Una donna su otto: Il tumore al seno 

Le patologie oncologiche / 1


Dopo quello del colon retto, il tumore al seno è la
patologia oncologica più diffusa. In Italia è la prima causa di morte per
tumore tra le donne. La sua incidenza dipende da un insieme di fattori:
ereditari, socio ambientali e comportamentali (gravidanza, alimentazione, fumo,
alcol). La buona notizia è che, negli ultimi anni, il tasso di sopravvivenza è
migliorato.

In questo tempo di crisi economica e di continui tagli alla sanità
pubblica sono in costante aumento coloro che non riescono a curarsi
adeguatamente. Questo fatto potrebbe avere conseguenze molto pesanti per chi è
costretto a fronteggiare patologie oncologiche, che tendono a essere sempre più
diffuse tra la popolazione e che – oltre a tutto ciò che comportano – hanno un
grosso impatto economico sui malati e sulle loro famiglie. Tra queste patologie
c’è il cancro della mammella, la cui incidenza è in costante aumento e i cui
costi – stimati per 2,5 anni di malattia – sono di circa 15.500 euro procapite
a carico del sistema sanitario nazionale (tra interventi chirurgici,
chemioterapia e radioterapia) e tra 24.800-28.500 euro a carico della paziente,
se si considerano i costi delle spese mediche (14% del totale di visite
specialistiche, esami di laboratorio, fisioterapia, riabilitazione, farmaci e
chirurgia plastica ricostruttiva), dei presidi sanitari (80% a carico della
paziente), dall’assunzione temporanea di persone per aiuti domestici e di una
possibile riduzione del reddito da lavoro tra il 10 ed il 40%.

Per capire meglio l’impatto sociale di questa
malattia, vediamo quali sono i suoi numeri, le sue caratteristiche e come viene
attualmente affrontata.

Secondo i dati dell’«Associazione italiana di oncologia medica»
(www.aiom.it) e dell’«Associazione italiana registri tumori»
(www.registri-tumori.it), se esaminiamo la prevalenza in Italia di questo
tumore, cioè il numero di donne malate in un determinato anno, vediamo che si è
passati da 48.200 nel 1970 a 490.000 nel 2010. Certamente questo dato è
influenzato da una diagnostica più accurata, ma l’incremento è comunque
rilevante. Attualmente è a rischio di
ammalarsi una donna su 8 (www.airc.it) e una su 50 rischia di morire per questo
tumore. Peraltro è migliorato il tasso di sopravvivenza a 5 anni dalla
diagnosi, essendo passati dall’81% nel 1990 all’ 85-87% attuale. In Italia il
tumore del seno è la prima causa di morte per tumore tra le donne, mentre nella
popolazione totale è il secondo tumore più frequente, essendo primo quello del
colon retto e terzo quello del polmone. Nella popolazione femminile italiana,
il tumore del seno rappresenta ora il 28,9% di tutti i tumori, contro il 26,7%
degli anni ’90 ed il 18,4% degli anni ’80. Ogni anno ci sono circa 48.000 nuovi
casi – cifra quadruplicata dal 1970 (11.600) – e muoiono circa 13.000 donne. Le
più colpite sono le donne oltre i 64 anni (40% dei casi di tumore), mentre
abbiamo il 30% dei casi nella fascia 50-64 anni e il 20-30% dei casi sotto i 50
anni. Le donne colpite prima dei 40 anni sono il 5-7% dei casi. Si stima che le
donne attualmente malate siano circa 522.000. Anche gli uomini possono
ammalarsi di cancro al seno, sebbene molto più raramente (è a rischio un uomo
su 521), tranne in alcune regioni dell’Africa, in cui l’incidenza di questo
tumore tra gli uomini è più elevata che altrove. 

I tipi di tumore mammario sono molteplici. La maggiore frequenza di
questo tumore si riscontra nei paesi più industrializzati, con l’eccezione del
Giappone. Nell’America del Nord e nell’Europa occidentale, esso rappresenta un
cancro su 4 tra le donne, mentre in aree a basso rischio come la Cina e il
Giappone rappresenta rispettivamente un cancro su 8 ed uno su 16. I tassi di
incidenza più elevati sono quelli delle donne hawaiane (93,9 su 100.000) e
delle donne bianche statunitensi (70-90 su 100.000). Nel resto dei paesi
industrializzati tranne il Giappone, nel Sud del Brasile ed in Argentina ci
sono tassi di 60-90 su 100.000. Nell’America del Sud, tranne i paesi succitati,
e nell’Europa orientale e meridionale i tassi sono intermedi (40-60 su
100.000), nell’America centrale e tropicale del Sud, in Africa ed in Asia sono
bassi (meno di 40 su 100.000). L’incidenza di questo tumore aumenta con l’età
della donna , dai 30 ai 70 anni, con una flessione tra i 45-54 anni, cioè
nell’età della menopausa. Si possono osservare notevoli variazioni del rischio
all’interno di uno stesso paese in base a fattori sociodemografici come
l’etnia, la classe sociale, lo stato civile e la regione di residenza. Ad
esempio, in Israele l’incidenza di questo tumore è alta tra le donne ebree e
bassa tra le non ebree, mentre alle Hawaii è alta tra le hawaiane e bassa tra
le filippine. Già dal 1700, grazie alle osservazioni di Beardino Ramazzini
(1633-1714) sulle suore, si sa che questo tumore è più frequente tra le donne
nubili (50% di rischio in più), che tra quelle sposate. Inoltre è un tumore più
frequente nelle aree urbane, che in quelle rurali e tra le donne di più elevato
ceto sociale. Si capisce che i fattori ambientali sono importanti
nell’eziologia del cancro della mammella dalle variazioni del rischio nelle
popolazioni migranti, comunque influenzate dall’etnia di appartenenza. Ad esempio,
i tassi d’incidenza di questo tumore tra gli europei emigrati negli Stati Uniti
variano con relativa rapidità, diventando presto simili a quelli degli
statunitensi, mentre quelli delle popolazioni provenienti da Cina e Giappone
variano anch’essi, ma molto più lentamente. Tale differenza può essere
ascrivibile a un minore adattamento delle popolazioni orientali alle abitudini
alimentari e riproduttive statunitensi.

Diversi studi hanno evidenziato una
correlazione tra tassi di incidenza e di mortalità del carcinoma della mammella
e assunzione di grassi,  proteine di
origine animale e di calorie totali.

Alcune variazioni nell’incidenza del
carcinoma mammario sono sicuramente in relazione con il comportamento
riproduttivo, come il numero di figli per donna e l’età della prima gravidanza.
Da tempo si sospetta che un basso numero di gravidanze sia uno dei maggiori
fattori di rischio per il cancro della mammella. Uno studio compiuto da
MacMahon nel 1970 ha evidenziato che è anche importante l’età della donna alla
prima gravidanza portata a termine. Il rischio di contrarre il tumore è infatti
circa doppio nelle nullipare e nelle donne con la prima gravidanza a 30 anni e
oltre, rispetto a quelle che hanno avuto il primo figlio prima dei 20 anni.
Pare inoltre che il rischio per le donne con la prima gravidanza oltre il 35
anni sia superiore a quello delle nullipare. Altri studi hanno rilevato che
qualunque gravidanza condotta a termine prima dei 35 anni ha effetto
protettivo, mentre le altre aumentano il rischio. Inoltre l’effetto protettivo
di una gravidanza precoce si manifesta solo se essa è portata a termine, mentre
vi sarebbe un aumento del rischio in relazione all’aborto (sia spontaneo, che
procurato). Questo potrebbe volere dire che la prima parte della gravidanza
aumenta il rischio di tumore, mentre il suo completamento lo contrasta. Altri
studi sono giunti alla conclusione che anche l’allattamento può avere un
effetto protettivo, diminuendo del 50% il rischio nelle donne prima della
menopausa, ma non dopo. Sembra che un periodo critico per il rischio di
contrarre questo tumore siano gli anni immediatamente seguenti una gravidanza.
Probabilmente, oltre all’età e al numero delle gravidanze, entrano in gioco
altri fattori, come la classe sociale, le differenze culturali, le variazioni
nell’utilizzo della pillola contraccettiva. Per quanto riguarda quest’ultima,
così come nel caso della Tos (Terapia ormonale sostitutiva in menopausa), si
tratta di associazioni estro-progestiniche, che possono stimolare la crescita
di tumori endocrino-responsivi, come sono alcuni tipi di tumore mammario.
Secondo diversi studi, la pillola anticoncezionale (soprattutto nelle vecchie
formulazioni ad alto dosaggio) aumenta leggermente il rischio di questo tumore,
ma risulta protettiva nei confronti di quelli dell’ovaio e dell’endometrio.
Nelle donne che hanno assunto la pillola sembra esserci anche una diminuzione
nell’incidenza del tumore del colon, mentre aumenterebbe leggermente quella del
tumore della cervice. Le nuove formulazioni a base di estradiolo e nomegestrolo
sembrano avere minori effetti sul tessuto mammario, in termini di rischio. Un
aumento del rischio di tumore mammario è risultato essere correlato alla
terapia ormonale sostitutiva somministrata in menopausa, al fine di contrastare
gli effetti della fisiologica riduzione degli ormoni sessuali. Alcuni dati
epidemiologici hanno dimostrato un aumento del rischio di carcinoma mammario
sia a seguito della somministrazione esogena di estrogeni con la Tos, sia nel
caso dell’aumentata conversione periferica di androgeni surrenalici in
estrogeni, nelle donne obese. Dopo la menopausa, la maggiore fonte di estrogeni
è il tessuto adiposo, infatti molti studi hanno dimostrato che il rischio di
tumore mammario è superiore nelle donne in menopausa in sovrappeso oppure
obese, rispetto alle normopeso. Altri fattori che aumentano il rischio di
carcinoma mammario sono il menarca precoce e la menopausa dopo i 55 anni.
Secondo vari studi, ogni anno di ritardo nella comparsa del menarca ridurrebbe
il rischio di tumore mammario del 20%, mentre le donne che entrano in menopausa
prima dei 45 anni avrebbero un rischio inferiore del 50%, rispetto a quelle che
presentano la menopausa dopo i 55 anni.

Diversi studi hanno evidenziato che il consumo di oltre 30 grammi al
giorno di alcol è associato ad un aumento del rischio di carcinoma mammario di
1,5-2 volte, indipendentemente dal tipo di bevanda. In ogni caso i tumori
mammari ascrivibili al consumo di alcol sarebbero circa il 5% del totale. Le
radiazioni ionizzanti sono un altro fattore di rischio per questo tumore, che è
risultato elevato tra le donne sopravvissute alla bomba atomica e
all’esplosione della centrale nucleare di Cheobyl nel 1986, tra le pazienti
trattate con raggi X per una mastite post-partum e tra le pazienti sottoposte a
molteplici fluoroscopie, nel corso della cura per la tubercolosi.

Esiste una percentuale di popolazione intorno
allo 0,1-0,6%, che presenta mutazioni genetiche a carico dei geni BRCA1, BRCA2,
HER2 e p53.  Si stima che nei Paesi
occidentali, il 10% dei tumori mammari sia ascrivibile ad una o più di queste
mutazioni. Ciò significa che nelle famiglie in cui si sono verificati più casi
di tumore mammario, è consigliabile effettuare un test genetico, per
predisporre un piano di prevenzione accurato, dal momento che avere una parente
di primo grado (madre, sorella, figlia) con una storia di carcinoma mammario
aumenta il rischio di contrarre il tumore di circa l’80%, avere due parenti
colpite lo aumenta di circa 3 volte e con 3 o più parenti colpite, il rischio
diventa quadruplo, rispetto a quello della popolazione generale. La mutazione
del gene BRCA1 accresce maggiormente il rischio di tumore mammario, mentre
quella del gene BRCA2 è meno legata all’aumento di rischio del tumore mammario,
ma si correla a quelli per tumore ovarico, delle tube, di melanoma e,
nell’uomo, della prostata. La positività per mutazioni a carico del gene BRCA1
ha recentemente indotto Angelina Jolie, attrice di fama internazionale, a
sottoporsi alla mastectomia radicale bilaterale preventiva, seguita da
chirurgia plastica ricostruttiva, al fine di scongiurare l’insorgenza del
tumore, che aveva già ucciso in passato sua madre e sua sorella. L’attrice ha
inoltre annunciato che sta per sottoporsi anche all’asportazione preventiva
delle ovaie. Va detto che la mastectomia preventiva riduce il rischio di tumore
mammario al 5%, ma non lo azzera completamente, data l’impossibilità di essere
certi di avere asportato tutto il tessuto mammario (la mammella non ha confini
netti). Sebbene nessuna alternativa sia in grado di abbattere il rischio come
la mastectomia preventiva, tuttavia si possono percorrere altre strade come il
monitoraggio intensivo con mammografia e risonanza magnetica ogni anno a
partire dai 30 anni, eventualmente inframmezzate da ecografia ogni 6 mesi dopo
i 40 anni. Possono essere somministrati farmaci che bloccano gli effetti degli
estrogeni sulla mammella, come il tamoxifene, che diminuisce il rischio di
tumore al 25-40%, anche se induce una menopausa precoce. Un’altra possibile
strategia è l’asportazione delle sole ovaie, per ridurre la produzione di
estrogeni, senza modificare l’immagine corporea.

Altri importanti
fattori di rischio
per il carcinoma mammario sono gli inquinanti ambientali.
Tra questi è stata dimostrata una correlazione tra Pcb (policlorobifenili) ed
aumento del 2-4% del rischio di questo tumore. I Pcb, la cui produzione è stata
vietata negli Stati Uniti nel 1970, sono stati largamente usati in passato come
ritardanti di fiamma nelle apparecchiature elettriche e nella produzione di
materiali da costruzione come calce e veici. Purtroppo, essi sono stati
riversati come materiali di scarto in grandi quantità nei fiumi adiacenti alle
aree industriali, passando in tal modo nei pesci e da qui nel tessuto adiposo
umano e nel latte materno. Alcuni studi hanno dimostrato la correlazione tra
Pcb e forme tumorali mammarie più aggressive. Altri pericolosi inquinanti
ambientali che aumentano il rischio di cancro mammario sono gli idrocarburi aromatici
policiclici (Pca), che si ritrovano nei gas di scarico veicolari, nei cibi
grigliati ed affumicati, nel fumo di tabacco e nei fumi delle centrali
elettriche. È stata dimostrata una correlazione tra il fumo di sigaretta e
l’aumento di rischio di tumore mammario nelle donne giovani. Un altro
pericolosissimo prodotto di combustione legato a diverse forme di tumori, tra
cui quello mammario, è la diossina (liberata da inceneritori, acciaierie,
cementifici), a cui l’essere umano viene esposto attraverso il latte, il pesce
e la carne. Infine tra gli inquinanti ambientali che fanno aumentare il rischio
di tumore mammario ci sono i solventi organici usati nelle lavanderie a secco,
nei saloni di bellezza, nei negozi di macchine, per cui l’esposizione avviene
sia sul posto di lavoro, che utilizzando i prodotti di consumo. Poiché è
dimostrato il ruolo degli inquinanti ambientali nell’aumento del rischio di
tumore mammario, politiche di bonifica ambientale dovrebbero essere una priorità
assoluta di salute pubblica.

La prevenzione del tumore mammario, che viene attualmente
effettuata mediante mammografia, ecografia e autopalpazione è in realtà solo di
tipo secondario, cioè serve soltanto a individuare forme tumorali già in atto.
Ciò a cui bisogna tendere è invece prevenire la formazione del tumore con un
miglioramento dell’ambiente di vita e di lavoro, eliminando tutte quelle
sostanze o agenti fisici potenzialmente cancerogeni. 

Rosanna Novara
Topino


Il Seno

Il seno è costituito da un insieme di
ghiandole e tessuto adiposo ed è posto tra la pelle e la parete del torace. In
realtà non è una ghiandola sola, ma un insieme di strutture ghiandolari,
chiamate lobuli, unite tra loro a formare un lobo. Il tumore al seno è una
malattia potenzialmente grave se non è individuata e curata per tempo. È dovuto
alla moltiplicazione incontrollata di alcune cellule della ghiandola mammaria
che si trasformano in cellule maligne. Ciò significa che hanno la capacità di
staccarsi dal tessuto che le ha generate per invadere i tessuti circostanti e,
col tempo, anche gli altri organi del corpo. Sono due i tipi di cancro del
seno: le forme non invasive e quelle invasive. Le forme non invasive sono le
seguenti: neoplasia duttale intraepiteliale (carcinoma in situ); neoplasia
lobulare intraepiteliale, entrambe con vari gradi. Le forme invasive sono: il
carcinoma duttale, quando supera la parete del dotto, rappresenta tra il 70 e
l’80 per cento di tutte le forme di cancro del seno; il carcinoma lobulare:
quando il tumore supera la parete del lobulo, può colpire contemporaneamente
ambedue i seni o comparire in più punti nello stesso seno.

Altre forme di carcinoma meno frequenti sono il carcinoma
tubulare, papillare, mucinoso, cribriforme. Hanno prognosi favorevole. (www.airc.it)

Glossario

Incidenza: numero di nuovi casi riscontrati in un anno in
un certo paese, nel mondo, ecc.
Tumore:
si intende una neoplasia, qualcosa di insorto ex
novo; puó essere benigno o maligno.
Cancro:
è una definizione generale, che riguarda ogni
tipo di tumore maligno.
Carcinoma:
è il cancro dei tessuti di origine epiteliale,
di cui la mammella fa parte, come tutte le ghiandole.
Menarca:
è il primo flusso mestruale della donna, che
rappresenta l’inizio del periodo fertile.
Nullipara:
donna che non ha mai partorito.
Mastectomia:
è l’asportazione chirurgica della mammella.
BRCA:
geni coinvolti nel tumore mammario.

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Rosanna Novara Topino




Una plastica apparenza Allattamento e seno femminile (terza parte)

Nei paesi ricchi si sta diffondendo la chirurgia plastica per
recuperare l’aspetto fisico antecedente la gravidanza. Il mercato impone i suoi
diktat estetici, facendo passare l’idea che il non bello e il non giovane siano
errori da riparare. Correlato a questo fenomeno ce n’è un altro, anch’esso in
rapidissima crescita: quello del turismo medico. Così, mentre in troppi paesi
mancano medici e ospedali pubblici, in altri si profila una nuova vittoria
dell’«apparire» sull’«essere».

Anche i media ritenuti – a torto o a
ragione – più seri, sempre più spesso ci propongono immagini e servizi sulle
neomamme vip che – trascorso pochissimo tempo dal parto e dall’allattamento –
tornano in una forma fisica smagliante. Di solito vengono riportate le
dichiarazioni delle dirette interessate che dicono di passare ore e ore in
palestra e di seguire diete ferree. Non viene invece detto che molte di loro
fanno ricorso al cosiddetto Mommy
makeover («rifacimento della mamma»), una combinazione di
interventi chirurgici per rimediare ad alcuni difetti lasciati dal parto e
dall’allattamento.

Il
fenomeno del Mommy makeover è
nato negli Stati Uniti
, ma sta diffondendosi anche in Europa, Italia compresa.
Secondo un’indagine compiuta dall’American
Society of Plastic Surgeons su 1.000 neomamme il 62% si
sottoporrebbe volentieri a qualche intervento di chirurgia plastica per
recuperare l’aspetto fisico antecedente la gravidanza se i costi fossero meno
elevati. Tra gli interventi più richiesti figurano la mastoplastica additiva
(aumento del seno), la mastopessi (sollevamento del seno), la liposuzione
(rimozione del grasso in eccesso) unita all’addominoplastica (tensione della
parete addominale), e sempre più spesso la chirurgia estetica intima, la cui
richiesta è raddoppiata negli ultimi cinque anni. La pratica di quest’ultima si
è diffusa a tal punto che l’American College of
Obstetricians and Gynecologist è intervenuto indicando tali procedure
come raramente appropriate sul piano medico, e potenzialmente dannose per la
salute. Questo fenomeno rientra nella estrema diffusione, a livello mondiale,
della chirurgia plastica e della medicina estetica. Ovviamente si deve
riconoscere a questa branca della chirurgia il grande merito di permettere il
recupero estetico a persone che hanno subito gravi traumi o interventi
chirurgici distruttivi per curare tumori, o che sono state colpite da patologie
deturpanti. Tuttavia ormai ci troviamo di fronte sempre di più alla
medicalizzazione consumistica della salute, con il mercato globale che si pone
come difensore dei valori della bellezza e della giovinezza, e impone i suoi
diktat estetici. Viene fatta passare l’idea che il non bello, il non giovane ed
efficiente siano assimilabili al male, quindi da correggere. Ecco allora il
boom della elective surgery, cioè
dell’insieme degli interventi chirurgici non necessari in senso clinico, di cui
è soprattutto il paziente a sentire la necessità, e la sostituzione del
rapporto medico-malato con quello medico-persona sana. È presente in questo
fenomeno il rischio di sfruttamento del disagio psichico e sociale delle
persone più fragili, con scarso equilibrio interiore, che spesso trasferiscono
sul corpo un malessere di origine diversa. È stata infatti osservata un’elevata
rilevanza statistica di disordini mentali fra i candidati alla chirurgia
estetica, colpiti spesso da dismorfofobia corporea: malattia psichiatrica
consistente in una sensazione soggettiva di deformità fisica. Questa patologia,
secondo uno studio condotto da Hodgkinson nel 2005, viene riscontrata nel 20%
delle persone che si rivolgono a un chirurgo estetico e si manifesta con una
vera e propria dipendenza da chirurgia plastica. Secondo un altro studio
condotto da A. Napoleon su un gruppo di pazienti della Carolina del Sud,
ricoverati per un intervento di chirurgia plastica, il 25% di loro soffriva di
disturbo narcisistico, il 12% di disturbo dipendente, il 9,75% di disturbo
istrionico, il 9% di disturbo borderline
della personalità, il 4% di disturbo ossessivo-compulsivo, il 3% di altri
disturbi della personalità (antisociale, paranoide, schizotipico, ecc.). Solo
il 29% non presentava alcun disturbo della personalità. Secondo il DSM-IV (Diagnostic
and Statistical Manual of Mental Disorders), il disturbo narcisistico
di personalità si presenta con un quadro di grandiosità, mancanza di empatia,
richiesta di ammirazione, fantasie illimitate di successo, potere, bellezza e
con un comportamento arrogante e superbo. Tra le maggiori preoccupazioni di
questi pazienti ci sono i difetti legati all’avanzare dell’età e questo li
porta spesso a richiedere interventi di lifting.

