Sotto una montagna di tecnorifiuti

LA INARRESTABILE CRESCITA DEI «RIFIUTI ELETTRONICI»

Cellulari, computer, macchine fotografiche, televisori diventano obsoleti sempre più rapidamente. Non c’è dunque da stupirsi se ogni persona produce in media 14 chilogrammi di rifiuti elettronici all’anno. Sono rifiuti riciclabili ma, contenendo varie sostanze tossiche, è costoso trattarli in maniera adeguata. Ecco perché si è individuata una soluzione più semplice:
esportarli nel Sud del mondo…


Quasi quotidianamente la nostra cassetta delle lettere contiene materiale pubblicitario di qualche grande catena di distribuzione di prodotti elettronici e di elettrodomestici. Nei depliant vengono magnificate le qualità delle ultime novità tecnologiche, magari con l’immagine di un simpatico robottino, che da un altoparlante dice «fuoritutto», per farci capire che questo è il momento giusto per acquistare il nuovo computer, il cellulare di ultima generazione, che fa tutto, ma proprio tutto, il televisore ultrapiatto che, appeso ad una parete, potrebbe essere scambiato per un quadro. Un’occhiata a volantini di questo genere ed ecco che, in molti, si scatena l’irrefrenabile desiderio di passare al nuovo e così il computer utilizzato fino al giorno prima, il cellulare, la macchina fotografica dalle modeste prestazioni, anche se ancora perfettamente funzionanti, vengono sostituiti. Ma tutto questo «vecchio» materiale elettronico dove va a finire? E quanto se ne produce?

AUMENTANO LE VENDITE,
SI RIDUCE LA VITA MEDIA

Secondo il rapporto dell’Unep (il programma dell’Onu per l’ambiente), presentato a Bali il 22 febbraio 2010, dal titolo Recycling from E-Waste to Resources, ogni anno si accumulano sulla Terra circa 40 milioni di tonnellate di rifiuti hi-tech (più del 5% dei rifiuti solidi urbani generati nell’intero pianeta), 3 milioni dei quali prodotti negli Stati Uniti d’America e 2,3 milioni prodotti in Cina (di cui 1,3 milioni, in questo Paese, è rappresentato da vecchi televisori e 300.000 computer usati). E questi valori sono destinati ad aumentare. Secondo uno studio condotto dall’American Chemical Society, nel 2016 i Paesi in via di sviluppo arriveranno a produrre il doppio dei rifiuti elettronici (definiti anche e-waste, oppure Raee, cioè rifiuti delle apparecchiature elettriche ed elettroniche), rispetto ai Paesi sviluppati. C’è infatti un vertiginoso aumento del numero di persone in possesso di un pc o di altri dispositivi elettronici sia nei Paesi sviluppati, che in quelli in via di sviluppo. Peraltro i progressi tecnologici stanno riducendo moltissimo la durata dei prodotti elettronici di consumo, in modo che la gente ritenga obsoleti pc ed altre apparecchiature già dopo qualche mese dall’acquisto e li scarti, per dotarsi delle ultime novità. Del resto, secondo la legge di Moore, dal nome di uno dei cofondatori dell’Intel, ogni 2 anni la capacità di calcolo dei processori raddoppia. Gli sviluppatori di software si adeguano e così il computer acquistato oggi, domani sarà vecchio e dopodomani pronto per la discarica. Si è passati da 183 milioni di nuovi computer immessi sul mercato nel 2004 a 352 milioni nel 2010, mentre si stimano 409 milioni di computer venduti nel 2011. Ultimamente c’è stata una lieve flessione nelle vendite dei computer, ma solo perché talvolta, al loro posto, vengono preferiti i tablet di nuovissima generazione. La vita media dei pc è passata da 6 anni nel 1997 a 2 anni nel 2005 e si stima che sarà di un anno soltanto nel 2014. Per i telefoni cellulari va anche peggio. Nel 2004 ne sono stati venduti 674 milioni in tutto il mondo, nel 2010 si è arrivati ad 1,4 miliardi, un cellulare ogni 5 persone, con un aumento del 16-18% rispetto all’anno precedente ed una vita media per cellulare di 4 mesi. Questo fa sì che in ogni famiglia restino abbandonati nei cassetti da 2 a 4 cellulari. Che fine fanno i prodotti tecnologici scartati?

CHI RECUPERA
GLI SCARTI ELETTRONICI

Attualmente si raccolgono in modo differenziato meno di 2 chilogrammi di Raee pro-capite all’anno in Italia, contro i 5 chilogrammi della media europea ed una produzione di rifiuti elettronici di circa 14 chilogrammi per abitante. Greenpeace ha stimato che il 75% dei rifiuti elettronici europei e l’80-90% di quelli statunitensi non venga riciclato in loco, ma segua flussi nascosti, eludendo il controllo delle autorità competenti, per poi riapparire come d’incanto in discariche incontrollate in Africa, Ghana in primis, in Cina, India, Pakistan, Filippine, spesso persino con il pretesto delle donazioni caritatevoli.  A livello internazionale sono Cina, India e Pakistan, che ricevono la maggior parte dell’e-waste  prodotto nel mondo. Nelle discariche finisce per lavorarci la gente disperata, soprattutto bambini, a mani nude e senza alcuna precauzione, che recupera principalmente l’alluminio ed i cavi di rame dagli scarti elettronici, dopo avere bruciato questi ultimi oppure avere utilizzato degli acidi, per eliminare le parti in plastica. Dai roghi vengono esalate grandi quantità di piombo e di mercurio, che entrano nella catena alimentare. I cocktail di veleni a cui vengono continuamente esposti i ragazzi, che svolgono questo lavoro determinano spesso la loro prematura scomparsa; molti di loro non riescono infatti a superare i 25 anni d’età. Tra le sostanze tossiche presenti negli scarti tecnologici ci sono, oltre al piombo e al mercurio, il cadmio, l’antimonio, i ritardanti di fiamma bromurati.
Il piombo, presente nelle batterie e nei tubi catodici dei pc causa danni al sistema nervoso, al sistema circolatorio ed a quello riproduttivo. Il cadmio, contenuto nei semiconduttori e nei tubi elettronici di vecchio tipo, provoca danni irreversibili ai reni ed al sistema scheletrico. Il mercurio degli interruttori è alla base di danni ingenti al cervello, in particolare al sistema visivo, al cornordinamento motorio ed al bilanciamento. L’antimonio, che viene usato come agente antifiamma e per produrre un’ampia gamma di leghe metalliche, agisce come l’arsenico, cioè a piccole dosi provoca mal di testa, confusione e depressione, mentre elevati dosaggi determinano violenti e frequenti attacchi di vomito e portano alla morte in pochi giorni. I ritardanti di fiamma bromurati, usati nei rivestimenti plastici e nei circuiti elettrici, oltre a gravi danni ambientali permanenti, provocano danni alla tiroide ed interferiscono con lo sviluppo fetale. I roghi inoltre generano ingenti quantità di diossine, furani, policlorobifenili, cioè sostanze altamente cancerogene.

IL CASO DEL GHANA

È emblematico il caso della discarica di Accra, la capitale del Ghana, dove vivono e lavorano al recupero degli scarti elettronici circa 4.000 persone, prevalentemente bambini e ragazzi provenienti dal nord del paese, una regione particolarmente povera. La discarica è situata vicino al mercato alimentare di Agbogbloshie e viene definita «Sodoma e Gomorra» dagli abitanti.
I container che arrivano dalla Germania sono misti, cioè contengono sempre computer funzionanti, altri da riparare ed il 30% da buttare, che viene dato ai ragazzi di Agbogbloshie. I container inglesi contengono invece molta più spazzatura elettronica. Il tutto in barba alla Convenzione di Basilea, un trattato internazionale del 1989, che vieta al Primo mondo di scaricare i propri rifiuti elettronici nel Terzo, senza autorizzazione (possono essere esportati i computer funzionanti, non i rifiuti. Ma come vanno considerati i pc guasti, però riparabili facilmente e quelli obsoleti, su cui non gira più alcun programma? Nel dubbio i giudici decidono a favore degli esportatori). Questo trattato è stato approvato da 172 Paesi, ma 3 dei firmatari – Afghanistan, Haiti e Stati Uniti – non l’hanno mai ratificato, mentre Canada e Nuova Zelanda hanno rifiutato di firmare l’accordo.
Dopo la Convenzione di Basilea, l’Unione Europea ha varato due direttive: la 2002/95/EC denominata Restriction of hazardous substances (Rohs) e la 2002/96/EC, detta Waste electrical and electronics equipment (Weee). La prima direttiva impone restrizioni sull’uso di sostanze pericolose nella costruzione dei vari dispositivi elettrici ed elettronici, mentre la seconda regolamenta l’accumulo, il riciclaggio ed il recupero di tali dispositivi.
Trattare un pc secondo gli standard previsti dalla normativa europea Weee è un’operazione poco remunerativa, quindi buona parte dei rifiuti elettronici viene esportata verso i Paesi del Sud del mondo, dove spesso i protocolli di sicurezza sono inferiori e le normative a tutela dei lavoratori sono inadeguate o assenti. Smaltire in Germania un vecchio monitor a tubo catodico costa 3,5 euro, mentre portarlo in Ghana in un container costa solo 1,5 euro. Qui, nella discarica di Accra, dopo una giornata di lavoro vicino ai roghi ed essere riusciti a recuperare una mezza borsa di residui metallici, i ragazzi guadagnano circa 2 cedi ghanesi, pari ad un euro, con cui possono pagarsi un posto dove dormire al sicuro per una notte, oppure un pasto, ma non entrambe le cose.

THE STORY OF ELECTRONICS
Le ricadute sull’ambiente e sulla salute dell’e-waste sono descritte in The story of electronics (La storia delle apparecchiature elettroniche, reperibile sul sito: www.storyofstuff.org), un documentario realizzato da Annie Leonard, in collaborazione con il programma di ritiro Electronic Coalition, un’organizzazione americana, che promuove il riciclaggio dei rifiuti elettronici.
Tra i paesi in via di sviluppo, il Kenya sembra destinato a diventare la prima nazione dell’Africa orientale a dotarsi di normative sulla gestione dei rifiuti elettronici. A seguito di una conferenza nazionale tenutasi alla sede del Programma Onu per l’ambiente (Unep) di Nairobi, è stata tracciata una via comune da seguire, per il trattamento e la gestione dell’e-waste, in linea con la Convenzione di Basilea. Secondo l’Unep, l’e-waste rappresenta, per i paesi in via di sviluppo, anche un’opportunità economica, attraverso il riciclo ed il ripristino degli scarti dei prodotti elettronici e la raccolta dei preziosi metalli, che contengono. Un esempio è dato dall’attività di recupero svolta dagli allievi del Crc (Centro di recupero computer), sorto a Porto Alegre, nel Brasile meridionale; in questo centro sono stati ripristinati 1.700 computer nel giro di 3 anni, mentre i residui elettronici, che non possono essere recuperati, vengono utilizzati per produrre particolari forme d’arte. Questo centro fa parte del «Programma brasiliano d’inclusione digitale» ed è il risultato di una collaborazione tra il Ministero della pianificazione e la Rete marista di educazione e di solidarietà, un ramo della congregazione cattolica dei fratelli maristi. Oltre a quello di Porto Alegre, centri analoghi sono nati negli stati di Minas Gerais e di San Paolo, nel sud-est e nel sud del Paese, e nel distretto federale di Brasilia.
La materia prima di questi centri è rappresentata dalla spazzatura elettronica gettata dal governo federale, da banche, imprese e utenti privati, che si disfano degli apparecchi obsoleti per macchine più evolute.

IN EUROPA E IN ITALIA
Come vanno le cose in Europa e in Italia?
Secondo una ricerca commissionata dalla Dell alla società Research Now risulta che in Europa 7 persone su 10 preferiscono mettere in ripostiglio i vecchi pc, stampanti, cellulari ed altre apparecchiature elettroniche, piuttosto che recuperarle. I campioni dell’accantonamento sono gli inglesi e gli italiani. La ricerca ha coinvolto 5.000 persone intervistate in Italia, Spagna, Francia, Gran Bretagna e Germania ed ha dimostrato che solo il 5% degli europei ricicla i vecchi computer. Sono emerse discrepanze di sesso, età e nazionalità, in tema di riciclo. I più attenti sono risultati i tedeschi (riciclano 4 su 5), a differenza dei britannici (1 su 2). Inoltre gli uomini europei sono più informati in materia di riciclo dei vecchi pc, ma questo non vuole dire che siano dei perfetti riciclatori. Le donne invece risultano meno informate sulle procedure di riciclo, ma più attente al rispetto dell’ambiente, per cui si preoccupano maggiormente della destinazione dei rifiuti e dei consumi energetici dei prodotti da acquistare. In Italia va un po’ meglio per il ritiro dei televisori usati, da parte dei consorzi di riciclo, che nel 2009 ne hanno recuperato il 78% (78 chili recuperati su 100 chili venduti), a fronte di una vendita di 7 milioni di televisori, per un totale di 80.000 tonnellate di peso.
In Italia, la direttiva europea 2002/96/CE o Weee è stata recepita nel 2005 con il Decreto legislativo 151, mentre il 18 giugno 2010 è entrata in vigore la legge nota come decreto uno contro uno (D.M. n. 65 dell’8 marzo 2010), il cui scopo era quello di introdurre misure necessarie a semplificare l’applicazione della direttiva europea.

L’INCHIESTA DI GREENPEACE
TRA LE GRANDI CATENE

Greenpeace ha condotto una doppia inchiesta, a luglio ed a dicembre 2010, per verificare presso 5 tra le maggiori catene di distribuzione di materiale elettrico ed elettronico (Euronics, Eldo, Mediaworld, Trony ed Unieuro) se e come questa legge viene rispettata. La prima parte dell’inchiesta, condotta a luglio, è stata un piccolo test condotto presso i rivenditori di Milano, Roma e Napoli (12 negozi in totale), ad un mese dall’entrata in vigore del decreto legge, ed ha dimostrato che il 75% degli intervistati non rispettavano del tutto la normativa. A dicembre sono stati esaminati 107 negozi in 31 città italiane, mediante la compilazione di questionari in forma anonima e l’uso di telecamere nascoste. In contemporanea le 5 catene sono state contattate per capire se fossero a conoscenza dei risultati della prima indagine e solo due, cioè Trony ed Unieuro hanno risposto. Dalla seconda indagine risulta un miglioramento per quanto riguarda l’adeguamento alla normativa, in quanto il 49% dei rivenditori ha dimostrato di rispettare l’obbligo del ritiro dell’usato, al momento dell’acquisto del nuovo, tuttavia resta ancora il 51% di rivenditori, che non rispetta la legge, in parte o del tutto. Inoltre è emerso che nel 25% dei casi, il costo di consegna a casa del prodotto nuovo è stato aumentato per mascherare il ritiro non gratuito dell’usato. Nel 14% dei casi il ritiro gratuito avviene solo se il vecchio prodotto è portato in negozio dall’acquirente, mentre nel 12% dei casi non viene proprio effettuato. Ci sono poi i casi limite, in cui il ritiro a casa dell’usato è gratuito solo se l’elettrodomestico si trova al piano terreno, altrimenti il costo sale a 2,5 euro per piano. L’inchiesta ha inoltre dimostrato che, sebbene la legge preveda l’informazione obbligatoria da parte del commerciante nei confronti del cliente, circa la gratuità del ritiro dell’usato, tale informazione non viene data nel 63% dei casi. Sulla base dei risultati dell’inchiesta, Greenpeace ha stilato una classifica delle catene di distribuzione, che ritirano l’usato gratuitamente. Troviamo perciò il 60% dei negozi Eldo, che ritirano l’usato, seguiti da Mediaworld (50%), Trony (48%), Unieuro (47%) ed Euronics (45%). In tutti gli altri casi, i clienti sono invitati a portare l’usato nei centri di raccolta comunali, che dovrebbero accogliere i rifiuti dei privati cittadini e dei distributori, ma che nella realtà sono insufficienti e non sempre accessibili alla grande distribuzione (perché non autorizzati a ricevere rifiuti elettronici dai negozi, o perché hanno orari di apertura limitati. Su circa 3.000 centri di raccolta, circa il 70% si trova in sole 4 regioni italiane, cioè Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto. Già con un’inchiesta del 2009, però, Greenpeace aveva documentato che molti di questi centri (80% di quelli visitati) avevano problemi di gestione, oppure la loro struttura non era a norma. Il 30 giugno 2010 è scaduto il termine ultimo per l’adeguamento da parte dei comuni dei centri di raccolta rifiuti privi dei necessari requisiti, ma nulla è stato fatto dal governo per garantire un’ulteriore proroga. La mancanza di adeguamento ha comportato la sospensione del servizio di ritiro dei rifiuti, quindi la riduzione del numero dei centri di raccolta a disposizione sul territorio italiano. Ancora una volta si dimostra che in Italia si legifera, ma l’applicazione della legge è un’altra cosa.

Rosanna Novara Topino

LA VITA BREVE DEGLI OGGETTI
L’obsolescenza programmata e quella percepita sono una follia
che produce pesanti conseguenze.

Ormai quasi tutto ciò che compriamo ha vita breve, se non addirittura brevissima. Cellulari, che dopo pochi mesi smettono improvvisamente di funzionare, elettrodomestici, che paiono coalizzarsi contro i proprietari, per cui può capitare di trovarsi con la lavatrice, il frigorifero ed il televisore, che nel giro di pochi giorni si rompono. Automobili nuove, eppure già in panne sul ciglio della strada, perché la loro centralina elettronica si è messa a fare le bizze. Per non parlare della vita ancora più breve dei capi d’abbigliamento, molti dei quali sono programmati per essere indossati solo una o due decine di volte, dopodiché perdono inesorabilmente la loro bellezza perché stingono, infeltriscono, si rompono le cerniere, perdono gli strass. E sempre più spesso, quando qualcosa si guasta, ci sentiamo dire che farlo riparare costa più che comprarlo nuovo. I pezzi di ricambio spesso non si trovano e sono sempre meno anche i tecnici riparatori di elettrodomestici. Addirittura nel campo informatico si dice che i magazzini non servono, perché tanto un computer, dopo circa un anno è già considerato vecchio, quindi esce di produzione, per fare posto ai nuovi modelli, quindi non vale la pena riempire i magazzini di pezzi di ricambio. E così, sempre più spesso ci ritroviamo a ricomperare le stesse cose, per sostituire ciò che si è rotto. Per non parlare di quando comperiamo oggetti, che andranno a sostituie di analoghi, ancora funzionanti, ma che ai nostri occhi sono diventati vecchi, perché la pubblicità sempre più martellante ci dice che è uscito l’ultimo modello e ci fa sentire inadeguati, se non lo acquistiamo. Siamo insomma nell’era del ricambio, del consumismo più sfrenato, in cui le aziende produttrici delle più svariate merci, per convincerci ad acquistare sempre di più, ricorrono all’obsolescenza programmata ed a quella percepita. In pratica l’obsolescenza programmata consiste proprio nel programmare la rottura degli oggetti dopo un certo numero di giorni, mesi o anni di funzionamento. Un oggetto fatto per durare a lungo, secondo i produttori, uccide il mercato. L’obsolescenza percepita è ancora peggio, perché mediante la pubblicità ed i mass media, i produttori ci inducono a comprare nuovi oggetti, perché quelli che abbiamo, anche se perfettamente funzionanti, sono improvvisamente diventati vecchi, fuori moda. E a proposito di moda, quest’ultima fa la parte del leone nell’indurci a gettare il vecchio per il nuovo. Per non parlare della pubblicità, che ha l’evidente scopo di farci sentire infelici, se non entriamo in possesso di tutto ciò che viene messo in mostra e che, inesorabilmente, verrà gettato poco dopo per altre novità. Tutto questo folle consumismo comporta gravissime ripercussioni sia sull’ambiente, che sulle persone. Produrre continuamente nuove merci comporta la ricerca ed il consumo di materie prime, per le quali si arriva sempre più spesso a scatenare nuove guerre. Basta pensare alle guerre, che le multinazionali si fanno in Congo, attraverso le etnie locali, per appropriarsi del coltan, un preziosissimo minerale utilizzato nella costruzione dei cellulari, che peraltro vengono dismessi dopo pochi mesi dal loro acquisto. La produzione sempre più spinta di merci comporta poi esagerati consumi energetici, quindi consumi di carburanti fossili ed il ricorso all’energia nucleare, con le tragiche conseguenze delle guerre per il petrolio e delle possibili esplosioni delle centrali nucleari, come nel caso di Cheobyl e di Fukushima. Il rovescio della medaglia dell’iperproduzione di merci è poi l’enorme produzione di rifiuti, che stanno ormai invadendo tanto la terra, quanto il mare. Per eliminare queste montagne di rifiuti spesso vengono costruiti inceneritori, le cui velenose esalazioni sono causa di tumori e di gravi malattie respiratorie e cardiocircolatorie nelle popolazioni, che vivono nelle zone limitrofe. Le ripercussioni sulle persone sono altrettanto gravi, perché grazie alla pubblicità viene creata, nei soggetti psicologicamente più deboli, una vera e propria dipendenza dallo shopping, che non si differenzia molto da altre forme di dipendenza, per cui si giunge ad acquistare cose inutili in modo compulsivo, per colmare in realtà un vuoto esistenziale. La sensazione indotta da questo mercato globalizzato è che, nella società attuale, le persone abbiano valore solo finché possono essere consumatori. Una volta perso il loro potere d’acquisto possono essere loro stesse trasformate in merci (pensiamo al traffico d’organi, alle nuove forme di schiavitù, agli anziani spostati da un ospizio all’altro, come pacchi postali). Non è forse il caso di dire «no» a tutto questo, cambiando i nostri stili di vita e riducendo i consumi?

Rosanna Novara Topino

Rosanna Novara Topino




«Ti dico che sei malato»

Le multinazionali del farmaco (seconda ed ultima puntata)

La lobby delle case farmaceutiche ha mille facce. Dagli articoli pseudo-scientifici, alla sperimentazione su popolazioni dei paesi «poveri», alla modifica dei parametri di salute. Per arrivare alle campagne di vaccinazione inutili e dannose.
Occorre una maggior indipendenza dei medici ma anche un approccio più responsabile di tutti rispetto al consumo dei farmaci.

Gli sforzi per incrementare i guadagni delle industrie farmaceutiche non si limitano solo a quanto descritto (si veda MC marzo 2011, prima puntata), già di per sé molto discutibile. Le strategie messe in atto da quella che risulta essere una vera e propria lobby del farmaco sono molteplici e decisamente illecite. Si va dai metodi più innocui, come la promozione di congressi e giornate dedicate alle varie patologie (comprese quelle che fino a qualche anno fa non erano considerate malattie come la menopausa, l’osternoporosi, l’incontinenza o la stipsi), fino a quelli un po’ più subdoli, come inviti a ristoranti prestigiosi e regali di vario tipo per i medici prescrittori dei loro farmaci. Peggio ancora, queste industrie riescono a pilotare le pubblicazioni su alcune riviste scientifiche, spesso al soldo di «Big Pharma» (la lobby farmaceutica), in modo da influenzare i medici nelle loro scelte. In pratica esse assoldano degli autori sconosciuti (i quali fanno spesso capo ad agenzie di marketing) per redigere articoli, che magnificano le qualità dei loro prodotti e mettono in cattiva luce, senza peraltro valide prove scientifiche, i prodotti concorrenti. Oppure mitigano i rischi, che l’assunzione del farmaco pubblicizzato può comportare, o ancora promuovono farmaci non adeguatamente testati. Tali articoli vengono poi sottoposti alla firma di un luminare medico, che non ha partecipato ad alcuna ricerca sul farmaco in questione, ma è disposto a sottoscrivere l’articolo, per avere una pubblicazione in più nel suo curriculum. In tal modo l’articolo acquisisce credibilità, viene pubblicato su una rivista scientifica e quindi utilizzato per pubblicizzare il proprio farmaco presso i medici curanti, che purtroppo non sempre cercano le prove scientifiche di quanto viene pubblicato.
Al fine di contrastare questa pratica, dannosa per la vera informazione scientifica, ma soprattutto per i pazienti, si è costituito un gruppo di operatori sanitari, denominato «No grazie, pago io», con omonimo sito internet, impegnato a far sì che la propaganda farmaceutica non guidi la pratica clinica.

Cavie (umane) africane
Ciò che fa veramente inorridire, però, è il comportamento delle multinazionali dei farmaci nei paesi in via di sviluppo, per quanto riguarda le sperimentazioni delle nuove molecole. Purtroppo in questi stati abbondano le persone malate e senza diritti, da sottoporre a test improponibili in Occidente. Si moltiplicano infatti le testimonianze su test clinici, che non rispettano i diritti umani più elementari, pur di arrivare a tempo di record alla commercializzazione di un prodotto. I paesi dove si è maggiormente spostata la sperimentazione delle industrie del farmaco sono quelli africani, oltre a quelli dell’Europa dell’Est e dell’America Latina.
Basta ricordare, ad esempio, quanto avvenne nel 1996 nell’ospedale di Kano in Nigeria. Nel paese africano, quell’anno vi fu un’epidemia di meningite, che uccise 15.800 persone. La Pfizer decise di sperimentare in quell’ospedale un suo nuovo antibiotico, il Trovan, senza alcun controllo da parte della Food and Drug Administration (Fda), l’ente statunitense che dà il via libera ai farmaci, ma che non ha praticamente voce in capitolo sugli esperimenti effettuati fuori dagli Stati Uniti.
Secondo la testimonianza dei medici dell’Ong Medici senza frontiere, che operavano nello stesso ospedale e curavano i malati con un vecchio, ma efficace antibiotico, il cloramfenicolo, i ricercatori della multinazionale assoldarono 200 bambini malati, somministrando il Trovan a 99 di loro ed un antibiotico già rodato di controllo (il cefotriaxone) agli altri 101.
La sperimentazione partì male e proseguì peggio, perché venne intrapresa senza il consenso scritto (obbligatorio) dei genitori, adducendo come scusa che si trattava di persone analfabete. Inoltre la prova venne condotta solo per 6 settimane, mentre negli Stati Uniti le autorità richiedono un anno di lavoro, per convalidare un nuovo farmaco.
Infine, il fatto più grave, la terapia a base del nuovo antibiotico venne mantenuta per molti giorni, senza una apprezzabile risposta da parte dei pazienti. Risultato: morirono 11 bambini e ci furono numerosi casi d’infezione, che causarono sordità, paralisi, lesioni cerebrali e cecità. A seguito di questa sperimentazione, le autorità statunitensi permisero la commercializzazione del Trovan solo per gli adulti, a causa dei frequenti danni al fegato e di alcune morti osservate anche nei paesi occidentali.
In Europa questo farmaco venne tolto dal commercio.

