Solalinde: Questo è il Regno di Dio

Testo di Luca Lorusso |


Le relazioni (divine) che promuovono la vita invece della morte

Solalinde: Questo è il Regno di Dio

L’«antiregno» è semplice da descrivere: il sospetto su Dio, il male procurato agli
altri, la violazione del creato, l’autocondanna alla disperazione. Più complicato è dire cosa il Regno è e cosa suggerisce al mondo odierno complesso e segnato da violenza. Padre Alejandro Solalinde ci offre la sua sintesi usando la parola chiave relazione e partendo dalla sua fede ed esperienza di lotta accanto ai poveri.

«La condizione perché Dio regni su di noi è che nessuno regni sull’altro», scrive padre Alejandro Solalinde. E il motivo per scegliere di far regnare Dio su di noi è che il suo è un Regno di gratuità, pace, giustizia, perdono, accoglienza. È un Regno d’amore al centro del quale c’è la promozione delle relazioni che danno vita: la relazione fondativa tra Dio e l’uomo, quella tra l’uomo e gli altri uomini e quella tra l’uomo e il resto del creato.

Padre Alejando è un prete sorridente ed energico di 74 anni. È noto per essere un sacerdote messicano in prima linea nell’emergenza umanitaria che riguarda i migranti sudamericani diretti negli Usa e transitanti sul suolo del suo paese. Avere a che fare con i migranti non significa solo contrastare i discorsi d’odio di Trump ma, molto più concretamente, fronteggiare le organizzazioni criminali che con i migranti fanno affari d’oro.

Per il suo impegno, padre Alejandro è, allo stesso tempo, candidato al Nobel per la pace e «ricercato» dai narcos con una cospicua taglia sulla sua testa. Nonostante questo, appare un uomo sereno, umile e mite. A chi glielo fa notare risponde: «Io sono un uomo di fede. Gesù continua ad ispirarmi. Mi sento molto orgoglioso di essere battezzato, di essere una persona consacrata, missionaria, itinerante del Regno di Dio. Io non sono solo»1, e ribadisce la stessa idea nel suo libro, come un caposaldo della sua speranza: «Nessuno può sentirsi solo con un’amicizia come quella di Gesù».

Libro sorprendente e coraggioso

Padre Alejandro Solalinde ci offre un libro sorprendente. Sorprendente perché insiste su Dio e sul suo sogno d’amore per l’umanità e il creato, mentre da un uomo «di lotta» come lui ci si potrebbe aspettare un testo tutto concentrato sulla denuncia dura e pura (come ce ne sono molti) nei confronti delle potenti strutture di peccato che generano le sofferenze delle quali si occupa. Non manca la denuncia, e padre Solalinde le dedica un intero capitolo, il terzo, intitolato «L’antiregno». Ma non è il centro del suo pensiero. È forse il movente, ma non l’orizzonte del suo scritto.

Padre Solalinde ci offre un libro sorprendente e anche coraggioso. Coraggioso perché indica il Regno di Dio come suo centro d’interesse principale, e la prassi «fallimentare» del Gesù crocifisso come strada da seguire per realizzarlo. Superare l’antiregno in direzione del Regno di Dio si può solo attraverso relazioni improntate al dono totale di sé, alla misericordia, all’accoglienza di tutti. Anche all’accoglienza dei violenti e dei potenti, di quell’1% che domina il mondo, perché mai nessuno è escluso dal desiderio di Dio di averlo dalla sua parte: «Ai giorni nostri sono invitati alla tavola di Gesù anche quell’1% di magnati che si accaparrano le ricchezze del mondo […]. Da soli non potranno arrivare allo spazio della fede in Dio, Padre di tutti e tutte. Bisogna avvicinarli, amarli, metterli in discussione, invitarli! […] Anche un “tossico” del denaro e del potere è salvabile!».

L’idea giusta di Dio

«Siamo nati nel sistema capitalista, una condizione che impone il denaro come valore supremo; solo dopo viene Dio e infine la gente. Il Dio della vita è stato espulso dall’economia e rinchiuso nei templi. Ogni giorno aumentano i poveri e cresce la diseguaglianza. Quel che è peggio è che stiamo accogliendo tutto questo come normale. E non manca chi attribuisce a Dio queste ingiustizie, assicurando che questa è la sua volontà. […] In tale voragine di idee, le cupole del potere economico impongono come verità indiscutibili la loro versione di ciò che noi “dobbiamo” vedere e credere».