Il
disturbo dipendente di personalità si presenta con una eccessiva necessità di
essere accuditi, con un comportamento sottomesso e dipendente, timore della
separazione, percezione di sé stessi come incapaci di realizzare qualcosa senza
l’aiuto degli altri. Pazienti di questo tipo ricorrono più frequentemente di
altri alla mastoplastica additiva.

Nel
disturbo istrionico è presente emotività eccessiva con ricerca di attenzione,
comportamenti seducenti, teatralità, autodrammatizzazione ed espressione
esagerata delle emozioni. Questi pazienti richiedono interventi di
mastoplastica additiva, di ingrossamento delle labbra e rimodellamento degli
occhi per allontanare la possibilità di un rifiuto.

Il disturbo borderline della personalità è
caratterizzato da instabilità delle relazioni interpersonali e dell’umore,
dall’alternanza tra gli estremi dell’idealizzazione e della svalutazione, da
un’immagine di sé perennemente instabile, da rabbia immotivata e ricorrenti
minacce, da comportamenti automutilanti. Questi pazienti separano le parti del
proprio corpo in buone e cattive, attribuendo al chirurgo il compito di
rimuovere queste ultime. Il disturbo ossessivo-compulsivo si presenta con una
eccessiva preoccupazione per l’ordine, il perfezionismo, il controllo mentale e
interpersonale, con un’attenzione estrema ai dettagli, alle regole, agli
schemi, e un’organizzazione così elevata da mettere quasi in secondo piano il
fine delle proprie azioni. Inoltre sono presenti esagerata coscienziosità,
scrupolosità e inflessibilità in tema di moralità, etica e valori. Questi
pazienti concentrano le loro richieste di interventi estetici su labbra, seno e
occhi.

Sulla
base dei dati scientifici è possibile affermare che tra i pazienti della
chirurgia estetica, quelli con qualche disturbo della personalità sono compresi
tra il 30% e il 70%. Questi dati dimostrano la necessità di una stretta
collaborazione tra chirurghi estetici e psicologi o psicoterapeuti.

La chirurgia estetica ha dimostrato di avere
effetti positivi sull’autostima dei pazienti ansiosi, mentre è risultata
inefficace nel caso dei pazienti depressi. Ed è addirittura stato riscontrato
un aumento del rischio di suicidio, soprattutto tra donne che richiedono la
mastoplastica additiva (rischio 2 o 3 volte maggiore della norma). Oltre a
questo è stato rilevato un maggior numero di casi di cancro del polmone
rispetto alla norma.

Secondo
uno studio di Koot, Peters e altri, apparso sul British
Medical Joual, che valutava il tasso di mortalità nelle donne
svedesi operate di mastoplastica additiva tra il 1965 e il 1993, le donne che
scelgono questo tipo d’intervento sembrerebbero differire dalla popolazione
generale, o dalle donne che si sottopongono ad altri interventi estetici, per
alcune caratteristiche quali lo stile di vita, l’uso o l’abuso di alcornol, il
fumo e lo stato civile, elementi che potrebbero influire sia sul rischio di
suicidio che sul cancro polmonare.

Accettare
di operare soggetti con qualche disturbo della personalità è rischioso per i
chirurghi, perché, a prescindere dal risultato ottenuto, l’intervento può
generare insoddisfazione nel paziente che non ha una percezione corretta del
proprio aspetto fisico. Non sono pochi i casi di azioni legali contro i chirurghi
che hanno effettuato gli interventi. Secondo i dati delle compagnie di
assicurazione, le richieste di risarcimento nei confronti dei chirurghi
estetici, con scarsa o nulla motivazione relativa all’esito dell’opeazione
chirurgica eseguita, si aggirano intorno al 30% degli interventi, un dato in
linea con quello relativo alla porzione di pazienti emotivi. Considerando che
in Italia, a eccezione della mastoplastica riduttiva nei casi in cui l’eccesso
di seno genera gravi difetti posturali, nessuno dei più diffusi interventi
chirurgici estetici è coperto dal sistema sanitario nazionale, se i pazienti
problematici venissero rifiutati dai chirurghi, il fatturato della chirurgia
estetica si ridurrebbe notevolmente. Si calcola che ci sarebbero mancate
entrate comprese tra i 215 ed i 502 milioni di euro all’anno solo per
interventi di addominoplastica, liposuzione e mastoplastica additiva e
riduttiva.

Secondo il più recente rapporto della «Società
internazionale di chirurgia plastica estetica» (Isaps), i paesi in cui viene
realizzato il più alto numero d’interventi di chirurgia estetica all’anno sono:
Stati Uniti (3,31 milioni), Brasile (2,52 milioni), Cina (1,27 milioni),
Giappone (1,18 milioni) e India (1,15 milioni). Tuttavia, se il numero
d’interventi viene calcolato non come valore assoluto, ma in rapporto alla
popolazione, tra i primi quattro paesi troviamo la Corea del Sud, la Grecia,
l’Italia ed il Brasile, mentre Cina ed India finiscono nelle ultime posizioni.
Gli interventi chirurgici in Asia restano i più economici in assoluto. Per una
mastoplastica additiva nel 2011 si spendevano 3.600 dollari negli Stati Uniti,
2.900 in Brasile, 2.800 in Giappone, 2.660 in Cina e 2.400 in India. Un lifting
al viso costava 3.690 dollari a New Delhi, 4.000 a Pechino, 4.700 a Brasilia e
6.450 a Washington. I paesi asiatici detengono il record delle rinoplastiche.
Tutto questo ha generato una forte espansione del turismo medico, favorito
anche dai voli low cost. A partire dal 2008,
gli incassi dei chirurghi estetici italiani hanno subito una flessione legata
non solo alla crisi economica attuale, ma anche alla tendenza sempre maggiore
degli italiani, come anche di altri pazienti europei e di quelli statunitensi,
di recarsi all’estero per sottoporsi agli interventi chirurgici più svariati,
tra cui quelli di tipo estetico e odontorniatrico. I paesi più gettonati per il
turismo medico sono Tunisia, Slovenia, Ucraina, Ungheria, Brasile, Polonia,
Romania, Argentina, Indonesia, Colombia e Repubblica Ceca. In questi paesi il
costo degli interventi chirurgici è molto ridotto, rispetto a quello di casa
nostra e si può arrivare a risparmiare fino a 2.500 euro. Spesso le cliniche
del posto contattano le agenzie di viaggio dei paesi europei più ricchi e degli
Stati Uniti per organizzare pacchetti-vacanza all
inclusive, che prevedono il volo, il soggiorno in albergo (solitamente di una
settimana) e l’intervento chirurgico. Ad esempio, nel 2011 un pacchetto
comprendente una mastoplastica additiva effettuata in Tunisia, il volo e il
soggiorno per una settimana costava 2.600 euro. Attualmente in Italia un
intervento del genere ha un costo compreso tra i 4.500 e i 6.500 euro. La
scelta di recarsi all’estero per subire interventi chirurgici estetici,
tuttavia non è sempre sicura perché, sebbene le cliniche del settore
pubblicizzino i loro interventi come privi di complicazioni, nella realtà
queste possono verificarsi, come in qualsiasi operazione chirurgica. In tal
caso è necessario un pronto intervento, che diventa difficile effettuare, se la
clinica di riferimento è all’estero e il paziente è già rientrato nel proprio
paese. E intervenire con ritardo può pregiudicare l’esito dell’operazione. Non
bisogna dimenticare che in chirurgia estetica il 50% di un intervento è
rappresentato dal post-operatorio, in cui le medicazioni sono essenziali. Le
corse al ribasso nella medicina e chirurgia estetica possono essere molto
pericolose, perché nelle offerte non si risparmia sulla parcella del medico che
esegue l’intervento, ma sulla struttura e sulle attrezzature utilizzate. Può
capitare ad esempio che certi interventi, che necessiterebbero della sala
operatoria, vengano eseguiti in ambulatori non chirurgici. Attualmente
purtroppo tre interventi su dieci in chirurgia estetica sono eseguiti per
rimediare a interventi estetici precedenti (patologia secondaria alla chirurgia
estetica).

Negli ultimi anni è cresciuto in modo esponenziale
anche il numero di persone che acquistano i cosiddetti coupon di offerte
per interventi di chirurgia estetica a prezzi scontati, i quali si trovano
solitamente sui siti di acquisti on line. Oltre a questo tipo di offerte, sul
web si trovano sempre più facilmente fiale di filler
(sostanze usate come riempitivo) e di tossina botulinica a prezzi stracciati e
del tutto prive di controlli. Queste sostanze dovrebbero sempre essere
controllate e inoculate da uno specialista nel settore, invece chi le acquista
on line ricorre spesso al fai da te con gravi rischi sia per la propria salute,
sia per il risultato estetico.

L’American
Society for Aestetich Plastic Surgery ha rilevato un aumento dal
2002 a oggi del 12% del ricorso alla chirurgia estetica e del 22% dell’uso
della medicina estetica. Tra gli interventi in aumento ci sono la mastoplastica
additiva (+17%), la blefaroplastica, cioè il lifting delle palpebre (+17%), la
rinoplastica o rimodellamento del naso (+10%) e la mastoplastica riduttiva
(+17%). Secondo i dati Eurispes, in Italia sono aumentati gli interventi
di blefaroplastica (+22%), di mastoplastica additiva (+42%), anche se è molto
diffusa pure quella riduttiva, e del 31% i trattamenti di medicina estetica, i
più diffusi dei quali sono a base di acido ialuronico, e il lipofilling
(trapianto autologo del proprio grasso). 
Nel mondo l’intervento più richiesto è la liposuzione (19,9% di tutti
gli interventi chirurgici estetici), seguito dalla mastoplastica additiva
(18,9%) e dalla blefaroplastica (11%). Mentre, per quanto riguarda la medicina
estetica, al primo posto c’è l’iniezione di tossina botulinica (38,1%), seguita
dall’acido ialuronico (23,2%) e dalla epilazione con laser (10,9%).

L’età
delle giovani, che si sottopongono alla chirurgia estetica si abbassa
progressivamente, tanto che in Italia, nel giugno 2012, la Commissione affari
sociali del Senato ha approvato un disegno di legge che vieta gli interventi al
seno per motivi estetici su minorenni, e multa i chirurghi che non rispettano
la legge con una sanzione fino a 20.000 euro e la sospensione dalla professione
per 3 mesi.

In
tempi di crisi economica, secondo la «Società italiana di chirurgia plastica
estetica», nel 2011 in Italia, nonostante l’aumento di alcune tipologie
d’interventi chirurgici estetici di cui si è detto, c’è stato un calo
complessivo del 40% rispetto ai due anni precedenti. Sono invece aumentati i
meno costosi trattamenti di medicina estetica, oltre alle richieste di
finanziamenti per rifarsi il seno o il naso da parte di persone con scarsa
disponibilità economica che probabilmente ripongono grandi attese nel loro
aspetto esteriore.

Se il
settore della chirurgia estetica tradizionale pare avere subito una contrazione
legata alla crisi economica, non conosce crisi il settore degli interventi
chirurgici intimi, tra cui la ricostruzione dell’imene per il recupero della
verginità (1.200-2.500 euro). Questo tipo di chirurgia plastica è in costante
aumento.

Mentre nel Sud del mondo mancano medici e medicine
per curare malattie che falcidiano intere popolazioni, nel Nord del mondo si
spendono fiumi di denaro per ricostruirsi. Sorge spontanea la domanda se sia
così dignitoso apparire piuttosto che essere. Come se la vita fosse solo una
recita.

Rosanna Novara Topino
 
Chirurgia estetica / 1


La rimonta degli uomini

A ricorrere agli interventi di chirurgia plastica sono
sempre più spesso anche gli uomini. È in aumento la richiesta per interventi
contro la ginecomastia (l’eccessivo sviluppo delle mammelle del maschio, ndr),
che è spesso causata da fattori estei alteranti l’equilibrio ormonale, come i
farmaci antidepressivi o a base di digitale, la cannabis, le sostanze dopanti e
certi integratori alimentari, o che è legata a problemi di sovrappeso e di
obesità. In Italia sono inoltre richiesti anche dagli uomini interventi di
chirurgia estetica intima. Il 25% delle operazioni richieste è collegato a un
cambiamento del proprio stato civile, che si tratti di matrimonio, separazione
o divorzio. Inoltre il settore della medicina e della chirurgia estetiche è
molto soggetto a mode e tendenze passeggere capaci di condizionare l’aspetto
fisico dei pazienti, che spesso chiedono interventi per assomigliare a qualche
personaggio pubblico. Il problema di questo tipo di pazienti è che non vogliono
solo assomigliare al loro idolo, ma ne vorrebbero lo stesso stile di vita,
desiderio quasi impossibile da realizzarsi, da cui la conseguente frustrazione.

 
Chirurgia estetica / 2


Occhi a mandorla?

Già da alcuni anni è aumentata in tutto il mondo la
chirurgia estetica «etnica» per modificare i tratti esteriori distintivi e
caratterizzanti l’etnia di origine. Queste esigenze estetiche, che si rifanno
sempre al modello occidentale, non sono sentite solo dai ceti sociali più
elevati, ma anche da quelli meno abbienti, in particolare da persone che
intendono inserirsi in un paese diverso da quello di origine. Gli interventi più
richiesti sono la cantoplastica (rimodellamento degli occhi a mandorla), la
rinoplastica (la tecnica detta slump implant mira a rimpicciolire la base del
naso ed affinae la punta), la cheiloplastica (riduzione del volume delle
labbra) e le liposuzioni per il rimodellamento corporeo. Questi soggetti
purtroppo dopo l’intervento rischiano di ritrovarsi in un limbo culturale: non
riescono a inserirsi appieno nel nuovo paese e nel contempo vengono rifiutati
dalle persone della loro etnia, a cui sembrano non volere più appartenere.

Rosanna Novara Topino




Faccia da poker: il gioco d’azzardo (seconda parte)

Giocare
d’azzardo può diventare molto pericoloso. Per sé, per i propri familiari, per
la società. Come si diventa «malati di gioco»? Chi è più a rischio? Come si può
guarire?

Poker Face, faccia da poker. Il titolo della famosissima canzone
di Lady Gaga sintetizza in due sole parole gli aspetti, che caratterizzano un
giocatore incallito. Certamente si tratta di un’esagerazione, poiché
esteriormente non ci sono elementi per distinguere un giocatore da chi non
gioca, tuttavia diversi studi sociologici, psicologici e neurobiologici hanno
permesso di individuare nei giocatori compulsivi precise caratteristiche che li
distinguono da coloro che non giocano o che giocano senza dipendenza.

Più perdi, più giochi

Per conoscere meglio i comportamenti legati
al gioco ed alle altre dipendenze degli italiani, nel biennio 2007-08 è stato
condotto a livello nazionale lo studio Ipsad (Italian Population Survey on
Alcohol and other Drugs
), un’indagine statistica («di prevalenza»)
effettuata mediante la distribuzione di un questionario per raccogliere
informazioni sui comportamenti di dipendenza (addiction) nella
popolazione generale, secondo gli standard metodologici definiti dall’«Osservatorio
europeo sulle droghe e tossicodipendenze» (Emcdda) di Lisbona. In particolare
per quanto riguarda il gioco sono state raccolte informazioni sull’abitudine a
giocare denaro, sull’intensità della propensione al gioco, sul «gioco d’azzardo
patologico» (Gap, o ludopatia), secondo la scala Canadian Problem Gambling
Index Short Form
. Da questa indagine è emerso che il giocatore una
tantum
è uomo, tra i 25 ed i 44 anni, con un livello di istruzione medio
alto, vive da solo o con amici e ha un lavoro affermato (imprenditore
dirigente, ecc). Giocano meno le casalinghe, i pensionati e le persone con
figli oppure i commercianti e i liberi professionisti. Sostanzialmente è emerso
che un livello socio-economico alto è maggiormente associato al gioco
d’azzardo. Però sono le persone con un basso livello economico ad essere più
frequentemente giocatori problematici. Sono inoltre state riscontrate
significative correlazioni tra il gioco d’azzardo ed il consumo di alcol, di
fumo e/o di droghe. Inoltre il gioco è spesso associato a varie tipologie di
comportamento aggressivo e talora alla pregressa perdita di denaro o di oggetti
di valore.

Nello studio è stato chiesto alle persone
quanto disapprovino chi gioca e quanto pensino sia rischioso giocare. Si è
visto che nei giocatori è presente una minore percezione del rischio del gioco
e una minore disapprovazione.

Un fenomeno diffuso è la «rincorsa della
perdita», cioè molti giocatori problematici tornano spesso a giocare per
tentare di recuperare il denaro perso.

Per quanto riguarda la diffusione
dell’abitudine al gioco a livello nazionale, si gioca di più nel Sud Italia,
soprattutto in Molise, Campania e Sicilia, mentre le regioni in cui si gioca
meno sono risultate la Valle d’Aosta e il Trentino Alto Adige. 

Tra i giochi, che vanno per la maggiore, le
macchine elettroniche (slot machines) rappresentano quasi la metà del
comparto dei giochi pubblici e sono seguite, come volume d’affari, dal
superenalotto, dalle lotterie istantanee e telematiche, dalle scommesse
sportive ed infine dal bingo.

Chi gioca

La partecipazione a diverse tipologie di
giochi per un giocatore è risultata essere un forte indizio di gioco d’azzardo
patologico già in atto o futuro.

Si è visto inoltre che i giochi che
foiscono un feedback immediato attraggono maggiormente rispetto agli
altri, quindi danno più facilmente dipendenza. Tra questi sicuramente vanno
annoverati i videopoker, che presentano due importanti caratteristiche: in
primo luogo, l’affrettata ripetitività del tentativo successivo, che non
consente di rielaborare il gioco precedentemente effettuato ed in secondo
luogo, l’esiguità della singola giocata, che abbassa la soglia di percezione
del danno derivante dal gioco.

Come già spiegato (Gratta e perdi,
MC, maggio 2013), un’analoga indagine, denominata Espad (European
School  Survey Project on Alcohol and
Other Drugs
: www.espad.org) è stata effettuata sugli studenti italiani
delle scuole superiori. In questo studio è stato osservato che i ragazzi con
comportamenti a rischio (uso o abuso di sostanze psicoattive, legali e non;
rapporti sessuali non protetti, ecc.), quelli che hanno avuto guai con le forze
dell’ordine o che spendono più di 50 euro la settimana senza il controllo dei
genitori, hanno maggiori probabilità di diventare giocatori problematici. Altre
caratteristiche favorenti il vizio del gioco tra i giovani sono: avere amici o
fratelli, che fanno uso di alcol e/o droghe, andare spesso in giro con amici,
giocare con frequenza col Pc ed i videogiochi, navigare in internet, uscire
spesso la sera, stare davanti alla tv più di 4 ore al giorno, avere perso più
di 3 giorni di scuola nell’ultimo mese senza motivo, essere stati coinvolti in
incidenti, avere avuto gravi problemi nei rapporti con i genitori o con gli
insegnanti, essere fumatori, avere avuto un rendimento scolastico scadente. Per
contro, sono meno a rischio di diventare giocatori i ragazzi con genitori, che
sanno con chi escono i figli, quelli che leggono per piacere, che praticano
hobbies, che si prendono cura della casa, di persone o animali, che sono
soddisfatti del proprio rapporto con i genitori e della propria situazione
finanziaria.