Scrupoli addio
La vicenda della sperimentazione del Trovan ha dimostrato che lo spostamento della ricerca farmacologica nei paesi poveri porta con sé molto spesso soprusi, scorrettezze e cattiva qualità degli studi. In queste zone ci sono più malati, quindi più cavie. Per sperimentare un nuovo farmaco, prima di metterlo in commercio, servono circa 4.000 persone. Poiché ogni giorno di ritardo, per il lancio di un nuovo farmaco, costa negli Stati Uniti 1,3 milioni di dollari alla ditta produttrice, si capisce la fretta di effettuare la sperimentazione e quindi di reclutare cavie umane nel più breve tempo possibile. Ecco quindi il vantaggio di spostare la sperimentazione nei paesi del Sud del mondo.
Non sono poi da sottovalutare i costi della sperimentazione. Secondo fonti industriali, un esperimento complesso costa alla casa farmaceutica circa 10.000 dollari per paziente nell’Europa occidentale, 3.000 dollari in Russia e meno della metà in Africa. Inoltre, parallelamente ai flagelli della malaria e della tubercolosi, l’Aids sta preparando l’Africa ad essere il laboratorio ideale per le sperimentazioni senza scrupoli.
In molte circostanze, le multinazionali dei farmaci hanno dimostrato di avere a cuore solo il loro profitto e non la salute pubblica, inducendo le associazioni mediche a modificare le linee guida e i parametri, che determinano lo stato di salute o di malattia (ad esempio abbassando progressivamente il livello dei valori normali della glicemia, della colesterolemia e della pressione arteriosa). Per cui chi, fino al giorno prima, era considerata una persona in salute, in base agli esami di laboratorio, improvvisamente si è ritrovato malato e quindi indotto ad assumere farmaci per lo più inutili, ma sicuramente non scevri di effetti collaterali. Un semplice modo per allargare il giro d’affari.

Attenti al vaccino
Spesso, inoltre, il potere di queste multinazionali è tale da convincere i politici a promuovere iniziative a livello nazionale, come le vaccinazioni di massa. Un tipico esempio del genere è rappresentato dalla vaccinazione gratuita per le ragazze adolescenti fino a 12 anni contro il carcinoma del collo dell’utero, correlato con l’infezione da «papilloma virus umano» o Hpv. Da 3 anni in Italia viene condotta la campagna vaccinale contro l’Hpv e il relativo vaccino viene somministrato dal Servizio sanitario nazionale (Ssn) gratuitamente alle ragazze fino a 12 anni e a prezzo agevolato fino a 25 anni. La campagna pubblicitaria per la vaccinazione, con tanto di spot televisivi, giornate dedicate, convegni e articoli sui principali quotidiani e settimanali è stata martellante e spregiudicata, arrivando a generare sensi di colpa nei genitori contrari. Al pubblico sono però stati accuratamente nascosti alcuni dettagli della vaccinazione e cioè: 1) esistono circa un centinaio di ceppi Hpv, di cui circa 15 sono oncogeni ad alto rischio, cioè capaci di indurre tumori, ma i vaccini usati (il Gardasil della Merck Sharp & Dohme e il Cervarix della GlaxoSmithKline) sono diretti rispettivamente solo contro 4 e 2 di questi ceppi, lasciando tutti gli altri liberi di agire; 2) è gratuita solo la prima vaccinazione, ma quelle che dovranno essere eseguite a distanza di 5 anni sono a pagamento (più di 500 euro); 3) le sperimentazioni sul vaccino si sono svolte nell’arco di 5 anni, ma il tumore della cervice uterina impiega tra i 10 ed i 20 anni a svilupparsi, quindi, in effetti, non c’è stato il tempo di verificare che il vaccino funzioni veramente; 4) sono stati tenuti nascosti gli effetti avversi del vaccino, che in alcuni sfortunati casi ha provocato la morte in giovani ragazze, fino a quel momento in buona salute, e inoltre ha provocato alcune reazioni particolarmente gravi di ipersensibilità, come l’anafilassi, la sindrome di Guillan-Barrè, la mielite trasversa, la pancreatite ed episodi di tromboembolia (vedi il gruppo creato dall’autrice su Facebook «Le nostre figlie non sono cavie da esperimento»).
Vale quindi la pena di fare alcune considerazioni. Innanzitutto sarebbe auspicabile una maggiore indipendenza dei medici dalle pressioni esercitate dalle industrie del farmaco e una loro volontà di ricercare informazioni scientifiche frutto di ricerche indipendenti e non sovvenzionate dalle stesse industrie. In secondo luogo dovremmo noi stessi cambiare il nostro atteggiamento, per quanto riguarda l’uso dei farmaci, utilizzandoli quando sono effettivamente necessari, senza cadere in questa nuova forma di consumismo. Andrebbe sempre ricordato che il medico migliore non è colui, che prescrive i farmaci che vogliamo, ma quello che sa consigliarci per il meglio, dicendoci qual è il momento giusto per smettere di assumerli. Eviteremmo in tal modo di fare del male a noi stessi, dal momento che non possiamo essere certi di non andare incontro ad effetti collaterali e nel contempo non alimenteremmo un giro d’affari spregiudicato.     

Rosanna Novara Topino


Farmaci via Inteet

Da qualche anno sta diventando sempre più fiorente un nuovo mercato: quello dei farmaci via internet. Una recente indagine dal titolo «Fake medicines: a global issue» (Farmaci contraffatti: un problema globale), presentata dal gruppo socialdemocratico al Parlamento europeo ha evidenziato un aumento delle vendite di farmaci, molto spesso contraffatti, in rete. Sono infatti sempre più frequenti i siti di sedicenti farmacie on line, che esibiscono falsi sigilli di approvazione, che imitano ad esempio quello della FDA (Food and Drug Administration) o quello di PharmacyChecker, un vero sito certificatore. Per essere più convincenti, alcune farmacie on line dichiarano di avere una sede e dei magazzini, di cui riportano una foto ed i relativi indirizzi, ma una semplice indagine con Google Maps rivela facilmente l’infondatezza di tali dichiarazioni. Secondo l’indagine, il mercato dei farmaci taroccati è cresciuto del 400% dal 2005 ed inoltre sono più di 100.000 ogni anno i decessi causati dai questi farmaci. Sempre secondo questa inchiesta, il 62% dei farmaci venduti on line è contraffatto, il 95,6% delle farmacie on line è illegale, nel 94% dei siti web l’identità del farmacista non è verificabile ed oltre il 90% delle farmacie on line vende senza ricetta medicinali soggetti invece a prescrizione. In Europa almeno una persona su 5 ha già acquistato farmaci on line e gli Stati europei dove il commercio di farmaci in rete è più fiorente sono Germania ed Italia. Secondo un’altra indagine dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), la disinformazione su questo argomento, nel nostro Paese, è pressoché totale. Il 40% della popolazione, ad esempio, non sa che la vendita di farmaci on line è illegale e pensa che si possano vendere liberamente i farmaci, che non necessitano di prescrizione, il 41% non sa nulla dell’argomento e solo uno sparuto 19% è consapevole dell’illegalità di questo commercio. Inoltre il 33% degli italiani pensa che l’acquisto dei farmaci in rete sia un fatto positivo e vantaggioso. Il fenomeno dell’acquisto on line dei farmaci è particolarmente preoccupante, quando gli acquirenti sono dei minori, che spesso acquistano farmaci anoressizzanti o dopanti, in totale anonimato e senza alcuna prescrizione. In generale, l’acquisto di farmaci on line espone a gravi pericoli. I farmaci contraffatti possono essere suddivisi in 4 categorie: prodotti che contengono gli stessi principi attivi (ottenuti legalmente o illegalmente) dei farmaci originali e gli stessi eccipienti, nella giusta quantità; prodotti, che contengono le stesse componenti, ma non nella giusta quantità; prodotti, che contengono principi non attivi o altre sostanze in sé non nocive; prodotti, che non presentano gli stessi principi attivi dei farmaci originali o che contengono addirittura sostanze nocive. Inoltre i farmaci venduti on line possono risultare pericolosi per difetti del confezionamento o per una cattiva conservazione durante il loro immagazzinamento o trasporto.
Secondo l’OMS, il 7% di tutti i farmaci venduti al mondo è contraffatto, con punte del 30% in Brasile e del 60% in alcuni Stati africani. Il valore di questo commercio è stimato intorno ai 10 miliardi di euro. Gli antibiotici sono la categoria di farmaci più contraffatta, rappresentando circa il 45% del totale di questi farmaci, ma ci sono anche i falsi contraccettivi, i falsi antimalarici ed i falsi vaccini. In Europa ed in Nord America il fenomeno della vendita dei farmaci contraffatti è in forte aumento. In questo caso, i farmaci più venduti sono quelli «life-style», come Viagra, Cialis, Levitra, ma anche gli antidepressivi ed i farmaci per le patologie cardiovascolari e respiratorie.

Rosanna Novara Topino

Alla ricerca della pillola magica

Si definiscono farmaci inutili, per i quali non è dimostrata l’efficacia, oppure che sono efficaci per la cura di una determinata patologia, ma vengono spesso prescritti per altre indicazioni. Sostanzialmente possono essere ritenuti inutili tutti quei farmaci, per cui non esiste un rapporto beneficio-rischio favorevole.
Possiamo classificare i farmaci inutili in 3 categorie.
1) La prima è quella dei farmaci, per cui non esistono evidenze scientifiche circa la loro reale capacità di migliorare la qualità della vita, o la sua durata, o di diminuire i sintomi patologici. Tra questi abbiamo una pletora di farmaci di uso comune, tra cui  epatoprotettori, vasodilatatori, ricostituenti, immunomodulanti, farmaci per aiutare la memoria, farmaci anti-invecchiamento, integratori alimentari. Spesso chi fa ricorso a questi farmaci, cerca di risolvere in tal modo dei problemi, che nulla hanno a che vedere con una patologia. Basta pensare all’inutilità dei farmaci per la memoria consigliati per migliorare il rendimento scolastico, quando è chiaro che le cause di un cattivo risultato scolastico non sono certo risolvibili con un farmaco (specialmente quando tra le cause vi sono la carenza d’affetto, la disattenzione dei genitori o l’incapacità di certi insegnanti).
2) Alla seconda categoria appartengono i farmaci utilizzati per contrastare le cattive abitudini di vita. Ad esempio, i fumatori fanno spesso uso di farmaci per contrastare mal di gola , tosse, catarro, bronchite, quando è evidente che l’irritazione delle vie respiratorie è causata, in questo caso, dal fumo di tabacco e quindi basterebbe smettere di fumare. A questa categoria appartengono anche i farmaci contro l’obesità, di cui molte persone potrebbero fare tranquillamente a meno con una dieta appropriata ed una maggiore attività motoria.
3) Alla terza categoria appartengono i farmaci utilizzati in modo improprio. Tutti i farmaci hanno infatti precise indicazioni terapeutiche stabilite sulla base di sperimentazioni e regolate dalle autorità di controllo. Pertanto, il loro utilizzo per altre patologie non è opportuno, come nel caso degli antiulcerosi, spesso utilizzati per migliorare la digestione, o contro l’acidità di stomaco o per contrastare l’effetto di altri farmaci. Anche gli ansiolitici come le benzodiazepine e gli antidepressivi possono rientrare in questa categoria, perché spesso prescritti in modo del tutto inappropriato, per tenere tranquilli anziani. Tra l’altro sempre più spesso si fa ricorso a farmaci psicotropi, per tenere a bada i bambini un po’ agitati, senza cercare di approfondire il motivo dei loro disturbi comportamentali. Infine si possono ascrivere a questa categoria gli antibiotici, utilizzati impropriamente nel corso di patologie di origine virale, come l’influenza, quando è certo che tali farmaci non hanno alcuna efficacia contro i virus.
Purtroppo, complici le multinazionali dei farmaci con l’enorme mole di pubblicità per i loro prodotti, la nostra sta diventando una società medicalizzata e farmacocentrica, in cui milioni di persone pensano che esista una pillola magica per tutti i loro problemi e non si rendono conto, in tal modo, di esporsi ad inutili rischi legati ad un esagerato consumo di farmaci.

Rosanna Novara Topino

Rosanna Novara Topino




Cemento, l’oro grigio

Il territorio: Una distruzione continua

Capannoni vuoti,  appartamenti vuoti (milioni!), seconde e terze case. E poi abitazioni abusive (soprattutto in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia), spesso sanate con immorali condoni edilizi. L’edilizia selvaggia spacciata per «crescita economica» del Paese. Mentre si consuma il territorio italiano ad un ritmo impressionante, si deturpa irrimediabilmente uno dei più bei paesi del mondo e si prendono in giro gli italiani che vorrebbero essere onesti. Senza dimenticare che si costruisce senza considerare né il rischio sismico né quello idrogeologico. Come i quotidiani disastri sono lì a dimostrare. E allora spazio a «lacrime di coccodrillo», nuovi sprechi di denaro pubblico, nuove promesse…

Sempre più spesso, viaggiando in Italia, abbiamo la sensazione che le periferie delle città e dei grossi centri abitati si siano estese a tal punto, che talvolta diventa difficile capire dove finisce un agglomerato urbano e ne comincia un altro, se non grazie ai cartelli stradali. All’uscita da una qualunque città, l’immagine ormai più frequente non è quella suggestiva della campagna, ma quella di chilometri di costruzioni, per lo più capannoni (spesso vuoti), ma anche di interi agglomerati sorti nel giro di pochissimo tempo, dove fino a qualche anno prima c’erano prati e campi. Può capitare anche di vedere scheletri di case, la cui costruzione è iniziata e mai finita, oppure tronconi di strade, che portano a nulla, perché in corso d’esecuzione ci si è resi conto dei costi eccessivi che l’opera comportava. Si moltiplicano i centri commerciali (o i famosi outlet), i parchi di divertimento a tema, i parcheggi, le strade. Insomma si sta sempre più consumando il territorio. Al posto di prati e campi, il cemento, l’oro grigio che permette guadagni stratosferici ai costruttori ed ai politici, a scapito dell’ambiente, della qualità della vita e spesso della salute dei lavoratori dell’edilizia. Secondo il dossier di Legambiente «Un’altra casa?»(1), presentato il 15 luglio 2010, dal 1995 al 2009 sono state costruite in Italia 4 milioni di abitazioni, per un totale di 3 miliardi di metri cubi di edifici. Nel contempo, in Italia ci sono la bellezza di 5.320.288 case vuote!(2) Secondo il Movimento nazionale per lo stop al consumo di suolo(3) «non vi è angolo d’Italia, in cui non vi sia almeno un progetto a base di gettate di cemento, piani urbanistici e speculazioni edilizie, residenziali ed industriali, insediamenti commerciali e logistici, grandi opere autostradali e ferroviarie, porti ed aeroporti turistici, civili e militari».

NEL PAESE DELL’ABUSIVISMO E DEI CONDONI
In Italia, ci troviamo di fronte ad una vera e propria anomalia internazionale, a causa della mancanza di una politica per le aree urbane e per l’edilizia abitativa. Manca cioè un ministero dedicato a questi problemi, capace di monitorare e di fermare il consumo di suolo, fissando a livello nazionale un numero massimo di ettari di territorio trasformabili annualmente per usi urbani (ad esempio in Germania il limite massimo è di 10.950 ettari all’anno).
L’Italia è invece il Paese dei condoni edilizi, che inevitabilmente favoriscono l’abusivismo edilizio. Il primo condono del 1985, durante il governo Craxi, regolarizzò 230.000 abitazioni abusive, costruite nei due anni precedenti; il secondo del 1994, con il 1° governo Berlusconi, sanò 83.000 abitazioni abusive ed il terzo del 2004, con il 2° governo Berlusconi registrò 40.000 costruzioni abusive (con un incremento delle medesime, tra il 2001 ed il 2003 pari al 41%), mentre dell’introito previsto di 3,8 miliardi di euro non entrò nelle casse dello stato nemmeno un decimo. Sostanzialmente in due anni venne coperta di cemento illegale una superficie di 5,4 milioni di metri quadrati ed a fae maggiormente le spese furono le quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa: la Campania, la Puglia, la Calabria e la Sicilia, dove è concentrato il 55% delle nuove case abusive. Il legame esistente tra i costruttori edili, la politica e la criminalità organizzata risale agli anni ’50 del secolo scorso.
Ne viene fatta una precisa descrizione nel libro «La colata»(4), dove si legge, ad esempio, che le associazioni criminali da sempre detengono il monopolio delle fabbriche di calcestruzzo, favorendo quindi le imprese edili peggiori ed obbligando spesso quelle, che lavorano onestamente a chiudere i battenti o ad emigrare. Leggiamo anche che nel 1995 Beardo Provenzano spedì un pizzino a  Luigi Ilardo, reggente di Cosa nostra per la provincia di Caltanisetta, in cui era evidente il suo interesse per la «cava di Riesi», che non era solo un impianto per la produzione del calcestruzzo; con questo termine, infatti, Provenzano indicava la Calcestruzzi S.p.A., azienda leader a livello internazionale, appartenente all’epoca al gruppo Ferruzzi di Raul Gardini ed oggi alla Italcementi Group. In Campania, invece è presente la camorra, con il clan dei casalesi, che, secondo le inchieste della procura di Napoli, sono legati niente meno che al sottosegretario all’Economia del quarto governo Berlusconi, cioè Nicola Cosentino, per il quale nel novembre del 2009 viene chiesto l’arresto per concorso in associazione mafiosa, arresto poi negato dalla Camera dei deputati.

RISCHIO SISMICO E RISCHIO IDROGEOLOGICO
Il rapporto di Legambiente rileva anche la pessima qualità dell’edilizia costruita negli ultimi 15 anni, come è stato purtroppo tragicamente dimostrato durante il terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009 dal crollo di costruzioni recenti come la Casa dello studente, e durante quello del Molise del 31 ottobre 2002, che colpì S. Giuliano di Puglia in provincia di Campobasso, dove crollò la scuola del paese, uccidendo 27 bambini ed una maestra. Purtroppo nel corso degli anni si è continuato a costruire, spesso abusivamente, senza tenere per nulla in conto la fragilità del territorio italiano. Il Centro studi del Consiglio nazionale dei geologi, in collaborazione con il Cresme ha condotto uno studio  sullo stato del territorio italiano, dal titolo Terra e sviluppo, decalogo della terra 20105, dove si legge che in Italia sono 6 milioni le persone, che vivono in zone ad alto rischio idrogeologico e 3 milioni quelle in zone ad alto rischio sismico. I cittadini, che vivono in zone a medio rischio, arrivano invece a 22 milioni. Il 10% del territorio italiano e l’89% dei comuni sono colpiti da elevata criticità idrogeologica, mentre l’elevato rischio sismico interessa quasi il 50% dell’intero territorio nazionale ed il 38% dei comuni. Inoltre, nel rapporto si legge che in Italia vi sono 1.260.000 edifici a rischio frane ed alluvioni; di questi 6.000 sono scuole e 531 sono ospedali. Della popolazione a rischio idrogeologico, il 19%, cioè oltre un milione di persone, vive in Campania, 825.000 in Emilia-Romagna ed oltre mezzo milione in ciascuna delle tre grandi regioni del Nord, cioè Piemonte, Lombardia e Veneto. Segue poi la Toscana. Il 40% dei cittadini vive invece in zone ad elevato rischio sismico e la maggior parte degli edifici residenziali è stata costruita prima dell’entrata in vigore della legge antisismica per le costruzioni del 1986. Tra le regioni a maggiore rischio sismico c’è la Sicilia, seguita dalla Calabria e dalla Toscana. Si calcola che lungo le superfici ad alto rischio sismico (come già detto, il 50% del territorio italiano) siano stati costruiti circa 6.300.000 edifici, di cui 28.000 scuole e 2.188 ospedali.
Secondo il rapporto di Legambiente, l’Italia, sulla carta, tutela il 47% del proprio territorio, ma nella pratica non vengono effettuati controlli. Ci troviamo pertanto di fronte alla totale inadeguatezza dei meccanismi di tutela sia dei beni paesaggistici, che degli aspetti idrogeologici, nonché dell’ambiente e della lotta all’inquinamento nelle aree urbane. Assistiamo ad una latitanza tanto del ministero delle Infrastrutture, che dovrebbe occuparsi delle questioni edilizie, quanto di quelli dell’Ambiente e dei Beni culturali; quest’ultimo dovrebbe occuparsi del danno provocato dall’edilizia selvaggia ad importantissimi siti archeologici(6).

CUBATURA DELLE MIE BRAME
Anziché limitare la costruzione di nuovi edifici, con ulteriore consumo del territorio, nel marzo 2009 venne proposto dal governo Berlusconi il cosiddetto «Piano casa», che aveva lo scopo di portare rimedio alla crisi economica, incentivando l’edilizia, grazie al permesso di ampliare la cubatura delle proprie abitazioni fino a 300 metri cubi (100 metri quadrati) e di elevare ogni fabbricato di 4 metri oltre il limite dettato dalle norme urbanistiche vigenti. Inoltre, secondo questo piano, sono possibili i cambi di destinazione d’uso; se si abbatte si può ricostruire più grande del 35% e non c’è più bisogno di alcuna concessione edilizia, per iniziare i lavori, ma basta produrre una segnalazione certificata d’inizio attività, che dovrebbe riguardare atti, autorizzazioni, permessi e nulla osta per eliminare ogni ostacolo o controllo per le imprese e perfino il silenzio assenso, nel caso di autorizzazioni paesaggistiche. In pratica tutte le procedure di controllo erano ridotte all’autocertificazione. Poiché le regioni rivendicarono la loro competenza in materia ed inoltre poiché nel mese di aprile 2009 si verificò il terremoto dell’Aquila, che riportò in discussione le norme antisismiche, questo decreto legge non vide la luce, così come concertato, ma venne data la possibilità ad ogni regione di legiferare sulla sua falsa riga, per cui quasi tutte le regioni vararono gli aumenti di cubatura, che, secondo i calcoli del Wwf, potrebbero portare ad un milione di stanze in più ed in qualche caso ad un effetto condono sotto mentite spoglie.

DANNI ALL’AMBIENTE E ALL’AGRICOLTURA
L’edilizia selvaggia rappresenta un gravissimo danno sia per l’ambiente, che per i beni paesaggistici e culturali. In particolare, per quanto riguarda l’ambiente, oltre a sottrarre superficie alla produzione agricola (si calcola che in 40 anni siano andati persi 5 milioni di ettari di terreni agricoli), la cementificazione dei suoli produce pesantissime conseguenze sull’ecosistema: difficoltà di ricarica delle falde acquifere, aumento dei deflussi superficiali (e quindi del rischio di alluvioni), contaminazione da inquinanti, maggiore conversione dell’energia solare in calore sensibile, diminuzione dell’evapotraspirazione (con aumento dell’«isola di calore»), asfissia del sottosuolo (cioè la conversione dell’ambiente ipogeo da aerobio ad anaerobio)(7). Quest’ultimo punto è particolarmente grave, se si pensa che il suolo impiega in media 100-200 anni, per formare un sottile strato di materiale organico stabilizzato da vegetali pionieri, ma ci vogliono circa 500 anni perché questo strato raggiunga lo spessore  di 2,5 centimetri, mentre per lo sviluppo di un suolo maturo è necessario un ulteriore millennio. È pertanto evidente che ricoprire con del cemento un suolo fertile comporta un danno irreversibile per millenni e, di conseguenza, la privazione, per le generazioni future, della base per il proprio sostentamento.

IL TURISMO E PROLIFERAZIONE DEGLI «OUTLET»
La cementificazione selvaggia danneggia anche il turismo, altro settore trainante dell’economia italiana. Basti pensare alla moltiplicazione, in molte località di villeggiatura, delle seconde (o terze!) case, lasciate vuote per buona parte dell’anno, con la conseguente riduzione di queste località a veri e propri paesi fantasma. Capita infatti che la costruzione di nuove case nei paesi turistici faccia lievitare i prezzi, inducendo spesso i residenti con reddito modesto a spostarsi in zone economicamente più accessibili. Nel contempo, i centri turistici non riescono a realizzare lo stesso guadagno che otterrebbero con meno seconde case, ma qualche struttura alberghiera in più, capace di ospitare un maggiore numero di persone per tutto l’anno. Inoltre il danno, che viene prodotto dalla cementificazione, a livello paesaggistico è spesso incalcolabile. Eppure vengono proposti e, purtroppo, spesso approvati dei progetti sempre più devastanti, come quello che prevede la costruzione di un gigantesco residence con annesso parcheggio da 2.400 posti, più piscine coperte, centro benessere, centro congressi e negozi assortiti  niente meno che sulla Marmolada, nella frazione di Malga Ciapela. Oppure come quello che prevede la costruzione di un autodromo a Roma Eur. In Italia sono sempre più numerosi i progetti per nuovi stadi (richiesti da molte società della serie A del calcio), che naturalmente vengono accompagnati dagli immancabili centri commerciali ed aree residenziali limitrofe.
A proposito di centri commerciali, crescono come funghi gli outlet, giganteschi discount delle grandi firme, dove la gente si riversa in massa, dopo avere percorso chilometri d’autostrada ed essersi sottoposta talora a code estenuanti, per assicurarsi capi firmati in sconto. Il più grande d’Italia è quello di Serravalle, in provincia di Alessandria.
Gli outlet rappresentano veramente l’apoteosi della finzione, perché vengono spesso costruiti come dei finti paesi, con case finte, il cui unico scopo è quello di ospitare negozi dalle vetrine scintillanti. Il tutto naturalmente in linea con la filosofia oggi dilagante, per cui conta molto di più l’apparire che l’essere. Ovviamente la costruzione di questi non luoghi si porta via migliaia di ettari di terreno, anche in considerazione del fatto che devono essere corredati di parcheggi e serviti spesso da nuove strade.
I sostenitori dello «sviluppo» a suon di costruzioni normalmente accampano la tesi della creazione di nuovi posti di lavoro, ma appare evidente che i posti di lavoro creati dall’apertura dei cantieri sono a breve termine, spesso in nero e caratterizzati da una scarsissima tutela della salute, come dimostra l’elevatissimo numero di incidenti nei cantieri. L’edilizia è infatti al primo posto per il numero di morti sul lavoro. È invece sempre più evidente l’equazione tra cemento e potere, dimostrata dall’apparente ineluttabilità delle «Grandi opere», che trovano d’accordo tutti i partiti, al punto che si parla di «partito trasversale degli affari».
E NEL MONDO…
Quando parliamo di grandi opere, in Italia ci riferiamo soprattutto all’«alta velocità», al «Ponte sullo Stretto di Messina», al «progetto Mose» per Venezia oppure alla costruzione di nuovi tratti autostradali. Dando invece un rapido sguardo alla situazione mondiale, vediamo che tra le grandi opere ha un posto di primo piano la costruzione di gigantesche dighe, come quella delle «Tre Gole», inaugurata in Cina nel 2006, opera faraonica definita «La Grande Muraglia del terzo millennio», perché è una delle poche opere dell’uomo visibili dallo spazio. Questa diga sbarra il corso del fiume Yangtze e la sua costruzione ha comportato lo sfollamento di 1.200.000 persone. Sono attualmente numerosi i progetti di questo genere a livello mondiale. Basti ricordare quello della diga Gibe III in Etiopia, lungo il fiume Omo, oppure quello della diga di Belo Monte in Brasile, lungo il corso del fiume Xingu, in piena foresta amazzonica, i cui lavori di costruzione sono già partiti. In entrambi i casi si tratta di progetti devastanti a livello ambientale e sociale, poiché porteranno all’alterazione irreversibile di interi ecosistemi ed all’allontanamento delle popolazioni native, per le quali i fiumi rappresentano la principale fonte di sostentamento, così come la principale via di trasporto. Le comunità locali obbligate a spostarsi andranno ad aggravare il fenomeno dell’urbanizzazione, finendo nelle periferie delle grandi città ed aumentando il livelli di disoccupazione e di povertà.
Spesso dietro la costruzione delle grandi dighe mondiali ci sono imprese italiane, come la (chiacchieratissima) Impregilo per le dighe Chixoy (Guatemala), Katse (Lesotho) e Yacuretà sul fiume Paranà tra Argentina e Paraguay, oppure la Salini Costruttori, nel caso della Gibe III in Etiopia. La Impregilo è controllata dalla Igli Spa, appartenente alle famiglie Gavio, Benetton e Ligresti e, in Italia, è impegnata nella realizzazione dell’«alta velocità» e nel progetto del «Ponte sullo Stretto di Messina» Tra i finanziatori delle grandi dighe c’è sempre la Banca mondiale e, nel caso della Gibe III, il governo italiano, che ha in corso di valutazione il finanziamento. Come troppo spessp capita, la conclusione è amara: grandi affari per pochi e povertà garantita per molti. 

