La nostra salute e quella del pianeta


Le abitudini alimentari di ciascuno di noi producono sempre due tipi di conseguenze: sulla salute del nostro corpo e su quella della terra. Quali sono i cibi più dannosi per la salute? Quali sono quelli a maggiore impatto ambientale? Esiste una dieta sostenibile? A queste domande cercheremo di dare una risposta con una serie di articoli.

Testo di Rosanna Novara Topino

Quando mangiamo, di solito ci preoccupiamo (tuttalpiù) di cosa ci indicherà la bilancia il giorno dopo o del rimprovero che potrebbe farci il nostro medico alla lettura dei risultati nel nostro prossimo esame del sangue, ma difficilmente pensiamo a quanto la produzione di ciò che mangiamo sia costata in termini ambientali (energia consumata, occupazione del suolo, sofferenza umana e animale) e di inquinamento del pianeta, ovvero di quanto la nostra dieta sia sostenibile.

La Fao – Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura – dice che una dieta può essere considerata «sostenibile» se risponde a tre requisiti: convenienza, alto potere nutrizionale, basso impatto ambientale.

Ormai da decenni (dagli anni Sessanta del secolo scorso) lo sviluppo economico, l’urbanizzazione e l’aumento del reddito procapite si accompagnano ad una trasformazione delle abitudini alimentari via via che i paesi si sviluppano. Si assiste cioè a uno spostamento verso un maggiore consumo di cibi ricchi di zuccheri raffinati e di grassi (anche se forniscono calorie «vuote», cioè alimenti privi di altro nutrimento oltre all’apporto calorico) e di prodotti a base di carne, latte e uova. Questa tendenza ha ripercussioni sia in termini di salute con un incremento a livello globale di patologie come il diabete di tipo 2 (che viene già considerato dall’Oms un’epidemia globale), le malattie cardiovascolari e alcune forme tumorali, che per quanto riguarda l’impatto sull’ambiente dell’allevamento e dello sfruttamento intensivo dei terreni agricoli.

Il peso (insostenibile) dell’allevamento

Secondo la Fao, la produzione globale di carne (riquadro a pag. 62) è destinata a più che raddoppiare, passando da 229 milioni di tonnellate nel periodo 1999-2001 a 465 milioni di tonnellate nel 2050, in linea con l’aumento della popolazione mondiale, che si prevede sarà di 9 miliardi di persone. Inoltre, si stima che la produzione di latte passerà da 580 a 1.043 milioni di tonnellate.

Già attualmente l’impronta ecologica della produzione zootecnica è altamente impattante e le analisi dei diversi sistemi produttivi alimentari dimostrano che, se permane l’attuale trend, nel 2050 le emissioni di gas serra relative a questo comparto produttivo saranno più elevate dell’80% rispetto ai livelli attuali, mentre aumenterà ancora la distruzione degli habitat naturali per fare spazio ai terreni agricoli. Sempre secondo la Fao, l’allevamento produce attualmente circa l’80% delle emissioni di gas serra dell’intero comparto agricolo e il 18%  del totale complessivo a livello mondiale. In pratica, questo settore risulta più impattante di quello dei trasporti. L’allevamento provoca il 9% delle emissioni totali di anidride carbonica (CO2, soprattutto a causa degli incendi di foreste per fare posto a pascoli), il 37% di quelle di metano (si forma nel rumine dei bovini ed è 23 volte più impattante della CO2) e, per via delle deiezioni, il 65% di quelle dell’ossido di azoto (296 volte più impattante della CO2). Anidride carbonica, metano e ossido di azoto sono i tre gas serra responsabili del riscaldamento globale. A tutto ciò si aggiunge il rilascio del 64% delle emissioni totali di ammoniaca, che causa le piogge acide e l’acidificazione degli ecosistemi.

L’allevamento è – inoltre – responsabile dell’uso del 70% dell’acqua consumata sulla terra (acqua impiegata nelle coltivazioni di prodotti usati nella zootecnia, per lo più su terreni irrigati, in aggiunta a quella necessaria ad abbeverare gli animali e a quella usata per pulire le stalle) e di buona parte del suo inquinamento. Sebbene non ci siano stime a livello mondiale, negli Stati Uniti si stima che l’allevamento comporti il 55% dell’erosione dei suoli, il 37% dell’uso totale dei pesticidi, il 50% dell’uso di antibiotici e un terzo del carico di azoto e di fosforo nell’acqua potabile. Inoltre il 10% delle specie minacciate perde il proprio habitat a causa dell’allevamento, che è quindi corresponsabile della perdita di biodiversità.

I costi del cibo per gli animali allevati

Gli animali d’allevamento sono «macchine» (così – purtroppo – sono considerati negli allevamenti) poco efficienti in termini di conversione di proteine vegetali in proteine animali, perché consumano molte più calorie vegetali, di quante ne producono sotto forma di carne, latte e uova. Per produrre una caloria di origine animale, ne vengono consumate circa 15 di origine vegetale, sotto forma di mangimi.

Per l’utilizzo zootecnico, negli Stati Uniti vengono impiegati il 70% degli alimenti vegetali (cereali e semi oleosi), in Europa il 55%, mentre in India solo il 2%. Gli allevamenti intensivi competono per il cibo con gli umani, considerando che il 50% dei cereali e il 75% della soia prodotti nel mondo vengono destinati agli animali allevati. Una persona con una dieta ad elevato consumo di carne attualmente necessita di circa 4.000 metri quadri di terreno per la produzione di foraggio e cereali per nutrire gli animali necessari, mentre per un vegetariano bastano 1.000 metri quadri. Attualmente si stima che siano disponibili circa 2.700 metri quadri di suolo coltivabile a testa a livello mondiale, ma per l’aumento della popolazione nel 2050 tale disponibilità pro capite sarà di 1.200-2.000 metri quadri.

Oltre all’impiego di almeno la metà dei suoli fertili dell’intero pianeta per la produzione di cereali, semi oleosi, proteaginose (colture industriali a elevato tenore proteico per la produzione di mangimi) e foraggi, poiché per produrre più carne è indispensabile puntare all’ottimizzazione delle rese agricole, l’allevamento industriale comporta un enorme uso di fertilizzanti, diserbanti e pesticidi. Negli Stati Uniti l’80% di tutti gli erbicidi viene impiegato nei campi di mais e di soia destinati all’alimentazione animale.

In Italia l’atrazina (erbicida) utilizzata nelle coltivazioni di mais e bandita 25 anni fa per la sua cancerogenicità è ancora presente nell’acqua del Po e si pensa che ci vorranno ancora parecchi anni per eliminarla. Nel bacino del Po sono contaminate le acque superficiali e buona parte di quelle sotterranee.

I costi della produzione della soia

In Sud America ci sono forse le conseguenze più gravi da allevamento intensivo. Qui, in soli tre paesi – Brasile, Paraguay e Argentina – viene prodotto il 95% della soia mondialmente esportata. Questa monocoltura è responsabile della deforestazione di una parte rilevante della foresta amazzonica sia per ricavarne terreni agricoli, sia per la costruzione di reti stradali per il trasporto del prodotto ai porti principali. Inoltre, poiché la soia coltivata in questi paesi è in buona parte Ogm, essa è responsabile del massiccio uso del Roundap (glifosato) della Monsanto, un pesticida probabilmente cancerogeno secondo l’«Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro»(Iarc). In particolare, a esso sarebbe associato il linfoma non-Hodgkin. I danni provocati da questo erbicida sono ingenti non solo per l’ambiente, ma anche per i contadini e per le loro famiglie, che si ammalano sempre di più, dal momento che lo spargimento sui campi avviene per mezzo di aerei. Un’altra conseguenza della monocoltura di soia è l’accaparramento del terreno da parte dei latifondisti, con l’esproprio (spesso tramite l’uso delle armi) delle popolazioni rurali, che sono costrette ad abbandonare la terra abitata da generazioni e ad andare ad aumentare il numero di presenze nelle periferie delle grandi città. Infine questa monocoltura comporta il massiccio uso di acqua fossile per irrigazione e provoca lisciviazione e progressiva desertificazione del terreno (fenomeno comune a ogni tipo di coltivazione intensiva in cui ci sia uso di grandi quantità di fertilizzanti e di irrigazioni con acqua di falda ricca di sali minerali). In Italia la soia viene utilizzata negli allevamenti (dopo la proibizione dell’uso delle farine animali, a seguito della crisi della «mucca pazza») e quella d’importazione dai paesi sudamericani (quindi prevalentemente Ogm) ammonta al 95% del totale.

Il consumo di energia fossile

Per quanto riguarda il consumo espresso in Kcal di energia fossile necessaria per la produzione di 1 Kcal di alimento, il rapporto più sfavorevole riguarda la carne di agnello con 57:1, seguito da quella di manzo con 40:1, 39:1 per le uova, 14:1 per il latte e la carne di suino, mentre per il grano il rapporto è di 2:2.

È evidente che è necessario ridurre i consumi di carne, sia per salvaguardare la nostra salute, che per un minore impatto ambientale, ma anche per salvaguardare la salute e i diritti di popolazioni, che vengono espropriate dei loro terreni e a cui viene impedito di coltivare piante per la loro sussistenza, nel rispetto della biodiversità, che invece va persa.

Per non parlare del fatto che è assolutamente sbagliato considerare gli animali come macchine per produrre cibo, prive di sensibilità e di consapevolezza di sé, infliggendo loro le peggiori sofferenze, quando ormai sono moltissimi gli studi di etologia che hanno dimostrato esattamente il contrario. Sono innumerevoli gli esempi di grande intelligenza e di sensibilità nel mondo animale, di cui comunque l’essere umano fa parte. Invece di avere pretese di superiorità sugli altri animali e trattarli come merci piuttosto che come esseri viventi, dovremmo prendere esempio dai grandi carnivori, che predano esclusivamente quando hanno fame, non sprecano nulla e solitamente si nutrono di animali per lo più già deperiti.

Rosanna Novara Topino
(fine prima parte – continua)

 

Approfondimento

Il consumo di carne

Negli ultimi vent’anni i consumi di carne hanno subito un incremento a livello globale e sono destinati a crescere in futuro. Probabilmente di molto, in considerazione del loro aumento nei paesi emergenti.

Basti ricordare che nel 2011, anno in cui la disponibilità mondiale di carne è stata di circa 300 milioni di tonnellate, poco meno della metà è stata utilizzata nel solo continente asiatico. Esistono però sostanziali differenze nei consumi tra le varie regioni del mondo. Sebbene i paesi asiatici siano i maggiori consumatori in volume di carne, tuttavia risultano tra quelli con il valore pro capite inferiore (pur se decisamente in crescita a partire dagli anni Ottanta). I paesi del Nord America presentano il consumo più alto rispetto a quello degli altri continenti. Qui il consumo pro capite è 4 volte quello medio africano. In Italia il consumo apparente, secondo i dati della Fao, è di 230 g di carne al giorno, mentre quello reale è di 110 g, per un totale annuo a testa di circa 40 Kg. La differenza tra consumo apparente e reale è dovuta agli scarti rispetto alla carne commestibile.

R.N.T.

 




Indagine sulla maternità surrogata


Le attuali conoscenze scientifiche dicono che il rischio di conseguenze psichiatriche sulla madre surrogata e sul bambino è elevato. È difficile sostenere la tesi che avere dei figli sia un diritto. È altrettanto difficile non considerare la maternità surrogata come una particolare forma di sfruttamento della povertà. Per ora la sola e indiscussa certezza è che la pratica si è trasformata in un enorme affare.


Testo di Rosanna Novara Topino


In Italia le tecniche di Procreazione medicalmente assistita (Pma) restano precluse alle coppie omosessuali, ai single e alle mamme-nonne. Sono inoltre vietate la fecondazione post-mortem, cioè l’utilizzazione dei gameti del marito o compagno deceduto e l’utilizzazione degli embrioni a scopo di ricerca (permessa invece dal 2016 in Gran Bretagna). Peraltro il Tribunale di Milano, con una sentenza del 15 ottobre 2013 che riguardava un caso di surrogazione di maternità richiesta da una coppia italiana in Ucraina, stabilì che doveva escludersi la consumazione del delitto, da parte della coppia italiana, di falsa dichiarazione di maternità poiché l’atto di nascita del figlio era conforme alla lex loci, che in Ucraina impone il riconoscimento dello status di madre alla madre sociale (la committente) e non alla madre surrogata (cioè della gestante) o alla madre biologica (cioè della donatrice degli ovuli). Per quanto riguarda le coppie omosessuali, che hanno avuto un figlio mediante maternità surrogata all’estero, attualmente in Italia il figlio viene registrato a nome di un unico genitore, come genitore single. Non è infatti passata la proposta di legge della stepchild adoption, che prevede il riconoscimento, come genitore adottivo, del compagno di un genitore biologico. Va detto che il Tribunale di Roma, la Corte d’Appello di Torino e la Corte di Cassazione hanno più volte concesso la stepchild adoption ai partner dei genitori biologici, nell’ambito di coppie omosessuali, sottolineando la preminenza dell’interesse del minore rispetto a qualsiasi altro interesse dello stato.

(Arizona reproductive institute / iStock)

Affari e turismo riproduttivo

Nei paesi in cui è consentita la surrogazione della maternità, essa si è ben presto trasformata in un enorme giro d’affari. Negli Stati Uniti esistono oltre 400 cliniche dedicate. Le donne single o le coppie lesbiche possono scegliere su internet gli spermatozoi in base alle caratteristiche genetiche, al quoziente intellettivo e al carattere del donatore. L’acquisto viene recapitato dai corrieri in una notte, per cui si parla di overnight-male, cioè di «uomo di una notte». Gli ovociti di donne belle e intelligenti (spesso vengono messi annunci per cercarne sui giornali studenteschi universitari) arrivano a costare 50mila dollari. Naturalmente sono nate numerosissime agenzie specializzate nel far incontrare la domanda e l’offerta: forniscono le madri in affitto (che spesso possono essere scelte su catalogo), si occupano eventualmente della ricerca dei gameti se la coppia richiedente è sterile, delle visite mediche della futura gestante e della clinica in cui avverrà il parto e infine delle pratiche legali. Con un piccolo sovrapprezzo, di circa 250 dollari, è inoltre possibile scegliere il sesso del nascituro.

Naturalmente l’acquisto di gameti, il pagamento delle madri in affitto e tutte le spese mediche, assicurative, legali, di sostegno psicologico per la gestante che dovrà poi cedere il neonato alla coppia committente, sono a carico di chi richiede la Gestazione per altri (Gpa), quindi è evidente che il presunto «diritto alla procreazione», sbandierato da chi sostiene questa pratica, è senza alcun dubbio un privilegio per persone o coppie facoltose, che molto spesso alimentano il turismo riproduttivo per recarsi dai paesi come il nostro, dove la Gpa è vietata, in quelli dove tutto è permesso. In California nel 2010 sono nati 1.400 bambini con maternità surrogata, metà dei quali richiesti da coppie straniere, mentre in India, dove sono attive oltre 3.000 cliniche, nascono oltre 1.500 bambini l’anno con Gpa, un terzo dei quali per coppie straniere. In Ucraina nel 2011 sono state portate a termine con Gpa 120 gravidanze, ma il numero reale potrebbe essere più elevato.

Sfruttamento della povertà

(laboratorio_Instituto Ingenes, Mexico)

Non c’è dubbio che la maternità surrogata sia una particolare forma di sfruttamento della povertà da parte di persone facoltose. Basti pensare a cosa prevedono i contratti di maternità surrogata: la donna che si presta per la gravidanza deve rinunciare a ogni diritto sul bambino, deve acconsentire all’aborto in caso di malformazione, deve essere disponibile a fornire il proprio latte dopo il parto e deve pagare delle penali se non rispetta gli standard sanitari richiesti. In alcuni stati, come la Thailandia, i committenti possono rifiutare il figlio con una malattia o un handicap, come capitato nel 2014: una coppia australiana committente di due gemelli ne rifiutò uno, nato Down e con una grave patologia cardiaca.

In realtà, secondo i risultati di alcune ricerche scientifiche, la maternità surrogata è un’autentica violenza perpetrata sia alle madri surrogate che ai figli.