Nel solco della letteratura profetica, padre Solalinde si preoccupa di ristabilire la giusta immagine di Dio, quella di cui l’uomo può nutrirsi per trovare la salvezza. Il suo Dio non è quello usato da alcuni per giustificare le ingiustizie, ma quello che offre tutto se stesso per il bene dell’umanità. Se al centro ci fosse Dio con il suo Regno, l’uomo vivrebbe nella pienezza. «La crisi del mondo attuale, e in particolar modo del mio Messico, è in fondo una crisi di relazioni interpersonali: tra persone fisiche e persone giuridiche, tra persone umane e persone divine. […] Qual è il riferimento affidabile che ci permetterà di uscire da questa crisi generalizzata? A partire dalla fede cristiana che professo, io propongo il Regno di Dio […]. Non per niente questo è il tema centrale dell’insegnamento del giovane Maestro di Nazareth. Nei Vangeli troviamo più di novanta occorrenze di “Regno di Dio” o “Regno dei cieli”. […] Gesù non predica se stesso, parla della sovranità di Dio». Gesù realizzò nella sua persona la sovranità di Dio inaugurando l’esperienza più inclusiva e aperta che sia esistita nella storia dell’umanità. «Bisogna credere nel Regno e allo stesso tempo esserne operatori efficaci, affinché sia davvero l’amore divino a governare […], a partire dalla lettura dei segni dei tempi e dall’accompagnamento pastorale degli ultimi, degli esclusi».

Una vita radicalmente cambiata

Il Regno di Dio non è un’utopia. È una realtà già vivente e operante che cresce con la crescita della sua conoscenza da parte dell’uomo. Una realtà bella anche perché si prende carico della condizione contraddittoria e fragile dell’uomo. Sono belle le parole del sacerdote messicano sul «rilievo umano», cioè sulla storia particolare, personale di ciascun operatore del Regno: «Chiamo “rilievo umano” la storia di ogni persona […]. Nessuno può cancellare il passato! E neppure può ignorarlo […]. Quello che invece possiamo fare è assumerlo, impararne la lezione, leggerlo entro una nuova narrazione positiva, accettarlo. […] Il Dio rivelato da Gesù Cristo si carica del nostro passato e lo redime, invitandoci a un presente equilibrato e a scrivere una nuova storia personale d’amore. […] Gesù ci accetta come siamo, incondizionatamente, [anche] se siamo stati assassini o carnefici […]. Dio chiama tutti alla santità, ma lo farà sempre a partire dal “rilievo” di ciascuno». La via della realizzazione del Regno è la storia individuale di ognuno, nel momento in cui si mette in relazione vitale con Dio Trinità, con gli altri e con il creato. Come la storia di ogni singolo è segnata dalle storie degli altri e del mondo, anche la storia degli altri e del mondo è segnata dalla storia di quel singolo.

Questo, per Solalinde, è il Regno di Dio: una vita donata, una vita radicalmente cambiata in Gesù.

Luca Lorusso

Note:

1- Paolo Moiola, Un salto nel buio, MC, ottobre 2017, p. 51.

Messico, migranti: Un salto nel buio




Riconoscere i conflitti per gestirli in modo nonviolento

Suggerimenti di lettura per gestire i conflitti, da Luca Lorusso |


I conflitto esistono. È in te, con il tuo partner, figli, genitori, fratelli, con i tuoi colleghi o vicini di casa, con il capo (o il dipendente), con i Rom (o i gagè, ovvero non Rom), con i migranti (o gli italiani). I conflitti esistono tra classi sociali, tra regioni, tra paesi, tra blocchi di alleanze internazionali, tra mercati e singoli risparmiatori, tra economia e diritti. E la violenza non è l’unico modo per affrontarli.

Puoi decidere di far finta che il conflitto non esista o girarci attorno (e ne subirai le conseguenze), puoi metterti in competizione (e rischierai di perdere, o di vincere, che è anch’esso un rischio), puoi adeguarti passivamente alla volontà dell’altra parte (annullando i tuoi bisogni e la tua dignità), puoi cercare il compromesso (senza generare nulla di nuovo ma dimezzando i bisogni di entrambe le parti), oppure puoi collaborare (trovando una risoluzione creativa che apre a prospettive nuove e positive per entrambe le parti).

Per prepararci al nuovo anno sociale che ci aspetta, e che certamente non sarà privo di conflitti a tutti i livelli, quale modo migliore di dedicare qualche lettura estiva al tema della nonviolenza?

Ecco alcuni suggerimenti che spaziano dai fondamenti teorici della nonviolenza a spunti pratici di comunicazione nonviolenta nella quotidianità.

La sfida sarebbe quella di leggerli tutti entro il 2 ottobre, giornata internazionale della nonviolenza.

Buona lettura.

Luca Lorusso

Edizioni Qiqajon | Edizioni la Meridiana | Esserci Edizioni | Infinito Edizioni | Edizioni Gruppo Abele




Parlare di Isis ai bambini

Recensione di Luca Lorusso su libri riguardanti l’Isis |


Quando eventi traumatici, come gli attentati dell’Isis, irrompono nella vita quotidiana

Quando la vita di ogni giorno è toccata, a volte sconvolta nelle sue certezze, da notizie di eventi tragici come le violenze dell’Isis, s’impone ai genitori e agli insegnanti il dovere di andare in soccorso dei loro piccoli. Rassicurando, spiegando, infondendo fiducia. Per farlo, gli adulti devono lasciarsi interrogare, documentarsi, riflettere, senza il timore di apparire ignoranti, essi stessi in cerca di senso.