Rosanna Novara Topino

NOTE
1 – L’ottimo dossier di Legambiente è scaricabile, in formato PDF, dal sito: www.legambiente.it.
2 – Legambiente su dati Istat e ministero dell’Inteo.
3 – Si veda il sito del movimento: www.stopalconsumoditerritorio.it.
4 – Garibaldi, Massari, Preve, Salvaggiuolo, Sansa, La colata. Il partito del cemento che sta cancellando l’Italia e il suo futuro, Chiarelettere Editore, Milano 2010.
5 – Lo studio è scaricabile, in formato PDF, dal sito: www.consiglionazionalegeologi.it.
6 – Non si può dimenticare, ad esempio, la distruzione dei resti di una casa di epoca romana, rinvenuti in piazza Vittorio a Torino, durante gli scavi per costruire un parcheggio sotterraneo, che è stato portato a termine comunque prima delle Olimpiadi invernali di Torino, 2006.
7 – L’evaporazione dell’acqua da una qualsiasi superficie determina un abbassamento della temperatura della superficie stessa. Quindi, una copertura di cemento o asfalto  impedisce un’adeguata evapotraspirazione del terreno, determinando un aumento di calore. Il cemento inoltre impedisce una buona ossigenazione del terreno, per cui nel sottosuolo le specie vegetali ed animali aerobie (cioè che consumano ossigeno) sono destinate a soccombere. Progressivamente diminuirà quindi la materia organica presente nel sottosuolo, con un aumento del rischio di desertificazione.

Rosanna Novara Topino




Nucleare? Di nuovo «NO grazie»

Esiste un nucleare sicuro? (prima puntata)

Come accaduto per gli inceneritori, anche per il nucleare è partita la grancassa mediatica per farli accettare senza se e senza ma. Chi è «contro», viene demonizzato. Nel nostro piccolo, noi torniamo a ribadire che i pericoli per la salute rimangono eccessivi. Senza dimenticare che il conto inevitabile – legato all’estrazione dell’uranio e allo smaltimento delle scorie – potrebbe essere pagato dal Sud del mondo. Perché l’energia nucleare è «pulita» da noi, ma «sporca» nelle case dei più deboli. Come storia insegna.

Il 10 febbraio 2010 il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legislativo, che disciplina la localizzazione, la realizzazione e l’esercizio delle centrali nucleari per la produzione di energia elettrica in Italia. Questo decreto è stato approvato senza tenere  in considerazione il risultato del referendum dell’8 novembre 1987, in cui il 70% degli italiani si espresse contro il nucleare.
Pochi giorni dopo, negli Stati Uniti, il presidente Obama ha approvato un prestito di 8 miliardi di dollari, per finanziare la costruzione sul territorio statunitense della prima centrale nucleare dopo 30 anni dall’ultima, costruita in Georgia nel 1979. Anche questo nuovo impianto dovrebbe essere realizzato in Georgia, a Burke. La finanziaria di Obama mette a disposizione del nucleare 36 miliardi di dollari, che vanno ad aggiungersi ad altri 18,5, già in bilancio, ma ancora da spendere, per un totale di 54,4 miliardi di dollari, il che significa, considerando che la costruzione di una centrale nucleare costa circa 8-10 miliardi di dollari, che ci sono fondi a sufficienza per costruire 6 o 7 nuove centrali nucleari. Secondo la Southe Co., la società che costruirà l’impianto in Georgia, la realizzazione di quest’ultimo darà lavoro a 3.000 persone, in fase di costruzione e ad 800 in modo permanente. L’impianto foirà elettricità a 1,4 milioni di abitanti, che andrà ad aggiungersi a quella prodotta dai 104 impianti già esistenti in Usa, i quali producono il 20% dell’energia totale consumata ed il 70% di quella considerata «pulita». I sostenitori del nucleare, e tra questi lo stesso presidente Obama, infatti, considerano l’energia nucleare «pulita e sicura», al pari dell’eolica, della fotovoltaica e della geotermica. Ma è proprio così?

Effettivamente la produzione di energia nucleare non determina un aumento dei gas serra climalteranti, quindi in questo senso tale energia può essere definita «pulita». Se, però, consideriamo cosa accade nelle zone dove sono presenti ricchi giacimenti di uranio, il principale materiale utilizzato come combustibile (una volta arricchito) per le centrali elettronucleari, oppure consideriamo il problema delle scorie nucleari, ci rendiamo conto allora che definire pulita questa energia è un grave errore.
A proposito dei giacimenti d’uranio, è inquietante quanto è capitato in Niger, o nella terra dei navajo nel New Messico. In Niger, nel 2007, sono stati riscontrati livelli di radioattività fino a 100 volte superiori rispetto alla radiazione di fondo nel villaggio di Akokan, dove sorgono due miniere di uranio, gestite da società affiliate di Areva, la compagnia nucleare francese, che dovrebbe occuparsi anche della costruzione e della gestione delle centrali elettronucleari italiane. Nel 2008, l’Areva ha sostenuto di avere bonificato la zona, sotto la supervisione delle autorità nigerine (Niger Department of Mines, Ministero delle miniere del Niger).
Nel novembre 2009 è stata effettuata una spedizione di Greenpeace, con il supporto del laboratorio indipendente francese Criirad e della rete di associazioni locali Rotab (Réseau des Organisationes pour le Transparence et l’Analyse Budgetaire) e sono stati visitati sia le miniere, che i villaggi vicini. Nel dossier di Greenpeace si legge che nel villaggio di Akokan sono stati rilevati livelli di radioattività fino a 500 volte superiori, rispetto al livello di fondo, anche negli stessi punti bonificati da Areva. La contaminazione sarebbe dovuta all’idea di Areva di utilizzare gli scarti delle miniere di uranio, per costruire le strade dei villaggi, un sistema per fare sparire le scorie radioattive.
In Nord America, nel New Messico, le cose non vanno meglio. Secondo l’editoriale del 12 febbraio 2008 del New York Times, nella terra dei navajo permangono tuttora 520 siti di miniere di uranio dismesse ed abbandonate, dopo decine di anni di escavazione (sono state estratte 4 milioni di tonnellate di uranio) per procurare il materiale necessario per le armi della guerra fredda e per la produzione di energia. Restano inoltre 4 siti di lavorazione dell’uranio ed una discarica. Ancora oggi si trovano enormi mucchi di minerali di scarto, che franano. Le miniere aperte percolano pioggia contaminata nell’acqua potabile, mentre il vento solleva polvere radioattiva. In questa terra, le case sono state costruite con gli avanzi delle escavazioni.
Nel 1979, a sud della riserva, si verificò un disastro, allorquando le scorie della lavorazione dell’uranio defluirono nelle acque del fiume Puerco, che i nativi sfruttano per abbeverare il bestiame e per l’irrigazione. Il risultato di tutto ciò sono migliaia di casi di cancro nella popolazione locale ed un’età media scesa a 43 anni. E pensare che i navajo erano in passato una delle popolazioni più longeve d’America. Naturalmente le compagnie minerarie non si sono mai assunte le loro responsabilità e non hanno mai provveduto ad alcuna bonifica. Ed ora cosa succede? Il New York Times riporta che l’industria nucleare americana intende riprendere a scavare l’uranio in questi territori ed una compagnia mineraria ha già richiesto i permessi necessari per una nuova miniera in terra navajo. Le comunità navajo, in particolare quelle di Crowpoints e di Church Rock, hanno intrapreso un’azione legale contro la NRC (Nuclear Regulatory Commission), che ha autorizzato l’apertura della miniera. Il loro grido di battaglia è ora «leetso doo’da», che vuole dire «no all’uranio».

Un altro grave problema è rappresentato dallo smaltimento e dallo stoccaggio delle scorie nucleari. Secondo i dati dell’Inteational Nuclear Societes Council (INSC), ogni anno l’industria nucleare mondiale produce un volume di circa 270.000 metri cubi di scorie tra bassa, media ed alta radioattività. Si tratta di un volume abbastanza insignificante, dal punto di vista quantitativo (una centrale elettrica a carbone da 1.000 megawatt produce annualmente 400.000 metri cubi di ceneri), ma molto pericoloso dal punto di vista della radioattività. In queste scorie si trovano infatti sostanze estremamente pericolose. In particolare, quelle ad alta radioattività, rappresentate dal combustibile esausto delle centrali nucleari e dal materiale proveniente dalle centrali dismesse, contengono in media il 94% di uranio 238, l’1% di uranio 235, l’1% di plutonio, lo 0,1% di attinidi minori (nettunio, americio e curio) e 3-4% di prodotti di fissione.
Queste sostanze impiegano fino a centinaia di migliaia di anni, prima di diventare stabili. Come devono essere trattate, per essere messe in sicurezza? Queste sostanze devono essere ridotte di volume (trattamento), immobilizzate in idonei contenitori, resistenti dal punto di vista chimico, fisico e meccanico (condizionamento), stoccate temporaneamente per qualche decina di anni, in modo che si abbatta l’emissione di calore, per progressivo decadimento ed infine allocate in un sito nazionale centralizzato, per lo smaltimento definitivo. Non sempre, però, le cose vanno così.
I servizi segreti bosniaci – ad esempio – hanno scoperto un traffico di scorie e di materiali radioattivi organizzato dalle truppe francesi appartenenti alla missione di pace Nato in Bosnia-Erzegovina. Secondo il quotidiano crornato Veceji list, durante le missioni di pace Ifor/Sfor della Nato (1), grandi quantità di rifiuti radioattivi dell’industria nucleare francese sono state portate in Bosnia e gettate in tre laghi della Erzegovina, cioè i laghi Busko, Ramsko e Jablanicko. Questa attività è andata avanti per anni. In Erzegovina fu attivata un’unità speciale dell’esercito francese, interamente costituita da soldati maori provenienti dalla Polinesia francese e dalla Nuova Zelanda, con il compito di smaltire i rifiuti radioattivi. Secondo le testimonianze dell’intelligence bosniaca, tali rifiuti vennero cementati e gettati nei laghi con degli elicotteri.
Come possiamo vedere, da questi esempi, l’energia nucleare è «pulita» a casa nostra, ma «sporca» a casa degli altri, cioè nei paesi del Sud del mondo. È un po’ come quando si nasconde la sporcizia sotto il tappeto: tutto appare pulito, ma la sporcizia c’è, nascosta.

La difficoltà di trovare un sito per lo smaltimento definitivo delle scorie nucleari è un problema di non poco conto in ogni parte del mondo. In Italia, nel 2003 era stato individuato come possibile sito il comune di Scanzano Ionico, la cui popolazione si è immediatamente ribellata, per cui tuttora non si sa dove smaltire tali scorie.
Negli Usa è ancora ben lontano dall’essere realizzato il progetto, costato già 8 miliardi di dollari per gli studi preliminari del terreno, di realizzare un deposito permanente sotto il Yucca Mountain, nel Nevada meridionale, 160 chilometri a nord ovest di Las Vegas. Questo progetto prevede la costruzione di un deposito sotterraneo capace di immagazzinare 77.000 tonnellate di scorie radioattive per 10.000 anni, dal costo stimato di oltre 60 miliardi di dollari. Per il trasporto delle scorie in questo sito dovrebbero essere impiegati 4.600 fra treni ed autocarri, che percorreranno migliaia di chilometri, attraverso 44 stati (essendo le scorie attualmente dislocate in 131 depositi temporanei situati in 39 stati), con a bordo materiale estremamente pericoloso. Il solo fatto che si preveda un tempo di immagazzinamento di 10.000 anni per le scorie ad alta radioattività, cioè quelle che possono rimanere radioattive anche per 250.000 anni ed oltre, rende del tutto inadeguata questa struttura.
C’è poi il problema dell’umidità, che, per quanto modesta in questa zona, a lungo andare può determinare la corrosione dei contenitori del materiale radioattivo, permettendone la dispersione nelle falde acquifere. La difficoltà di individuare i siti adatti per depositi permanenti di materiale radioattivo è legata allo sviluppo di enormi quantità di calore, da parte di tale materiale, che potrebbe reagire con i materiali circostanti, provocando la formazione di idrogeno, altamente incendiabile ed esplosivo.
È inoltre indispensabile che il territorio ospitante non sia soggetto a movimenti tellurici. Infine, è indispensabile una sorveglianza permanente, da parte dell’esercito, per scongiurare eventuali attacchi a tali siti, il che comporta una militarizzazione delle zone interessate.

C’è da chiedersi cosa intendano i suoi sostenitori, definendo l’energia nucleare «pulita e sicura», con problemi come quelli appena accennati, al momento del tutto irrisolti. Soprattutto c’è da chiedersi come si possa definire «sicura» questa tecnologia, dopo la catastrofe avvenuta il 18 aprile 1986 a Cheobyl, che ha lasciato dietro di sé una lunga scia di morte, dovuta all’insorgenza, nelle popolazioni colpite, di vari tipi di tumori e di leucemie, nonché di malattie degli apparati respiratorio, digestivo, circolatorio, del sistema endocrino e di quello immunitario, a cui si sono aggiunte gravissime patologie del sistema riproduttivo, che hanno portato ad infertilità, impotenza maschile, aborti spontanei, complicazioni della gravidanza (pre-eclampsia, distacco della placenta e anemia), nonché inibizione dello sviluppo fetale. L’incidente di Ceobyl fu la conseguenza di un mix di errori umani, compiuti durante un’esercitazione condotta senza criterio, unitamente alla tipologia dei reattori di vecchio tipo e pericolosi. Tuttavia, questo è solo il più noto e catastrofico degli incidenti finora occorsi a delle centrali nucleari, ma certamente non l’unico.
Nel 1979 a Three Mile Island, negli Usa, si arrivò quasi alla fusione del nocciolo, mentre nel 1999 un incidente analogo interessò la centrale giapponese di Tokaimura e nel 2007 vi fu uno sversamento di liquidi radioattivi in un’altra centrale giapponese, quella di Kashiwazaki Kariva, una delle più grandi e modee del mondo. Come si fa a parlare di impianti sicuri, specialmente considerando che il loro funzionamento è controllato da uomini e noi sappiamo bene che l’errore umano è sempre possibile? Come si può ben vedere, il ritorno al nucleare, ben lungi dal risolvere i problemi energetici dell’umanità (2), rischia di creare enormi problemi di sicurezza e di aumentare ancora di più il divario tra il Nord del mondo, che fruisce dell’energia ed il Sud del mondo, dove le scorie radioattive possono essere portate con qualche missione di «pace». 
(Fine prima puntata – continua)

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

Glossario
Le parole del nucleare

Attinidi: sono un gruppo di 14 elementi chimici radioattivi, con numero atomico compreso tra 89 e 103. Partendo dal capostipite attinio, la serie, in ordine di numero atomico crescente, comprende i radioattivi naturali: torio, pro-attinio, uranio ed i radioattivi artificiali, detti «transuranici» (nettunio, plutonio, americio, curio, berkelio, califoio, einstenio, fermio, mendelevio, nobelio e laurenzio).

Fissione: reazione consistente nella frammentazione di un atomo in due di massa più piccola, a seguito della collisione di un neutrone con il suo nucleo. Da questa reazione si liberano altri due o tre neutroni, che vanno a colpire altri atomi, innescando una reazione a catena, la cui velocità aumenta progressivamente e, se non viene controllata come avviene nelle centrali nucleari, porta all’esplosione atomica.

Pre-eclampsia: nota anche come gestosi, è una sindrome caratterizzata dalla presenza, singola o in associazione, di sintomi quali edema, ipertensione o proteinuria in una donna gravida.  Si parla di eclampsia quando, alla sintomatologia classica, si associano le crisi convulsive. La causa non è ancora nota, anche se sono stati individuati da più studiosi dei possibili fattori scatenanti come l’ipertensione essenziale preesistente, le patologie renali preesistenti, l’eccessivo incremento ponderale durante la gravidanza, il diabete ed i fattori immunologici. Ricerche più recenti hanno dimostrato che un elemento fondamentale nel determinismo della pre-eclampsia è rappresentato da alterazioni a carico della placenta.

Scorie nucleari: con questo termine si indica solitamente il combustibile esausto, derivante dall’attività dei reattori nucleari. Esse fanno parte dell’insieme dei rifiuti radioattivi, che comprende tre classi, in base al livello di radioattività: bassa (ad esempio, gli indumenti usa e getta, utilizzati nelle centrali nucleari e il materiale utilizzato a scopo diagnostico o nei laboratori di ricerca), media (incamiciatura del combustibile nucleare, impianti di riprocessamento) ed alta (combustibile nucleare irraggiato “tal quale”). Le scorie nucleari ad alto livello costituiscono solo il 3% del volume prodotto dalle attività umane, ma contengono il 95% della radioattività. La loro composizione, mediamente, è la seguente: 94% di uranio238, 1% di uranio235, 1% di plutonio, 0,1% di attinidi minori (nettunio, americio e curio), 3-4% di prodotti di fissione. Le scorie radioattive decadono nel tempo, ma i tempi di decadimento dei vari componenti sono molto diversi: si va dai 300 anni per i prodotti di fissione, ai 10.000 anni per gli attinidi ed ai 250.000 anni per il plutonio.
La gestione delle scorie nucleari, al fine di assicurare la massima radioprotezione per la generazione attuale e per quelle future, consta di diverse fasi: riduzione del volume; predisposizione alla fase di condizionamento (mediante evaporazione, filtrazione, ultrafiltrazione, precipitazione, flocculazione, incenerimento, supercompattazione, a seconda del tipo di rifiuti); condizionamento vero e proprio, cioè immobilizzazione in una matrice solida come il cemento, nel caso dei materiali a bassa e media radioattività e come il vetro borosilicato per i rifiuti ad alta radioattività e successivo posizionamento in idoneo contenitore; stoccaggio temporaneo di alcune decine di anni, per permettere un congruo abbattimento dell’emissione di calore, che caratterizza il decadimento radioattivo; collocazione definitiva in apposita struttura, cioè solitamente in depositi superficiali o a bassa profondità, per rifiuti di media radioattività ed in depositi costituiti da formazioni geologiche profonde, per i rifiuti ad alta radioattività.

Uranio: è un metallo bianco lucido, ad alta densità, chimicamente molto reattivo e, se si trova in stato di fine suddivisione, piroforico. Esso costituisce lo 0,0004% della crosta terrestre, quindi è un elemento abbastanza raro. I minerali, in cui si trova in diversi stati di ossidazione, sono l’uranite, la pechblenda, la bannerite, la davidite e la coffinite. Esso viene utilizzato come combustibile per le centrali nucleari e le sue riserve accertate sono tra 2 e poco più di 3 milioni di tonnellate, al mondo. In natura, l’uranio è presente in 3 isotopi differenti (hanno lo stesso numero atomico, cioè di protoni e di elettroni, ma diverso numero di massa, poiché è diverso il loro numero di neutroni): si tratta dell’uranio234, 235 e 238. Di questi 3 isotopi, l’uranio238 è il più abbondante (99% di tutto l’uranio naturale), ma non è utilizzabile come combustibile per le centrali, perché il suo nucleo non si presta alla fissione. È solo l’uranio235, che può partecipare alla reazione di fissione nucleare, ma la sua quantità nell’uranio naturale è decisamente bassa (0,7%), quindi è necessario un arricchimento per portare questo isotopo al 3%, nel materiale combustibile.

(a cura di R.Topino e R.Novara)


Roberto Topino e Rosanna Novara




Ci siamo mangiati il tonno

Il degrado delle acque

La maggioranza delle persone si ricorda che anche il mare e gli oceani meritano rispetto soltanto quando avviene qualche catastrofe: una petroliera che perde in acqua il proprio contenuto, gruppi di cetacei che si arenano su qualche spiaggia, alghe che infestano le località balneari. In realtà, l’uccisione dei mari è fatto quotidiano, prodotto da una pluralità di cause, tutte riconducibili all’uomo e alle sue attività.