Le madri surrogate, infatti, per favorire l’impianto degli embrioni, devono essere sottoposte a ingenti dosi di ormoni, che ne possono pregiudicare la salute. Oltre a questo bisogna considerare che, secondo una ricerca condotta da neuroscienziati dell’Università autonoma di Barcellona e pubblicata su Nature Neuroscience, i cambiamenti ormonali che avvengono in gravidanza modificano la struttura cerebrale della madre, riducendo per un lungo periodo di tempo il volume di alcune specifiche regioni cerebrali deputate alla cognizione sociale e funzionali alla focalizzazione della madre sul figlio. Si tratta della rete neurale associata alla teoria della mente, cioè la capacità di attribuire stati mentali (pensieri, sentimenti, intenzioni, desideri) a sé stessi e agli altri. In alcune di queste regioni si verificherebbe, durante la gravidanza, un aumento dell’attività neuronale, che rende le madri particolarmente sensibili alle immagini dei propri neonati, molto più che a quelle di altri bambini. Nel cervello dei futuri padri, secondo questa ricerca, non si verifica niente di analogo. Questi risultati ci fanno intuire quale violenza ci sia nella richiesta a una donna di cedere il proprio neonato alla coppia committente e, nel contempo, fanno pensare che una coppia di omosessuali maschi oppure un uomo single siano forse meno adeguati ad allevare il proprio figlio, senza la presenza materna.

Un’altra ricerca, condotta da studiosi della Stanford University e pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences, ha rivelato che per tutti i bambini, la voce della madre rappresenta una fonte importante di comfort emotivo, grazie alla complessa interazione tra diverse regioni cerebrali. Il feto sente la voce della madre mentre si trova in utero e, dopo la nascita, rappresenterà una costante nell’ambiente uditivo del bambino per tutta la fase del suo sviluppo. Essa inoltre accompagnerà molte delle informazioni fondamentali per il comportamento e l’apprendimento del piccolo. Durante l’ascolto della voce della propria madre, nel cervello dei bambini si attivano regioni che elaborano le informazioni uditive e le emozioni, le regioni che rilevano gli stimoli di ricompensa e li elaborano, le regioni che elaborano le informazioni sul sé e le aree che sono coinvolte nella percezione ed elaborazione dei visi. È chiaro che privare un bimbo della propria madre, sia pure surrogata, per farlo crescere con un single o una coppia di gay equivale a renderlo di fatto orfano di madre.

Conseguenze psichiatriche

Secondo le attuali conoscenze in campo psicanalitico e psichiatrico, la maternità surrogata è una pratica ad altissimo rischio di gravi patologie sia per la madre surrogata che per il bambino. L’osservazione del comportamento dei lattanti separati dalla madre che li ha portati in grembo e dei loro vissuti da adulti ha evidenziato la presenza di un grave trauma infantile. Il dialogo sensoriale ed emotivo fra madre e feto infatti si instaura durante la gravidanza, per cui, anche nel caso di maternità surrogata, si forma un vero e proprio legame madre-figlio. Inoltre, secondo le moderne teorie sull’epigenetica, l’espressività genetica viene modulata dall’ambiente che per il feto è rappresentato dalla madre che lo porta in grembo. Esperimenti condotti su animali hanno dimostrato che le madri e i cuccioli si riconoscono immediatamente dall’odore e dai suoni emessi, in linea con le ricerche sopra citate ed effettuate in campo umano. Cambiare la figura di riferimento, che per il neonato è soltanto la propria madre, può risultare pericoloso per la sua integrità psichica. Oltre a questo bisogna considerare le ripercussioni psichiche sulle donne, che hanno ceduto i figli portati in grembo. Spesso si verificano patologie psichiatriche di natura depressiva, che possono portare al suicidio. Un figlio ottenuto mediante maternità surrogata, una volta diventato adulto e venuto a conoscenza della sua reale origine, potrebbe vedere nei genitori sociali o biologici quasi degli aguzzini, nei confronti della propria madre surrogata.

L’assenza di una figura paterna, nel caso di figli di donne single o di coppie lesbiche, può avere ripercussioni altrettanto gravi, perché, secondo gli psichiatri, la figura paterna aiuta il bambino a comprendere le abilità sociali necessarie a vivere nel mondo esterno, nonché il senso del limite e del controllo. Inoltre la figura paterna aiuta a sostenere la frustrazione e a costruire l’autostima. L’assenza del padre determina un notevole senso di vulnerabilità, che può dare luogo a pensieri catastrofici riguardanti determinati accadimenti o la propria salute (con il rischio di cadere nell’ipocondria).

I sostenitori della gestazione per altri, della stepchild adoption o della genitorialità dei single dovrebbero seriamente prendere in considerazione i risultati di studi come quelli appena citati e ricordare che avere dei genitori è un diritto, mentre avere dei figli non lo è mai stato. In realtà al loro figlio mancherà per sempre un genitore.

Rosanna Novara Topino
(seconda puntata – fine)

 




Indagine sulla maternità surrogata


Una donna si assume l’onere della gravidanza e del parto per altre persone alle quali poi consegnerà il neonato. È la pratica della «maternità surrogata», nota anche come «gestazione per altri» (Gpa) o «utero in affitto». Un fenomeno in crescita, ma vietato (per varie ragioni) in molti paesi, tra cui anche l’Italia in base alla legge 40 del 2004 sulla «fecondazione assistita» di cui la Gpa è un’estensione.

Nel mondo della globalizzazione c’è un fenomeno in crescita: quello della maternità surrogata o «gestazione per altri» (Gpa) o, in termini meno eleganti, «utero in affitto». In pratica la Gpa è un’estensione della fecondazione assistita, dove però la donna che si assume l’onere della gravidanza e del parto (madre surrogata) lo fa per altri, ai quali si impegna, in seguito a un vero e proprio contratto, a consegnare il neonato dopo la nascita. In questo caso nella futura gestante vengono impiantate blastocisti (embrioni di 5-6 giorni concepiti in vitro), che possono essere frutto della fusione di ovociti e spermatozoi (gameti femminili e maschili) della coppia richiedente (veri genitori biologici), oppure di gameti acquistati da donatori, nel caso la gravidanza sia richiesta da coppie che non riescono a produrne, oppure da coppie omosessuali o da single.

Secondo i dati del 2016 delle maggiori cliniche americane specializzate nel settore, negli Stati Uniti, su dieci gravidanze surrogate, sette sono commissionate da coppie eterosessuali e tre da coppie omosessuali oppure da single. Per quanto riguarda le coppie eterosessuali, non si tratta sempre di coppie con difficoltà a procreare. Soprattutto tra vip facoltosi, si ricorre alla maternità surrogata per non interrompere una brillante carriera o per evitare di stressare il proprio corpo, lasciando le fatiche della gravidanza e del parto a una donna appositamente pagata. Questa tecnica, nel caso di gameti propri, dà la certezza della paternità, argomento che da sempre sta a cuore agli uomini, che in tal modo sono certi che il neonato è loro figlio. Tra i personaggi più famosi che sono ricorsi alla maternità surrogata ci sono le attrici Nicole Kidman e Sarah Jessica Parker, tra gli attori Robert de Niro (due figli), Miguel Bosé (due coppie di gemelli), il cantante Elton John, il regista George Lucas, il calciatore portoghese neojuventino Cristiano Ronaldo, tra gli italiani Nichi Vendola, leader di Sel.

Paesi, leggi, costi

La Gpa è legalmente praticabile solo in alcuni paesi. È legale in 8 stati degli Stati Uniti (California, Colorado, Texas, Massachusetts, Connecticut, Utah e Florida) e inoltre in India, Russia, Ucraina, Georgia, Messico, Brasile, Guatemala, Ecuador, Bolivia, Haiti, Sudafrica, Thailandia e in quasi tutto il Sudest asiatico, mentre l’Argentina sta valutando se renderla legale. Nel Regno Unito e in Canada, la Gpa è permessa solo in forma altruistica, quindi è vietata la maternità commerciale, mentre in Grecia sono necessarie prove mediche che confermino l’impossibilità per le donne di una gestazione autonoma per potere accedere a tale pratica, al cui accesso sono esclusi i gay. In Belgio e Olanda è obbligatorio il legame biologico tra coppia committente e neonato.

La Gpa è invece vietata in Italia, Francia, Germania, Spagna, Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia.

Per quanto riguarda i costi, spesso mascherati come rimborso delle spese mediche per la gestante e legali per la trascrizione dell’atto di nascita del neonato (in realtà sovente per la produzione di documenti falsi, in cui si dichiara che la gestazione e il parto della donna committente si sono svolti in loco), c’è una grande variabilità: si va dall’equivalente di 130mila-210mila euro degli Stati Uniti (il costo aumenta se il parto è gemellare), dove il neonato acquisisce la cittadinanza statunitense e il certificato di nascita presenta il nome dei genitori riceventi, che possono anche essere gay o single, ai 30mila euro di Grecia (dove però i genitori riceventi devono prendere casa per la procedura e, come detto, sono esclusi i gay) e Russia, ai 20mila euro dell’Ucraina e ai 15mila euro equivalenti dell’India. Dal punto di vista del riconoscimento giuridico del neonato in Italia, la scelta del paese in cui si svolgerà la maternità surrogata è fondamentale, perché negli Stati Uniti e nel Canada i neonati hanno cittadinanza e passaporto statunitensi o canadesi e non ci sono problemi di trascrizione dei loro certificati di nascita al momento del loro ingresso in Italia.

Il neonato e il rientro in Italia

Chi invece va in Russia o in Ucraina avrà un figlio senza cittadinanza, quindi per uscire dal territorio in cui è nato sarà necessaria un’autorizzazione del Consolato. In questo frangente, se viene sospettata la pratica dell’utero in affitto, possono essere fatte segnalazioni alla magistratura italiana, che può procedere penalmente nei confronti delle coppie committenti per «alterazione dello stato di nascita», reato punibile con pene tra 3 e 10 anni di reclusione. Questo perché in Italia la legge 40 del 2004, che regola la fecondazione assistita, all’articolo 12 dice: «Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da 3 mesi a 2 anni e con la multa da 600mila a un milione di euro». Questa legge, nel corso degli anni ha subito diverse modifiche. Secondo il testo originario, la fecondazione assistita nel nostro paese era riservata solo a coppie sterili, formate da maggiorenni di sesso diverso, coniugati o conviventi, in età potenzialmente fertile ed entrambi viventi. Nel 2015 una sentenza della Corte costituzionale ha reso illegittimo il divieto di accesso alla procreazione medicalmente assistita (Pma) alle coppie portatrici di malattie genetiche trasmissibili, che prima di questa sentenza potevano solo interrompere la gravidanza di un feto malato, ma non potevano accedere alle tecniche di Pma e di diagnosi pre-impianto. Quest’ultima, nel testo originario era vietata, mentre oggi è consentita sia per le coppie sterili che per quelle portatrici di malattie genetiche o cromosomiche trasmissibili, al fine di impiantare in utero solo gli embrioni sani. Nel 2009, a seguito di una sentenza della Corte costituzionale, la legge 40 è stata modificata anche per quanto riguarda il numero di embrioni prodotti (inizialmente non più di tre) e l’obbligo di impiantarli tutti contemporaneamente (con un’elevata probabilità di parti plurigemellari). Attualmente possono essere prodotti più di tre embrioni per ogni ciclo di fecondazione assistita e non è necessario trasferirli tutti contemporaneamente, ma è prevista la crioconservazione degli embrioni non impiantati.

Rosanna Novara Topino
(prima puntata – continua)


Glossario

Dalla richiesta al bambino: un’immagine esplicativa usata dal sito della clinica indiana Lotus Kiran. Si noti come i soggetti abbiano tutti fattezze bianche e occidentali.

Blastocisti: fase dell’embriogenesi che va dal quarto al quattordicesimo giorno di vita dell’embrione.

Crioconservazione: si tratta della conservazione, dopo congelamento, degli embrioni prodotti con fecondazione assistita e non trasferiti in utero, presso apposite biobanche autorizzate. La temperatura di conservazione degli embrioni, nonché di ovociti e di spermatozoi è di -196°C.

Diagnosi preimpianto: o Pgd o Pgt (Preimplantation genetic diagnosis o testing): si tratta di due distinti gruppi di test, che permettono di verificare la presenza di anomalie genetiche o cromosomiche nell’embrione prima del suo impianto in utero mediante il prelievo di alcune sue cellule, oppure di verificare la presenza di anomalie nel Dna dei genitori. I due gruppi di test si distinguono tra:

  • quelli che valutano la presenza di malattie genetiche o di alterazioni cromosomiche, di cui una coppia sia fertile che infertile può essere portatrice e trasmettere ai figli;
  • quelli che valutano la mappa cromosomica di embrioni prodotti durante la procreazione medicalmente assistita per coppie infertili. In questo caso si tratta di screening genetico preimpianto o meglio di diagnosi genetica preimpianto per aneuploidie (pgt-A per anomalie del numero dei cromosomi).

L’accesso a questa tecnica era consentito dalla legge 40 solo alle coppie infertili. Nel 2015 la Corte costituzionale l’ha reso possibile anche alle coppie fertili potenzialmente portatrici di una malattia genetica come la talassemia, l’emofilia, la fibrosi cistica, la distrofia muscolare, la sindrome dell’X-fragile oppure di qualche malattia cromosomica. Gli embrioni, che a seguito di questo test risultano problematici, vengono congelati e conservati nel centro della Pma.

Epigenetica: è una recente branca degli studi genetici, che si occupa dell’influenza dell’ambiente sulla espressività dei geni. In pratica si occupa dei cambiamenti che influenzano il fenotipo (le caratteristiche individuali) dovuti all’ambiente esterno, senza alterare il genotipo (il patrimonio genetico).

Fecondazione post-mortem: fecondazione dell’ovocita di una donna con il seme del partner defunto. In Italia tale pratica è vietata dalla legge 40 del 2004.

Disegno di un gamete maschile (spermatozoo) e di un gamete femminile (ovocita).

Gameti: ovociti o gameti femminili e spermatozoi o gameti maschili. Sono le cellule mature della linea germinale, che si differenziano da tutte le altre cellule del corpo (cellule somatiche), perché il loro nucleo contiene la metà dei cromosomi della specie (corredo aploide).

Legge 40 / 2004: è la legge che contiene le «Norme in materia di procreazione medicalmente assistita» (ne parleremo nella prossima puntata).

Madre biologica: la donna donatrice dell’ovocita, che può coincidere con la donna committente oppure no, nel caso questa sia sterile.

Madre sociale: è la donna committente, che può anche essere la madre biologica e che si occuperà della crescita e dell’educazione del bambino.

Madre surrogata: la donna, nel cui utero viene impiantato l’embrione ottenuto con fecondazione assistita, appartenente a una coppia committente. Essa si impegna a portare a termine la gestazione e a cedere il neonato alla coppia committente dopo il parto. Si impegna inoltre per contratto a fornire anche il proprio latte.

Malattie cromosomiche: sono la conseguenza dell’alterazione del numero dei cromosomi (aneuploidia). La più diffusa è la trisomia 21 o sindrome di Down dovuta alla presenza di un cromosoma 21 sovrannumerario.

Malattie genetiche: tutte le patologie che si originano da mutazioni genetiche verificatesi durante la vita fetale e che possono interessare uno o più geni. Tra le più frequenti malattie genetiche ci sono la fibrosi cistica, la corea di Huntington, la distrofia muscolare di Duchenne, l’anemia a cellule falciformi, la talassemia.

Mappa cromosomica (e il sesso del nascituro): è detta anche cariotipo ed è un metodo diagnostico, che permette lo studio dei cromosomi. Può essere impiegato come esame preconcezionale per verificare la presenza di eventuali malattie trasmissibili dai partner, oppure sull’embrione come diagnosi preimpianto, oppure a gravidanza già iniziata, a seguito di amniocentesi o di villocentesi. Basta prelevare poche cellule, nel caso della diagnosi preimpianto o della villocentesi (o liquido amniotico nell’amniocentesi) oppure un campione ematico dei partner. Le cellule ottenute dai campioni vengono messe in terreno di coltura e fotografate durante la mitosi. In tal modo si ottiene l’immagine dei cromosomi (costituiti da Dna e nucleoproteine e contenenti i geni). Tali immagini vengono allineate per dimensioni e forma, in modo da ottenere la sequenza dei 46 cromosomi (23 coppie) del cariotipo umano. Spesso si utilizza un particolare mezzo di contrasto, che permette la bandeggiatura dei cromosomi, cioè la formazione di bande colorate in punti precisi, al loro interno. Dall’analisi della forma dei cromosomi e della presenza o meno e dello spessore delle bande è possibile rilevare la presenza di malattie trasmissibili. Dalla semplice forma dei cromosomi è – inoltre – possibile stabilire il sesso del nascituro: se sono presenti i cromosomi XX si tratta di una femmina, se presenti gli XY si tratta di un maschio.