 

Terrorismo, stragi, violenze. Dobbiamo raccontarle ai nostri bambini? Dovremmo far conoscere ai nostri figli o alunni eventi traumatici come quelli causati dall’Isis in paesi lontani e vicini, o anche altri eventi come terremoti, catastrofi, incidenti aerei, che vengono raccontati da tutti i mezzi di comunicazione con toni e immagini allarmanti?

L’Isis uccide 25 persone, tra cui diversi bambini e 9 giornalisti, a Kabul, in Afghanistan, in un duplice attentato il 30 aprile. Boko Haram attacca una moschea e un mercato in una città del Nord della Nigeria provocando 86 morti il 2 maggio. Uomini armati uccidono 17 persone tra cui un prete cattolico a Bangui, nella Repubblica Centrafricana lo stesso giorno.

Il racconto concitato di avvenimenti dolorosi irrompe nella tranquilla vita quotidiana delle nostre famiglie.

Il 14 luglio 2016 un camion fa strage sul lungomare di Nizza. Negli stessi giorni un uomo, armato di ascia ferisce diverse persone su un treno in Germania. Di nuovo in Germania, a Berlino, il 19 dicembre 2016 un altro camion travolge la folla al mercatino di Natale, uccidendo 12 persone. L’attentatore, Anis Amri, il 23 dicembre viene ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia a Sesto San Giovanni, Milano, praticamente sotto casa di ciascuno di noi.

L’insicurezza entra in casa (tramite lo schermo)

«Il mondo che sembrava chiuso fuori dalla porta di casa, improvvisamente vi fa un ingresso irruento», scrive Alberto Pellai nel primo dei tre capitoli del volume Parlare di Isis ai bambini, edito da Erickson nel 2016. Se da un lato la fruizione di notizie come quelle sopra citate porta con sé una quota positiva di conoscenza, dall’altro porta anche il rischio di attivare nei bimbi un profondo senso di pericolo – anche all’interno delle mura domestiche – che l’adulto deve saper affrontare. «Gli adulti hanno il compito di comunicare ai più piccoli che loro sanno tenere il controllo della situazione». Ai volti spaventati di uomini e donne intervistati dai telegiornali sul luogo dell’accaduto deve fare da contrappeso lo sguardo attento e pacato, non allarmato, del genitore, la sua capacità di verbalizzare la paura con parole rassicuranti e, magari, con l’attenzione fisica di un abbraccio protettivo.

«Quando si assiste a un evento tragico in televisione si è dentro a un flusso di parole e immagini ad alto impatto emotivo. Spesso siamo noi adulti i primi a venire così attratti e spaventati che quasi ci dimentichiamo che nella stessa stanza c’è un bambino che sta osservando le medesime immagini. Ma che al contempo vede il nostro volto teso e spaventato, ascolta i nostri commenti sconcertati e atterriti».

L’adulto – scrive Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva, nel suo testo pieno di esempi e utili suggerimenti – deve saper tranquillizzare senza negare le emozioni che la notizia, la foto, il servizio al Tg provocano. In questo modo aiuta il bambino a integrare la tempesta emotiva con la comprensione dell’evento e della sua condizione di protezione e sicurezza.

Genitori e insegnanti in ricerca

I genitori e gli insegnanti dovrebbero parlare anche dei motivi che stanno dietro alle violenze raccontate dai media? «Certamente», sostiene Dario Ianes, curatore del libro, «ma spesso non sanno bene quali sono le cause di quello che accade, non sanno documentarsi… e non vogliono apparire ignoranti, anche se sarebbe invece un ottimo insegnamento mostrarsi adulti che si attivano in una ricerca razionale, il più possibile libera da pregiudizi, di informazioni indipendenti». Quando l’Isis entra in casa da uno schermo, quindi, il nostro compito è quello di interrogarsi ad alta voce – provando a darsi delle risposte ragionevoli – sulle questioni che fanno da sfondo, da causa, da motore di quegli eventi. Accanto al compito di rassicurare i piccoli, c’è anche quello di dichiarare la nostra poca conoscenza e di impegnarci ad approfondirla.