Il giocatore patologico

Già nel 1980 il «gioco d’azzardo patologico»
è stato inserito dall’Apa (American Psychiatric Association) nel «Manuale
statistico e diagnostico dei disturbi mentali» (Dsm lll), come una vera e
propria malattia psichiatrica classificata tra i disturbi del controllo degli
impulsi. Nel manuale successivo, il Dsm IV, per definire il giocatore
patologico vengono proposti i seguenti criteri diagnostici, dei quali almeno 5
devono essere contemporaneamente presenti: 1) il soggetto è eccessivamente
assorbito dal gioco d’azzardo (è impegnato continuamente a rivivere le passate
esperienze di gioco, a pianificare le future ed a procurarsi il denaro
necessario); 2) deve giocare somme di denaro sempre maggiori per raggiungere lo
stato di eccitazione desiderato; 3) ha più volte tentato di ridurre o
interrompere il gioco d’azzardo senza successo; 4) è irrequieto o instabile,
quando tenta di ridurre o interrompere il gioco; 5) gioca d’azzardo per
sfuggire i problemi o alleviare un umore disforico (stati d’ansia, di colpa,
d’impotenza, di depressione); 6) mente ai propri familiari o al terapeuta, per
minimizzare il proprio coinvolgimento nel gioco; 7) ha commesso azioni illegali
come furto, frode, falsificazione, appropriazione indebita allo scopo di
procurarsi il denaro necessario per giocare; 8) ha messo a repentaglio o perso
una relazione importante, il lavoro, la carriera o lo studio per il gioco; 9)
fa affidamento sugli altri per alleviare una situazione economica disperata
causata dal gioco, senza peraltro essere in grado di restituire le somme
ottenute in prestito.

Dentro la malattia

Alcuni studi attribuiscono un ruolo
fondamentale all’impulsività del giocatore, sottolineando una correlazione tra
il Gap e le disfunzioni del controllo degli impulsi. Secondo altre ricerche il
Gap deve essere visto come una vera e propria dipendenza, intesa come un
assoggettamento fisico dell’individuo da parte di una sostanza, che agisce e
modifica il funzionamento chimico dell’organismo. Dato che in questo caso la
sostanza non c’è, ci troviamo di fronte ad una dipendenza senza droga. Secondo
il primo gruppo di studi, il comportamento compulsivo presente nel Gap è una
malattia con basi neuro-fisio-patologiche che colpisce persone particolarmente
vulnerabili per la presenza di fattori individuali, amplificati e slatentizzati
(fatti emergere) da fattori socio-ambientali (si pensi agli stimoli
addizionali, che vengono messi all’interno delle sale da gioco e dei casinò: le
luci, la musica, gli ambienti eccitanti, l’alcol, le evocazioni sessuali). Tra
i fattori individuali vi sono importanti modificazioni dei sistemi cerebrali
come la corteccia pre-frontale (responsabile del controllo dei comportamenti
volontari), la corteccia orbito-frontale ed il giro cingolato (responsabili con
la corteccia pre-frontale del craving, vedi Glossario), il nucleo
accumbens (sistema della gratificazione), il sistema degli oppioidi
endogeni (implicato nella regolazione dell’ansia), l’amigdala estesa
(importante drive dei comportamenti aggressivi e delle sensazioni legate
alla paura), il sistema della memoria residente prevalentemente nell’ippocampo,
che è adibito alla memorizzazione del feedback (l’effetto di un atto o
di un comportamento su colui che l’ha compiuto). Inoltre l’ippocampo è
responsabile della memorizzazione delle decisioni volontarie, della magnitudo e
della durata della gratificazione correlata allo stimolo, della magnitudo e
della durata dell’effetto derivante dal gioco sull’ansia, sulla depressione,
sulla noia e sull’aggressività. In esso vengono anche memorizzati gli impulsi
attivanti il drive emozionale; la memoria stessa può da sola attivare il
drive mediante l’evocazione di ricordi, pensieri e situazioni correlati al
gioco d’azzardo. Infine un’altra struttura molto importante implicata nel
sistema motivazionale è il talamo. Il Gap è anche legato all’importanza che uno
stimolo assume per una persona rispetto al resto. Si è visto infatti che in un
cervello, che ha sviluppato dipendenza, la salienza (importanza attribuita a un
fatto) è estremamente alta rispetto alla norma. In pratica, la persona
dipendente focalizza la sua vita quasi esclusivamente sulla ricerca dello
stimolo, che ritiene particolarmente importante o addirittura essenziale.

Oltre alle caratteristiche neurostrutturali,
l’individuo presenta un sistema cognitivo, che si modifica costantemente e si
adatta alle condizioni socio-ambientali, attraverso lo sviluppo di credenze che
sono capaci di orientare fortemente le sue scelte ed il suo comportamento. Tali
credenze, nelle persone affette da Gap, tendono a sconfinare in vere e proprie
distorsioni cognitive, che si sviluppano nel tempo e sono in grado di fissare
il comportamento, nonché di reiterare e rendere permanente la dipendenza.
Queste persone presentano perciò una minore flessibilità mentale (in
particolare nella riformulazione e nell’uso di nuove strategie cognitive) e un
ridotto grado di apprendimento su come operare scelte vantaggiose. La presenza
di una minore flessibilità delle attività cerebrali è stata documentata da
studi di elettroencefalografia, che hanno evidenziato alterazioni importanti
dell’attività cerebrale, che porterebbero a perseverare nell’attività del gioco
d’azzardo, nonostante le conseguenze negative.

Studi di risonanza magnetica funzionale
hanno inoltre evidenziato che nei pazienti affetti da Gap, durante
l’aspettativa della vincita si manifesta un’accresciuta attività del sistema di
ricompensa, mentre dopo la vincita risulta minore, rispetto alla norma,
l’attività nelle aree della gratificazione. E durante il gioco c’è una minore
attivazione delle aree di controllo. Questo sbilanciamento nei giocatori
patologici può fare continuare il gioco d’azzardo.

Le alterazioni neurobiologiche che sono alla
base del Gap sono strettamente correlate all’alterazione dei sistemi di
produzione e di rilascio di vari neurotrasmettitori: dopamina (alti livelli
post-stimolo indicano maggiore effetto gratificante del gioco, rispetto ad
altri stimoli), noradrenalina (alti livelli post-stimolo comportano
intensificazione dell’eccitazione e della ricerca di sensazioni forti),
serotonina (bassi livelli post-stimolo indicano disturbi del controllo degli
impulsi da parte della corteccia pre-frontale), oppioidi endogeni, cioè
beta-endorfine (bassi livelli post-stimolo comportano alterazioni della
ricompensa, del piacere e della sofferenza). Vari studi sperimentali hanno
dimostrato che esiste una base genetica per la disregolazione di questi
neurotrasmettitori.

Elementi neurobiologici  e colpe dello stato

Sulla base delle prove scientifiche sommariamente ricordate, è
evidente che esistono persone più vulnerabili di altre, per le loro
caratteristiche neurobiologiche, quindi a maggiore rischio di dipendenza da
gioco o da sostanze psicoattive. Tali persone dovrebbero essere particolarmente
tutelate dallo stato, che invece è quanto meno corresponsabile della loro
ludopatia, avendo deciso di rimpinguare le proprie casse con i proventi del
gioco d’azzardo.

Rosanna Novara Topino
 

Tipi di Gioco

• Slot machine
• Videopoker
• Giochi da casinò (roulette, giochi di carte, ecc.)
• Gratta e vinci, Nevada, Scopri il numero
• Scommesse sportive (su corse ippiche, partite di calcio,
golf, biliardo)
• Speculazioni sui titoli di borsa
• Keno
• Lotterie
• Bingo
• Tombola

 TIPOLOGIE DI
GIOCATORI D’AZZARDO

• Giocatore sociale: che sa governare gli impulsi
distruttivi, usa il gioco come attività ricreativa e di socializzazione.
• Giocatore problematico: usa il gioco per sfuggire ai
problemi.
• Giocatore patologico: a causa di problemi psichici gioca
per distruggere inconsciamente se stesso e gli altri.
• Giocatore patologico impulsivo/dipendente: è mosso da
impulsi irrefrenabili nell’attività di gioco. 

LE FASI DELLA PATOLOGIA

• Fase vincente:
il gioco è occasionale, con vincite iniziali, che motivano a giocare in modo
crescente, spesso grazie alla capacità del gioco di produrre piacere e di
alleviare tensioni e stati emotivi negativi.

• Fase perdente:
caratterizzata dal gioco solitario, da più denaro investito nel gioco, dalla
nascita di debiti, dalla crescita del pensiero relativo al gioco e del tempo
speso a giocare.

• Fase di
disperazione:
aumenta ulteriormente il tempo dedicato al gioco e
l’isolamento sociale conseguente. I problemi lavorativi, scolastici, familiari
ed economici si ingigantiscono e talora sono la causa di tentativi di suicidio.

• Fase critica:
nasce il desiderio di aiuto, la speranza di uscire dal problema e vengono fatti
tentativi di risoluzione dei problemi lavorativi e socio-familiari.

• Fase di
ricostruzione:
si intravedono miglioramenti nella vita familiare, nella
capacità di pianificare nuovi obiettivi e nell’autostima.

• Fase di crescita:
in cui si sviluppa maggiore introspezione e un nuovo stile di vita lontano dal
gioco.

          GLOSSARIO                                                                 

Beta-endorfine
(oppioidi endogeni): sono sostanze chimiche prodotte dal cervello e dotate di
una potente attività analgesica ed eccitante. La loro azione è simile a quella
della morfina e delle altre sostanze oppiacee. Vengono sintetizzate anche
nell’ipofisi, nel surrene e in alcuni tratti dell’apparato digerente e hanno i
loro recettori in varie zone del sistema nervoso centrale, soprattutto nelle
aree deputate alla percezione dolorifica.

Craving: è un
forte e irresistibile bisogno di assumere una sostanza (o di tenere un certo
tipo di comportamento, come nel caso del gioco). È un desiderio compulsivo, che
diventa fortissimo e irrefrenabile e, se non soddisfatto, può provocare
sofferenza psicologica e fisica, ansia, insonnia, aggressività e altri sintomi
depressivi. Può esserci anche in assenza di dipendenza fisica e può comparire
anche nel momento in cui la persona rientra in contatto con la sostanza oppure
torna in un luogo frequentato quando era dipendente.

Dopamina: è un
neurotrasmettitore della famiglia delle catecolamine. Viene prodotta in diverse
aree del cervello ed è anche un neuro-ormone rilasciato dall’ipotalamo. La sua
principale funzione come ormone è l’inibizione del rilascio di prolattina da
parte dell’ipofisi anteriore, mentre nel cervello ha un ruolo importante in:
comportamento, cognizione, movimento volontario, motivazione, punizione e
soddisfazione, sonno, umore, attenzione, memoria di lavoro e di apprendimento.
Agisce inoltre sul sistema nervoso simpatico, determinando accelerazione del
battito cardiaco e aumento della pressione sanguigna.

Drive emozionale /
amigdala:
funzione di controllo delle emozioni (in particolare della paura)
esercitata dall’amigdala, struttura facente parte del sistema limbico e
localizzata nella parte anteriore del lobo temporale mediale dei due emisferi
cerebrali.

Ippocampo:
struttura cerebrale localizzata nella parte mediale del lobo temporale e
facente parte del sistema limbico. Svolge un ruolo importante nella memoria a
lungo termine e nell’orientamento spaziale.

Noradrenalina:
detta anche norepinefrina, è un ormone sintetizzato dalla midollare del
surrene, ma è anche un neurotrasmettitore prodotto dal sistema nervoso centrale
e simpatico (fibre post-gangliari).

Serotonina: è un
neurotrasmettitore sintetizzato dai neuroni serotoninergici del sistema nervoso
centrale e delle cellule enterocromaffini dell’apparato gastrointestinale. È
principalmente coinvolta nella regolazione dell’umore, del sonno, della
temperatura corporea, della sessualità e dell’appetito. La serotonina è
coinvolta in numerosi disturbi neuropsichiatrici come l’emicrania, il disturbo
bipolare, la depressione e l’ansia. Alcune sostanze stupefacenti come le
amfetamine e l’Mdma in particolare agiscono su questo neurotrasmettitore,
inibendone l’assorbimento. Ciò comporta un accumulo di serotonina nel cervello,
dando luogo, per il tempo dell’effetto della sostanza, a uno stato di
entusiasmo e benessere.

Talamo: è una
struttura situata anteriormente al tronco cerebrale. In esso si trovano nuclei
di sostanza grigia (neuroni) e fibre nervose connesse a grandi aree della
corteccia cerebrale, che esso eccita, attivando la funzione elaborativa dei
contenuti emozionali percepiti dal sistema limbico, con cui è anche connesso.

 
ECCO CHI AIUTA
• Piemonte
Comunità Terapeutica «Lucignolo & Co.», Via Roma 30,
Rivoli (To): Tel. 011 9584849 – Fax: 011 9533056  – 
asl5.ct.rivoli@sert.piemonte.it.

Asl To3, Dipartimento «Patologia delle dipendenze», Viale
Martiri XXX Aprile, 30 Collegno (To);  Tel.
011 4017546 –  Fax: 011 4017480

• Toscana

Sert Arezzo, II Dipartimento delle Dipendenze di Arezzo c/o
, Via Fonte Veneziana 17, Arezzo; Tel. 0575 255943 – Fax: 0575 255942

• Trentino Alto Adige
Siipac, «Società italiana intervento patologie compulsive»,
Via Siemens 29, Bolzano:
Sito: www.siipac.it – E-mail: info@siipac.it

• Veneto

Sert di Mestre, Via Calabria 17, Mestre (Ve), Tel. 041
5440526/31

Sert di Castelfranco Veneto, Via Ospedale, 18 c/o Ospedale  Castelfranco Veneto (Tv) Tel. 0423 732736
La Bussola, Piazza Niello 1, Legnago (Vr), Tel. 349 5826279

• Lazio
Studio Krisis, Roma: www.studiokrisis.it

• Puglia

«Associazione Giocatori Anonimi» c/o Parrocchia San Sabino
di Bari, Tel. 333 6513285

• Sardegna

Sert Cagliari c/o Asl 8 Sardegna, Cagliari, Tel. 070
6096310-6096322

ASSOCIAZIONI

Alea, «Associazione
per lo studio del gioco d’azzardo e del comportamento a rischio».
Associazione Orthos (Siena, Milano, Trieste, Roma).

SITI WEB

• Sos azzardo:
www.sosazzardo.it 
• Associazione
giocatori anonimi:
www.giocatorianonimi.org

 

Rosanna Novara Topino




Gratta e Perdi: Il gioco d’azzardo (prima parte)

L’Italia è uno dei primi paesi
al mondo per i giochi d’azzardo, addirittura il primo in assoluto per quelli on
line. Nel 2012, la spesa pro-capite è stata di 1.450 euro. Le entrate per le
esangui casse pubbliche sono elevate, ma – una volta sottratti i costi diretti
e indiretti dovuti ai pesanti effetti collaterali per la collettività – lo
Stato-biscazziere non è un buon affare. Nel frattempo, i malati a causa del
gioco sono in costante aumento, e sempre di più giovani.

Qualche settimana fa, mentre ero
ferma al rosso, l’occhio mi è caduto su una sala giochi, a pochi metri
dall’incrocio. Curiosamente accanto alla sala, c’era l’ufficio di una
finanziaria. Mi è venuto da pensare che quella vicinanza fosse tutt’altro che
casuale. Voltando lo sguardo ho pure notato un cartello pubblicitario che
reclamizzava una sala scommesse. Facendo un giro per la città, mi sono resa
conto che locali come questi sono sempre più diffusi e soprattutto molto
frequentati. Poi, entrata in una tabaccheria con terminale della Lottomatica,
per pagare il bollo dell’auto, mi sono ritrovata a fare la coda dietro a
diverse persone, tra cui alcuni anziani. Questi stavano scommettendo su dei
numeri (a loro dire sicuri) e poi – per non lasciare alcunché d’intentato –
prima di uscire hanno comprato anche alcuni «Gratta e Vinci». Scene sempre più
frequenti in un’Italia, che – nel giro di pochi anni – è diventata uno dei
paesi al mondo in cui si gioca di più. Basti pensare che in Europa ci
contendiamo il primato con l’Inghilterra per le giocate di tutti i tipi, mentre
siamo terzi al mondo tra i paesi dove si gioca di più e addirittura primi per i
nuovi giochi d’azzardo on line, quelli che chiunque sia dotato di un cellulare,
un computer o un tablet può fare.
Bastano una connessione ad internet, una carta di credito e la maggiore età, ma
attenzione: per attestare quest’ultima è sufficiente l’autocertificazione. Ciò
significa che qualunque minorenne può accedere a questo tipo di giochi,
dichiarando di avere 18 anni e magari usando la carta dei genitori.

NUMERI DA RECORD

Secondo un dossier sul gioco d’azzardo del mensile Valori
(febbraio 2013), nel 2012 il fatturato legale (raccolta) del gioco d’azzardo è
stato di quasi 90 miliardi di euro, con una spesa pro capite, neonati compresi,
di 1.450 euro. Si stima che in Italia circa l’80% della popolazione adulta
partecipi saltuariamente a lotterie ed a scommesse, mentre il 13% degli
italiani gioca alle lotterie ed alle slot machine quasi ogni settimana
ed il 5% due o tre volte alla settimana. Il gioco d’azzardo è diventato la
terza industria in Italia, con  5.000
aziende e 120.000 persone che vi lavorano. Visto che il gioco d’azzardo è stato
legalizzato dal governo italiano nel 1992 per risanare le casse dello Stato,
poi nel 2006 con la legge Bersani-Visco è stato concesso alle agenzie straniere
di entrare liberamente nel mercato italiano del gioco e che infine nel 2011 il
governo Berlusconi ha liberalizzato il gioco d’azzardo on line, si
potrebbe pensare che, con un fatturato del genere, ogni anno gli introiti in
tasse sui giochi siano per lo Stato una vera e propria panacea, ma non è così.
Negli ultimi otto anni infatti, il fatturato da gioco d’azzardo è
quadruplicato, mentre le entrate fiscali sono rimaste per lo più stabili, se
non addirittura in leggera flessione. Ciò è dovuto al fatto che la tassazione è
molto diversa per i vari giochi. Si va dal 44,7% per il superenalotto e dal 27%
per il classico lotto al 3% per le videolottery e allo 0,6% per i casinò
on line. Nel 2012 le entrate fiscali legate al gioco sono state di circa
8 miliardi. Nel 2004 a fronte di un fatturato di 24,8 miliardi (rispetto ai 90
attuali), le entrate fiscali da gioco furono di 7,3 miliardi. Questo fatto, se
da un lato si può spiegare con l’enorme diffusione dei giochi d’azzardo on
line, favorita da una tassazione veramente esigua, dall’altro si può spiegare
con un megabusiness legato alle macchinette dei videopoker delle
sale giochi e dei bar, che non sempre vengono collegate via modem con la Sogei
(la «Società generale di informatica», che presiede ai controlli sul pagamento
delle imposte), favorendo così i guadagni della criminalità organizzata.
Secondo il dossier «Azzardopoli» di Libera, l’associazione contro le mafie
fondata da don Luigi Ciotti, il fatturato illegale da gioco d’azzardo del 2011 è
stato di circa 10 miliardi di euro ed è stato spartito da 41 clan mafiosi.

Consideriamo inoltre che, se da un lato l’erario ha incassato 8
miliardi nel 2012, si stima che, tra costi sanitari diretti ed indiretti e
costi legati alla perdita della qualità della vita, la collettività nello
stesso anno abbia subito un danno compreso tra i 5,5 ed i 6,6 miliardi di euro,
a cui vanno aggiunti 3,8 miliardi circa per mancati versamenti dell’Iva.