Quante volte, facendo la spesa al supermercato, abbiamo distrattamente preso qualche scatoletta di tonno, oppure qualche trancio di verdesca o di spada, o dei gamberi, senza chiederci che cosa significhi fare questa scelta? Effettivamente l’offerta di pesce, sui banconi di un grande supermercato è così grande e diversificata, che diventa un gesto piuttosto naturale scegliere tra i vari tipi di pesce. Oltretutto, da più parti ci vengono ripetutamente sbandierate le qualità nutrizionali del pesce, peraltro vere: oltre ad essere una fonte eccellente di proteine animali, esso contiene le vitamine A e D, il magnesio, il fosforo, i sali minerali, gli acidi grassi omega-3 (essenziali per lo sviluppo del cervello nel feto e nel neonato). Purtroppo attualmente i grandi pesci predatori, cioè i caivori come gli squali, i tonni, i marlin, per citae alcuni, sono anche ricchi di diossine, di Pcb e di metalli pesanti, come il mercurio, a causa dell’inquinamento marino, come visto nel nostro articolo precedente (MC, gennaio 2010). Ma, oltre i rischi che la nostra salute può correre, consumando determinati tipi di pesce, è indispensabile conoscere anche quale impatto può avere  un certo tipo di pesca sull’ambiente e, conseguentemente, sulle popolazioni costiere, specialmente le più povere.
Secondo il rapporto dell’Onu sulla pesca di marzo 2009, attualmente il 77% delle risorse ittiche vanno considerate completamente esaurite o quasi. Le zone più sfruttate in assoluto sono l’Atlantico orientale ed il Mare del Nord. Si stima che, ogni anno, l’ammontare mondiale del pescato sia di circa 86 milioni di tonnellate e le specie a maggiore rischio di estinzione sono il cetorino, il merluzzo bianco, il nasello, il pesce specchio atlantico ed il tonno rosso. A queste specie di pesce, vanno aggiunte quelle di alcuni dei grandi mammiferi marini, come le balene grigie del Pacifico occidentale, i cui esemplari rimasti sarebbero solo più un centinaio (mentre quelle del Pacifico orientale avrebbero avuto un recupero numerico), o le balenottere azzurre dell’Antartide, che sono ormai solo l’1% della popolazione originaria.
Negli ultimi 30 anni, il mercato dei prodotti ittici e dell’acquacoltura ha registrato uno sviluppo esponenziale, legato essenzialmente alle modalità di vendita. In pratica, nelle grandi superfici commerciali, non solo c’è una grande offerta di pesce fresco, ma un’altrettanto grande varietà di prodotti trasformati, soprattutto i piatti pronti, per cui c’è un’esigenza costante di nuovi approvvigionamenti di pesce. Oltre a questo, una parte consistente del pescato (comprese le cai di balena e di delfino) viene utilizzata nella produzione dei mangimi (per gli allevamenti intensivi di bovini, di suini, di pollame), del cibo per animali domestici e come cibo per le specie pregiate di pesce allevate in acquacoltura, come il salmone. In quest’ultimo caso, la quantità di pesce necessaria per l’allevamento dei salmoni è veramente considerevole. In media servono 5 chilogrammi di pesce grasso, come aringhe e sardine, per produrre un chilogrammo di salmone. Questo comporta l’alterazione di interi ecosistemi – i delfini, le foche e le orche, che normalmente frequentano gli estuari dei  fiumi nella Columbia Britannica, in Canada o in Cile, ad esempio, sono sempre meno numerosi e denutriti e spesso vengono respinti dai dispositivi utilizzati, per proteggere i recinti degli allevamenti – e l’impoverimento di molte piccole comunità di pescatori, che non hanno altra fonte di reddito, oltre alla pesca. Il pesce d’allevamento rappresenta ormai il 30% delle proteine animali di origine ittica e l’industria dell’acquacoltura ha un fatturato di 30 miliardi di dollari all’anno, ma l’impatto che essa ha sull’ambiente è sconcertante. Basta pensare che, secondo la David Suzuki Foundation, un’organizzazione ambientalista di Vancouver, nella Columbia Britannica, l’acquacoltura praticata in questa provincia canadese scarica nell’oceano lo stesso quantitativo di rifiuti di una città di mezzo milione di abitanti.
In genere ogni allevamento di salmoni è costituito da 12-15 gabbie, cioè recinti di reti collocati in corrispondenza degli estuari dei fiumi, dove sono presenti forti correnti e può ospitare anche 200.000 pesci. Dai recinti fuoriescono grandi quantità di rifiuti ittici, di antibiotici somministrati per contrastare il rapido diffondersi di malattie tra gli animali, di microbi diventati resistenti agli antibiotici, di pesticidi e tutte queste sostanze si depositano sul fondo del mare, distruggendo varie forme di vita. Inoltre una parte considerevole di tali sostanze viene trasportata dalle correnti, va alla deriva e riesce ad insinuarsi nelle tane dei crostacei, contaminandole e diffondendo malattie in tutta la catena alimentare. Qualcuno si chiederà perché vengono usati i pesticidi negli allevamenti di salmone. Il motivo è la necessità di debellare i pidocchi di mare, che spesso infestano i salmoni.
Negli anni ’80 e ’90, si fece, a tale scopo, grande uso di Nuvan (noto anche come Aquagard), contenente il 50% di dichlorvos, un organofosfato messo al bando dalla Commissione Europea e considerato uno dei pesticidi più tossici, associato dai ricercatori all’insorgenza del cancro ai testicoli, proprio per il suo uso negli allevamenti di salmoni. Come spesso accade, i pidocchi di mare sono diventati resistenti al dichlorvos, per cui attualmente si utilizzano altre sostanze, come la cipermetrina, un veleno neurale cancerogeno, l’ivermectina, una neurotossina, il teflubenzurone, il benzornato di emamectina ed il verde malachite; si tratta di sostanze capaci di uccidere crostacei e molluschi nel raggio di alcune miglia, ma tossiche anche per altre specie di pesci, di uccelli e di mammiferi.
Una sostanza comunemente usata come disinfettante e conservante negli allevamenti ittici di tutto il mondo è la formalina, soluzione al 37% del gas formaldeide, noto cancerogeno per l’uomo. Come se tutto ciò non bastasse, ai salmoni d’allevamento (anche da allevamento biologico) viene somministrata una tintura, per conferire alle loro cai il tipico colore roseo degli esemplari allo stato brado, i quali lo acquisiscono, mangiando crostacei e gamberetti. Tale tintura è a base di carotenoidi sintetici, in particolare l’astaxantina e la cantaxantina (E161), controparti sintetiche delle versioni naturali, presenti nel krill (minuscoli crostacei simili a gamberetti), di cui si nutrono i salmoni liberi. Nel 2003, la Commissione Europea ha pubblicato un rapporto sul danno alla retina, provocato dalla cantaxantina sintetica, scientificamente provato e l’UE ha ridotto l’utilizzo consentito negli allevamenti di questa sostanza (usata anche negli allevamenti di pollame).
Un altro tipo di acquacoltura, che arreca danni gravissimi all’ambiente è quello dei gamberi, che comporta la distruzione delle foreste di mangrovie, situate in delicate zone di confine tra il mare e la terraferma. Le foreste di mangrovie ospitano grandi quantità di pesci e di crostacei e sono, nel contempo, l’habitat per svariate specie animali terrestri o arboricoli, come i giaguari e le scimmie. Da sempre, la sussistenza delle comunità locali dipende da queste foreste: basta pensare che le donne catturano pesci e molluschi, che vengono rivenduti al mercato e permettono di mantenere intere famiglie. La crescita rapida dell’industria dell’allevamento dei gamberi ha comportato la perdita, a livello mondiale,  del 38% delle foreste di mangrovie, secondo Greenpeace, e la scomparsa di molte delle tradizionali aree di pesca delle comunità locali. Sia in Asia, che in America Latina si sono verificate violente proteste delle popolazioni locali, che hanno tentato di opporsi all’introduzione dell’allevamento dei gamberi, ma talvolta tali proteste si sono concluse con l’uccisione di qualcuno degli insorti.
Oltre alla perdita delle foreste di mangrovie, il danno di questi allevamenti è dato anche dalle grandi quantità di mangimi artificiali, di antibiotici e di pesticidi, che vengono rilasciati nell’acqua. Inoltre, i siti di allevamento dei gamberi necessitano di un frequente ricambio, per cui i proprietari abbandonano spesso le zone di palude, ormai trasformate in vere e proprie discariche, per trasferire i loro allevamenti in altre zone costiere. La distruzione delle foreste di mangrovie è senz’altro una delle cause delle terribili conseguenze degli tsunami, poiché le onde non trovano più alcuna barriera naturale alla loro potenza distruttiva.
Enormi quantità di pescato sono necessarie anche per gli allevamenti dei tonni pinna azzurra o tonni rossi, che prendono sempre più piede nel Mediterraneo. Si calcola che servano 25 chilogrammi di pesce, per un chilogrammo di tonno. Questa attività è conosciuta anche come ranching dei tonni e consiste nella cattura e nel trasporto dei tonni in particolari siti, presso le coste del Mediterraneo, dove essi vengono chiusi in gabbia e messi all’ingrasso, per rifornire la clientela giapponese, che paga lautamente per ottenere pesce di elevata qualità per il sushi ed il sashimi. I rapidi profitti derivanti da questa attività hanno portato all’uso di navi da pesca sempre più grandi, che, con reti a circuizione, catturano interi banchi di tonni, per convogliarli nelle gabbie d’allevamento. Le navi, dotate di radar e di sonar, vengono assistite da elicotteri od aerei da ricognizione, che dall’alto avvistano i banchi. Sono inoltre stati costruiti nuovi aeroporti, per il trasporto del tonno. Dal 1997, l’Unione Europea eroga annualmente 34 milioni di dollari, come sussidio per quest’attività ed a questi fondi si aggiungono gli investimenti del Giappone e dell’Australia, che hanno incoraggiato le sempre più organizzate aziende ittiche.
Purtroppo la conseguenza di questa febbrile attività è stata la drastica riduzione del tonno rosso, che è diminuito del 74% nel Mediterraneo tra il 1957 ed il 2007, mentre nell’Atlantico è diminuito dell’83% tra il 1970 ed il 2007. Va detto che il tonno rosso del Mediterraneo non è quello, che troviamo nelle scatolette; in questo caso si tratta di tonno del Pacifico, una varietà meno rara. Attualmente, a livello internazionale, le quote di pesca del tonno rosso del Mediterraneo sono state diminuite del 30% dall’Iccat (Inteational Commission for the Conservation of Atlantic Tunas), ma il Principato di Monaco ha proposto di inserire questa specie tra quelle a rischio di estinzione, nell’elenco Cites (Convention On Inteational Trade In Endangered Species of wild flora and fauna), come auspicato anche dal Wwf. Purtroppo tale proposta, a settembre 2009, non è stata accolta dall’UE; hanno infatti votato contro di essa l’Italia, la Francia, la Spagna, la Grecia e Malta, cioè i Paesi, che più pescano tonno, mentre Cipro si è astenuta ed il Portogallo era favorevole. Oltre al respingimento di questa proposta, l’Iccat ha fatto anche una concessione quanto mai discutibile, cioè due anni di proroga al Marocco, per l’eliminazione delle reti derivanti, usate illegalmente per la cattura del pesce spada e responsabili della morte, ogni anno, di 4.000 delfini e di 25.000 squali nel Mediterraneo.
Tra le specie, che rischiano l’estinzione ci sono i grandi pesci predatori, come gli squali, i merluzzi, i pesci spada, il cui numero sta scendendo ad un ritmo vertiginoso, al punto che, secondo gli studiosi del settore, il 90% di tali pesci è già stato pescato. Considerando che il sovrasfruttamento delle risorse ittiche, a livello industriale, è cominciato solo negli anni ’50, mantenendo lo stesso livello dei prelievi di tutti questi anni, si arriverà ad un totale sovvertimento degli ecosistemi marini. Venendo a mancare i grandi predatori, inevitabilmente nei mari si avrebbe infatti un’eccessiva diffusione delle specie da loro controllate, tra cui, ad esempio, le meduse. L’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche ha già avuto le sue prime conseguenze: in Canada, le popolazioni di merluzzo si sono drasticamente ridotte di numero, per cui la pesca di questa specie è ferma dal 1992 e, conseguentemente, sono andati persi 40.000 posti di lavoro.
Un grosso problema correlato alla pesca intensiva è quello delle catture accidentali, che vanno sotto il nome di bycatch. Si tratta, in pratica della pesca non selettiva, per cui ogni anno, secondo Greenpeace, quasi 100 milioni di squali e di razze vengono catturati erroneamente, mentre circa 300.000 cetacei (balene, delfini, focene) rimangono accidentalmente intrappolati nelle reti. Questo fenomeno assume dimensioni preoccupanti nelle zone, in cui si pratica la pesca a strascico dei gamberetti dei fondali. Secondo la Fao, la pesca a strascico dei gamberi, da sola, è la maggiore fonte di scarti inutilizzati. Le reti a strascico sono tutt’altro che selettive e, al loro passaggio, catturano spesso esemplari giovani di svariate specie commerciali, nonché specie a rischio di estinzione, come le tartarughe marine. Secondo uno studio del Wwf, va sprecato il 40% del pescato al mondo, a causa delle catture accidentali, poiché tali catture sono considerate inutili ed il pesce viene rigettato in mare, il più delle volte morto. Al massimo, in certi casi, il pescato accidentale viene utilizzato come mangime per l’acquacoltura, ma il Wwf ha stimato uno spreco annuale di circa 38 milioni di tonnellate di pesce. Questo saccheggio sconsiderato del mare ha portato ad una riduzione di quasi il 90% di alcune riserve ittiche, con gravissime ripercussioni sull’economia di quelle popolazioni povere, che vivono solo di pesca locale. Oltre a questo la pesca industriale non selettiva distrugge la biodiversità marina, uccidendo esemplari di ogni genere.
Sempre più spesso gli Stati ed i governi dimostrano una totale insensibilità per questo tipo di problema e, come abbiamo visto sopra, concedono proroghe e permessi di pesca con mezzi assolutamente devastanti per l’ambiente, spronati dal miraggio dei guadagni facili. Dietro la pesca industriale ci sono infatti movimenti di milioni di dollari, specialmente quando si tratta di specie particolarmente ricercate, come il tonno rosso. Le flotte di pesca industriale contano ormai centinaia di pescherecci, molti dei quali dotati di reti a circuizione (per circondare interi banchi) o a strascico, o derivanti (spadare). Molti pescherecci pescano con i palamiti. Sempre più spesso i pescherecci sono vere e proprie navi, che raggiungono anche le 8.000 tonnellate, dotate di radar e di sonar, in grado di lavorare completamente il pescato a bordo, di surgelarlo e di trasportarlo per migliaia di chilometri. Quasi sempre le navi appartenenti alle grosse società di pesca prelevano più di quanto stabilito dalle norme inteazionali, con le quote di pesca. Nel Mediterraneo, ad esempio, la quota di tonno pescabile annualmente è di 32.000 tonnellate, ma si stima un prelievo totale tra le 50.000 e le 60.000 tonnellate, perché le ispezioni ed i controlli sono spesso irrisori.
Un gravissimo problema sia per le economie dei paesi in via di sviluppo, che per l’ambiente è rappresentato dalla pesca pirata, cioè la pesca illegale sempre più diffusa nei mari di tutto il mondo, una pesca senza regole, la cui unica mira è il maggior quantitativo possibile di pescato. Si tratta di un pericolo a livello mondiale, perché questo tipo di pesca causa gravi danni ambientali, contribuisce all’esaurimento degli stock ittici e fa concorrenza sleale ai pescatori rispettosi delle regole. In tal modo è messo in pericolo l’equilibrio economico delle comunità costiere, con tragiche ripercussioni nei paesi in via di sviluppo, dove può essere compromessa la stessa sicurezza alimentare. Basta pensare alle coste dell’Africa sub sahariana, i cui villaggi spesso dipendono dalla pesca. Si stima, ad esempio, che la Guinea, nell’Africa occidentale, perda annualmente 100 milioni di dollari, a causa della pesca pirata effettuata nelle sue acque territoriali. Molti di questi Paesi non hanno i mezzi sufficienti, per pattugliare il mare antistante alle loro coste, così i pescatori illegali ne approfittano per sovrasfruttare queste acque. Inoltre spesso le imbarcazioni, che pescano illegalmente, si servono come mano d’opera, di marinai e di pescatori dei Paesi in via di sviluppo, che vengono imbarcati e lavorano con paghe modestissime, in condizioni di vita e di lavoro, che talora rasentano la schiavitù.
A tal proposito, Greenpeace ha elaborato il documento «Freedom of the seas», dove sono illustrate le misure attuabili dai governi, sia singolarmente che con una cooperazione internazionale, per fermare sia la pesca pirata, che quella attuata con metodiche distruttive, come la pesca a strascico. Tra le misure adottabili sicuramente c’è quella del controllo capillare degli sbarchi, sia da parte dello Stato di bandiera, che dello Stato del porto, da cui le navi partono o dove arrivano. Secondo la normativa marittima, infatti, una nave è quasi considerata come parte del territorio dello Stato di bandiera, il che significa che le possibilità d’ispezione a bordo, da parte dello Stato di porto sono fortemente limitate ed i bracconieri conoscono perfettamente questo principio, quindi portano il loro carico lontano, in luoghi dove le autorità locali non possono o non vogliono controllare. Da qui essi riescono poi a fare entrare il loro pescato nel mercato legale.
Una soluzione al progressivo depauperamento dei mari è la istituzione di una rete di riserve marine, come è stato fatto in Nuova Zelanda; si tratta di zone dove è proibita ogni attività di pesca, ma anche di estrazione mineraria e di scarico di rifiuti. In queste zone sono inoltre bandite tutte le attività legate al turismo. Laddove esse sono presenti già da anni (la prima è stata creata a Goat Island Bay, Nuova Zelanda, nel 1977), si è assistito ad un consistente aumento delle colonie marine, della durata della vita dei pesci e ad un aumento della loro capacità riproduttiva.
è perciò sempre più indispensabile un consumo di pesce da parte nostra, che sia intelligente e rispettoso, per non arrecare danno agli altri ed all’ambiente e per fare questo è sufficiente limitare il numero di pasti a base di pesce e fare delle scelte oculate, seguendo ad esempio la guida «Sai che pesci pigliare?» stilata dal Wwf, che è consultabile in rete. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

C’è rete e rete

Reti da circuizione: si tratta di reti ideate per catturare banchi interi di pesci, i quali spesso vengono attratti da luci. Una volta catturato il banco di pesci, il fondo della rete si chiude, impedendone la fuga. Questo tipo di pesca può essere molto selettivo, ma anche molto dannoso, se utilizzato per i banchi di pesci giovani, poiché, in questo caso, intacca direttamente le riserve ittiche.
Reti a strascico: per la pesca sul fondo del Mediterraneo, i pescherecci usano reti a forma di sacco, con un’apertura larga 20 metri ed alta circa 2 metri. Tali reti sono tenute aperte da due divergenti, detti “tavoloni”, spinti di lato dalla pressione dell’acqua, da galleggianti posti superiormente all’imboccatura e da piombi posti inferiormente alla stessa. Il peschereccio traina la rete per parecchie ore, per un tratto di mare di 15 o più chilometri, irretendo e sconvolgendo tutto ciò, che si trova in quel fondale. In pratica, a causa dei pesi metallici trascinati sul fondale, questo viene quasi arato, con la cattura e l’uccisione di ogni forma di flora e di fauna presente. Per ripopolare i tratti di fondale, così devastati, possono essere necessari degli anni. La superficie interessata da una simile battuta di pesca può arrivare a 100.000 metri quadrati. In tal modo vengono catturati molti pesci giovani, col pericolo di impoverire le riserve ittiche. Per evitare questo problema, molti Paesi hanno fissato il limite di 20 millimetri, per le maglie delle reti, ma di fatto nessuno controlla.
Reti a strascico d’altura: si tratta di una variante più distruttiva dell’ambiente marino, rispetto alla precedente, perché questo tipo d’attrezzo consente ai pescherecci di pescare sia sul fondo, che a media profondità. L’ampiezza dell’imboccatura delle reti varia da 10 a 15 metri e le maglie sono molto più piccole (9-12 millimetri), quindi inferiori rispetto al limite legale. In genere, i pescherecci, che usano questo tipo di reti, hanno motori molto più potenti degli altri e riescono a catturare qualsiasi cosa si presenti sulla loro strada. Le reti a maglie piccole, trascinate a forte velocità, creano una sorta di barriera (anche perché in tal modo le maglie si rimpiccioliscono ulteriormente) e, di conseguenza, riescono a catturare anche pesci di piccole dimensioni, che altrimenti sarebbero sfuggiti.
Palamiti: si tratta di attrezzi costituiti da cime “madri” lunghe parecchi chilometri, a cui sono applicate migliaia di cime più corte, dotate di ami con esche, distanziate l’una dall’altra di qualche metro. Un sistema di galleggianti e di piombi permette a questo attrezzo di essere posizionato sulla superficie dell’acqua o alla profondità desiderata. I palamiti posizionati in superficie spesso catturano tartarughe (decine di migliaia, ogni anno) ed uccelli marini. Purtroppo spesso i palamiti vengono posizionati lungo le rotte migratorie delle tartarughe.
Reti derivanti: sono reti fisse, lunghe parecchi chilometri, posizionate singolarmente o a gruppi anche fino a 30 metri di profondità, oppure sospese in acqua, mediante galleggianti. La dimensione delle loro maglie varia a seconda delle specie cacciate, che di solito sono pesci spada, alalunga e tonni bonito. La pesca con queste reti è del tutto indiscriminata e spesso vi si impigliano delfini, balene, tartarughe e talvolta uccelli marini.
Tramaglio: tipo di rete fissa, alta circa 2,5 metri, usata nel Mediterraneo, costituita da un insieme di due reti a maglia larga (200 millimetri), entrambe tese, con in mezzo una rete più estesa e meno tirata, a maglie più piccole (30-40 millimetri), di modo che il pesce, nuotando in mezzo, vi resti intrappolato.

Di R. Topino e R. Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




Mi faccia il pieno, di jatropha

Nuovi carburanti: sono davvero bio?

I biocarburanti troveranno spazio nel nostro futuro. Ma cosa sono esattamente? Di prima e di seconda generazione. Aiutano davvero l’ambiente riducendo le emissioni? Molti paesi del Sud vi stanno investendo, dedicando centinaia di migliaia di ettari di terra coltivabile. Come si collega questo alla crisi alimentare? I nostri esperti cercano di rispondere.

Bruxelles, dicembre 2008, raggiunta l’intesa tra Consiglio, Parlamento e Commissione europei sulle energie rinnovabili, secondo la quale i 27 Stati Membri dell’UE sono obbligati ad attingere ad energie alternative nella misura del 20% del totale dei loro consumi, entro il 2020.
In particolare, entro tale data si dovrà portare al 10% la quota di biocarburanti usati per i trasporti; inoltre essi dovranno garantire un risparmio di emissioni di gas serra almeno del 35%, rispetto ai combustibili fossili.
Tra i biocarburanti, importanti saranno quelli di seconda generazione, cioè quelli ricavati da rifiuti, da residui della lavorazione del legno, da biomassa cellulosica non alimentare e da coltivazioni alternative a quelle di prodotti alimentari, come ad esempio quelle di alghe o di jatropha curcas, una pianta a semi oleaginosi non commestibili, o di panicum virgatum, una pianta erbacea a crescita rapida.
Tali biocarburanti saranno contati il doppio per il raggiungimento dell’obiettivo del 10%.
Negli Stati Uniti, nell’agosto 2005, il Congresso ha emanato una legge, secondo la quale si dovrà giungere ad una produzione annuale di etanolo di oltre 28 miliardi di litri entro il 2012 (nel 2005 essa è stata di circa 15 miliardi di litri). Il governo americano ha inoltre concesso all’etanolo uno sconto fiscale di 0,13 dollari al litro.
La Cina, dal canto suo, punta a coprire con la produzione di etanolo il 5% della domanda intea di carburanti, entro il 2010, mentre attualmente tale produzione è di un milione di tonnellate, cioè il 2% dei consumi totali.
In Brasile, dove peraltro l’etanolo è usato come combustibile già dagli anni ’20 del secolo scorso, nel 2008 la sua vendita è aumentata del 45%, rispetto all’anno precedente, superando per la prima volta la vendita della benzina, che costa circa il doppio dell’etanolo (quest’ultimo costa 0,5 euro al litro). Oltre all’etanolo, il Brasile è un grande produttore di biodiesel, tratto dalla soia e, grazie a questi due prodotti, questo paese si sta proponendo come uno dei maggiori produttori ed esportatori di biocarburanti.

Biocarburanti?
Nuovo business

Intanto sempre nuovi paesi si affacciano sul fronte dell’agrobusiness dei biocarburanti, come Colombia, Cile, Perù, Argentina, Guatemala, Uruguay in America Latina.  Tant’è che il quotidiano El Mercurio de Chile il 21 febbraio 2007 parlava del Sudamerica come dell’ «Arabia dell’etanolo».
Nel Sudest asiatico invece sono sempre più estese le piantagioni di palma da olio per produrre biodiesel, soprattutto in Indonesia e Malesia, mentre la Cambogia avvia colture sperimentali di jatropha. Inoltre le banche e le corporation giapponesi hanno stabilito una solida cooperazione con l’azienda energetica brasiliana Petrobras.
Non potevano poi mancare investimenti da milioni di euro, da parte di società occidentali interessate alla produzione di biofuel nell’Africa sub-sahariana (vedi box), in particolare in Namibia, Mozambico, Zambia, Malawi, Tanzania.
Quali sono i motivi, che hanno portato a questa folle corsa ai biocarburanti? Sicuramente sono molteplici. Tra i principali c’è la necessità di ridurre l’emissione di gas serra, anidride carbonica in particolare, per contrastare l’innalzamento della temperatura terrestre e le alterazioni climatiche.
Non meno importante è la volontà da parte dei paesi sopra citati di diventare, almeno in parte, indipendenti dai paesi dell’Opec (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio), cioè Arabia Saudita, Algeria, Angola, Iran, Emirati Arabi Uniti, Ecuador, Indonesia, Iraq, Kuwait, Libia, Nigeria, Qatar e Venezuela.
Inoltre i biocarburanti, poiché prodotti da vegetali, vengono considerati fonti rinnovabili. Sicuramente essi vengono visti come un mezzo per rilanciare l’economia dei paesi produttori.
Del resto, il fatto che sia nato un accordo, denominato Biofrac (Biofuels Research Advisory Council) tra Adm, Cargill e Bunge (multinazionali di prodotti e servizi agroalimentari), Monsanto, Singenta, Bayer e Dupont (alimentari, farmaci e genetica), British Petroleum,  Total e Shell (multinazionali petrolifere) e Peugeot, Renault, Citroen, Volkswagen e Saab (produttrici di automobili) è indicativo di quanto debba essere grande l’affare dei biocarburanti. Si tratta di uno schieramento industriale senza precedenti, per finanziare le ricerche su biotecnologia e combustibili.

A propOsito di generazioni

Ma, in particolare, cosa sono i biocarburanti? Sono anche detti biofuel, in inglese. Essi dovrebbero essere carburanti biosostenibili, poiché non emettono in atmosfera dell’anidride carbonica fossile, cioè quella contenuta nel petrolio o nel carbone, ma solo quella utilizzata dalle piante, per la loro crescita, cioè in pratica quella catturata comunque dall’atmosfera.
È necessario fare, innanzitutto, una distinzione tra biocarburanti di prima e di seconda generazione. A questi ultimi abbiamo già accennato precedentemente e va detto che, allo stato attuale, sono ancora in una fase sperimentale di produzione. Sono stati ottenuti risultati molto incoraggianti con la jatropha curcas, una pianta, che riesce a crescere in terreni aridi (quindi inutilizzabili per l’agricoltura), senza bisogno d’irrigazione (vedi box).
Questo fatto è molto importante, perché con tale pianta si potrebbero ottenere buone quantità di biocarburanti, da terreni altrimenti improduttivi. In Ghana, ad esempio, si potrebbero utilizzare i terreni di quelle, che stanno per diventare ex miniere, in quanto sono in scadenza le concessioni governative e soprattutto si stanno esaurendo molti filoni di minerali pregiati. Come conseguenza, si calcola che circa 50.000 lavoratori delle miniere si troveranno presto disoccupati. Una loro conversione in coltivatori di jatropha potrebbe rappresentare quindi una soluzione.
La stessa cosa vale per altri Paesi, come il Burkina Faso, il Mozambico, il Togo e la Costa d’Avorio, dove tale pianta è endemica.
Biocarburanti di seconda generazione sono stati ottenuti sperimentalmente dai fondi del caffè, dai ricercatori dell’Università del Nevada a Reno, i quali hanno pubblicato i risultati della loro ricerca sul Joual of Agricultural and Food Chemistry, organo della American Chemical Society’s. Secondo questo studio, dai fondi di caffè è possibile ricavare olio e, successivamente, biocombustibile a basso costo più stabile di quelli tradizionali. Inoltre i rifiuti solidi della conversione possono ancora essere lavorati, per ottenere etanolo, oppure essere utilizzati come fertilizzanti.
Per quanto riguarda i profitti, che tale processo potrebbe generare, la stima è di circa 8 milioni di dollari annui solo negli Usa.
In Germania, invece, è stato realizzato a Freiberg, in Sassonia, il primo impianto, che ricava biodiesel dal legno di scarto, mentre in Spagna i ricercatori delle Università di Jaén e di Granada sono riusciti a ricavare etanolo di buona qualità dai noccioli delle olive, che in questo paese rappresentano uno scarto di circa 4 tonnellate derivante dalla produzione annuale dell’olio di oliva.
Una ricerca effettuata nella Montana State University ha portato alla scoperta che un fungo, il gliocladium roseum, tipico della Patagonia cilena, è in grado di produrre un combustibile simile al diesel, a partire dai residui vegetali (cioè dalla cellulosa), in particolare quelli di eucryphia, albero tipico del Cile.
Buoni risultati sono stati ottenuti anche dalla coltivazione di alghe, che crescono in acque reflue o marine e, per prosperare, hanno solo bisogno di luce solare e di biossido di carbonio. Negli Usa esistono già una dozzina di impianti, che ricavano sia etanolo che olio dalle alghe, sebbene in fase ancora sperimentale. In opportune condizioni, le alghe sono capaci di raddoppiare la loro massa nel giro di poche ore, quindi, con coltivazioni di questo tipo, il raccolto sarebbe continuo. È stato stimato che mentre un ettaro di mais produce annualmente circa 2.500 litri di etanolo e uno di soia circa 560 litri di biodiesel, un ettaro di alghe potrebbe arrivare a produrre, in condizioni ottimali, fino a 45.000 litri di biocarburante all’anno (National Geographic, ottobre 2007).