Maternità surrogata altruistica (versus commerciale): è la forma di maternità surrogata permessa in alcuni paesi come il Regno Unito, in cui è previsto che alla madre surrogata vada solo un rimborso spese legate alla gravidanza. La madre surrogata quindi non può trarre vantaggi economici, a differenza di quanto avviene nella maternità surrogata commerciale.

Procreazione medicalmente assistita (Pma): insieme di trattamenti per la fertilità consistenti nel favorire la fusione di ovociti (gameti femminili) e di spermatozoi (gameti maschili), cioè la fecondazione. Queste tecniche permettono il concepimento per le coppie che non possono ottenerlo spontaneamente.

Tali tecniche sono suddivise in tre livelli:

  • 1 livello: consiste solo in una fecondazione «aiutata», immettendo direttamente in utero il seme del partner, dopo avere per esempio selezionato gli spermatozoi in base alla loro motilità, al loro aspetto, ecc.. Si può eseguire con ciclo spontaneo della donna o mediante stimolazione farmacologica dell’ovulazione;
  • 2 e 3 livello: c’è una prima parte di produzione dell’embrione in vitro (Fivet e Icsi, sotto la descrizione) e successivamente (terzo livello) l’impianto in utero.

Le tecniche sono le seguenti:

  • Fivet (fertilizzazione in vitro con embryo transfer) o Ivf (in vitro fertilization). Tale tecnica prevede la stimolazione dell’ovaio a produrre ovociti, il loro prelievo chirurgico, l’inseminazione in laboratorio e la successiva fecondazione, lo sviluppo degli embrioni in mezzo di coltura e infine il loro trasferimento in utero;
  • Icsi (Iniezione intracitoplasmatica di un singolo spermatozoo). Questa tecnica è particolarmente utile nei casi di infertilità maschile, dove non c’è un numero sufficiente o una motilità adeguata degli spermatozoi per la fecondazione spontanea.

Sia la Fivet che la Icsi si distinguono in «cicli a fresco» e «cicli da scongelamento», a seconda che gli embrioni siano appena stati prodotti, oppure che embrioni o ovociti siano stati precedentemente crioconservati e poi scongelati;

  • Gift: tecnica ormai poco utilizzata, in cui si pratica una piccola incisione sull’addome, per trasferire ovociti non fertilizzati e il liquido seminale nelle tube di Falloppio, in cui avverrà la fecondazione;
  • Prelievi testicolari di spermatozoi in caso di aspermia mediante tecniche di aspirazione percutanee e/o microchirurgiche.

Oltre a tutte le procedure sopra descritte, della Pma fanno parte anche le tecniche di crioconservazione dei gameti e degli embrioni. Mediante la crioconservazione finora in Italia sono nati circa 1.500 bambini.

 

Stepchild adoption: istituto giuridico, che consente al figlio di essere adottato dal partner (unito civilmente o sposato) del proprio genitore. In Italia è consentita dal 1983 per le sole coppie eterosessuali sposate e dal 2007 anche per le coppie eterosessuali conviventi.


Approfondimento

I?SITI

Abbiamo cercato sul web i siti dei centri internazionali dove è possibile praticare la maternità surrogata. Si tratta di siti scritti in più lingue, con belle immagini e un linguaggio familiare e accattivante. Di seguito una breve lista divisa per paese:

• Brasile:

http://fertility.com.br
https://sbra.com.br
https://fertilidade.org

• Georgia:

http://www.chachava.ge

• Grecia:

http://www.fertilitycrete.gr

• India*:

http://www.upkaar.in/surrogacy
http://lotuskiran.com/home
http://www.upkaar.in/surrogacy

• Nepal:

http://www.surrogatemothernepal.com

• Russia:

http://nova-clinic.ru

• Stati Uniti:

www.internationalsurrogacycenter.com
www.findsurrogatemother.com

• Ucraina:

www.mother-surrogate.com
https://www.lavitanova.ru**.

* Il governo induista sta valutando l’introduzione di una legge molto restrittiva.
** In home page ci sono i costi: da 32mila euro per il trattamento base a 48mila per quello Vip.

 




Per un mondo di Stephen Hawking

Testo di Rosanna Novara Topino |


Si stima che in Italia ci siano 4 milioni di disabili (80 nell’Unione europea). Nonostante le normative non manchino, nei loro confronti c’è ancora discriminazione e isolamento. Scuola e lavoro sono gli ambiti dove occorre fare di più. Senza dimenticare le difficoltà economiche delle famiglie costrette a supplire alle carenze dello stato.

Lo scorso 14 marzo è scomparso Stephen Hawking, il grande matematico e astrofisico inglese costretto da 55 anni su una sedia a rotelle a causa di una gravissima forma di malattia del motoneurone (inizialmente diagnosticata come sclerosi laterale amiotrofica). Da diversi anni, inoltre, non aveva più possibilità di parlare in seguito a un intervento di tracheotomia eseguito per salvarlo da una grave forma di polmonite. Nonostante una vita irta di enormi difficoltà, la sua mente è stata però capace di compiere studi tali da arrivare ad approfondire teorie scientifiche, che hanno rivoluzionato l’astrofisica e la cosmologia: la teoria del big bang e dell’espansione dell’universo, il principio di indeterminazione, la termodinamica dei buchi neri e l’esistenza non di un solo universo, ma di moltissimi, quindi di un multiverso. Tra le tante riflessioni che la sua opera ci impone, una in particolare riguarda l’enorme potenziale racchiuso nella mente di una persona così grandemente limitata nel fisico dalla malattia e dalla disabilità. Questo dovrebbe essere un monito per spronare il governo di ogni nazione a mettere in atto tutte le misure possibili per rendere migliore la vita dei disabili, in modo che essi siano in grado di esprimere tutte le loro potenzialità. Quasi sempre invece si parla di uguaglianza dei diritti per tutti, si fanno campagne contro le discriminazioni di genere, etnia, religione, orientamento sessuale, ma puntualmente ci si arena di fronte alle particolari esigenze che i vari tipi di «diversità» presentano. Si accampano spesso ostacoli di natura economica alla eliminazione delle barriere di ogni tipo, che, permanendo, comportano un’autentica discriminazione e molto spesso l’isolamento delle persone disabili. Troppo spesso i disabili sono invisibili, se non addirittura un peso per la società.

Non è un paese per disabili

Secondo l’Onu, l’Italia, che conta oltre 4 milioni di disabili (si tratta di un valore stimato, poiché non ci sono dati certi a riguardo), non è un paese a misura di disabile per diverse ragioni tra cui l’esiguità dei fondi messi a disposizione, il clima discriminatorio, le barriere architettoniche, le disuguaglianze in campo occupazionale, sanitario e scolastico.

Nel nostro paese, il 12 dicembre 2017 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il secondo programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità, che rappresenta il punto di arrivo del lavoro svolto dall’Osservatorio nazionale sulla disabilità. Nonostante il formale riconoscimento dei diritti dei disabili e i programmi che vengono stilati per loro in ogni settore – dalla scuola ai trasporti, dal mondo del lavoro alla sanità – permangono gravi carenze e spesso assistiamo addirittura ad una retrocessione per alcuni diritti, che sembravano dati per acquisiti.

La scuola e i docenti

Un esempio di diritto dei disabili sancito dalla Costituzione, ma spesso disatteso è quello all’istruzione e in particolare al sostegno, sebbene il sistema scolastico italiano sia apprezzato in tutto il mondo per quanto riguarda l’inclusione degli studenti disabili.

Secondo i dati Istat, nell’anno scolastico 2015-2016 nella scuola primaria c’erano 88.281 alunni con diverse forme di disabilità (3% del totale), mentre nella scuola secondaria di primo grado erano 67.690 (4% del totale). Si stima che l’8% degli alunni disabili della scuola primaria non sia autonomo in alcuna delle seguenti attività: spostarsi, mangiare, andare in bagno. Nella scuola secondaria di primo grado, tali alunni rappresentano il 6% degli alunni disabili. In entrambi gli ordini scolastici considerati, le forme prevalenti di disabilità sono quella intellettiva, i disturbi dell’apprendimento e quelli dello sviluppo, che sono presenti nel 2,1% degli studenti. Secondo il Miur (Ministero dell’istruzione, università e ricerca), gli insegnanti di sostegno assegnati per l’anno scolastico 2017-2018 sono stati 150.000 – di cui però 47.000 in deroga – per 243.840 alunni disabili (1 ogni 1,6 alunni) nelle scuole statali di ogni ordine e grado.

Il maggior numero di ore di sostegno settimanali in media si registra nelle regioni del Mezzogiorno. Circa l’8% delle famiglie di alunni disabili della scuola primaria e il 5% della secondaria di primo grado hanno presentato ricorso al Tar, nel corso degli anni, per ottenere l’aumento delle ore di sostegno. A seguito di tali ricorsi e delle successive decisioni amministrative dell’ultimo momento, sono stati nominati gli insegnanti in deroga di cui sopra, che non erano previsti sulla carta, ma che di fatto si sono rivelati indispensabili per potere avviare l’anno scolastico. Purtroppo, sistematicamente non vengono assegnate in prima battuta tutte le ore di sostegno necessarie allo sviluppo e all’educazione dei ragazzi, così le famiglie sono costrette a fare ricorso per chiedere un’integrazione, che spesso comporta il raddoppio delle ore concesse inizialmente e la trasformazione di una «mezza» cattedra di sostegno in una intera, con un esborso stimato per le casse statali di circa 300 milioni di euro. Quest’ultimo perché ogni famiglia, a cui sia stata accolta la richiesta di aumento delle ore di sostegno, ha diritto a un risarcimento di 1.000 € per ogni mese di assenza dell’insegnante di sostegno, a partire dalla notifica del ricorso (in media 3 mesi), più il risarcimento delle spese legali, per un totale di circa 5.000 € a famiglia. Tutto questo è capitato perché nell’assegnazione degli insegnanti di sostegno si è fatto riferimento a dei limiti di assegnazione risalenti al 2007, che non sono più stati rivisti, mentre nel frattempo è aumentato il numero dei disabili riconosciuti.

Secondo il rapporto del Censis del 1° dicembre 2017, gli alunni disabili iscritti alle scuole materne, elementari e medie sono aumentati negli ultimi 10 anni del 26,8%, mentre alle superiori l’incremento è stato del 59,4%. Il maggiore incremento si è registrato nel Mezzogiorno, con 38,3% tra i più piccoli e 42,2% tra i più grandi.

Un altro problema, soprattutto per i ragazzi disabili, è dato dal fatto che non solo si ritrovano a cambiare spesso gli insegnanti di sostegno, ma questi ultimi, se reclutati all’ultimo momento, spesso sono precari o non hanno l’abilitazione al sostegno. Questo perché il ministero ha dato la possibilità, in caso di esaurimento delle graduatorie dei docenti specializzati, di coprire i posti di sostegno con insegnanti non abilitati, iscritti nelle graduatorie di circolo o di istituto o con insegnanti di classi di concorso in esubero o in assegnazione provvisoria. È chiaro che tutto questo si traduce in una carenza di recupero delle disabilità, soprattutto quelle intellettive.

L’assurdo declino del braille

Tra le criticità dell’insegnamento di sostegno presenti nella scuola italiana c’è quella della scarsa formazione – specifica sulle singole disabilità – del personale scolastico (sia insegnanti specializzati, che curricolari). Ciò è particolarmente evidente nel caso della scarsissima (o assente) «competenza tiflologica» nell’ambito della disabilità visiva, cioè sono pochi gli insegnanti che conoscono il braille, il sistema di scrittura per i ciechi, e l’apparato tecnologico e didattico indispensabile per l’insegnamento a questo tipo di disabili. La mancanza di queste conoscenze da parte degli insegnanti, degli educatori e degli operatori scolastici aggrava l’handicap dell’allievo ipovedente, isolandolo di fatto dal contesto degli altri e oscurandone le reali potenzialità. Questo è un problema non da poco, se pensiamo che in Italia i non vedenti in età scolare sono circa 2.600 (molti purtroppo pluridisabili, come i sordociechi).

Per questi ragazzi è fondamentale imparare il braille e potere comunicare con i propri insegnanti con questo metodo. In Italia attualmente, stiamo assistendo al fatto che, sia per la difficoltà di integrazione scolastica, sia per la facilità di utilizzare i mezzi di comunicazione con voce digitale, molti giovani non vedenti si allontanano dall’apprendimento del codice braille, risultando così di fatto analfabeti e questo non può che ripercuotersi negativamente sulla loro vita futura, soprattutto a livello lavorativo.

Basta pensare al fatto che alla fine degli anni ’80, quando erano molto più numerose le persone non vedenti che conoscevano e utilizzavano il braille, in Italia c’erano un migliaio di insegnanti, 1.300 massofisioterapisti, 800 professionisti (soprattutto avvocati) e circa 9.000 operatori telefonici ciechi, mentre attualmente è rimasto qualche migliaio di operatori telefonici, il numero di avvocati e di insegnanti è circa un centinaio e abbiamo qualche centinaio di massofisioterapisti. Tra l’altro il codice braille potrebbe essere utilizzato anche per le schede elettorali, in modo da rendere più autonomi gli elettori ciechi, che adesso votano solo con il sistema del voto assistito. Per ovviare alla mancata conoscenza del braille da parte del personale scolastico, recentemente l’Irifor (Istituto per la ricerca, la formazione e la riabilitazione) dell’Uici (Unione italiana ciechi e ipovedenti) ha approvato un corso di aggiornamento di tiflologia di 200 ore e uno di formazione di 600 ore attivati sulla piattaforma e-learning dell’istituto.

Lo scandalo mobilità

Oltre al sistema scolastico, anche quello dei trasporti in Italia presenta notevoli criticità per i disabili. Basta pensare alle barriere architettoniche presenti in molte stazioni ferroviarie, dove spesso mancano gli ascensori, oppure al fatto che nelle carrozze ferroviarie dedicate al trasporto di persone disabili è possibile imbattersi in pedane sollevatrici nuovissime, ma inutilizzabili a causa di qualche cavillo burocratico, che ne impedisce l’uso. Per i disabili che devono viaggiare, la Rfi (Rete ferroviaria italiana) ha predisposto il servizio Sala blu, che permette di prenotare l’assistenza al viaggio. Nel caso non ci siano convogli attrezzati su una certa tratta, però, il disabile non può viaggiare perché, per ragioni di sicurezza, la normativa vigente in materia dice che non può salire su convogli non adibiti al trasporto di sedie a rotelle.

Salute e lavoro

La situazione non è certa migliore per quanto riguarda la salute. I dati dell’Osservatorio nazionale sulla salute delle regioni italiane dicono che lo stato fisico e quello psicologico dei disabili sono peggiori rispetto al resto della popolazione. In particolare, le loro condizioni di salute sono più precarie a causa del mancato accesso alle cure previste dai Lea (Livelli essenziali di assistenza). Sono molte infatti le famiglie italiane che, vivendo in difficoltà, non riescono ad ottenere né visite mediche, né trattamenti a domicilio. Si stima che il 14% dei disabili rinunci alle cure, rispetto al 3,7% della popolazione. Questo dato è più alto nel Mezzogiorno dove troviamo una percentuale del 30% in Puglia e del 22% in Calabria.

Per quanto riguarda il mondo del lavoro, solo il 18% dei disabili italiani risulta occupato, contro il 58,7% del resto della popolazione. In particolare, solo il 23% degli uomini disabili è occupato (contro il 71,2% dei normodotati), mentre le donne disabili occupate sono il 14% del totale (contro il 46,7% delle normodotate).

Da questi ultimi dati risulta per le donne disabili una doppia discriminazione, in quanto donne e in quanto disabili, ma questo non è tutto. Nel 2015, con il convegno «Fiori recisi», l’Uici volle mettere in evidenza la drammatica realtà delle violenze subite dalle donne disabili e il fatto che alcune donne sono diventate disabili in seguito alle violenze subite.