IL GIOCO,
UNA DROGA SOTTOVALUTATA

È chiaro quindi che la legalizzazione del gioco d’azzardo non è
riuscita a contribuire al risanamento delle casse dello Stato. È invece
riuscita a fare aumentare enormemente i casi di ludopatia o «Gioco d’azzardo
patologico» (Gap), che colpiscono fasce sempre più estese della popolazione,
con punte di spicco soprattutto tra quelle più deboli e meno istruite. Sono
sempre più numerosi i casi di persone, che non riescono più a staccarsi dal
gioco e che arrivano a distruggere i rapporti familiari e di lavoro, perdendo
tutti i loro averi e finendo spesso col diventare vittime di usurai. Sempre più
spesso tra i malati di gioco d’azzardo si trovano persone anziane e giovani,
anche minorenni sebbene ad essi il gioco sia vietato. A questo proposito è
possibile vedere su Youtube un video del Secolo XIX, in cui è filmato un
ragazzino di 14 anni, che entra in diverse tabaccherie di Genova acquistando
dei «Gratta e Vinci» da 5 euro e sigarette, senza che i titolari delle
tabaccherie battano ciglio sulla sua minore età. Solo in un esercizio su 5 il
ragazzo non viene servito perché minorenne. Il ragazzo entra poi in una sala
giochi e riesce a giocare alle slot machine ed ai videopoker senza problemi.
Quanto visto a Genova non è certamente un caso isolato. La situazione è la
stessa in ogni angolo del nostro paese. I giovani rappresentano una categoria
particolarmente a rischio di cadere nella ludopatia, poiché tendono a misurarsi
con il mondo degli adulti per evadere dal proprio. L’opinione pubblica e i
genitori soprattutto sembrano non essersi resi ancora conto di questo nuovo
rischio, probabilmente perché pensano che i maggiori pericoli di dipendenza
possano derivare solo dal consumo di droghe, di alcolici e di tabacco. In realtà,
siamo di fronte ad un tipo di dipendenza senza droga e nel giro di pochi anni
l’aumento del gioco patologico tra i giovani ha assunto caratteristiche
allarmanti. La Polizia postale segnala un aumento delle scommesse on line
soprattutto tra i giovanissimi, tra i quali la comparsa di un comportamento
patologico nei confronti del gioco è favorita dalla facilità di accesso a
questo tipo di giochi in assoluta segretezza, dalla pubblicità che ne viene
fatta ormai su buona parte dei mass media e dalla fragilità insita nella
giovane età. Secondo Mark Griffiths della Nottingham Trent University,
la media europea dei giovanissimi giocatori è superiore a quella degli adulti
di circa 4 volte. Il motivo dell’aumento del gioco patologico tra i giovani è,
secondo Paolo Bagnare, psicologo e consulente del Tribunale di Milano,
un’espressione di disagio. Per gli adolescenti, che non si sono ancora lasciati
completamente alle spalle il pensiero infantile, la vincita facile ha effettivamente un aspetto magico. L’adolescenza è
un periodo di transizione caratterizzato da una forte fragilità, durante il
quale i giovani tendono a cercare un appoggio esterno, per supplire alla
carenza di definizione e di forza interiore. Inoltre, in questo periodo, i
giovani sono particolarmente inclini a sfidare il mondo degli adulti, ma non
sempre sono completamente consapevoli delle loro azioni. Purtroppo, in questo
caso, i giochi on line, che si trovano in internet consentono di entrare in
contatto con un’attività da adulti, che trasmette forte eccitazione e permette
di dimenticare i problemi della quotidianità, facendo entrare i giovani in una
dimensione illusoria. Scivolare nella dipendenza diventa perciò facilissimo.

INIZIATIVE CONTRO LA DIPENDENZA

Alcune associazioni cominciano a muoversi verso questa nuova forma
di dipendenza giovanile. Tra queste ci sono l’«Associazione And» di Varese,
rivolta ai giovani tra i 17 ed i 25 anni, la cornoperativa sociale «Pars» di
Civitanova Marche, per giovani maggiorenni e, nel torinese, la comunità
terapeutica «Lucignolo & Co.», struttura pubblica del Dipartimento di
Patologia delle dipendenze dell’Asl To3 di Torino.

Per valutare la diffusione del gioco d’azzardo tra i giovani in
Italia, è stato fatto uno studio esplorativo a livello nazionale secondo gli
standard adottati dall’indagine europea Espad1 (The European School Survey Project On Alcohol And Other Drugs), che
prevedeva la compilazione in forma anonima di un questionario distribuito nelle
classi di alcune scuole superiori selezionate casualmente. Nel 2000 i giovani
che hanno dichiarato di giocare con una frequenza tra «poche volte all’anno» e «quasi
ogni giorno» sono stati il 39% degli studenti italiani, ma la percentuale è
drasticamente salita nel 2009, raggiungendo il 51,6%. In generale sono i maschi
ad essere più dediti al gioco; nell’indagine condotta, pur essendo i
maggiorenni a giocare di più, tra i minorenni che giocano, quelli che hanno
riferito di avere giocato denaro almeno una volta nell’ultimo anno sono il
55,5% maschi ed il 34,6% femmine. Tra i giochi preferiti dai giovani di
entrambi i generi in pole position c’è
il «Gratta e Vinci», seguito dalle scommesse sportive e dal
lotto/superenalotto. Molto più diffuse tra i maschi sono le macchine da gioco
elettroniche. A differenza dei giocatori adulti, per i quali il denaro è quasi
sempre la molla, che spinge a giocare, per i giovani esso non è il fine ultimo
del gioco, ma il mezzo per potere continuare a giocare.

All’inizio del 2012, i Monopoli di Stato hanno intrapreso la
campagna «Giovani e Gioco», che prevedeva la distribuzione di un Dvd a 70.000
studenti, a partire da quelli della Campania, Puglia, Sicilia, Abruzzo e
Lombardia, per estendersi 
successivamente alle altre regioni italiane ed agli studenti di età
minore. Secondo diverse associazioni, tra cui Assoutenti, Libera,
l’associazione Giovanni XXIII, il Conagga (Coordinamento Nazionale Gruppi per i
Giocatori d’Azzardo), il Cnca (Coordinamento nazionale comunità d’accoglienza)
ed secondo il cardinale Bagnasco di Genova, sotto le mentite spoglie di una
campagna per insegnare ai giovani a giocare in modo responsabile, c’è una vera
e propria istigazione al gioco. In questo Dvd, un giovane – che non gioca, ma
anzi telefona all’Asl se il padre trascorre tutto il tempo alle slot – viene visto come un bacchettone.
Per non parlare della frase «Evolve chi si prende una giusta dose di rischio,
mentre è punito chi non rischia mai o chi rischia troppo» contenuta nel Dvd, la
quale lascia chiaramente intendere che, per essere Ok, bisogna giocare almeno
un poco.

SOMMERSI DAGLI SPOT

Come accennato, una delle cause che spingono verso la dipendenza
da gioco sia i giovani, che gli adulti è la pubblicità dei giochi d’azzardo
fatta ormai su quasi tutti i media. Si vedono spot e pubblicità di giochi
ovunque: al cinema, in Tv, in internet sotto forma di banner e di link,
sui giornali e nei cartelloni stradali, che sempre più spesso pubblicizzano i
casinò on line gestiti da aziende private. Il mondo del gioco d’azzardo
investe in pubblicità circa mezzo miliardo di euro all’anno. Per tentare di
porre un argine a questo fenomeno, il Consiglio nazionale degli utenti (Cnu),
organismo istituito presso l’Agcom (Autorità garante per le telecomunicazioni),
nel 2011 ha proposto al governo di equiparare la pubblicità dei giochi
d’azzardo a quella del fumo, da anni bandita da tutti i media per la sua
riconosciuta pericolosità sociale. Per tutta risposta l’8 novembre 2012 è stato
convertito nella legge n. 189 il decreto-legge n. 158 o decreto Balduzzi, che
proibisce gli spot dei giochi d’azzardo al cinema, durante la proiezione dei film
per i minori, sulla stampa per l’infanzia e durante le trasmissioni Tv per gli under 18 (anche mezz’ora prima e dopo).
Inoltre tale legge prevede l’obbligo per i gestori delle sale da gioco e di
tutti gli esercizi, in cui vi sia la possibilità di giocare d’azzardo, di
esporre all’ingresso ed all’interno dei locali il materiale informativo
predisposto dalle Asl, diretto ad evidenziare i rischi correlati al gioco ed a
segnalare la presenza sul territorio di servizi di assistenza pubblici e del
privato sociale per la cura e il reinserimento delle persone con patologie
correlate al gioco d’azzardo. È inoltre vietata la possibilità, in ogni
esercizio pubblico, di giocare d’azzardo nei casinò on line. È previsto
il raddoppio dei controlli annui (saranno 10.000) destinati al contrasto del
gioco minorile, negli esercizi dove sono presenti le slot machine.
Inoltre queste potranno essere collocate solo lontano da zone sensibili come
scuole, ospedali e luoghi di culto. La pubblicità dei giochi dovrà indicare le
probabilità di vincita. Questa legge ha inoltre riconosciuto la ludopatia come
una patologia da curare presso i servizi pubblici per le dipendenze. In realtà,
purtroppo l’inserimento della ludopatia nei livelli essenziali di assistenza
non è accompagnato da una copertura finanziaria. I limiti posti dalla legge
alla pubblicità dei giochi d’azzardo sono decisamente poco incisivi perché
riguardano solo i minorenni e solo determinate forme di comunicazione. Inoltre,
sotto la pressione delle lobby del
gioco, è stato anche diminuito il limite di distanza dai luoghi sensibili,
portato dai 500 metri previsti dal decreto Balduzzi ai 200 metri della legge.
Per non parlare del fatto che ora è possibile portarsi un casinò nel cellulare
o nell’Ipod, quindi in tasca.

I PADRONI DEL BANCO

A proposito di lobby, chi sono gli azionisti principali,
che alimentano il gioco d’azzardo in Italia e quindi guadagnano sulla pelle dei
giocatori? Ecco qualche nome: De Agostini, Mediobanca, Lottomatica, Snai,
Assicurazioni Generali, Toro Assicurazioni, Ina Assitalia, Intesa Vita,
Alleanza Assicurazioni, Generali Horizon, Fata Assicurazioni, Genertel, Banca
Generali ed Emilio Silvestrini. Dobbiamo ricordare che, in questi tempi di
crisi, i giocatori che arricchiscono queste compagnie sono sempre più spesso
disoccupati e pensionati, che sperano di migliorare la loro condizione
economica tentando la fortuna ma che invece si rovinano, perché è matematico
che «il banco vince sempre».

Nella prossima puntata cercheremo di capire chi è più a rischio di
diventare vittima di ludopatia, cioè quali caratteristiche biologiche e
psicologiche presentano i giocatori compulsivi.

 
Rosanna Novara Topino
(fine prima parte – continua)

Rosanna Novara Topino




Malattie di tipo virale  (Malattie sessuali – 3)

Tra le malattie sessualmente trasmesse, quelle virali sono le più
recenti, diffuse e le più pericolose. Il presente articolo conclude la serie
dedicata a questo tipo di patologie di cui si parla poco, per la delicatezza dell’argomento,
ma che sono una reale emergenza a livello mondiale.

I due precedenti articoli sono apparsi su MC 2012-11, pp. 70-73 e MC 2013-01/2, pp. 59-62.

I virus trasmissibili sessualmente
sono molteplici e alcuni di essi sono responsabili delle malattie attualmente
più diffuse e spesso a esito infausto. Tra questi abbiamo l’Hiv (Human
Immunodeficiency Virus
), responsabile dell’Aids (Acquired Immune
Deficiency Syndrome
o sindrome dell’immunodeficienza acquisita), i virus
dell’epatite virale da siero (Hbv, Hcv, Hdv principalmente), gli herpesvirus
(Hsv1 e 2), il citomegalovirus (Cmv) e i papillomavirus (Hpv).

Caratteristica comune a tutti i virus è quella di essere parassiti
endocellulari obbligati. Essi non possono essere considerati esseri viventi,
poiché per riprodursi devono penetrare in una cellula e sfruttae l’apparato
della sintesi proteica per le proteine del capside virale, cioè l’involucro
proteico che contiene il genoma virale. Quest’ultimo è costituito da Dna o da
Rna (nei retrovirus come l’Hiv). Non essendo esseri viventi, i virus non
possono essere uccisi dagli antibiotici, quindi per la cura delle patologie
virali è necessario ricorrere ai farmaci antivirali. Si tratta di solito di
farmaci che bloccano specifici enzimi virali oppure i recettori di membrana,
che permettono l’ingresso dei virus nella cellula ospite. Purtroppo non sempre
esistono farmaci efficaci, come nel caso delle patologie da citomegalovirus,
oppure può esserci resistenza ai farmaci, come in certi casi di Aids, in cui si
tenta di contenere l’infezione con combinazioni di più farmaci antivirali.

I principali virus

Vediamo ora i principali virus, che per diffondersi sfruttano,
oltre ad altre modalità, anche la trasmissione sessuale.

Il virus che più fa parlare di sé attualmente è l’Hiv, ovvero il
responsabile dell’Aids, che è stata riconosciuta come malattia a sé nel 1981. I
numeri di Hiv/Aids sono impressionanti: allo stato attuale sono più di 34
milioni al mondo le persone infettate dal virus Hiv e ci sono circa 2,5 milioni
di nuovi casi d’infezione ogni anno (dati del rapporto Unaids 2012).
Ogni anno muoiono al mondo circa 1,7 milioni di persone con Aids ed il numero
complessivo di morti a partire dal 1981 è di oltre 45 milioni. Nella classifica
mondiale del maggior numero di morti per Aids, i primi 23 posti sono occupati
da paesi africani, con in testa il Lesotho con 680 morti su 100.000 abitanti
nel 2009, tuttavia le cifre sono molto preoccupanti anche nel mondo
occidentale. Negli Stati Uniti, ad esempio, dal 1981 sono stati segnalati oltre
un milione di casi di Aids, più di 500.000 persone sono morte e attualmente
oltre un milione di persone convive con il virus Hiv.

La convivenza è resa possibile dai farmaci sopra citati, che non
sono in grado di far guarire dalla malattia, ma permettono di sopravvivere con
un’aspettativa di vita simile a quella di una persona non infetta. Purtroppo i
costi di tali farmaci continuano ad essere troppo elevati per le popolazioni
del Sud del mondo e questa, unitamente alla mancanza d’informazione sulle
modalità di trasmissione della malattia e sui mezzi di prevenzione, è una delle
cause principali dell’elevatissimo numero di malati e di morti.

Trasmissione dell’HIV

L’infezione da Hiv si trasmette attraverso tre diverse modalità:
la via ematica, la via materno-fetale e la via sessuale.

La prima modalità consiste nella trasmissione attraverso il sangue
ed è tipica delle persone dedite al consumo di droghe per via iniettiva, con
scambio di siringhe e di aghi infetti, ma può interessare anche coloro che si
sottopongono a piercing, tatuaggi e mesoterapia effettuati con aghi non
sterili. Anche le cure odontorniatriche effettuate con materiali non monouso e
non adeguatamente sterilizzati possono rappresentare un serio rischio, quindi è
opportuno evitare di ricorrere a studi odontorniatrici che offrono cure a prezzi
stracciati. Infine le trasfusioni possono rappresentare un rischio, anche se
attualmente molto ridotto grazie ai test per Hiv.

La seconda modalità è tipica delle donne sieropositive o con Aids
conclamato, che trasmettono l’infezione al feto per via transplacentare oppure
al bambino durante il parto o con l’allattamento. Il rischio per una donna
sieropositiva di trasmettere l’infezione al figlio è del 20%.

La terza via è quella dei rapporti sessuali di ogni tipo,
specialmente di quelli violenti, che possono provocare sanguinamento, e
interessa tanto gli eterosessuali che gli omosessuali. Questi ultimi sono stati
la categoria maggiormente colpita agli esordi della malattia, per la possibilità
di lesioni durante i rapporti, tuttavia l’Aids si è presto diffuso alla
popolazione eterosessuale per il carattere insidioso dell’infezione, che può
essere presente in forma inapparente, per cui la persona è infetta da Hiv e lo
può trasmettere con un rapporto non protetto, pur non presentando alcun segno
di malattia. Questo è il caso di coloro che si trovano nel cosiddetto periodo
finestra, ovvero nel periodo che intercorre tra l’ingresso del virus attraverso
le mucose, che possono essere anche integre, e la positività ai test per l’Hiv
(da poche settimane a 3 mesi). Ci sono inoltre i cosiddetti «portatori sani»,
cioè coloro che hanno contratto l’infezione da Hiv, ma che per le
caratteristiche del loro sistema immunitario riescono per un tempo anche
prolungato a controllare il virus senza sviluppare la malattia, quindi senza
alcun sintomo, ma con identica possibilità di trasmettere l’infezione. La
trasmissione avviene per mezzo del contatto con i liquidi biologici infetti e
le mucose.

Per quanto riguarda la saliva, fino a non molto tempo fa non
esistevano studi scientifici che provassero la possibilità di trasmissione del
virus attraverso i baci, data la sua modesta carica virale; tuttavia
recentemente è stato documentato un caso di trasmissione attraverso il bacio
dal Cdc (Center for Disease Control and Prevention) di Atlanta (Usa),
dovuto al fatto che la persona sieropositiva presentava gengive sanguinanti e
in tal modo ha infettato la compagna baciandola.


Il Virus HIV

L’Hiv è un retrovirus che colpisce le cellule del sistema
immunitario caratterizzate dalla proteina di superficie Cd4, cioè i macrofagi
ed i linfociti T helper. L’Hiv quindi mina le difese immunitarie
dell’ospite, che diventa suscettibile a infezioni batteriche, virali, protozoarie
o fungine, nonché a diversi tipi di tumore, spesso con esito fatale. Tra le più
comuni patologie che insorgono in pazienti affetti da Aids ci sono le polmoniti
e le tubercolosi batteriche, le encefalopatie virali, il linfoma di Burkitt, il
linfoma primario del cervello e il sarcoma di Kaposi.

Per prevenire l’infezione da Hiv è indispensabile astenersi dai
comportamenti a rischio, cioè è opportuno evitare di cambiare ripetutamente
partner o i rapporti con persone appartenenti a categorie a rischio, come
soggetti dediti alla prostituzione, oppure omosessuali o bisessuali o facenti
uso di droghe per via iniettiva. è
indispensabile l’affidabilità del partner. Nel dubbio si possono intraprendere
solo due strade, cioè l’astinenza dai rapporti sessuali oppure l’uso dell’unico
mezzo efficace di barriera, che è il profilattico usato in modo corretto ovvero
dall’inizio del rapporto (di ogni tipo). Non eliminano invece la possibilità di
contagio altri dispositivi come il diaframma, la spirale, la pillola anticoncezionale,
né pratiche come le lavande dopo un rapporto. è
evidente che la fedeltà di coppia riduce drasticamente il rischio di contrarre
questa infezione con un rapporto sessuale, sempre che uno dei due componenti
non abbia contratto l’Hiv per via ematica.

Allo stato attuale si sta assistendo a un aumento del numero di
nuove diagnosi d’infezione da Hiv anche nel Nord del mondo, in particolare
negli Stati Uniti, e pare essere terminato il declino della morbilità e della
mortalità da Aids riscontrato negli anni ’90 del secolo scorso, grazie all’uso
dei farmaci antivirali combinati. Questo fenomeno è dovuto alla grande capacità
del virus Hiv di acquisire resistenza ai farmaci grazie alla sua estrema
variabilità genetica. Quest’ultima è anche responsabile delle enormi difficoltà
incontrate nella produzione di un vaccino efficace poiché essa comporta una
continua variazione delle caratteristiche antigeniche dell’Hiv. Appare chiaro
che al momento per contrastare la diffusione di questa infezione sono indispensabili
una corretta educazione sanitaria della popolazione e l’astensione dai
comportamenti a rischio.

Epatiti

Altre infezioni molto diffuse e particolarmente gravi per la
salute umana sono le epatiti da siero causate dai virus Hbv, Hcv ed Hdv. Si
tratta di virus trasmessi con le stesse modalità del virus dell’Aids, per cui
occorre seguire le medesime precauzioni. L’epatite virale da siero può essere
acuta o cronica. L’organo bersaglio è il fegato, che nella malattia acuta può
andare incontro al blocco epatico con esito fatale. Nella cronicizzazione della
malattia, il fegato subisce una serie di sequele, che portano alla cirrosi
epatica, la quale può essere seguita da un tumore. Anche in questi casi l’esito
è di solito la morte. Attualmente più di 100.000 persone in tutto il mondo e
5.000 nei soli Stati Uniti muoiono ogni anno per le conseguenze dell’epatite B,
che può presentare la coinfezione dell’Hdv, un virus difettivo, che necessita
della presenza dell’Hbv e che aumenta la gravità del quadro clinico. Il virus
Hcv è responsabile negli Stati Uniti di almeno 25.000 nuove epatiti all’anno e
di circa 10.000 morti per cancro al fegato o cirrosi.

Oggi esiste un vaccino efficace contro l’epatite B obbligatorio in
Italia dal 1991 per i nuovi nati e per il personale sanitario, mentre non
esiste alcun vaccino contro l’epatite C. In Italia attualmente ci sono 2
milioni di persone infette da Hcv, con oltre 10.000 decessi e 3.000 nuovi casi
all’anno. L’Italia risulta essere il paese europeo più colpito da questa
infezione, soprattutto al Sud, con un record di casi in Campania, Puglia,
Calabria e Sicilia.

Occorre ricordare che per i virus dell’epatite esistono i
portatori sani, fatto che aumenta enormemente il rischio di contagio attraverso
i rapporti sessuali, lo scambio di siringhe tra i consumatori di droga, le
pratiche di piercing e di tatuaggio, che comportano l’uso di aghi
potenzialmente non sterili. Inoltre anche i virus epatitici vengono trasmessi
da madre a feto.

