precedenti.
Da non dimenticare che i consumi energetici nel settore industriale comprendono anche gli utilizzi per l’attività bellica (costruzione degli armamenti, funzionamento e logistica della «macchina» bellica). In un interessante articolo Luca Mercalli (11) riprende i calcoli di Luigi Sertorio sui consumi energetici del conflitto iracheno: in ogni giorno di guerra si consuma tanto carburante da fare il pieno a 1.125.000 autovetture, quantità che provoca un’emissione annua di anidride carbonica equivalente a quella di circa 11.500 persone, quantità che «vanifica in pochi giorni gli sforzi di intere nazioni per ridurre i consumi e risparmiare energia, alla faccia del Protocollo di Kyoto».

SE IL «FRESCO» PRIVATO
È PAGATO DAL PUBBLICO
Andrea Fasullo, responsabile del settore clima ed energia del Wwf Italia, ha dichiarato che «un’economia matura è quella che a parità di benefici usa la minor quantità possibile di energia; al contrario, l’ossessione di soddisfare sempre e comunque la crescita dei consumi crea inevitabilmente circoli viziosi del tipo “fa caldo, aumentano i condizionatori, serve più elettricità”, producendo esattamente le condizioni perché i blackout avvengano».
A proposito dei condizionatori, causa di grandi consumi elettrici e conseguenti emissioni di gas serra, Adriano Paolella (12) offre un’importante riflessione, estendibile anche ad innumerevoli altre situazioni: «Il condizionatore è un sistema individuale per avere fresco, ma è anche la soluzione più asociale e di maggior impatto ambientale che si possa mettere in atto. Esso permette di ottenere un fresco privato determinando condizioni di caldo pubblico».
Non servono quindi nuovi impianti, ma la razionalizzazione della rete attuale e un serio programma per le fonti alternative. E, soprattutto, un nuovo modello di sviluppo con minori consumi e un diverso stile di vita da parte di noi tutti.
(seconda parte – fine)
Note:
(1) Le parole sono riprese da quelle dell’economista statunitense Herman Daly, che ribadisce come «Più di metà del commercio mondiale scambia beni identici, che ognuno avrebbe a disposizione anche sul posto».
(2) Fino al livello raggiunto nel 2000 di circa 185,2 Mtep rispetto al 1990 (+14,1%).
(3) Nanni Salio, Politiche globali dell’energia, in corso di stampa
(4) Fonte: Grtn (Gestore Rete Trasmissione Nazionale), www.grtn.it/ita/statistiche/datistatistici.asp.
(5) Si tratta del “Strategic Energy Policy Challanges for the 21st Century”; fonte: Ritt Goldstein, in Azione nonviolenta, aprile 2003.
(6) Luigi Sertorio, Il Potere del Fossile, Edizioni SEB 27, Torino, 2000; Luigi Sertorio è professore associato di Ecofisica alla Facoltà di scienze dell’Università di Torino.
(7) Carlo Bertani, Energia, Natura e Civiltà. Un futuro possibile?, Giunti, 2003.
(8) Michele Paolini, La guerra del petrolio, Editrice Berti, 2003.
(9) Per approfondire, tra gli altri: Michele Paolini, Carlo Bertani, Giulietto Chiesa, Michel Chossudovsky, MC monografico sulle guerre ottobre-novembre 2003.
(10) Worldwatch Institute, State of the World’03, Edizioni Ambiente, Milano 2003.
(11) Luca Mercalli, Clima di guerra: quali sono i costi energetici e ambientali del conflitto iracheno?, Società Meternorologica Italiana, 25 marzo 2003; Luigi Sertorio, Storia dell’abbondanza, Bollati Boringhieri 2002.
(12) Adriano Paolella, Banca del Clima: un progetto per quantificare il risparmio energetico, in Attenzione, rivista del Wwf per l’ambiente e il territorio, n. 20, lug. 2003.

Bibliografia essenziale:
APAT, Annuario dei dati ambientali. Sintesi, Roma 2002
Domenico Filippone, Da onnivori a energivori! L’energia nuovo alimento della specie umana, Itinerari. Sviluppo Sostenibile?, n.5, novembre/dicembre 2001
ENEA, Clima e Cambiamenti Climatici, Roma, dicembre 2002
ENEA, L’energia e i suoi numeri, Italia 2000, Roma, ottobre 2001
ENEA, Noi per lo sviluppo sostenibile, Roma, novembre 1999
Gianfranco Bologna (a cura di), Italia capace di futuro, EMI 2000.
Worldwatch Institute, State of the World’03. Stato del pianeta e sostenibilità-Rapporto annuale, Edizioni Ambiente, Milano 2003

Alcuni siti internet:
www.unfccc.int
www.grtn.it
www.enea.it
www.bancadelclima.it
www.nimbus.it.
www.greenpeace.it
www.wwf.it

Silvia Battaglia




E l’ultimo spenga la luce

L’uomo è diventato «energivoro», cioè consuma sempre più energia.
Ma l’energia non è né illimitata né gratuita. L’attuale sistema energetico
comporta spreco di risorse naturali, inquinamento e impatti ambientali,
costi economici e sociali. La scorsa estate siamo stati sommersi da fiumi
di parole in occasione di alcuni blackout. Ma non uno dei nostri politici
e presunti esperti che abbia detto l’unica cosa veramente determinante:
«Il nostro stile di vita consuma troppa energia e per questo è insostenibile».
(Prima parte)

Scrive Mario Rigoni Ste in un bellissimo articolo (1) del 29 settembre 2003, all’indomani del tanto discusso blackout italiano: «Questo “buio-fuori” potrebbe far accendere la “luce-dentro”. Chissà se un blackout sarà capace di far riflettere la gente così dipendente dal “progresso”?».
Se non tutti i mali vengono per nuocere, in effetti anche un evento come il blackout può riaccendere la consapevolezza sul proprio stile di vita, sulle caratteristiche di una società completamente dipendente dall’uso di energia, non solo per i bisogni fondamentali, ma anche per tutti i desideri superflui: energia per i trasporti, per le industrie, per il riscaldamento, per l’illuminazione, per il cinema, il teatro e la musica, per computer e televisione, per fare la doccia, ma anche per lo spremiagrumi elettrico, per la scopa elettrica, per lo spazzolino elettrico, per fare la spesa di giorno in un ipermercato con la luce artificiale.
La capacità dell’uomo di utilizzare energia è quasi illimitata: da onnivoro, l’uomo è diventato «energivoro» (2).
Un’occasione per approfondire seriamente la questione energetica si trasforma invece molto spesso in frasi fatte e in preconcetti che presentano di volta in volta aspetti parziali del problema: «bisogna costruire subito nuove centrali», «il futuro è nelle fonti rinnovabili», «bisogna investire nelle energie pulite», «l’Italia è un paese del Terzo Mondo» e via di seguito.
Fare ordine sul tema energetico è estremamente complesso; indirizzare il dibattito esclusivamente sulle fonti di energia pulita può essere limitante e fuorviante, sia per le implicazioni ambientali sia per quelle sociali e di stabilità internazionale. Cosa si nasconde quindi dietro l’utilizzo di energia, dietro il gesto di «inserire la presa nella corrente»?
RINNOVABILE?
L’energia di un corpo (un organismo vivente, un oggetto, un macchinario…) può essere definita come la sua attitudine a compiere lavoro. L’energia può assumere forme diverse: può presentarsi come energia chimica, termica, meccanica, elettrica, elettromagnetica, nucleare.
Le fonti di energia possono essere classificate in vari modi:
• fonti primarie (carbone, petrolio, gas naturale, uranio, radiazione solare, vento, geotermia, idraulica, maree, biomassa): includono sia le materie prime energetiche sia quei fenomeni naturali che rappresentano possibili fonti di energia se opportunamente convertiti nelle forme adatte all’utilizzazione (ad esempio il vento può essere utilizzato per generare energia tramite il movimento delle pale eoliche);
• fonti secondarie (elettricità, idrocarburi, idrogeno, metanolo…): includono quei prodotti e quelle forme di energia che derivano da una trasformazione precedente delle fonti primarie. Ad esempio, l’elettricità è una fonte secondaria perché può derivare da un’opportuna trasformazione del petrolio, del vento, della forza dell’acqua.
Tra le fonti primarie si possono ulteriormente distinguere:
• fonti non rinnovabili, che si sono originate dalla decomposizione di sostanze organiche accumulatesi durante le diverse ere geologiche; esse si trovano in natura in quantità limitata e hanno bisogno di tempi estremamente lunghi per riformarsi: ciò fa sì che rappresentino risorse esauribili: si tratta dei combustibili fossili (carbone, petrolio, gas naturale), ma anche dei combustibili nucleari (uranio, torio…);
• fonti rinnovabili, che traggono origine da fenomeni naturali che stanno alla base della vita del pianeta: la radiazione solare (trasformabile in energia solare), il vento (energia eolica), l’acqua (energia idraulica), il calore della terra (energia geotermica), la biomassa, le maree.

IL DOMINIO
DEI COMBUSTIBILI FOSSILI
Proviamo ora a dare qualche dato significativo sull’energia (3):
• a partire dal 1992, il consumo mondiale di energia ha registrato incrementi significativi e si prevede che fino al 2020 continuerà a crescere ad un tasso del 2% annuo;
• l’incremento maggiore nell’impiego di energia si è verificato nel settore dei trasporti, nel quale il 95% dell’energia che viene consumata deriva dal petrolio. Si prevede che il consumo di energia in questo comparto crescerà ad un tasso dell’1,5% all’anno nelle nazioni industrializzate e del 3,6% nei paesi in via di sviluppo;
• i combustibili fossili rappresentano circa l’80% del totale mondiale dell’energia prodotta e consumata, in calo rispetto all’86% circa registrato nel 1971;
• attualmente, il 20% della domanda mondiale di energia esistente di olio e gas proviene dall’Asia. E, dato ancor più importante, più del 50% della crescita della domanda che viene registrata annualmente proviene da questa regione;
• l’energia nucleare rappresenta il 16% della produzione mondiale di energia elettrica, ma ci sono continue preoccupazioni sulla sua sicurezza e sul suo rapporto costo/efficacia, in particolare per quanto riguarda il materiale di scarto, le scorie radioattive, le spedizioni trans-
frontaliere (cioè da una nazione all’altra), lo smantellamento dei vecchi impianti;
• le modee fonti di energia rinnovabile rappresentano circa il 4,5% del totale dell’energia prodotta.
In Italia (4), negli ultimi 20 anni i consumi energetici dell’industria sono rimasti costanti, mentre si è registrato un notevole aumento nel settore civile e in quello dei trasporti. Attualmente l’utilizzo di energia termica, ossia sottoforma di calore, rappresenta il 54,2% dei consumi totali e il 92% circa di tutti gli usi finali domestici (basti pensare all’utilizzo massiccio di dispositivi elettrici come scaldabagni, stufette, condizionatori, foi e fornelli) e viene soddisfatto tramite il ricorso a fonti non rinnovabili, specialmente gasolio e metano.
L’attuale sistema di produzione dell’energia elettrica avviene quasi totalmente bruciando i combustibili fossili: semplificando, il calore generato dalla combustione (energia termica) viene trasformato in energia meccanica attraverso una turbina, e successivamente in elettricità (energia elettrica) tramite un alternatore elettromagnetico. Questi passaggi fanno sì che solo una quota compresa tra il 35% ed il 55% del calore prodotto (dipende dal tipo di centrale usata) diventi elettricità: la restante parte viene dispersa nell’ambiente.
Il fatto che una forma pregiata di energia, quale l’energia elettrica, venga poi utilizzata per ottenere forme di energia di scarso pregio, quale il calore a bassa e media temperatura (è il caso dello scaldabagno elettrico), è un’assurdità fisica (5) traducibile in spreco di risorse naturali non rinnovabili, inquinamento e costi economici!
HA UN FUTURO
LA CIVILTÀ INDUSTRIALE?
L’allarme lanciato periodicamente per sollecitare l’utilizzo di fonti rinnovabili che sostituiscano il massiccio uso di combustibili fossili si basa spesso sulla scarsità delle risorse non rinnovabili.
Secondo i dati ufficiali delle multinazionali del petrolio, negli ultimi 50 anni le riserve di petrolio e gas naturale sono aumentate, anche se con un rallentamento nell’ultimo periodo: un forte calo della produzione di petrolio si manifesterebbe quindi non prima del 2050.
Secondo alcuni analisti, invece, il petrolio scoperto alla fine degli anni ’80 sarebbe estratto tramite tecnologie avanzate da giacimenti già utilizzati. In questo caso la produzione mondiale di petrolio inizierebbe a diminuire già intorno al 2015 (secondo i pessimisti, 2010), non necessariamente per mancanza della risorsa ma per i costi troppo elevati che richiederebbero le opportune tecnologie. Ovviamente, nel caso l’offerta diminuisse e la domanda crescesse (sia a causa dell’aumento dei consumi pro capite, sia a causa dell’aumento della popolazione mondiale), sarebbero prevedibili gravi conseguenze sui prezzi e sulla stabilità dei mercati.
Fra i numerosi studi, spicca la Teoria di Olduvai (6), proposta da Richard C. Duncan, che ha analizzato i dati di produzione e consumo dell’energia pro capite a livello planetario, dal 1960 (dati storici) al 2060 (previsioni).
Secondo questa teoria, la «civiltà industriale» durerebbe circa 100 anni, presentando alcuni eventi particolari: 1930, inizio della civiltà industriale; 1979, raggiungimento del massimo valore assoluto di produzione del petrolio fino ai nostri giorni; 1999, fine del petrolio a buon mercato; 2000-2001, conflitti in Medio Oriente ed escalation del terrorismo internazionale; 2006, picco di produzione del petrolio; 2012, blackouts elettrici permanenti previsti in tutto il mondo; 2030, produzione pro capite di petrolio uguale a quella del 1930.
Anche se in campo energetico l’Italia è dipendente dall’estero per l’83%, valore praticamente costante dal 1971 ad oggi, lo sforzo nel produrre energia elettrica a partire da fonti rinnovabili risulta esiguo.
Se la Olduvai Theory può sembrare pessimista, in realtà il declino della civiltà industriale potrebbe essere causato da un insieme complesso di concause già in atto: impoverimento delle riserve fossili, sovrappopolazione, danni ambientali, inquinamento, riscaldamento globale, desertificazione, conflitti per l’appropriazione delle risorse.
(Fine prima parte – continua)

Silvia Battaglia




AMBIENTE Acqua delle mie brame

ACQUA DELLE MIE BRAME

Il problema della scarsità d’acqua
si sta rapidamente aggravando,
come dimostrano le sempre
più frequenti guerre per
l’«oro blu» (in Medio Oriente,
regione nilotica,
subcontinente indiano).
Intanto, in Italia il consumo
giornaliero medio pro capite
è di 213 litri e negli Stati Uniti
raggiunge la stratosferica
cifra di 600 litri. È questo
lo «stile di vita»
che vogliamo difendere?

SPRECHI INACCETTABILI

Nel 2000, i paesi afflitti da problemi idrici o da scarsità d’acqua erano 31; secondo le previsioni, entro il 2025 la cifra salirà a 48, compresi India e Cina. Anche se il problema della scarsità d’acqua riguarda tutti i paesi del mondo, i più pregiudicati sono quelli del Sud.
È il Kuwait, con i suoi 10 metri cubi pro capite, il fanalino di coda della classifica sulla disponibilità d’acqua, inserita nel rapporto dell’Unesco. Lo seguono la Striscia di Gaza (52 metri cubi) e gli Emirati Arabi (58 metri cubi). I paesi più ricchi d’acqua sono invece la Guyana Francese con oltre 800 mila metri cubi e l’Islanda (circa 60.000 metri cubi). L’Italia non è esente da questi problemi: a causa della cattiva gestione delle acque, al Sud il 18% della popolazione soffre di carenza idrica.
Si parla di grave crisi idrica quando la disponibilità di acqua pro capite è inferiore a 1.000 metri cubi di acqua all’anno. Al di sotto di tale quantità sono fortemente ostacolati la salute e il benessere economico del paese, mentre sotto i 500 metri cubi è la sopravvivenza stessa ad essere compromessa.
Di fronte a queste cifre, risultano contrastanti i dati sul consumo di acqua nei paesi del Nord: molte famiglie dei paesi ricchi arrivano a consumare oltre 2 mila litri al giorno di acqua di buona qualità (secondo l’Oms la quantità ottimale sarebbe di 150 litri al giorno).
In Italia il consumo giornaliero medio pro capite è di 213 litri, negli Stati Uniti è di 600 litri. Nella seconda metà del secolo scorso la domanda di acqua si è triplicata rispetto all’inizio del secolo, e si stima che, d’ora in poi, raddoppierà ogni vent’anni.
Il contrasto diventa inaccettabile se si analizzano gli sprechi d’acqua, enormi in tutto il mondo:
– il 40% dell’acqua usata per l’irrigazione si perde per evaporazione
– le perdite negli acquedotti oscillano in media fra il 30 ed il 50% (anche nei paesi sviluppati)
– una lavatrice standard consuma mediamente 140 litri a ciclo; lo sciacquone 10-20 litri alla volta; una lavastoviglie 60 litri.
È facile prevedere che l’aumento della popolazione mondiale determinerà un’ulteriore crescita della domanda di acqua, ma intanto è necessario essere consapevoli di chi oggi ne consuma eccessivamente.

POCA ACQUA, POCA SALUTE

La scarsità d’acqua si ripercuote direttamente sulla salute dei suoi abitanti: si stima che l’80% di tutte le malattie ed il 33% delle morti nei paesi del Sud del mondo siano legate alla mancanza d’acqua, alla sua cattiva qualità, all’assenza di impianti di depurazione.
Trentamila persone al giorno muoiono per:
– malattie trasmesse dall’acqua (tifo, colera, dissenteria, gastroenteriti, epatiti)
– infezioni della pelle e degli occhi
– parassitosi
– malattie dovute ad insetti vettori (ad es. mosche e zanzare)
– infezioni da mancanza di igiene.
Il paradosso tra Nord e Sud ritorna anche in tema sanitario: il convegno medico internazionale sulle malattie infiammatorie, tenutosi a Capri il 14 aprile 2003, mette in guardia contro i rischi di un’igiene e pulizia eccessiva (legata inevitabilmente a spreco di acqua potabile), responsabili della distruzione e dell’indebolimento di batteri che difendono l’intestino dalle infiammazioni.
Scarsità d’acqua significa inoltre diminuzione della produzione alimentare e quindi aumento della fame. In questa drammatica situazione, è evidente che troppi uomini si vedono negato il proprio diritto all’acqua, ossia alla vita stessa.

L’ACQUA,
DA DIRITTO A MERCE

Se la risorsa acqua è stata finora considerata un «diritto inalienabile» dell’umanità, al 2° Forum mondiale dell’acqua all’Aia ( 2000) il termine diritto è stato sostituito da «bisogno». Però, mentre «diritto» obbliga le istituzioni ad assicurare a tutti quel diritto fondamentale, «bisogno» attenua i toni e trasforma l’acqua in un bene economico, una merce come qualsiasi altra, sottoponibile a concorrenza, da quotare in borsa, da privatizzare.
Tre sono i principi fondatori della politica promossa dai fautori dell’economia di mercato applicata anche all’acqua: considerandola un bene economico, l’acqua può essere venduta, comprata, scambiata; essendo un bisogno, e non più diritto, gli uomini diventano consumatori/clienti di un bene/servizio da rendere accessibile secondo le logiche di mercato; deve essere trattata come una risorsa preziosa (l’oro blu), destinata ad essere sempre più rara e quindi anche strategicamente importante.
Da ciò conseguono la liberalizzazione, la deregolamentazione e la privatizzazione dei servizi idrici, e quindi la priorità all’investimento privato. Tuttavia, la privatizzazione dei servizi d’acqua non si è tradotta necessariamente e dappertutto in un miglioramento dei servizi o in una riduzione dei prezzi, né in una diminuzione della corruzione o nella creazione di un circolo virtuoso di investimenti.
Nella maggior parte dei casi e specialmente nei Paesi del Sud, i prezzi sono saliti alle stelle (basti pensare al caso di Cochabamba in Bolivia, di Manila nelle Filippine, di Santa Fé in Argentina…), la corruzione si è manifestata nelle concessioni ai privati, l’indebitamento dei paesi poveri è aumentato, il miglioramento dei servizi ha paradossalmente avvantaggiato i gruppi sociali più abbienti. La decisione in materia di gestione delle risorse idriche passa quindi dai soggetti pubblici ai privati: è la mercificazione della vita stessa (vedi Dichiarazione conclusiva del 1° Forum alternativo mondiale dell’acqua, Firenze 21-22 marzo 2003). Affinché l’acqua rimanga un bene comune dell’umanità, è nato un movimento internazionale d’opinione che opera per un «Contratto mondiale per l’acqua».
Uno dei prossimi boom economici sembra inoltre essere legato all’acqua in bottiglia: secondo uno studio preliminare commissionato dal Wwf, in tutto il mondo i consumatori pagano dalle 500 alle 1000 volte di più per una bottiglia d’acqua che, almeno nel 50% dei casi, ha le stesse caratteristiche dell’acqua di rubinetto, con solo un po’ di sali e minerali aggiunti. Intanto i fiumi, che dovrebbero rappresentare la fonte della maggior parte dell’acqua potabile, sono sempre più minacciati dall’inquinamento. Disinquinare le risorse di acqua pubblica, piuttosto che affidarsi ciecamente all’acqua imbottigliata, diminuirebbe invece l’entità di due problemi ambientali: il trasporto delle bottiglie e l’elevata produzione di rifiuti di plastica.

GUERRE E CATASTROFI

In alcuni paesi le tensioni politiche per l’accesso all’acqua potabile sono cresciute a livelli allarmanti. Secondo alcuni le «guerre per l’acqua» potrebbero essere alle porte, se non già sotto i nostri occhi; secondo altri rappresentano già la causa di oltre 50 conflitti nel mondo, tra i quali la stessa guerra contro l’Iraq.
La metà dei villaggi palestinesi non ha acqua corrente, mentre tutte le colonie israeliane ne sono provviste. In Brasile sono presenti l’11% delle risorse idriche dolci del pianeta, ma 45 milioni di brasiliani non hanno accesso all’acqua potabile. Entro il 2025 è previsto che le popolazioni delle 5 regioni considerate punti caldi del conflitto idrico (regione del Lago d’Aral, bacini del Gange, del Giordano, del Nilo, del Tigri-Eufrate) aumenteranno tra il 32% e il 71% (vedi box).
Secondo Vandana Shiva, le guerre dell’acqua non sono un’eventualità futura: ne siamo già circondati, anche se non sempre sono immediatamente riconoscibili come tali. Possono presentarsi come guerre tradizionali, oppure come conflitti fra culture, su come si percepisce e si vive l’esperienza dell’acqua. Conflitti tra la cultura della mercificazione e quella opposta del dare, ricevere acqua come dono gratuito. «Immaginate un miliardo di indiani che, abbandonata la pratica dell’offerta dell’acqua presso i piyao, ricorrono a quella in bottiglie di plastica per placare la sete. Quante montagne di rifiuti di plastica ne deriverebbero? Quanta acqua sarà distrutta dalla plastica buttata via?» (Vandana Shiva, Le guerre dell’acqua, 2003).
C’è ancora un ulteriore insospettabile aspetto legato al problema acqua. Come si è visto in MC marzo 2003, spesso catastrofi come alluvioni, cicloni o siccità sono tutt’altro che naturali. Al contrario, a causa dell’effetto serra ed al conseguente riscaldamento del pianeta, questi fenomeni estremi sono destinati ad aumentare.
La quantità totale dell’acqua rimane la stessa, ma i tempi impiegati a precipitare sottoforma di pioggia possono essere molto più rapidi che in passato, causando ad esempio fenomeni alluvionali devastanti. Ogni giorno, una quantità di acqua poco maggiore di quella contenuta nel Mar Caspio (il lago più grande del mondo) evapora dalla superficie del pianeta per ricadere sottoforma di pioggia, grandine e neve. Al contrario, fenomeni di siccità prolungata e di progressiva desertificazione potranno rendere sempre più critica la già grave situazione legata alla disponibilità di acqua.

E NOI, NEL NOSTRO PICCOLO?

Nonostante lo sforzo di distinguere le varie problematiche legate all’acqua nelle implicazioni ambientali, sociali ed economiche, è evidente come tutte le sfaccettature della questione siano strettamente legate fra loro e come non sia possibile cercare di risolvere un aspetto del problema tralasciandone gli altri.
Anche se a prima vista pare impensabile, anche in questo caso una parte importante della responsabilità ricade su tutti noi, singoli cittadini:
– dal punto di vista del nostro comportamento quotidiano
– come attenzione e senso critico che dovremmo manifestare nei confronti delle politiche perseguite dai governi e dagli organismi inteazionali
– dal punto di vista delle capacità e voglia di formarsi ed informare.
Capire allora che l’acqua può essere considerata rinnovabile soltanto:
– se il suo prelievo non è più veloce della formazione delle riserve d’acqua (ad esempio delle acque sotterranee) e
– se il livello di inquinamento dell’acqua restituita all’ambiente dopo il suo uso non ne pregiudichi il suo riutilizzo.
Noi beviamo la stessa acqua che bevevano gli antichi romani, i nostri pronipoti berranno la stessa acqua che beviamo noi. Come scrive Vandana Shiva: «Il ciclo dell’acqua ci connette tutti e dall’acqua possiamo imparare il cammino della pace e la via della libertà».

L’AFA, IL GOVERNO, I CITTADINI:
BENESSERE PRIVATO, MALESSERE PUBBLICO

Ma i consumi non dovevano «far girare l’economia»? Siamo stati tormentati per mesi con l’ormai (purtroppo) nota pubblicità televisiva che ci ricordava come i consumi facciano bene all’economia… e oggi, 26 giugno 2003, il ministro per le attività produttive Antonio Marzano in persona, alle 13.30 sul Tg1, ci implora di consumare meno energia, di risparmiare, di usare meno possibile i condizionatori, addirittura di spegnere anche la lucina rossa del televisore… Se il ministro ci parla in questo modo in prima notizia, se la notizia dura ben 9 minuti, se tutti i Tg la ripropongono, allora c’è da preoccuparsi: la situazione dev’essere proprio grave.
Ma andiamo con ordine. Nella puntata precedente abbiamo sottolineato come i consumi facciano girare non solo l’economia, ma facciano anche impazzire il clima. Nessuno scienziato negherà l’eccezionalità del mese di giugno 2003, dominato da un caldo rovente fuori da qualsiasi media stagionale: avvisaglie dell’effetto serra? Scatta comunque la corsa all’acquisto non solo di ventilatori, ma dei famigerati condizionatori d’aria: 400-1.000 euro in cambio del tanto desiderato fresco. Peccato che i condizionatori consumino molta energia elettrica, troppa… Chi si azzarda a criticarne l’uso smodato per motivi ambientali viene tacciato di petulanza, di «terrorismo» ambientale e via dicendo.
Le autorità dell’energia decidono di programmare, in tutto il territorio nazionale, dei blackout a macchia di leopardo, perché non c’è energia elettrica sufficiente per soddisfare tutte le richieste. E, quasi come una beffa, scatta il «caloroso» invito a diminuire i consumi: «Non prendete l’ascensore, non aprite il freezer, il traffico può andare in tilt…». Ma allora è vero che c’è un limite ai consumi, che i limiti sono imposti dalla natura e non dall’economia? Come si sentiranno i milioni di cittadini che pensavano di risolvere tutto con i soldi, e che invece si ritrovano un condizionatore nuovo di zecca senza (teoricamente) poterlo usare?
Il fatto tragico non è comunque questo: al contrario, la «necessità» di energia elettrica sarà il pretesto per la costruzione di nuove centrali elettriche, nuove dighe, nuove strutture che impatteranno il nostro già ferito territorio, che incentiveranno nuovamente i consumi, che di conseguenza incrementeranno il fenomeno dei cambiamenti climatici… in un circolo vizioso senza fine. Forse toerà la «necessità» di costruire le famigerate centrali atomiche: con il loro sfrenato consumismo, gli italiani rischiano di far tornare in auge il problema del nucleare che essi stessi avevano allontanato con il referendum del 1987. In questi casi, il paradosso è una costante: in caso di costruzione di nuove centrali, non mancheranno le manifestazioni di protesta della popolazione locale (che le centrali non le vuole sul proprio territorio) o quelle di soddisfazione di coloro che vogliono più energia per utilizzare i condizionatori (che «fanno girare l’economia»…). La stessa giornalista del Tg1 ci presenta l’invito a risparmiare energia, vestita in giacca nera, mentre fuori ci sono 38 gradi…
Come se non bastasse, un altro «invito» ci viene rivolto in questi giorni: risparmiare acqua. In molti comuni, non dell’Africa ma del ricco ed industrializzato Nord Italia, l’acqua viene razionalizzata e distribuita in container di plastica, a causa della siccità. Così, mentre la AEM di Torino propone con entusiasmo al cittadino «proiettato nel futuro» di cambiare il contratto di casa da 3KW
a 4,5 o addirittura a 6KW, in modo che possa utilizzare tutti gli elettrodomestici che desidera (in particolare il condizionatore), molti gestori di centrali elettriche sono costretti a chiudere gli impianti per mancanza di acqua.
Che cosa sta succedendo? Forse dovremmo fermarci un momento, sederci, iniziare a pensare, con calma, su cosa stiamo combinando.

Si.Ba.

Le guerre per l’«oro blu»

ISRAELE-GIORDANIA: Israele dipende, per i 2/3 dell’acqua che consuma, dai paesi confinanti con cui condivide il fiume Giordano (Giordania, Palestina, Siria). Nel 1994 è stato firmato un accordo tra Israele e Giordania, ma l’equilibrio è precario, essendo non lontana la penuria d’acqua.

ISRAELE-PALESTINA: durante il Forum Alteativo dell’acqua tenutosi a Firenze nel marzo 2003, un membro della delegazione palestinese in Italia, Belal Mustafa, ha denunciato che l’80% delle risorse idriche palestinesi viene usato da Israele, che ha un controllo pressoché totale delle acque del Giordano. «Per scavare nuovi pozzi c’è bisogno dell’autorizzazione dell’esercito israeliano… la maggior parte degli insediamenti dei coloni sono stati realizzati proprio in base alla presenza di falde acquifere nella zona… gli israeliani hanno a disposizione 260 litri di acqua al giorno pro-capite, mentre i palestinesi solo 70, meno degli 80 litri considerati dal processo di pace di Oslo il loro fabbisogno minimo» (da Rocca, 1 maggio 2003). Problema sottolineato anche da Jonathan Laronne, docente israeliano dell’università Ben Gurion di Tel Aviv, secondo il quale sarebbe necessaria ed indispensabile una gestione comune e pubblica della risorsa idrica per entrambi gli stati.

TURCHIA-SIRIA-IRAQ: le tensioni riguardano la Turchia da un lato e Siria e Iraq dall’altro. Sia il Tigri che l’Eufrate nascono in Turchia, attraversano per un breve tratto la Siria, per poi entrare in Iraq. Questi paesi, dato il clima molto arido, confidano sulle acque dei due fiumi, minacciati però dalla costruzione di 222 dighe, la cui conseguenza è la diminuzione del 35% dell’acqua entrante in Iraq. La Turchia sta inoltre provocando la distruzione di storia e cultura del popolo curdo, a causa delle evacuazioni e deportazioni per la creazione dei nuovi bacini.

IL FIUME NILO: questo fiume è fonte di tensioni per tutti i paesi che attraversa: Uganda e Tanzania, Sudan, Etiopia, Egitto. Questo paese è l’ultimo ad essee attraversato in ordine spaziale: il suo approvvigionamento idrico dipende, quindi, dagli stati a monte. Le tensioni più gravi sono tra Egitto ed Etiopia e tra Sudan e Uganda. Punto strategico è la città di Damazin, sede della diga che fornisce l’80% dell’acqua consumata dalla capitale del Sudan, contesa tra gli eserciti nemici.

IL FIUME GANGE: il Gange, uno dei più grandi fiumi del mondo, attraversa India, Nepal, Bangladesh. Nel 1975 l’India ha costruito una diga nei pressi di Farrakka, riducendo drasticamente l’apporto d’acqua al Bangladesh, e innescando una disputa non ancora risolta.

Si.Ba.

(rielaborato da: Civiltà dell’Acqua, www.provincia.venezia.it/cica; Rocca, rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi, 1 maggio 2003)

Silvia Battaglia




CARE, FRESCHE, DOLCI ACQUE. MA FINO A QUANDO? (Prima parte)

La disponibilità di acqua dolce è in costante diminuzione a causa dello sfruttamento eccessivo e dell’inquinamento. Miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile, altrettanti non ne hanno a sufficienza. Invece di assicurare
a tutti questo diritto, l’«Organizzazione mondiale del commercio» sta tentando di trasformare l’acqua in una merce, soggetta alle regole del mercato.
Ma anche noi, singoli cittadini, dobbiamo mutare i nostri (cattivi) comportamenti quotidiani. Basterebbe che…

«Liquido incolore, insapore
e inodore, la cui
molecola è formata da
due atomi di idrogeno e uno di ossigeno
(H2O), presente sulla terra
in tutti e tre gli stati di aggregazione
della materia: solido, liquido
e gassoso».
Nonostante una definizione così
poco entusiasmante, tutti sappiamo
come l’acqua rappresenti
l’elemento essenziale per la vita,
non solo da un punto di vista chimico-
fisico e biologico, ma anche
sanitario, sociale, economico,
nonché aggregativo, estetico, emozionale.
Il corpo umano ne è costituito
per circa i 2/3 del peso corporeo e
gli effetti della mancanza d’acqua
provocano disidratazione e, in casi
estremi, la morte. Al contrario,
la presenza dell’acqua porta benessere
fisico, contentezza, vivacità
e piacere. La si può trovare
sotto le spoglie di nuvole, pioggia,
neve, ghiacciai, fiumi, torrenti, laghi,
mari ed oceani. Essa ci accompagna
anche nel dolore personale:
le lacrime sono costituite
quasi totalmente da acqua. La
presenza e l’abbondanza di acqua
è fonte di benessere e migliore
qualità della vita per ogni persona,
ma anche per gli individui come
popoli, mentre la sua scarsezza
o assenza comporta sofferenze,
malattie e impossibilità di una vita
migliore.
In qualsiasi momento della giornata,
per qualsiasi esigenza più o
meno necessaria, aprendo il rubinetto dei nostri bagni, della cucina,
del giardino o del garage, possiamo
usufruire di tutta l’acqua che desideriamo:
pochi, semplici e ripetitivi
gesti quotidiani ci impediscono
di porci alcune domande fondamentali.
Da dove proviene quest’acqua?
Da vicino o da lontano? Che cosa
ha comportato portare l’acqua fin
qui? Usae troppa significa provocare
qualche tipo di conseguenza
a qualcuno o qualcosa? Non ci
poniamo queste domande perché,
come per le altre risorse naturali, il
luogo comune è che l’acqua sia rinnovabile
e quindi illimitata.
A scuola abbiamo studiato il «ciclo
dell’acqua», espressione che definisce
i movimenti dell’acqua nell’ambiente:
negli organismi viventi,
in atmosfera, sulla terra. L’acqua si
sposta direttamente da laghi, torrenti,
fiumi, stagni verso l’atmosfera,
tramite l’evaporazione, tramite
la traspirazione delle piante e la respirazione
degli animali, per poi
tornare sulla terra sottoforma di
pioggia, neve, grandine…, ritorno
che viene salutato con imprecazioni,
indifferenza o gioia a seconda
del luogo, della quantità e del modo
in cui cade.
Questo ciclo chiuso e ripetitivo si
verifica da centinaia di milioni di
anni: da circa 4 miliardi di anni, la
quantità totale di acqua sul pianeta
nelle sue diverse forme, in effetti, è
rimasta invariata. È la sua disponibilità
per gli organismi e per l’uomo
in particolare che è mutata.

SEMPRE PIÙ SCARSA
L’acqua è sempre stata al centro
del benessere materiale e culturale
delle società di tutto il mondo. Oggi
questa risorsa è in pericolo: nonostante
il pianeta sia costituito da
2/3 di acqua, siamo di fronte ad
un’acuta scarsità idrica.
Benché la superficie terrestre sia
coperta per il 71% di acqua, questa
è costituita per il 97% circa da acqua
salata. L’acqua dolce (il restante
3% circa) è in gran parte intrappolata
nei ghiacci e nelle calotte polari;
il 29% di acqua dolce si trova
sottoforma di acque sotterranee, e
solo uno 0,3% si trova in fiumi e laghi.
Di conseguenza, solo lo 0,8%
circa di acqua presente sul pianeta
è disponibile per i nostri usi, ed in
gran parte si trova nel sottosuolo.
Secondo le stime dell’Organizzazione
mondiale della sanità, nell’anno
2000 un miliardo e 100 milioni
di persone non disponevano di
sufficiente acqua potabile. Se un
quinto dell’umanità non dispone di
acqua potabile, due quinti vivono in
condizioni igieniche precarie a causa
della sua scarsità. Si prevede che
nel 2025 il numero di persone che
vivranno in situazioni a rischio raggiungerà
i 3 miliardi e 400 milioni,
mentre 2 miliardi e 400 milioni soffriranno
la terribile condizione della
mancanza d’acqua.
In quest’articolo e nel prossimo
cercheremo di capire come e perché
le riserve d’acqua potabile siano
in drastica diminuzione e allo
stesso tempo ci chiederemo dove e
per chi c’è, o ci sarà, la più drammatica
scarsità di questo bene indispensabile.

DAL FIUME GIALLO
AL LAGO D’ARAL

Gli ambienti d’acqua dolce (fiumi,
laghi, zone umide…) coprono
meno dell’1% della superficie terrestre,
ma offrono un’enorme quantità
di servizi all’uomo: ambiente
per la crescita di pesci e fauna acquatica,
mitigazione delle inondazioni,
assimilazione e diluizione di
scarti e rifiuti, ricarica delle falde
sotterranee, nonché foitura dell’acqua
per i nostri usi quotidiani.
Dal 1950 al 1995, la quantità d’acqua
dolce disponibile pro capite è
però diminuita da 17.000 metri cubi
a 7.500 metri cubi (Unesco Sources,
1996). Sfruttamento eccessivo
delle risorse idriche ed inquinamento
delle acque sono le due cause
principali di tale situazione.
Il Fiume Giallo in Cina si è prosciugato
prima di raggiungere l’oceano;
il lago Ciad, in Africa, nell’arco
di 30 anni si è ristretto da 10
mila kmq ad appena 800; in un periodo
analogo il lago d’Aral ha perso
il 40% della sua superficie ed il
60% del suo volume di acqua potabile.
Quando l’acqua superficiale
non è più sufficiente, si utilizzano le
acque sotterranee, alle quali ricorre
per bere più di un quarto della popolazione
mondiale. Tuttavia, anche
le falde acquifere si stanno esaurendo
a causa dell’eccessivo prelievo
rispetto al naturale tempo di
rigenerazione.
Il prelievo totale di acqua ammonta
a 3.800 Km3, dei quali tuttavia solo 2.300 vengono realmente
consumati, mentre il rimanente viene
letteralmente «perso per strada».
Ben l’80% dei consumi totali di acqua
è opera dei consumatori agricoli;
durante l’irrigazione, però, circa il
60% filtra dai canali di distribuzione
e viene perso per evaporazione,
aumentando la salinità dei terreni e
comportando la riduzione del raccolto.
Tra i consumatori industriali,
i principali sono le industrie farmaceutiche,
chimiche e metallurgiche,
le centrali termiche ed atomiche, le
cartiere.
Tra i consumatori domestici solo
una piccola percentuale di acqua
viene impiegata per bere e cucinare:
la maggior parte è utilizzata per
lavarsi, per lo sciacquone del W.C.(!), per lavare la casa, annaffiare
giardini e orti, pulire strade e città.
Negli ultimi 40 anni, infine, sono
state costruite enormi dighe per la
raccolta di acqua, che a causa della
loro vasta superficie perdono il
7,5% del consumo totale di acqua
per evaporazione, causando anche
cambiamenti importanti del clima a
livello locale, oltre allo spostamento
forzoso di migliaia e migliaia di
uomini.

L’INQUINAMENTO
Dove l’acqua è sufficiente, spesso
è di qualità inadeguata, contaminata
da agenti inquinanti o dal sale. A
livello mondiale, appena il 10% dei
rifiuti (scarichi industriali, residui di
produzioni agricole, rifiuti umani)
viene trattato prima di essere scaricato
nei fiumi; gli stessi fiumi dai
quali si preleva l’acqua a fini potabili,
per l’irrigazione e per l’industria.
Anche le acque sotterranee sono
a rischio di contaminazione da
parte di nitrati, pesticidi, residui radioattivi,
composti clorurati, residui
dell’industria petrolchimica e mineraria…
Le fonti di inquinamento sono
essenzialmente quattro:
1) gli scarichi civili
2) gli scarichi industriali
3) i fertilizzanti e pesticidi usati in agricoltura
4) le piogge acide (vedi glossario).
Le nazioni con la migliore qualità
delle risorse idriche sono Finlandia,
Canada e Nuova Zelanda. Fanalino
di coda il Belgio, a causa delle pessime
acque sotterranee e dell’inquinamento
industriale. Ma 9 paesi su
10 con peggiore qualità idrica appartengono
al Sud del mondo (Marocco,
India, Giordania e Sudan…).
In Egitto, l’estrazione di acqua
dal Nilo ha distrutto 30 delle 47
specie ittiche, mentre altre 25 sono
rare o a rischio di estinzione; in Colombia
il volume della pesca nel fiume
Magdalena è sceso da 72.000 a
23.000 tonnellate in 15 anni; un fenomeno
analogo si verifica nel
Mekong del Sud-est asiatico.
La risorsa acqua è quindi sempre
meno disponibile quantitativamente
e sempre più inquinata.
(FINE 1.A PARTE – CONTINUA)

GLOSSARIO
ACQUA DOLCE: non molto ricca di sali, è rappresentata dalle acque presenti
nei ghiacci e nelle calotte polari, dalle acque sotterranee, fiumi,
laghi. Il 90% delle riserve mondiali è contenuta nell’Antartide, dove è
presente allo stato solido come ghiaccio.
ACQUA SALATA: contiene, come ad esempio quella marina, svariati tipi
di sali, come il cloruro di sodio (NaCl, il comune sale da cucina), il cloruro
di calcio, ecc..
ACQUA POTABILE: ha tutte le caratteristiche fisiche, organolettiche (odore,
sapore…), chimiche e biologiche per essere usata per l’alimentazione.
I requisiti richiesti ed i limiti sono indicati dall’OMS, l’Organizzazione
Mondiale della Sanità. Può essere piovana, superficiale, di
falda sotterranea. Spesso per rendere l’acqua potabile bisogna ricorrere
a processi di depurazione.
ACQUE SOTTERRANEE: risorse idriche che si trovano al di sotto della superficie
del terreno, costituite da acqua penetrata nel sottosuolo attraverso
le piogge, o filtrata nel terreno lungo fessure naturali per la
vicina presenza di fiumi o laghi.
ACQUE SUPERFICIALI: acque presenti sulla superficie terrestre, circolanti
(es. fiumi) o ferme (es. laghi).
FALDA ACQUIFERA: acqua sotterranea, che scorre o stagna, in strati permeabili
del terreno, fra strati non permeabili.
PIOGGE ACIDE: l’anidride solforosa, inquinante gassoso emesso dai processi
di combustione (industrie e traffico), a contatto con la pioggia si
trasforma in acido solforico, che si scioglie nelle gocce dell’acqua piovana
stessa. I danni delle piogge acide sono particolarmente gravi per
le piante e la fauna, ma i suoi effetti colpiscono anche la salute umana.
Senza dimenticare i danni prodotti a edifici e monumenti che dalle
piogge acide vengono «corrosi».

Piccoli gesti quotidiani
Dal rubinetto al water, dalla lavatrice
al lavaggio dell’automobile, ogni giorno
ciascuno di noi spreca varie decine di litri di acqua.
Per questo la nostra responsabilità è grande.

IGIENE PERSONALE: SÌ, MA CON INTELLIGENZA
• Quando ci laviamo i denti o ci radiamo la barba, teniamo
aperto il rubinetto solo per il tempo necessario.
• Preferiamo la doccia al bagno (per immergerci in
vasca sono necessari 150 litri di acqua, per una
doccia circa un terzo).
• Il frangigetto è un miscelatore di acqua che vi consigliamo
di applicare ai rubinetti di casa: sfruttando
il principio della turbolenza, miscela aria al flusso di
acqua, e crea un getto più leggero, ma efficace. Un
frangigetto richiede «solo» 9 litri al minuto per la
doccia. L’operazione è semplice e costa poco, in più
vi farà risparmiare diverse migliaia di litri di acqua
ogni anno.
LAVARE: BIANCHERIA E STOVIGLIE
• Scegliete il ciclo economico ed evitate i mezzi carichi:
azionando la macchina al massimo carico
si possono risparmiare acqua ed energia.
• Un carico completo di stoviglie lavato a macchina
richiede un minor consumo d’acqua rispetto allo
stesso lavaggio fatto a mano. Per lavare i piatti a
mano conviene raccogliere la giusta quantità d’acqua
nel lavello e lavare con quella. In questo modo
si risparmiano alcune migliaia di litri all’anno.
• Fra i diversi modelli di elettrodomestici in commercio
possono esserci differenze notevoli nel consumo
di acqua: da 16 a 23 litri a lavaggio per le lavastoviglie
e da 50 ad oltre 100 litri a lavaggio per le lavabiancheria.
UN GIARDINO BELLO E SENZA SPRECHI
• Il momento migliore per innaffiare le piante non è
il pomeriggio, quando la terra è ancora calda e fa evaporare
l’acqua, bensì la sera, quando il sole è calato.
• Per terrazzi e giardini scegliete i modei sistemi di
irrigazione a micropioggia programmabili, che possono
funzionare anche durante la notte, quando i
consumi sono più bassi. Esistono anche gli irrigatori
goccia a goccia, che rilasciano l’acqua lentamente
senza dispersioni e con un utilizzo ottimale.
• Per le piccole innaffiature (le piante d’appartamento,
per esempio) potete sfruttare l’acqua che avete
già usato per lavare, ad esempio, frutta e verdura.
UNA MANUTENZIONE CHE NON FA ACQUA
Un rubinetto che gocciola o un water che perde acqua
non vanno trascurati; possono sprecare anche
100 litri d’acqua al giorno. Una corretta manutenzione
o, se necessario, una piccola riparazione contribuiranno
a farvi risparmiare tanta acqua potabile
altrimenti dispersa senza essere utilizzata.
NON SCARICATE LA RESPONSABILITÀ… NEL GABINETTO
Il 20% dei consumi domestici d’acqua finisce nello
scarico del bagno. Ogni volta che lo azioniamo se ne
vanno almeno 10 litri d’acqua. Non utilizziamo il
WC come un cestino della spazzatura: adottiamo
scarichi ”intelligenti”, quelli a pulsante il cui flusso
si può interrompere o, meglio ancora, quelli a manovella.
UN’AUTO SULLA STRADA DEL RISPARMIO
Troppo spesso ci curiamo di una carrozzeria splendente
trascurando il seppur minimo rispetto per
l’acqua potabile. Bisognerebbe ricordarsi di utilizzare
sempre un secchio pieno (vale lo stesso esempio
fatto per lavare i piatti). Si potranno risparmiare così
circa 130 litri di acqua potabile a ogni lavaggio e
si eviteranno sprechi inutili.
CONSUMARE CRITICAMENTE E CON PARSIMONIA
Dato che anche i processi produttivi consumano acqua,
è bene evitare gli sprechi (ad es. di carta), preferire
i materiali riciclati, evitare di mangiare frutta
e verdura non di stagione che necessitano una maggiore
irrigazione. Limitare inoltre il consumo di detersivi,
non gettare solventi e sostanze chimiche nello
scarico…
(rielaborato da: www.altroconsumo.it)

Un’altra politica
è possibile

L’acqua è un bene comune e limitato.
Nessun profitto può essere fatto con esso.

L’obiettivo del «Contratto
mondiale per l’acqua» è garantire
il diritto all’acqua
a tutti gli 8 miliardi di persone
che abiteranno il pianeta nel
2020, a tutte le specie viventi
ed alle generazioni future, garantendo
la «sostenibilità» degli
ecosistemi.
Quali sono i principi fondatori?
1. L’accesso all’acqua nella quantità
(40 litri al giorno per usi domestici)
e qualità sufficiente alla vita deve
essere riconosciuto come un diritto
costituzionale umano e sociale, universale,
indivisibile ed imprescrittibile.
2. L’acqua deve essere trattata come un bene comune
appartenente a tutti gli esseri umani ed a tutte
le specie viventi del pianeta. Gli ecosistemi devono
essere considerati come beni comuni. L’acqua è
un bene disponibile in quantità limitate a livello locale
e globale. Nessun profitto può giustificare un uso
illimitato del bene.
3. Le collettività pubbliche (dal comune
allo stato, dalle Unioni continentali
alla Comunità mondiale)
devono assicurare il finanziamento
degli investimenti
necessari per concretizzare il
diritto all’acqua potabile per
tutti ed un uso «sostenibile» del
bene acqua.
4. I cittadini devono partecipare
su basi rappresentative e dirette alla
definizione ed alla realizzazione
della politica dell’acqua, dal livello locale
al livello mondiale. La democrazia necessita
la promozione di un «pubblico» nuovo, democratico,
partecipato e solidale, e dell’attivazione
di luoghi di partecipazione diretta dei cittadini.
Dichiarazione conclusiva del
1° Forum alternativo mondiale dell’acqua,
Firenze 21-22 marzo 2003

Silvia Battaglia




CATASTROFI INNATURALI?

Esistono le catastrofi naturali?
La risposta è ovviamente sì.
Moltissime potrebbero però essere
evitate grazie ad un migliore,
e minore, utilizzo
delle risorse e ad una
pianificazione
territoriale coerente
con il creato.
In poche parole
con il buon senso.

Da gennaio a settembre
2002, si sono verificati
526 disastri naturali significativi:
195 in Asia, 149 nelle
Americhe, 99 in Europa, 45 in
Australia, 38 in Africa; a causa di
questi eventi sono morte 9.400
persone, delle quali 8.000 solo in
Asia, centinaia di migliaia sono i
senzatetto e milioni i feriti. Le
maggiori perdite economiche
sono state subite dall’Europa:
circa 33 miliardi di euro. Un terzo
dei 526 eventi è legato alle
piogge: inondazioni in Cile, Giamaica,
Nepal, Spagna, Francia e
anche Germania, dove le medie
delle precipitazioni annuali sono
state raggiunte in uno o due giorni.
L’intensità delle piogge ha
raggiunto livelli unici, facendo
segnare record mai registrati nelle
statistiche dei meternorologi.
Queste sono solo alcune delle
conclusioni di uno studio della
compagnia assicurativa Munich
Re, membro dell’Unep (Programma
ambientale delle Nazioni
Unite), presentato a Nuova
Delhi in concomitanza dei negoziati Onu sui cambiamenti climatici.
Il numero delle calamità naturali e
l’intensità di molti eventi estremi sono
in continuo aumento, con conseguenze
che possono essere rilevanti
sull’ambiente e ecosistemi, agricoltura,
benessere delle popolazioni, salute
e incolumità delle persone.
Cosa si intende per «disastro naturale
» o «emergenza ambientale»?
Esiste una differenza tra «catastrofe
naturale» e «catastrofe ecologica»?

UNA DEFINIZIONE
I termini «catastrofe» e «disastro
naturale» fanno immediatamente
balzare alla mente immagini di terremoti,
eruzioni vulcaniche, maremoti,
uragani, cicloni, conseguenti perdite
umane, edifici crollati e allagati,
colate di fango che permeano gli abitati,
paesaggi urbani e agricoli devastati
dalla furia della natura.
In realtà, definire cosa si intenda
per catastrofe naturale non è semplice.
Un terremoto che si verifica in
pieno deserto, per esempio, può provocare
nessun effetto sugli uomini né
su altri esseri viventi di quel determinato
habitat; eventi che, invece, provocano
la morte di molte vite umane
possono non influire sugli ecosistemi
interessati; mentre calamità che, al
contrario, non danneggiano direttamente
le popolazioni possono causare
gravi alterazioni all’ambiente naturale.

LE CATASTROFI GEOFISICHE
I disastri naturali che più colpiscono
l’immaginario collettivo sono
sicuramente i terremoti. Le cause di
questi fenomeni sono puramente
geofisiche, legate cioè ai fenomeni fisici
che avvengono sulla superficie e
all’interno della terra. Anche se possono
sembrare fenomeni improvvisi,
sporadici e casuali, i sismi sono un
evento naturale diffuso come pochi
altri: in un anno, sulla terra, gli strumenti
registrano circa un milione di
terremoti: 1 ogni 30 secondi. Solo
qualche migliaio di essi è abbastanza
forte da essere percepito dall’uomo,
e solo qualche decina causa gravi
danni a persone e cose.
Se nel tempo questi fenomeni si
verificano in continuazione, nello
spazio essi si manifestano all’interno
delle cosiddette «zone sismiche»;
nelle «zone asismiche», invece, non
si generano i terremoti, ma se ne possono
sentire gli effetti, dovuti al propagarsi
delle vibrazioni provenienti
dalle zone sismiche vicine.
La conseguenza fondamentale dei
terremoti sulla superficie è l’oscillazione
del suolo, che si trasmette agli
oggetti sovrastanti: case, ponti e altre
costruzioni possono vibrare fino
al crollo totale. Le cause di questi fenomeni
sono puramente naturali,
ma le conseguenze sono difficili da
classificare.
Gli effetti dipendono, da una parte,
dall’intensità e durata complessiva
delle oscillazioni e dalla natura del
suolo (i danni sono maggiori se il terreno
è incoerente, cioè costituito da
sabbie e ghiaia); dall’altra, dall’inosservanza
delle indicazioni dell’edilizia
antisismica nella costruzione di edifici
in zone note come particolarmente
sismiche, come è accaduto a
San Giuliano di Puglia.
Anziché promettere di impiegare
milioni di euro in grandi opere (probabilmente
non necessarie), è forse
più opportuno utilizzare gli stessi
soldi per la previsione di tali fenomeni,
per un’oculata politica di gestione
del territorio e, soprattutto,
per la prevenzione del rischio, sia elaborando
piani di soccorso, sia applicando
l’ingegneria antisismica; e
ciò non solo nelle nuove costruzioni,
ma anche nella ristrutturazione dell’esistente
e nella costruzione di dighe,
vie di comunicazione, grandi
complessi industriali.
Molte vittime e danni possono essere
inoltre causati dalla rottura di linee
elettriche e condutture del gas,
con conseguenti incendi difficilmente
domabili per la contemporanea
interruzione delle condutture
dell’acqua.
Bisogna inoltre ricordare la formazione
di fratture nel terreno, il sollevamento
o abbassamento del suolo,
in grado di provocare dislivelli lungo
strade e ferrovie e addirittura capaci
di deviare il corso dei fiumi. A questo
punto la gravità delle conseguenze
si dirama: la situazione può tornare
alla «quasi-normalità» in breve e
medio termine, oppure trasformarsi
in catastrofi a lungo termine, quali carestie
ed epidemie, a seconda delle
condizioni iniziali della popolazione
colpita (situazione di benessere, ristrettezza
o estrema povertà).
Queste considerazioni sulle cause
e conseguenze dei terremoti possono
essere estese, a grandi linee, anche
ad altri fenomeni di natura geofisica,
come maremoti ed eruzioni
vulcaniche, uno dei segni più evidenti
dell’irrequietezza del pianeta.
Più di 500 sono i vulcani attivi, fonti
di lava e gas ad alta temperatura,
di materiale fuso lungo gli oltre 60
mila km delle dorsali oceaniche.
Le eruzioni vulcaniche sono forse
l’emblema più spettacolare di un affascinante
paradosso: se da un lato i
vulcani possono rappresentare veri e
propri disastri naturali, d’altro canto
rappresentano uno dei processi fondamentali
attraverso cui si è svolta, e
continua a svolgersi, l’evoluzione della
terra. Basti pensare all’imponente
trasferimento di materiali dall’interno
all’esterno del pianeta, in grado di
accrescere la stessa crosta della superficie
terrestre, formare e mantenere
gli equilibri dell’atmosfera e degli
oceani, rendere fertili i suoli derivanti dalle ceneri vulcaniche.
Anche l’Italia non è risparmiata da
questi tipi di fenomeni: pensiamo al
maremoto dovuto all’eruzione dello
Stromboli (anche se non paragonabile
agli tsunami dell’Oceano Pacifico),
o all’attività dell’Etna. Proprio
quest’ultimo evento può porci di
fronte a un interrogativo ignorato
dai media: è «colpa» dell’Etna se il
Rifugio Sapienza e gli impianti sciistici
sono abbattuti dalla forza devastatrice
della lava?

CATASTROFI AMBIENTALI
E TECNOLOGICHE

Se i disastri geofisici derivano esclusivamente
da fenomeni naturali,
esiste al contrario una classe di eventi
catastrofici che hanno come unica
causa l’azione dell’uomo.
Quali sono? L’opinione pubblica
risponderebbe immediatamente: «I
grandi disastri industriali». Molte,
troppe, infatti, sono state le situazioni
più o meno recenti nelle quali, da
attività finalizzate a scopi utili, sono
scaturiti danni gravissimi per la collettività
e l’ambiente circostante. Alcune
catastrofi ecologiche, dovute a
incidenti industriali, sono state causate
da un utilizzo affrettato e approssimativo
della tecnologia; altri da
eventi accidentali, che hanno evidenziato
l’inadeguatezza delle misure
di sicurezza e l’entità sproporzionata
dei rischi ai quali si era sottoposti;
altri ancora da una scoperta più o
meno improvvisa di problemi, le cui
cause operavano da molto tempo.
Basti pensare ad alcuni disastri del
secolo appena terminato: tragedia
della diga del Vayont (1963), emissione
di diossina a Seveso (1976),
Acna di Cengio (1988) ed emissione
di anidride solforosa al confine tra
Piemonte e Liguria; mercurio fuoriuscito
a Bhopal, in India (1984),
per un livello di 6 milioni di volte oltre
la soglia di tolleranza, tuttora causa
di contaminazione del territorio
circostante; disastro di Cheobyl
(1986), definito «la peggiore catastrofe
tecnologica della storia umana
», il cui rilascio di radioattività è
200 volte superiore alle esplosioni di
Hiroshima e Nagasaki insieme e nei
cui territori vigono ancora restrizioni
all’uso del cibo locale, a conferma
dell’alterazione profonda dell’ecosistema
interessato.
Exxon Valdez (1989, Golfo dell’Alaska),
Haven (1991, Mar Ligure),
Erika (1999, Bretagna-Francia),
sono solo alcuni dei nomi che rievocano
un’altra tipologia di disastri ecologici
provocati esclusivamente
dall’uomo: la fuoriuscita di petrolio
dalle ormai troppo tristemente famose
«carrette del mare».
Anche in questo ambito, uno degli
ultimi disastri petroliferi è dovuto
a controlli e sanzioni insufficienti
e a normative assolutamente inadeguate,
che permettono la circolazione
a flotte di petroliere che non dovrebbero
viaggiare: si tratta in questo
caso della Prestige, petroliera
vecchia e a scafo unico, affondata
nelle acque della Galizia. Le conseguenze
sono sempre le stesse: danni
incalcolabili alle acque e coste, spesso
di grande bellezza e valore naturalistico,
migliaia di tonnellate di olio
combustibile pesante giacenti a
migliaia di metri di profondità, migliaia
di uccelli marini destinati a
morire, insieme a pesci, cetacei, fino
ad alghe e molluschi, primi anelli
della rete di relazioni fra le specie viventi.
Se il disastro ecologico non commuove gli animi, è bene sottolineare
che i danni sono enormi anche a livello
economico e occupazionale:
come nel caso della Prestige, se la popolazione
vive sulla pesca e maricoltura,
l’economia locale può cadere in
ginocchio; lo stesso vale ovviamente
per il turismo.
L’entità del rischio appare immensa
se si leggono le cifre legate al petrolio:
60 milioni sono i barili di petrolio
trasportati in mare ogni anno,
3.400 circa le petroliere; il trasporto
di greggio rappresenta il 40% del
traffico marittimo mondiale di materie
prime e quasi il 73% delle importazioni
di petrolio dell’Unione
Europea avviene proprio via mare;
dal 1955 sono stati più di 1.300 gli incidenti,
dei quali più di 20 gravissimi;
l’età media della flotta petrolifera
mondiale è di 15 anni, mentre per
il 25% delle carrette, di età superiore
ai 20 anni, non esiste più un margine
di sicurezza.
C’è ancora un tipo di disastro ecologico
causato dall’uomo e mai considerato:
le conseguenze ecologiche
e sanitarie delle guerre.
In senso lato, la guerra non provoca
solo l’annientamento di vite umane
e beni materiali, ma anche un enorme
degrado dell’ambiente, con
indubbie conseguenze sulla salute.
Sostanze tossiche e radioattive utilizzate
nei bombardamenti espongono
l’ambiente a una contaminazione
che si protrae nel tempo: inquinamento
atmosferico a breve e
medio termine, inquinamento del
sottosuolo a lungo termine, specialmente
delle falde acquifere.
La conseguenza inevitabile è l’esposizione
della popolazione a rischio
sanitario per molti anni: la non
disponibilità di acqua pulita, l’entrata
nel ciclo alimentare di molte sostanze
nocive, con la caratteristica di
concentrarsi in piante e animali, costituisce
infatti un grande rischio per
la salute, compreso l’aumento della
frequenza di tutti i tipi di cancri e
malformazioni congenite.
Tutto questo senza considerare il
flagello delle mine, nemico invisibile
che, se non uccide, condanna a una
vita minorata.
Incidenti industriali, petroliere,
guerre e mine. Anche se l’emozione
sollevata nell’opinione pubblica è indiscussa,
questi eventi rappresentano
nel lungo periodo una minaccia
forse meno pericolosa dell’azione
degli inquinanti di natura antropica
immessi nell’aria, acqua e suolo.
È vero che l’inquinamento dell’ambiente
da parte dell’uomo non è
un fatto recente; tuttavia, dalla rivoluzione
industriale, la velocità delle
conoscenze scientifiche e dello sviluppo
tecnologico, la crescita incessante
del consumo di energia e materiali,
la produzione di un numero
sempre maggiore di composti sintetici,
hanno conferito al problema una
dimensione planetaria: inquinamento
atmosferico e dell’acqua,
piogge acide, buco dell’ozono, effetto
serra, sono solo alcuni dei fenomeni
antropici che minacciano gli ecosistemi
e la stessa salute degli uomini.
Solo in Italia, l’inquinamento
da traffico, non riconosciuto, causa
6 mila morti all’anno.

DISASTRI NATURALI
LEGATI ALLA METEOROLOGIA

Tra le due classi di catastrofi esaminate,
da una parte quelle con cause
esclusivamente naturali e dall’altra
totalmente antropiche, esiste una
serie di fenomeni che possono avere
effetti devastanti e le cui cause non
sono facilmente definibili. Si tratta di
due tipologie di fenomeni di natura
meternorologica: da un lato eventi che
si manifestano in maniera improvvisa
e che, negli ultimi anni, hanno fatto
registrare un consistente aumento
di frequenza e potenza: alluvioni
e cicloni in particolare; dall’altro fenomeni
che derivano da fattori di degrado
a lungo termine: siccità, desertificazione,
deforestazione, erosione
del suolo, mancanza d’acqua, carestie,
epidemie.
Mentre i fenomeni geofisici si sono
manifestati negli ultimi anni con
lo stesso numero di eventi, quelli di
origine climatica sono stati invece
più frequenti. Se si classificano gli eventi
catastrofici in base al numero
di vittime per morte violenta, inondazioni
e cicloni superano terremoti,
eruzioni vulcaniche e inquinamento
accidentale. Se questa classifica
si basasse, invece, sulla mortalità
dovuta agli effetti a lungo termine, la
siccità deterrebbe il triste primato e
l’inquinamento dell’ambiente supererebbe le eruzioni vulcaniche.
Proprio inondazioni, cicloni e siccità
sono fenomeni che subiscono le
conseguenze dell’ormai accertato, in
ambito scientifico, cambiamento climatico,
dovuto all’aumento della
concentrazione atmosferica di anidride
carbonica (CO2) emessa dalle
attività umane (riscaldamento, trasporti,
industria). La crescita dei livelli
di CO2 è il risultato del massiccio
utilizzo di combustibili fossili
(carbone, petrolio, gas naturale…) e
rappresenta il principale fattore dell’incremento
dell’effetto serra, ossia
dell’aumento della temperatura media
sul pianeta.
I dati del Goddard Institute per gli
Studi spaziali della Nasa indicano
che i 15 anni più caldi mai registrati,
dal 1867, hanno avuto luogo dopo il
1980. Escludendo una drammatica
caduta delle temperature nel mese di
dicembre 2002, si può affermare che
i tre anni più caldi sono stati registrati
negli ultimi cinque.
Oltre alla lettura dei termometri,
molti altri segnali indicano una crescita
della temperatura media: ondate
mortali di calore, disseccamento
di raccolti, scioglimento dei ghiacci.
Se da un lato una temperatura
media maggiore comporta siccità
più forte e scioglimento dei ghiacci,
dall’altro causa tempeste più violente,
inondazioni più distruttive e aumento
del livello del mare. La conseguenza
principale dell’effetto serra,
infatti, consiste nell’evaporazione
di grandi masse di acqua che determinano
cambiamenti climatici, spesso
imprevedibili, e aumento degli eventi
estremi.
In particolare, Alberto Di Fazio,
del Global Dynamics Institute di Roma,
ha trovato una perfetta correlazione
tra la serie storica dei cicloni
negli ultimi cento anni e l’aumento
di CO2 nell’atmosfera. Tali cambiamenti
a loro volta influenzano sia la
sicurezza alimentare e abitabilità di
aree situate a livello del mare (ne è
un esempio il Bangladesh), e quindi
il possibile propagarsi di carestie ed
epidemie, sia la composizione delle
specie degli ecosistemi locali.

IN CONCLUSIONE
Alla luce di quanto analizzato, è evidente
che studiare in maniera
scientifica i fenomeni catastrofici significa,
innanzitutto, cercare di distinguerli
in base a due criteri: cause
e conseguenze. Le cause possono essere
rappresentate da fenomeni naturali
(geofisici, climatici…), di origine
umana, oppure da fenomeni naturali,
aggravati da componenti
umani; le conseguenze possono risultare
calamitose per la popolazione,
per l’ambiente o per entrambi.
Un evento può essere definito disastroso
a seconda delle conseguenze
provocate. Per quanto riguarda gli
effetti sulla popolazione, generalmente
una catastrofe naturale di una
determinata intensità provoca molte
più vittime nei paesi poveri che in
quelli ricchi, e questo per varie ragioni:
l’aumento demografico e la
concentrazione altissima della popolazione
in zone fertili o a ridosso delle
grandi città, a causa degli esodi dovuti
allo sconsiderato sfruttamento
delle risorse naturali (generalmente
da parte del Nord), e quindi alla
deforestazione e perdita del territorio
coltivabile; il degrado dell’ambiente,
appunto; la vulnerabilità delle
popolazioni stesse, ossia la capacità
di reagire agli eventi disastrosi, strettamente
connessa alla miseria.
Per quanto riguarda invece gli effetti
sull’ambiente, esiste una linea
sottile e difficilmente definibile, che
delimita gli eventi catastrofici da
quelli che non lo sono. A un occhio
attento, rientrano sicuramente fra gli
eventi catastrofici anche fenomeni
non improvvisi e straordinari, ma subdoli
e insidiosi, che evolvono lentamente
nel tempo e magari in modo irreversibile,
come la desertificazione,
cambiamento climatico, scomparsa
di specie vegetali o animali, rischiando
di alterare gli equilibri degli ecosistemi
e quindi la stessa salute e sopravvivenza
umana.
Certe azioni umane incontrollate,
sottoforma di cambiamento climatico,
di uso smodato delle risorse, cause
essenziali della deforestazione, erosione
del suolo, desertificazione e
scomparsa di specie viventi, hanno
quindi il potere di amplificare alcuni
fenomeni naturali, conferendo loro
una dimensione catastrofica.
Il «potere del consumatore» può
allora agire anche in questa direzione.
Diminuire la nostra impronta ecologica
(MC, giugno 2002) può significare
contribuire alla diminuzione
della dimensione catastrofica di
alcuni fenomeni naturali.

Silvia Battaglia




I RIFIUTI? FUORI DAL MIO GIARDINO!

Ogni persona produce, in media, 491 chilogrammi di rifiuti all’anno,
che generalmente finiscono nel cassonetto dell’immondizia o, spesso,
ai margini delle strade, nei boschi, nei fiumi.
Nessuno vuole tenere la spazzatura in casa, nessuno vuole la discarica
o l’inceneritore nella propria zona, ma quanti praticano la raccolta
differenziata e soprattutto quanti si preoccupano di produrre
meno rifiuti? Una percentuale ridicola. Insomma, viviamo in una società
dove la cultura ambientale è inesistente, da vergogna, da zero in pagella.
E le conseguenze sono pesantissime. Per tutti.

«Verrebbe da ridere, ma bisognerebbe piangere».
Questo potrebbe essere la morale di ciò
che non è una favola ma, purtroppo,
il risultato di una ricerca
del CNA, il Consorzio Nazionale
per il riciclo degli imballaggi
in Acciaio.
L’inchiesta, condotta su 1.000
persone tra i 18 ed i 65 anni, ha
fatto emergere la profonda ignoranza
degli italiani in campo
ambientale. Qualche esempio.
Il 28% degli intervistati sostiene
che l’ecosistema sia un
nuovo e rinfrescante sistema di
condizionamento dell’aria,
mentre per il 24% si tratta di uno
speciale ed utile apparecchio
acustico; il benzene sarebbe addirittura
un carburante di nuova
generazione ed evoluzione ecologica
della benzina (63%)!
Limitatamente al tema dei rifiuti
la situazione non è certo
più rosea. La raccolta differenziata
viene definita come un sistema
di lavorazione del settore
agricolo (33%) o come un sistema
di classificazione per appassionati
di collezionismo
(11%): ciò significa che il 44%
non sa cosa sia la raccolta differenziata.
Per biodegradabilità il
29% degli intervistati intende lo
stato di degrado in cui versano molti
parchi e giardini ed un altro 29%
i tempi di scadenza di un prodotto
biologico. Il 35% considera il riciclaggio
dei rifiuti un irregolare
smaltimento dei rifiuti volto all’elusione
della relativa tassa, mentre il
18% pensa che si tratti di un sistema
truffaldino di vendita perpetrato
ai danni dei consumatori. Per un
buon 28%, inoltre, il compostaggio
sarebbe un metodo educativo che
prevede una postura ordinata e corretta!
Questi risultati rappresentano solo
uno dei tanti elementi che confermano
la profonda mancanza di
conoscenze ambientali fra la popolazione,
in particolare per quanto
concee l’argomento rifiuti. Eppure,
tra le infinite interconnessioni
esistenti fra l’uomo e la natura, il
legame fra noi ed i rifiuti che produciamo
dovrebbe essere tra i più
evidenti. Se non è immediato immaginare
lo zaino ecologico di un anello
d’oro o di un computer (MC,
giugno 2002), o i cambiamenti climatici
indotti dall’emissione di
CO2 relativa ai nostri consumi, la
quota di rifiuti prodotta direttamente
dal nostro stile di vita ci accompagna
invece costantemente.
In quale famiglia non si discute
per andare a buttare l’«immondizia
»? Allora, se gli «immondi» sacchi
neri prodotti da noi stessi sono
così sgraditi nelle nostre case, perché
non chiedersi che fine faranno
dal momento in cui li poniamo nel
cassonetto? Perché non sentirne in
qualche modo la responsabilità? Al
contrario, il problema non è solo relativo
all’ignoranza in questo campo
ma, fatto ben più grave, all’indifferenza
nei confronti dei nostri
rifiuti e delle conseguenze che la loro
produzione ed il loro smaltimento
comportano.
COSA SONO I RIFIUTI
Se nelle puntate precedenti si è analizzata
l’origine di un prodotto
(dal punto di vista dello sfruttamento
delle risorse naturali e dei
flussi di materia associati al prodotto
stesso), vediamo ora il percorso
che compie il prodotto morto (buttato),
ossia il rifiuto.
Secondo il D.P.R. 915/82, per rifiuto
si intende «qualsiasi sostanza
od oggetto derivante da attività umane
o da cicli naturali, abbandonato
o destinato all’abbandono».
Essere rifiuto non è quindi una caratteristica
intrinseca di un oggetto.
Un prodotto può essere ancora funzionante,
utile o riparabile, ma essere
abbandonato ad esempio perché
fuori moda o perché non soddisfa
più le richieste originarie.
È fondamentale distinguere con
chiarezza le differenti fasi del ciclo
di vita del rifiuto:
1) la produzione
2) la raccolta
3) lo smaltimento.
LA PRODUZIONE
Quello dei rifiuti è diventato un
problema ambientale molto grave,
sotto diversi punti di vista. In questo
secolo, infatti, si è avuto:
– un aumento vertiginoso della produzione
di rifiuti, dovuto in particolare
alle abitudini legate alla società
consumistica;
– un aumento della tossicità per
l’ambiente, dovuto al passaggio dalla
società agricola a quella industriale;
– una diminuzione delle possibili aree
per il tradizionale smaltimento
(la discarica).
I rifiuti prodotti sono definiti urbani,
se provengono dal settore civile,
oppure speciali, se di natura industriale,
artigianale o commerciale.
I rifiuti solidi urbani (RSU)
comprendono circa il 29% di sostanze
organiche (alimenti), il 28%
di carta e cartone, il 16% di plastica,
il 4% di legno e tessuti, il 4% di
metalli, l’8% di vetro e un 11% di
altri materiali.
Nel 1999 sono stati prodotti in Italia
più di 28 miliardi di tonnellate
di rifiuti urbani, per una media pro
capite di circa 491 kg di rifiuti all’anno!
Le quantità variano da regione
a regione ed anche in base al
periodo dell’anno. Nella provincia
di Torino, ad esempio, la produzione
di RSU è in costante ascesa dal
1969, con un tasso medio annuale
d’incremento di circa il 3%. Nel
1969 ogni torinese produceva circa
183 kg di rifiuti, 317 kg nel 1985, fino
ad arrivare a 540 kg nel 2000.
Interessante è inoltre il rapporto tra
l’andamento del prodotto interno
lordo (Pil) e la produzione di rifiuti:
all’aumentare del Pil pro-capite,
aumenta anche la quota di rifiuti
urbani pro-capite prodotta. La
quantità di rifiuti prodotta, infatti,
dipende strettamente dalla quantità
di beni fabbricati e consumati.
LA RACCOLTA
La raccolta del rifiuto può essere
di due tipi:
1) raccolta indifferenziata ossia tutti
i tipi di rifiuti vengono raccolti insieme;
2) raccolta differenziata ossia i rifiuti
vengono raccolti in base alla tipologia.
Per molti anni, in Italia la raccolta
differenziata (r.d.) è consistita
nella raccolta del vetro nelle campane.
Solo alla fine degli anni ’80 è
stata introdotta la raccolta della carta,
delle lattine in alluminio e della
plastica. Dal 1996 sta inoltre aumentando
la raccolta del verde e
della frazione organica. Si sono, infine,
aggiunte la raccolta delle pile e
dei farmaci.
Vale la pena di ricordare che la
r.d. (praticata da una percentuale
ancora molto bassa di cittadini) non
è volontaria, bensì obbligatoria. Il
Decreto legislativo del 5 febbraio
1997, n. 22, più noto come «Decreto
Ronchi», ha infatti fissato precisi
obiettivi da raggiungere nell’arco
di 6 anni dall’entrata in vigore: 15%
di rifiuti raccolti in modo differenziato
entro il 1999, 25% entro il
2001, 35% entro il 2003. La media
italiana, invece, è di circa il 13%,
con notevoli differenze fra le diverse
regioni.
LO SMALTIMENTO
Dopo essere stato raccolto, il rifiuto
è destinato ad una qualche forma
di smaltimento: la messa in discarica
(oggi avviene per il 74,4%
della quantità di rifiuti), l’incenerimento
(7,2%), il recupero dei materiali
o riciclaggio (7,4%) il compostaggio
(11%).
L’INCENERITORE
L’inceneritore si sta affermando
come metodo di smaltimento in
quanto dà la sensazione di eliminare
il problema rifiuti in modo rapido
ed efficace: il rifiuto, bruciando,
«sparisce»…
In realtà, è noto che «nulla si crea,
nulla si distrugge» e ciò vale anche
per un inceneritore, che altro non è
che un impianto di combustione ad
alta temperatura, nel quale il combustibile
è rappresentato dal rifiuto
stesso. Nell’impianto entrano appunto
i rifiuti, del combustibile che
sostenga il processo di combustione,
aria (cioè ossigeno per la combustione),
acqua (per le operazioni
di filtraggio dei fumi e di raffreddamento
delle ceneri).
Dopo la combustione, dall’impianto
fuoriesce la stessa quantità di
materiali, ma trasformata in: ceneri,
fumi di combustione (contenenti
anidride carbonica, vapore acqueo
ed altri gas), polveri, acqua inquinata
(che, dopo essere stata depurata,
darà vita ai fanghi).
Da 1 tonnellata di RSU, quindi, si
ottengono circa 6000 Nm3 («normalmetricubi
»: unità di misura dei
gas) di fumi, 6,7 kg di polveri e 300
kg di ceneri e scorie. Da un lato,
quindi, l’incenerimento causa un
problema di inquinamento atmosferico
(fumi e sostanze inquinanti
in essi contenute), dall’altro crea un
problema di smaltimento delle ceneri
e dei fanghi. Le ceneri, i carboni
attivi usati nei filtri dei fumi ed
i fanghi, infatti, contengono cloro,
fluoro, zolfo, metalli tossici, inquinanti
non presenti nei rifiuti in entrata
(diossine, furani, fenoli…): si
tratta in molti casi di sostanze persistenti
che si accumulano nel terreno
e che possono tornare all’uomo
attraverso l’alimentazione. Ecco
perché questi rifiuti in uscita
sono classificati come rifiuti speciali
e necessitano di discariche speciali,
la cui gestione e localizzazione
presenta generalmente maggiori
difficoltà rispetto ad una discarica
per rifiuti urbani.
Gli inceneritori, quindi, anche se
riducono il volume dei rifiuti, pongono
problemi di inquinamento atmosferico
e di salute pubblica e necessitano
comunque di una discarica.
Se fra i vantaggi principali
dell’incenerimento compare la riduzione
del volume iniziale dei rifiuti,
in realtà molti sostengono che
tale risultato può essere raggiunto
anche con un moderno processo di
pressatura.
Spesso gli inceneritori vengono
definiti anche «termovalorizzatori»:
ossia è possibile utilizzare il calore
prodotto dalla combustione dei rifiuti
per produrre energia elettrica.
Tuttavia, perché tale operazione sia
conveniente, è necessario che gli
impianti siano di grosse dimensioni
e siano localizzati in prossimità di utenze
civili ed industriali alle quali
inviare il vapore o l’energia elettrica
prodotti.
LA DISCARICA
La discarica «controllata» (aggettivo
che vuole sottolineare la distinzione
rispetto alla discarica selvaggia,
fuorilegge) è un impianto nel
quale vengono «stoccati» i rifiuti.
Esistono varie tipologie di discarica
in base ai rifiuti ospitati (urbani,
speciali). Secondo il Decreto Ronchi,
in discarica potranno essere
confinati soltanto i rifiuti inerti (non
in grado di reagire con altre sostanze)
e i rifiuti derivanti da operazioni
di riciclo, recupero e smaltimento
(come ad esempio l’incenerimento).
La discarica deve soddisfare alcuni
requisiti generali: deve essere
localizzata in luoghi stabili per tempi
anche molto lunghi; deve possedere
barriere naturali (ad es. spessi
strati argillosi) o artificiali (ad es. fogli
di polietilene di diverse tipologie)
che isolino i rifiuti dall’ambiente
esterno, in particolare dall’aria
e dalle acque sotterranee; deve
essere controllata con differenti sistemi
di monitoraggio. Nonostante
la discarica sia spesso associata ad
una «buca» in cui si possa gettare di
tutto senza creare problemi, due sono
i possibili impatti sull’ambiente:
1) sulle acque sotterranee: il contenuto
acquoso dei rifiuti, veicolato
dalle acque piovane, può infiltrarsi
nel sottosuolo e raggiungere eventualmente
la falda sottostante la discarica;
2) sull’aria: i processi di degradazione
naturale della parte organica
del rifiuto provocano la formazione
del biogas, un gas composto essenzialmente
da metano ed anidride
carbonica; esso può dare problemi
di incendi e soprattutto di cattivo odore,
e quindi dovrebbe essere bruciato
oppure recuperato ed utilizzato per produrre piccole quantità
di energia elettrica.
IL RECUPERO DEI MATERIALI
Per recupero o riciclaggio si intende
la valorizzazione e l’utilizzo
delle risorse naturali presenti nel rifiuto,
in modo da poterle reintrodurre
nei cicli di produzione e consumo,
con due vantaggi principali:
1) risparmio di materie prime (recuperando
il vetro si risparmia la
sabbia estratta dalle cave e tutte le
sostanze aggiuntive necessarie alla
produzione del vetro);
2) risparmio di energia (l’energia
impiegata per estrarre la sabbia e le
altre sostanze, per i trasporti, per ottenere
la temperatura a cui fonde la
sabbia…).
Gli esempi più noti sono il recupero
della carta, del vetro, della plastica
e dell’alluminio. Anche il compostaggio
è una forma di recupero:
tramite un’operazione naturale di
biodegradazione, la sostanza organica
(il verde e gli alimenti) si trasforma
in ammendante per l’agricoltura.
Essendo dei veri e propri impianti
industriali, anche gli impianti di
recupero presentano vantaggi e
svantaggi dal punto di vista ambientale
ed economico. Ad esempio,
è noto che, nel recupero della
carta, la fase di disinchiostrazione
abbia un pesante impatto sull’ambiente.
La plastica non può essere
recuperata molte volte perché perde
le proprietà iniziali: una bottiglia
di plastica non può tornare ad essere
una bottiglia ma può diventare
materiale per oggetti vari (ad esempio
panchine, maglioni in pile, materiale
espanso per le automobili…).
Il vetro, invece, può essere fuso infinite
volte senza perdere le sue caratteristiche.
Ecco perché il recupero
del vetro è forse quello che
comporta meno problemi a livello
di mercato: la qualità di una bottiglia
di vetro proveniente da vetro riciclato
(quello che noi mettiamo
nelle campane della raccolta differenziata)
è la stessa di una bottiglia
fabbricata a partire dalle materie
prime (sabbia, carbonati di calcio e
sodio, ossidi di ferro…).
Al contrario, il mercato della carta
non è ancora abbastanza sviluppato,
in quanto la qualità della carta
riciclata non soddisfa le richieste
di tutti gli acquirenti (anche se nella
maggior parte dei casi non è necessario
scrivere una lettera o una
relazione su carta bianchissima…).
Gli impianti di recupero sono molto
complessi e costosi e quindi giustificabili
per quantità elevate di rifiuti.
Essi inoltre necessitano che il
materiale da riciclare (vetro, carta,
plastica…) sia il più possibile privo
di altri elementi estranei. Ad esempio,
se nelle campane del vetro sono
presenti anche piccole quantità
di ceramica (come la tazzina di
caffè), la probabilità che le bottiglie
ottenute dalla fusione del vetro si
rompano è molto elevata.
A questo punto risultano evidenti
alcune considerazioni:
– qualsiasi tipologia di smaltimento
(inceneritore, discarica, recupero)
presenta vantaggi e svantaggi;
– la raccolta differenziata non è una
forma di smaltimento alternativa alla
discarica o all’inceneritore, come
molti pensano; essa rappresenta invece
il passaggio dalla produzione
dei rifiuti al recupero (della carta,
del vetro, della plastica, ecc….) e,
quindi, costituisce una prima fase di
separazione dei materiali, alla quale
seguiranno trattamenti più accurati;
– affinché il recupero possa essere
efficiente, la r.d. deve essere fatta
nel migliore dei modi, sia da parte
del cittadino, sia dell’amministrazione
comunale.
LOCALISMO E
SOSTENIBILITÀ

Finora l’analisi del problema rifiuti
è stata affrontata da un punto
di vista locale, ossia limitatamente
al territorio in cui un certo impianto
(discarica, inceneritore…) è costruito.
Se, in questo contesto, ci ponessimo
la domanda «perché la questione
rifiuti è grave?», sicuramente la
risposta sarebbe «perché non sappiamo
più dove metterli!». Questo
effettivamente corrisponde al vero,
e di conseguenza l’intero dibattito
verte su quale sia la migliore tipologia
di smaltimento.
Se però si cambia il punto di vista,
possono emergere alcune considerazioni
inaspettate e sorprendenti.
Tale nuovo punto di vista è quello
dello sviluppo sostenibile (MC, giugno
2002). La sostenibilità ambientale,
infatti, analizza i problemi nel
lungo periodo (e quindi non nel
breve) e in uno spazio più ampio rispetto
al locale: essa si chiede le
conseguenze di una certa azione
antropica sia a livello planetario sia
a distanza di tempo.
In quest’ottica il problema rifiuti
rivela le due facce di una stessa medaglia:
da un lato il problema dello
smaltimento, dall’altro il sovrasfruttamento
delle risorse naturali.
Ricordando infatti che il rifiuto è un
prodotto morto e che un prodotto
è un insieme di risorse naturali, è evidente
che la maggior produzione
di rifiuti significa un sempre maggiore
sfruttamento delle risorse del
pianeta. Maggiori rifiuti significa
anche maggiori impronte ecologiche
e, quindi, disequilibri ambientali
e sociali crescenti (MC, giugno
2002).
Ecco che il problema dello smaltimento
diventa secondario. La parola
d’ordine dovrebbe essere «ridurre
i rifiuti», come lo stesso Decreto
Ronchi invita a fare. Della
quota di rifiuti prodotta bisognerebbe
poi fare una raccolta differenziata
(r.d.) accurata, tale da incentivare
il recupero dei materiali e
limitare al massimo la costruzione di
inceneritori e discariche. Tuttavia
questo non avviene, anzi, viene attribuita
un’importanza primaria alla
r.d.: è certamente vero che essa sia
una pratica fondamentale, ma il fatto
che aumenti non significa automaticamente
che diminuisca la produzione
dei rifiuti. Allora, perché
premiare solo i comuni che aumentano
la r.d. e non quelli che diminuiscono
la produzione dei rifiuti?
Anche l’analisi relativa all’inceneritore
cambia aspetto sotto il punto
di vista della sostenibilità. Essendo
una sorta di «macchina» che funziona
«a rifiuto» anziché a benzina,
l’inceneritore necessita di rifiuti, favorendone
paradossalmente l’aumento
anziché la diminuzione.
Altri aspetti interessanti emergono
dallo studio degli impianti di recupero.
Prendiamo come esempio
un impianto di recupero del vetro.
In provincia di Torino non esiste un
impianto di riciclaggio del vetro: i
vetri provenienti dalle campane della
raccolta differenziata sono quindi
trasferiti ad Asti, a Dego (Savona)
o a Milano, con un notevole impatto
ambientale dovuto ai
trasporti. Questi impianti, inoltre,
generalmente esportano il vetro riciclato
(sottoforma di contenitori e
bottiglie dalle numerose forme) anche
sui mercati esteri, in Europa ed
oltreoceano. L’impatto dovuto ai
trasporti (estrazione di petrolio ed
emissioni di gas che alterano il clima)
non rischia così di annullare
quel risparmio di materie prime ed
energia che il recupero consentirebbe
di offrire?
Ci si può chiedere allora se grossi
impianti localizzati potrebbero essere
sostituiti da piccoli impianti
diffusi sul territorio, in grado sia di
rivitalizzare l’economia e l’occupazione
locali, sia di minimizzare i trasporti.
Purtroppo, però, questi impianti
sono molto costosi e gli investimenti
iniziali sono facilmente
ammortizzabili solo se l’impianto è
di grandi dimensioni.
Non è possibile allora ripensare il
funzionamento del sistema? Ad esempio,
si potrebbe potenziare la
pratica del vetro a rendere, affiancandola
al recupero? Bisogna inoltre
ricordare che, generalmente, un
impianto di recupero vetri utilizza
due terzi di vetro proveniente dalle
campane della r.d. ed un terzo di
materie prime. Ogni bottiglia prodotta,
quindi, è costituita per un terzo
da sabbia vergine! Se la richiesta
di contenitori in vetro aumenta
sempre di più, come sta succedendo,
aumenterà comunque la frazione
di materie prime estratte, anche
se il vetro viene recuperato. Risulta
di primaria importanza, quindi, la
riduzione della richiesta di contenitori.
E qui si apre un altro capitolo
interessante: gli imballaggi.
L’aumento smisurato degli imballaggi
rappresenta l’emblema dello
spreco di materie prime. Ha senso
utilizzare un materiale prezioso come
l’alluminio per contenere semplici
bevande? Non è un paradosso
che il contenitore sia più prezioso
del contenuto? Perché consumare
la plastica (derivante da una risorsa
scarsa ed inquinante come il petrolio)
non solo per le sue caratteristiche
chimico-fisiche, ma soprattutto
per fabbricare sacchetti ed imballaggi
vari, destinati ad una vita brevissima?
(Fine 4.a puntata – continua)

Consigli per RIDURRE i rifiuti:
scegliere i prodotti con minor zaino
ecologico;
scegliere i prodotti con meno imballaggio
possibile;
preferire prodotti duraturi, riparabili,
smontabili;
preferire materiali riciclabili;
provare a riutilizzare i prodotti per
scopi differenti dall’originario;
evitare i prodotti usa e getta;
diminuire l’uso di prodotti chimici
pericolosi;
evitare i cibi confezionati con involucri
inutili;
non fare incartare dai commessi prodotti
che hanno già una propria confezione;
preferire i liquidi (alimentari e non)
alla spina o in contenitori a rendere;
evitare i contenitori di plastica mono
uso;
preferire i contenitori di vetro a quelli
in plastica o alluminio;
evitare gli imballaggi in tetrapak,
costituiti da cartone ed alluminio (ad
esempio per il latte, i succhi di frutta…);
evitare i prodotti con «omaggi» che si
rivelano spesso come oggetti inutili,
destinati a diventare subito rifiuti;
preferire borse di juta e cotone alle
borse di plastica;
preferire le pile ricaricabili;
utilizzare i fogli con una facciata bianca
per la brutta copia;
fotocopiare fronte e retro;
non prendere volantini o fogli pubblicitari
se non interessano;
usa il più possibile la carta riciclata.

Silvia Battaglia




QUANDO LO SVILUPPO NON È PROGRESSO

Secondo la cultura oggi dominante una società è tanto più sviluppata quanto
più consuma. Il benessere degli individui è misurato in termini di consumo
e di accumulo di merci. Gli stili di vita dei paesi industrializzati sono
incompatibili sia con i limiti fisici del pianeta (risorse e capacità
di assorbimento dei rifiuti limitate) sia con gli ideali di equità. L’attuale
modello di sviluppo non solo produce ingiustizia per l’80% della popolazione
mondiale, ma mette a rischio il benessere delle generazioni future.
«Il mondo – diceva il Mahatma Gandhi – è abbastanza ricco per soddisfare
i bisogni di tutti, ma non lo è per soddisfare l’avidità di ciascuno».

Nelle puntate precedenti (1) si è accennato in
termini qualitativi al legame esistente tra ambiente
e società, tra emergenze ambientali ed
emergenze sociali, tra sistema economico e risorse
naturali, tra crescita economica e limiti fisici alla crescita
stessa. Ci si è avvalsi di principi fisici, di nozioni
storico-filosofico-etiche, ma anche di semplici analisi
del funzionamento del sistema economico, nonché
di considerazioni di buon senso.
Esistono tuttavia ulteriori strumenti, basati su leggi
della fisica, della matematica e della statistica, in
grado di evidenziare perché sia necessario ridurre
considerevolmente le quantità di materiali e di energia
prelevate dall’ambiente e destinate all’attuale
sistema economico. Esistono cioè degli strumenti
utili per capire se ci stiamo orientando verso uno
«sviluppo sostenibile».

I DOGMI DEL MODELLO
Sviluppo è certamente un concetto ambiguo e
soggetto ad interpretazioni anche molto diverse tra
loro.
In biologia, il termine descrive il processo attraverso
il quale un organismo raggiunge la sua forma
completa: nel linguaggio comune esso indica la crescita
degli animali o delle piante. Nella seconda metà
del Settecento, con la rivoluzione industriale e l’emergere
del capitalismo, il termine viene trasferito
anche alle scienze sociali, identificandosi sempre
più con il concetto di progresso. Mentre nelle civiltà
greche e romane la crescita era considerata come un
processo ciclico e in quelle medievali come degenerazione
e decadenza, nel pensiero occidentale moderno
«il progresso implica che una civiltà sia progredita, stia progredendo e progredisca
nella direzione desiderata».
L’influenza darwiniana fa sì che sviluppo
e progresso diventino sinonimo
di evoluzione, ossia processo
verso forme sempre più perfette. Lo
sviluppo, quindi, da processo nascita-
morte, viene ora concepito come
qualcosa di «direzionale, cumulativo,
irreversibile e volto ad uno scopo».
La cultura dominante, che
confonde tra loro i termini sviluppo,
crescita, progresso ed evoluzione,
impone che «i diversi paesi si sviluppino
secondo stadi successivi,
dalla società tradizionale a quella dei
consumi di massa, lungo una direzione
lineare verso la modeizzazione».
Tre sono i dogmi su cui si basa tale
pensiero:
1) esiste un unico modello di sviluppo,
che ha come fine la società
capitalista avanzata dei consumi;
2) l’unico fine è quello della crescita
economica;
3) il benessere deve essere inteso come
consumo e accumulo di merci
(Cuhna, 1988).
Secondo questo approccio, quindi,
lo sviluppo economico, inteso
come sviluppo industriale e tecnologico,
assicura da solo il progresso
sociale e il benessere dell’uomo.

ECONOMIA
CONTRO ECOLOGIA?

Nei primi anni Sessanta iniziano
ad emergere, in molteplici ambiti,
danni ecologici irreversibili dovuti
alla grande crescita economica ed
industriale. La percezione dei problemi
ambientali è limitata ai fenomeni
di inquinamento locale e le soluzioni
proposte consistono nella
definizione di livelli di emissione relativi
a determinate sostanze, nella
dispersione degli inquinanti, nella
protezione di spazi circoscritti. È
l’approccio della «protezione e riparazione
ambientale».
Nel corso degli anni Settanta, grazie
al miglioramento delle conoscenze
scientifiche e alla crescente
sensibilizzazione dell’opinione pubblica,
le preoccupazioni ambientali
iniziano ad estendersi su scala internazionale.
Si passa ad un approccio diverso,
quello della «gestione delle risorse»:
nel 1972, infatti, il rapporto del Club
di Roma «I limiti dello sviluppo»,
pubblicato dal Mit (Massachusetts
Institute of Technology), affianca al
problema dell’inquinamento quello
del depauperamento delle risorse
del pianeta, la cui gravità viene amplificata
dalla crisi petrolifera del
1973. È anche l’approccio della «gestione
del rischio»: dopo alcuni eventi
catastrofici di origine industriale
(Seveso, Bhopal…), nasce l’esigenza
di saper affrontare situazioni
nelle quali il rischio non è completamente
eliminabile a priori e le conseguenze
sono spesso irreparabili.
Nonostante numerose critiche, il
rapporto del Club di Roma ha avuto
il merito di sollevare il dibattito
internazionale sulle questioni ambientali
e di avanzare il concetto di
limiti fisici alla crescita. Le due posizioni
estreme, all’interno delle
quali si è sviluppata la discussione,
sono l’economia di frontiera e l’ecologia
profonda, analoghe rispettivamente
all’approccio tecnocentrico
ed ecocentrico:
1) l’economia di frontiera assegna
alla natura un valore strumentale, in
virtù dei numerosi servizi che essa
offre all’uomo; la considera, inoltre,
come fonte inesauribile di risorse
(materie prime, energia, acqua, suolo,
aria) e come deposito illimitato
dei sottoprodotti derivanti dall’attività
di produzione e consumo (rifiuti,
inquinamento e degrado ecologico);
ritiene quindi l’economia
completamente separata dall’ambiente
e conserva un’assoluta fiducia
nella tecnologia e nel mercato; lo
sviluppo è inteso esclusivamente in
termini quantitativi, ossia come crescita
economica;
2) l’ecologia profonda riconosce alla
natura un valore intrinseco, al di
là dei suoi servizi, per il quale va tutelata
e rispettata; evidenzia aspetti,
completamente ignorati dalla precedente
posizione, quali elementi etici,
sociali, culturali, basati sul concetto
di sviluppo in armonia con la
natura.
A questa corrente di pensiero appartiene
l’ipotesi Gaia, formulata
da J. Lovelock, secondo la quale il
pianeta costituisce un grande organismo
vivente in grado di autorganizzarsi
ed autorinnovarsi, non però
necessariamente in materia ottimale
per la specie umana…

LO SVILUPPO SOSTENIBILE
Nel 1987, con il rapporto Brundtland
(3) inizia ad imporsi il concetto
di sviluppo sostenibile, affermatosi
a livello internazionale con la
«Conferenza mondiale su ambiente
e sviluppo», svoltasi a Rio de Janeiro
nel giugno 1992.
Secondo la definizione originale,
è sostenibile uno «sviluppo che soddisfi
i bisogni del presente senza
compromettere la capacità delle generazioni
future di soddisfare i propri
». Nonostante il proliferare di interpretazioni
anche molto lontane
tra loro, vi sono alcuni concetti peculiari
alla base di questo nuovo approccio.
1) Il capitale naturale. Si possono
distinguere tre forme di capitale:
quello prodotto dall’uomo (infrastrutture,
macchinari…), quello umano
e quello naturale (atmosfera,
ecosistemi, flora…). Ogni tipologia
di capitale, da sola o insieme alle altre,
genera dei servizi, necessari all’uomo
per aumentare il proprio livello
di benessere: il capitale umano
rappresenta la forza lavoro; i macchinari
permettono, ad esempio, le
trasformazioni delle materie prime
in beni di consumo.
L’uomo utilizza i materiali, l’energia
e l’informazione contenuti nel
capitale naturale combinandoli con
le altre due forme. Ne consegue che
il capitale naturale è essenziale per il
benessere umano, nonché per la sussistenza
stessa del capitale prodotto
dall’uomo (i macchinari e le infrastrutture
sono costituiti da risorse
prelevate dalla natura…) e del capitale
umano (alcuni servizi offerti
gratuitamente dalla natura e indispensabili
alla sopravvivenza sono,
ad esempio, la purificazione naturale
di aria e acque, la protezione dai
raggi ultravioletti, la stabilizzazione
del clima, la rigenerazione del suolo,
la preservazione della fertilità, il
mantenimento della biodiversità, la
decomposizione dei rifiuti, ecc.).
Di conseguenza, non è più sufficiente
diminuire o rimuovere l’inquinamento
diretto verso l’ambiente
naturale, ma è necessario soprattutto
impedire trasformazioni
irreversibili degli ecosistemi a causa
dell’azione dell’uomo, cioè è necessario
conservare il capitale naturale.
2) L’equità sociale. Uno sviluppo sostenibile
richiede sia l’equità intragenerazionale,
cioè all’interno di una
stessa generazione, sia l’equità intergenerazionale,
cioè rispetto alle
generazioni future.
3) Distinguere tra sviluppo e crescita.
Mentre la «crescita» è un concetto
di tipo quantitativo, il termine
«sviluppo» vuole indicare una trasformazione
soprattutto qualitativa:
non solo economica, quindi, ma
comprendente tutti gli aspetti della
sfera sociale.
4) La sostenibilità. È un concetto
che comprende contemporaneamente
e allo stesso modo tre dimensioni:
economica, ambientale e sociale.
Lo sviluppo economico non è ritenuto
prioritario rispetto a quello
sociale, ma il raggiungimento dell’uno
non può prescindere dall’altro.
Lo sviluppo sostenibile ha quindi
il merito di aver contribuito al
passaggio da una visione settoriale
dei problemi (sviluppo economico
visto indipendentemente dall’aspet-
to sociale ed ambientale) ad una visione
integrata, multidisciplinare e
complessa. In questo contesto l’ambiente
non è più considerato un vincolo
o un aspetto marginale, ma diventa
parte integrante e strategica
dello sviluppo.
In un intreccio così complesso di
componenti (economiche, ambientali
e sociali), uno sviluppo sostenibile
dovrebbe riconoscere l’importanza
di concetti come l’incertezza,
il limite, e quindi la prudenza nel valutare
le conseguenze sull’ambiente
delle azioni umane, specialmente se
numerose e concomitanti; dovrebbe
ottimizzare l’uso delle risorse
scarse del pianeta e ridurre inquinamento
e rifiuti prodotti, per garantire
l’esistenza di tutti gli esseri viventi;
dovrebbe mirare non solo al
benessere economico ma anche e
soprattutto al miglioramento della
qualità della vita.
Dato che ogni paese possiede peculiari
caratteri sociali, ambientali
ed economici, si dovrebbe abbandonare
la «psicosi spaziale», ossia la
presunzione, propria delle culture
dominanti, di poter applicare ovunque
lo stesso modello di sviluppo.
A livello pratico, però, lo «sviluppo
sostenibile» rischia di essere solo una
formula pubblicitaria; nel momento
in cui la definizione teorica
deve essere tradotta a livello operativo,
interpretazioni molto diverse
tra loro ne ostacolano la concreta
realizzazione.

L’IMPRONTA ECOLOGICA
Come si accennava all’inizio, esistono
strumenti, detti «indicatori»,
basati su principi fisici, biologici,
matematici, statistici ecc…, in grado
di misurare il livello di sostenibilità
dello sviluppo. Gli indicatori rivelano
se stiamo migliorando le condizioni
ambientali, sociali ed economiche
del pianeta (o di una nazione,
di una comunità…) o, al contrario,
se le stiamo peggiorando. Uno strumento
di calcolo potente dal punto
di vista didattico (perché relativamente
semplice e molto intuitivo) è
quello dell’«impronta ecologica».
L’impronta ecologica stima, in ettari,
la superficie terrestre ed acquatica
necessaria, da un lato, alla produzione
delle risorse naturali richieste
dall’economia per la produzione
di beni e, dall’altro, all’assorbimento
dei rifiuti prodotti.
È quindi possibile calcolare l’impronta
ecologica di qualsiasi nazione
(popolazione, comunità o individuo):
essa rappresenterà l’area di
terra produttiva e di acqua richiesta
per produrre le risorse consumate
da quella stessa nazione e per assorbire
i rifiuti generati. Tale superficie
viene stimata attraverso varie
metodologie.
Il metodo dell’impronta ecologica
si basa sulle seguenti considerazioni:
1) ogni prodotto o servizio ha bisogno
di materiali ed energia provenienti
dalla natura;
2) ogni bene genera scarti (nella produzione,
nell’uso, nello smaltimento
finale), e sono necessari
sistemi ecologici che li
assorbano;
3) tutti gli insediamenti abitativi
e le infrastrutture
occupano spazio, sottraendo
suolo agli ecosistemi
naturali e alle loro
funzioni.
Per calcolare l’impronta
ecologica, si valutano le risorse
naturali consumate
per l’alimentazione,
l’abitazione,
i trasporti, i
beni di consumo
e i servizi. I sistemi
ecologici produttivi,
dai quali
provengono le risorse,
sono il suolo coltivabile, le zone
di pascolo, le foreste gestite, le foreste
naturali, il suolo necessario alla
produzione di energia, gli ambienti
marini. L’impronta ecologica
individuale, locale o nazionale dipende
da fattori come il reddito, i
valori e i comportamenti personali,
i modelli di consumo, le tecnologie
usate.
Dividendo le terre emerse e il mare
biologicamente produttivo (12,6
miliardi di ettari, al 1996) per il numero
degli esseri umani (5,7 miliardi,
al 1996), si ottiene che ogni individuo
ha a disposizione circa 2,2 ettari
di territorio produttivo all’anno.
Considerando che il 10-12% di spazio
naturale dovrebbe rimanere intatto
per conservare la biodiversità
e i processi ecologici (i biologi
suggeriscono il 25%!),
l’impronta ecologica pro capite
diventa di 2 ettari (4). Ogni
individuo, quindi, ha a disposizione
circa 0,2 ettari di
terreno agricolo, 0,8 ettari
di terreno da pascolo, 0,6
ettari di foreste, 0,5 et-
tari di aree oceaniche.
Le stime relative al 1996, invece,
dimostrano che l’impronta media
mondiale effettiva era pari a 2,85 ettari
di superficie pro capite. Dal
punto di vista ambientale ciò significa
che stiamo sfruttando un’area
superiore di almeno il 30% rispetto
all’area disponibile. Tale eccedenza
provoca l’impoverimento del capitale
naturale del pianeta. Per fare
un’analogia con il capitale monetario,
è come se, anziché utilizzare solamente
gli interessi maturati, noi
spendessimo anche parte del capitale
investito, cosa che porterebbe
ad un’inesorabile progressiva diminuzione
dello stesso e, di conseguenza,
alla sempre minor disponibilità
di interessi.
La crescita dei consumi e la crescita
della popolazione (7 miliardi di
persone nel 2012, 8 miliardi nel
2026 e 9 miliardi nel 2043) porteranno
inevitabilmente ad una sempre
maggior erosione del capitale
naturale, con conseguenze non facilmente
prevedibili sugli equilibri
naturali e, di conseguenza, sulla nostra
stessa sopravvivenza. Già oggi
si parla di cambiamenti climatici, di
aumento della frequenza dei fenomeni
estremi (siccità, alluvioni), di
desertificazione, emergenza acqua,
piogge acide, diminuzione della biodiversità…

SE TUTTI
CONSUMASSERO COME…

I più recenti calcoli informano che
uno statunitense medio ha un’impronta
ecologica di 12,22 ettari pro
capite, un canadese 7,66, un tedesco
6,31, un italiano 5,51, un colombiano
1,90, un indiano 1,06, un cambogiano
0,83, un afghano 0,58, un
abitante della Namibia 0,66, un eritreo
0,35. Gli individui non hanno
quindi lo stesso «peso» sulla Terra.
Ci sono popolazioni che superano
di gran lunga la loro legittima «fetta
» di terra a disposizione (i 2 ettari
di superficie), altri che ne utilizzano
una piccolissima parte.
Due considerazioni: innanzitutto,
se tutti gli abitanti del pianeta consumassero
come uno statunitense
medio, avremmo bisogno di almeno
3 pianeti come la terra! Lo stile di
vita dei paesi industrializzati non
può quindi essere esteso a tutti gli abitanti
del mondo, semplicemente
perché le risorse del pianeta e la capacità
di assorbimento dei rifiuti sono
limitate e non infinite come si
pensava in passato. Secondo aspetto:
il 20% della popolazione mondiale
sfrutta l’80% delle risorse del
pianeta. Questi dati mostrano quindi
una forte ingiustizia sociale, non
solo rispetto alle generazioni future,
ma anche nei confronti delle generazioni
presenti.
Prendiamo l’Italia come esempio:
in base al territorio produttivo, noi
avremmo a disposizione solo 1,92
ettari per i nostri consumi; tuttavia
la nostra impronta pro capite risulta
essere di 5,51 ettari. È evidente che
i restanti 3,59 ettari vengono compensati
dal commercio internazionale:
si parla di deficit ecologico locale
(o debito ecologico, per analogia
con il debito sociale). Questo
però significa che gli stessi 3,59 ettari
sono sottratti a qualche altra popolazione.
Essendo l’economia basata
sulle risorse naturali, è quindi evidente
che la ricchezza materiale
dei paesi del Nord del mondo dipende
dalle ricchezze naturali prelevate
dal Sud del mondo.
È noto che una parte dei problemi
dei paesi poveri siano di origine intea
(corruzione, nepotismo, cattiva
gestione dell’economia, violazione
dei diritti umani…); altrettanto evidente
dev’essere però il fatto che i
paesi industrializzati devono diminuire
in modo considerevole il loro
consumo di materie prime, energia e
natura, non solo tramite l’innovazione
tecnica, ma anche e soprattutto
tramite una rivoluzione culturale basata
su nuovi stili di vita.
Uscendo dalla logica della solidarietà
intesa come beneficenza, è necessario
entrare in una logica di
«giustizia»: non «dare» in misura
maggiore, ma piuttosto «prendere»
in misura minore (5).
Queste considerazioni ci obbligano
quindi a rivedere l’attuale concetto
di «benessere»: un benessere
oggi esclusivamente materiale, basato
su un consumo di risorse che
danneggia gli ecosistemi, la giustizia
mondiale e le generazioni future.
(Fine 3.a puntata – continua)

BIBLIOGRAFIA
NOTE:
(1) Vedi Missioni Consolata di gennaio
2002 e marzo 2002.
(2) Anna Segre-Egidio Dansero, Politiche
per l’ambiente, Utet, 1996.
(3) Il rapporto Our Common Future,
presentato nel 1987 dalla «World Commission
on Environment and Development
» (Wced), commissione promossa
nel 1983 dalle Nazioni Unite, è noto come
«rapporto Brundtland», dal nome
del premier norvegese che al tempo
presiedeva la commissione stessa.
(4) Centre for Sustainable Studies,
Rapporto Living Planet 2000, Redefining
Progress.
(5) Wuppertal Institut, Futuro Sostenibile,
EMI, Bologna 1999.
Anna Segre – Egidio Dansero,
Politiche per l’ambiente,
Utet, Torino 1996
Wolfgang Sachs (a cura di),
Dizionario dello sviluppo,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998
Gruppo di Ricerca
in Didattica delle Scienze Naturali,
I volti della sostenibilità,
Università di Torino, 2002
Mathis Wackeagel
e William E. Rees,
L’impronta ecologica.
Come ridurre l’impatto dell’uomo
sulla terra,
Ed. Ambiente, Milano 2000
WWF Inteational,
Rapporto Living Planet 2000,
Gland, Svizzera, ottobre 2000
Wuppertal Institut,
Futuro Sostenibile,
EMI, Bologna 1999
Gianfranco Bologna (a cura di),
Italia capace di futuro,
EMI, Bologna 2000
Centro Nuovo Modello di Sviluppo,
Ai figli del pianeta,
EMI, Bologna 1998
Giovanni Salio,
Elementi di economia
nonviolenta. Relazioni
tra economia, ecologia ed etica,
Edizioni del Movimento nonviolento,
Verona 2001
Christoph Baker,
Ozio, lentezza e nostalgia,
EMI, Bologna 2001
E. U. von Weizsäcker, A. B. Lovins,
L. H. Lovins,
Fattore 4,
Edizioni Ambiente, Milano 1998.
Enea,
Atti della Conferenza
nazionale energia e ambiente
(Roma, novembre 1998),
Fabiano Editore,
Canelli (Asti) 1999

Sviluppo
Nel linguaggio comune, accettato da economisti, decisori pubblici ed opinione
pubblica, per «sviluppo» si intende la crescita quantitativa dell’economia,
misurata attraverso vari indicatori economici, primi fra tutti il Pil (prodotto
interno lordo). Lo sviluppo sostenibile, invece, distingue tra «crescita»
quantitativa e «sviluppo», inteso come miglioramento qualitativo, che integri
fra loro gli aspetti economici, sociali ed ambientali.

Indicatori di sostenibilità
Sono strumenti che monitorano il progresso verso uno sviluppo sostenibile.
Tentando di ricomprendere tutte le dimensioni della sostenibilità, essi mirano
a sostituire gli attuali strumenti di misura della crescita economica, in particolare
il Pil. Questo non solo considera esclusivamente le attività valutabili in
termini monetari, ma omette aspetti rilevanti e ne comprende altri di paradossali.
Dal punto di vista sociale, infatti, non considera la produzione di beni
e servizi derivanti dal lavoro domestico o dal volontariato, mentre calcola
le spese sanitarie necessarie per affrontare gli effetti negativi della produzione
e del consumo; dal punto di vista ambientale, il Pil aumenta anche grazie
alle spese per la protezione ambientale (alluvioni, terremoti…!) e per il disinquinamento.

Impronta ecologica
Rappresenta la superficie di territorio ecologicamente produttivo (terra ed acqua)
necessaria per fornire le risorse di energia e materia consumate da una
certa popolazione e per assorbire i rifiuti prodotti dalla popolazione stessa.
Mentre il classico concetto di «capacità di carico» indica quante persone può
sopportare la terra, l’impronta ecologica indica quanta terra ogni persona richiede
per condurre il proprio stile di vita.

Zaino ecologico
Detto anche «flusso nascosto», o «fardello ecologico», rappresenta la quantità
di materiali prelevati dalla natura durante le fasi di produzione, utilizzo e smaltimento
relative ad un prodotto (o servizio). Si tratta di materiali abiotici (sabbia,
ghiaia, minerali, combustibili fossili), materiali biotici (biomassa vegetale
ed animale), terreno fertile, acqua, aria.

L’IMBROGLIO DEI… PANNOLINI SINTETICI
L’abitudine di acquistare pannolini «usa e getta» per i propri bimbi è ormai
consolidata, ma è una tendenza dispendiosa e altamente inquinante che
andrebbe corretta.
Le nostre mamme utilizzavano i ciripà o triangolini, che richiedevano un lavoro
notevole di «manutenzione». Oggi il mercato mette a disposizione del consumatore
consapevole pannolini in tessuti modei, che si mettono e tolgono
come un «usa e getta», ma che non sono destinati alla discarica, in quanto lavabili.
Le motivazioni per una scelta di questo tipo sono di natura ambientale, ma
anche legate a convenienza economica.
Analizzando il ciclo di vita di un pannolino sintetico, vediamo che i pannolini
«usa e getta» sono costituiti in gran parte da plastica ed inquinano pesantemente
l’ambiente già dalla loro produzione: in un anno si utilizzano svariati
galloni di olio, tonnellate di plastica e milioni di tonnellate di polpa di legno,
alla fine del ciclo di uso il pannolino finisce nelle discariche con un periodo di
decomposizione pari a 500 anni.
Se pensiamo all’aspetto economico, vediamo che ogni confezione di pannolini
«usa e getta» ne contiene mediamente 40, per una spesa di circa 10 Euro.
Considerando di consumae almeno un pacco a settimana (in realtà se ne utilizzano
molti di più), si spendono circa 40 euro mensili, il che vuol dire quasi
480 Euro l’anno; una spesa alquanto incisiva per il bilancio familiare. I pannolini
in tessuto esistono per tutte le tasche e anche con i più costosi è possibile
risparmiare quasi 240 Euro l’anno.
Il comune di TORRE BOLDONE nel bergamasco, nella figura dell’assessore
Ronzoni, ha attivato nel ’98 un’attività di sensibilizzazione all’uso dei pannolini
in tessuto, inviando ai neogenitori un pannolino di tessuto. Negli anni successivi
l’attività d’informazione è continuata, inviando una brochure informativa.
Attualmente le famiglie con bimbi che hanno optato per questa soluzione
sono il 20%, con una riduzione notevole alla fonte dei rifiuti.
CINZIA VACCANEO
PER MAGGIORI INFORMAZIONI:
– pannolini «Lotties»:
Berg Eveline Maria, via Lanciano 15 – 47838 Riccione RN,
tel. 054-1691087
– pannolini «Belli come il sole»: Ilaria Proverbio via Solferino 2/c – 37132
Verona, tel 045-8920213 bellicomeilsole@tin.it
– pannolini Disana (Germania) www.disana.com
Possono essere acquistati tramite il catalogo «I PICCOLISSIMI»
via di Eschignano 39 54100 Massa
tel. 0585-488.209; fax 0585-488.378
www.ipiccolissimi.it

UN DECALOGO DI COMPORTAMENTO PER CIASCUNO DI NOI
CONSIGLI PER CONSUMI… SOSTENIBILI
1) COMPRA DI MENO. Non esistono prodotti ecologici, ma solo meno dannosi di
altri. Ogni prodotto (anche un bicchier d’acqua) comporta un invisibile «zaino
ecologico» fatto di consumo di natura, energia e tempo di lavoro.
2) COMPRA LEGGERO. Spesso conviene scegliere i prodotti a minore intensità di
materiali e con meno imballaggi, tenendo conto del loro peso diretto, ma
anche di quello indiretto, cioè dello «zaino ecologico».
3) COMPRA DUREVOLE. Buona parte dei cosiddetti beni durevoli si cambia troppo
spesso. Cambiando auto ogni 15 anni, invece che ogni 7, ad esempio, si
dimezza il suo zaino ecologico (25 tonnellate di natura consumate per ogni
tonnellata di auto). Lo stesso vale per mobili e vestiti.
4) COMPRA SEMPLICE. Evita l’eccesso di complicazione, le pile e l’elettricità
quando non siano indispensabili. In genere oggetti più sofisticati sono più fragili,
meno riparabili, meno duraturi. Sobrietà e semplicità sono qualità di bellezza.
5) COMPRA VICINO. Spesso l’ingrediente più nocivo di un prodotto sono i chilometri
che contiene. Comprare prodotti della propria regione riduce i danni
ambientali dovuti ai trasporti e rafforza l’economia locale.
6) COMPRA SANO. Compra alimenti freschi, di stagione, nostrani, prodotti con
metodi biologici, senza conservanti né coloranti. In Italia non è sempre facile
trovarli e spesso costano di più. Ricorda però che è difficile dare un prezzo
alla salute delle persone e dell’ambiente.
7) COMPRA PIÙ GIUSTO. Molte merci di altri continenti vengono prodotte in condizioni
sociali, sindacali, sanitarie e ambientali inaccettabili. In Europa sta
però crescendo la quota di mercato del commercio equo e solidale
(TRANSFAIR). Preferire questi prodotti vuol dire per noi pagare poco di più, ma
per i piccoli produttori dei paesi poveri significa spesso raddoppiare il reddito.
8) COMPRA PRUDENTE. In certi casi conviene evitare alcuni tipi di prodotti o
materiali sintetici fabbricati da grandi complessi industriali. Diversi casi
hanno dimostrato che spesso la legislazione è stata modellata sui desideri
delle lobby economiche, nascondendo i danni alla salute e all’ambiente.
9) COMPRA SINCERO. Evita i prodotti troppo reclamizzati. La pubblicità la paghi
tu: quasi mezzo milione all’anno per famiglia. La pubblicità potrebbe dare un
contributo a consumi più responsabili, invece spinge spesso nella direzione
opposta.
10) INVESTI IN GIUSTIZIA. Ecco due esempi: finanza etica e impianti che consumano
meno energia. In Italia puoi investire nelle MAG (MUTUA AUTO GESTIONE)
e nella Banca Etica. Investendo poi nell’efficienza energetica puoi dimezzare
i consumi e i danni delle energie fossili come carbone e petrolio.
PER ULTERIORI INFORMAZIONI:
«CAMPAGNA BILANCI DI GIUSTIZIA», Segreteria Nazionale Venezia
Tel. 041.538.14.79
www.unimondo.org/bilancidigiustizia, bilanci@libero.it

LO ZAINO ECOLOGICO E SOCIALE
Quando acquistiamo un prodotto è come se ci portassimo
a casa solo la punta di un iceberg. In realtà,
per produrre quel bene è stata movimentata una
massa di materiali, accumulatisi nelle varie fasi della produzione
del bene stesso e depositati come rifiuto in qualche
luogo (in tanti luoghi diversi…). Questi materiali
(ghiaia, sabbia, minerali, petrolio, carbone, gas naturale,
biomassa vegetale ed animale, terreno fertile, acqua,
aria…), che non entrano nel ciclo produttivo e che noi consumatori
non vediamo, costituiscono lo «zaino ecologico»
del prodotto. Siamo abituati a considerare i «nanogrammi»
di inquinanti emessi dai camini, dalle auto…, ma non le
«megatonnellate» di materiali utilizzati a monte del prodotto
consumato e causa di un fortissimo impatto sull’ambiente.
L’indicatore «zaino ecologico» rappresenta, quindi, il carico
di natura che ogni prodotto o servizio si porta sulle spalle
in un invisibile zaino.
Questo argomento sta diventando un importante oggetto
di ricerca. In particolare, si sta studiando per inserire nell’etichetta
di ogni prodotto anche il relativo zaino ecologico,
per dare la possibilità al consumatore di rendersi
responsabile verso le proprie scelte.

Esempio 1
DALLA CIOTOLA ALL’AUTOMOBILE
Una ciotola di legno di tiglio del peso di circa 500 g ha uno
zaino ecologico di 2 kg, mentre una ciotola di rame dello
stesso tipo ha uno zaino di 500 kg. Lo zaino ecologico di
una marmitta catalitica (se il platino in essa presente non
è riciclato) pesa più di 2,5 tonnellate; 1 litro di aranciata,
in base al paese da cui proviene, può avere fino a 100 kg
di materiali nascosti; un giornale quotidiano, del peso di
soli 500 g, ha uno zaino di 10 kg; la costruzione di un’automobile
produce 15 tonnellate di detriti solidi, senza contare
l’acqua utilizzata.
Generalmente, più un prodotto è prezioso o elaborato,
maggiore è il suo zaino ecologico. Ad esempio, il «simbolo
dell’amore», un anello d’oro di circa 10 grammi, necessita
di 3,5 tonnellate di materiale minerale che vengono estratte
dalla miniera e raffinate.
(tratto da «Ai figli del pianeta», EMI, 1998, pag.33)

Esempio 2
DIETRO UNA LATTINA
Una lattina di alluminio pesa solo 15 grammi, un peso
apparentemente insignificante. Moltiplicato per il numero
di lattine consumate in un giorno nel mondo (circa 1 milione)
si ottiene una massa di 15 tonnellate di alluminio.
Poiché l’Al si ricava dalla bauxite, per ottenere alluminio
puro bisogna estrarre una massa di materiale che pesa 4
volte tanto, ossia 60 tonnellate. La bauxite si trova ad
esempio nella foresta amazzonica, e per arrivare ai giacimenti
è necessario deforestare una zona per la costruzione
di strade ed infrastrutture. Probabilmente migliaia di abitanti
della foresta sono stati costretti a lasciare le loro terre
e a spostarsi. Intoo alle fonderie si accumulano montagne
di detriti e di altri rifiuti industriali. Inoltre, per la trasformazione
della bauxite in alluminio, è necessaria una
grande quantità di energia elettrica, che ad esempio richiede
gasolio. Anche il gasolio, però, ha la sua storia…
(rielaborato da «Ai figli del pianeta», EMI, Bologna 1998)

Esempio 3
DIETRO L’ESTRAZIONE DELL’ORO
Per la gente di Wasse Fiase, nel Ghana occidentale, non c’è
avvenire. Il loro futuro è stato avvelenato, violentato e
annientato dalle società minerarie. Già oggi la povertà si
legge sulle facce dei senza terra e si palpa nella natura violentata.
«Siamo stati spogliati di tutto, perfino della nostra
vita – si lamenta un giovanotto sulla trentina. – Si sono
presi tutte le nostre terre per far posto alle miniere. Noi le
possedevamo dai tempi dei nostri nonni». Poi, nel 1990, il
governo cominciò ad ordinare l’estrazione di oro, giunsero
le prime società minerarie e la gente venne costretta a
sgomberare. Cominciarono così le deportazioni di massa.
Sia chi è partito, sia chi è rimasto è ridotto alla carità. «La
terra non ci appartiene più e, se ti provi a coltivare qualcosa
su un pezzo di terra abbandonato, c’è sempre il
rischio che arrivi una ruspa e ti distrugga tutto. Siamo
costretti a chiedere il permesso per qualsiasi cosa. Ma perché
dobbiamo chiedere il permesso alle imprese minerarie
per vivere nella nostra terra?» (The New Inteationalist,
marzo 1998).
(tratto da «Ai figli del pianeta», EMI, 1998, pag.33)

Silvia Battaglia




LE SPADE NEL FODERO

Ho letto con sgomento su Avvenire 8/2/2002 che
la televisione Abc ha diffuso un reportage da Cuba
(base USA di Guantanamo), dove si vedono i detenuti
talebani ribellarsi agli agenti americani che
rovesciano loro addosso feci e urine. È vero?
Esistono testimonianze sufficienti per odiare la
guerra (non i soldati, vittime essi stessi del vortice
distruttivo, mai totalmente estinguibile dall’uomo).
Qualcuno ha gridato: «Mai più la guerra!». Altri
l’hanno bollata come «avventura senza ritorno». Si
è pure detto: «Con la guerra tutto è perduto». Cosa
ci serve ancora per accantonarla per sempre?
La guerra è stata pure abolita da alcune costituzioni
come mezzo risolutivo dei conflitti. E perché ritorna
sotto altri nomi? Ingerenza umanitaria, azione
di polizia internazionale, legittima difesa…
È necessario un salto di qualità nella riflessione e
nelle scelte quotidiane di ognuno di noi. Il Dalai Lama,
buddista, ha saputo dire «no» alla guerra e a
qualsiasi violenza. E noi cristiani?
Ad Assisi altri leaders religiosi (tra cui Giovanni
Paolo II) hanno dichiarato di impegnarsi perché la
religione non sia mai usata per uccidere, ma per instaurare
tra i popoli relazioni di giustizia e pace.
Le intenzioni sembrano buone; ma, come cristiani,
dobbiamo maturare le motivazioni per tale impegno.
Come «cattolici» noi abbiamo il Concilio ecumenico
e il Catechismo degli adulti: ci consentono
ancora di scegliere «con dolore» l’extrema ratio, cioè
la guerra, quando si è mostrata fallimentare ogni altra
via (dialogo, diplomazia…). Nessuno è disposto
a sopportare una «pace ingiusta», che può significare
sfruttamento, morte. Volendo essere «ragionevoli
», non si dovrebbe scartare questa ipotesi.
Gesù ci ha proposto un’altra via? Sì. Ci ha chiesto
di credere nella forza dell’amore. È la proposta della
croce nella prospettiva della risurrezione: dell’abbraccio
eterno del Padre, il quale non lascia che nessuno
dei suoi figli si perda. La testimonianza dell’amore,
che ci fa essere dono per tutti, porta a soluzione
i conflitti nei tempi che solo Dio conosce e che
non sempre ci consentono di vedere «qui ed ora» i risultati.
Vorrei sapere da specialisti del Nuovo Testamento
se le mie opinioni sono pure fantasie. È vero che l’amore
per i nemici, predicato da Gesù, dovrebbe disarmare
qualsiasi soldato cristiano?
Forse ci vorrà un nuovo Concilio ecumenico…

Caro Filippo, in attesa degli specialisti, «accontentati
» di Gesù che comanda a Pietro: «Rimetti la spada nel
fodero» (Mt 26, 52). Tuttavia è un Gesù che non subisce
passivamente la violenza. A chi lo schiaffeggia replica:
«Se ho parlato male, dimostralo; ma, se ho detto
la verità, perché mi percuoti?» (Gv 1, 23).

FILIPPO GERVASI