Le difficoltà economiche

Tra le varie difficoltà incontrate dai disabili italiani ci sono infine quelle economiche, poiché per loro è spesso difficile disporre di un reddito e le famiglie con persone disabili mediamente dichiarano un reddito inferiore rispetto alle altre. Del resto, i disabili, per avere una qualità di vita accettabile devono spendere di più dei normodotati per assistenza, apparecchi sanitari, dispositivi medici, ecc. A questo si aggiunge il fatto che il welfare italiano si basa ormai prevalentemente sulle famiglie che, nell’assistenza ai disabili, sostituiscono lo stato e che spesso per questo arrivano a indebitarsi. Questo è vero soprattutto con la fine del ciclo di studi, quando molti disabili non vengono inseriti nel mondo del lavoro e finiscono in una condizione di invisibilità a carico della loro famiglia, che si impoverisce per sostenere i costi del loro mantenimento e che diventa sempre più anziana. Del resto, le aziende, pur essendo obbligate ad assumere persone disabili, preferiscono pagare una multa, piuttosto di assumerle.

Vedere oltre

Quanto visto finora è una descrizione sicuramente non esaustiva sia delle tante forme di disabilità, sia delle difficoltà affrontate quotidianamente dalle persone disabili, ma vuole essere un invito a riflettere sul fatto che tutti hanno diritto ad una vita dignitosa e, soprattutto, che anche in presenza di gravi disabilità, le persone possono avere enormi potenzialità. È nostro dovere aprire la mente e vedere oltre la disabilità.

Rosanna Novara Topino
(settima puntata – Fine)




Per un cromosoma in più: la sindrome di Down

Di Rosanna Novara Topino |


Un’anomalia cromosomica causa la sindrome di Down. Principale fattore di rischio è l’età della madre. Rispetto al passato le terapie e l’inserimento scolastico e lavorativo sono migliorati, ma molto rimane da fare. In particolare per non lasciare sole le famiglie. In Italia, le persone affette dalla sindrome di Down sono circa 38.000.

Nel nostro viaggio tra alcune delle più diffuse forme di disabilità, questa volta incontriamo quella che, più di tutte, associamo all’idea di diversità: la sindrome di Down. Il suo nome è dovuto al medico inglese John Langdon Down, che per primo ne descrisse le caratteristiche in una pubblicazione del 1866, in cui definì tale sindrome con il termine di «mongolismo», supponendo erroneamente un’affinità tra la forma degli occhi dei pazienti, dalle rime palpebrali oblique, e quella a mandorla tipica delle popolazioni asiatiche. Con una notevole approssimazione, dovuta sia al periodo storico, sia al fatto che osservò solo persone private delle cure familiari e mediche e isolate fin dalla nascita in istituti, egli definì questi pazienti come persone con grave ritardo mentale, ineducabili, insensibili e prive di personalità. Purtroppo, questo stereotipo spesso è ancora presente, nel comune modo di pensare. Fu del medico francese Jerome Lejeune la scoperta, nel 1958, della causa della sindrome di Down, cioè la presenza, nel corredo cromosomico cellulare dei pazienti, di un cromosoma 21 soprannumerario, per cui si parla di «trisomia 21». Le variazioni nel numero dei cromosomi*(46 nel normale corredo cromosomico umano, 47 nella sindrome di Down) sono di solito la conseguenza di una loro errata separazione alla meiosi* con la formazione di cariotipi* con cromosomi soprannumerari oppure mancanti di un cromosoma. La conseguenza di tutto ciò è uno sbilanciamento nelle dosi dei geni, che molto spesso è incompatibile con la vita e ha come esito un aborto spontaneo*. Solo nelle alterazioni del numero dei cromosomi sessuali e del cromosoma 21, c’è la possibilità di sopravvivenza dell’embrione e del raggiungimento dell’età adulta, ma non sempre. Si stima infatti che, nel caso della trisomia 21 o sindrome di Down, 3 feti su 4 vadano incontro ad aborto spontaneo specialmente nel primo trimestre della gravidanza. Nella letteratura scientifica è riportata una correlazione direttamente proporzionale tra età materna ed abortività spontanea di feti Down, con un aumento dell’incidenza degli aborti spontanei dal 23% per madri di 25 anni fino al 45% per madri di 45 anni. Si è osservato che la presenza del cromosoma 21 soprannumerario è per il 93% dei casi di origine materna e solo per il 7% dei casi paterna.

Le conseguenze

La trisomia 21 influisce notevolmente sullo sviluppo di diversi organi e tessuti, in particolare cervello e cuore e causa gradi diversi di ritardo mentale e molteplici rischi per quanto riguarda la salute. Basta pensare che i difetti cardiaci congeniti sono presenti in un individuo su due circa e, oltre a questi, possono essere presenti problemi dentari, di perdita dell’udito, della vista (strabismo), endocrini come l’ipotiroidismo, cutanei, gastrointestinali, obesità, anomalie ortopediche, un aumentato rischio di leucemia, la possibilità di attacchi epilettici. A tutto ciò si aggiunge l’invecchiamento precoce, con un aumento dei casi di demenza, causati spesso da morbo di Alzheimer, che in questi pazienti può insorgere prima, rispetto agli individui normodotati. La sindrome di Down inoltre comporta maggiore sterilità, rispetto alla popolazione generale, soprattutto tra i maschi. Il rischio di generare figli Down, per chi già presenta questa sindrome è più alto rispetto a quello dei normodotati, ma non superiore al 50%.

La diagnosi prenatale

Oltre al ritardo mentale, la trisomia 21 comporta la comparsa precoce delle manifestazioni neuropatologiche della malattia di Alzheimer e appaiono in generale più precoci tutti i processi di invecchiamento. Tra questi, oltre alla demenza, ci sono anche la produzione di autornanticorpi e lo sviluppo di patologie autornimmuni. Secondo recenti studi, alla base dell’invecchiamento precoce e dei fenomeni neurodegenerativi caratteristici della sindrome di Down ci sono lo stress ossidativo e le mutazioni del Dna mitocondriale. I mitocondri sono organuli presenti nel citoplasma cellulare e responsabili della respirazione cellulare, della produzione di energia sotto forma di molecole di Atp e dello smaltimento dei reagenti dell’ossigeno comunemente detti radicali liberi. Questi organuli sono gli unici, oltre al nucleo cellulare, a contenere Dna, che nei mitocondri è sempre di origine materna. Mutazioni di questo Dna portano ad un’alterazione delle funzioni mitocondriali, con declino in particolare della funzione respiratoria e apoptosi o morte cellulare. La riduzione del numero di cellule per apoptosi porta alla perdita di funzione di tessuti e di organi, evento cruciale del processo d’invecchiamento. Poiché l’alimentazione, il sistema ormonale, i fattori di crescita e l’esposizione a danni esterni influiscono sul metabolismo mitocondriale, sullo stress ossidativo e sull’espressione genica è di cruciale importanza la diagnosi prenatale della sindrome di Down, in modo che, qualora essa risulti presente, mamma e feto siano esposti il meno possibile a tutti quei fattori che possono accelerare il processo d’invecchiamento cellulare e che sia attuato un opportuno apporto di sostanze antiossidanti.

Amniocentesi e villocentesi

Il principale fattore di rischio per la sindrome di Down è l’età della madre, con errori di non disgiunzione cromosomica alla meiosi sempre crescenti a partire dai 35 anni (è però possibile che si verifichino anche prima di tale età, seppure con minore frequenza).

Fino a non molto tempo fa gli esami più attendibili, grazie allo studio del cariotipo, ma invasivi e pertanto a rischio di provocare aborto, erano solo l’amniocentesi e la villocentesi (con un rischio di aborto di 1:200 casi). Esse sono rispettivamente il prelievo del liquido amniotico e quello dei villi coriali della placenta, esami entrambi eseguiti con puntura addominale sotto controllo ecografico. La villocentesi permette una diagnosi più precoce, ma meno attendibile (perché il cariotipo di alcune cellule placentari potrebbe essere diverso da quello delle cellule embrionali), rispetto all’amniocentesi, che dà un risultato sicuro al 100%, ma più tardivamente. Prima di effettuare l’amniocentesi o la villocentesi, consigliate dai 35 anni in su, viene effettuato il tri-test, un esame del sangue per la valutazione dell’alfa-fetoproteina (Afp), della gonadotropina corionica (Hcg) e dell’estriolo non coniugato (E3 free), unitamente all’ecografia, per conoscere esattamente l’età del feto. La valutazione di questi tre parametri, sostanze prodotte dal feto o dalla placenta, permette di stabilire la probabilità che il feto possa presentare anomalie cromosomiche o difetti del tubo neurale (spina bifida), ma serve solo a segnalare una situazione di rischio, che, nel caso sia presente, va poi verificata con l’amniocentesi, essendo possibili dei falsi positivi. Da poco è disponibile un test innovativo, che permette lo studio del cariotipo fetale analizzando il Dna fetale libero (cfDna) circolante nel sangue materno, ottenuto quindi con un normale prelievo di sangue, senza alcun rischio per il feto.

L’aborto e la Danimarca

La sindrome di Down è ubiquitariamente diffusa in tutte le popolazioni e ad ogni latitudine. Attualmente la sua incidenza è di circa 1:1.000-1.100 nuovi nati. Si stimano circa 3-5.000 nuovi casi all’anno nel mondo. In Italia nasce un bambino Down su 1.200 e si stimano circa 500 nati Down all’anno. Attualmente i portatori di sindrome di Down in Italia sono circa 38.000. In assenza di aborto volontario*, l’incidenza dovrebbe essere circa di 1:650. Nei paesi del Nord Europa, il numero di nuovi nati con sindrome di Down è sceso drasticamente negli ultimi anni, tanto che la Danimarca mira a diventare il primo paese «Down free»: nel 2015, il 98% di donne con diagnosi di gravidanza Down ha scelto l’aborto volontario. Nel 2004 il governo danese lanciò un piano di accesso gratuito ai test prenatali per individuare la sindrome di Down. Nel 2014 lo scienziato Richard Dawkins, docente a Oxford, scrisse su Twitter, uno dei più diffusi social network, che partorire un figlio Down, avendo a disposizione gli attuali strumenti per la diagnosi prenatale, è secondo lui altamente immorale. Come abbiamo visto, però, la sindrome di Down ha un’ampia gamma di manifestazioni, per cui possiamo avere individui con gradi diversi di disabilità, che in ogni caso possono migliorare notevolmente, se si utilizzano fin dalla più tenera età tutti gli strumenti a disposizione in campo medico e pedagogico.

Inserimento scolastico

Grazie alle attuali terapie che permettono di eliminare o ridurre i difetti cardiaci congeniti, l’aspettativa di vita delle persone Down è passata, in meno di un secolo, da 10 a 60 anni circa e la probabilità di sopravvivenza fino a 12 mesi è passata dal 69%, negli anni ’50 del secolo scorso, al 93% per i nati dopo il 1990. Check up medici regolari, programmi di fisioterapia e di counseling personalizzati sono fondamentali per mantenere un buon livello di qualità della vita. Oltre a questo si è rivelata particolarmente importante la partecipazione delle persone Down a qualche forma di attività sportiva, dal momento che l’esercizio fisico è in grado di stimolare la neurogenesi e la plasticità sinaptica, quindi di migliorare le funzioni cerebrali e le capacità cognitive. Inoltre l’azione riabilitativa dello sport consente anche sia il miglioramento delle capacità motorie (di solito le persone Down tendono ad avere una vita sedentaria, pur non avendo difficoltà motorie particolari) che l’adattamento e l’integrazione nella società. A livello scolastico, grazie al fatto che in Italia i portatori di handicap sono stati inseriti in classi normali, dopo l’abolizione, con la legge 517 del 1977, delle classi differenziali e delle scuole speciali, pur con tempi di apprendimento diversi e più lunghi rispetto a quelli dei compagni normodotati, i bambini Down mostrano step di apprendimento sostanzialmente uguali. Grazie ai programmi di integrazione scolastica, oggi in Italia molti giovani Down riescono a raggiungere un buon grado di autonomia e ci sono già stati alcuni ragazzi che sono riusciti a intraprendere studi universitari e a laurearsi.

Inserimento lavorativo

Se da un lato, in Italia è stato raggiunto un buon livello di inserimento scolastico per i bambini e ragazzi Down, attualmente solo il 13% di persone Down adulte è assunto con un regolare contratto di lavoro, il che dimostra che il pregiudizio nei loro confronti e il rischio di scivolare nell’oblio sociale è ancora molto elevato. A questo si aggiunge il disagio per le loro famiglie, lasciate pressoché sole nel loro accudimento. Da alcuni anni sono stati avviati programmi di inserimento per ragazzi Down nel mondo del lavoro, come il progetto Omo («On my own… at work», «Da solo… al lavoro», 2014-2017), finanziato dalla Commissione europea nell’ambito del programma Erasmus plus e seguito dall’«Associazione italiana persone down» (Aipd), che prevedeva l’inserimento in strutture alberghiere, aziende di ristorazione e agenzie formative resesi disponibili per stage e assunzioni di persone Down in Italia, Spagna e Portogallo. A seguito di questo programma è nata una rete di imprese alberghiere e di ristorazione, che s’impegnano ad accogliere tirocinanti e lavoratori con disabilità intellettiva, ottenendo il marchio «Valuable». Nel mondo della moda, alcune importanti maison del gruppo Lvmh si sono impegnate a sostenere progetti d’inserimento lavorativo in Italia per giovani Down e a promuovere il volontariato tra i propri dipendenti, che sono stati invitati a mettere a disposizione di questi ragazzi un po’ del loro tempo e la loro professionalità. Anche i grandi marchi della moda hanno offerto delle possibilità: nel 2015 la prima modella al mondo con sindrome di Down ha potuto calcare le passerelle della New York Fashion Week.

La scelta

Portare avanti una gravidanza Down certamente non è una scelta facile, ma questi ragazzi stanno dimostrando di essere capaci di fare la loro parte nella società, se seguiti adeguatamente. Perché dunque non farli nascere? Perché non accettarli? È però fondamentale che vengano attuati adeguati programmi di sostegno alle famiglie delle persone Down, che non devono essere lasciate sole nel loro difficile compito.

Rosanna Novara Topino
(sesta puntata – continua)

* Termini essenziali:

  • Cariotipo: insieme dei cromosomi cellulari, come appaiono alla mitosi.
  • Cromosoma: unità funzionale di Dna e nucleoproteine, che si compatta durante la divisione cellulare e viene trasmessa alle cellule figlie, veicolando così parte del patrimonio genetico.
  • Gene: unità ereditaria fondamentale, che occupa una posizione fissa su un cromosoma e porta l’informazione per il corrispondente prodotto proteico.
  • Meiosi: processo di divisione delle cellule germinali progenitrici, che porta a ovociti e spermatozoi.
  • Mitosi: processo di divisione delle cellule somatiche.
  • Aborto spontaneo: interruzione spontanea della gravidanza prima della 22a settimana, per cause genetiche e non come diabete gestazionale, ipertensione, malformazioni uterine o fetali.
  • Aborto volontario: interruzione volontaria di gravidanza. Può essere chirurgica o farmacologica.


Approfondimento

Trisomia?21

Esistono diverse forme di trisomia 21, a cui corrispondono gradi diversi di disabilità. Nel 95% dei casi si ha la trisomia 21 piena o in forma libera, cioè il cromosoma soprannumerario fluttua libero nel nucleo cellulare ed è presente in tutte le cellule dell’organismo. Nel 2-3% dei casi si ha la forma a mosaico, in cui non tutte le cellule presentano il cromosoma 21 in più. Gli individui con questo tipo di trisomia 21 tendono ad avere prestazioni cognitive, linguistiche e sociali migliori di quelli con trisomia piena. In meno di un caso su 40.000 c’è una traslocazione del cromosoma 21 soprannumerario su un altro cromosoma e questo fenomeno è in alcuni casi di tipo ereditario, cioè è stato trasmesso da un genitore asintomatico, per cui è necessaria una consulenza genetica che informi del rischio di avere ulteriori figli Down. Vi sono poi forme rare con un cromosoma 21 soprannumerario ad anello o con solo una parte di esso. Il cromosoma 21 è il più piccolo dei cromosomi umani e rappresenta solo l’1,5% dell’intero genoma cellulare. Finora sono stati identificati poco più di 400 geni di questo cromosoma, di cui 20-50 localizzati in una regione terminale del braccio lungo del cromosoma detta Down Syndrome Critical Region (Dscr). Tali geni, presenti in triplice copia nella sindrome, hanno effetto sull’intero genoma, poiché condizionano l’espressione di moltissimi altri geni, attivandoli o inibendoli, a seconda della costituzione genetica individuale, il che spiega la variabilità di grado della malattia e la diversità individuale delle manifestazioni patologiche.