Herpesvirus

Gli herpesvirus di tipo 1 (Hsv1) infettano normalmente la
bocca e le labbra causando le febbri vescicolari e occasionalmente possono
infettare attraverso la saliva altre regioni del corpo, tra cui quella
ano-genitale, ma quest’ultima è prevalentemente colpita dal tipo 2 (Hsv2), con
formazione di vescicole dolorose. L’infezione può essere trasmessa al neonato
per contatto, al momento del parto e può dare quadri di diversa gravità, che
vanno dall’assenza di sintomi ad una malattia sistemica con danni cerebrali,
spesso mortale. Alle donne infette viene pertanto consigliato il parto cesareo.

Il citomegalovirus (Cmv) è uno degli herpesvirus più
diffusi, essendo presente nel 50-85% della popolazione sopra i 40 anni. Negli
individui sani l’infezione è asintomatica, ma diventa pericolosa negli
immunocompromessi come i malati di Aids o i pazienti trattati con farmaci
immunosoppressori come i trapiantati, alcuni malati di cancro ed i dializzati,
nei quali provoca polmoniti, retiniti, epatiti e gastroenteriti spesso fatali.
Il virus può essere trasmesso al feto e può arrecare gravi danni al bambino,
come la perdita dell’udito o della vista, il ritardo mentale, deficit nella
cornordinazione dei movimenti e nei casi più gravi convulsioni e morte. L’85-90%
dei neonati con infezione congenita è asintomatico, ma il 10% degli
asintomatici presenta sequele tardive, con i quadri succitati.

Altri virus

Tra i più diffusi virus sessualmente trasmessi ci sono i papillomavirus
umani
(Hpv), circa 120 ceppi virali diversi dei quali il 6 e l’11 sono a basso
rischio e responsabili di lesioni benigne, solitamente localizzate nella
regione ano-genitale, dette condilomi acuminati o creste di gallo per la tipica
forma a cresta o a cavolfiore. Esiste però una decina di ceppi tra cui
soprattutto i 16, 18, 31 e 33, che sono ad alto rischio per la loro capacità di
indurre carcinomi alla cervice uterina e alle mucose genitali maschili. La
diffusione di questi virus nella popolazione mondiale è tale che attualmente
una diagnosi su tre è di Hpv. La maggior parte delle infezioni è asintomatica,
tuttavia nei soli Stati Uniti ogni anno 6 milioni di persone contraggono l’Hpv,
circa 10.000 donne sviluppano il cancro della cervice uterina e di queste ne
muoiono circa 3.700. Attualmente sono in commercio due vaccini diretti uno
contro 4 e l’altro contro 2 dei precedenti 4 ceppi virali.

La grande campagna vaccinale fatta attualmente per questi vaccini,
caldamente raccomandati alle ragazze adolescenti, ma anche ai ragazzi, presenta
notevoli distorsioni della realtà, poiché non tiene conto del fatto che tutti
gli altri ceppi virali restano liberi di agire e probabilmente risultano
rafforzati dal blocco dei 4 succitati. Inoltre questi vaccini non sono stati
adeguatamente testati, come dovrebbe essere qualsiasi farmaco prima di essere
commercializzato, per cui non ci sono dati sulla loro reale efficacia, mentre
purtroppo sono già numerose le segnalazioni di casi avversi, con conseguenze
che in alcune situazioni hanno portato nalla morte o in gravissime neuropatie (vedi
su Facebook
: «Le nostre figlie non sono cavie da esperimento»). In compenso
il business di questo vaccino è elevatissimo, poiché è gratuito per le
adolescenti solo il primo ciclo (a carico del sistema sanitario nazionale), che
va ripetuto ogni 5 anni, con un costo intorno ai 500 euro a carico della
paziente.

Rosanna Novara Topino

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Rosanna Novara Topino




USATE LA TESTA! (Malattie sessuali – 2)

LE «MALATTIE SESSUALMENTE TRASMESSE»
(seconda parte)
Per
evitare i seri problemi connessi alle malattie sessualmente trasmesse (Mst)
basterebbe tenere comportamenti prudenti e
conoscere le varie patologie.
Il tutto, come ricorda anche il nostro titolo, è riassumibile in una semplice
esortazione: «Usate la testa!».

Nel nostro precedente articolo abbiamo visto che la
diffusione delle «infezioni sessualmente trasmesse» sta assumendo proporzioni
preoccupanti a livello mondiale e che le loro conseguenze possono compromettere
seriamente la qualità della vita, se non addirittura la vita stessa. Le sequele
di alcune di queste patologie possono – inoltre – portare a sterilità. È perciò
indispensabile prevenire queste malattie, soprattutto perché non per tutte
esistono cure efficaci. La prevenzione si basa sull’adozione di comportamenti
prudenti, nonché sulla conoscenza di queste infezioni e delle loro conseguenze.
Pertanto, in questa seconda parte e nella prossima saranno descritte le
principali malattie sessualmente trasmesse.

Premetto che le malattie causate da batteri e da protozoi
sono curabili mediante antibiotici, che invece non agiscono sui virus, per
alcuni dei quali vengono utilizzate combinazioni di farmaci antivirali, che,
allo stato attuale, riescono a contenere l’infezione, ma non a guarirla
definitivamente. La cura va estesa alla coppia, per evitare possibili
reinfezioni. Nel caso di persone con rapporti promiscui, bisognerebbe risalire
a tutte le persone potenzialmente contagiate.

Cominciamo con il descrivere le malattie di più vecchia
data.

LA SIFILIDE

La sifilide (detta anche lue) è una malattia
batterica, il cui agente eziologico è il Treponema pallidum, una
spirocheta (vedi Glossario) molto sensibile alle condizioni ambientali,
per cui normalmente viene trasmessa da persona a persona attraverso un rapporto
sessuale. Talvolta avviene la trasmissione simultanea di sifilide e di
gonorrea, che vedremo successivamente. Delle due sicuramente è più pericolosa
la prima, che ogni anno uccide circa 100.000 persone al mondo, contro le 1.000
della seconda. Negli ultimi anni, l’incidenza della sifilide è aumentata a
livello mondiale. Basta pensare che solo negli Stati Uniti è passata da circa
6.000 nuove infezioni nel 1997 alle attuali più di 10.000. Troviamo un’analoga
situazione nel Regno Unito, in Australia, in Europa (specialmente nell’est
Europa ed in particolare in Russia), in Cina. Nell’Africa sub-sahariana, la
sifilide è responsabile del 20% delle morti perinatali. Si ritiene che circa 12
milioni di persone siano state colpite dalla sifilide nel 1999, con più del 90%
dei casi registrati nei Paesi in via di sviluppo. Si stima inoltre che questa
malattia colpisca tra le 700.000 e 1,6 milioni di donne gravide all’anno; in
questo caso è possibile la sua trasmissione transplacentare con aborti
spontanei, bambini nati morti e neonati con sifilide congenita. Le spirochete
della sifilide vengono trasmesse attraverso microlesioni, che possono
facilmente trovarsi sulle mucose genitali (nel 10% dei casi la sifilide è
extragenitale, di solito localizzata nella regione orale). Se non curata, la
sifilide si sviluppa in tre stadi successivi, l’ultimo dei quali può
concludersi con la morte del paziente per interessamento dei sistemi
cardio-circolatorio e nervoso. Il decorso della malattia, in assenza di cure,
può essere di svariati anni (fino a 20). Nel primo stadio, o sifilide primaria,
dopo un periodo di latenza variabile da 2 settimane a 2 mesi, compare nel luogo
d’infezione (di solito nelle mucose coinvolte in atti sessuali) una lesione
caratteristica detta sifiloma primario, una sorta di papula non dolorosa, che
produce un essudato contenente i batteri attivi ed infettivi.
Contemporaneamente si verifica il rigonfiamento dei linfonodi vicini. Questa
sintomatologia dura circa un paio di settimane, per poi risolversi spontaneamente.
Questo fatto spesso induce il paziente a sottovalutare le conseguenze: in
assenza di cure antibiotiche, ciò comporta la possibilità di diffusione delle
spirochete dal sito iniziale a varie parti del corpo tra cui le membrane
mucose, gli occhi, le articolazioni, le ossa, il sistema nervoso. A distanza di
diversi mesi (fino ad un paio d’anni) dalla lesione iniziale, compare quindi la
sifilide secondaria, caratterizzata inizialmente da un esantema (Glossario)
diffuso, detto roseola, seguito dalla comparsa di numerosissimi sifilomi simili
a quello primario, distribuiti ovunque e anch’essi contenenti treponemi
infettivi, con linfoadenopatia (Glossario) diffusa. Circa un quarto dei
pazienti in questo stadio va incontro a guarigione spontanea, un altro quarto non
procede verso un’ulteriore evoluzione della malattia, ma cronicizza in
un’infezione permanente, mentre la metà dei pazienti giunge al terzo ed ultimo
stadio, o sifilide terziaria, caratterizzata da iniziali lesioni cutanee
simil-psoriasiche ed eczematose, che possono trasformarsi in gomme luetiche (Glossario)
distribuite in tutto il corpo e da infezione dei sistemi cardio-circolatorio e
nervoso. L’interessamento di quest’ultimo porta spesso alla cecità, alla tabe
dorsale (Glossario) ed alla follia. La penicillina G benzatina è uno dei
più efficaci antibiotici contro la sifilide, quindi la malattia può essere
curata, a patto di una diagnosi tempestiva effettuabile mediante test di
laboratorio come il Vdrl e il Tpha.

LA GONORREA

La gonorrea o blenorragia è anch’essa una
malattia batterica causata da un diplococco, la Neisseria gonorrhoeae,
un patogeno molto sensibile alla disidratazione, alla luce solare ed
ultravioletta, che normalmente non riesce a sopravvivere lontano dalle mucose
del tratto genito-urinario. Questa malattia è molto più diffusa della sifilide,
poiché spesso si presenta in forma asintomatica, specialmente nelle donne,
quindi non viene riconosciuta. La sintomatologia della gonorrea è diversa tra
donne e uomini. Nelle donne si presenta con una vaginite spesso lieve, con
leucorrea (Glossario), non dissimile da quelle causate da altri
microorganismi, per cui può essere sottovalutata dalla donna, oppure con una
cervicite, poiché uno dei primi siti coinvolti è la cervice uterina. È però
temibile una sua complicanza, la malattia infiammatoria pelvica (Mip), che può
portare a sterilità. Si stima che circa 1/3 di donne infette vada incontro alla
Mip. Il diplococco della gonorrea può facilmente interessare anche le mucose
oculari e condurre a gravi infezioni oculari neonatali, che possono portare
alla cecità. L’infezione del neonato avviene alla nascita, durante il passaggio
nel canale del parto. Per prevenire questo pericolo, alla nascita gli occhi di
tutti i neonati vengono trattati con un unguento contenente eritromicina. Negli
uomini i sintomi più frequenti sono le uretriti ed i disturbi alla minzione, ma
possono verificarsi complicazioni per l’estensione dell’infezione batterica
all’epididimo ed alle vescichette seminali, con conseguente sterilità maschile.
In entrambi i sessi possono inoltre verificarsi proctiti e faringiti, poiché il
gonococco può colpire le mucose delle sedi anale e faringea. Inoltre le
complicanze da gonorrea non curata possono comprendere danni alle valvole
cardiache ed alle articolazioni. Fino agli anni ’80 il trattamento con
penicillina è stato il metodo d’elezione per curare la gonorrea, ma negli anni
successivi sono comparse forme resistenti a tale antibiotico (per mutazione
batterica), soprattutto a partire dal 2006, quando si è giunti al 14% di ceppi
di Neisseria resistenti, per cui si è dovuto ricorrere ad antibiotici diversi,
come il cefixime ed il ceftriaxone. Il problema della resistenza agli
antibiotici è di particolare gravità per tutte le patologie batteriche, perché c’è
il rischio (molto concreto ed attuale purtroppo) della diffusione o della
ricomparsa di malattie, che con la scoperta degli antibiotici erano state quasi
debellate o almeno curate agevolmente. Questo è il motivo per cui si raccomanda
di assumere gli antibiotici soltanto in casi di effettiva necessità ed
esclusivamente sotto il controllo medico, per scongiurare il rischio di
ritrovarsi infetti da un ceppo mutato, verso il quale non esistono cure. La
diffusione di questa patologia nel mondo rimane molto elevata per i seguenti
motivi: (1) non esiste una valida immunità acquisita, poiché vengono prodotti
anticorpi, che verosimilmente sono ceppo-specifici, quindi sono sempre
possibili nuove infezioni con altri ceppi di Neisseria nel corso della vita;
(2) l’uso dei contraccettivi orali favorisce l’attecchimento di questo
batterio, poiché riduce enormemente la produzione del glicogeno vaginale, con
conseguente aumento del pH vaginale e repentina scomparsa del lattobacillo di
Doderlein, un batterio commensale, la cui assenza favorisce l’infezione da
parte dei ceppi patogeni; (3) la possibilità che la malattia si presenti in
forma asintomatica nella donna favorisce enormemente la sua trasmissione nei
rapporti non protetti, specialmente nel caso di promiscuità sessuale.

INFEZIONI DA CLAMIDIA

La Chlamydia trachomatis (o più
comunemente clamidia) viene spesso trasmessa contemporaneamente alla gonorrea
(si stima nel 50% dei casi di gonorrea), oppure da sola e rappresenta una delle
più diffuse patologie a trasmissione sessuale. Si tratta di un microorganismo
intracellulare obbligato (che cioè svolge il suo ciclo vitale all’interno delle
cellule, comportamento tipico dei virus, piuttosto che dei batteri, che
normalmente stanno al di fuori delle cellule ed esplicano la loro azione con la
produzione di tossine). Tuttavia non è un virus, poiché presenta
contemporaneamente entrambi gli acidi nucleici (Dna ed Rna) ed inoltre risponde
agli antibiotici, a differenza dei virus. Si stima che le infezioni da clamidia
restino asintomatiche nel 70% delle donne contagiate e nel 50% degli uomini, il
che spiega l’enorme diffusione di questa patologia. Quando i sintomi sono
presenti, molto spesso si manifestano sotto forma di uretrite non gonococcica
in entrambi i sessi. In certi casi l’uretrite da clamidia può evolvere con
edema testicolare ed infiammazione della prostata nell’uomo e con infiammazione
della cervice e malattia infiammatoria pelvica (Mip) nella donna. Nelle donne
possono verificarsi gravi danni alle tube di Falloppio (vedi Glossario),
che portano alla sterilità in percentuale variabile tra il 10-40%. La clamidia
può essere trasmessa ai neonati al momento del parto ed essere causa di
congiuntivite e di polmonite neonatale. Alcuni ceppi di clamidia (in questo
caso non trasmessi con i rapporti sessuali, ma con l’acqua contaminata) sono
responsabili di una gravissima patologia oculare, il tracoma, spesso causa di
cecità. Questa patologia è diffusa in tutto il mondo, ma soprattutto in Africa,
Medio Oriente, Australia e parte dell’Asia. Il Paese più colpito è la Nigeria
(quasi metà della popolazione a rischio). Una patologia piuttosto insidiosa
data dalla clamidia è il linfogranuloma venereo, più diffuso tra gli uomini,
che tra le donne. La sintomatologia compare a circa un mese dal contagio e
consiste nella formazione di dolorose ulcere a livello degli organi genitali o
del retto, talvolta con formazione di fistole. Normalmente c’è rigonfiamento
dei linfonodi inguinali. In assenza di cure adeguate possono verificarsi
complicazioni per diffusione dell’infezione alle articolazioni, al sangue o al
cervello, con la comparsa di setticemia o di meningite. Il linfogranuloma
venereo è raro negli Stati Uniti ed in Europa (nel 2011 tuttavia è stato
registrato un focolaio di 72 casi a Barcellona soprattutto tra omosessuali già
contagiati dall’Hiv), mentre è più diffuso in Sud America ed in generale nei
Paesi tropicali. Questa patologia è curabile con antibiotici come la
doxiciclina, l’eritromicina e la tetraciclina.

ULCERA MOLLE E TRICOMONIASI

Tra le malattie batteriche sessualmente
trasmesse c’è anche l’ulcera molle o cancroide, data dall’Haemophilus ducrey,
molto raro nei Paesi temperati e frequente invece nei Paesi tropicali e
sub-tropicali, soprattutto in Africa, Sud America e Asia. La malattia è molto
contagiosa e l’infezione può propagarsi da un punto all’altro del corpo, ma non
costituisce una minaccia per la vita. Anche in questo caso possono esserci
persone del tutto asintomatiche, ma infettive e chi è contagiato da questo
batterio presenta un rischio sette volte maggiore di contrarre l’Aids. Anche in
questo caso si formano ulcere a livello dei genitali, con ingrossamento dei
linfonodi, fistole e perdite sierose o purulente.

Il Trichomonas vaginalis è un protozoo
responsabile della tricomoniasi. Esso si localizza prevalentemente nella
vagina, ma può interessare anche altri organi dell’apparato urogenitale e può
colpire sia donne che uomini. A livello vaginale provoca un innalzamento del
pH, poiché inibisce il lattobacillo di Doderlein, che invece acidifica
l’ambiente vaginale proteggendolo dai batteri provenienti dall’esterno. Nella
donna la sintomatologia va dalla vaginite con leucorrea all’alterazione del
ciclo mestruale, ai disturbi urinari, accompagnati da nausea, irritabilità,
dimagrimento, pollachiuria. Possono esserci manifestazioni emorragiche dovute
all’indebolimento dell’epitelio vaginale per carenza di estrogeni e per la
presenza del Trichomonas ed inoltre può esserci un rapporto tra questa
infezione e la sterilità poiché l’innalzamento del pH vaginale non è idoneo
alla sopravvivenza degli spermatozoi. È stata inoltre riscontrata una
correlazione altamente significativa tra la tricomoniasi vaginale e gli stati
precancerosi e cancerosi osservati nella citologia vaginale. Negli uomini il Trichomonas
provoca uretriti acute o croniche. Nel secondo caso possono esserci anche
balanite, prostatite ed epididimite. La terapia si avvale di antimicotici sia
per uso topico, che per via orale, come l’imidazolo ed il metronidazolo. La
percentuale di donne colpite varia tra il 9-20% nelle donne di origine
asiatica, tra il 20-30% in quelle di origine europea e tra il 40-70% in quelle
di origine africana. La percentuale di uomini colpiti si aggira intorno al 10%.
È opportuno ricordare che il Trichomonas vaginalis può sopravvivere 1-2
ore su superfici umide e 30-40 minuti in acqua, per cui può essere acquisito,
oltre che con i rapporti sessuali, anche attraverso l’uso di servizi igienici,
panche, saune ed asciugamani contaminati.

Le malattie viste finora sono tutte di tipo
batterico o protozoario, di solito controllabili con antibiotici. Negli ultimi
tre decenni si sono però diffuse infezioni sessualmente trasmesse – provocate
da virus come quello dell’Aids, delle epatiti virali, dell’herpes genitale e
del papilloma umano – molto più difficili da affrontare e responsabili di
milioni di decessi. Le scopriremo nella prossima puntata.

Rosanna
Novara Topino

(fine seconda parte –
continua)

GLOSSARIO

Balanite:
infiammazione della testa del glande spesso estesa anche al prepuzio. In questo
caso si dice balanopostite.

Cervicite:
infiammazione della cervice uterina.

Citologia
cervico-vaginale
(Pap Test): studio delle esfoliazioni dell’epitelio vaginale
altrimenti conosciuto come Pap Test, dal nome del suo ideatore George
Papanicolau. L’esame serve ad evidenziare lesioni citologiche precursori di
neoplasie cervicali, in modo da effettuare sia la prevenzione che la diagnosi
precoce dei tumori del collo dell’utero. Permette inoltre di evidenziare le
lesioni cervico-vaginali virali, batteriche, micotiche o protozoarie e di
valutare il clima ormonale.

Diplococchi:
tipi di batteri sferici od ovoidali (cocchi) riuniti in coppie, come il gonococco
(gonorrea) ed il meningococco (meningite).

Epididimo:
è una parte dell’apparato genitale maschile. Si tratta di un dotto di piccolo
diametro più volte ripiegato, che collega i dotti efferenti dal retro del
testicolo al dotto deferente.

Esantema:
qualsiasi eruzione cutanea con alterazione del colore della cute.

Glicogeno:
è un polimero del glucosio di origine animale analogo all’amido di origine
vegetale. Funziona da sostanza energetica di riserva.

Gomma
luetica
: processo patologico caratteristico del periodo terziario della
sifilide che si manifesta con lesioni singole o multiple, costituite da nodosità
piuttosto grosse localizzate agli arti, alla cute, alle mucose, al fegato, alle
ossa e ad altre parti del corpo. Dopo un primo periodo detto di crudezza, in
cui le lesioni si presentano dure, queste nodosità si rammolliscono e
successivamente si ulcerano liberando una sostanza filante costituita da
residui necrotici dei tessuti caduti in disfacimento.