Uno strumento per tutto ciò può certamente essere il libro di cui scriviamo, Parlare di Isis ai bambini. Al primo capitolo di Alberto Pellai, intitolato L’adulto competente aiuta emotivamente il bambino, ne seguono, infatti, altri due che inquadrano l’Isis da diversi punti di vista: la storia del Medio Oriente, la storia dell’Islam, la situazione sociale e culturale dei paesi musulmani, le relazioni internazionali, la riflessione filosofica, politica e militare sulla violenza. Il primo dei due, Geografia concettuale dello Stato Islamico è scritto dal funzionario internazionale Marco Montanari, il secondo, Cercare di comprendere l’Isis nella complessità, da Riccardo Mazzeo, editor di Erickson, con il filosofo e sociologo francese Edgar Morin.

Luca Lorusso




La lettura come arma di libertà contro il terrore in Afghanistan

Testo di Luca Lorusso |


Il maestro che sfidò la guerra

Tra gli Hazara perseguitati dai talebani in Afghanistan avviene l’incontro tra un uomo coraggioso e una bambina speciale. Lui gira per i villaggi prestando libri, lei li legge ad alta voce alle amiche che non possono andare a scuola. Una storia per aiutare i più piccoli (dagli otto anni in su) a sentirsi parte di un’umanità più ampia, piena di problematiche e di speranze.

Maryam ha 10 anni ed è l’unica bambina del villaggio a saper leggere. Quando ne aveva sette e abitava nella città di Bamiyan, in Afghanistan, un attentato dei talebani ha portato via i suoi genitori e la sorellina Baharak, che significa Piccola primavera. Lei era a scuola quando il camion è esploso. Da allora vive presso dei parenti, a Moshtarak, un abitato povero e sperduto nella provincia di Bamiyan. Questa è la zona degli Hazara, la minoranza nel mirino dei terroristi (cfr. reportage pag. 15).

Maryam ha gli occhi neri, come nero è il pesciolino protagonista di un libro che la maestra le leggeva quando andava a scuola: unico pesciolino ad avere il coraggio di nuotare alla scoperta del mondo fino al grande mare.

Un giorno arriva al villaggio un uomo speciale che porta con sé, su una bicicletta, una cassa di legno piena di libri da distribuire ai bambini del villaggio. Si chiama Amir Zerai, il «maestro dei cento soli e delle cento lune», e vuole donare agli abitanti la gioia della lettura: ogni due settimane, lui o una persona di sua fiducia, verrà al villaggio per riprendere i libri già prestati e prestarne altri.

Tra la bambina e l’uomo nasce subito un’amicizia e da essa nasce una piccola grande rivoluzione per l’intero villaggio: Maryam, spinta da Amir, inizia a leggere a voce alta i libri alle altre bambine. Loro, infatti, non vanno a scuola, a differenza dei maschi che ogni mattino si spostano al villaggio vicino per imparare a leggere e scrivere.

La storia di Maryam è inventata, ma contiene molti elementi tratti dalla realtà. Raccontata con linguaggio semplice e delicato da Alberto Melis, essa accompagna i piccoli lettori in una terra, in una situazione di vita, in mezzo a problematiche lontane, ma che riguardano tutti.

La narrazione ci accompagna nelle vicende di Maryam che, fa crescere la sua attività di lettura a voce alta fino a farla divenire una vera e propria scuola, e in quelle del maestro Zerai, minacciato dai talebani, e nello scambio di lettere tra Maryam e un bambino di un altro villaggio, anch’egli amico del maestro. In essa l’autore affronta i grandi temi della libertà che la cultura può offrire contro l’oscurantismo e la paura, del coraggio contro le avversioni e contro i tentativi di chi si oppone al bene comune, dell’amicizia, dell’amore dei cari, del pregiudizio di cui a volte la stessa protagonista è vittima, della speranza.

In appendice, Alberto Melis, insegnante e scrittore sardo, propone anche una breve intervista a Saber Hosseini, il vero «maestro dei cento soli e delle cento lune» che ha ispirato il suo racconto.

Perché porti i libri ai bambini?

«Perché per troppo tempo in questo paese i bambini sono stati sopraffatti dalla paura e dalla violenza […]. Ora è arrivato il momento che imparino a sorridere e soprattutto a sognare, non credi anche tu Maryam? (p. 37).
Sai, a volte ho l’impressione che nelle parole dei libri ci sia una magia capace di guarire anche le ferite che non si vedono» (p. 72).

Il libro: Alberto Melis, Storia del maestro che sfidò la guerra, Mondadori, Milano 2017, 120 pagine, 9,50 Euro, dagli 8 anni.

 




Tratta e sfruttamento nel 21° secolo


Negli ultimi 5 anni 89 milioni di persone nel mondo hanno subito una qualche forma di schiavitù. Nel solo 2016 sono stati 40 milioni: 25 per lavoro forzato, 15 per matrimoni forzati. Una persona ogni 185. Il 51% donne, il 20% bambine il 21% uomini, l’8% bambini. Il solo lavoro forzato genera un giro di denaro di 150 miliardi di dollari l’anno. E il contrasto non sembra efficace.