Da tortilla a biodiesel

Attualmente, tuttavia, i biocarburanti più diffusi al mondo sono quelli di prima generazione, cioè quelli ricavati da prodotti agricoli altrimenti utilizzati a scopo alimentare, come i cereali (mais in particolare), gli oli di semi di soia, di girasole, di colza, l’olio di palma.
Si tratta di biocombustibili alternativi al gasolio, al gas metano, al Gpl e al carbone. Possono, inoltre, essere usati come additivi di alcuni combustibili tradizionali, cioè benzina e gasolio per autotrazione.
In particolare si tratta di biodiesel, di bioetanolo, di Etbe (etil-tertio-butil-eteree) di Mtbe (metil-tertio-butil-etere). Il biodiesel viene ricavato da olio di semi di colza, girasole, soia e dall’olio di palma mediante un processo di trasformazione detto
«transesterificazione». Si ottengono così un liquido fluido, con viscosità simile al diesel e, come sottoprodotto, la glicerina, utilizzata come materiale grezzo nell’industria chimica.
I principali vantaggi del biodiesel, rispetto al diesel tradizionale sono rappresentati da un alto numero di cetani (maggiore potere antidetonante dei biodiesel), da una maggiore capacità lubrificante, dall’assenza di emissioni di zolfo (quindi della formazione dell’inquinante anidride solforosa), dall’alta percentuale di ossigeno (quindi maggiore stabilità di combustione, minore produzione di Pm10 e di residui organici volatili o Voc). Per quanto riguarda l’anidride carbonica o CO2, secondo i produttori tedeschi di biodiesel, per ogni litro di questo carburante sono emessi 2,2 Kg di CO2, contro i 3,2 Kg del diesel da petrolio.
Il bioetanolo è attualmente il biocombustibile più usato al mondo e Stati Uniti e Brasile ne sono i maggiori produttori mondiali.
La produzione totale europea di bioetanolo si è attestata, nel 2007, a 1,77 miliardi di litri, con un aumento del 13%, rispetto all’anno precedente. Le più alte produzioni si sono avute in Francia (578 milioni), Germania (394 milioni) e Spagna (348 milioni). Il numero totale dei Paesi europei produttori di bioetanolo è salito a 13. Il consumo europeo di questo biocarburante, sempre nel 2007, è stato di circa 2,7 miliardi di litri, con l’importazione di circa 1 miliardo di litri, cioè il 37% del consumo totale annuo. Il bioetanolo è stato importato principalmente dal Brasile e utilizzato soprattutto in Svezia, Regno Unito, Olanda e in minore misura in Danimarca e Germania.
Questo combustibile viene ottenuto dallo zucchero ricavato dalle coltivazioni di mais o di altri cereali (tra cui il riso), canna da zucchero e barbabietola. Mediante lieviti, lo zucchero viene trasformato in alcol e anidride carbonica, con un processo di fermentazione, dopo di che questo prodotto intermedio viene distillato, riscaldandolo e facendolo condensare separatamente. Il riscaldamento viene ottenuto mediante gas naturale oppure elettricità (prodotta con consumo di carbone). Per quanto riguarda il bilancio energetico dell’etanolo, c’è una bella differenza tra quello prodotto a partire dal mais (come quello statunitense) e quello prodotto a partire dalla canna da zucchero (come quello brasiliano).
Dando indicativamente il valore 1 all’energia da combustibili fossili utilizzata per produrre l’etanolo (input), l’energia sviluppata dall’etanolo da mais è di 1,3 (output), mentre quella dell’etanolo da canna da zucchero è di 8. Questo perché il mais contiene amido, che deve essere successivamente trasformato in zucchero, mentre i fusti di canna sono costituiti al 20% da zucchero, che inizia a fermentare appena tagliata la pianta. La canna, inoltre produce da 5.700 a 7.600 litri di etanolo per ettaro, cioè più del doppio del mais.
Per quanto riguarda invece il confronto tra l’energia sviluppata dall’etanolo, rispetto a quella sviluppata dalla benzina, la resa del primo è solo del 67% circa di quella della seconda, poiché quest’ultima sviluppa 5.275.000 chilojoule al barile, contro i 3.545.000 dell’etanolo. Quindi per percorrere la stessa distanza occorre più etanolo, rispetto alla super senza piombo.
Nei nostri veicoli, l’etanolo può essere aggiunto alla benzina in quantità di non oltre il 5%, mentre in Brasile e negli Usa circolano già parecchie vetture con motore «Totalflex», che può essere alimentato con ogni tipo di miscela o con etanolo puro.
L’Etbe e il Mtbe sono additivi, che vengono miscelati alla benzina senza piombo in percentuale fino al 15%. Il primo viene prodotto dall’etanolo e il secondo dal metanolo (il suo uso è stato sospeso, in quanto potenzialmente cancerogeno e inquinante delle falde acquifere, a seguito delle dispersioni nella rete di distribuzione della benzina negli Usa).

Carburanti ecosostenibili?

I produttori di biocarburanti di prima generazione, per promuovere i loro prodotti, sono acerrimi sostenitori della loro ecosostenibilità. Secondo loro, infatti, l’uso dei biocombustibili comporterebbe una drastica diminuzione della emissione di gas serra. Ma è proprio così? Vediamo innanzitutto quali sono le differenze di emissioni per produzione e uso.
L’etanolo genera il 22% di gas serra in meno della benzina, se proviene dal mais, il 56%, se origina dalla canna da zucchero e il 91%, se prodotto dalla cellulosa (quest’ultimo è però un biocarburante di seconda generazione).
Il biodiesel produce il 68% di gas serra in meno del diesel tradizionale. Questi dati sono dell’Us Department of Energy, dell’Us Environmental Protection Agency, Renewable Fuels Association, Energy Future Coalition e Worldwatch Institute.
Secondo questi dati, tutto bene dunque. In realtà le cose non stanno proprio così, se si considerano anche altri fattori, che possono influenzare il totale delle emissioni. Per quanto riguarda la produzione di etanolo da mais, va considerata l’emissione di gas serra per la produzione e l’uso dell’enorme quantitativo di fertilizzanti usati nei campi. Uno studio condotto dal vincitore del premio Nobel per la chimica Paul Crutzen ha dimostrato che l’innalzamento dell’ossido nitroso N2O, causato dai fertilizzanti impiegati per le colture energetiche, annullerebbe i benefici ambientali derivanti dall’uso dei biocarburanti.
Bisogna considerare che l’ossido di diazoto (o nitroso) ha un effetto serra di circa 296 volte quello dell’anidride carbonica. Nel computo vanno aggiunti i carburanti fossili usati dalle mietitrebbie e il gas naturale usato per la distillazione.
L’etanolo da canna da zucchero presenta un altro tipo di inconveniente e cioè la pratica illegale, ma alquanto diffusa, di incendiare i campi prima del taglio delle canne. Questo viene fatto per eliminare il fogliame in eccesso, facilitare il taglio e uccidere i serpenti, che potrebbero trovarsi nelle piantagioni. Ma libera un’enorme quantità di fuliggine nell’aria, nonché metano e di protossido di azoto.
Il biodiesel invece viene ricavato da piantagioni di palma da olio o di soia, che sempre più spesso vanno a invadere tratti di foresta amazzonica, o le foreste pluviali del Sudest asiatico (palma da olio in Indonesia e Malesia). Dal punto di vista delle emissioni di CO2, questo fatto è gravissimo, perché le piantagioni non sono assolutamente in grado di fissare lo stesso quantitativo di questo gas delle foreste originarie. Inoltre le foreste pluviali del Sudest asiatico crescono nelle torbiere, cioè terreni, che sequestrano circa un terzo in più, rispetto alle piantagioni, del carbonio presente in atmosfera, unitamente alla vegetazione. Poiché anche in queste zone è diffusa la pratica di incendiare i terreni, in questo caso prima di piantare le palme, a scopo fertilizzante, il quantitativo di anidride carbonica rilasciato nell’aria è enorme. Quindi già solo per queste considerazioni, i biocarburanti di prima generazione sono tutt’altro che ecosostenibili.

Dalla pancia al serbatornio

 Ci sono però altri e più gravi aspetti, che fanno bocciare l’uso di questi prodotti. Basta citare la scomparsa della biodiversità, che comportano le enormi monocolture o l’uso sempre più spregiudicato di Ogm (organismi geneticamente modificati) e di pesticidi. Ma l’aspetto più sinistro è sicuramente dato dalla competizione tra le colture energetiche e quelle alimentari. In pratica la trasformazione in biocarburanti dei prodotti agricoli sottrae cibo alle popolazioni e questo fatto ha sicuramente contribuito all’innalzamento dei prezzi dei cereali e degli altri prodotti vegetali, come la soia, nell’ultimo anno, con gravissime ripercussioni soprattutto a carico delle popolazioni più povere.
Ad esempio in Messico ci sono già state manifestazioni di piazza per l’aumento dei prezzi delle tortillas, alimento base della nazione, fatto con il mais. In Africa numerose società occidentali investono nella produzione agro-energetica soprattutto in Namibia, Mozambico, Zambia, Malawi e Tanzania (vedi box). Se consideriamo che un paese come la Tanzania è uno dei più poveri dell’Africa subsahariana e l’agricoltura incide sul 60% del suo Pil e impiega l’80% della forza lavoro, ci rendiamo conto di cosa significhi destinare i terreni alla produzione di biocarburanti, anziché di cibo.
Anche se, allo stato attuale, il totale delle terre utilizzate per i  biocarburanti è solo dello 0,63%, cifra però in costante aumento. Se, da una parte, potrebbero essere creati, in questo modo, nuovi posti di lavoro, dall’altra la produzione di biofuels potrebbe mettere in pericolo l’approvvigionamento di cibo e di acqua per queste popolazioni. A proposito di acqua, la produzione dei biocarburanti può arrivare a consumare fino a 20 volte il quantitativo di acqua necessaria per produrre la stessa quantità di benzina, come dimostra uno studio del Consiglio nazionale di ricerca americano.

Italia: indietro  come sempre

Come si pone l’Italia nei confronti dei biocarburanti? Considerando che l’Europa, nel 2003, si era posta l’obiettivo di sostituire nel 2005 e nel 2010 rispettivamente il 2% ed il 5,75% dei combustibili per autotrazione con biocarburanti, si può dire che l’Italia è ancora piuttosto lontana da questi obiettivi.
Nel 2005 essa aveva raggiunto una media di incorporazione di biocarburanti dello 0,46%. Poiché entro il 2020, secondo l’Unione europea, la percentuale di biocarburanti dovrà essere del 10%, l’Italia dovrà consumare oltre 4 milioni di Tep (tonnellate equivalenti petrolio) di biofuels, di cui 0,6 milioni saranno prodotti sul territorio nazionale, impiegando, con le tecnologie attuali, dai 600 agli 800 mila ettari di terreni seminativi, mentre il resto sarà necessariamente importato.
Negli ultimi dodici mesi la produzione italiana di biocarburanti, sul nostro suolo, è aumentata del 35-40%, ovviamente a scapito della produzione ad uso alimentare. Nel frattempo, negli ultimi anni, l’Italia è diventata il terzo importatore mondiale di olio di palma dal Sudest asiatico, specialmente dall’Indonesia, Malesia e Papua Nuova Guinea. Nel nostro Paese, l’olio di palma viene utilizzato per produzioni agro-alimentari e di biocarburanti nonché per l’alimentazione di centrali elettriche. Nel 2007, solo da gennaio a ottobre, l’Italia aveva importato 395.869 tonnellate di olio di palma (fonte Greenpeace).
Considerando che un ettaro di terreno ricavato dalla torbiera produce circa 3,75 tonnellate di olio di palma, ciò significa che solo nel 2007 il nostro paese ha contribuito a sfruttare più di 105.500 ettari di foresta pluviale. Calcolando che un ettaro di torbiera degradata e bruciata emette circa 100 tonnellate di CO2 all’anno, grazie alle nostre importazioni dall’Asia, sono state rilasciate in atmosfera più di 10.500 tonnellate di anidride carbonica in un anno.
Senza considerare le emissioni delle petroliere, che hanno trasportato l’olio a casa nostra e quelle delle raffinerie, che lo hanno lavorato. Nello stesso anno, la San Marco Petroli di Porto Marghera ha ottenuto il permesso di sfruttare 80.000 ettari di foresta amazzonica in Brasile, sempre per le piantagioni di palma da olio.
Per non parlare dello sfruttamento dei contadini locali, i quali ricevono un pezzo di terra, comprano i semi e si ritrovano, come unico acquirente, la stessa San Marco Petroli, che decide il prezzo del prodotto, sulla base del mercato internazionale.

Le due velocità

Come sempre, il mondo va a due velocità. Da una parte c’è il Nord del mondo, con le sue esigenze energetiche per alimentare legioni di auto sempre più voraci (è già stata corsa persino la prima «500 miglia» di Indianapolis interamente a bioetanolo), aerei low cost e non (la Boeing ha già effettuato il primo volo di un 747, alimentato a biocarburante e ha annunciato che fra tre anni i suoi vettori voleranno con i biofuels), centrali elettriche, treni superveloci e – come potevano mancare ?– aerei e navi militari (Usa e Gran Bretagna), che sono macchine di morte, ma con i biofuels diventano rispettose dell’ambiente.
Dall’altra parte c’è il Sud del mondo, sempre più sfruttato e affamato, per permettere al Nord di correre.
Certamente i biocombustibili possono rappresentare una fonte di energia rinnovabile e anche un’opportunità di sviluppo per le aree disagiate, ma non lo sono certamente quelli di prima generazione, attualmente in uso. Solo i biocarburanti di seconda generazione, ricavati da piante, che crescono in terreni aridi e che non competono per il cibo, oppure da sostanze di scarto, da cui l’importanza di differenziare i rifiuti e di non incenerirli, possono essere vantaggiosi.
Da parte nostra, visto che, per ora, è più probabile che ci ritroviamo nel serbatornio dei biocarburanti di prima generazione, che di seconda, possiamo cercare di porre un freno a questo agrobusiness, limitando al massimo l’uso dell’auto, evitando i treni superveloci e ricorrendo all’aereo solo per reale necessità.

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

AFRICA: LA CONQUISTA DEI BIOCARBURANTI

La situazione degli stati dell’Africa subsahariana, in cui le multinazionali occidentali stanno attivamente operando, per la produzione dei biocarburanti è bene rappresentata da quanto avviene in Tanzania. In questo Paese, finora sono stati destinati alla produzione di biocarburanti circa 600.000 ettari di terreno coltivabile. Le multinazionali operanti in Tanzania provengono da Germania, Paesi Bassi,  Regno Unito, Svezia, Usa,  Giappone e Canada. La più importante di queste società è la tedesca Prokon, che sfrutta 200.000 ettari, con piantagioni di jatropha curcas. L’inglese Sun Biofuels, operante anche in Etiopia e in Mozambico, ha ottenuto la concessione gratuita di 9.000 ettari di terreno per 99 anni, in cambio dell’investimento di 20 milioni di dollari in infrastrutture per il paese.
Anche la svedese Sekab sfrutta 9.000 ettari di terreno, con piantagioni di canna da zucchero, per produrre etanolo e assieme alla Sun Biofuels sta cercando di arrivare a 50.000 ettari di terreno. La società Bio-Shape dei Paesi Bassi gestisce diverse migliaia di ettari per la produzione di etanolo e di biodiesel presso le città di Mabiji, Migeregere, Nainokwe, Liwiti e Kiwawa.

La destinazione dei terreni a un uso diverso da quello per la produzione di cibo ha sicuramente dei pesanti costi sociali e ambientali, che pagano le popolazioni locali. La stessa Banca Mondiale ha rilevato un rapporto di causa-effetto diretto tra la produzione di biocarburanti e l’aumento dei prezzi dei beni alimentari. Dal 2004 ad oggi i prezzi sono cresciuti complessivamente dell’83% ed, in particolare, del 181% per il grano. All’inizio del 2008, la Banca Mondiale ha pubblicato un documento dal titolo «Rising Food Prices: Policy Options and  World Bank Response» (Crescita dei prezzi del cibo: opzioni politiche risposta della Banca Mondiale, ndr), che sostiene che l’aumento dei prezzi degli alimentari è dovuto per il 75% proprio al cambiamento di destinazione dei terreni coltivabili, a favore dei biocarburanti.

Intanto la African Biodiversity Network e Action Aid Ghana hanno denunciato la perdita di biodiversità, la deforestazione e lo scoppio di tumulti, derivanti dalla competizione per la terra e per l’acqua sia in Etiopia, sia in Ghana. In Etiopia, infatti, il governo ha messo a disposizione 24 milioni di ettari per la produzione dei biocarburanti (contro 12,28 milioni di ettari destinati agli alimenti), mentre in Ghana 2.600 ettari di foreste sono stati disboscati e la Bio Fuel Africa, associata alla Bio Fuel Norway (Norvegia) ha già iniziato a sfruttare 38.000 ettari. Intanto in Sudafrica, dove la De Beers, la maggiore multinazionale dei diamanti, ha ottenuto per prima la licenza dal governo a commercializzare biofuels, dopo essersi convertita a questo settore, l’obiettivo è quello di coprire, con questi carburanti, il 75% del fabbisogno nazionale, entro il 2013. La Nigeria ed il Kenya si stanno muovendo nella stessa direzione. Quasi sempre le concessioni governative, per le coltivazioni destinate ai biocarburanti, vengono date alle multinazionali senza la valutazione dell’impatto ambientale.

Roberto Topino e Rosanna Novara

LA JATROPHA CURCAS

È una delle 170 varietà della jatropha, una pianta appartenente alla famiglia delle Euforbiacee, la stessa della manioca, e si presenta come un arbusto, che può raggiungere i 5 metri di altezza. È originaria dei Caraibi e venne importata in Asia e in Africa dai commercianti portoghesi, che la usarono come recinzione, cioè come una siepe. Dai suoi semi non commestibili si ricava un olio, che opportunamente filtrato può essere usato come biodiesel e ha una resa per ettaro quattro volte superiore, rispetto alla soia e dieci volte, rispetto al mais.
Questa pianta ha una vita media di circa 50 anni, può crescere in terreni aridi e sopravvivere a due anni di siccità. Essa inoltre riesce a fertilizzare il terreno, combattendo così la desertificazione. Una piantagione di jatropha, dopo due anni, può produrre 8.000 chili di semi per ettaro, che possono fornire 2.200 litri di olio e 5.000 chili di fertilizzante.

R.To e R.No


Roberto Topino e Rosanna Novara




Contaminazione (profonda)

L’acqua, un bene vitale in grave pericolo

Contaminazione da nitrati e fitofarmaci, ma anche da arsenico, cromo, materiali radioattivi: le acque di falda sono in grave pericolo. Esse rappresentano il 50% del totale, ma in Italia il 28% di esse risulta ormai contaminato. Nonostante l’inadeguatezza dei controlli, i casi di inquinamento sono all’ordine del giorno. Per capire la gravità del problema, va ricordato che l’acqua dolce non è una risorsa illimitata. Spetta ai cittadini aprire gli occhi ed agire di conseguenza. 

Nell’articolo precedente (MC, settembre 2008) ci siamo occupati dell’inquinamento, che contamina buona parte dei fiumi della terra. In questa puntata, vedremo invece come anche le falde idriche sotterranee non stiano affatto bene di salute, anzi in certi casi la situazione è oltremodo drammatica. Ricordiamo che, in Italia, le acque di falda rappresentano il 50% del totale (che è di 70 miliardi di m³) delle acque foite annualmente dagli acquedotti nazionali, mentre il 15% proviene dai corsi d’acqua superficiali e il 35% dalle sorgenti.
A livello mondiale, le falde idriche profonde racchiudono circa 45.000 km³ di acqua, proveniente  dalle precipitazioni atmosferiche e a loro è affidata una importante funzione di riserva. 
L’infiltrazione d’acqua nel sottosuolo dipende dalla consistenza del terreno, ma anche dal grado della sua cementificazione, che è senz’altro un fattore limitante. Il tempo per il riciclo delle falde è lunghissimo, circa 1.400 anni, contro i 20 giorni dei fiumi. È evidente che la percolazione di sostanze inquinanti nelle falde può ridurre drasticamente la disponibilità di acqua, oltre che compromettere pericolosamente la salute di milioni di persone. Purtroppo, le capacità autodepuratrici degli ecosistemi acquatici sono diventate spesso insufficienti, a causa della contaminazione sempre maggiore di sostanze poco o per nulla biodegradabili.
In Italia, secondo i dati foiti dall’Apat (Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici), relativi all’ultimo triennio, il 28% delle acque di falda risulta contaminato. Oltre la metà dei pozzi esaminati ha mostrato segni di compromissione, nelle nove regioni, che hanno aderito alla campagna di monitoraggio chimico. In particolare sono risultate più inquinate le falde del nord Italia, cioè delle regioni più industrializzate e dedite all’agricoltura di tipo intensivo, soprattutto per la presenza di erbicidi come l’atrazina (vietata a partire dagli anni ’80, ma tuttora presente nei terreni, data la sua scarsa biodegradabilità), la terbutilazina, il bentazone, utilizzato specialmente nelle risaie (quindi presente in elevata quantità nelle acque del pavese e del vercellese) e il metolaclor, utilizzato in quantità industriale nelle grandi distese di mais dell’area padano-veneta.

L’invasione dei nitrati

 Il problema dell’inquinamento delle acque di falda con prodotti fitosanitari è duplice, poiché, se da un lato l’uso di tali prodotti è inquinante per le falde, dall’altro si rischia di avere la compromissione della qualità dei prodotti agricoli, come conseguenza dell’irrigazione con acque di falda contaminate.
In Piemonte, l’inquinamento delle falde da fitofarmaci è in costante aumento dal 2000 e attualmente oltre un quarto dei campioni relativi alle falde superficiali risulta contaminato, come il 7% dei campioni relativi alle falde profonde (è stata riscontrata la presenza di 18 principi attivi, su un totale di 60 molecole ricercate); in particolare risulta contaminato il 60% dei campioni esaminati, in provincia di Vercelli e il 10% in provincia di Cuneo.
Questo fatto induce a pensare che non tutti gli agricoltori rispettino la normativa regionale e nazionale circa il divieto di utilizzo di determinate sostanze, come atrazina e bentazone, altamente dannose per la salute umana. Oltre alle sostanze suddette, un gravissimo problema per le acque di falda è rappresentato dalla presenza di nitrati, che in molti casi (talvolta anche nell’acqua potabile) arrivano a superare i limiti di legge, fissati in 50 mg/l. I nitrati derivano dai fertilizzanti azotati, dai reflui dei grandi allevamenti e dagli scarichi civili non opportunamente depurati e in alcune aree, come la pianura padana, caratterizzata da agricoltura e allevamenti intensivi, essi raggiungono livelli record d’inquinamento. Questo problema è molto esteso in Europa, di conseguenza la Commissione europea ha emanato una direttiva in materia (Direttiva nitrati 91/676).
Alla contaminazione da composti azotati contribuiscono anche le piogge acide, che riportano al suolo e alle acque i contaminanti dispersi nell’atmosfera. In Italia si sono avuti gravi casi di contaminazione da nitrati in Piemonte, Lombardia, Toscana, Marche e Campania. Emblematico è il caso di Fano (Ancona), rifoita per anni con acqua potabile, in cui sono stati riscontrati livelli di nitrati fino a 150 mg/l. I danni da nitrati sono conosciuti fino dal 1945, quando è stato riportato, per la prima volta, su Jama un caso letale di intossicazione.
In particolare un’alta concentrazione di nitrati nell’acqua rappresenta un grave problema per i lattanti, soprattutto nei primi tre mesi di vita, poiché i nitrati, a opera della flora batterica intestinale, si trasformano in nitriti, che vengono assimilati e sono in grado di alterare l’emoglobina, con conseguente difficoltà di trasporto dell’ossigeno ai tessuti. I nitrati possono peraltro causare seri danni anche nella popolazione adulta, poiché i nitriti, da essi derivanti, possono formare nitrosamine, specialmente a livello dello stomaco, per reazione con amine secondarie di origine alimentare e alcune di queste sostanze sono dei potenti cancerogeni. In particolare, degli studi condotti in Danimarca, Inghilterra, Ungheria, Italia, Cile, Colombia e Cina hanno associato l’esposizione ai nitrati con una maggiore frequenza dei tumori gastrici.

«Di tutto, di più»…
nelle nostre acque

Oltre ai fitofarmaci e ai nitrati, nelle acque di falda italiane si trovano, spesso in quantità di molto superiori ai limiti di legge, sostanze residue di attività industriali di vario genere. In questi casi, le cause di contaminazione sono legate sia alle acque di processo, che a quelle di raffreddamento degli impianti.
È particolarmente pesante l’impatto ambientale dell’industria chimica, dove gli inquinanti presenti nelle acque di processo variano, a seconda del tipo di produzione; ad esempio, gli effluenti della produzione di detersivi sono contaminati da tensioattivi e da fosfati, quelli delle resine sintetiche da solventi e da sostanze organiche, mentre quelli dell’industria degli inorganici di base contengono metalli pesanti. Altri settori, che vanno dalla siderurgia all’industria alimentare, possono contribuire in diverso modo all’inquinamento delle acque. Ad esempio le sostanze adoperate per la sterilizzazione dei cibi possono agire come inibitori, nei processi di biodegradazione dei sistemi acquatici.
Molto spesso le cause di contaminazione chimica delle falde sono correlate con lo smaltimento sul suolo o nel sottosuolo degli scarichi industriali, effettuato in modo abusivo, o in mancanza di collettori idonei. Negli ultimi anni i casi più gravi d’inquinamento industriale delle falde si sono avuti per perdita di liquidi dagli impianti stessi, o da serbatorni interrati, oppure da rifiuti sepolti nel sottosuolo. Vale la pena di ricordare alcuni casi di gravissimo inquinamento ambientale, che si sono verificati in Italia negli ultimi anni. In Maremma, nella provincia di Grosseto 22 siti, corrispondenti a circa 300 ettari, sono stati contaminati da arsenico e da mercurio, finiti nei pozzi dell’acqua potabile, mentre polveri di pirite, piombo, cadmio e manganese sono stati accumulati nei terreni coltivabili (Corriere della Sera, 12/05/2001).