Fistola:
comunicazione patologica tubulare tra due strutture o tra due cavità
dell’organismo o tra esse e l’esterno.

Leucorrea:
secrezione vaginale abbondante.

Linfoadenopatia:
tumefazione, cioè ingrossamento dei linfonodi. In genere si manifesta nel
collo, nelle ascelle, nell’inguine, nel torace e vicino alle clavicole. Può
manifestarsi in concomitanza di processi infiammatori, linfomi, infezioni
virali o batteriche, alterazione della produzione endocrina, neoplasie o
patologie del tessuto connettivo.

Pollachiuria:
emissione con elevata frequenza di piccole quantità di urina. Può essere
correlata a malattie della vescica, dell’uretra e della prostata di tipo
infiammatorio o neoplastico.

Proctite:
infiammazione dell’intestino retto.

Setticemia:
detta anche sepsi, è una complicazione potenzialmente letale di un’infezione.
Si verifica quando le sostanze chimiche, che entrano in circolo per combattere
l’infezione, scatenano un’infiammazione diffusa in tutto l’organismo.
L’infiammazione crea trombi microscopici, che possono impedire alle sostanze
nutritive e all’ossigeno di raggiungere gli organi. È così possibile il
verificarsi dello shock settico, con improvvisa diminuzione della pressione e
decesso del paziente.

Spirochete:
batteri a forma di spirale e dotati di flagelli alle due estremità.

Test
sierologici:
per l’identificazione della sifilide, Tpha (Treponema Pallidum
Hemoagglutination Test) e Vdrl (Venereal Disease Research Laboratories).

Tabe
dorsale:
malattia del midollo spinale conseguente all’infezione sifilitica,
dopo 5-15 anni. Rappresenta una delle manifestazioni più importanti del periodo
terziario. Questa malattia produce lesioni ai nervi radicolari, provocando la
distruzione progressiva delle radici posteriori. Prevalgono gravi disturbi
della cornordinazione dei movimenti, diminuzione o abolizione della sensibilità
profonda o tattile, con conservazione di quella termica e dolorifica.

Tube
di Falloppio:
dette anche salpingi o ovidotti, sono due organi tubulari che
collegano le ovaie alla cavità uterina, permettendo il passaggio dell’ovocita e
la sua fecondazione.

Uretrite:
infiammazione dell’uretra.

(RNT)

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Rosanna Novara Topino




INCONTRI RAVVICINATI (Malattie sessuali – 1)

LE «MALATTIE SESSUALMENTE TRASMESSE» (prima
parte)
A causa
della delicatezza del tema, le «Malattie sessualmente trasmesse» (Mst) sono un’emergenza
mondiale poco conosciuta. Ma i numeri
parlano chiaro: 340 milioni di nuovi casi ogni anno e di questi
111 milioni riguardano
giovani sottorni 25 anni. Aids escluso.

PREMESSA

La mia passata esperienza di ricercatrice in campo medico e
quella attuale di insegnante di scuola superiore e di madre di una ragazza di
17 anni mi hanno convinta della necessità di proporre il delicato argomento
delle «Malattie sessualmente trasmesse» (Mst) alla redazione di MC, che ha
accettato, concordando sulla necessità di offrire soprattutto ai giovani, ma
anche ai meno giovani una maggiore informazione e di conseguenza una maggiore
consapevolezza dei rischi, che potrebbero correre durante eventuali «incontri
ravvicinati».

Una delle emergenze meno conosciute, ma più temibili, che
caratterizza il panorama sanitario attuale a livello mondiale è la diffusione
delle «Malattie sessualmente trasmesse» (Mst) o veneree. È opinione comune,
specialmente tra i giovani, che, a parte l’Aids, queste malattie siano ormai
retaggio del passato. Purtroppo i dati dell’«Organizzazione mondiale della
sanità» (Oms) rivelano una situazione diametralmente opposta. Ci sono infatti
circa 340 milioni di nuovi casi all’anno al mondo di Mst escluso l’Aids e, di
questi, 111 milioni riguardano giovani sotto i 25 anni. Nei paesi più poveri,
gli adolescenti colpiti da queste malattie sono l’85%. Si stima che ogni anno
un adolescente su quattro di età compresa tra 13 e19 anni contragga una Mst
attraverso un rapporto sessuale.

OLTRE LA «STORICA» SIFILIDE

Accanto alle malattie veneree tradizionali, o
di prima generazione – la sifilide o lue, la gonorrea, il linfogranuloma
venereo e l’ulcera molle -, le nuove conoscenze in campo microbiologico e
clinico hanno permesso l’individuazione di oltre 20 diversi agenti eziologici
(vedi Glossario), tra batteri, virus, protozoi e parassiti, responsabili
di circa trenta Mst, che vengono definite di seconda generazione. Le Mst di
prima generazione sono quelle storiche, mentre quelle di seconda generazione
hanno fatto la loro comparsa nel ventesimo secolo. Sono infatti emersi nuovi
agenti infettanti.

Le cause sono molteplici. Una di esse è
l’aumento delle terapie antibiotiche non mirate, che possono avere creato una
selezione o una mutazione dei ceppi responsabili in passato di altre malattie.
Un’altra causa potrebbe essere la mobilità delle popolazioni. Basta pensare
alla sifilide portata in Europa probabilmente dai marinai di Cristoforo Colombo
e diffusasi con una prima epidemia a Napoli nel 1495, a seguito della discesa
dell’esercito francese guidato dal re Carlo VIII. Il ritorno verso nord
dell’esercito diffuse la malattia prima in tutta l’Italia e poi in tutta Europa,
fino a giungere in Oriente. La malattia venne denominata ovunque «mal francese»,
tranne in Francia, dove venne chiamata invece «mal napolitain». Tra gli agenti
responsabili delle nuove Mst sono stati individuati il Trichomonas vaginalis,
la Chlamydia trachomatis, il Mycoplasma spp, l’Herpes simplex
virus
(Hsv) di tipo 1 e 2, una notevole varietà (oltre 100) di tipi di Papilloma
virus umani
(Hpv), i virus dell’epatite B e C, oltre a quello dell’Aids
(Hiv). Al di là del quadro clinico presentato dalle singole Mst, più o meno
grave a seconda del tipo (si va dalle perdite mucose alle ulcere genitali,
all’edema inguinale, al dolore intenso all’addome inferiore ed alle infezioni
oculari neonatali), un aspetto molto preoccupante di queste malattie è
rappresentato dalle loro conseguenze e complicanze, che limitano fortemente la
capacità riproduttiva. Tra queste ricordiamo la malattia infiammatoria pelvica
(Mip o Pid cioè «pelvic inflammatory disease», vedi Glossario),
la sterilità tubarica, l’ipofertilità sia maschile che femminile, la gravidanza
ectopica (Glossario), l’endometrite (Glossario) post-partum, il
parto pretermine, le stenosi uretrali, l’aborto, la morte pre e perinatale,
l’oftalmia neonatorum e la sifilide congenita, causata dalla
trasmissione verticale da madre a feto. È perciò di importanza fondamentale
prevenire l’insorgenza e la diffusione delle Mst, perché altrimenti
aumenteranno sia il numero dei malati, che quello delle  persone sterili. Inoltre alcune di queste
infezioni possono alla lunga causare l’insorgenza di tumori, come quello da
Hpv, che è responsabile del carcinoma della cervice uterina, oppure le epatiti
virali, che possono provocare l’epatocarcinoma (o carcinoma del fegato).

L’AVANZATA DEL CONDILOMA

È evidente come le cure di queste malattie e
delle loro complicanze possano incidere pesantemente sulle risorse finanziarie
del Sistema sanitario nazionale (servono 400 euro a persona, in Italia, solo
per curare la condilomatosi da Hpv, una delle manifestazioni meno gravi).
Attualmente in Europa le Mst rappresentano le infezioni più diffuse dopo quelle
respiratorie e sono tornate all’ordine del giorno dei sistemi sanitari europei
a seguito dell’elevata incidenza nei nuovi paesi membri, cioè quelli dell’ex
blocco sovietico. Secondo l’Ufficio regionale europeo dell’Oms, l’incidenza
delle Mst nei paesi dell’est europeo è mediamente 100 volte superiore a quella
dei paesi occidentali (da 62,8-164,1 su 100.000 persone a 1,46 su 100.000). In
Russia nel 1990 c’è stata un’epidemia di sifilide, che ha iniziato a declinare
solo nel 1998, ma che ha portato ad un aumento della sifilide congenita. Nei
paesi occidentali, dagli anni ’70 al 2000, si è osservato un progressivo
aumento delle Mst virali, come le patologie da papilloma virus umano (Hpv), da Herpes
simplex
1 e 2 (Hsv), da virus dell’immunodeficienza umana, o Aids (Hiv) e
delle epatiti B e C, mentre sono diminuiti i casi di Mst classiche di origine
prevalentemente batterica (sifilide, gonorrea, linfogranuloma venereo, ulcera
molle, granuloma inguinale). Tra le Mst virali, i condilomi acuminati (vedi Glossario)
da Hpv sono al primo posto per numero di visite e diagnosi. Si stima che 20
milioni di statunitensi abbiano già contratto questa infezione e che ogni anno
vi siano 5 milioni di nuovi casi. La stessa situazione è presente in Europa,
dove i condilomi acuminati rappresentano un terzo delle diagnosi di Mst.

Se le Mst di prima generazione hanno
presentato un progressivo calo fino al 2000, fin quasi a scomparire in Europa e
negli Stati Uniti, dal 2000 in poi la situazione si è ribaltata e attualmente
queste patologie mostrano nei paesi occidentali, Italia compresa, una
recrudescenza soprattutto nelle grandi città metropolitane e tra le categorie
di popolazione a maggiore rischio di contagio, come gli omosessuali, chi fa
sesso a pagamento ed i migranti. Queste attuali riemergenze di patologie, che
sembravano ormai debellate, sono correlabili con i rapidi cambiamenti dei
comportamenti sessuali, come un sempre maggiore ricorso a pratiche sessuali a
rischio ed un sempre minore uso del preservativo, anche tra gli individui
portatori di Hiv conclamato (Glossario). Diversi studi hanno dimostrato
che l’aumento della diffusione delle Mst è relazionabile con l’aumento dei casi
di Aids e, viceversa, come i malati di Mst siano a maggiore rischio di
contrarre anche l’Aids.

I FATTORI DI RISCHIO

I fattori di rischio per le Mst sono
molteplici. Al primo posto c’è la promiscuità sessuale, cioè l’elevato numero
di partners, soprattutto nei casi di rapporti occasionali. Abbiamo poi
la coinfezione con Hiv, oppure una precedente storia di Mst. Sicuramente tra i
fattori di rischio c’è un’informazione carente, che purtroppo riguarda fasce
sempre più ampie di popolazione, nonché il mancato utilizzo di mezzi di barriera
nei rapporti a rischio.

Ci sono delle condizioni predisponenti alle
Mst sia biologiche, che comportamentali. Tra le prime c’è la giovane età, in
quanto i giovani hanno i tessuti genitali ancora immaturi, quindi più ricettivi
verso i patogeni, inoltre molto spesso non hanno ricevuto un’adeguata
educazione sanitaria, il che comporta un significativo calo della percezione
del rischio d’infezione ed infine accedono poco ai servizi sanitari, per questo
tipo di problemi. Le donne sono più suscettibili, per la complessità
dell’apparato genitale femminile, nel quale i patogeni hanno una maggiore
probabilità di stabilirsi. Infine sono a rischio di contrarre una Mst i
soggetti che presentano uno stato di immunodeficienza, prodotto – ad esempio –
da tossicodipendenza e alcolismo, che comportano un abbassamento delle difese
immunitarie nonché riduzione della lucidità e, con essa, dell’attenzione verso
i rapporti a rischio. Per quanto riguarda le modalità di contagio, questo può
verificarsi sia in rapporti omo, che eterosessuali, ma per molte Mst esiste,
come già visto, anche quello da madre a feto. La sintomatologia è variabile, a
seconda della Mst, ma è anche possibile la completa assenza di sintomi e di
lesioni visibili, pur essendo presente la malattia e, soprattutto, la
possibilità di trasmetterla. È infatti possibile che il soggetto sia un
portatore sano (Glossario), oppure che si trovi nel periodo di latenza
della malattia. In questi casi c’è completa assenza dei sintomi, ma la persona
può infettare il partner, nel quale la malattia può invece manifestarsi. Questo
avviene tipicamente nell’Aids e nell’epatite B e C, malattie virali che
peraltro non si trasmettono solo con i rapporti sessuali, ma anche tramite la
contaminazione con sangue o con liquidi organici infetti (trasfusioni, ferite
con strumenti non adeguatamente sterilizzati, ecc.). Si ritiene che il 10-20%
della popolazione maschile ed il 75% di quella femminile con infezione da Chlamydia
trachomatis
rimanga asintomatico, il che comporta la facile trasmissibilità
dell’infezione durante i rapporti sessuali non protetti ed il mancato ricorso
alle cure mediche. Il decorso asintomatico tuttavia non esclude le complicanze
a lungo termine. Si registra, ad esempio, la comparsa della malattia
infiammatoria pelvica (Mip, vedi Glossario) nel 15% delle adolescenti
infette da Chlamydia non curate, con il rischio di andare incontro a
lesioni tubariche ed a sterilità.

Mentre in passato le Mst erano più spesso
associate alla prostituzione ed alle immigrazioni di popolazioni alla ricerca
di migliori condizioni di vita, attualmente queste malattie si correlano anche
al turismo sessuale, un fenomeno in continua crescita (MC ne ha parlato più
volte
), con un business che ogni anno fattura circa 5 milioni di
dollari e che coinvolge uomini, donne e bambini. Le aree maggiormente
interessate da questo fenomeno sono l’Asia, l’America Latina e l’est europeo.
Secondo il rapporto Unicef del 2006 sulla condizione dell’infanzia nel mondo,
il Brasile, il Messico, la Thailandia e la Cina sono i paesi con il più alto
traffico e sfruttamento dei minori, mentre l’Italia è risultata al primo posto
tra i paesi europei per il turismo sessuale. Tra l’altro questo fenomeno non è
più ad esclusivo appannaggio maschile, ma si sta diffondendo anche il turismo
sessuale femminile.

IL «PAPILLOMA VIRUS» E L’«HERPES SIMPLEX»

In Italia la diffusione delle Mst è valutata
da un sistema di sorveglianza attivo presso l’Istituto superiore di Sanità,
sulla base delle diagnosi effettuate da una rete di centri specialistici
pubblici (la notifica della diagnosi delle Mst è obbligatoria). Sulla base dei
dati raccolti da questo sistema emerge che il 90% dei pazienti è eterosessuale,
che oltre il 40% dei pazienti sono donne, che circa il 15% non è italiano e che
il 21,4% ha già avuto almeno una Mst in passato. L’età del primo rapporto
sessuale risulta essere inferiore a 16 anni nel 38,5% dei casi e spesso questi
ragazzi hanno dichiarato di avere avuto più di due partners. Inoltre, dalle
loro dichiarazioni emerge che il 51,8% fa regolarmente uso del preservativo,
mentre il 48% non sempre, poco o per nulla. Tra le malattie batteriche o
protozoarie più diffuse ci sono la Chlamydia trachomatis, il Trichomonas
vaginalis
e la gonorrea, ma, come visto, sono in aumento i casi di sifilide.
Tra le malattie virali più diffuse si registrano, oltre l’Aids e le epatiti B e
C, gli Herpes simplex 1 e 2 ed i papilloma virus (questi ultimi da soli
causano un terzo di tutte le Mst virali mondiali). Per quanto riguarda i
papilloma virus (Hpv) – responsabili sia dei condilomi acuminati, che del
tumore della cervice uterina – è stata avviata una controversa campagna
vaccinale, di cui parleremo nella prossima puntata.

Con riferimento alla diffusione nel mondo
delle Mst, la maggior parte delle patologie si manifesta nell’Asia meridionale
e sud-orientale, seguita dall’Africa sub-sahariana e dall’America latina e
caraibica. Nei paesi in via di sviluppo, le Mst e le loro complicazioni sono
tra le prime cinque classi di malattie, che comportano il ricorso della
popolazione adulta alle cure mediche. Questo ha una notevole rilevanza dal
punto di vista economico, poiché tali cure da sole assorbono il 17% della spesa
sanitaria di questi Paesi. La patologia più diffusa in questi Paesi è l’Herpes
simplex
2, la causa più frequente di ulcere genitali. Nell’Africa
sub-sahariana ne sono affetti il 30-80% delle donne ed il 10-50% degli uomini.
Nel sud America la percentuale è del 20-40% nelle donne, in Asia del 10-30%
della popolazione totale. L’Herpes simplex 2 ha un ruolo importante nel
contrarre l’Aids. Lo dimostrano i dati della Tanzania, dove si riscontra la
coinfezione nel 74% degli uomini con questa Mst e nel 22% delle donne.

INFORMARE ED EDUCARE

Come si evince da questi dati, le Mst sono
uno dei problemi principali di salute pubblica a livello mondiale ed il
controllo della loro diffusione è una delle priorità dell’Oms. In particolare,
per quanto riguarda i giovani, è fondamentale monitorare la diffusione delle
Mst tra gli adolescenti, effettuando test di screening nelle scuole per
patologie ad altissima diffusione, come la Chlamydia. È altresì
fondamentale informare/educare i ragazzi, poiché l’informazione è la pietra
miliare nella riduzione delle Mst. Quando infatti si parla di queste malattie, è
facile incorrere in due grossi errori. Il primo è pensare che in questa
categoria rientri solanto l’Aids; il secondo errore è ritenere che, se i media
non affrontano questo argomento per un certo tempo, voglia dire che le Mst sono
diminuite o sono state addirittura debellate. L’informazione dovrebbe invece
giungere a tutti e ai giovani in particolare in modo corretto e capillare, sia
a livello scolastico, sia attraverso i mezzi di comunicazione. Ed è proprio in
quest’ottica, che su MC appare questo articolo, cui seguirà un secondo con la
descrizione delle principali Mst e delle loro complicanze.

Rosanna
Novara Topino

(fine prima parte)
 
GLOSSARIO

Agente eziologico: gli agenti eziologici o patogeni sono
i fattori, che causano malattia. Possono essere singoli o molteplici. In questo
caso si parla di malattia multifattoriale. Tra i principali agenti eziologici
di malattie infettive abbiamo i virus, i batteri, i funghi, i protozoi ed i
parassiti.

Clinica: metodologia medica basata sull’esame diretto del
paziente e sulla cura non chirurgica delle varie patologie.

Condiloma acuminato: viene anche chiamato verruca
genitale. Si tratta di una o più escrescenze o protuberanze causate dal virus
del papilloma umano (Hpv). È una delle più comuni Mst. Si possono avere più
condilomi raggruppati, che ricordano una cresta di gallo o un cavolfiore. La
localizzazione è prevalentemente sugli organi genitali, sull’inguine e sulle
cosce. Solitamente non causano dolore. Si trasmettono principalmente attraverso
il contatto sessuale con una persona infetta e possono comparire anche dopo
settimane o mesi dal rapporto.

Endometriosi: malattia cronica originata dalla presenza
anomala del tessuto che riveste la parete intea dell’utero, detta endometrio
in altri organi, come ovaie, tube, peritoneo, vagina, intestino. Ogni mese il
tessuto endometriale impiantato in sede anomala va incontro a sanguinamento
sotto l’influsso degli ormoni, che regolano il ciclo mestruale, esattamente
come l’endometrio vero e proprio. Tale sanguinamento porta ad un’irritazione
dei tessuti circostanti, con formazione di tessuto cicatriziale e di aderenze.

Gravidanza ectopica: gravidanza extrauterina, che si
svolge in una sede diversa dall’utero. Possiamo avere gravidanze tubariche,
tubo-ovariche, ovariche, addominali, come conseguenza del mancato impianto
dell’embrione nella cavità uterina, per diversi motivi. Il rischio di
gravidanza ectopica è maggiore nelle donne meno giovani e nelle nullipare, che
hanno avuto aborti plurimi. La gravidanza ectopica non diagnosticata o
riconosciuta tardi può complicarsi fino all’esito letale. L’emorragia intea
può provocare shock emorragico oppure una grave anemia.

Lesioni tubariche: lesioni alle tube di Falloppio, che
possono essere causa di sterilità, a seguito dell’ostruzione delle tube stesse,
con conseguente impedimento del trasporto degli ovociti. Viene inoltre a
mancare un ambiente adatto alla fecondazione. Le cause possono essere varie.
Tra queste abbiamo infiammazioni, infezioni, interventi chirurgici addominali
seguiti da aderenze dei tessuti, endometriosi.

Malattia infiammatoria pelvica: questa espressione indica
generalmente un’infezione ed infiammazione degli organi superiori dell’apparato
genitale femminile. L’infezione può interessare l’utero, le tube, le ovaie.
All’interno di questi organi possono formarsi cicatrici, che possono provocare
sterilità, gravidanze ectopiche (voce corrispondente), dolore pelvico cronico,
ascessi. Sono più a rischio le donne con una Mst, ma anche le giovani sotto i
25 anni, per relativa immaturità dei tessuti genitali. Tra gli altri fattori di
rischio ci sono le lavande vaginali ed i dispositivi anticoncezionali
intrauterini (Iud).