R.N.T.

La?mente

Recentemente si è scoperto che il cromosoma 21 contiene 5 micro-Rna regolatori dell’espressione genica, la cui sovraespressione nella trisomia 21, a livello dei tessuti nervoso e cardiaco fetali, determina una ridotta espressività delle proteine codificate, che si traduce nelle anomalie cerebrali e cardiache tipiche della sindrome di Down. La facies tipica dei soggetti Down sarebbe dovuta ad anomalie dello sviluppo embrionale, secondarie a difetti di migrazione e proliferazione delle cellule della cresta neurale. Nei neonati Down sono spesso presenti disordini mieloproliferativi transitori e nei bambini c’è un’elevata incidenza di leucemia acuta linfoblastica e megacarioblastica. Sicuramente la trisomia 21 è la principale causa di ritardo mentale presente in tutti i pazienti, in gradazioni da moderato a severo. I soggetti Down presentano spesso un deficit nella produzione del linguaggio, mentre sono migliori l’espressione non verbale e lo sviluppo sociale. In età pediatrica sono spesso presenti deficit di attenzione, iperattività, disturbo oppositivo della condotta o comportamenti aggressivi. L’8-13,6% dei soggetti sviluppa epilessia, il 7-11% autismo, mentre in età adulta il 6,1% presenta depressione maggiore o un comportamento aggressivo. Nei soggetti Down sono state riscontrate dimensioni cerebrali e cerebellari significativamente ridotte, in particolare per quanto riguarda l’ippocampo, la corteccia cerebrale e la sostanza bianca, con una significativa riduzione del numero dei neuroni e delle loro sinapsi, che comporta deficit di apprendimento e di memoria.

R.N.T.




Convivere con la sclerosi multipla


Testo di Rosanna Novara Topino |


Malattia neurologica del giovane adulto, la sclerosi non è mortale ma potenzialmente invalidante. In Italia si contano 3.400 nuovi casi all’anno. Oggi la diagnosi precoce e la ricerca scientifica stanno dando risultati importanti.

La sclerosi multipla (Sm), detta anche sclerosi a placche, è una malattia in aumento soprattutto nella popolazione femminile. Si tratta di una patologia infiammatoria su base autornimmune del sistema nervoso centrale (Snc), caratterizzata dalla comparsa di lesioni rotondeggianti e ben delimitate (placche) in molteplici aree dell’encefalo e del midollo spinale. Tali lesioni possono essere rosee e mollicce oppure grigiastre e dure. Le loro dimensioni variano da pochi millimetri a diversi centimetri e sono caratterizzate dalla scomparsa progressiva della mielina presente nella sostanza bianca e dalla proliferazione delle cellule della neuroglia. Queste ultime sono cellule connettivali, che formano l’impalcatura di sostegno dei neuroni e provvedono al loro mantenimento. Nel Snc coesistono la sostanza bianca e quella grigia.

Sostanza bianca e grigia

La sostanza grigia è costituita dai corpi cellulari dei neuroni, dal primo tratto del loro assone (fibra nervosa lunga, per il trasporto degli impulsi nervosi in uscita dal neurone; insiemi di assoni formano i nervi) e dai dendriti (fibre nervose brevi e ramificate per gli impulsi in ingresso nel neurone). È localizzata nella corteccia cerebrale e nella parte centrale del midollo allungato e spinale.

Si è visto che la degenerazione di alcuni assoni comincia presto, all’inizio della malattia, comportando la morte del neurone corrispondente e conseguente deficit funzionale, ovvero alterazione delle prestazioni sensitivo-motorie e, a lungo termine, compromissione cognitiva e comportamentale. All’inizio della malattia, tuttavia, gli assoni degenerati non sono numerosi, per cui i deficit funzionali sono dovuti soprattutto alla flogosi (infiammazione). Quando quest’ultima si risolve, il paziente recupera completamente o in parte le sue funzioni.

Evoluzione della Sm

Come colpisce questa patologia? La Sm evolve da una fase acuta infiammatoria iniziale ad una fase cronica, quindi, una volta insorta, sarà presente per sempre nella vita del paziente.

Questa malattia è caratterizzata dalla disseminazione spaziale e temporale delle placche, cioè le aree di demielinizzazione della sostanza bianca compaiono in zone diverse del Snc e in tempi diversi. Il danno mielinico, che caratterizza la Sm è conseguente ad un’anomala attivazione del sistema immunitario sia cellulare che umorale indotta da fattori genetici e ambientali. Questi ultimi sono probabilmente rappresentati da virus come quello del morbillo (verso il quale sono stati trovati anticorpi nel liquor dei pazienti in quantità superiore rispetto ai controlli), ma finora nessun virus è stato correlato con certezza alla Sm. Sicuramente i fattori genetici hanno un peso importante nella predisposizione ad ammalarsi, come è dimostrato dalla concordanza di casi tra i gemelli monozigotici (20-30%), che scende al 4% tra i gemelli dizigotici. I geni coinvolti sembrano essere numerosi. Tra questi ci sono quelli del maggior complesso di istocompatibilità (DR2, DQW1), quelli che codificano per gli interferoni, per le catene leggere dei linfociti T, per il Tnf (Tumoral Necrosis Factor). Recentemente è stata identificata una mutazione genetica del tipo «nonsenso» (in presenza della quale, anziché esserci la codifica di un aminoacido, viene dato il segnale di stop alla sintesi proteica), direttamente collegata alla Sm, localizzata sul gene NR1H3; tale mutazione causa la perdita di funzione del prodotto genico, la proteina LXRA, che controlla l’espressione di diversi geni coinvolti nell’omeostasi dei lipidi (costituenti della mielina, oltre alle proteine), nei processi infiammatori e immunitari. È chiaro quindi che, perché si sviluppi la malattia, è necessaria una predisposizione genetica, su cui devono intervenire dei fattori esogeni (grafico di pagina 63). Gli studi condotti sulle migrazioni di popolazioni hanno evidenziato che c’è un fattore ambientale (forse un virus), che predispone alla Sm e che agisce prima della pubertà (14-15 anni). Un soggetto emigrato prima di questa età acquisisce la prevalenza del paese in cui si è recato, mentre se emigra dopo mantiene la prevalenza del paese d’origine. Tra i virus maggiormente sospettati come parti in causa per la Sm ci sono i Coronavirus, i Papovavirus, come già detto il virus del morbillo, gli Herpesvirus, il Simian V5 e i Retrovirus. Altri fattori di rischio esogeni sono la carenza di vitamina D, per la sua regolazione del sistema immunitario e l’esposizione al fumo di sigaretta.

Giovani e donne

Si stima che al mondo vi siano 2,5-3 milioni di malati di Sm. In Europa essi sarebbero circa 600.000 e in Italia 110.000. Nel nostro paese ci sono oltre 3.400 nuovi casi all’anno. Si prevede che in media una persona su 1.000 avrà la Sm nel prossimo futuro. Il rischio di ammalarsi è maggiore per le donne rispetto agli uomini (2:1). Si sospetta che questo divario sia dovuto a fattori neuroendocrini, che influenzano a più livelli il sistema immunitario. Quest’ultimo, attivato in modo anomalo, colpisce la mielina dell’organismo considerandola come non-self, ovvero estranea (autornimmunità). Il coinvolgimento dei fattori ormonali nella prevalenza della Sm nelle donne è indirettamente dimostrato dal fatto che essa è più frequente in giovani donne in età fertile e dagli effetti della gravidanza e del parto sulle ricadute (queste ultime diminuiscono durante la gravidanza, in particolare nel 2°-3° trimestre e aumentano nel puerperio). Rischiano di ammalarsi 30-50/1.000 persone, se hanno uno dei genitori ammalato di Sm, mentre se sono ammalati entrambi i genitori, il rischio sale a 120/1.000.

L’età di esordio di questa patologia è tra i 15-50 anni e colpisce prevalentemente le persone di 20-30 anni, mentre si rileva raramente sotto i 12 anni e sopra i 55. Per frequenza, la Sm è la seconda malattia neurologica del giovane adulto, dopo i traumi al Snc derivati dagli incidenti stradali e la prima di tipo infiammatorio cronico.

Tipologie di Sm

Nel 1869 il neurologo Jean Martin Charcot definì i sintomi clinici della malattia e i primi criteri diagnostici, raggruppati nella triade che da lui prende il nome: nistagmo, tremore intenzionale e parola scandita.

Nonostante nel tempo la Sm presenti un’evoluzione diversa da persona a persona, è possibile classificare le varie forme di decorso clinico in quattro gruppi principali: a ricadute e remissioni (SmRR), secondariamente progressiva (SmSP), primariamente progressiva (SmPP) e progressiva con ricadute.

La forma di Sm più diffusa all’esordio è la recidivante-remittente o SmRR (circa 85% tra le 4 forme principali), la quale presenta attacchi ben definiti (pousses), che si risolvono completamente o parzialmente dopo diverse ore o giorni, seguiti da periodi di benessere (remissioni) di durata variabile. Tra i sintomi più frequenti ci sono i problemi alla vista (diplopia), la spasticità o rigidità, le funzioni sfinteriche e viscerali alterate, la minzione imperiosa o urgenza urinaria. Tra un attacco e l’altro, la malattia può rimanere inattiva per mesi o anni.

Il passaggio alla forma secondariamente progressiva (SmSP) avviene dopo circa 10 anni. In questa seconda fase, la malattia cambia gradualmente dal processo infiammatorio tipico della SmRR alla progressione costante, caratterizzata dallo sviluppo di disabilità progressive, che non escludono la sovrapposizione di recidive.

Nella Sm primariamente progressiva (SmPP) non ci sono vere e proprie ricadute. I malati di questa forma di Sm (meno del 10%) presentano fino dall’esordio della malattia dei sintomi, che progrediscono in modo graduale, senza fasi di remissione. Le persone colpite da questa forma hanno più lesioni a livello del midollo spinale che dell’encefalo, tendono ad avere maggiori problemi di deambulazione e il rapporto maschi / femmine colpiti è circa 1:1.

La Sm progressiva con ricadute (SmPR) è una forma poco comune in cui, oltre ad un andamento progressivo fin dall’inizio, sono presenti anche episodi acuti di malattia, con scarso recupero. Passando dalla forma remittente-recidivante a quella secondariamente progressiva, può essere presente questa forma per qualche tempo.

A queste forme principali si aggiungono la Sm benigna, che, al contrario di tutte le altre forme, non peggiora col passare del tempo, esordisce con uno o due episodi acuti, che si risolvono senza lasciare disabilità o quasi e la Sm maligna di Marbourg o Sm fulminante acuta o tumefattiva, una rara forma con decorso tumultuoso ed esito letale nel giro di un anno o due circa. Ultimamente questa forma è risultata sensibile ad alcuni farmaci antitumorali ed al trapianto di cellule staminali.

Alcuni ricercatori ritengono che le forme benigne di Sm siano il 20% di quelle con diagnosi clinica.

Conseguenze della Sm

Tranne la forma maligna di Marbourg, la Sm non è una malattia che porta a morte il paziente, ma purtroppo in molti casi a grave invalidità.

Nonostante la ricerca faccia costantemente nuove scoperte, la causa primaria della malattia resta sconosciuta. Si sa che il sistema immunitario attacca la proteina basica della mielina, considerandola estranea all’organismo, grazie alle sue cellule, che superano la barriera emato-encefalica di difesa e si dirigono nel sistema nervoso centrale, provocando infiammazione e perdita della mielina.

Anche se c’è una predisposizione genetica, tuttavia la Sm non è una malattia ereditaria. È quindi infondato il timore di trasmetterla ai figli (al massimo viene trasmessa la predisposizione ad ammalarsi, che però necessita, come visto, anche di fattori ambientali per dare origine alla malattia). Questo significa che per le donne con Sm, che lo desiderano, non è impossibile intraprendere una gravidanza. È però necessario valutare attentamente la necessità di essere aiutate nell’accudimento dei figli, nel momento in cui dovessero presentarsi ricadute della malattia.

Tra i sintomi della Sm, oltre a quelli già citati precedentemente, ci sono anche i problemi di equilibrio e di coordinazione (compromissione delle funzioni cerebellari), le sensazioni alterate (formicolii, parestesie, dolore), senso di affaticamento, disturbi della sfera sessuale come l’impotenza, disturbi affettivi, ansia, depressione (dapprima psicogena reattiva e successivamente biologica da squilibrio dei sistemi serotoninergici).

Dopo circa 20-30 anni di malattia, compare un decadimento cognitivo nella maggior parte dei pazienti.

Le terapie attuali e future

Le terapie attualmente usate sono sintomatiche per limitare i danni delle ricadute e di tipo immunosoppressivo per allungare il più possibile i tempi di remissione della malattia e rallentarne la progressione. Già da alcuni anni però sono in corso ricerche, che prevedono l’uso di cellule staminali, nel tentativo di stimolare la produzione di nuova mielina, per ridurre il danno assonale.

Per i malati di Sm è fondamentale l’aiuto dei loro cari o comunque di persone che se ne prendano cura non solo per la disabilità a cui vanno incontro, ma per gli stati depressivi in cui possono trovarsi e che possono portare a tentativi di suicidio (il rischio di suicidio tra i malati di Sm è di 1:15, rispetto alla popolazione normale). La depressione può ridurre l’aderenza alla terapia, le performance cognitive e aumentare il senso di affaticamento, quindi è fondamentale un suo trattamento, che si è osservato essere associato a una riduzione della produzione di citochine pro-infiammatorie nei pazienti con Sm recidivante-remittente.

Rosanna Novara Topino
(quinta puntata – continua)


Approfondimenti

LE?PLACCHE

Le placche possono formarsi in ogni punto del Snc, ma sono più frequenti attorno ai ventricoli degli emisferi e del tronco cerebrale, nelle formazioni ottiche, nei peduncoli cerebellari superiori e medi e nel midollo spinale. Al microscopio ottico, le placche rosee si presentano con segni di infiammazione e sono localizzate prevalentemente in zona perivenulare, contengono linfociti T e plasmacellule mentre la mielina si presenta rigonfiata e incapace di assumere la tipica colorazione istologica di Niessel. Inoltre essa risulta frammentata e i suoi frammenti vengono fagocitati dai macrofagi. Le placche grigie sono croniche, in esse la mielina è andata persa e sostituita dalla deposizione di fibre prodotte dalle cellule connettivali, con conseguente cicatrizzazione o sclerosi, che porta allo stiramento e alla frammentazione degli assoni. Finché questi ultimi non sono lesionati, è possibile una riparazione perché la mielina può rigenerarsi. Quando però gli assoni si lesionano, diventano incapaci di trasmettere l’impulso nervoso. Quest’ultimo peraltro rallenta moltissimo già con la perdita del rivestimento di mielina.

R.N.T.

 LA?DIAGNOSI

Caratteristica della Sm è la sintesi nel liquor cefalorachidiano di IgG (immunoglobuline G, cioè anticorpi) per cui, per porre la diagnosi di Sm, oltre alla valutazione dei segni clinici, alla risonanza magnetica nucleare (Rnm), ai potenziali evocati, si fa ricorso anche a un prelievo di liquor per verificare la presenza di abnormi quantità di IgG endogene.

R.N.T.

Siti web:

 




Malaria: Zanzare e plasmodium, una coppia pericolosa


Prevenibile, curabile ma mai debellata. È la malaria, una patologia che riguarda il 40% della popolazione mondiale. Si calcola che i morti da essa provocati, pur in diminuzione, siano ancora quasi 500 mila all’anno, la maggior parte in Africa e per due terzi bambini. In questi ultimi mesi di malaria si è tornato a parlare perché ha ucciso anche in Italia. Considerato il rapido cambio climatico e la crescente mobilità delle persone, il pericolo malaria (e non solo) ci accompagnerà a lungo.