Le attività dell’Eni:
chi inquina, non paga

Queste sostanze derivano dall’attività di industrie, come l’Eni e la Tioxide, produttrice di biossido di titanio. Oltre ad esse è stata rilevata la diossina proveniente dall’inceneritore di Scarlino (Grosseto), appartenente alla società «Ambiente S.p.A.» dell’Eni, entrato in funzione nel 1999 e sorto sui tre foi, in cui si arrostiva la pirite (minerale impiegato nella produzione dell’acido solforico).
La Iarc (Inteational agency for research on cancer) classifica l’arsenico come «cancerogeno di gruppo 1» e, secondo un suo studio, per valori di tale sostanza compresi tra 0,35 e 1,14 mg /l nell’acqua, è molto elevato il rischio di tumori a vescica, rene, cute, polmone, fegato e colon.
Nell’acqua di un pozzo di Scarlino è stata rilevata una concentrazione di arsenico pari a 3,3 mg/l. Sono stati avvelenati una quindicina di pozzi, che fino al 1997 hanno pescato dalle falde idriche sotterranee. I 3 pozzi, che per 25 anni hanno servito Follonica sono stati chiusi e in uno di loro il mercurio superava di 50 volte i limiti di legge. Arsenico e mercurio penetrati nelle falde della provincia di Grosseto, Argentario compreso, derivano dalla lavorazione della pirite, che prima Montedison e poi Eni hanno accumulato a cielo aperto in vere e proprie colline di rifiuti tossici, poggianti su acquitrini, come quelli del Casone e del Padule di Scarlino, dove l’acqua è ormai di tutti i colori. Qui la pirite è stata accumulata in vecchie vasche di acido solforico, che ha facilitato la cessione all’ambiente di arsenico e di mercurio, come spiega Roberto Barocci di Italia Nostra, docente di Economia e Assetto del territorio e autore di Arsenico (Stampa Alteativa).
Inoltre, la Coldiretti ha accusato l’Eni di avere ceduto gratuitamente agli agricoltori, come materiale sterile e inerte, gli scarti della lavorazione della pirite, da utilizzare nel rifacimento del fondo delle strade interpoderali. L’Eni si è sempre difesa, sostenendo che gli scarti della pirite non hanno ceduto metalli pesanti all’acqua in quantità tossica ed è stata sostenuta in tal senso dall’Arpat, secondo la quale l’arsenico e le altre sostanze in quell’area ci sono da sempre e ne costituirebbero una caratteristica geologica. Tale conclusione avrebbe evitato all’Eni i costi di bonifica.
Di diverso avviso è stato però il Pubblico ministero (Pm) di Grosseto Vincenzo Pedone, che ha decretato il sequestro dell’inceneritore di Scarlino, ha definito il degrado ambientale del comprensorio Follonica-Scarlino come «fatto notorio e addirittura eclatante, per ciò che attiene alla gravissima compromissione delle risorse idriche», ha anche constatato l’assenza di controlli pubblici e ha inviato l’avviso di garanzia al direttore e all’amministratore delegato di Ambiente S.p.A. Nel frattempo, alcune pericolose discariche dell’Eni hanno cambiato proprietà.

Dal Piemonte all’Abruzzo

Altri casi d’inquinamento delle falde sono, ad esempio, quello del rinvenimento nella falda di Aosta, nel giugno 2004, di eccedenze, rispetto ai limiti fissati dal D. Lgs. 152/99, di cromo esavalente, di fluoruri, di nichel, di solventi clorurati come tetracloroetilene e cloroformio e di solventi aromatici. Tali sostanze sono correlabili soprattutto con l’attività della Cogne Acciai Speciali di Aosta e inoltre, specialmente per la presenza in falda di ferro e manganese, con la discarica di Brissogne. Altri casi sono l’inquinamento da cromo esavalente nella falda di Asti, quello recentissimo (maggio 2008) sempre da cromo esavalente a Spinetta Marengo (Alessandria), quello da arsenico a S. Antonino di Susa (Torino).
Il caso più grave in Italia e forse in Europa è però quello dell’inquinamento delle falde di Bussi e della Val Pescara in Abruzzo, un disastro ambientale di proporzioni inimmaginabili per le potenziali conseguenze sulla salute di 500.000 cittadini, che hanno usufruito per anni dell’acqua inquinata prelevata dal campo pozzi S. Angelo di Bussi. I valori degli inquinanti tossici e cancerogeni in falda hanno raggiunto punte di 300.000 volte i limiti di legge per il cloroformio, di 420.000 volte per il tetraclorometano, di migliaia o decine di migliaia di volte per altre sostanze pericolose, tra cui mercurio, cloruro di vinile, tricloroetilene, tetracloruro di carbonio, ecc. Queste sostanze, secondo il Pm Aceto, che ha condotto l’inchiesta, al termine della quale ha inviato 33 avvisi di garanzia, sono state riversate nel fiume Pescara fino al 1963 e successivamente stipate in megadiscariche, lungo i fiumi Tirino e Pescara.
Anche in questo caso si tratta degli scarti di lavorazioni della Montedison. L’inchiesta è nata da una denuncia del WWF, basata sui referti di analisi condotte e pagate privatamente da tale associazione, già nel 1997 (ripetute nel 2007) e seguite da analisi dell’Arta nel 2004, a seguito delle quali i pozzi S. Angelo, che servivano l’area metropolitana di Chieti-Pescara, sono stati chiusi nel 2005 e riaperti parzialmente nel 2007, dopo l’utilizzo di filtri a carbone attivo (tali pozzi, a monte dei quali si trova una grande industria chimica, erano attivi dal 1990).
La vicenda è resa ancora più grave, se possibile, dal fatto che l’Istituto superiore di Sanità aveva espresso un parere, in cui dichiarava le acque emunte da questi pozzi come «non idonee al consumo umano»; ma, secondo il pm Aceto, nessun sindaco o amministratore e nemmeno la Direzione sanitaria dell’Asl hanno reagito con la dovuta fermezza; anzi, quest’ultima ha appoggiato in pieno l’operato del responsabile del Sian (Servizio igiene alimenti e nutrizione) dell’Asl, ora indagato.
Peraltro, secondo il magistrato, i responsabili della Montedison erano a conoscenza dell’inquinamento delle falde e delle conseguenze sui pozzi destinati all’acquedotto già dal 1992. I 33 avvisi di garanzia sono stati emessi nel maggio 2008.

Contaminazione
radioattiva? Presente!

In mezzo a tutti questi veleni, potevamo farci mancare una contaminazione radioattiva delle falde? No, naturalmente; infatti il 17 agosto 2006 l’assessorato all’Ambiente della regione Piemonte ha reso pubblica la contaminazione radioattiva delle falde a Saluggia, dove dall’intercapedine della piscina dell’impianto Eurex, contenente un deposito di materiali radioattivi, c’è stato un rilascio di acqua contaminata dal radionuclide Sr-90.
Peraltro, già nel giugno 2004, la Sogin (esercente dell’impianto Eurex) aveva comunicato che la piscina presentava una fuoriuscita di liquido radioattivo, con una contaminazione della parete estea della sua intercapedine di 1.000 Bq/dm².  A Saluggia gli impianti nucleari e la piscina della Eurex si trovano proprio sopra le falde acquifere, che meno di 2 Km a valle alimentano i pozzi dell’acquedotto del Monferrato, che porta l’acqua a più di cento comuni nelle province di Torino, Asti e Alessandria.
Va detto che, per incidenti di questo tipo, siamo in buona compagnia. In Francia, infatti, nel maggio 2006 è stata rilevata radioattività nelle falde acquifere della Normandia 7 volte superiore al limite imposto da una legge europea di 100 Bq/l. In questa zona è stato costituito un deposito di rifiuti radioattivi provenienti dalle 58 centrali nucleari francesi, ma anche dalla Germania, Olanda, Belgio, dal Giappone, Svizzera e Svezia (nonostante sia illegale per la legge francese stoccare materiali radioattivi provenienti dall’estero).
L’acqua della falda è risultata contaminata da trizio, che è un indicatore di futura contaminazione da altri radionuclidi, come stronzio, cesio e plutonio, sostanze cioè sicuramente cancerogene.
È invece di quest’anno, luglio 2008, l’incidente francese di Tricastin, dove sono stati registrati anomali valori di uranio nell’acqua di falda. Secondo la Criirad (Commissione di ricerca e di informazione indipendente sulla radioattività), tale contaminazione è da attribuire, più che all’incidente occorso all’impianto di Tricastin, alla presenza di materiale radioattivo di una precedente installazione militare, che aveva funzionato in quella zona tra il 1964 e il 1996 per la produzione di armi atomiche, grazie all’arricchimento dell’uranio. I residui della lavorazione vennero interrati, senza particolari precauzioni e l’acqua piovana ha potuto scorrere a contatto delle scorie, disperdendo l’uranio nel terreno. La fuoriuscita di uranio nella falda di Tricastin ammonta a 74 Kg.

Occhio alle acque minerali

A leggere cose come queste, si potrebbe pensare che forse è meglio bere acqua minerale, anziché del rubinetto, ma prima di farlo, è bene considerare il fatto che esiste un decreto legge del 29/12/2003, dell’allora ministro della Salute Sirchia, sulle acque minerali, il quale ha introdotto una soglia di tolleranza per svariate sostanze tossiche ad alto rischio.
Le aziende produttrici di acque minerali possono così immettere sul mercato dei prodotti, che prima sarebbero stati fuorilegge e che contrastano con le normative europee. In pratica, grazie a questo decreto esiste una lunga lista di sostanze, tra cui tensioattivi, oli minerali, antiparassitari, policlorobifenili, idrocarburi, ecc., per le quali, al di sotto della soglia di rilevabilità strumentale, le aziende produttrici possono continuare a dichiarare come esenti da ogni tipo d’inquinamento le acque minerali che producono.
Nel giugno 2003, la procura di Torino avviò un’inchiesta, da cui emerse che 23 delle 28 marche di acqua minerale analizzate non rispettavano l’obbligo di legge di essere completamente prive delle sostanze tossiche suddette; successivamente il numero delle marche non in regola è salito a 86.
La differenza tra le quantità di sostanze ammesse per le acque minerali, rispetto all’acqua potabile, è dovuta al fatto che le minerali vengono considerate «bevande», come il vino ad esempio, e quindi sono soggette a una normativa meno restrittiva, di quella per l’acqua potabile. Se consideriamo la possibile contaminazione da piombo, il valore soglia del vino è molto superiore a quello dell’acqua potabile, perché si ritiene che il consumo quotidiano della bevanda vino debba essere decisamente inferiore a quello dell’acqua. Così vengono messe in vendita acque contaminate «a norma di legge».

Inquinamento naturale
da fluoruri e da arsenico

Esistono, inoltre, in parecchie aree geografiche della terra, dei casi d’inquinamento delle falde, talora anche per cause naturali e non solo antropiche, che hanno portato milioni di persone in condizioni di salute drammatiche. Si tratta delle contaminazioni delle falde da fluoruri e da arsenico.
L’inquinamento da fluoruri ha determinato la comparsa di fluorosi scheletrica, una malattia che danneggia soprattutto gli arti in crescita e che può arrivare a compromettere anche la spina dorsale e il sistema nervoso, in milioni di bambini in India, ma anche in Cina, in Niger, in Etiopia, laddove cioè sono state installate pompe manuali nei villaggi, per fornire alle popolazioni acqua sicura, cioè non contaminata, come le acque superficiali, da coliformi e da altri agenti patogeni responsabili di gravissimi casi di colera, tifo e diarrea.
I fluoruri sono sostanze normalmente presenti nelle rocce granitiche del sottosuolo di gran parte dell’India e di altre aree geografiche e possono sciogliersi lentamente nelle acque di falda, senza peraltro allontanarsi molto dallo strato granitico. Ciò significa che risultano contaminate solo le acque dei pozzi profondi, mentre quelle dei pozzi superficiali risultano pulite.
Purtroppo, però, i continui prelievi d’acqua, alla lunga determinano un abbassamento delle falde e la necessità di scavare pozzi più profondi.
L’inquinamento più grave è però quello da arsenico, che ha provocato quello che dall’Oms viene definito «il più grave avvelenamento della storia dell’umanità», che riguarda soprattutto il Bangladesh e il delta del Gange. A causa di tale avvelenamento, il futuro della popolazione del Bangladesh è gravemente compromesso.
Ma l’arsenico ha colpito anche altre zone del delta del Gange, come il Bengala occidentale in India e parte del sud del Nepal. Questo problema è presente anche nelle falde di Argentina, Cile, Messico, Cina, Vietnam, Taiwan, Nepal, Myanmar, Cambogia, Ungheria, Romania e di parecchie zone del sud-ovest degli Stati Uniti.
In Bangladesh, negli anni ’70, per limitare i casi di dissenteria e di colera, l’Unicef ha promosso la diffusione di pompe manuali a tubo, che nel giro di pochi anni sono diventate sempre più numerose. Negli stessi anni iniziava la cosiddetta rivoluzione verde, cioè un programma di agricoltura intensiva, soprattutto di riso, leguminose e ortaggi vari, che ha comportato l’uso di grandi quantità di fertilizzanti e pesticidi, nonché di acqua. L’acqua estratta dalle pompe, molto spesso contaminata da arsenico, viene utilizzata in grande quantità a scopo irriguo, per cui questo minerale entra nella catena alimentare.
Di solito i primi sintomi dell’avvelenamento cronico da arsenico si avvertono dopo una decina di anni di esposizione e si manifestano soprattutto come ipercheratosi, disturbi cardiovascolari e circolatori, tumori polmonari, renali, epatici, ma soprattutto cutanei. L’avvelenamento acuto si manifesta invece con i sintomi di una forte gastroenterite.
Si calcola che, attualmente, muoiano circa 3.000 persone all’anno, tra coloro che hanno ingerito per anni acqua e cibi contaminati, ma sarebbero almeno 65 milioni le persone esposte a rischio e 200.000 coloro che presentano i sintomi dell’arsenicosi.
Le prime tracce di arsenico nelle falde del Bangladesh sono state rilevate nel 1993, ma solo dal 1995 è iniziata l’analisi sistematica dei pozzi, un ventennio dopo la posa delle prime pompe a tubo. Queste ultime sarebbero fortemente responsabili di questa situazione, perché altererebbero le condizioni redox del terreno, favorendo il rilascio di arsenico. Purtroppo, per anni non vennero effettuate accurate analisi dell’acqua estratta dalle pompe, cioè in pratica l’arsenico non veniva cercato, e ciò ha portato all’avvelenamento silenzioso di milioni di persone.
Attualmente esiste una diatriba tra scienziati, circa l’origine di tale avvelenamento. In pratica ci sono scienziati, che sostengono l’origine esclusivamente naturale dell’arsenico nel terreno: secondo costoro il minerale si sarebbe formato nelle rocce della catena himalayana, da cui nasce il Gange e sarebbe stato trascinato a valle, fino al delta, dove verrebbe estratto dalle pompe. Questa tesi, in qualche modo, assolve l’operato delle multinazionali e dell’Unicef.
Secondo gli scienziati indiani, invece, la quantità eccessiva di arsenico nel terreno sarebbe strettamente correlata all’uso massiccio di fitofarmaci, indispensabili per la coltivazione intensiva del riso, in quanto è stata osservata una correlazione tra arsenico e fertilizzanti organo fosforici.
La prima tesi è il frutto di ricerche condotte dalla British Geological Survey e dalla McDoland Ltd (Regno Unito); tali ricerche sono state finanziate dalle agenzie inteazionali e dalle multinazionali, che hanno una possibile responsabilità nell’avvelenamento da arsenico, per cui il loro risultato potrebbe essere viziato.
È vero che l’arsenico è un elemento naturale, che può trovarsi in discreta quantità, ad esempio sotto forma di arseniopirite, in certe aree geografiche, ma secondo i geologi indiani, nel delta del Gange non esiste una quantità di arseniopirite tale da giustificare un avvelenamento di così vaste proporzioni.
Una certa esperienza nel campo della ricerca ci porta a pensare che sia più corretta la tesi degli scienziati indiani. Tra l’altro uno studio condotto al Massachusetts Institute of Technology (Mit) da Charles F. Harvey, docente di ingegneria civile e ambientale, è giunto alla conclusione che le pompe a tubo alterano in modo drammatico il flusso delle acque sotterranee, modificando la chimica delle falde e determinando il rilascio di arsenico, a seguito della degradazione microbica del carbonio organico, trascinato nelle falde dalle stesse pompe.

Il dovere di «aprire gli occhi»

Dai casi d’inquinamento delle falde appena visti appare chiaro che quasi sempre ci si dimentica che il sistema dell’acqua dolce è un sistema chiuso. L’acqua dolce non è illimitata, quindi non ci si può permettere di renderla in parte inutilizzabile, perché inquinata. Non possiamo lasciare un’eredità così pesante alle generazioni future.
Soprattutto non possiamo dimenticare che l’acqua fa parte di noi, di tutti noi, quindi è inaccettabile che per il profitto di qualcuno, tantissimi si ritrovino a fronteggiare situazioni estreme. E non è accettabile che chi deve controllare chiuda gli occhi, davanti a disastri, come quelli appena visti. O che chi deve fare ricerca non ricerchi la verità, ma un modo per sollevare da ogni responsabilità coloro, a cui ha deciso di asservirsi. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara


GLOSSARIO

Arta: Agenzia Regionale per la Tutela dell’Ambiente.

Atrazina: è un principio attivo usato come erbicida, appartenente alla classe delle cloro tiazine. È adatto al diserbo principalmente di mais, sorgo e canna da zucchero. Presenta elevata persistenza ambientale, con conseguente rinvenimento nelle acque superficiali e di falda. È assai poco biodegradabile. In Italia ed in altri Paesi europei, il suo uso è proibito dal 1992, data la sua possibile azione cancerogena.

Bentazone: è un erbicida, che inibisce la fotosintesi clorofilliana, causando la deplezione delle riserve di carboidrati e la perdita dell’integrità della membrana dei cloroplasti (organuli cellulari deputati alla fotosintesi clorofilliana).

Bequerel: unità di misura dell’attività di una sostanza radioattiva.

Biossido di titanio: per il suo elevato potere coprente e la sua grande inerzia chimica, è attualmente il prodotto più impiegato come pigmento bianco (bianco di titanio) nelle pitture e veici, nella carta, nei laminati plastici, nelle fibre tessili, nella gomma, nei prodotti ceramici, negli inchiostri e nei cosmetici.

Cesio: alcuni suoi isotopi radioattivi si formano nelle reazioni di fissione nucleare e sono probabilmente pericolosi, perché vengono fissati dagli organismi vegetali ed animali. Nell’incidente di Cheobyl del 1986 è stato uno dei principali responsabili della contaminazione radioattiva.

Coliformi: sono un gruppo di microorganismi a forma di bastoncello, gramnegativi, aerobi ed anaerobi facoltativi, non sporigeni, che fermentano il lattosio, con produzione di gas e di acido. I coliformi fecali di origine umana sono delle Enterobatteriacee. Essi rappresentano un indubbio indice di contaminazione delle acque. Tra questi batteri sono comprese le Salmonelle, che sono delle Enterobatteriacee responsabili di malattie infettive di tipo gastroenterico, oltre che, in alcuni casi, di malattie setticemiche a sede extraintestinale.

Cromo esavalente: i composti, da esso derivati, hanno largo impiego nella produzione di veici, vetri, ceramiche ed inoltre nella concia delle pelli, nell’industria tessile, per la colorazione dei tessuti, nella preparazione di diversi prodotti chimici e nei trattamenti di superficie di metalli meno nobili (cromatura) per le sue proprietà antiruggine. La maggior parte dei composti del cromo presenta una tossicità relativamente elevata per tutti gli organismi viventi.

Fluoruri: composti del fluoro con metalli e non-metalli. Nel primo caso si possono considerare sali dell’acido fluoridrico, come il fluoruro d’alluminio, usato nella raffinazione dell’alluminio. I fluoruri con i non-metalli comprendono una serie di composti molto reattivi, che il fluoro forma con gli altri alogeni, con il boro e con il silicio.

Fosfati: sali degli acidi fosforici. Sono degli ottimi concimi, poiché il fosforo costituisce un elemento essenziale per lo sviluppo delle piante.

Ipercheratosi: abnorme aumento dello spessore dello strato coeo dell’epidermide, in alcune zone della cute. Può essere causato da diversi fattori, tra cui l’azione dei raggi ultravioletti. In questo caso si parla di cheratosi attinica, che è una precancerosi.

Metolaclor: principio attivo di protezione del mais, efficace soprattutto contro le infestazioni da graminacee.

Nitrati e nitriti: sali dell’acido nitrico solubili in acqua, ossidanti allo stato fuso, ma non in soluzione acquosa. I nitrati dei metalli alcalini, a temperature elevate perdono ossigeno, trasformandosi in nitriti. Il nitrato di sodio è il componente principale del nitro del Cile, che era l’unica fonte di fertilizzanti azotati prima della diffusione dei concimi chimici sintetici. Il nitrato d’ammonio ed il nitrato di calcio sono impiegati come fertilizzanti azotati. Il nitrato d’argento è impiegato in chimica analitica, per riconoscere e dosare gli alogeni. Il nitrato di potassio o salnitro è usato nella polvere da sparo, nella fabbricazione dei fiammiferi e dei fuochi d’artificio.

Nitrosamine: nitrosoderivati con attività carcinogenetica per l’uomo, in cui agiscono sia per inalazione, che per ingestione. Sembra accertato che i nitrosoderivati si formano nell’organismo, attraverso il metabolismo di nitroderivati e di ammine.

Plutonio: è un metallo notevolmente reattivo, come l’uranio. Il biossido di plutonio è impiegato come combustibile nucleare, in miscela con il biossido di uranio. Allo stato elementare è particolarmente adatto come materiale fissile, per armi nucleari.

Redox: abbreviazione di ossido-riduzione; si tratta di una reazione,in cui avvengono in contemporanea l’ossidazione di un composto e la riduzione di un altro. Il primo composto, cioè, acquisisce elettroni, mentre il secondo li cede.

Solventi aromatici: solventi contenenti nella loro molecola degli anelli aromatici a 6 atomi di carbonio. Hanno un caratteristico odore (da cui il nome) e sono cancerogeni. Tra loro abbiamo il benzene, il toluene e lo xilene, comunemente definiti benzolo, toluolo e xilolo.

Sr-90 o stronzio-90: isotopo radioattivo dello stronzio. Si forma nelle esplosioni nucleari e, attraverso la catena alimentare, può entrare nell’organismo umano, dove tende a fissarsi nelle ossa e nei denti, causando l’insorgenza di gravissime malattie da radiazione. Trova applicazioni come tracciante in medicina ed in biologia.

Tensioattivi: sostanze che, sciolte in piccola quantità in soluzioni acquose, ne diminuiscono la tensione superficiale, aumentandone il potere bagnante. Come conseguenza si ha un aumento delle proprietà schiumogene, detergenti, emulsionanti, disperdenti e della capacità di penetrazione in materiali porosi delle soluzioni acquose contenenti tensioattivi.

Terbutilazina: diserbante utilizzato sul mais. È un «non classificato» per i rischi umani, ma è stata documentata la sua incidenza sui tumori mammari dei topi. È altamente tossico per gli organismi acquatici quindi, a lungo termine, può avere effetti negativi sull’ambiente acquatico.

Trizio: isotopo radioattivo dell’idrogeno, che presenta un nucleo con un protone e due elettroni. Si forma in quantità più o meno rilevanti in tutti gli impianti nucleari, sia durante la fissione dell’uranio, sia nei reattori raffreddati ad acqua pesante, in seguito all’irraggiamento neutronico del deuterio. Può dare origine a diverse reazioni nucleari, sfruttabili per ottenere energia termonucleare, in modo controllato. Può essere usato in chimica, medicina e biologia, come tracciante radioattivo.

 

Roberto Topino e Rosanna Novara




Acqua alla gola (scempio e follia)

L’acqua un bene vitale in grave pericolo (prima puntata: la situazione italiana)

Un tempo, nelle acque del Po, il principale fiume italiano, era possibile la balneazione. Altri tempi. Oggi il fiume soffre di ogni sorta di inquinamento. E così gli altri corsi d’acqua, i laghi, i mari. Ipossia, anossia, eutrofizzazione: un disastro provocato dalle attività umane, mai adeguatamente regolamentate, mai interessate a salvaguardare i beni della collettività. Il conto è salato, anzi salatissimo. Forse impagabile.

Siamo abituati a fare giri in bicicletta sulle piste ciclabili torinesi, tra cui quelle che costeggiano i fiumi principali della nostra città, il Po ed il suo affluente, la Dora Riparia. Durante questi giri, ci è capitato di osservare varie situazioni di degrado, che interessano i due corsi d’acqua. Ciò che più ci ha lasciati allibiti è stata la scoperta di cospicui sversamenti di cromo esavalente nelle acque della Dora, provenienti dalla tristemente famosa Thyssen
Krupp e dalle Ferriere Fiat, di cui abbiamo già parlato (MC, luglio 2008).
Non basta: a livello della costruzione del nuovo passante ferroviario di Torino, nel punto in cui esso passerà sotto la Dora, attualmente si possono vedere vere e proprie montagne di «smarino», che poggiano per buona parte sulla «tombatura» del fiume (la Dora per quasi un chilometro è coperta da una soletta di cemento, che fungeva da base di una parte delle Ferriere) e su di loro passano camion, che continuano a versare materiale in grande quantità, mentre il letto del fiume è stato ridotto ad un terzo della sua ampiezza, sotto il ponte adiacente, per consentire gli scavi sotto il letto del fiume stesso.
Viaggiando invece in riva al Po, abbiamo osservato per mesi la realizzazione di una pista ciclabile sull’argine del fiume; per costruire questa pista sono stati riversati, direttamente nel fiume, macerie provenienti da cantieri edili e cemento, che sono andati ad occupare circa tre metri dell’ampiezza del letto del fiume.
Osservazioni del genere ci fanno chiedere in quali condizioni siano i corsi d’acqua nel nostro paese. In generale, quali sono le condizioni delle acque dolci, comprese quelle di falda, in Italia? E nel resto del mondo? In questa prima puntata della nostra rubrica prenderemo in considerazione la situazione italiana.