Neuropatia: patologia che colpisce il sistema nervoso
periferico (i nervi), ad eccezione del nervo olfattivo e di quello ottico. Può
essere localizzata in uno o più nervi. Si possono avere deficit positivi da
irritazione (aumento della funzionalità) o negativi (diminuzione). Tra i
deficit sensitivi abbiamo le parestesie ed i dolori urenti distali, le
anestesie della cute correlate a deficit motori, le atrofie e le ipotonie
muscolari dolenti alla pressione, l’assenza di riflessi propriocettivi, ecc.

Portatore sano: persona affetta da un agente eziologico,
senza i segni clinici della malattia, ma con possibilità di infettare gli
altri. Tipico è il caso dei portatori sani del virus Hiv dell’Aids e delle
epatiti B, C e D. Questa condizione dipende dalle difese immunitarie della
persona, in questo caso particolarmente forti.

Sieropositivo: persona che presenta un agente eziologico
nel sangue e negli altri liquidi organici. Sia le persone con malattia
conclamata, che i portatori sani sono sieropositivi, quindi infettivi per gli
altri. Sono altresì infettivi anche coloro che si trovano nel periodo di
latenza della malattia e coloro, che, pur essendo clinicamente guariti, per un
certo tempo rilasciano ancora i virus. La guarigione definitiva dalla malattia
si ha quando si raggiunge la sieronegatività (laddove possibile).

R.N.T.

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Rosanna Novara Topino




Star male da mangiare

Cause e conseguenze dell’obesità

Al problema della fame nel mondo si aggiunge l’obesità, che tocca un miliardo di persone.
Nei paesi ricchi ma anche in quelli poveri.
L’Italia è al primo posto in Europa per persone in sovrappeso. Le cause sono quello che mangiamo e il nostro modo di vivere. E l’obesità scatena una lunga serie di malanni.

Da sempre la fame nel mondo assilla l’umanità e tuttora muoiono di fame complessivamente più di 7,6 milioni di bambini in età prescolare ogni anno. Eppure a questo problema, ben lontano dall’essere risolto, se ne è aggiunto un altro, insospettatamente presente ovunque, anche nei paesi in via di sviluppo: l’obesità.
Secondo i dati dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), il numero di persone in sovrappeso nel mondo è di oltre un miliardo (di cui 300 milioni francamente obese), decisamente superiore a quelle che soffrono la fame, cioè 925 milioni (rapporto Fao del 2010). Una vera e propria epidemia.
Oltretutto l’Oms stima una crescita dell’obesità del 50% nei prossimi 10 anni. In alcuni paesi occidentali, come gli Stati Uniti, si calcola che solo una persona su tre sia normopeso, ma troviamo dati preoccupanti anche in Messico, Egitto e Sudafrica con più della metà degli adulti in sovrappeso, cioè con indice di massa corporea (Imc) pari o superiore a 25. L’Imc è il rapporto tra il peso espresso in chili e  il quadrato dell’altezza espressa in metri. Negli stessi paesi un quarto della popolazione è obesa (Imc pari o superiore a 30). In quasi tutti i paesi dell’America Latina, in buona parte del Medio Oriente e del Nord Africa almeno un quarto degli adulti è sovrappeso. Ormai iniziano a fare i conti con questo problema anche paesi molto poveri come l’Uganda e la Nigeria.

Situazione Italia
Secondo i dati del ministero della Salute, l’Italia è al primo posto in Europa, con il 36% delle persone in sovrappeso. Un altro dato allarmante dell’Oms riguarda il tasso d’incremento dell’obesità infantile, che è in continua crescita. Complessivamente i bambini rappresentano la metà degli individui stimati in sovrappeso ed in particolare 40 milioni di loro sono clinicamente obesi nel mondo. Nel nostro paese, secondo un’indagine promossa dal ministero della Salute e condotta tra i bambini di 9 anni, in alcune città campione di Lombardia, Toscana, Emilia Romagna, Campania, Puglia e Calabria, il 23,9% è in sovrappeso ed il 13,6% è obeso. Questa indagine inoltre ha evidenziato una maggiore prevalenza dell’obesità nelle città del Sud (16% a Napoli), rispetto a quelle del Nord (6,9% a Lodi).
Il problema dell’obesità si è ovunque acuito negli ultimi 20 anni, complici la sempre maggiore disponibilità di cibo e le innovazioni tecnologiche, che ci evitano una buona parte dei lavori faticosi.
Ma se questa situazione è più facilmente comprensibile nei paesi ricchi, viene da chiedersi cosa stia succedendo in quelli più poveri. In questo caso possiamo parlare di «transizione alimentare», cioè il passaggio dalla denutrizione all’iperalimentazione avvenuto in meno di una generazione. Chi si reca attualmente in paesi come Messico, Cina, India, Filippine può osservare situazioni molto diverse rispetto ad una ventina di anni fa: è aumentato enormemente il consumo di bibite, i ragazzini passano molte ore davanti alla tv, gli adulti si spostano sempre più in motorino anziché a piedi e il cibo viene comperato al supermercato, dove abbondano dolcificanti, oli di semi e cai a basso costo, conseguenza del business agroalimentare.
Inoltre è aumentata l’urbanizzazione. Peraltro si riscontra un aumento dell’obesità anche nelle aree rurali. Il Messico è forse il paese in via di sviluppo più colpito dall’epidemia di obesità: nel 1989 le persone in sovrappeso erano meno del 10% della popolazione, mentre l’obesità conclamata era praticamente inesistente. In un’indagine nazionale del 2006, il 71% degli uomini ed il 66% delle donne sono risultati in sovrappeso o obesi, una situazione molto simile a quella riscontrata negli Stati Uniti.
Sicuramente, tanto nei paesi meno sviluppati che in quelli ricchi, l’obesità prevale tra le persone povere e con un basso livello di istruzione.
Parallelamente alla crescita del numero degli obesi, in Messico è cresciuto quello degli individui ammalati di diabete di tipo 2 (o dell’adulto), che fino a 15 anni fa era pressoché inesistente, mentre ora ne soffre quasi un sesto della popolazione.

Tutti i mali dell’obesità
La situazione messicana rispecchia quella a livello mondiale: agli inizi del 2000 c’erano circa 170 milioni di individui affetti da diabete di tipo 2, mentre si prevedono 366 milioni di malati nel 2030, secondo l’andamento attuale. L’obesità, oltre che al diabete di tipo 2, risulta associata a una pletora di ulteriori problemi sanitari (che si riscontrano sempre più spesso anche tra gli obesi in età giovanile) come il rischio di sviluppare  aterosclerosi, disordini neurodegenerativi, patologie dell’apparato respiratorio, alcune forme di cancro, sindrome metabolica (intesa come un complesso di condizioni legate all’obesità).
La sindrome metabolica è direttamente correlata a un aumentato rischio cardiovascolare, la principale causa di morte tra gli obesi. Certamente per l’insorgenza del diabete di tipo 2 è importante la predisposizione genetica, tuttavia vi sono parecchie evidenze che lo stile di vita e in particolare l’obesità svolgono un ruolo cruciale.
È emblematica, in tal senso, la storia degli indiani Pima, originari del Messico e migrati circa 2000 anni fa in Arizona, dove riuscirono a rendere fertile una zona desertica. Questa popolazione è geneticamente predisposta al diabete di tipo 2, tuttavia vivendo per secoli con una dieta ricca di fibre e di carboidrati complessi e povera di grassi, è riuscita a vivere a lungo priva della malattia. Agli inizi del ´900 gli americani colonizzarono quella zona, deviarono il corso di un fiume e resero nuovamente desertica l’area occupata dai Pima, che vennero risarciti dal governo americano con foiture di zucchero, farina e lardo. Le abitudini alimentari di questa popolazione variarono bruscamente, con il risultato che essi si ritrovarono con la più elevata prevalenza mondiale di diabete di tipo 2, in associazione all’obesità, cioè l’85% della popolazione. Analizzando gli indiani Pima rimasti in Messico, con le antiche abitudini alimentari, la prevalenza del diabete è risultata di poco inferiore al 10%.
Del resto, l’obesità favorisce un’alterazione del normale funzionamento del segnale dell’insulina, a livello cellulare, che si traduce nell’insulino-resistenza caratteristica del diabete di tipo 2. L’insulina è un ormone ipoglicemizzante prodotto dalla porzione endocrina del pancreas. Tale ormone stimola le cellule ad assumere il glucosio dal sangue (da cui la riduzione della glicemia) e a utilizzarlo per la produzione dell’energia utilizzata nelle molteplici funzioni cellulari.
È stato rilevato che l’80% dei pazienti diabetici è obeso e che la correlazione tra le due patologie è ancora più forte quando l’obesità è di tipo addominale. Entrambe le patologie risultano associate ad un incremento della disponibilità alimentare e ad una riduzione dell’attività fisica.

Problemi di comunicazione
L’organismo umano è programmato per fare fronte alle scarsità alimentari, per cui non è capace di rispondere adeguatamente a disponibilità praticamente illimitate di fonti caloriche, né all’enorme risparmio energetico derivante dall’utilizzo di macchinari, che ci evitano i lavori più faticosi. Il nostro corpo immagazzina l’energia in eccesso nel tessuto adiposo, che sarebbe meglio considerare come «organo adiposo» poiché capace di produrre ormoni propri, in particolare la leptina, una molecola che informa il cervello sul contenuto in grasso delle cellule adipose. L’informazione giunge all’ipotalamo, una parte del cervello che presenta il «centro della sazietà» e il «centro della fame». Altre informazioni importanti per la regolazione del livello energetico giungono al cervello da stomaco, fegato ed intestino.
È probabile che nelle persone obese esista un difetto di comunicazione tra gli organi suddetti e il cervello, con conseguente attivazione del «centro della fame».
Certamente l’enorme diffusione dei supermercati tanto nei paesi ricchi, quanto in quelli poveri ha reso facilmente disponibili in grande quantità e a costi relativamente bassi bevande dolcificate, cibi industriali, cibi di origine animale e oli di semi, cioè sostanzialmente alimenti ad alta densità energetica. Poiché il corpo umano regola l’appetito in base al volume di cibo introdotto, piuttosto che in base alle corrispondenti calorie, è evidente che la grande disponibilità di cibi altamente calorici è già di per sé un primo passo verso la diffusione dell’obesità.
Quest’ultima, secondo il rapporto Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) Obesity and the economics of prevention: fit not fat (2010) comporta una riduzione della  vita di 8-10 anni per una persona gravemente obesa, e il rischio di morte prematura aumenta del 30% ogni 15 chilogrammi di peso in eccesso.
L’obesità comporta degli elevati costi sociali. Sempre secondo il rapporto citato, nei paesi dell’Ocse (a cui appartiene anche l’Italia), l’eccesso di peso è responsabile dell’1-3% della spesa sanitaria (5-10% negli Stati Uniti), ma questa spesa è destinata a salire con l’aumento delle patologie correlate all’obesità.
Spesso quest’ultima è caratterizzata dalla presenza di fame compulsiva, una sorta di dipendenza dal cibo del tutto simile a una tossicodipendenza.
Sia in un caso che nell’altro è stato infatti osservato un aumento dei livelli serici di dopamina dopo avere assunto il cibo o la droga. La dopamina è un neurotrasmettitore che conferisce una sensazione di benessere ed è coinvolta nei meccanismi di ricompensa e di motivazione comportamentale. Quindi il cibo, in particolari circostanze, può rappresentare una droga e, per giunta, non solo legalizzata, ma necessaria per la sopravvivenza, per cui diventa molto più difficile stae alla larga.
Fortemente responsabile dell’impennata dell’obesità mondiale è il cosiddetto «cibo-spazzatura» (i vari fast food, snack, preparazioni alimentari industriali, che ci fanno risparmiare tempo in cucina), particolarmente ricco di zuccheri semplici e di grassi saturi, e povero di frutta, di verdura e di cereali integrali. L’industria alimentare fa affari d’oro, grazie alla pubblicità martellante e al basso costo di questo tipo di cibo, il cui valore nutrizionale, inteso non soltanto come apporto calorico, bensì di vitamine, di oligoelementi, di grassi polinsaturi (utili per contrastare l’aterosclerosi) come gli omega-3, è decisamente molto basso.
Tra l’altro va detto che un target molto importante della pubblicità di prodotti alimentari sono i bambini al di sotto degli 8 anni, nei quali viene creata una vera e propria dipendenza psicologica dai cibi ad alto contenuto di grassi e di zuccheri, in modo da indirizzae le scelte future.
Secondo uno studio apparso su Nature, gli alimenti ricchi di grassi e di zuccheri creano la stessa dipendenza del fumo. Si intuisce, in tutto questo, l’enorme giro d’affari dell’industria alimentare prima e di quella farmaceutica dopo. E naturalmente di quella pubblicitaria.
Per contrastare l’obesità, in attesa di conoscere meglio i meccanismi biochimici, che ne sono alla base, valgono i vecchi buoni consigli del medico: alzarsi da tavola con ancora un po’ di appetito e fare gioalmente un po’ di attività fisica (lasciamo a riposo l’auto e l’ascensore, per esempio). E poi diamo la preferenza a frutta, verdura, cereali e grassi polinsaturi vegetali o presenti nel pesce grasso, piuttosto che a carne, grassi saturi di origine animale, zuccheri raffinati e pane bianco.

Rosanna Novara Topino

Rosanna Novara Topino




Nel bicchiere di James Bond

Viaggio nel mondo dell’alcol (terza e ultima puntata)

L’alcol è tossico per le cellule. È un agente tumorale. Produce assuefazione e dipendenza. Ha un effetto disinibente, ma porta alla depressione. Non è un alimento, ma fa ingrassare. Non è afrodisiaco, ma al contrario danneggia la sessualità. Non fornisce energia ai muscoli,
né calore. Vale la pena bere alcol?

L’alcol è una droga e come tale è classificato dall’Oms. In quanto droga, nel tempo l’alcol induce assuefazione (quindi bisogna aumentare la dose consumata per ottenere lo stesso effetto) e dipendenza. Secondo l’Oms, in Europa si ha il più elevato consumo di alcol al mondo (il doppio per abitante, rispetto alla media mondiale). Nel continente, l’alcol rappresenta il terzo fattore di rischio per i decessi e per le invalidità ed è il principale fattore di rischio per la salute dei giovani. Sempre in Europa, l’incidenza delle malattie riconducibili al consumo di alcolici è doppia rispetto alla media mondiale.
Dal punto di vista chimico, l’alcol è etanolo (alcol etilico) e presenta una molecola piuttosto piccola (CH3-CH2-OH), molto solubile (sia in acqua che nei lipidi) e capace di penetrare facilmente nei tessuti, entrando rapidamente nel flusso ematico e raggiungendo con esso tutti i distretti corporei. L’etanolo è una sostanza non essenziale per il nostro organismo, anzi estranea al nostro metabolismo (è uno xenobiotico). Esso è tossico per le cellule ed inoltre è un potente agente tumorale. Le bevande alcoliche non possono essere considerate un alimento, perché, oltre all’alcol etilico e all’acqua, contengono vitamine, sali minerali, proteine e zuccheri solo in tracce. L’alcol provoca un danno diretto alle cellule di molti organi, tra cui il fegato ed il sistema nervoso centrale. Pur presentando un elevato potere calorico (7 Kcal/g, inferiore solo ai grassi), l’alcol etilico non può essere utilizzato dall’organismo per fornire energia ai muscoli, ma solo per il metabolismo basale, al posto degli altri principi nutritivi come gli zuccheri ed i grassi (che sono pertanto sottoutilizzati), per cui può essere considerato una delle cause del sovrappeso. Dopo essere stato assunto, l’alcol viene presto assorbito, senza bisogno di digestione, in parte nello stomaco (20%) ed in parte nel duodeno, cioè nel primo tratto dell’intestino tenue (80%), dopodiché passa direttamente in circolo. La velocità di assimilazione è variabile e dipende da vari fattori, tra cui lo stato di replezione (pienezza) dello stomaco: essa aumenta infatti a stomaco vuoto ed inoltre se, contemporaneamente, si assumono bevande gassate, se gli alcolici sono ad alta gradazione ed in caso di gastrite. L’assimilazione è invece più lenta se lo stomaco è pieno e se i cibi ingeriti sono ad alto contenuto di grassi. Una volta assimilato, l’alcol raggiunge tutti i distretti corporei in tempi diversi: in 10-15 minuti raggiunge il fegato, il cervello, il cuore ed i reni; dopo circa un’ora arriva ai muscoli ed al tessuto adiposo, dove tende a concentrarsi.

Il FEGATO E LE SUE «FATICHE» 
In quanto sostanza tossica, l’alcol etilico deve essere metabolizzato dal fegato, per ridue la nocività. Il metabolismo consiste nell’ossidazione completa dell’alcol, che viene trasformato in acetaldeide, grazie all’enzima epatico alcol-deidrogenasi (Adh), per una quota tra il 90%-98%, mentre il resto viene eliminato attraverso l’urina, le feci, il latte materno, il sudore e l’aria espirata. Il fegato è capace di metabolizzare l’alcol in quantità di 7 g/ora, quindi l’alcol in eccesso può continuare a circolare liberamente, andando a danneggiare tutte le cellule, i tessuti e gli organi con cui viene a contatto. L’acetaldeide derivante dall’ossidazione dell’alcol si unisce alla dopamina, formando tetraidrosochinoline, che sono degli oppiacei. Inoltre l’alcol può essere metabolizzato anche da altri enzimi epatici, responsabili del metabolismo di alcuni farmaci. I diversi meccanismi di metabolizzazione dell’alcol entrano in azione in tempi diversi, a seconda della quantità di alcol ingerito, quindi il fegato si abitua a smaltie quantità sempre maggiori (aumento della tolleranza). Tutto ciò non è però privo di conseguenze: in primo luogo il fegato è sottoposto all’azione tossica di sempre maggiori quantità di alcol, che finiranno con il danneggiare le sue cellule, gli epatociti, fino a causare steatosi epatica, epatopatie acute e croniche o cirrosi epatica. Inoltre, può venire accelerato anche il metabolismo di alcuni farmaci (tra cui gli ormoni e le vitamine), di cui è perciò necessario aumentare le dosi, per ottenere lo stesso effetto. I bevitori possono sviluppare delle patologie anche gravi, causate dalla carenza di tali farmaci metabolizzati troppo velocemente (ad esempio, polineuropatie, malnutrizione, problemi sessuali). Come abbiamo visto, dall’ossidazione epatica dell’alcol si formano delle sostanze oppiacee, che al pari dell’eroina, della morfina e del metadone agiscono sul sistema dopaminergico e sul sistema oppioide endogeno, provocando un forte stimolo motivazionale al consumo, per ottenere gratificazione. L’azione di queste sostanze si esplica particolarmente sull’asse ipotalamico-ipofisario, inducendo un’alterata produzione di melatonina, l’ormone del sonno, ed inoltre di ormone adrenocorticotropo (Acth) e di β-endorfine, interferendo quindi su tutti i settori neuroendocrini. Questo spiega la ridotta capacità di fare fronte agli stress, da parte dei forti bevitori, al pari dei consumatori di oppiacei. Inoltre l’alcol, come i barbiturici, fa parte dei depressori non selettivi del sistema nervoso centrale. Si tratta di sostanze capaci di indurre (a dosi crescenti) delle alterazioni comportamentali progressive, che vanno da un effetto ansiolitico e disinibente, ad uno sedativo-ipnotico, fino al coma ed alla morte per depressione dei centri cerebrali regolatori della respirazione e della funzione cardiocircolatoria. Poiché, inoltre, l’alcol stimola la liberazione di dopamina, l’astinenza da esso porta ad una drastica riduzione di tale sostanza, che è associata al piacere ed all’euforia, per cui il soggetto va facilmente incontro ad anedonia (incapacità a provare piacere) ed a disforia (alterazione dell’umore), caratteristiche dell’astinenza da altre sostanze come la morfina, la cocaina, le anfetamine e la nicotina. Si instaura perciò una vera e propria dipendenza fisica, che può portare ad una crisi d’astinenza, con agitazione ed irritabilità. Nei casi di grave intossicazione alcolica, l’improvvisa interruzione dell’uso dell’alcol (come può verificarsi, per esempio, in concomitanza con un ricovero ospedaliero per qualsiasi motivo) può portare a sintomi molto gravi come agitazione, febbre, disidratazione, allucinazioni visive ed uditive, crisi convulsive finanche alla morte nei casi estremi, se la persona non viene trattata con un’adeguata terapia. Questo quadro prende il nome di delirium tremens ed è dovuto al fatto che l’alcol inibisce la normale produzione, da parte dei neuroni, di acido gamma-amino-butirrico o Gaba (sostituendosi ad esso), un potente antagonista dell’adrenalina, che è un neurotrasmettitore ad azione fortemente eccitante. Nel momento in cui si interrompe bruscamente l’assunzione di alcol e mancando contemporaneamente la sintesi del Gaba da parte dei neuroni messi, per così dire, a riposo dall’alcol, l’adrenalina in circolo, non più controllata da alcun antagonista, può svolgere liberamente la sua funzione eccitante, provocando la sintomatologia del delirium tremens. Oltre alla dipendenza fisica, si può instaurare anche una dipendenza psicologica (craving), cioè l’intenso ed irrefrenabile desiderio di assumere bevande alcoliche, per potere provare gli effetti piacevoli, che ne derivano, oppure per allontanare quelli spiacevoli, conseguenti all’astinenza. L’alcolismo provoca alterazioni metaboliche (iperuricemia, ipertrigliceridemia, ipofosfatemia) e l’inibizione del sistema immunitario. Quindi, tra le altre cose, il forte bevitore è una persona che può ammalarsi più facilmente, perché le sue difese risultano indebolite.