La tratta di esseri umani (in inglese trafficking in human beings) è stata definita nel 2000 dalle Nazioni Unite come «reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere […] a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato o prestazioni forzate, schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi. […] Il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere un bambino ai fini di sfruttamento sono considerati “tratta di persone” anche se non comportano l’utilizzo di nessuno dei mezzi [descritti sopra]»1.

Leggere dietro i dati

Secondo le ultime stime dell’Oil2 (Organizzazione internazionale del lavoro), nel 2016 circa 40,3 milioni di uomini, donne e bambini di ogni parte del globo sono stati vittime di una qualche forma di schiavitù: sfruttati o costretti a sposarsi sotto minacce, violenze, coercizioni, inganni, abusi di potere. Di essi, erano 15,4 milioni le vittime di matrimoni forzati (il 37% minorenni), e 24,9 milioni le vittime di lavoro forzato (il 71% di sesso femminile, vedi box per maggiori dettagli). Nel mondo, nel 2016, erano 151,6 milioni i minori lavoratori (tra i 5 e i 17 anni).

Le cifre sono grosse, ma lette in un report dell’Oil rischiano di rimanere inerti. Diventa un esercizio assai utile allora provare a guardare dietro e dentro i dati per comprendere l’urgenza con cui l’umanità deve prendersi carico della situazione per tentare una risoluzione.

Il libro di Anna Pozzi, Mercanti di Schiavi, cerca di farlo. Snocciolando una quantità enorme di altri dati e informazioni, presenta situazioni di paesi concreti, racconta storie di persone, vittime o attiviste, e l’operato di gruppi e associazioni che in tutto il mondo lottano perché la schiavitù venga affrontata e debellata.

Dal mondo all’Italia

Diviso in tre parti, il volume accompagna il lettore in un itinerario che inizia da uno sguardo generale sul fenomeno, prosegue con l’approfondimento delle diverse forme di schiavismo presenti nel mondo e si conclude con un approfondimento sulla situazione italiana.

Nella prima parte, infatti, Anna Pozzi, offre al lettore uno sguardo complessimo con una rassegna globale delle forme dello schiavismo contemporaneo, i numeri del fenomeno, le sue cause e le azioni – spesso fallimentari – che, a livello di istituzioni internazionali, si sta cercando di sviluppare per contrastarlo. Nella seconda ci presenta alcuni approfondimenti tematici: la schiavitù come sfruttamento sessuale, la piaga del lavoro minorile, le spose bambine, la tratta e il traffico di persone legati alle migrazioni, il mercato delle gravidanze; ma anche alcuni approfondimenti legati a specifiche aree del pianeta: il Brasile, il Medio Oriente, l’Africa, l’Asia. La terza parte punta l’obiettivo sulla nostra Italia, a dimostrazione del fatto che «praticamente nessun paese è immune da questo fenomeno». La produzione dei pomodori, ma anche quella di frutta e di uva da vino, lo sfruttamento della prostituzione, il lavoro schiavo nel campo del tessile, il caso delle nigeriane e quello dei minori stranieri non accompagnati che «spariscono».

Far crescere la consapevolezza

Anna Pozzi affronta il vasto mondo della tratta e dello sfruttamento con lo stile giornalistico che la contraddistingue3. Descrive il fenomeno, lo racconta attraverso i dati, la narrazione di singoli casi, ma anche attraverso il racconto di quali sono le strategie, purtroppo spesso inefficaci, di istituzioni come l’Onu, l’Ue, la Corte penale internazionale, gli organi dei singoli paesi. Tra le pagine più belle ci sono quelle in cui l’autrice presenta le azioni concrete messe in campo da alcuni dei tanti uomini e donne che si battono in tutto il mondo su questo tema. Ecco allora emergere alcune figure come padre Mussie Zerai, la suora comboniana Azezet in Israele, il premio Nobel per la pace Kailash Satyarthi che ha liberato 80mila piccoli schiavi in India e in altri paesi. Nel libro si parla anche dell’impegno di papa Francesco, ad esempio istituendo la prima giornata mondiale ecclesiale contro la tratta di persone l’8 febbraio 2015.

Il bilancio che viene fuori dal libro non sembra essere molto positivo, nonostante le molte iniziative dal basso e le dichiarazioni di leader mondiali. Più volte Anna Pozzi afferma, infatti, che sembra non esserci ancora una reale presa di coscienza della gravità di questa piaga. Tra i molti dati che offre c’è, ad esempio, quello che parla di un altissimo livello d’impunità, anche in Italia, quello che indica un aumento del numero di minori coinvolti, quello che ci parla di una grande adattabilità delle organizzazioni criminali al mutamento delle situazioni, oppure quello che dà a noi italiani il primato nel turismo sessuale.

Immaginiamo che sia proprio da questo quadro poco positivo che ha preso le mosse il lavoro di approfondimento e denuncia di Anna Pozzi, allo scopo di costruire una maggiore consapevolezza da parte di tutti su una problematica solo apparentemente lontana.

Luca Lorusso

Note:

  1. Dall’articolo 3 del Protocollo addizionale sulla tratta del 2000, uno dei tre Protocolli addizionali alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine transnazionale organizzato.

  2. Il rapporto Global estimates of modern slavery. Forced labour and forced marriage (Stime globali della schiavitù moderna: lavoro forzato e matrimonio forzato) pubblicato a settembre 2017 dall’Oil e da Walk Free Foundation in collaborazione con l’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni). Una bella presentazione si trova su http://www.alliance87.org/2017ge
  3. È giornalista e scrittrice, lavora per «Mondo e Missione», la rivista del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere), ha realizzato diverse iniziative per parlare del problema della schiavitù, anche in collaborazione con suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata molto attiva su questo fronte, e tra le altre cose ha anche fondato un’associazione dal nome «Slaves no more».

Il libro

Anna Pozzi, Mercanti di schiavi. Tratta e sfruttamento nel XXI secolo,
San Paolo, Milano 2016, 215 pagine, 14,50 Euro.


Dati su
Matrimoni e lavoro forzato

  • 15,4 milioni di vittime di matrimoni forzati
    Il 63% ha contratto il matrimonio in età adulta (tra essi, il 77% è donna). Il 37% ha subito il matrimonio da minorenne (tra loro è femmina il 96% e il 44% aveva meno di 15 anni). La più giovane vittima registrata dall’Oil aveva 9 anni al momento del matrimonio. In totale, l’84% delle vittime è di sesso femminile.
  • 24,9 milioni di vittime di lavoro forzato
    Il 71% è donna o bambina. In totale, una vittima su quattro è minorenne (il 25%).
    Il lavoro forzato viene distinto in tre tipologie:

    • 1- Il lavoro forzato presso privati che conta 16 milioni di vittime nel 2016. Di questi, il 59% sono di sesso femminile, l’81% adulti, il 19% minorenni.
    • Le vittime di questa forma di schiavitù ritrovano la libertà in media dopo 20,5 mesi. Sul totale, il 24,3% è impiegata in lavori domestici, il 18,2% nell’edilizia, il 15,1% nell’industria; l’11,3% nell’agricoltura e nella pesca, il 9,5% in alberghi e ristorazione, il 9,2% nel commercio all’ingrosso, il 6,8% nei servizi personali, il 4% nelle miniere, l’1,6% nell’accattonaggio e in altro.
    • 2- Il lavoro forzato imposto dalle autorità statali che conta 4,1 milioni di persone. Di queste, alcune lavorano per anni, molte per poche settimane.
    • 3- Lo sfruttamento sessuale forzato che coinvolge 4,8 milioni di vittime. Tenute, in media, per 23,4 mesi nella loro situazione, la stragrande maggioranza (99,4%) sono donne e ragazze. I minori rappresentano il 21,3% del totale.
  • Il tasso di schiavitù per area del mondo
    Altro dato interessante e il tasso di schiavitù per aree geografiche: il più alto è in Africa, con 7,6 vittime ogni 1.000 persone. Il secondo nell’area Asia meridionale e Pacifico, con il 6,1 per mille, il terzo in Europa e Asia centrale, con il 3,9 per mille, il quarto negli stati arabi, con il 3,3 per mille e infine nelle Americhe con 1,9 vittime ogni mille persone.

L.L.

 


     

 

 

 

La collana «#VoltiDiSperanza»
delle edizioni Velar / Marna

Diari dal Sud

Piccoli libri dai quali emergono volti e storie di persone incontrate dall’autore in diversi luoghi del mondo. Racconti di viaggio per ricordare situazioni drammatiche su cui porre attenzione: dalle violenze dell’Isis in Iraq a quelle di Al-Shabaab a Garissa, in Kenya del Nord, dalla guerra silenziosa nel cuore del Messico, alla violazione dei diritti umani nel carcere di Challapalca in Perù.
È la voce di don Luigi Ginami quella che attraversa le pagine dei volumetti editi a partire da dicembre 2016 dalle edizioni Velar Marna. Una voce che racconta, nello stile semplice e diretto dei diari di viaggio, paesi e situazioni di cui è bene non perdere il ricordo.

Sacerdote della diocesi di Bergamo e presidente della Fondazione Santina Onlus, don Luigi parte almeno due volte all’anno per un luogo diverso allo scopo di incontrare le comunità aiutate dalla sua associazione. Da ogni racconto di viaggio emergono volti e storie di persone. E sono proprio alcune di queste a dare il titolo a ciascuno dei volumetti: Nasren, ad esempio, è una ragazzina yazida conosciuta nel campo profughi Dawidiya, a 70 km da Mosul, in Iraq, affetta da «Disturbo post traumatico da stress» causato dall’incontro con gli uomini del Califfato nero nell’agosto del 2014, quando aveva 11 anni. Janet Akinyi, giovane donna di 22 anni, che don Luigi non ha incontrato perché assassinata il 2 aprile 2015 nell’università di Garissa, in Kenya, assieme ad altri 147 studenti, da un commando di al-Shabaab. Padre Dominic, sacerdote vietnamita che ha subito la prigionia durante il regime comunista nel suo paese.

 

 

 

 

Il ricavato della vendita dei volumi andrà ai progetti della Fondazione Santina, in favore delle realtà raccontate.




Donne Yazide: Schiava dell’Isis


Hana è una giovane donna yazida1, infermiera nell’ospedale di Duhok, Kurdistan irakeno2. Il 3 agosto del 2014 si trova in visita a casa dei suoi genitori a Sinjar, quando arrivano i miliziani dell’Isis. Perde subito il fratello e la madre. Lei viene ridotta in schiavitù insieme a sua sorella minore. Il romanzo di Claudia Ryan, pur narrando una storia di fantasia, racchiude in sé il dramma di persone reali.

Il 3 agosto del 2014 la città di Sinjar, nel Nord dell’Iraq, nella Regione autonoma del Kurdistan irakeno, viene presa d’assalto dai miliziani dell’Isis. Improvvisamente.

Sinjar è uno dei centri più importanti dei fedeli Yazidi, minoranza religiosa considerata «infedele» dal Da’esh. In pochi giorni migliaia di Yazidi vengono uccisi o costretti alla conversione (se uomini o ragazzi, dagli 11 anni in su), o ridotti alla schiavitù sessuale (se donne, o ragazze anche di 9 anni).

Secondo il rapporto del Consiglio per i diritti umani dell’Onu intitolato «They came to destroy: Isis crimes against the Yazidis»3 (Sono venuti per distruggere: i crimini dell’Isis contro gli Yazidi) redatto nel giugno 2016, si è trattato di un vero e proprio genocidio. Nel report non si indicano cifre esatte, a parte il dato di 3.200 donne e bambini che, ancora a giugno 2016, erano in stato di schiavitù tra Siria e Iraq.

Il bisogno di conoscere

Questo è, a grandi linee, il contesto geopolitico nel quale Claudia Ryan inserisce la storia raccontata nel suo romanzo «Hana la yazida», edito per San Paolo nel 2016. Colpita dalle notizie che nell’estate del 2014 arrivavano da quelle zone di guerra, l’autrice ha voluto approfondire, prima studiando la situazione e la storia di quelle terre, poi compiendo, nel 2015, un viaggio in prima persona in Kurdistan. Lì ha avuto modo di incontrare e di parlare con diverse vittime.

Dal loro racconto è nata la figura di Hana, personaggio di fantasia che racchiude in sé il dramma vissuto da molte persone reali.

La storia

Giovane donna emancipata, infermiera nell’ospedale di Duhok, il 3 agosto del 2014 Hana si trova in visita a casa dei suoi genitori a Sinjar. Con l’arrivo dei miliziani dell’Isis perde il fratello e la madre e viene ridotta in schiavitù insieme a sua sorella minore, della quale perderà quasi subito le tracce.

Il romanzo inizia al tempo in cui Hana è già libera e decide di registrare sul suo tablet la propria storia, raccontandola ad alta voce per elaborare l’orrore vissuto. Sappiamo da subito, quindi, che Hana è sopravvissuta e che è tornata a fare il suo lavoro, ma che l’ombra della violenza subita non l’ha ancora lasciata, insieme all’angoscia per la sorte della sorella. Quello che si sviluppa nelle registrazioni che Hana cerca di fare con costanza è il racconto della sua schiavitù sessuale, dell’umiliazione, del senso di colpa, della paura costante provati nell’essere venduta ripetutamente, usata da uomini senza scrupoli, fino alla fuga, all’incontro con persone che rischiano la propria vita per proteggerla, e al ritorno alla sua piena libertà.

Senza scendere mai in dettagli morbosi e cercando di raccontare in modo umano le situazioni disumane della schiavitù subita dalla protagonista del suo romanzo, Claudia Ryan ci offre l’opportunità di comprendere meglio un fenomeno che forse abbiamo conosciuto solo per i suoi grandi numeri, incontrando da vicino una vittima e approfondendo la conoscenza del suo contesto sociale e culturale.

L.L.

Note:

1- Sulla minoranza yazida abbiamo recentemente pubblicato un dossier: Simone Zoppellaro, Yazidi, Missioni Consolata, marzo 2017, pp. 35-50.

2- Sul Kurdistan irakeno si veda il dossier: Simone Zoppellaro, Orgoglio Kurdo, Missioni Consolata, luglio 2017, pp. 35-50.

3- Human rights council, They came to destroy: Isis crimes against the Yazidis, 15 giugno 2016.

Il libro

Claudia Ryan, Hana la yazida. L’inferno è sulla terra, San Paolo, Milano 2016, 140 pp, 14,50 €.

Il sito dell’autrice

www.claudiaryan.net


Intervista all’autrice

Nel Kurdistan hanno vissuto l’orrore

Com’è nato il suo libro?

«Un giorno, casualmente, ho letto nel web un articolo che parlava di queste giovani donne rese schiave sessuali dai Da’esh. Mi ha colpito profondamente, lasciandomi attonita. Ho cercato altre storie, altri articoli, anche in lingua inglese, fino ad arrivare a leggere le relazioni di Human Rights Watch. In realtà all’inizio non l’ho fatto con l’intento di scrivere un romanzo, era solo puro interesse personale, ma poi, poco alla volta, è nata una storia e ho sentito l’esigenza di scriverla. A quel punto, però, era molto importante andare nel Kurdistan iracheno».

Perciò fondamentali sono state le ricerche e, soprattutto, il viaggio in Kurdistan.

«Sì, il viaggio che ho intrapreso mi ha messo in diretto contatto con la loro realtà e con le persone. Non si può scrivere di qualcosa che non si conosce.

In Kurdistan ho potuto vedere i luoghi dove sviluppare la storia, capire cosa si mangia, come si vestono, guardare le persone negli occhi, ascoltare direttamente le loro storie. Inoltre le guide e gli interpreti mi hanno spiegato meglio la religione yazida, la società curda e, nello specifico, yazida».

Può raccontarci un episodio o suggestione significativa di quel viaggio?

«Difficile… tutto il viaggio è stato una suggestione, è stata un’esperienza magnifica e profondamente umana. Gli episodi più commoventi sono stati quando ho parlato direttamente con le donne che erano state schiave, sabaye. Ogni volta mi sentivo devastata, ancora oggi a ripensarci mi vengono le lacrime agli occhi.

È stato bello, invece, ascoltare le storie di chi, quel 3 agosto 2014, riuscì a fuggire, di come ci riuscì, e poi essere invitata a pranzo o a cena nelle case private, toccare con mano la loro ospitalità. Inoltre è stato molto interessante visitare la città santa yazida, Lalish, ed è stato un onore poter parlare con uno dei loro capi religiosi, Baba Chawish».

Hana è un personaggio inventato che riassume le esperienze reali di diverse donne.

«Esatto. Il libro non racconta una storia vera, ma una storia plausibile, in quanto basata su testimonianze lette o ascoltate in prima persona. Hana, nella narrazione, incontra ragazze le cui vicende sono invece prese dalla realtà.

Il modo in cui Hana, nel libro, fugge, è una mia invenzione, ma poi ho scoperto che una giovane donna yazida è scappata davvero in un modo molto simile!».

Può raccontarci qualcosa degli incontri con le donne che hanno subito la schiavitù?

«Ho intervistato donne dai 17 ai 45 anni. Hanno visto cose terribili, come i propri cari venire uccisi sotto i loro occhi. Sono state umiliate, hanno perso la loro libertà, nel senso più vero della parola. Chi è giovane può superare il trauma, rifarsi una vita, ma le donne che hanno visto morire il marito e i figli maschi, che magari hanno una figlia ancora in mano ai Da’esh e non sanno dov’è… be’ per loro è impossibile riprendersi».

Cosa desiderava comunicare con il suo libro?

«Volevo raccontare cosa accade a queste donne, cercare di far immedesimare il lettore/lettrice nel vissuto di Hana, così che fosse più comprensibile, che colpisse il cuore prima dell’intelletto. Per questo ho preferito la formula del racconto in prima persona, per narrare le vicissitudini con i Da’esh. Spero che chi legge questo libro possa poi sentirsi più simpatetico con i popoli del Medio Oriente».

Lei è insegnante in un liceo, ha mai raccontato quello che ha visto in Kurdistan ai suoi studenti? Quali reazioni ha visto in loro?

«Oltre alla presentazione del libro, ho organizzato una conferenza sugli Yazidi, il genocidio che hanno subito, la schiavitù delle donne. Ho parlato di questi argomenti nella mia e in altre scuole: due ore di conferenza con ragazzi (una volta ne avevo davanti circa 250) assolutamente attoniti, concentrati, commossi. Ho avuto la loro totale attenzione per tutto il tempo e tante domande alla fine, tutte le volte. Penso sia importante parlare ai giovani di questi argomenti, sensibilizzarli, e quando si trovano davanti qualcuno che riporta ciò che ha visto e ascoltato in prima persona, per loro è più coinvolgente».

L.L.