Malaria, il nemico che abbiamo sempre avuto vicino ma non abbiamo mai voluto conoscere veramente, perché non ci riguardava. Interessava solo il 40% della popolazione mondiale, qualche miliardo di persone: «gli altri», tutti abbastanza lontani da noi. Sì, vedevamo tutte queste persone sofferenti ma erano solo foto su riviste missionarie o parole nei racconti dei missionari. Ci davano un po’ fastidio e, quindi, erano da rimuovere dal nostro orizzonte. Ma eccola qui – addirittura nella nordica Trento (settembre 2017) -, la malaria prepotentemente sulle prime pagine dei giornali nostrani, il nemico da distruggere senza sentire il bisogno di capire e scacciando l’idea che ormai c’è e la terremo a bada, ma non la elimineremo più con facilità. Chi scrive è un missionario portatore sano del plasmodium della malaria con cui convive da 42 anni.

La malaria (anche) in Italia

L’origine della parola «mal aria» lascia facilmente capire da dove deriva: la credenza che questa malattia fosse causata dai miasmi delle paludi. Col tempo tutto è stato provato ed il ciclo della malaria col suo agente patogeno – il plasmodium –  è stato ben compreso. Le tonnellate di Ddt sparse dagli americani con il piano della fondazione Rockefeller (1925-1950, in particolare in Sardegna, ndr) hanno effettivamente debellato la malaria ma certo non ha sterminato tutte le zanzare Anopheles che possono portare nuovamente la malattia.

Già nell’anno 1970 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) aveva dichiarato l’Italia «libera da malaria» di origine autoctona. Ecco perché – oggi – ci sono così tanti sforzi nel provare che l’origine di questi casi è esterna all’Italia. Tenendo conto che il periodo di incubazione è da una a due settimane, si può risalire facilmente al luogo di infezione senza doversi arrampicare sui vetri alla ricerca di ragioni fantascientifiche. Se viene appurato che l’origine è autoctona, perderemo lo stato di Malaria free zone. Il metodo del «rasoio di Occam» ci può aiutare anche qui: la spiegazione più semplice è quella vera.

Cosa ci portano le zanzare (le Anopheles e le altre)

Ma che cosa è la malaria? Su qualunque motore di ricerca di internet si trovano valanghe di informazioni, anche contrastanti, ma la realtà è molto semplice. La colpevole è sempre lei, la zanzara femmina del genere Anopheles, di cui esistono almeno 82 specie nel mondo. Se infettata dal plasmodium può procurare la malaria i cui segni clinici sono molto diversi a seconda degli individui, ma a tutti causa febbri alte a intermittenza, sudorazione, vomito, diarrea, tosse etc. Intanto, altre zanzare ci portano altri parassiti: la zanzara tigre ci porta la chikungunya, un virus abbastanza debilitante (che molti missionari già conoscono per esperienza diretta); la culex ci regala la filaria; la aedes porta la febbre gialla.

Cosa succede quando una zanzara infetta ci punge? Intanto la zanzara ci punge per succhiare il nostro sangue così ricco di elementi essenziali utili al suo organismo che deve produrre uova per continuare la propria specie, e non per darci la malaria di cui soffre comunque anch’essa.

La prima fase dell’operazione avviene così e spiega perché non ci accorgiamo della sua puntura fin dopo che abbia fatto il suo lavoro ed è proprio in questa fase che ci passa il plasmodio. Ecco il contatto zanzara-uomo in 4 fasi:

Fase 1: la zanzara non ci vede ma segue la traccia di anidride carbonica che ci lasciamo dietro.

Fase 2: la zanzara si posa sulla pelle e attraverso due palpi laterali allo stiletto sente la presenza dei vasi sanguigni.

Fase 3: la zanzara rigurgita un liquido anestetico che le permette di introdurre il suo stilo senza che sentiamo dolore fino ad operazione fatta.

Fase 4: lo stilo è in posizione e l’operazione pompaggio del sangue comincia fino a sazietà.

Una profilassi alla puntura sta nel- l’ingoiare vitamine del gruppo B6 che impartirebbe al corpo un odore che dispiace alla zanzara. Non si sa se funzioni o meno ma certamente questa idea non spiace all’industria farmaceutica.

Le fasi del plasmodio sono tre: fase schizogonica, gametogonica e sporogonica. A ognuna di queste fasi corrispondono delle caratteristiche che aiutano gli specialisti a diagnosticare quale sia il problema.

Il plasmodium in azione

Il plasmodium iniettato dalla zanzara entra nei globuli rossi e comincia a crescere e dividersi aumentando in numero e volume finché non causa la rottura della membrana del globulo rosso infestando il sangue, lo stesso sangue che sarà risucchiato da altre zanzare e verrà rimesso nel sangue di qualche altra persona (grafico a pag. 64).

Questa perdita di globuli rossi, portatori dell’ossigeno indispensabile a ogni cellula, causa una sua mancanza e quindi limita la produzione di energia, determinando un calo delle prestazioni fisiche. La presenza di globuli rossi deformati per la presenza del plasmodio (foto), causa anche un blocco della circolazione capillare, a volte nel cervello, causando il coma cerebrale. Inoltre la rottura della membrana dei globuli rossi ed il riversamento del plasmodio causa una reazione del corpo che produce febbre alta e altri sintomi. In una persona sana e senza problemi, qualche iniezione di norma non provocherà una malaria conclamata, ma molte infezioni successive su un soggetto debole, bambini o malati, può portare a malarie serie.

Le specie di plasmodium

Anche nel genere plasmodium vi sono diverse specie, se così si può dire, che vengono diagnosticate in laboratorio con metodologie differenti. Il falciparum è la specie più pericolosa e procura la malaria maligna o terzana maligna, seguito dalla specie vivax della terzana benigna, che è più clemente. Altre due specie sono la malariae e l’ovale.

Se non bastasse, a volte vi sono infezioni miste con i vari tipi. Le diverse specie sono poi individuate con strumenti di vario genere: alcuni noti da molto tempo come la colorazione a base di eosina e metilene, altri con le tecniche più evolute basate sulla immunologia e biologia molecolare.

In pratica, la diagnosi con coloranti viene fatta leggendo uno striscio di sangue del paziente a cui sono aggiunti i reagenti sotto un microscopio con illuminazione naturale o attinica.

Per le diagnosi rapide si usano strisce immunologiche di riconoscimento rapido, utilizzabili sul campo e senza microscopio, usabili da chiunque, anche dal paziente stesso.

Ultimamente si procede alla tipizzazione del ceppo di plasmodio con l’uso del Pcr (Polymerase chain reaction) che però richiede tempo, personale specializzato e ingenti risorse economiche.

Negli screening di massa si vogliono esaminare molti esemplari in poco tempo ed allora l’uso dell’acridina arancio con il microscopio a luce ultravioletta rende l’esame molto semplice anche se non molto accurato. L’acridina arancio è un colorante che si fissa agli acidi nucleici facendoli brillare di arancio sotto il microscopio come se si guardasse a un cielo stellato. La presenza di acidi nucleici nell’emoglobina è la spia che fa capire che qualcosa non funziona dal momento che l’emoglobina matura e funzionante è priva di nucleo e quindi di acidi nucleici. Se c’è del Dna o Rna appartiene a qualcun altro, ad esempio al plasmodio.

Altri strumenti di diagnosi

Nella diagnostica si è aggiunta un’altra tipologia di strumenti, gli immunoreagenti (Malaria Antigen Detection), una paletta intrisa di reagenti i quali, se c’è o c’è stata recentemente malaria, cambiano colore dopo una reazione col plasma del paziente. Il beneficio sta nel vedere subito il risultato senza bisogno di un microscopio ma il lato negativo sta nel fatto che anche una malaria già superata viene interpretata come malaria in atto.

Altro beneficio nei paesi malarici è che le strisce sono liberamente reperibili nelle farmacie o parafarmacie a basso prezzo e si possono usare da chi non ha alcuna preparazione, basta una goccia di sangue periferico posta in un pozzetto e – voilà – una riga rossa appare in caso di risultato positivo di malaria, o non cambia niente se non c’è malaria. Esame indiretto perché non cerca il parassita ma la sua reazione biochimica nel plasma, ma è parzialmente specie-specifico distinguendo tra falciparum e le altre.

Ultimo sistema che discrimina le varie forme specifiche, è il Pcr o «Reazione a catena della polimerase». Dopo avere ben frantumato in laboratorio una porzione di sangue del paziente, si aggiunge un «primer» con la sequenza del codice genetico proprio dell’organismo che si vuole rilevare, se c’è, allora le porzioni vengono moltiplicate all’inverosimile fino a fare diventare rilevabile da macchine la presenza del Dna del plasmodio. Procedura molto sofisticata e sicura ma non veloce ed ancora molto dispendiosa.

Riscaldamento globale e mobilità umana

In ogni caso, meglio evitare la malaria che curarla. Come fare? Mentre ai tropici politiche sanitarie stanno abbassando il numero di infezioni, nel nostro mondo appaiono le prime forme autoctone. Come è capitato? Ancora non si sa bene, ma tante sono le cause di questo fenomeno – ad esempio, il riscaldamento globale e la mobilità delle persone -, che ci metteranno davanti al fatto compiuto e cioè che abbiamo in casa la malaria, la chikungunya (tre casi ad Anzio a settembre, ndr), la filaria e magari la febbre gialla etc. e dovremo prendercene cura.

Nei paesi tropicali si sono avuti risultati immediati e incontestabili attraverso l’uso di zanzariere poste sui letti. Con meno punture ci sono meno infezioni della zanzara e quindi meno zanzare infette. L’eliminazione di pozze di acqua stagnante è di aiuto. La Anopheles, a differenza della Culex, depone solo in pozze di acqua pulita per cui è tassativo eliminare i terreni di deposizione delle loro uova. La lotta biologica è promettente. Questi insetti sono divorati da diversi volatili e chirotteri per cui eliminando uccelli insettivori, come le rondini e i pipistrelli, aumenterà la popolazione delle zanzare.

Dal chinino ad oggi: i farmaci in commercio

La cura della malaria ha avuto vicende alterne con un inizio in cui si usava il chinino, molto efficace ma molto tossico per gli effetti collaterali sulla vista e l’udito etc. I nostri vecchi ancora ricordano le insegne sulle tabaccherie ove si leggeva «Sale e Tabacchi e Chinino di Stato». Quelle pillole rosa che anche i nostri vecchi missionari si portavano dietro in caso di attacchi di malaria e quando questo finiva, c’era sempre un fusto di acqua in cui immergersi per abbassare la temperatura corporea. Favola? No. Questo me lo ha certificato il compianto padre Giovanni Borra, uno dei nostri primi missionari in Tanganyika (l’odierno Tanzania).

Dopo il chinino è arrivata la Clorochina che prendevamo in quantità industriale e che ci faceva diventare temporaneamente strabici o peggio. La clorochina per lo meno era un cloridrato, cioè solubile e fosfato, quindi passava la barriera intestinale per andare là dove ce ne era bisogno.

Ancora non avevamo tenuto conto dell’evoluzione del plasmodio che divenne immune alla clorochina. Vennero quindi usate le pirimetamine, Metakelfin e famiglia, a cui il plasmodio era suscettibile. Ma anche qui la festa non è durata molto perché la pirimetamina è tossica sul fegato dove per forza doveva agire per debellare anche le spore del plasmodio. Che fare?

Ora le Asl propongono il Malarone, un estratto purificato della pianta Artemisia annua coltivata anche nelle nostre missioni. Abbastanza efficace ma costosa e deve essere assunta ogni giorno senza peraltro continuare dopo i trenta giorni, data la lieve tossicità. In sostanza, una medicina per turisti. Altra molecola proposta è la Meflochina o Lariam. Usata in ragione di una pillola settimanale durante la permanenza in zone malariche. La si trova a costi mantenuti ed a quel dosaggio non dà molti effetti collaterali, ma in dosi terapeutiche … meglio la malaria, parola mia.

Nonostante tutto, le Asl si premurano di dire: «Non esiste un farmaco antimalarico che possa dare la certezza assoluta di non venire contagiati, ma un’assunzione regolare permette nella peggiore delle ipotesi di prevenire almeno gravi complicazioni». Alla luce di questa considerazione, oltre a usare i farmaci, occorre quindi prendere misure precauzionali personali (ad esempio: spray repellenti, maniche lunghe, pantaloni lunghi, dormire in un luogo protetto dagli insetti oppure usare una zanzariera trattata con insetticida).

No isterismi, sì prevenzione

Nella nostra esperienza abbiamo visto malarie contratte da ospiti e turisti che hanno seguito alla lettera le norme di prevenzione, ma al loro ritorno in patria hanno manifestato la malaria. La prima prevenzione è essere attenti senza giungere all’isterismo su cui le compagnie farmaceutiche fanno molto affidamento.

Altro consiglio ai nostri governanti: perché non possiamo fornire a tutti i centri di salute in Italia l’umile striscia per la ricerca veloce della malaria? Un piccolo passo non eccessivamente costoso che, oltre a portarci avanti sulla strada della prevenzione, ci darebbe anche un certo senso di sicurezza in più.

Spero che queste note, frutto dell’esperienza di 40 anni di continua permanenza in Africa, di cui 13 come direttore di una scuola di diagnostica e come insegnante di biologia molecolare, possano aiutare a dipanare questa matassa così confusa.

Se può essere di consolazione, è esperienza comune che, dopo 5 anni di permanenza e contatto con la malaria, si diventa quasi immuni e le ricadute malariche si manifestano come una fastidiosa influenza con caduta di tono e stanchezza da curarsi con il riposo. I fatti di queste settimane dimostrano quanto la mala informazione o la disinformazione siano pericolosi.

Angelo Dutto




Sclerosi laterale amiotrofica (Sla), dai neuroni ai muscoli


La Sclerosi laterale amiotrofica (Sla) è una malattia degenerativa tra le peggiori. In Italia si stimano 1.000 nuovi casi all’anno. Le cause rimangono sconosciute. Non esistono cure, ma solo la possibilità di rallentare il decorso. E le famiglie sono spesso lasciate sole.

Il 29 giugno di ogni anno è il Global day, la giornata dedicata in tutto il mondo ad una terribile malattia, la sclerosi laterale amiotrofica o Sla, capostipite di un gruppo di patologie neurodegenerative dette malattie del motoneurone o Mnd (motor neuron disease). Queste patologie colpiscono selettivamente i motoneuroni, cioè le cellule nervose che controllano l’attività della muscolatura striata o volontaria, la quale presiede alla fonazione, alla deglutizione, alla respirazione e a tutti i movimenti del corpo, quindi anche alla deambulazione, funzioni che vengono impedite dalla atrofia muscolare progressiva. Queste patologie sono progressive, gravemente invalidanti e dall’esito fatale per compromissione soprattutto della respirazione. La più grave del gruppo è la Sla, una malattia che colpisce il primo e il secondo motoneurone che sono localizzati a livello dei centri motori della corteccia cerebrale (il primo) e a livello del midollo spinale (il secondo). L’impulso nervoso che va a contrarre un muscolo, parte dal primo verso il secondo, e da questo va alla fibra muscolare.

Cos’è la Sla

La Sla, detta anche Morbo di Lou Gehrig, dal nome del famoso giocatore americano di baseball, che ne fu vittima, o anche malattia di Charcot, dal nome del neurologo francese che la descrisse nel 1860, è una patologia che colpisce solitamente dopo i 50 anni e che nel 5-10% dei casi si presenta in forma familiare mentre nel rimanente numero dei casi è sporadica. L’incidenza della Sla, cioè il numero di nuovi casi per anno, è di 1,5-2,4 su 100.000 persone con 3 nuove diagnosi al giorno e la sua prevalenza, cioè il numero di pazienti con Sla su 100.000 persone per anno, è di 4-8 casi. Purtroppo in Italia non esiste ancora un registro di questa patologia, tuttavia si stima che i casi di Sla siano attualmente almeno 6.000, con circa 1.000 nuovi casi all’anno. Attualmente al mondo ci sono circa 200.000 malati di Sla, ma secondo uno studio italo-americano condotto dal prof. Adriano Chiò del Centro Sla delle Molinette di Torino e dal dr. Bryan Traynor del National Institute of Health di Bethesda e pubblicato su Nature Communication, nel 2040 si arriverà a circa 370.000 casi. L’aumento di questi non sarà lineare in tutti i continenti, essendo le cifre dipendenti dall’invecchiamento della popolazione e si stima che esso vada da circa il 20% in Europa a oltre il 50% in Cina e al 100% in Africa, con una media mondiale del 32%. Per motivi tuttora ignoti sembrano essere più colpite le donne degli uomini.

L’esordio e il decorso della malattia sono variabili da persona a persona e dipendono dalla forma di Sla da cui si è colpiti. Generalmente i primi sintomi sono brevi contrazioni muscolari detti fascicolazioni, crampi (soprattutto notturni) o rigidità muscolare, debolezza muscolare, che influenza la motilità degli arti e voce non comprensibile. Questo tipo di esordio, detto spinale, rappresenta circa il 75% dei casi, mentre il rimanente 25% presenta l’esordio bulbare, caratterizzato dalla difficoltà di parola fino alla perdita della capacità di comunicare verbalmente e dalla disfagia, cioè difficoltà di deglutizione. I due tipi di esordio dipendono da quale motoneurone è colpito per primo: se è il primo, a livello di corteccia cerebrale, abbiamo l’esordio bulbare, se è il secondo, a livello di midollo spinale, abbiamo l’esordio spinale. Fino a qualche tempo fa si pensava che i malati, sebbene colpiti da paralisi muscolare progressiva, mantenessero sempre intatte le proprie capacità cognitive. Purtroppo recenti studi condotti con tecniche di imaging hanno rivelato che questo non è sempre vero e in qualche caso la Sla aggredisce anche il lobo fronto-temporale, portando così a demenza. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, restano perfettamente integre le funzioni sensoriali, cognitive, sfinteriali, sessuali e il muscolo cardiaco.

Come si scopre

La diagnosi di Sla viene posta grazie a successivi esami neurologici, esami del sangue, un approfondito studio neurofisiologico mediante elettromiografia, elettroneurografia ecc., nonché risonanza magnetica nucleare dell’encefalo e del midollo spinale. Negli ultimi anni sono stati messi a punto dei marcatori biologici per la diagnosi di Sla, i quali hanno dimostrato un grado di accuratezza di circa il 90%. Si tratta in particolare di tre proteine, che si trovano in concentrazioni sotto la media nel liquor cefalorachidiano dei malati di Sla.

Le cause

Le cause di questa patologia restano al momento sconosciute. Le molteplici ricerche in questo campo hanno portato a ritenere che la Sla sia una malattia con cause multifattoriali, la cui insorgenza cioè sia determinata da una concomitanza di cause genetiche e ambientali. In particolare sono stati individuati una ventina di geni, ciascuno dei quali, se mutato, avrebbe un carattere predisponente per la malattia. Tra questi c’è il gene Sod1, che codifica un enzima che ha il ruolo di ripulire le cellule da un particolare radicale libero. Quando questo enzima non funziona, si verifica un accumulo tossico del radicale libero, che alla lunga uccide le cellule, in particolare i neuroni. Per quanto riguarda le cause ambientali, è risultata statisticamente significativa l’associazione tra l’esposizione a campi magnetici a frequenza estremamente bassa e la Sla per gli uomini, che lavorano in loro presenza. È stata inoltre osservata un’associazione positiva, sebbene non statisticamente significativa, tra la malattia e l’esposizione a solventi e a metalli pesanti. Si ipotizza che possano avere un ruolo nell’insorgenza della Sla anche gli shock elettrici, i fitofarmaci, il fumo di sigaretta, i traumi e l’attività fisica-sportiva intensiva. Quest’ultima ipotesi è stata avanzata dopo avere osservato che la malattia sembra essere particolarmente presente tra gli sportivi, tra cui diversi calciatori come Stefano Borgonovo, Lauro Minghelli, Adriano Lombardi, Albano Canazza, Piergiorgio Corno e Gianluca Signorini, tutti deceduti di Sla. Essa prende infatti uno dei suoi nomi da Lou Gehrig, giocatore di baseball deceduto a causa della Sla a 38 anni nel 1941.

Il decorso

Per quanto riguarda l’evoluzione della Sla, il decorso medio di questa malattia, senza ventilazione invasiva, è di 3-5 anni, il 50% dei pazienti muore entro 18 mesi dalla diagnosi, il 20% supera i 5 anni e il 10% i 10 anni. Ci sono rarissimi casi di una forma di Sla meno aggressiva, in cui la malattia resta stabile per più di 30 anni. Questo potrebbe essere il caso del famosissimo matematico, fisico, astrofisico britannico e candidato al premio Nobel (per la sua teoria sui buchi neri) Stephen Hawking, al quale la diagnosi di Sla venne posta nel 1963, anche se la progressione particolarmente lenta della sua malattia fa propendere alcuni studiosi per la diagnosi di atrofia muscolare progressiva, altra malattia del motoneurone (colpisce solo il 2°) a decorso particolarmente lento e che permette una sopravvivenza decisamente maggiore.

Le cure

Attualmente non esiste una cura efficace per la Sla. L’unico farmaco approvato dalla Fda (Federal drugs administration statunitense) in grado di rallentarne il decorso per qualche mese è il riluzolo, che in Italia viene somministrato solo a livello ospedaliero.

La Sla è una patologia che colpisce gravemente la persona, ma coinvolge anche tutta la sua famiglia, per cui è necessario un approccio multidisciplinare al paziente e un supporto informativo per lui e per i suoi familiari, per renderli edotti soprattutto sulle questioni di natura respiratoria, come l’arresto respiratorio improvviso o altre problematiche respiratorie acute che potrebbero comportare un intervento urgente con necessità d’intubazione e il passaggio alla tracheostomia, come spiega il Professor Mario Melazzini, medico e malato di Sla, nonché presidente di Aisla (Associazione italiana Sclerosi laterale amiotrofica) e autore di un’autobiografia dal titolo «Lo sguardo e la speranza. La vita è bella non solo nei film» (Ed. San Paolo, 2015).

Occorre prendersi cura

Tra i principali problemi, che richiedono un monitoraggio attento del paziente con Sla ci sono, come visto sopra, quelli respiratori, quelli di deglutizione e la scialorrea. Si è visto che la sopravvivenza dei pazienti può essere migliorata da un trattamento precoce dell’insufficienza respiratoria (dovuta a progressiva atrofia dei muscoli respiratori) mediante ventilazione non invasiva con maschera facciale.

La disfagia, che può insorgere nel corso della malattia, può portare a una scarsa alimentazione con conseguente deperimento del paziente, per cui diventa importante il parere di un dietologo, che eventualmente consigli l’uso di addensanti per i liquidi, qualora la disfagia ne impedisca l’assunzione e l’adattamento della consistenza degli alimenti per soddisfare le esigenze del paziente. Se quest’ultimo non è più in grado di alimentarsi e idratarsi a sufficienza, diventa necessario l’intervento del gastroenterologo per il ricorso alla gastrotomia percutanea endoscopica per via enterale (il paziente viene alimentato attraverso un tubicino collegato allo stomaco).

La scialorrea è l’iperproduzione di saliva, che può verificarsi in questi pazienti e che può diventare una ulteriore complicanza. In questi casi si effettua un trattamento con anticolinergici o, nei casi resistenti, con tossina botulinica iniettata nelle ghiandole parotidi o sottomandibolari.

Oltre ai problemi respiratori e di deglutizione, il paziente con Sla può essere afflitto da problemi di comunicazione, di immobilità, di spasticità e da quelli psicologici. È evidente quindi che la sua presa in carico da parte sia dei servizi di neurologia, che delle istituzioni (che dovrebbero garantire anche l’assistenza domiciliare) rappresenta per il malato un bisogno essenziale e purtroppo attualmente non sono molte, in Italia, le strutture o i centri in grado di farsi pienamente carico dei pazienti con Sla.

Una malattia di famiglia

Per i pazienti di Sla (e di molte altre gravissime patologie, cancro in primis) e per i loro familiari è inoltre fondamentale il supporto psicologico, poiché una diagnosi come questa cambia improvvisamente la qualità della vita dell’intero nucleo familiare che all’improvviso si trova catapultato nel mondo della malattia e della disabilità. Quando la malattia irrompe nella vita delle persone, infatti, cambiano improvvisamente non solo le abitudini, ma spesso le relazioni con il mondo circostante, a partire dal mondo del lavoro, e con le varie dimensioni che fanno parte della vita quotidiana, come quella dello sport, degli hobby e così via. All’improvviso ci si trova immersi in un mondo nuovo fatto di medici, tecnici, infermieri, dove spesso è difficile individuare i raccordi tra le diverse figure professionali, quindi una figura di supporto potrebbe essere d’aiuto anche in tal senso. I pazienti e le loro famiglie inoltre dovrebbero essere sempre informati sulle caratteristiche della malattia, sulle attuali cure e sulla loro possibilità di scegliere il percorso terapeutico che preferiscono, soprattutto quando si tratta di decidere se ricorrere o no alla tracheostomia, che comporta un successivo percorso adattativo della capacità di comunicazione del paziente.

Purtroppo le malattie degenerative come la Sla hanno un forte impatto sulle famiglie sia a livello affettivo che relazionale ed economico. Qualcuno definisce la Sla una «malattia per ricchi». Sarebbe auspicabile una politica sanitaria in grado di far sì che tutte le famiglie dei malati di Sla o di altre patologie gravemente invalidanti siano supportate sia culturalmente che economicamente (non si deve dimenticare che spesso i familiari che assistono un malato grave in casa devono rinunciare alla loro attività lavorativa e nel contempo affrontare ingenti spese per i presidi medici necessari), in modo da limitare al massimo le ospedalizzazioni dei malati e da migliorare così la qualità della loro vita.

Rosanna Novara Topino
(quarta puntata – continua)




Le cause dell’autismo


Perché le sindromi autistiche sono in aumento? Da anni è stata dimostrata la responsabilità dell’inquinamento ambientale sulle modificazioni genetiche. Mentre non esiste alcuna correlazione tra autismo e vaccini.

Dopo aver visto (MC di marzo) le principali caratteristiche della patologia autistica, in questo articolo cercheremo di fare il punto della situazione per quanto concerne i risultati della ricerca scientifica sulle cause di questa malattia.

Inizialmente – lo abbiamo già ricordato – si pensava che l’autismo dei bambini fosse una conseguenza di comportamenti e stili educativi cattivi da parte dei genitori. Questo approccio alla malattia era esclusivamente di tipo psicologico. Si è poi capito che, in realtà, si tratta di un disturbo dello sviluppo biologicamente determinato. In un primo momento se ne sono ricercate le cause solo nell’inquinamento ambientale, senza considerare i fattori genetici, ma una ricerca pubblicata su Nature nel 2014 ha chiarito che nelle sindromi dello spettro autistico (Autistic Spectrum Disorders, Asd) sono coinvolti almeno un centinaio di geni con mutazioni spontanee, non trasmesse dai genitori. In realtà modificazioni genetiche e cause ambientali sono strettamente correlate. Del resto non si potrebbe pensare solo a una causa genetica perché i geni evolvono troppo lentamente per essere considerati gli unici responsabili del drastico aumento dell’autismo nel giro di un paio di generazioni. Se invece ragioniamo in termini di epigenetica (cioè dello studio delle modifiche che variano l’espressione genica pur non alterando la sequenza del Dna), allora possiamo capire la relazione tra l’inquinamento ambientale e l’insorgenza di questa sindrome. Secondo Ernesto Burgio, medico pediatra, ricercatore dell’European Cancer and Environment Research Institute e coordinatore del comitato scientifico Isde Italia (International Society of Doctors for Environment), «i geni hanno bisogno di qualcosa per sapere come lavorare» e «ciò che avviene nei nove mesi di gestazione può essere più importante di quanto avverrà nel corso della vita». Questi concetti sono stati chiariti da Patrizia Gentilini, medico oncologo ed ematologo nonché medico dell’ambiente (Isde), la quale afferma che «il genoma è qualcosa che continuamente si modella e si adatta a seconda dei segnali fisici, chimici e biologici con cui entra in contatto. L’epigenetica ci ha svelato che è l’ambiente che modella ciò che siamo, nel bene e nel male, nella salute e nella malattia. Questo vale sia per lo sviluppo del nostro cervello che per l’insorgenza dei tumori».

Il cervello vulnerabile

Si sa che il cervello in via di sviluppo, specialmente durante la vita intrauterina, è un organo delicatissimo ed estremamente sensibile alle sostanze tossiche ed inoltre è l’unico organo in cui è presente tessuto grasso. È evidente che per sostanze tossiche lipofile – come, ad esempio, pesticidi e diossine – il cervello rappresenta l’organo bersaglio ideale. L’inquinamento atmosferico è dato da svariati elementi con azione neurotossica, capaci di provocare stress ossidativo e disfunzioni mitocondriali nelle cellule. Nel 2006 fu pubblicato su Lancet l’articolo Developmental neurotoxicity of industrial chemicals di Grandjean P. e Landrigan P.J., contenente un primo elenco di 202 sostanze chimiche capaci di danneggiare il cervello in via di sviluppo tra pesticidi, solventi, metalli pesanti, diossine e altro. Successivamente oltre 1.000 sostanze hanno mostrato neurotossicità in esperimenti di laboratorio su animali. Secondo gli autori, già allora si poteva affermare che un bambino su sei avrebbe presentato danni documentabili al sistema nervoso e problemi funzionali e comportamentali tra cui deficit intellettivo, sindrome di iperattività, autismo, deficit dell’attenzione, dislessia, discalculia. Secondo Grandjean «i cervelli dei nostri bambini sono la nostra più importante risorsa economica e noi non abbiamo capito quanto essi siano vulnerabili, noi dobbiamo fare della protezione dei giovani cervelli il più grande obiettivo di salute pubblica; c’è una sola occasione per sviluppare un cervello». Numerose ricerche hanno confermato come l’esposizione a pesticidi organofosfati durante la vita fetale si associ ad esiti negativi nella sfera cognitiva, comportamentale, sensoriale, motoria e sul quoziente intellettivo. Alcuni studi inoltre hanno evidenziato un maggiore rischio di autismo per esposizione a particolato Pm2.5 proveniente dai motori diesel o per chi vive in prossimità di autostrade. In un recente studio caso-controllo del 2015 condotto sulla coorte (insieme di individi aventi sperimentato lo stesso evento, ndr) delle infermiere americane (116.430 di età 25-43 anni) residenti in 50 stati è stata indagata l’incidenza di figli con diagnosi di disordini dello spettro autistico nati fra il 1990 e il 2002. Sono stati identificati 245 bambini con Asd e 1522 controlli sani. Si è messo in relazione l’indirizzo materno durante la gravidanza con i livelli di Pm 2.5 registrati mensilmente e si è evidenziato un rischio molto aumentato e statisticamente significativo tra le mamme esposte ad inquinamento da polveri sottili durante la gravidanza, in particolare nel terzo trimestre. Proprio nell’ultimo trimestre della gravidanza inizia la sinaptogenesi, cioè la formazione delle sinapsi ovvero le giunzioni che mettono in comunicazione tra loro le cellule nervose. Questo è il processo che sembra risultare difettoso nei disordini dello spettro autistico. Gli autori dello studio sono giunti alla conclusione che «l’inquinamento dell’aria è un fattore di rischio dell’autismo e il miglioramento della qualità dell’aria potrebbe contribuire a ridurre l’incidenza dell’Asd e ridurre in modo sostanziale i costi economici per le famiglie e la società». In effetti i costi derivati dall’azione dell’inquinamento sul neurosviluppo sono enormi. Si calcola che negli Usa i costi per danni neurologici da piombo nei bambini ammonterebbero a circa 43 miliardi di dollari e per quelli da mercurio a 8,7 miliardi.