TANTE CREDENZE DA SFATARE
Bisogna, tra l’altro sfatare alcune credenze, perché l’eliminazione dell’alcol non è favorita né da una doccia fredda, né dall’attività fisica e nemmeno dall’assunzione di caffè, come molti pensano. Ciò vuole dire che chi svolge attività faticose non elimina più velocemente l’alcol, rispetto ad una persona sedentaria. Ma questi non sono i soli luoghi comuni. Ad esempio, comunemente di pensa che l’alcol favorisca la digestione, ma in realtà la rallenta e causa un alterato svuotamento dello stomaco. Spesso, poi, si sente dire, da chi ama bere, che il vino fa buon sangue, ma il consumo di alcol può essere responsabile dell’insorgenza di varie forme di anemia, come ad esempio quella sideroblastica, caratterizzata da un’alterata produzione dei globuli rossi, come conseguenza della carenza di vitamina B12 o di folati dovuta alla scarsa alimentazione, che spesso è presente nell’alcolista. Inoltre l’alcol diminuisce l’aggregazione piastrinica, quindi fluidifica il sangue ed aumenta il rischio di emorragie e, come già visto sopra, determina un aumento dei grassi nel sangue. Probabilmente, chi pensa che l’alcol faccia buon sangue è indotto in errore dal fatto che le persone dedite al consumo di alcolici spesso presentano il volto rubicondo, per via della vasodilatazione periferica provocata dall’alcol.
Erroneamente qualcuno pensa che l’alcol aiuti a combattere il freddo, ma, come abbiamo già visto esso causa solo vasodilatazione periferica, che dà una temporanea sensazione di calore e che, però, nel contempo porta ad una dispersione del calore interno con raffreddamento del corpo e rischio di assideramento, quando ci si trovi esposti a freddo intenso.
Un altro errore, in cui molti cadono è quello di considerare l’alcol una specie di afrodisiaco capace di favorire le relazioni sessuali. Addirittura, in certe culture, si associa la capacità di reggere bene l’alcol, cioè la tolleranza, ad un’immagine di virilità. Molto spesso anche le pubblicità di alcolici (ed il cinema) trasmettono un’idea di questo tipo: basta pensare a quante volte abbiamo visto immagini di donne affascinate da uomini, che stanno sorseggiando un superalcolico. La realtà, però, è ben diversa. L’alcol, infatti, ha un effetto soprattutto inibitorio sul sistema nervoso ed inoltre il consumo di grandi quantitativi di alcolici compromette severamente tutto il circuito della sessualità, con danni talora permanenti sia nell’uomo che nella donna. Gli uomini, che consumano alcolici in dosi elevate possono infatti andare incontro ad impotenza, sterilità e perdita dei caratteri sessuali secondari maschili (riduzione della peluria e della massa muscolare), rischiando nel contempo di acquisire un carattere di tipo femminile, cioè la ginecomastia, ovvero un abnorme aumento delle mammelle. Le donne invece possono andare incontro a sterilità ed a problemi mestruali. Inoltre non bisogna dimenticare che l’effetto disinibente dell’alcol può portare a trascurare, durante un rapporto sessuale, quelle norme precauzionali, che proteggono dal rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili. Peraltro, sotto l’effetto dell’alcol si ha una diminuzione della percezione del rischio in generale, nonché delle sensazioni di dolore e quindi si tende ad assumere comportamenti, che possono essere dannosi per sé stessi e per gli altri. Inoltre non dimentichiamo che l’effetto disinibente dell’alcol lascia ben presto il posto, dopo un’iniziale euforia, ad uno stato depressivo.
C’è poi chi è convinto che l’alcol possa aiutare in caso di shock, ma anche questo è un errore perché, come già detto, l’alcol provoca la dilatazione dei capillari, determinando un minore afflusso di sangue agli organi interni, tra cui il cervello.
Qualcuno pensa che l’alcol dia forza, ma invece esso attenua solo il senso di affaticamento e di dolore, senza quasi alcun apporto energetico per i muscoli.
Contrariamente a quello che qualcuno pensa, l’alcol non toglie la sete, ma invece tende a disidratare, poiché blocca l’ormone antidiuretico, quindi fa aumentare la diuresi e la sensazione di sete.
Che dire poi del fatto che qualcuno pensa che bere birra aiuti le neo-mamme a fare più latte? Come già detto, bevendo alcolici in gravidanza e durante l’allattamento, l’alcol passa direttamente al bambino, che non ha la possibilità di metabolizzarlo, subendone tutti gli effetti dannosi. Per produrre latte in quantità sufficiente al fabbisogno del bambino basta bere acqua ed avere un’alimentazione nutriente.

Rosanna Novara Topino


Rosanna Novara Topino




Quando le donne bevono

Viaggio nel mondo dell’alcol (seconda puntata)

 In Italia, ci sono 13mila alcoliste e 24mila donne ricoverate ogni anno a causa dell’alcol.
Tra le consumatrici ci sono ragazze sempre più giovani (l’alcol contro l’inibizione), ma anche donne anziane (l’alcol contro la solitudine).  Occorrerebbe sapere che l’organismo femminile smaltisce l’alcol con maggiore difficoltà rispetto a quello maschile ed è quindi più soggetto a patologie o problematiche alcol-correlate.E per una donna in gravidanza i rischi sono ancora maggiori.

Tra i miei ricordi di bambina c’è quello di una donna del mio stesso quartiere, a Torino, che per la sua dedizione all’alcol veniva soprannominata, senza troppi giri di parole, la ciuca, termine che in dialetto piemontese significa «ubriaca». Si trattava peraltro di una povera donna, che cercava di dimenticare con l’alcol le proprie peripezie familiari. Tuttavia quell’immagine di ebbrezza, che spesso si portava addosso, era servita a stigmatizzarla impietosamente. A quei tempi, le donne che si ubriacavano erano messe all’indice dalla società. A dispetto di questo modo di pensare, nel giro di qualche decennio, l’immagine della donna che beve alcolici è stata non solo accettata dall’opinione pubblica, ma addirittura vista come uno dei segni dell’emancipazione femminile, insieme all’abitudine di fumare.

IN CONTINUO AUMENTO LE DONNE BEVITRICI
Del resto, a rafforzare quest’immagine hanno contribuito sia il cinema, che la televisione. Come non ricordare la fortunatissima serie televisiva Dallas degli anni ‘80, in cui i protagonisti, uomini e donne, non perdevano mai l’occasione di bere un drink? L’abitudine di bere alcolici, nel corso degli ultimi anni, si è talmente diffusa tra le donne, che, secondo l’Oms, l’Europa presenta il più alto numero di bevitrici al mondo. Come già visto nella precedente puntata (MC novembre 2011), il vecchio continente detiene il primato mondiale del consumo di bevande alcoliche. Per quanto riguarda l’Italia, secondo le indagini annuali  multiscopo dell’Istat relative a Stili di vita e condizioni di salute, attualmente il 67% delle donne consuma bevande alcoliche, contro il 43% degli anni ’80 (la percentuale maschile è dell’86,6%). Ovviamente l’incremento del numero di consumatrici di alcolici ha portato ad un aumento delle patologie e delle problematiche alcol-correlate tra le donne. Si stima, infatti, che il 9,4% degli uomini ed il 19,2% delle donne ecceda le quantità di alcol considerate a minore rischio, rappresentando quindi la porzione di individui potenzialmente a rischio. Nel conteggio sono peraltro considerati anche gli alcol-dipendenti, che comunque vi contribuiscono in maniera molto limitata, cioè 0,9% gli uomini e 0,4% le donne. La percentuale dei consumatori a rischio riceve un grosso contributo dal numero delle consumatrici, che presentano una probabilità  di ammalarsi doppia rispetto a quella dei soggetti di sesso maschile. Per quanto riguarda la distribuzione dei consumatori a maggiore rischio di patologie alcol-correlate, per i differenti target di popolazione, si è visto che l’incidenza del rischio aumenta con l’età in entrambi i sessi e presenta i valori più elevati nella fascia tra i 65-74 anni, a cui fanno seguito i valori registrati per l’intervallo tra i 45-64 anni. Per le donne, in Italia, il picco di consumo problematico di alcol si colloca attualmente tra i 35 ed i 44 anni. Del resto è questa la fascia d’età, che può presentarsi come la più critica per il sesso femminile poiché possono esserci timori per la perdita della giovinezza, oppure per la riduzione della fertilità e della capacità procreativa. Può essere presente un senso di frustrazione per la mancata realizzazione di progetti giovanili oppure la vita sentimentale può risultare insoddisfacente, o addirittura distrutta dalla rottura di un legame importante. In questi casi, il ricorso all’alcol rappresenta un modo per sfuggire, sia pure temporaneamente, alla propria realtà. Tutte queste sono forse le motivazioni più classiche, che spingono le donne a bere. Certamente non sono le sole. In particolare, per quanto riguarda le bevitrici adolescenti, che bevono prevalentemente birra e superalcolici fuori dal contesto domestico e che concentrano il consumo o l’abuso soprattutto  nei fine settimana, il ricorso all’alcol ha una funzione disinibente che permette una maggiore disinvoltura nelle relazioni. In questo caso l’alcol viene visto come mezzo per farsi accettare dal gruppo dei coetanei, anch’essi dediti all’alcol. Da qui il sempre più elevato numero di casi di binge drinking tra gli adolescenti. In particolare, per quanto riguarda le ragazze, si è rilevato che, in Italia, il 10% si ubriaca almeno una volta all’anno, consumando più di 5 bevande alcoliche in un’unica occasione (binge drinking), mentre per i ragazzi la percentuale sale al 22,1%.

PERCHé ALLA DONNA FA PIù MALE
La conseguenza dell’aumento del consumo di bevande alcoliche tra le donne è rappresentata dalla diffusione delle patologie alcol-correlate nel genere femminile. Attualmente sono circa 13.000 le alcoliste in trattamento, presso le strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale, mentre, secondo i dati più recenti, sono circa 24.000 all’anno i ricoveri di donne negli ospedali italiani, per cause attribuibili al consumo di alcolici.
Ma perché le donne sono più vulnerabili all’alcol rispetto agli uomini? Assumendo medesime quantità di alcol, a parità di condizioni, la concentrazione di alcol nel sangue (Bac, Blood alcohol concentration: il termine scientifico dell’alcolemia) è più elevata nelle donne che negli uomini. Il motivo è che l’organismo femminile ha in primo luogo una capacità dimezzata di smaltire l’alcol ingerito, perché la dotazione dell’ADH (alcoldeidrogenasi, un enzima epatico) è la metà di quello maschile ed in secondo luogo la donna ha una minore massa corporea e una quantità inferiore di liquidi totali con una conseguente minore capacità di diluizione dell’alcol. Questo vuole dire che le donne raggiungono l’intossicazione acuta da alcol, cioè lo stato di ebbrezza, assumendone quantità inferiori rispetto a quelle necessarie per raggiungere lo stesso stato nell’uomo.

I PERICOLI  DURANTE LA GRAVIDANZA
In Italia, le linee guida nutrizionali raccomandano che una donna adulta ed in buona salute non superi mai la quantità giornaliera di 1 o al massimo 2 bicchieri di una qualsiasi bevanda alcolica. Nel caso che il rischio possa estendersi a terzi, come durante la gravidanza, è da evitare anche il consumo moderato di alcol. Non dimentichiamo che un bicchiere contiene circa 12 g di alcol e che richiede, più o meno, un paio d’ore per essere completamente smaltito.
Qual è il motivo, per cui le linee guida nutrizionali vietano di assumere bevande alcoliche in gravidanza? Il motivo risiede nel potere teratogeno dell’alcol, cioè nella sua capacità di causare malformazioni fetali. Organi vitali come il cuore, il cervello, lo scheletro, per citae alcuni, si formano molto precocemente durante la gestazione, cioè tra i 10-15 giorni dopo il concepimento, quindi è fondamentale smettere di bere già quando si sta programmando la gravidanza, senza attendere che sia iniziata. Le donne che bevono abitualmente (mediamente 3 o più bicchieri al giorno) presentano un’aumentata frequenza di aborti, soprattutto nel terzo trimestre di gravidanza. Questo fatto probabilmente è dovuto all’azione tossica esercitata dall’alcol sul feto, anche nel caso dell’assunzione di dosi modeste (come 2 bicchieri nella gravidanza avanzata). L’alcol è in grado di attraversare la placenta e di raggiungere il feto, che non possiede enzimi capaci di metabolizzarlo, per cui ne subisce gli effetti dannosi a livello cerebrale e dei tessuti in formazione. Dato il suo potere teratogeno, l’alcol interferisce sui normali processi di sviluppo fisico, provocando malformazioni, e sullo sviluppo intellettivo, causando ritardo mentale, in maniera più o meno grave, a seconda delle quantità assunte dalla gestante. Inoltre elevate quantità di alcol assunte durante la gravidanza determinano carenze vitaminiche, con gravi ripercussioni sullo sviluppo del nascituro. Il primo ed il terzo trimestre di gravidanza sono i periodi più rischiosi, per quanto riguarda i danni provocati dall’alcol sul feto. Il bambino, nato spesso prematuro, può presentare condizioni generali variabili: dalla presenza di sintomi o disturbi definiti alcolici, fino ad una conclamata «sindrome feto-alcolica» (Fas) irreversibile e progressiva. Quest’ultima è caratterizzata dalla presenza nel bambino sia di sintomi fisici, che di disturbi neurologici e neuropsicologici. I sintomi fisici si manifestano soprattutto a carico della testa, del volto, dello scheletro e del cuore. La testa può presentare microcefalia; nel volto possono essere presenti pieghe agli angoli degli occhi, fessure oculari strette, strabismo, naso corto e piatto, labbro superiore assottigliato e vermiglio, solco naso-labiale allungato ed appiattito, fronte stretta ed allungata. Può essere presente ipoplasia del nervo ottico. Per quanto riguarda lo scheletro, si manifesta un ritardo marcato nell’età ossea media, che si traduce in una statura inferiore alla media, in un ridotto peso corporeo ed in una ridotta circonferenza cranica. Spesso sono presenti malformazioni cardiache, soprattutto a carico del setto ventricolare. Le disfunzioni neurologiche e neuropsicologiche presenti nella «sindrome feto-alcolica» sono rappresentate da disturbi del sonno, riflesso della suzione ridotto, ritardo dello sviluppo mentale, deficit intellettivo, disturbi dell’attenzione e della memoria, disturbi della motricità fine, iperattività ed impulsività, disturbi dell’eloquio e dell’udito. Non tutte le gestanti con un forte consumo di alcol sono destinate a partorire un neonato affetto da Fas. La percentuale di neonati con Fas varia tra il 30-40% delle gestanti forti bevitrici. I fattori di rischio, che possono influenzare la comparsa o meno della Fas, sono molteplici: la quantità di alcol consumato durante la gravidanza, la tipologia del consumo di alcol (cronico od occasionale), l’intensità dell’esposizione, il periodo dell’esposizione, l’interazione con altre sostanze (tabacco, droghe, medicinali), fattori alimentari, predisposizione genetica, condizioni di vita, ceto sociale, livello d’istruzione e stato civile della madre. Le donne fertili e sessualmente attive, che consumano più di 7 bevande alcoliche alla settimana, in caso di gravidanza rischiano di avere un figlio con deficit cognitivi, intellettivi e psicosociali. E la probabilità di danneggiare il feto aumenta all’aumentare dell’alcol assunto. I bambini, la cui madre ha consumato almeno 80 g di alcol puro al giorno, sono ad alto rischio. Tuttavia, anche il consumo di alcolici abbondante, ma sporadico può rappresentare un serio pericolo per il feto, dato che l’alcol può essere dannoso in ogni momento della gravidanza. Certamente i difetti congeniti più gravi si manifestano a seguito dell’esposizione all’alcol durante il primo trimestre di gravidanza, cioè nel periodo della formazione degli organi vitali. È stato rilevato che più di 12 drinks alla settimana aumentano il rischio di una nascita prematura e sottopeso. I fenomeni appena descritti possono riguardare tanto i figli di donne bevitrici in gravidanza, quanto quelli di donne, che si sono astenute dal bere durante la gestazione, ma che prima bevevano. Inoltre è stato dimostrato che i figli di donne, che hanno continuato a bere alcolici in gravidanza presentano una maggiore frequenza, in età adulta, di problematiche alcol-correlate ed una più frequente predisposizione al deficit cognitivo consistente in una memoria ridotta. Recentemente è stato condotto uno studio, da parte dell’Istituto superiore di sanità, per rilevare la percentuale dei neonati esposti all’azione dell’alcol, durante la gestazione. Per ottenere questo dato, è stata valutata la presenza nel meconio, cioè nelle feci delle prime 48 ore di vita del neonato, di etilglucuronide, un marcatore dell’esposizione all’alcol durante la vita fetale. Lo studio è stato effettuato su 607 neonati ed è emerso che il 7,6% di loro presentava un’esposizione all’alcol. Attualmente sono pochissimi gli studi di questo tipo. Uno di essi, condotto a Barcellona, ha rivelato un’esposizione all’alcol nel 45% dei neonati. È evidente che questo problema è stato finora molto sottovalutato.
Per quanto riguarda la sfera riproduttiva femminile, l’alcol può essere responsabile della minore produzione di ormoni femminili e di insufficienza ovarica, che si manifesta con irregolarità mestruali (fino alla scomparsa del ciclo), presenza di cicli anovulatori ed infertilità.
L’abuso di alcolici tra le donne le rende, tra l’altro, maggiormente a rischio di subire violenze sessuali, poiché in stato di ebbrezza risultano più indifese.

ANZIANI: ALCOL, MEDICINE  E SOLITUDINE
Un altro tipo di consumo problematico dell’alcol è quello riguardante le persone anziane e in particolare le donne anziane che in gioventù non hanno ricevuto alcuna educazione al consumo di alcolici. Queste persone spesso bevono in un contesto domestico, mantenendo nascosta l’abitudine per timore di riprovazione da parte dei familiari, per cui le problematiche alcol-correlate sono riscontrate tardivamente. Nelle bevitrici anziane sono spesso frequenti episodi di compromissione della sfera neurologica e psichica, come difficoltà motorie, disturbi della memoria e comportamenti insoliti. Spesso gli anziani assumono farmaci di vario tipo e le donne, mediamente, consumano quantità di farmaci maggiori degli uomini tra prodotti ormonali, antidolorifici, prodotti per ridurre i grassi nel sangue, sedativi, prodotti contro l’insonnia e la depressione. L’associazione tra farmaci ed alcolici dovrebbe essere assolutamente bandita, ma spesso le persone anziane, specialmente se sole, non ne tengono conto o probabilmente non lo sanno, rischiando così l’effetto di pericolose interazioni.
Da quanto appena descritto, appare evidente la necessità di affrontare al più presto a livello educativo il problema dell’alcolismo femminile (e dell’alcolismo in generale, data la sua sempre maggiore diffusione tra i giovani), viste le gravi implicazioni a livello sociale (aumento dei costi sanitari, cause legali, assenze dal lavoro per malattia) e considerato il ruolo occupato dalla donna sia nell’ambito familiare, che sociale.
Si dovrebbe pensare a lezioni mirate sia in ambito scolastico che in ambito sanitario (ad esempio, con pubblicazioni prodotte dal ministero della Salute e rese facilmente reperibili presso il proprio medico curante o presso le farmacie).
Oltretutto non dobbiamo dimenticare che gli effetti dell’alcol, a differenza di quelli del fumo, si manifestano subito, non dopo anni. Quindi, questa estensione dell’abitudine di consumare alcolici rappresenta un serio pericolo sociale, purtroppo già attuale. Una donna bevitrice può generare figli malati, ma quand’anche i figli nascessero sani, che esempio potrebbero ricevere da genitori alcolisti?

Rosanna Novara Topino


Rosanna Novara Topino