Poveri fiumi italiani

Il Po, il maggiore dei nostri fiumi (652 chilometri), percorre una delle aree più densamente popolate ed industrializzate del bacino del Mediterraneo: la pianura Padana, dove vivono circa 20 milioni di persone nonché 12 milioni tra bovini e suini d’allevamento, più diversi milioni di polli. Dalle abitazioni, dalle industrie e dagli allevamenti di bestiame viene immessa nel Po una quantità di rifiuti organici pari a quella di una popolazione di circa 119 milioni. Il fiume inoltre bagna quattro delle regioni più produttive d’Italia, cioè il Piemonte, la Lombardia, l’Emilia-Romagna ed il Veneto, regioni dove si trova circa il 50% dell’industria nazionale con una produzione annua di circa 25 milioni di tonnellate di rifiuti industriali, la maggior parte dei quali raggiunge l’Adriatico.
Un’analisi delle acque del Po, lungo tutto il suo percorso, eseguita da Legambiente nel 2005, ha rivelato che solo a Crissolo, in prossimità della sorgente, l’inquinamento è irrilevante, cioè di classe 1 (le classi d’inquinamento vanno da 1 a 5 e sono rispettivamente: 1 – non inquinato, 2 – lievemente inquinato, 3 – inquinato, 4 –  molto inquinato, 5 – gravemente inquinato). Procedendo verso valle, già a 50 Km dalla sorgente, cioè a Saluzzo, l’inquinamento è di classe 3. Nel tratto lombardo le cose peggiorano ed in provincia di Piacenza è stato rilevato un inquinamento di classe 4. Solo nel tratto da Guastalla (RE) al delta è stato rilevato un inquinamento di classe 2, ma questo esito potrebbe essere stato falsato dalle condizioni atmosferiche, caratterizzate da piogge intense, che hanno aumentato la portata del fiume, prima delle analisi. Probabilmente con una portata normale, i risultati sarebbero stati peggiori.
Secondo un rapporto dell’Istituto Ambiente Italia di maggio 2006, tra i grandi fiumi italiani solo l’Adige mantiene una qualità delle acque buona o sufficiente, mentre le condizioni del Po, del Tevere e dell’Ao sono critiche. Gli obiettivi di qualità chimica e biologica posti  per il 2016 sono oggi assolti solo da un terzo dei bacini idrici italiani, ma anche quelli posti per il 2008 sono pienamente rispettati solo in Trentino Alto Adige, Liguria e Valle d’Aosta, mentre le situazioni peggiori si hanno complessivamente in Emilia, Lazio, Lombardia, Marche e Campania. Nelle regioni meridionali, il sistema di monitoraggio è ampiamente insufficiente, infatti su 620 punti di campionamento, solo il 15% si trova nelle regioni meridionali e mancano del tutto i dati relativi alla Puglia ed alla Calabria.
Invece il Piemonte e la Valle d’Aosta rappresentano da sole il 23% dei dati nazionali. I dati si basano sull’indice SECA (introdotto dal Dlgs 152/99 sulla tutela delle acque), che integra i risultati delle analisi chimico-fisiche e microbiologiche (LIM) con i dati di qualità biologica dell’Indice Biotico Esteso (IBE), un parametro chiave per definire la qualità delle acque, che si basa sull’analisi della struttura della comunità d’invertebrati, che popola il letto dei fiumi. Secondo il Dlgs 152/99 entro il 2016 ogni corso d’acqua superficiale dovrà raggiungere lo stato di qualità ambientale «buono», per cui, entro il 2008, esso dovrà presentare almeno i requisiti dello stato di qualità ambientale «sufficiente».
Sempre secondo l’analisi di Legambiente, il 21% dei fiumi italiani risulta inquinato in modo da non raggiungere la sufficienza e ciò si verifica specialmente in Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Sicilia e Sardegna.

Come ti inquino un fiume, un lago, un mare

Che tipo di sostanze inquina i nostri fiumi? Possiamo innanzitutto dire che le sostanze inquinanti provengono dai settori civile, agro-zootecnico ed industriale. I principali inquinanti del settore civile sono le sostanze organiche biodegradabili. Il settore agro-zootecnico inquina con sostanze fertilizzanti, fitosanitari e pesticidi. L’industria invece emette sostanze organiche alogenate e metalli pesanti come mercurio, arsenico, cromo, cadmio e piombo. Oltre a queste sostanze, da ripetute analisi, effettuate nel Polesine sulle più comuni specie di pesci presenti nel Po, sono state rilevate quantità preoccupanti di diossina e di policlorobifenili (PCB), che rendono impossibile la pesca sul fiume, anche se purtroppo qualcuno comunque continua a pescare ed a mangiare questo tipo di pesci, correndo seri rischi, dato l’elevato potere cancerogeno della diossina e dei PCB.
Per quanto riguarda le sostanze biodegradabili organiche provenienti dal settore civile e da quello agro-zootecnico, la diretta conseguenza è il progressivo impoverimento di ossigeno delle acque, causato dai batteri, che assimilano e poi decompongono il materiale organico, consumando ossigeno in questa loro attività. Ciò determina un’ipossia, se non addirittura un’anossia delle acque, che progressivamente porta alla morte di ogni forma di vita presente e questo vale soprattutto per le acque marine, che ricevono dai fiumi l’enorme carico di sostanze organiche biodegradabili, in essi riversate. Inoltre i fertilizzanti agricoli riversano nelle acque dei fiumi enormi quantità di derivati dell’azoto e del fosforo, cioè sostanze nutrienti, che una volta raggiunto il mare favoriscono il fenomeno dell’eutrofizzazione, cioè l’abnorme crescita di alghe. Quando queste ultime muoiono, precipitano sul fondo marino e vengono degradate dai microrganismi esattamente come i liquami, accentuando così l’impoverimento d’ossigeno delle acque, con conseguente moria di pesci e perdita della biodiversità.
I problemi dell’impoverimento d’ossigeno delle acque e quello dell’eutrofizzazione stanno interessando allo stesso modo anche i principali laghi italiani. Il problema dell’inquinamento dei nostri fiumi e del Po in particolare è sorto dopo gli anni Sessanta, in concomitanza con l’espansione delle grandi città e degli impianti industriali, nonché con l’instaurarsi di un tipo di agricoltura e di allevamento intensivi. Prima di allora nelle acque del Po era possibile la balneazione. Ora è proibito fare il bagno, perché il rischio di malattie è estremamente elevato. Una curiosità: tra le malattie, che si possono contrarre facendo il bagno nei nostri fiumi, c’è la leptospirosi, malattia mortale per l’uomo, trasmessa dall’urina dei topi e dei ratti, che infestano le rive dei fiumi e più in generale le nostre città.

Stati Uniti: i diritti… degli inquinatori

I problemi legati all’inquinamento, di fiumi e laghi italiani sono presenti negli altri paesi industrializzati o in via di sviluppo, alla stessa maniera, se non peggio.
Vandana Shiva, nel suo Le guerre dell’acqua, riferisce il caso del fiume Cuyahoga a Cleveland, Ohio, Stati Uniti, che serviva da discarica per le industrie del luogo e che nel 1969 era così contaminato dai prodotti chimici, che prese fuoco.
Negli Stati Uniti, nel 1972 venne approvato il Clean Water Act, il quale stabiliva che nessuno può inquinare l’acqua e che tutti hanno diritto all’acqua pulita. Tale legge si poneva l’obiettivo di riportare entro il 1983 le acque dei fiumi in condizioni idonee per la pesca e per il nuoto. Purtroppo nel 1977, a seguito delle pressioni degli industriali, anziché puntare alla regolamentazione degli scarichi, si passò a considerare lo standard della qualità dell’acqua. Tale standard è stabilito dal governo, però, relativamente ad un’area designata e ciò in relazione all’acquisizione dei permessi di scarico o Tdp (Tradable Discharge Permits), da parte delle aziende, cioè una compravendita dei diritti d’inquinamento. In pratica, in tal modo, il governo passa da protettore del diritto all’acqua per tutti i cittadini, a quello di sostenitore dei diritti degli inquinatori. Tra l’altro, la quantità d’acqua necessaria per la fabbricazione di molti prodotti a livello industriale è impressionante e molto superiore a quella, che si consumerebbe fabbricando a mano lo stesso tipo e lo stesso quantitativo di prodotti. La lavorazione della pasta di legno per la produzione industriale della carta determina un consumo d’acqua tra i 270.000 e gli 855.000 litri per tonnellata di carta. La sbiancatura del cotone consuma dai 216.000 ai 324.000 litri d’acqua per tonnellata di cotone prodotto. Anche la modea industria informatica contribuisce in modo pesante all’inquinamento dell’acqua. Basta pensare al fatto che un singolo wafer di silicio da 6 pollici (cioè la piastra, su cui sono stampati i circuiti integrati e da cui si ottengono i chip che rappresentano, ad esempio, la memoria del computer, che stiamo usando, o quella di un telefono cellulare) richiede per la sua fabbricazione circa 10.237 litri d’acqua deionizzata, oltre a 90 metri cubi di gas generici, a 0,6 metri cubi di gas tossici, a 900 grammi di prodotti chimici ed a 285 kilowattore di energia elettrica. Se poi pensiamo al fatto che lo stabilimento Intel di Rio Rancho nel New Messico, di wafer di silicio ne produce 5.000 alla settimana…

Cina: un disastro dietro l’altro

Dall’altra parte del mondo, in Cina, dove è in corso una rivoluzione industriale senza precedenti, la situazione dei grandi fiumi, che bagnano il paese e dei loro affluenti, nonché dei laghi è, a dir poco, agghiacciante. Si calcola che siano inquinati il 90% dei fiumi e dei laghi cinesi, specialmente al nord, con oltre il 70% delle acque dei fiumi Giallo o Huang He (il più lungo dei fiumi cinesi, che va dall’altopiano del Tibet al golfo di Bo Hai, nel Mare Cinese orientale, dopo 5.460 Km), dello Huai e del Hai, nonché dei loro affluenti e che le loro acque siano troppo inquinate per l’uso umano.
I dati ufficiali dicono che oltre 320 milioni di contadini cinesi non hanno accesso all’acqua potabile e che circa 190 milioni bevono acqua sicuramente inquinata. Inoltre l’acqua inquinata dei fiumi viene usata per irrigare i campi, i cui prodotti vengono poi commercializzati ed esportati (ad esempio le mele Fuji, che troviamo nei nostri supermercati). Anche molti prodotti ittici provengono da zone altamente inquinate.
Tutto questo si sta traducendo in una strage silenziosa tra gli abitanti di molti villaggi, situati lungo le coste dei fiumi cinesi. Emblematico è il caso di un villaggio, Xiaojiadian, che si trova lungo le rive di un affluente del fiume Giallo, a 250 Km dal delta. Si tratta di un villaggio di circa 1.300 persone, dove negli ultimi cinque anni sono morte 70 persone, per cancro allo stomaco od all’esofago. Nei villaggi vicini, nello stesso periodo, sono morte altre 1.000 persone, per cause analoghe. A monte di questi villaggi, negli ultimi 20 anni sono sorte numerose concerie, cartiere ed industrie. In questa zona, l’incidenza del cancro all’esofago supera di 25 volte la media nazionale, al punto che il distretto di Dongping viene considerato la capitale mondiale del cancro, dagli oncologi che studiano questi casi. Peraltro, un rapporto del 2007 del ministero della Salute cinese imputava all’inquinamento atmosferico e delle acque un allarmante incremento dell’incidenza di tumori in tutta la Cina, in particolare del 19% nelle aree urbane e del 23% nelle aree rurali.
I problemi legati all’inquinamento vanno ad aggiungersi ad altri altrettanto gravi, che interessano questi fiumi ed in particolare il fiume Giallo, le cui acque vengono captate in enorme quantità: il 65% per l’agricoltura ed il resto dall’industria e dalle città in rapido sviluppo. Il risultato è che il fiume, già sottoposto a lunghi periodi di siccità, che sempre più caratterizzano la Cina, soprattutto nella sua parte settentrionale, pur essendo stato in passato responsabile di inondazioni catastrofiche, attualmente stenta a raggiungere il suo delta, essendo la sua portata ridotta ad un decimo di quella originale, ed in effetti, negli anni Novanta, per qualche tempo, non lo ha raggiunto affatto. Ciò comporta una concentrazione di sostanze tossiche, riversate nelle sue acque ed una grave ripercussione sia per quanto riguarda l’approvvigionamento idrico di moltissime città, sia per la produzione di cereali, la cui diminuzione inciderà pesantemente sul mercato cerealicolo mondiale. La crisi idrica cinese è sicuramente cominciata con l’instaurarsi di un clima più secco e caldo, che sta interessando l’intera regione, con un aumento del processo di desertificazione (basti pensare che sono già scomparsi 3.000 su 4.077 laghi nella provincia del Quinghai). Nei mesi estivi, le piogge sono così scarse, che il governo cinese ha attuato un programma di «inseminazione» delle nubi, consistente nel bombardare queste ultime, nell’area sovrastante la sorgente del fiume Giallo, con cristalli di ioduro d’argento, per aumentare il tasso d’umidità e stimolare le precipitazioni. La situazione di questo fiume, già resa precaria dal clima, che ne ha ridotto la portata, per effetto della riduzione del 7% all’anno dei ghiacciai, che lo alimentano, è resa ancora più difficile dalla presenza di 20 grandi dighe, che ne frammentano il percorso ed aggravano il problema della siccità.

Nel frattempo, il riscaldamento globale…

Come sappiamo il problema della siccità è una delle conseguenze del progressivo rialzo termico (vedi il riquadro di pagina 54), che sta interessando il nostro pianeta, grazie all’effetto serra causato dall’immissione nell’atmosfera di gas quali l’anidride carbonica, il metano, l’ossido di azoto ed i clorofluorocarburi, dispersi in miliardi di tonnellate annue sin dagli inizi della rivoluzione industriale.
In particolare, l’anidride carbonica (CO2), da sola, è responsabile del 50% dell’aumento della temperatura. Fonti primarie di questo gas sono i combustibili fossili (petrolio, benzina, carbone) e la deforestazione, soprattutto l’abbattimento delle foreste pluviali. Il metano (CH4), che è responsabile per il 18% del rialzo termico, è in aumento ed è rilasciato da batteri presenti in zone acquitrinose, come paludi, torbiere e risaie, ma è anche presente nell’apparato digerente dei ruminanti, come i bovini; la sua molecola ha un’incidenza sul riscaldamento terrestre 20 volte superiore a quella dell’anidride carbonica. L’ossido di azoto (N2O) aumenta nell’atmosfera dello 0,8% all’anno e con ogni probabilità è rilasciato dai fertilizzanti agricoli; la sua molecola, ai fini dell’effetto serra, ha una potenza 200 volte superiore a quella dell’anidride carbonica.
I clorofluorocarburi (CFC), oltre a distruggere la fascia dell’ozono atmosferico, hanno un notevole ruolo per l’effetto serra, poiché contribuiscono tra il 17% ed il 24%, ma soprattutto la loro molecola ha un effetto 20.000 volte maggiore di quello dell’anidride carbonica. I CFC sono usati negli impianti di condizionamento e nei refrigeratori, nonché nelle materie plastiche espanse, negli aerosol e nei solventi.
Se l’emissione di questi gas continuerà con il ritmo attuale (teniamo presente che le automobili sono tra le principali responsabili di queste emissioni), si calcola che la temperatura media della superficie terrestre aumenterà di un grado entro il 2030 e di tre gradi, entro la fine del secolo e questa sarà la prima volta che la terra si troverà ad affrontare un simile rialzo termico in così pochi anni, considerando che dall’ultima era glaciale la temperatura media è salita di 4-5 gradi in 10.000 anni. Peraltro il progressivo inaridimento, che già colpisce parecchie regioni della Terra, non sarà ubiquitario, dal momento che l’innalzamento della temperatura porterà ad un aumento dell’evaporazione acquea degli oceani, accelerando il ciclo dell’acqua. Sono piuttosto prevedibili situazioni sempre più estreme, con territori maggiormente colpiti da siccità ed altri da alluvioni, per l’estensione delle precipitazioni, conseguente all’aumento dell’umidità media in certe zone. Le temperature più alte porteranno ad una più rapida evaporazione acquea dalla terraferma e quindi il suolo si seccherà più velocemente. Già ora molti fiumi, come appunto il fiume Giallo, presentano una consistente riduzione della loro portata. Questa situazione sta già interessando anche l’Italia.

L’Italia s’inaridisce

Secondo i dati della Protezione civile l’Italia sta diventando in parte arida. Il problema viene inoltre aggravato dalle captazioni d’acqua a fini produttivi e ad uso civile. In particolare per l’agricoltura vengono captati 20 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno, cioè il 49% di tutta l’acqua disponibile (nel resto d’Europa, il consumo per uso agricolo rappresenta il 30%), mentre l’industria ne consuma il 21% e per gli usi civili se ne capta il 19%.
L’enorme quantitativo d’acqua usato in agricoltura è strettamente correlato alla necessità di foraggio per gli allevamenti intensivi di bovini e di suini, oltre naturalmente alle colture per uso alimentare umano.
Un ulteriore problema, che sicuramente in Italia non incentiva al risparmio dell’acqua in agricoltura e nell’industria è il suo costo, che è in media di 52 centesimi di euro al metro cubo per uso civile, mentre per uso agricolo o industriale costa cento volte di meno. Inoltre, in certi casi i reali consumi per uso agricolo non sono nemmeno fatturati, oppure viene fatto un forfait. È chiaro che finché non ci sarà corrispondenza tra il costo ed il consumo reale dell’acqua, saranno pochi gli agricoltori che limiteranno le irrigazioni.
Ci sono poi le aziende imbottigliatrici di acque minerali (cfr. il Dossier di MC del giugno 2006) , che, pagando l’acqua ad una cifra irrisoria (meno di un centesimo di euro al metro cubo), realizzano guadagni esponenziali (al supermercato un metro cubo d’acqua minerale vale mediamente 516 euro). Infine, lo spreco d’acqua dovuto ai singoli individui, ma anche alle perdite nelle condotte, che si lasciano dietro il 42% dell’acqua captata, che non giungerà a destinazione (con la punta massima del 70% a Cosenza). 
(Fine prima puntata – continua)

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

Riscaldamento globale ed informazione

Colpi di sole

La mancanza di responsabilità verso le problematiche ambientali è conosciuta. Soprattutto in Italia. Eppure esistono giornalisti che, minimizzando o addirittura negando i problemi, incentivano l’illusione che le attività umane non siano dannose per la terra e per il futuro di tutti. 

L’Amazzonia è sempre presa come esempio di disastro ambientale inarrestabile. Ma – purtroppo – non c’è soltanto il polmone del mondo in pericolo. Secondo un recente libro fotografico1 dell’agenzia Onu per l’ambiente (United Nations Environment Programme, Unep), negli ultimi 30 anni l’Africa ha subito mutamenti devastanti: ghiacciai che scompaiono (ad iniziare dal Kilimangiaro in Tanzania), deforestazione selvaggia, biodiversità a rischio. Ma occorre andare lontani per vedere i disastri prodotti dal riscaldamento climatico (global warming): il Trentino, terra di montagne innevate (almeno fino a qualche anno fa) e boschi, da anni vede i propri ghiacciai (sono 83) assottigliarsi (uno per tutti, l’Adamello, il più esteso delle Alpi italiane). A tal punto che la provincia di Trento ha messo in campo iniziative di studio e ricerca per affrontare il problema2.

Scetticismo contro precauzione – Nel 1992, al Summit di Rio, si formalizzò il «principio di precauzione» per le questioni ambientali. Quel principio è stato clamorosamente disatteso, come dimostra l’affossamento del Protocollo di Kyoto (1997), che pure è molto timido nel fissare limiti alle emissioni di gas serra (anidride carbonica e metano, in primis). Nel frattempo, nei 15 anni trascorsi da Rio, la situazione ambientale si è notevolmente aggravata e gli studi scientifici hanno dato conferme alle ipotesi iniziali. «Catastrofismo ed esagerazioni», qualcuno nega l’evidenza stessa. Come giustamente sostiene Mario Tozzi, «lo scetticismo è il sale della scienza». Ma, secondo il ricercatore e giornalista scientifico, la stragrande maggioranza degli scienziati «dice la stessa cosa, cioè che il clima sta cambiando e che al 90% è colpa nostra».

La situazione secondo i rapporti Onu – Nel suo quarto rapporto (2007)3, il Comitato internazionale sul cambiamento climatico (Ipcc) afferma che «il riscaldamento del sistema climatico è inequivocabile, come evidenziano gli aumenti riscontrati della media mondiale della temperatura dell’aria e dell’oceano, il disgelo generalizzato di nevi e ghiacciai e l’aumento della media mondiale del livello del mare». Secondo il rapporto redatto dai 2.500 scienziati dell’Ipcc, le cause sono da ricercare nella concentrazione di gas serra che sono aumentati notevolmente a causa delle attività umane a partire dal 1750, ma in maniera particolare negli ultimi 50 anni.   
Ma non è tutto qui. I mutamenti climatici, infatti, esasperano le ingiustizie tra ricchi e poveri, tra Nord e Sud del mondo, come ha evidenziato l’ultimo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp): le conseguenze dei cambi climatici – siccità, inondazioni, eventi meternorologici estremi, migrazioni forzate – colpiscono tutti, ma i più deboli in particolare. «Sono i più poveri – si legge nel rapporto4 -, che non hanno contribuito e continuano a non contribuire in misura significativa alle emissioni di gas serra, a essere i più vulnerabili».

Il fantomatico «complotto» ambientalista – Nonostante la netta maggioranza degli scienziati concordi sul riscaldamento globale e sulle cause che lo determinano, ci sono giornalisti e divulgatori che negano il problema e così facendo producono disinformazione molto dannosa, considerando lo scarso spirito di responsabilità che politici, amministratori e cittadini hanno nei confronti dei problemi ambientali. In Italia, paese noto per la scarsissima vocazione ambientalista, stanno percorrendo questa strada due giornalisti del quotidiano Avvenire, Riccardo Cascioli e Antonio Gasperi, che sull’argomento hanno sfornato ben tre libri (citati a piè di pagina), tutti incentrati sulla negazione del riscaldamento globale e – udite, udite – su un presunto «complotto ambientalista», ordito da Onu, Ipcc, No-global ed associazioni. Le ardite tesi ed argomentazioni di Cascioli e Gasperi sono scientificamente smontate in un recente libro di Stefano Caserini (vedi piè pagina), professore al Politecnico di Milano, che nella premessa scrive: «Alla base del negazionismo italiano ci sono ragioni forse più di ordine psicologico e sociologico, la volontà di difendere l’attuale modello di sviluppo senza metterlo in discussione o la ricerca della visibilità che dà il cantare fuori dal coro; oppure, semplicemente, la pigrizia. “L’uomo non c’entra” è una tesi comoda, evita le grane delle politiche ambientali; obiettivo raggiunto anche dalle successive evoluzioni del pensiero negazionista: “ridurre le emissioni costa troppo” e “il riscaldamento globale fa bene”».

Gli irresponsabili difensori dello status quo – Di norma, in un mondo dominato dal «pensiero unico», sarebbe auspicabile e benvenuta una partecipazione critica alle scelte che influiscono sulla vita delle persone. Come ben sappiamo, ciò non avviene. Ironia della sorte (o mero prodotto dell’insipienza umana), il pensiero unico viene a mancare proprio dove invece servirebbe.
Sembrava che le problematiche ambientali potessero spingere gli stati ad unire le energie per affrontare questioni di enorme portata. In tutta evidenza, dal protocollo di Kyoto fino all’ultima riunione (luglio 2008) del G8 a Hokkaido, in Giappone, non è così. C’è sempre qualche presidente (di uno stato o di una multinazionale) che preferisce difendere lo status quo. E c’è sempre qualcuno pronto a scrivere che quel presidente ha ragione e che quegli scienziati raccontano «balle» (sì, è proprio questo il termine utilizzato).

di Paolo Moiola

Roberto Topino e Rosanna Novara




SEPOLCRI IMBIANCATI (e lacrime di coccodrillo)

Le morti sul lavoro in Italia: numeri da guerra civile

Le chiamano «morti bianche», ma di quel colore hanno poco o nulla.  È una vera e propria strage
(1.300 morti all’anno, 900.000 infortunati), che avviene quotidianamente nell’indifferenza dei più.  E poi, sempre correlate agli ambienti di lavoro, ci sono  le morti silenziose, quelle che non finiscono sui media. Ma che uccidono altrettanto o di più.

Sembra un bollettino di guerra: tutti i giorni qualcuno muore sul lavoro. I giornali parlano soprattutto dei decessi dovuti ad eventi traumatici. Scoppi, incendi, frane, allagamenti, crolli, scontri, investimenti e, in genere, tutti gli eventi che causano decessi improvvisi, fanno notizia e vengono riportati dai grandi mezzi di informazione.
Purtroppo le morti bianche, che finiscono sulle prime pagine dei giornali, sono soltanto la parte più conosciuta degli eventi luttuosi correlati con gli ambienti di lavoro, ma c’è una parte, meno conosciuta e anche meno considerata, che viene spesso definita la strage silenziosa.
Negli ambienti di lavoro vengono utilizzate molte sostanze che sono dei veri e propri veleni. Gli acidi, ad esempio, sono irritanti e causano effetti immediati sulla cute e sulle mucose; il lavoratore sente subito l’effetto di queste sostanze e cerca di evitare il contatto con esse, limitando in parte i loro effetti nocivi. Altre sostanze, come l’amianto e il piombo, hanno un’apparenza che non fa sospettare un pericolo, ma possono avvelenare ed uccidere a distanza di tempo. Un cenno a parte lo meritano le radiazioni ionizzanti: non si vedono, non si sentono, ma possono causare, a seconda dei tempi e delle dosi, ustioni gravissime e tumori.
I lavoratori, quasi sempre, non vengono informati dei rischi che corrono, anzi spesso vengono indotti a credere che non ci siano rischi. Pertanto, possono cercare di difendersi soltanto dalle sostanze irritanti, ma non da quelle i cui rischi vengono taciuti e nascosti.