L’autismo e i metalli

Negli ultimi anni sono stati introdotti nell’ambiente diversi metalli di origine antropica con un aggravamento dell’inquinamento preesistente, come nel caso dell’incenerimento dei rifiuti. In questo caso i metalli maggiormente pericolosi rilasciati in atmosfera sono: cadmio, cobalto, cromo, arsenico, mercurio, manganese, rame, tallio, nichel, piombo e alluminio. In particolare, l’arsenico, un semimetallo a cui bisogna prestare particolare attenzione per la sua tossicità e cancerogenicità, è stato spesso trovato nei capelli dei bambini con Asd. Allo stato puro l’arsenico non pare essere tossico, ma lo sono tutti i suoi derivati, che rientrano nella composizione di pesticidi, di erbicidi e d’insetticidi. I metalli pesanti e i loro composti risultano tossici per le loro proprietà chimico-fisiche. Essi hanno proprietà lipofile, cioè si accumulano nel tessuto grasso. Sono importanti la loro concentrazione nei tessuti e i tempi di esposizione. La situazione più pericolosa è quella della prolungata esposizione a dosi minime. A livello tissutale, i metalli pesanti provocano stress ossidativi, inefficienza dei sistemi di detossificazione, blocco dei meccanismi di riparazione del Dna e variazione (modulazione) epigenetica dell’espressione genomica. Tali metalli si presentano come cationi e possono perciò interagire con le proteine e formare «addotti» (frammenti in genere cancerogeni) con il Dna. Le interazioni con le proteine sembrano essere le più importanti da un punto di vista patogenetico. Sono infatti state individuate diverse proteine bersaglio, tra cui quelle implicate nella riparazione del Dna. Lo stress ossidativo consiste nella formazione di radicali liberi capaci di danneggiare lipidi, proteine e acidi nucleici, per cui vengono danneggiate strutture cellulari fondamentali come la membrana cellulare. Secondo Maurizio Proietti, nei bimbi autistici sono stati spesso trovati metalli pesanti e squilibri di membrana mediante l’analisi minerale tessutale e il fat profile (analisi dei grassi). Ciò che si sa è che i metalli pesanti possono penetrare in tutti i tessuti, nelle cellule e negli organuli cellulari, compreso il nucleo, tanto nell’adulto quanto nel feto, alterando l’assetto epigenetico e l’espressione genica durante le diverse fasi dello sviluppo, oltre a interferire con i sistemi enzimatici. Ciò che non conosciamo sono i loro meccanismi d’interferenza sulla programmazione fetale, soprattutto nei tessuti ed organi deputati alla regolazione neuro-endocrina e metabolica.

Già nel novembre 2006, la Harvard Medical School lanciò un appello per informare l’opinione pubblica con lo studio «Una pandemia silenziosa. Sostanze chimiche industriali stanno danneggiando lo sviluppo del cervello dei bambini in tutto il mondo». L’avvelenamento dei bambini sta diventando sistemico per la sempre maggiore presenza nell’ambiente non solo di metalli pesanti, ma anche di altre pericolosissime sostanze di origine antropica come pesticidi, diserbanti, insetticidi, Pcbs, diossine e altri, che vengono frequentemente ritrovati nella placenta, nel sangue del cordone ombelicale e nel latte materno. Nei capelli e nelle unghie dei bambini autistici si trovano spesso elevati livelli, oltre che di arsenico, anche di mercurio, piombo e alluminio, mentre sono bassi quelli di selenio, di zinco e di rame.

L’autismo e i vaccini: nessuna correlazione

Va detto che l’alluminio è comunemente usato come adiuvante nella preparazione dei vaccini da più di 70 anni. La sua funzione nel vaccino è indispensabile in quanto facilita la risposta immunitaria all’antigene presente nel vaccino. L’attribuzione ai vaccini di una responsabilità nell’insorgenza dell’autismo è tuttavia priva di fondamento perché, come abbiamo visto, probabilmente la malattia si origina ben prima della prima vaccinazione, cioè durante lo sviluppo fetale. Molte vaccinazioni sono state e restano fondamentali nella prevenzione di numerose e gravissime malattie. Purtroppo il nesso tra vaccini e autismo è stato sostenuto per anni, a partire dal 1998, anno in cui il medico britannico Andrew Wakefield, che venne in seguito radiato dall’Ordine dei medici, pubblicò su Lancet un suo articolo in proposito. Quella pubblicazione (successivamente ritirata) riuscì a influenzare negativamente il comportamento di molti genitori, i quali non fecero più vaccinare i figli. Finché Brian Deer del Sunday Times riuscì a smascherare la frode, perpetrata da Wakefield al fine di mettere in piedi un mercato di test diagnostici per l’autismo. Dopo sei anni di ricerche sulle cartelle cliniche usate dal medico per il suo studio, nel 2011 Deer pubblicò una contro-analisi scientifica sul British Medical Journal. La veridicità delle conclusioni di Deer è supportata da diverse ricerche scientifiche, tra cui quella pubblicata su Jama da Anjali Jain del Lewin Group, una società di ricerca e consulenza indipendente in campo sanitario. In questo studio condotto su quasi 96.000 bambini non è stata trovata alcuna correlazione tra il vaccino contro morbillo-parotite-rosolia (quello maggiormente incriminato come causa) e l’autismo, nemmeno nei soggetti più a rischio, cioè i bambini con un fratello autistico. Inoltre decine di studi hanno dimostrato che l’età d’insorgenza, la gravità, il decorso di questa malattia e la sua ricorrenza nelle famiglie non differiscono tra bambini vaccinati e non vaccinati.

È stata invece osservata una correlazione tra il rischio di sviluppare l’autismo e altri disturbi del neuro-sviluppo nella prole e le condizioni metaboliche della madre in gravidanza come il diabete (malattia autornimmune che può essere scatenata da inquinanti ambientali in soggetti predisposti), l’ipertensione e l’obesità. È stato osservato che le madri obese sono più soggette delle normopeso ad avere figli autistici, quindi tra le forme di prevenzione dell’autismo va inclusa anche l’alimentazione della gestante.

Rosanna Novara Topino
(terza puntata – continua)

 




Convivere con l’autismo


È un disturbo del cervello e della mente che può manifestarsi in forme molto diverse. Si stima che nel mondo le persone autistiche siano 60 milioni. Per le famiglie dei 500 mila autistici italiani le difficoltà sono tante.

Nel 2007 le Nazioni Unite hanno indetto per il 2 aprile la Giornata Mondiale della consapevolezza sull’autismo. Questa celebrazione annuale ha lo scopo di sensibilizzare la popolazione su una sindrome in aumento e ancora difficile da comprendere e nel contempo di sollecitare le istituzioni a migliorare i servizi e l’assistenza alle persone colpite e alle loro famiglie. In questo numero di MC parleremo delle caratteristiche note della malattia, mentre nel prossimo articolo vedremo quali possibili implicazioni può avere l’inquinamento ambientale sulla sua insorgenza e, più in generale, sullo sviluppo del cervello umano.

Il disturbo autistico

Fino a qualche decennio fa si pensava che l’autismo fosse una conseguenza del rifiuto del figlio da parte della madre in sua attesa, per cui si sottoponevano a inutili sedute psicologiche sia la madre che il bambino. Le conoscenze attuali ci permettono di dire invece che l’autismo è un disturbo dello sviluppo biologicamente determinato, i cui sintomi compaiono nei primi tre anni di vita. È provato che questa patologia è associata a un disturbo dello sviluppo tanto del cervello (con alterazione delle strutture e delle funzioni nervose) che della mente (con alterazioni dello sviluppo psico-cognitivo ed emozionale).

Secondo il DSM IV-TR (Diagnostic Statistical Manual IV, redatto dall’American Psychiatric Association), il manuale dei disturbi mentali in uso presso gli specialisti, si tratta di una disabilità permanente, che perdura per tutta la vita. Le caratteristiche del deficit variano nel corso dello sviluppo di ogni individuo ed inoltre le manifestazioni della malattia possono essere molto diverse da bambino a bambino, andando da una lieve a una grave sintomatologia, tanto che si preferisce parlare di «Disturbi dello spettro autistico» o di «Disturbi pervasivi dello sviluppo». In realtà in questa categoria i clinici comprendono anche la sindrome di Asperger (che qualcuno considera una forma di autismo ad alto funzionamento, senza ritardo mentale), la sindrome di Rett, o altri disturbi (si veda la tabella). Circa il 50% degli autistici presenta ritardo mentale e il 30-40% epilessia.

Le principali aree di compromissione sono tre e riguardano l’interazione sociale, la comunicazione verbale e non verbale e il comportamento.

L’interazione sociale del soggetto autistico è caratterizzata dalla compromissione, dal ritardo o dall’atipicità dello sviluppo delle competenze sociali soprattutto nelle relazioni interpersonali. Il bambino mostra scarso interesse a relazionarsi con gli altri, tende all’isolamento e può mostrare un’apparente indifferenza emotiva agli stimoli o, al contrario, ipereccitabilità. Inoltre può esserci difficoltà a instaurare un contatto visivo.

La comunicazione dell’autistico è compromessa sia a livello verbale che non verbale. Si stima che circa il 25% degli autistici non sia in grado di comunicare verbalmente, mentre coloro che riescono a utilizzare il linguaggio spesso si esprimono in modo bizzarro, ad esempio con parole fuori contesto o con ecolalia, cioè con molteplici ripetizioni della stessa parola.

L’immaginazione risulta povera e stereotipata. Il bambino autistico difficilmente riesce a fare un gioco simbolico o di immaginazione. I suoi comportamenti sono ritualistici e ripetitivi e caratterizzati da scarsa flessibilità ai cambiamenti della routine quotidiana e dell’ambiente circostante, al punto da avere reazioni abnormi, come perdita di controllo, rabbia, aggressività nel caso in cui qualcosa cambi. Anche le posture e certe sequenze di movimenti possono risultare stereotipati.

Oltre alle tre principali aree di compromissione, la cui osservazione permette di porre la diagnosi di autismo, ci sono altri sintomi che da soli non bastano per fare questa diagnosi, ma che spesso sono presenti come la ipersensibilità agli stimoli sensoriali, le condotte autolesive e le aree di abilità. Ad esempio la capacità di contare un impressionante numero di oggetti in pochissimo tempo o di memorizzare l’elenco telefonico, come faceva il protagonista di Rain Man, film del 1988, che per la prima volta portò il problema dell’autismo sul grande schermo, mirabilmente interpretato da Dustin Hoffman nella parte del malato di autismo e da Tom Cruise, il fratello minore che se ne prendeva cura (in foto).

Più maschi che femmine

Per quanto riguarda la diffusione dell’autismo, non ci sono prevalenze geografiche o etniche, ma si tratta di una patologia ubiquitaria. C’è invece una prevalenza di sesso, poiché i maschi sono colpiti circa quattro volte più delle femmine. La stima di prevalenza più attendibile attualmente sembra essere di 10 casi su 10.000 bambini in età scolare. Secondo il Centers for disease control and prevention (cdc.gov), su dati 2012 riferiti a bambini di 8 anni, 1 su 68 è affetto da disordine autistico (aprile 2016). Confrontando questi dati con quelli del passato, si può dire che attualmente l’autismo è 3-4 volte più frequente di 30 anni fa. Molti studiosi pensano però che, più che un reale incremento della malattia, questa disparità di dati con il passato sia dovuta alla migliore capacità diagnostica di oggi, all’allargamento dei criteri diagnostici, all’abbassamento dell’età alla diagnosi, alla maggiore sensibilizzazione degli operatori e della popolazione in generale verso questo disturbo. Attualmente negli Stati Uniti le persone interessate sono circa 3,5 milioni. Nel mondo le persone autistiche sono circa 60 milioni e si stima che, in Italia, siano circa 500.000 (0,86% circa della popolazione), anche se tuttora nel nostro paese non esistono dati ufficiali.

Oltre al miglioramento della capacità di diagnosticare l’autismo, molti esperti imputano l’aumento del numero dei casi registrati negli ultimi trent’anni a cause genetiche ed epigenetiche. In NPJ Genomic Medicine sono stati pubblicati i risultati di uno studio condotto da S. Scherer all’Hospital for Sick Children di Toronto, in cui sono stati esaminati i campioni di Dna di 200 famiglie con un figlio autistico. In particolare sono state ricercate le mutazioni de novo, cioè quelle non ereditate dai genitori, ma insorte casualmente nel corso della vita nelle cellule germinali. È stato osservato che il 75,6% di tali mutazioni interessa gli spermatozoi e che la loro frequenza subisce un notevole incremento con l’aumentare dell’età del padre. Per quanto riguarda gli ovociti materni, le mutazioni de novo si presentano sotto forma di ammassi (cluster) dovuti a polimorfismi del Dna (variazioni nel numero delle copie di geni), che di solito vengono eliminati spontaneamente dal cromosoma materno. Le mutazioni de novo correlate allo spettro autistico riguardano in particolare geni coinvolti nella trasmissione sinaptica, nei meccanismi dell’espressione dei geni e nell’organizzazione della cromatina. Un’altra interessante ricerca condotta dagli scienziati del Centre national de la recherche scientifique di Marsiglia, mediante la risonanza magnetica nucleare effettuata su bambini di due anni di età, ha evidenziato nell’«area di Broca» del cervello (l’area che presiede alle funzioni del linguaggio e della comunicazione) una minore presenza di materia grigia nei cervelli dei bambini autistici, rispetto ai controlli normali. Questa ricerca ha il merito di avere dimostrato che un marcatore specifico dell’autismo è presente nel cervello già in tenerissima età. Da qui l’importanza fondamentale di una diagnosi precoce, che permetta l’avvio di interventi mirati capaci di sfruttare la neuroplasticità del cervello del bambino, in modo da attivarne le potenzialità, che rimarrebbero sopite con interventi tardivi.

Diagnosi e terapie

Fino a non molto tempo fa la diagnosi di autismo veniva posta tra i due e i quattro anni, ma attualmente gli specialisti ritengono che già intorno ai 18 mesi, quando i genitori si rendono conto che qualcosa non va, sia fondamentale sottoporre il bimbo a visita specialistica. Un esempio di grande recupero dalla malattia è rappresentato dalla dottoressa Temple Grandin, che – pur essendo autistica – è riuscita a conseguire un dottorato in zootecnica presso l’Università dell’Illinois e ha una carriera internazionale nell’ambito delle apparecchiature zootecniche. La Grandin, autrice di Emergence: Labeled Autistic (1986), sostiene che il suo recupero è avvenuto grazie all’intervento di insegnanti esperti a partire dai due anni e mezzo.

La scarsa conoscenza dei meccanismi biologici alla base dell’autismo è chiaramente un grosso limite per una terapia mirata, soprattutto in considerazione dei diversi gradi di disturbo dello spettro autistico. Questo implica l’indispensabilità di espandere la ricerca. Attualmente gli interventi a disposizione per migliorare la qualità della vita dei soggetti autistici sono di tipo farmacologico (limitati di solito ai momenti di maggiore instabilità) e di tipo abilitativo comprendenti diverse metodologie come le tecniche di analisi del comportamento, le tecniche di apprendimento basate sul rinforzo per migliorare le capacità cognitive e adattative, il gioco come tecnica di apprendimento, per migliorare gli aspetti emotivi relazionali. È fondamentale che i piani d’intervento siano personalizzati, così come lo è una stretta collaborazione e cornordinazione tra la famiglia del soggetto autistico, il servizio di neuropsichiatria infantile e la scuola.

L’Italia e la legge 134

Come si affronta il problema dell’autismo in Italia? Pur essendo noto da anni alla scienza, alla medicina e alla società, in Italia la prima legge dedicata specificamente a questo problema è la n. 134 emanata il 18 agosto 2015, contenente «Disposizioni in materia di diagnosi, cura e abilitazione delle persone con disturbi dello spettro autistico e di assistenza alle famiglie». Questa legge, che stabilisce le linee guida per i servizi, la formazione degli operatori sanitari, la definizione di équipe territoriali, la promozione dell’informazione e della ricerca, le buone pratiche terapeutiche ed educative e la cornordinazione dei vari interventi, rischia di rimanere però solo sulla carta poiché all’art. 4 si dice che «Dall’attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Le amministrazioni interessate alla relativa attuazione vi provvedono con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente». In tal modo spesso solo le famiglie più abbienti possono fare curare efficacemente i propri figli autistici, rivolgendosi a centri privati. Oltretutto non sempre l’offerta privata è sicura poiché il rischio di incorrere in terapeuti improvvisati, in questo campo, è elevato. Inoltre la legge si disinteressa degli autistici adulti, che al compimento dei 18 anni perdono ogni diritto ad essere seguiti gratuitamente da medici specializzati e da insegnanti di sostegno, rischiando di retrocedere nelle abilità acquisite. Per loro è prevista al massimo l’indennità di accompagnamento. Insomma, l’autismo è per sempre, ma la legge italiana non lo sa. Anche se forse qualcosa si muove. I nuovi Livelli essenziali di assistenza (Lea), varati lo scorso 12 gennaio, recepiscono la citata legge n. 134 del 2015, per la diagnosi precoce, la cura e il trattamento individualizzato dei disturbi dello spettro autistico. Speriamo sia la volta buona.

Rosanna Novara Topino
(seconda puntata – continua)