La sicurezza costa, ma con la globalizzazione…

Col passare del tempo, con la diffusione delle informazioni e con l’applicazione delle leggi di tutela dei lavoratori, gli ambienti di lavoro sono migliorati e la possibilità di ammalarsi a causa delle sostanze utilizzate è progressivamente diminuita.
Purtroppo, di pari passo, a causa degli investimenti per la sicurezza e le spese per i risarcimenti per i malati professionali, il costo del lavoro è aumentato con la conseguenza che gli industriali hanno cominciato a chiudere gli stabilimenti nelle aree progredite per aprirli nei paesi del cosiddetto terzo mondo, dove si lavora per una miseria e non c’è nessuna tutela dei lavoratori né dell’ambiente.
Si chiama globalizzazione, dà un risparmio immediato nella produzione, ma aumenta la disoccupazione nei paesi industrializzati.
La disoccupazione, in questi paesi, è causa di una grave crisi economica e sociale, che porta alla difficoltà per molte persone di realizzare i propri progetti familiari, di avere dei figli oppure di dare loro un’istruzione adeguata.
Si assiste quindi ad un progressivo impoverimento culturale e generale della nazione e spesso ad un aumento della criminalità, nonché alla diffusione delle tossicodipendenze, che per molti rappresenta la fuga da una realtà difficile da accettare. L’impoverimento culturale rende inoltre la nazione meno competitiva rispetto ad altri paesi e quindi progressivamente più soggetta alla necessità di importare prodotti esteri.
È evidente e comprensibile che il lavoratore occupato, che guadagna bene, produce e compra, determinando un miglioramento dell’economia generale della sua nazione.

Le fonderie,  prodotti e scorie tossiche

Il discorso delle malattie professionali è molto vasto, richiederebbe un trattato e non si può riassumere in queste poche pagine, pertanto in questo numero parleremo soltanto dell’industria siderurgica della produzione dell’acciaio rinviando ad altri numeri futuri le altre lavorazioni.
Le fonderie si dividono in due grandi gruppi: quelle di prima fusione e quelle di seconda fusione.
La prima fusione è quella degli altifoi dove si fanno reagire il carbone e il minerale ferroso, ricavando il ferro, che viene, per l’appunto, fuso per la prima volta.
Le fonderie di seconda fusione partono dai rottami ferrosi e sono le più diffuse.
A causa del grande calore necessario per la fusione, tutte le attrezzature che vengono utilizzate contengono materiali refrattari e resistenti al calore, che sono la silice libera (che causa le silicosi) e l’amianto o asbesto (che causa l’asbestosi).
La silicosi e l’asbestosi sono due malattie simili, provocate rispettivamente dall’accumulo di silice o di amianto nei polmoni, con la conseguente progressiva riduzione della capacità respiratoria.
La silicosi e l’asbestosi sono le malattie professionali che si riscontrano più frequentemente tra gli operai, che hanno lavorato nelle fonderie.
La fusione dell’acciaio richiede anche l’utilizzo di altri metalli (cromo e nichel soprattutto), che servono per ottenere materiali di qualità superiore (acciai inossidabili).
L’acciaio, dopo essere stato ridotto in fogli sottili, definiti lamiere, subisce ancora trattamenti chimici di superficie per aumentare la sua resistenza alla corrosione.
Le lamiere, infine vengono arrotolate e spedite in altre fabbriche dove verranno tagliate, stampate e veiciate per fare manufatti di tutti i tipi, dalle automobili, agli elettrodomestici.
Queste lavorazioni determinano un grande inquinamento sia degli ambienti di lavoro, che di quelli estei.
Evidente è la formazione di polveri di silice e di amianto, ma non bisogna trascurare la produzione di diossine, di policlorobifenili, di polveri sottili e di metalli pesanti che vengono dispersi sia nell’aria, che nelle acque di scolo.
Per quanto riguarda la produzione di diossine, va detto che le acciaierie sono le più grandi produttrici di queste pericolosissime sostanze, che, purtroppo, tendono ad accumularsi nel terreno e nei tessuti delle persone che vivono nei paraggi o che si nutrono con i prodotti coltivati nei pressi di queste industrie.
Noto è il riscontro di diossine nel latte dei bovini allevati in aree dove sono presenti acciaierie.
Un altro rischio di notevole importanza riguarda la presenza di cromo e di nichel, due metalli, che sono stati riconosciuti come cancerogeni certi dalla comunità scientifica internazionale.
Abbiamo spiegato prima che questi metalli sono stati utilizzati per la formazione di leghe speciali e per i trattamenti di superficie dell’acciaio ed è pertanto normale trovarli negli scarichi industriali e nelle aree occupate dalle acciaierie.

Lo scandalo  «Dora cromata»

Una vasta area di Torino è stata per quasi un secolo occupata dalle cosiddette Ferriere, che producevano acciai speciali.
La fonderia e la fabbrica, in cui si svolgevano le operazioni di cromatura, si trovavano nell’area della Spina 3, che attualmente viene definita Vitali, dal nome della preesistente acciaieria, ora demolita, dove sono in corso lavori per la realizzazione di un quartiere residenziale.
Le analisi effettuate prima dell’inizio dell’apertura dei cantieri hanno riscontrato la presenza di una quantità impressionante di cromo esavalente nella falda sottostante l’area, a pochi metri dalla superficie.
Tutti i dettagli dei sondaggi si possono leggere nei 3 box a parte, dove vengono illustrati dati, che provengono dai documenti ufficiali del comune e della ditta che esegue i lavori.
Anche senza leggere i risultati degli studi effettuati, è evidente che l’area è inquinata da qualcosa di provenienza industriale. Qualche mese fa, un cittadino, che passava su un ponte della Dora a Torino, ha notato che da alcuni scarichi fognari usciva un liquido verde brillante e ha fatto delle fotografie, che sono state pubblicate da un giornale locale.
L’ipotesi più verosimile è che si trattasse di cromo esavalente sottoposto a trattamento chimico per trasformarlo in cromo trivalente, meno pericoloso, che assume un colore verdastro.
Ancora in questi giorni è possibile notare un liquido, dal caratteristico colore giallo del cromo esavalente, uscire da un cunicolo e versarsi direttamente nella Dora, nel punto dove si trovavano gli scarichi dell’acciaieria.
È da tempo che i cittadini, che abitano la zona inquinata, segnalano la loro preoccupazione. Anni fa, uscì un articolo su un giornale di Torino in cui si riportava la denuncia del comitato di quel quartiere: la popolazione locale lanciava l’allarme, diffidando politici, amministratori torinesi e imprese a costruire aree residenziali su terreni altamente contaminati dalla preesistente acciaieria. Si parlava proprio della contaminazione della Dora con liquidi pericolosi defluiti dalla fabbrica, della mancata bonifica dei terreni, dei tumori che avevano colpito gli operai in pensione e altro ancora.
Dopo l’uscita dell’articolo gli amministratori locali assicurarono che era tutto sotto controllo e che non c’era problema di sorta, che erano state predisposte vasche di filtrazione, che l’area era stata bonificata. Venne, forse, aperta un’inchiesta, ma i lavori andarono avanti perché le Olimpiadi erano imminenti e bisognava realizzare il villaggio per i giornalisti. Uno sguardo ai progetti, alle mappe e ai documenti ufficiali ha consentito di chiarire tutto.
L’area, impregnata di cromo esavalente, non è stata bonificata e attualmente il metallo cancerogeno sta inquinando la falda idrica e la Dora.

Thyssen, Thyssen 

Abbiamo cercato altre informazioni con i mezzi a nostra disposizione e abbiamo scoperto che, poche centinaia di metri a monte anche l’acciaieria Thyssen Krupp ha versato nella Dora e nelle fognature, tonnellate di cromo e di nichel, due metalli cancerogeni di prima classe.
I dati precisi degli scarichi pericolosi sono reperibili in rete sui siti dell’Ines (Inventario Nazionale delle Emissioni e loro Sorgenti) e dell’Eper  (European Pollutant Emission Register), che sono registri integrati nati nell’ambito della direttiva 96/61/CE, meglio nota come direttiva Ippc (Integrated Pollution Prevention and Control). Questi registri consultabili da tutti sono il risultato di un approccio integrato alla gestione ambientale, che coinvolge i governi, le industrie e il pubblico e dà la possibilità a chiunque di esercitare il proprio diritto di accesso alle informazioni ambientali.
Recentemente l’Arpa ha confermato l’esattezza dei dati, ma ha spiegato che non è tanto importante la quantità di materiale versato, ma piuttosto la concentrazione di questi materiali scaricati nella Dora, con l’autorizzazione della Provincia di Torino.
Un tecnico dell’Arpa ha spiegato che 500 chilogrammi di cromo sciolti nella quantità totale di acqua versata nella Dora in un anno (più di sei milioni di metri cubi) restano diluiti al punto da rientrare nei limiti di concentrazione previsti dalla legge per gli scarichi industriali.
Va chiarito che il rispetto dei limiti di legge (non solo in questo caso) non mette al riparo la popolazione dai rischi per la sua salute, perché mezza tonnellata di materiali altamente e certamente cancerogeni, anche se diluita parecchio, resta sempre mezza tonnellata e sarebbe giusto chiedersi dove è andata a finire, visto che in alcuni punti del Piemonte la concentrazione di cromo esavalente nella falda supera i limiti consentiti.

La legge, a tutela di chi? 

La legge prevede dei limiti per la concentrazione di cromo nelle acque, ma ci sono due normative. Il limite sanitario di concentrazione ammissibile nell’acqua potabile è di 50 µg/litro come cromo totale, mentre la norma di tutela ambientale pone invece il limite di 5 µg/litro di cromo esavalente. Il superamento del limite previsto per le acque di falda impone la ricerca delle cause e l’eventuale bonifica. In questi casi il sindaco, come massima autorità sanitaria, può disporre la chiusura dei pozzi.
La legge, in questo caso, non tutela la salute dei cittadini, perché gli esperti confermano che il cromo presente nell’acqua potabile è quasi tutto esavalente, per via della sua solubilità, pertanto è possibile bere acqua «a norma di legge» con quantità notevoli e pericolose di cromo esavalente. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

Torino / Lo scandalo «Dora cromata» (1)

ACQUA AL «CROMO ESAVALENTE»

Bonificare costa, fa ritardare i programmi delle imprese costruttrici e, in buona sostanza, ritarda l’arrivo dei profitti. Tutte «buone» ragioni per minimizzare il problema o far lavorare l’oblio. Tanto i danni sulla salute si vedranno tardi e comunque vallo a dimostrare…

Nel corso delle indagini ambientali, condotte nel 2002 presso la sede dell’ex acciaieria Vitali a Torino (1), è stata riscontrata una situazione di contaminazione dovuta alla presenza di cromo esavalente in concentrazioni eccedenti il limite di 5 µg/litro fissato dal DM 471/99 per le acque sotterranee. Con un massimo pari a 455 µg/litro in corrispondenza del pozzo di monitoraggio P4.
La sorgente principale del cromo esavalente è stata individuata nelle vasche di neutralizzazione e di filtrazione, nonché nell’area di terreno dove era presente la lavorazione di cromatura. In virtù dell’elevato valore di cromo esavalente riscontrato, è stata decisa l’installazione di un sistema di pompaggio e di trattamento con solfato ferroso dell’acqua di falda, definito Pump & Treat, che, come prevedibile, ha dato risultati modesti.
Gli ultimi monitoraggi indicano che i valori di concentrazione del cromo esavalente, dal 2003 al 2005, sono rimasti superiori ai valori stabiliti dal DM 471/99 e dal DLgs 152/06 e pressoché costanti sia nell’area dello stabilimento, che immediatamente a valle di esso. Un documento del 7 settembre 2006 conferma che la principale contaminazione nella falda è costituita dal cromo esavalente in concentrazioni, rilevate in occasione delle più recenti campagne di monitoraggio della falda, fra 10 e 50 µg/litro, con un picco di 282 µg/litro, presso il già citato pozzo P4.

Il sito dell’acciaieria, fin dall’inizio del ‘900 sede di attività di tipo industriale siderurgico, ha una superficie di 250.000 metri quadri, che dovrebbe essere destinata ad uso pubblico e residenziale.
Tale area è risultata contaminata da scorie di acciaieria con superamento dei limiti consentiti da parte dei principali metalli pesanti (nichel, cromo e cromo esavalente). L’inquinamento è stato riscontrato anche all’esterno del sito, dove sono stati trovati degli strati di riporto contenenti scorie di acciaieria. Il volume delle scorie è stato stimato in circa mezzo milione di metri cubi. Sono stati riscontrati anche altri contaminanti in quantità superiore ai limiti. Visto l’elevato volume di scorie di acciaieria presente e considerato che il costo di conferimento in discarica è stato stimato pari a circa 80 milioni di euro (nel 2003), l’intervento di rimozione di tutta la massa dei rifiuti è stato valutato non compatibile con il valore dell’area.
È stato deciso di rimandare ad un approfondimento con la Smat la decisione di autorizzare lo scarico delle acque provenienti dal trattamento nella rete fognaria o nelle acque superficiali. Le determinazioni più recenti consistono nella preclusione alla realizzazione di pozzi ad uso idropotabile, nell’area costituita dalla prevedibile estensione della situazione di contaminazione da cromo esavalente dopo un tempo di 50 anni.
La Provincia di Torino ha richiesto alcune integrazioni, perché ritiene che dopo lo spegnimento dell’impianto Pump & Treat, con un possibile nuovo aumento dei valori di cromo esavalente, bisognerebbe installare un pozzo di monitoraggio nel punto limite presunto di contaminazione. La Provincia ha anche richiesto un monitoraggio di carattere permanente e la registrazione sugli strumenti urbanistici dei vincoli derivanti dal permanere di acque sotterranee contaminate, al fine di garantire nel tempo la tutela della salute pubblica ed una adeguata protezione dell’ambiente.

Il cittadino potrebbe porsi alcune domande: non era il caso di informare la popolazione, che sembra all’oscuro di tutto?; non conveniva bonificare l’area subito, invece di programmare interventi di monitoraggio per 50 anni? l’acqua e la salute delle persone non sono beni preziosi? non valgono di più del costo stimato per la bonifica? perché in nessun punto dei documenti acquisiti viene precisato che il cromo esavalente è un cancerogeno di prima classe al pari del benzene, dell’amianto, delle ammine aromatiche e delle radiazioni ionizzanti?

R.Topino e R. Novara

(1) E precisamente nel quadrilatero compreso tra via Borgaro, via Verolengo, via Orvieto e corso Mortara.

Torino / Lo scandalo «Dora cromata» (2)

Il cromo e i suoi composti

È un elemento chimico, appartenente al IV periodo ed alla prima serie di transizione del sistema periodico degli elementi. Non è molto diffuso in natura (circa 100 ppm sulla crosta terrestre), dove non è mai libero, ma combinato in diversi minerali, tra cui la più importante è la cromite. Il cromo si presenta come un metallo bianco argenteo, le cui proprietà meccaniche dipendono dal grado di purezza. A temperatura ambiente, il cromo resiste abbastanza bene a molti agenti chimici, tra cui l’ossigeno, ma viene attaccato facilmente dagli acidi non ossidanti diluiti, come l’acido cloridrico, solforico e fluoridrico.
I principali composti del cromo corrispondono a stati di ossidazione di questo elemento, che vanno da -2 a +6, con una netta prevalenza per gli stati +2 (bivalente), +3 (trivalente) e +6 (esavalente). Per valenza si intende la capacità dell’elemento di formare legami covalenti (molto stabili e ad elevatissimo contenuto energetico) con altri elementi. Nel caso del cromo +2 abbiamo ad esempio l’ossido cromoso CrO, dove entrambi gli elementi cromo ed ossigeno sono bivalenti; il cromo +3 dà con l’ossigeno l’ossido cromico Cr2O3, mentre il cromo +6 dà il triossido di cromo CrO3. Diversi composti del cromo, tra cui l’ossido cromico (verde cromo) ed il cromato di piombo (giallo cromo) PbCrO4 hanno un largo impiego come pigmenti per veici e nella lavorazione del vetro e della ceramica, mentre altri sali, tra cui l’allume di cromo, il solfato basico di cromo, il cromato ed il dicromato di sodio, vengono impiegati per la concia delle pelli, nell’industria tessile e delle tinte, nonché per la preparazione di diversi prodotti chimici.
La maggior parte dei composti del cromo, in particolare di quello esavalente, presentano un elevato grado di tossicità per tutti gli organismi viventi, poiché si comportano come energici ossidanti delle sostanze organiche, caratterizzanti la materia vivente.

R.Topino e R. Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




Dai «termovalorizzatori» alla raccolta differenziata

Ancora lettere sui rifiuti

Dopo i gravi fatti accaduti in questi giorni a Napoli per le grandi quantità di rifiuti che si stanno accumulando per le strade, i giornali e le televisioni stanno presentando come unica soluzione quella dei termovalorizzatori, che, sempre secondo tutti gli organi di informazione, possono distruggere i rifiuti, trasformandoli in energia pulita, senza rischi per la popolazione, in virtù dei modei sistemi di abbattimento delle sostanze inquinanti presenti nei fumi.
Alcuni giornalisti hanno riferito, ad esempio, che l’aria di Brescia non risente della presenza del termovalorizzatore ed è «così pulita, che più pulita non si può» (La Stampa, 8 gennaio 2008), e che presso l’inceneritore di Granarolo (Bologna) pascolano mucche che producono latte di alta qualità (Porta a Porta, Rai1, 8 gennaio 2008).
Altre fonti hanno riferito che la quantità di diossina prodotta dagli inceneritori è paragonabile a quella di una strada un po’ trafficata e che i grandi produttori di diossina sono le acciaierie e fonderie, che non vengono contestate.
Tempo fa ho letto su Missioni Consolata un articolo di «Nostra madre terra», che parlava chiaramente dell’imbroglio dei termovalorizzatori, e vorrei sapere se l’evoluzione della tecnica ha effettivamente ottenuto una riduzione del rischio degli impianti di trattamento dei rifiuti o se siamo di fronte a una informazione distorta e manipolata ad arte dalle lobby inceneritoriste.
Sarei curioso di sapere cosa dicono i medici, che sarebbero i più qualificati per dare risposte su problemi che riguardano la nostra salute e il fatto che nessuno di loro sia stato interpellato o abbia parlato pubblicamente mi ha insospettito. C’è forse qualche forma di censura da parte dei media?
In attesa di un gradito riscontro, porgo cordiali saluti.

Margherita Bechis
Torino

I n queste settimane di emergenza rifiuti in Campania, quasi tutti i mezzi di informazione hanno presentato i termovalorizzatori come la soluzione ideale del problema. È possibile che si tratti di disinformazione, correlata a interessi legati alla realizzazione di tali impianti, o che si tratti di un’informazione superficiale, che non controlla le fonti e che trascura, ad esempio, i pareri dei medici, che sono le persone più qualificate per giudicare una situazione che riguarda la salute pubblica.
In ogni caso siamo di fronte a una informazione che non tiene in nessun conto i principi fondamentali della fisica, della chimica e della medicina.
La situazione di Napoli non si potrebbe definire di emergenza, perché è almeno un decennio che il problema dei rifiuti è presente. In Campania c’era un piano, che prevedeva di realizzare un mega-appalto, che avrebbe risolto il problema, dando a una grande azienda del Nord la gestione dei rifiuti, chiudendo tutte le discariche e realizzando sei impianti di Cdr, il cosiddetto «combustibile da rifiuti». Nell’attesa della realizzazione del termovalorizzatore di Acerra, un impianto di selezione dei rifiuti ha prodotto dei pacchi (le «ecoballe»), che dovevano essere costituiti dalla parte combustibile dei rifiuti.
Alcuni osservatori attenti, hanno notato che questi pacchi contenevano anche rifiuti che non avevano le caratteristiche previste e hanno informato l’autorità giudiziaria, che ha iniziato un’indagine, ha fermato i lavori e ha messo sotto sequestro parte degli impianti. Tra coloro che hanno presentato le denunce alla Procura della Repubblica, c’è anche il ministro dell’ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, del quale molti avevano chiesto le dimissioni.
Intervistato da «Ambiente Italia» di Rai3, il senatore Tommaso Sodano, presidente della Commissione ambiente del senato, ha parlato dell’inchiesta sui rifiuti in Campania, partita nel 2002 anche dopo le sue denunce, che ha raccolto 100 mila pagine di documenti.
Mentre si attendono le decisioni della magistratura, è partita una specie di offensiva mediatica, che sembra aver lo scopo di convincere la gente che l’unica soluzione possibile per risolvere il problema sia quella di costruire altri termovalorizzatori.
In questo contesto ben si inseriscono le osservazioni della gentile signora che ci scrive. L’immagine evocata a «Porta a Porta» delle mucche che pascolano tranquillamente nei pressi dell’inceneritore di Granarolo dell’Emilia è sembrata, non solo a me, più preoccupante che rassicurante, in virtù di quanto sta accadendo a Brescia, all’ombra del «miglior termovalorizzatore del mondo», che è stato realizzato in un’area già fortemente inquinata a causa della presenza di un’industria chimica.
La Stampa ha scritto che a Brescia «tengono l’aria così pulita che più pulita non si può» (sic!) e infatti molti sono convinti che il termovalorizzatore non sia inquinante. In realtà tutti coloro che hanno studiato gli effetti sulla salute degli impianti di incenerimento dei rifiuti hanno rilevato un aumento dell’incidenza di tumori, malattie cardiovascolari e malformazioni nei bambini.

T ra le centinaia di composti tossici emessi dai camini degli inceneritori merita particolare attenzione la diossina, la cui presenza viene in genere negata da coloro che vogliono realizzare questi impianti.
Per farsi un’idea della grande quantità di diossina (e non solo) emessa da un impianto di incenerimento di quella taglia, basta leggere il recente libro di Mario Tozzi «Gaia. Un solo pianeta», dove il noto scienziato, dati alla mano, riferisce che anche quando i monitoraggi indicano valori entro i limiti di legge o addirittura zero, il rischio resta grave e reale per le persone che vivono nei dintorni dell’impianto.
Quanto illustrato da Mario Tozzi sembra spiegare i recenti fatti di Brescia, dove tre aziende agricole si sono viste respingere il latte dalla Centrale per eccesso di diossina e dal 7 dicembre (visto che le incolpevoli 150 vacche coinvolte vanno comunque munte ogni giorno) portano il prezioso liquido alla distruzione.
Altre sette aziende agricole dell’area sono sotto stretta osservazione, perché anche nel loro latte è stata trovata diossina.
La vicenda delle diossine nel latte è oltremodo preoccupante, perché si colloca in un contesto in cui, come è noto, i bresciani hanno già una concentrazione elevatissima di queste sostanze nel sangue (più che a Seveso). Il fatto che, dopo il disastro Caffaro, a Brescia circoli del latte con le diossine oltre i 6,5 picogrammi per grammo di grasso (ma sarebbe intollerabile anche se le diossine fossero di poco sotto i 6 pg) è scandaloso, se si tiene conto che mediamente le diossine nel latte italiano risultano al di sotto di 1 pg/gr grasso.
Marino Ruzzenenti del Forum Ambientalista di Brescia, studioso del caso Caffaro e delle ricadute ambientali dell’inceneritore cittadino afferma: «Abbiamo richiesto più volte all’Arpa di svolgere un’in­dagine sulle ricadute al suolo di diossine e altri inquinanti nell’area circostante l’inceneritore dell’Asm e l’Alfa Acciai, ma, nonostante tanti solleciti e un esposto in procura, l’indagine non è mai stata fatta».
Gli ambientalisti di Brescia, in un documento diffuso in rete, chiedono che Arpa e istituzioni finalmente si liberino da ogni sudditanza nei confronti delle aziende responsabili di queste emissioni nell’ambiente, rimediando anche allo scandalo dell’immotivata soppressione della centralina di via Bettole, l’unica che rilevava la qualità dell’aria nella zona di maggior impatto di questi impianti industriali.
La soppressione di questa centralina, a suo tempo appositamente posizionata dai tecnici della provincia, non è mai stata motivata dalla nuova direzione dell’Arpa di Brescia, autorizzando i cittadini a pensare che ciò sia avvenuto per non «disturbare» appunto l’attività di quegli stessi impianti a fortissimo impatto ambientale.
I comitati ambientalisti di Brescia attendono da parte della Magistratura, finalmente, un’azione incisiva per garantire l’informazione alla popolazione, per la tutela della salute e dell’ambiente e perché vengano perseguiti i colpevoli dei danni di cui trattasi, nonché delle omissioni nei controlli. Un testo, a firma di Marino Ruzzenenti e riportato integralmente sul sito di Beppe Grillo, dice testualmente: «A Brescia vi sono inquietanti analogie con la Campania: nel latte di aziende dei dintorni della città si è recentemente scoperta una presenza di diossine fuori norma; si nota inoltre un’elevatissima incidenza di tumori al fegato.
Ma il Registro tumori dell’Asl, rassicurante, sostiene, senza dati verificabili, che ciò è imputabile all’eccesso di epatiti e di consumi di alcol (Gioale di Brescia, 10 novembre 2007). Va segnalato che l’ing. Renzo Capra, presidente di Asm, fa parte del Comitato scientifico del Registro tumori dell’Asl, di cui è anche finanziatore».
Il fatto segnalato dal Ruzzenenti, se confermato, sarebbe di una gravità senza precedenti.

È sempre più evidente che la scelta di bruciare i rifiuti resta una follia.
L’alternativa esiste ed è la raccolta differenziata, che consente di riciclare e riutilizzare percentuali di rifiuti che possono arrivare anche al 90% e oltre, mentre l’inceneritore produce ceneri nocive, che devono essere smaltite in discariche apposite, pari al 30% del peso originale dei rifiuti, senza contare il grande uso di calce, ammoniaca, carboni attivi utilizzati nei filtri e lo spaventoso consumo d’acqua, pari a circa un litro e mezzo per chilogrammo di rifiuto trattato. Un inceneritore come quello del Gerbido di Torino consumerà quasi 2 milioni di litri d’acqua al giorno!
Per fare la raccolta differenziata basta raccogliere separatamente gli scarti di cibo e le bucce della frutta, il cosiddetto «umido» (30%), la carta (28%), la plastica (16%), il vetro (8%) e siamo già all’82%, restano ancora il legno e gli stracci (4%) e i metalli (4%) che portano la percentuale di riutilizzabile al 90%. Il restante 10% può essere stabilizzato senza problemi e messo in qualsiasi discarica.
Ancora due parole sul paragone tra l’inquinamento dovuto al traffico e quello degli inceneritori. Il traffico cittadino viene considerato «responsabile di centinaia di migliaia di morti all’anno solo in Italia» (Mario Tozzi – La Stampa del 12 gennaio 2008) e a fronte di questi dati si può correttamente affermare che, se il rischio legato agli inceneritori è simile a quello del traffico, siamo di fronte a un grave pericolo per la salute dei cittadini.
Per quanto riguarda le acciaierie e le fonderie ha ragione la signora: questi impianti industriali sono i più grandi produttori di diossina e pensiamo di parlarne a fondo in uno dei futuri numeri di «Nostra madre terra».

R. Topino e R. Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara