Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo


Un documentatissimo libro-inchiesta sul perché Bill Gates, Warren Buffett, Bill Clinton e Mark Zuckerberg sono i protagonisti della nuova mega filantropia. Il ruolo ambiguo di Bill Gates sul vaccino anti-Covid19

Perché l’élite dell’1% del pianeta, la classe più predatoria della storia umana, è anche la più socialmente impegnata a sostenere cause nobili come salute, educazione, lotta alla fame, con la scusa di cambiare il mondo? Che cosa si nasconde dietro la rinascita della filantropia a vocazione globale? L’impegno sempre più pervasivo dei filantropi è davvero la soluzione alle sfide della contemporaneità o non è piuttosto un ambiguo e problematico effetto delle disuguaglianze strutturali che rendono la nostra epoca la più ingiusta di tutti i tempi? E che cosa è il «filantrocapitalismo», la versione più sofisticata della filantropia che da due decenni domina la scena internazionale e che si consolida oggi nel tempo di Covid19?

Sono queste, e molte altre, le domande che la giornalista Nicoletta Dentico, esperta di salute globale e cooperazione internazionale, affronta nel suo formidabile saggio-inchiesta Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo (Editrice missionaria italiana, pp. 288, euro 20, già in libreria). Si tratta del primo libro in Italia dedicato al tema del filantrocapitalismo, un’abile strategia inaugurata all’inizio del nuovo millennio da una ristretta classe di vincitori sulla scena della globalizzazione economica e finanziaria. Grazie alle donazioni erogate tramite le loro fondazioni in nome della lotta alla povertà questi imprenditori, nuovi salvatori bianchi, hanno cominciato a esercitare un’influenza sempre più incontrollata sui meccanismi di governo del mondo e sulle loro istituzioni, modificandole profondamente. Il tutto, in un intreccio di soldi, potere e alleanze con il settore del business che i governi non sanno più arginare né possono più controllare. Anzi, sono i leader del mondo politico ad accogliere i ricchi filantropi a braccia aperte, ormai, senza più fare domande.

Come è avvenuto in passato con John Rockefeller e Andrew Carnegie, la generosità di chi ha accumulato mastodontiche ricchezze rischia di non essere del tutto disinteressata. «Il Wealth-X and Arton Capital Philantrophy Report 2016 evidenzia come le donazioni dei super-ricchi siano incrementate del 3% nel 2015», scrive Dentico. «Numeri alla mano, il rapporto racconta gli effetti benefici di questa arte della generosità: gli imprenditori che hanno versato almeno un milione di dollari hanno finito per ammassare più profitti dei loro pari di classe».

Di questa realtà di costante accumulazione si nutre l’ottimismo win-win che alimenta il fenomeno filantropico, i cui valori, strumenti e metodi sono inequivocabilmente quelli della cultura di impresa, applicata al mondo dei bisogni umani disattesi. I filantropi, per loro stessa ammissione, puntano a creare nuovi mercati per i poveri. «Funziona così: se i poveri diventano consumatori non saranno più emarginati. E da clienti possono riguadagnarsi la loro dignità». Rispetto alla filantropia classica, il filantrocapitalismo ha assunto dimensioni così pervasive e sistemiche da condizionare la stessa azione degli stati: «Libere da ogni costrizione territoriale, le fondazioni filantrocapitaliste sono riuscite a occupare un campo d’azione sconfinato» si legge nel libro. «Esercitano un ruolo ingombrante nella produzione di conoscenza, nell’affermazione di modelli, nella definizione di nuove strutture della governance globale».

«Il liquido amniotico della filantropia è la disuguaglianza» sostiene Nicoletta Dentico, che nella sua poderosa inchiesta motiva accuratamente le ragioni per cui questa élite si è messa alla testa della battaglia per cambiare il mondo. Invece, «se nel mondo vigesse un’equa distribuzione delle risorse non ci sarebbe tanto spazio per la filantropia», perché non ci sarebbero più i pochi plutocrati che detengono più della metà delle risorse del pianeta. Dentico mette in luce uno degli aspetti più controversi e paradossali del fenomeno: le enormi agevolazioni fiscali di cui godono nel mondo filantropi e fondazioni, anche le più opulente: «Che cosa legittima politicamente l’idea di un incentivo sulle tasse a questi miliardari e alle loro fondazioni? Quali vantaggi ne avrebbe una società, se si utilizzasse invece la tesoreria pubblica, perduta a causa degli incentivi, per produrre il bene comune?».

Il filantrocapitalismo diventa così una strana forma di legittimazione morale, «una valvola di sfogo» tramite cui investire, detassati, i profitti spesso accumulati con flagranti operazioni di elusione o evasione fiscale. Un esempio per tutti: «Nel 2012, un rapporto del Senato americano calcolava in quasi 21 miliardi di dollari la quantità di denaro che Microsoft era riuscita a trafugare nei paradisi fiscali in un periodo di tre anni, grosso modo l’equivalente della metà dell’incasso netto delle vendite al dettaglio negli Stati Uniti, con un guadagno fiscale di 4,5 miliardi dollari annui». Oggi il fondatore di Microsoft, Bill Gates, è la figura preminente e più iconica del filantrocapitalismo, con una fondazione intitolata a lui e alla moglie Melinda che al momento della nascita (2000) disponeva di 15,5 miliardi di dollari per esercitare la propria azione, focalizzata su salute e vaccinazioni, biotecnologie, incremento della produttività agricoltura in Africa (ciò che significa far largo agli Ogm), educazione, finanza. La Fondazione Gates mantiene un forte legame finanziario con aziende assai poco virtuose sul piano dei consumi e della salute, che però garantiscono sicure remunerazioni sull’investimento: ad esempio, investe 466 milioni di dollari negli stabilimenti della Coca-Cola e 837 milioni di dollari in Walmart, la più grande catena di cibo, farmaceutici e alcolici degli Usa.

La Fondazione Gates spicca oggi per l’incontenibile attivismo con cui dirige le attività internazionali nella ricerca di un vaccino anti-coronavirus, con implicazioni non banali data la rilevanza pubblica di un’emergenza mondiale come quella di Covid-19: «Nel 2015, Gates aveva capito che un virus molto contagioso sarebbe arrivato a sconquassare il mondo iperglobalizzato. Sars-CoV-2 è arrivato, alla fine, e il mondo si è fatto trovare del tutto impreparato. L’unico pronto a un simile scenario è stato il monopolista filantropo di Seattle», spiega Dentico: 300 milioni di dollari subito sul piatto da parte della Fondazione Gates (poi saliti addirittura a 530 milioni di dollari), ormai accreditatasi sulla scena della lotta alla pandemia alla pari di istituzioni internazionali come Oms, Banca Mondiale e Commissione europea, un pericoloso precedente nella governance di fenomeni globali – come in questo caso la lotta a una pandemia. Tanto più che «in tutti questi anni, Bill Gates ha molto contribuito al rafforzamento geopolitico di Big Pharma [il cartello composto dalle principali case farmaceutiche mondiali, ndr], erodendo e sottraendo terreno alla società civile in questo duro conflitto politico».

L’implacabile inchiesta di Nicoletta Dentico scruta anche l’azione filantropica di altre figure di imprenditori plutocrati o politici potentissimi diventati improvvisamente «benefattori» globali: Ted Turner, Bill e Hillary Clinton, e i nuovi arrivati sulla scena della filantropia come Mark Zuckerberg. Unico nella sua genesi è il caso della famiglia Clinton, che ha fatto della filantropia globale – tramite la Fondazione Clinton – la via maestra per continuare a esercitare il potere dopo due mandati presidenziali, anche a costo di contraddire l’agenda diplomatica statunitense, nel momento in cui Hillary Clinton è segretaria di stato dell’amministrazione Obama. Molto eloquente a questo riguardo il caso del potentissimo uomo d’affari Frank Giustra che entra nel giro delle estrazioni minerarie in Kazakhstan grazie ai buoni uffici della Fondazione Clinton nel paese centro-asiatico, che gli Stati Uniti hanno stigmatizzato per le sistematiche violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali della persona.

Come scrive Bandana Shiva nella prefazione, «il libro di Nicoletta Dentico arriva al momento giusto, ed è necessario. Sarà una bussola importante per difendere le nostre esistenze e libertà dalle forme della ricolonizzazione variamente avallate dal filantrocapitalismo».

 


I NUMERI E LE CIFRE DA RICCHI E BUONI?

Lotta alla povertà? Basta l’1% del Pil (e meno armi)

«Ho imparato a diffidare dalla narrazione legnosa sulla “lotta alla povertà”. Basterebbe una frazione di quanto si spende in armi, poco più dell’1% del prodotto interno lordo mondiale, per invertire la rotta. (p. 21)

 L’età dell’oro delle Fondazioni filantropiche: una rinascita sospetta nei tempi della disuguaglianza

«Si contano oltre 200.000 fondazioni nel mondo. Sono 87.142 le entità registrate negli Usa. Circa 85.000 in Europa occidentale, e circa 35.000 nell’Europa dell’Est. Si contano circa 10.000 fondazioni in Messico, almeno 1000 in Brasile e 2000 in Cina». (p. 57)

 Bill Gates conta più dell’Onu (in fatto di quattrini)

«Dall’inizio delle attività la Fondazione Bill & Melinda Gates ha mobilitato una massa totale di finanziamenti di 50,1 miliardi di dollari e una capacità di erogazione nel 2018 di 5 miliardi di dollari. Tra il 2013 e il 2015, la Fondazione Gates ha potuto destinare 11,6 miliardi di dollari allo sviluppo globale, più di quanto non riescano a fare le agenzie delle Nazioni Unite». (p. 59)

Gates finanzia l’Oms 24 volte quel che danno i Brics!

«Nel biennio 2010-11 la Fondazione Gates ha versato oltre 446 milioni di dollari all’Oms, più di ogni altro contribuente statale dopo gli Stati Uniti: una cifra 24 volte superiore ai contributo erogati da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica messi insieme». (p. 156)

Se i ricchi pagano meno tasse delle fasce sociali più emarginate

«La ricerca degli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman evidenzia che le 400 famiglie più ricche d’America hanno pagato nel 2018 un’aliquota effettiva del 23%, cioè un punto percentuale in meno di quello versato dalle famiglie delle fasce sociali meno abbienti (24,2%)». (p. 98)

Pagare le tasse? Anche no (per i super-ricchi)

«In un anno è semplicemente raddoppiato il numero delle mega-imprese che non hanno pagato tasse grazie alle radicali politiche fiscali dell’amministrazione Trump a beneficio dei ricchi e delle aziende private. Sono 60, alla fine del 2019. Tra i titani esentasse si contano Amazon, Netflix, Ibm, Chevron, Ely Lilly, Delta Airlines, General Motors e Goodyear». (p. 99)

La «podium economy» di Bill Clinton

«La professione di conferenziere segna la fortuna dell’abilissimo oratore che, liberatosi dalla Casa Bianca, cominciò a battere il circuito dei più prestigiosi eventi internazionali con esiti finanziari sbalorditivi: 105,5 milioni di dollari raccolti per sé in dieci anni, dal 2002 al 2012». (p. 230)

Zuckerberg, il generosissimo che non paga le tasse

«Ispirata dalla nascita della prima figlia, la coppia Mark e Priscilla Zuckeberg ebbe a comunicare la costituzione della Chan Zuckerberg Initiative, una fondazione nuova di zecca con cui s’impegnavano a destinare nientemeno che il 99% della ricchezza accumulata nel corso della vita a finalità benefiche – circa 45 miliardi di dollari, al valore corrente di Facebook. […] Il gruppo di Zuckerberg ha avuto un’aliquota fiscale media dell’1% nei paesi extra Ue in cui ha operato». (p. 265)


L’AUTRICE

 Nicoletta Dentico, giornalista, è esperta di cooperazione internazionale e salute globale. Dopo una lunga esperienza con Mani Tese, ha coordinato in Italia la Campagna per la messa al bando delle mine vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 1997, e diretto in Italia Medici Senza Frontiere (MSF) – premio Nobel per la Pace nel 1999 – con un ruolo di primo piano nel lancio e promozione della Campagna internazionale per l’Accesso ai Farmaci Essenziali. Co-fondatrice dell’Osservatorio Italiano sulla Salute Globale (Oisg), ha lavorato a Ginevra per Drugs for Neglected Diseases Initiative (DNDi) e poi per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). Più di recente è stata per alcuni anni responsabile della sezione internazionale della Fondazione Lelio Basso. Dal 2013 al 2019 è stata consigliera di amministrazione di Banca Popolare Etica e vicepresidente della Fondazione Finanza Etica. Dalla fine del 2019 dirige il programma di salute globale di Society for International Development (SID).

Lorenzo Fazzini – Ufficio stampa EMI
Verona, 16 ottobre 2020




Tre libri sul futuro prossimo e su quello possibile

Globali e monastici


a cura di Sante Altizio |


Dalla Cina delle nanotecnologie alla vicenda di Silvia Romano, passando per le regole (economiche, oltre che spirituali) dei santi Francesco e Benedetto. Tre libri che raccontano quanto la storia a volte corre più veloce del calendario.


Red mirror

Le cose accadono, ma, a volte, corrono a velocità doppia. «Red Mirror» di Simone Pieranni (La Terza, 2020), è il nostro punto di partenza.

Pieranni (autore di diversi articoli per MC, ndr) è un giornalista che ha vissuto in Cina, la visita e continua a studiarla. Ha fondato un’agenzia di comunicazione con gli occhi puntati su Pechino, «China files», che da anni informa in modo puntuale e originale su quell’importante area del mondo.

Con Red Mirror, 224 pagine dense come marmellata di fichi, Pieranni apre la finestra su una realtà che fatichiamo ancora a mettere a fuoco: lo sviluppo cinese della nano tecnologia, della realtà aumentata, dell’intelligenza artificiale. Ciò che qui pensiamo sia futuro, lì è presente. Il nostro futuro esiste già e lo stanno vivendo, in anteprima, centinaia di milioni di persone a otto ore di aereo da noi.

È tutto talmente già avviato, consolidato e acquisito, che la Cina non è più il luogo dove si copia la tecnologia occidentale, ma il mercato dove gli occidentali scoprono (e comprano) le ultime novità hi tech.

Il riferimento alla quasi omonima serie tv, Black Mirror, è tutto meno che casuale, perché il saggio di Pieranni parte proprio dall’oggetto che è diventato la nostra protesi naturale: lo smartphone.

In Cina, se vuoi condurre un’esistenza quotidiana normale, devi scaricare sullo smartphone (Huawei, ma non solo, i colossi da quelle parti sono tanti) WeChat, un’app che si è trasformata in browser e con la quale puoi fare tutto. «Tutto» in senso stretto, non in senso lato. Anche l’elemosina.

Ovviamente con tutto il corollario di controllo sociale, che in Cina è vissuto con meno ansia rispetto a noi.

Strano? Folle? No. È il nostro futuro prossimo.


Meno è di più

L’Europa non è più il centro del mondo e, in attesa che il futuro prossimo cinese arrivi, è importante fare i conti con il presente di casa nostra, con la crisi strutturale che ci perseguita dal crollo della Lemann Brothers, e capire se e come possiamo costruirci un domani migliore.

Un’analisi molto intrigante arriva dal giornalista economico Francesco Antonioli. Per la rinnovata Edizioni Terra Santa, guidata ora dalla brava Roberta Russo, ha scritto Meno è di più (2020), con un sottotitolo che la dice lunga: Le Regole monastiche di Francesco e Benedetto per ridare anima all’economia, alla finanza, all’impresa e al lavoro.

La premessa di Antonioli è semplice: o ripensiamo l’economia, o implodiamo.

L’idea nasce dalle parole e dai documenti di papa Francesco, che hanno, va da sé, una matrice religiosa, ma indicazioni profondamente laiche.

Dobbiamo costruire un’economia di socialità che, con meno impatto, crei più ricchezza. Intendiamoci: nulla a che vedere con la «decrescita felice» che qui viene smontata grazie alle parole di Stefano Zamagni, economista da sempre attento alle dinamiche dell’economia globale e alla difesa di chi ne subisce gli effetti deleteri.

Ma come costruire questo diverso cammino? Riprendendo in mano le regole di San Francesco e San Benedetto.

Il terzo capitolo, solo per fare un esempio, s’intitola «San Francesco precursore di Steve Jobs?». Il secondo, invece, individua nella regola benedettina la guida perfetta per formare il management, costruire un’efficace policy aziendale, migliorare la qualità del prodotto, coinvolgere i dipendenti nelle scelte imprenditoriali.

Può sembrare un gioco provocatorio, ma non lo è: i monasteri dei secoli intorno all’anno Mille erano fabbriche, aggregazione, centri di pensiero e cuore dell’economia.

In quelle regole c’è il segreto per ripartire, per ri-animare l’economia mettendo al centro l’uomo.

Antonioli ha lavorato per lungo tempo al Sole 24 ore, è stato tra i fondatori dell’inserto Nord Ovest, ma ha anche al suo attivo libri su papa Francesco e Piergiorgio Frassati, sulle innovative scelte imprenditoriali di Andrea Illy e, tra non molto, sulla storia della Fondazione Agnelli. Di lui ci si può fidare.


Silvia, Diario di un rapimento

Chiudiamo il cerchio con un instant book che mostra quanto sia aggrovigliato il gomitolo della globalizzazione: Silvia Romano. Diario di un rapimento (2019), di Angelo Ferrari, pubblicato da People, una piccola casa editrice fondata due anni fa da Pippo Civati, Francesco Foti e Stefano Catone, che sta costruendo un catalogo di tutto rispetto.

Angelo Ferrari è stato il giornalista che più da vicino e con maggiore attenzione ha seguito, per il Desk Africa dell’Agenzia Italia, il rapimento in Kenya di Silvia Romano. Il libro, uscito poche settimane prima della liberazione della giovane milanese, è una raccolta dei tanti articoli scritti da Ferrari durante la prigionia della ragazza. Una piccola antologia di articoli che porta in sé, nello scoramento che a volte li pervade sotto traccia, un’ammissione dolorosa: di ciò che capita lontano dal cortile di casa, a noi non importa nulla. Silvia è stata rapita, separata dai suoi affetti per un tempo che le sarà sembrato eterno; è tornata (per fortuna) cambiata (poteva essere altrimenti?), e tutti ne hanno parlato, ma le ragioni che stanno a monte dell’esperienza di Silvia pochi le hanno indagate.

Angelo Ferrari fa parte di un piccolo collettivo di giornalisti italiani che si chiama Hic sunt leones, l’Africa che non ti immagini (www.dallapartedinice.org) che prova a far breccia nel nostro muro d’indifferenza. Per fortuna non demordono.

Tra il miracolo tecnologico cinese, la crisi d’identità dell’economia occidentale e il rapimento di una ragazza italiana in Kenya, un filo sottile che percorre le tre storie c’è: il mondo è globale, ma il centro della globalizzazione non è più qui.

Assistere da spettatori passivi è una pessima idea.

Sante Altizio




«Vola solo chi osa farlo»

L’ultimo volo

Il nuovo coronavirus si è portato via anche Luis Sepúlveda, grande scrittore cileno di origine mapuche (da parte di madre), attivista politico e ambientalista appassionato. Oggi, in molti sostengono che questa straordinaria emergenza mondiale potrebbe diventare un’opportunità per un nuovo inizio. Lo speriamo. Come sempre, dipenderà dagli uomini e dalle loro scelte. In una delle sue opere più popolari – Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare – Sepúlveda immagina una metafora partendo dal «volo». Lasciamo da parte le nostre paure sulle diversità, cerchiamo di volare alti e di sovvertire il pensiero comune per costruire qualcosa di bello. Un anelito di ottimismo in un’epoca d’oscurità.

Paolo Moiola


Morto per il Covid-19 lo scorso 16 aprile, lo scrittore e attivista cileno mapuche era molto amato in Italia. Dagli adulti, ma anche dai più giovani.

«Rimasi con il popolo Shuar nella selva amazzonica. Durante tutto quel tempo mi accettarono come uno di loro, anche se ero totalmente diverso. La cosa straordinaria fu che mi accettarono proprio per questo, perché ero diverso. Da loro appresi la lingua e il rispetto per i delicati equilibri di Madre Terra». Così diceva Luis Sepúlveda quando ricordava la sua esperienza nell’Amazzonia ecuadoriana insieme ai popoli indigeni.

Il grande scrittore e attivista cileno ci ha lasciato il 16 aprile 2020, a causa del Covid-19. Era nato a Ovalle, una città a Nord di Santiago, in Cile, il 4 ottobre 1949. Da ragazzo leggeva romanzi di avventura di Cervantes, Salgari, Conrad, Melville e la vocazione letteraria si manifestò già al liceo di Santiago quando iniziò a pubblicare poesie sul giornalino dell’istituto. A diciassette anni iniziò a lavorare come redattore del quotidiano Clarín e poi in radio. Nel 1969 vinse il Premio Casa de Las Américas con la raccolta di racconti «Crónicas de Pedro Nadie». Poi giunsero gli anni della militanza totale. Il 4 settembre 1970 Salvador Allende venne eletto presidente e la società cilena iniziò a rialzarsi. Sepúlveda durante quei mille giorni del goveno di Allende partecipò alla democratizzazione del paese. Nel 1973 entrò a far parte della struttura militare del Partito socialista e divenne membro dei Gap, la guardia personale di Allende, ma l’11 settembre 1973 ci fu il colpo di stato militare di Augusto Pinochet. Venne instaurata la dittatura. Luis venne arrestato e torturato. Trascorse sette mesi in una cella piccolissima ove era impossibile stare in piedi o sdraiati. Anche la sua compagna, la poetessa cilena Carmen Yáñez, sposata nel 1971, subì la sua stessa sorte e subì come lui indicibili torture. Sepúlveda venne scarcerato grazie alle forti pressioni di Amnesty International che lanciò una serrata campagna per la sua liberazione. Dopo quasi tre anni di carcere, «con molti denti in meno e cinquanta chili di peso», se ne andò a Valparaíso, ove riscoprì la sua passione per il teatro e si dedicò a rappresentazioni clandestine contro la dittatura. Avrebbe raccontato tutto in «Storie ribelli». Erano tempi durissimi durante i quali in Cile vi furono tanti desaparecidos. Venne arrestato una seconda volta e la giunta militare lo processò ufficialmente condannandolo ad un’ergastolo che poi, su pressione di Amnesty International, fu commutata nella pena di otto anni d’esilio. Trascorse circa due anni e mezzo in carcere. Il 17 luglio del 1977 gli fu permesso di lasciare il Cile. Rimase per poco tempo in Argentina, poi passò in Brasile e quindi arrivò a Quito, in Ecuador. Qui entrò in contatto con una realtà che avrebbe influenzato molto la sua opera letteraria, ma anche la sua attività di militante e strenuo difensore della natura. Partecipò, infatti, a una spedizione dell’Unesco ed ebbe così l’opportunità di vivere per sette mesi nella selva amazzonica con il popolo indigeno shuar. Gli Shuar (o Jívaro) si ubicano nella regione orientale dell’Ecuador e in una parte nel Perù settentrionale, sui pendii delle Ande. Il termine Jívaro (Jibaro) in realtà è dispregiativo, perché significa «barbaro». Essi si autodefiniscono Nijínmanya Shiwiár (ossia Shuar) che, nella loro lingua, significa «popolo». Vengono chiamati anche «i difensori della natura» e hanno resistito nei secoli sia al dominio dell’Impero Inca che a quello degli spagnoli. Attualmente si ritrovano a lottare per la difesa del proprio territorio e della propria cultura, contro l’occidentalizzazione e l’espansione delle multinazionali. Proprio basandosi sui ricordi della convivenza con loro, Luis Sepúlveda nel 1988 avrebbe scritto «Il vecchio che leggeva romanzi d’amore», che divenne il suo maggiore successo internazionale. Una volta, durante una lunga intervista, volle ricordare il tempo trascorso con gli Shuar e a questo proposito raccontò: «Quando scrissi “Il Vecchio che leggeva romanzi d’amore” usai molti elementi autobiografici perché la mia esperienza amazzonica era stata come un’iniziazione, l’introduzione a un mondo sconosciuto. [In quella spedizione] eravamo in otto, ma dopo due settimane rimasi l’unico a non essermi ammalato. Perciò, gli altri se ne andarono, ma io decisi di rimanere. Non sapevo bene dove andare, ma mi dissi che volevo conoscere l’Amazzonia. Così rimasi da solo. All’inizio gli Shuar non si avvicinavano, però ogni giorno mi lasciavano acqua, frutta e carne di scimmia per sopravvivere. Poi si ritiravano nella foresta. Un giorno venni morso da un serpente. Sapevo che era velenoso, ma per fortuna il cinturino del mio orologio in parte mi protesse. Tagliai col machete la testa del serpente e corsi subito dagli indigeni. Mentre gliela mostravo sentii che avevo già la vista annebbiata e persi conoscenza. Quando mi risvegliai erano trascorsi sette giorni. Gli indigeni mi avevano curato con le loro potenti conoscenze di erbe mediche e mi salvarono la vita. Così venni integrato nel loro mondo e vi rimasi sette mesi».

Nel 1979, Sepúlveda andò in Nicaragua dai sandinisti che decisero di accettare nelle loro file alcune centinaia di esuli cileni che avevano chiesto di unirsi alla guerra di liberazione. Poi andò in Europa, ad Amburgo. Due anni dopo divenne uno dei più noti corrispondenti della stampa tedesca sulle imprese di Greenpeace, attraversando i mari per quattro anni. Nacquero tanti libri tra i quali: «La frontiera scomparsa», «Patagonia express», «Appunti dal Sud del mondo», «Incontro d’amore in un paese in guerra», «Le rose di Atacama», «La gabbianella e il gatto» e «Il mondo alla fine del mondo», romanzo sullo scempio del pianeta in nome del profitto, ambientato in buona parte nella terra che più amava: la Patagonia. Quando qualcuno gli chiedeva il motivo della sua scrittura, Luis Sepúlveda diceva: «Dallo scrittore brasiliano Guimarães Rosa ho imparato che raccontare è resistere e su questa barricata della scrittura io resisto agli assalti della mediocrità planetaria, alla mostruosa proposta unica di esistenza e cultura che incombe sull’umanità alla svolta del millennio. Per questo scrivo, per la necessità di resistere davanti all’impero dell’unidimensionalità della negazione dei valori che hanno umanizzato la vita e che si chiamano fraternità, solidarietà, senso di giustizia. Scrivo per amore delle parole che amo, e per l’ossessione di dare un nome alle cose a partire da una prospettiva etica, ereditata da un’intensa pratica sociale. Scrivo perché ho memoria, e la coltivo scrivendo della mia gente, degli abitanti emarginati, dei miei mondi emarginati, delle mie utopie derise, dei miei gloriosi compagni e compagne che sconfitti in mille battaglie, si rialzano e continuano a prepararsi per le prossime battaglie senza avere paura».

Luis Sepúlveda è stato un latinoamericano coraggioso e coerente che ha fatto della lingua la sua patria. Ci lascia un’opera preziosa nella quale ha scritto sugli «scartati», sui mondi emarginati, sulle utopie e sulla speranza di un mondo migliore che non morirà mai.

Antonella Rita Roscilli

 




Heineken in Africa

testo di Chiara Brivio |


Il libro inchiesta del giornalista Olivier van Beemen

Un giornalista olandese alla scoperta degli affari africani, non sempre limpidi, di una delle multinazionali più conosciute e amate del suo paese.

Olivier van Beemen, ha dedicato sei anni a investigare il giro d’affari in Africa di una delle più grandi multinazionali della birra al mondo: l’olandese Heineken. Un’azienda dalla reputazione impeccabile, con 165 birrifici in 70 paesi, i cui profitti nel continente superano del 50% la media dei suoi profitti nel mondo, che considera l’Africa, per bocca del suo stesso amministratore delegato Jean-François van Boxmeer, «il segreto meglio custodito dell’imprenditoria internazionale».

Inviato dal quotidiano olandese «Financieele Dagblad» a seguire la Rivoluzione dei gelsomini in Tunisia nel 2010, van Beemen ha scoperto per caso alcuni legami tra il gigante della birra e un uomo d’affari vicino all’ex dittatore Ben Ali.

Da lì ha avuto inizio una lunga inchiesta che ha portato a risultati sconcertanti: in diversi paesi africani van Beemen ha portato alla luce casi di collusione, corruzione, abusi sessuali, prostituzione, elusione fiscale, violazione dei diritti umani, nei quali sarebbe coinvolta la Heineken. Fino al genocidio ruandese del 1994, nel quale, secondo la ricostruzione fatta dall’autore, la multinazionale della birra avrebbe avuto un ruolo importante.

La sua inchiesta è confluita in un libro, Heineken in Africa. La miniera d’oro di una multinazionale europea, pubblicato recentemente in Italia da ADD editore (Torino 2020, pp. 336, euro 16,00). In esso l’autore solleva molti dubbi sul ruolo di Heineken che dichiara di essere un forte agente di sviluppo in molti paesi africani, ma anche sulle multinazionali che operano nel continente in generale.

Abbiamo intervistato il giornalista in occasione dell’uscita dell’edizione italiana.

Perché ha scelto Heineken per la sua inchiesta?

Foto Dingena Mol

«È stato in Tunisia che è iniziato tutto, quando ho scoperto che lì Heineken aveva intrapreso una collaborazione con un membro del clan familiare dell’allora dittatore Ben Ali. Sono rimasto scioccato dal fatto che una multinazionale di quel calibro potesse mentire così apertamente: Heineken infatti negava di aver mai fatto affari con qualcuno che facesse parte di quel clan, mentre in realtà era il contrario e aveva legami con la dittatura.

Successivamente ho scoperto che Heineken aveva un enorme giro d’affari in Africa e che possedeva birrifici in diversi paesi. Il mio stesso governo negli anni ha elargito a Heineken milioni di euro dei contribuenti olandesi sotto forma di sussidi, perché crede che l’azienda contribuisca allo sviluppo in Africa.

Ho pensato che sarebbe stato interessante approfondire se veramente Heineken aiuta lo sviluppo.

Attenzione agli spoiler: è vero il contrario».

Il consumo di birra in molti paesi dell’Africa è molto elevato. Come mai?

«Molte società africane hanno delle tradizioni birraie che risalgono a tanti secoli fa. Le birre locali hanno una percentuale di alcool del due o tre per cento, e hanno come base il sorgo, la cassava, il miele e altri ingredienti. La birra a volte svolge anche un ruolo importante nei rituali e nelle cerimonie. Ciò significa che l’Africa è un mercato molto allettante per l’industria della birra occidentale, che fa di tutto per spingerne il consumo.

La misura standard di una bottiglia nella maggior parte dei paesi africani è di 60 cc (ad esempio in Nigeria) e di 75 cc (in Sudafrica).

I consumatori bevono facilmente anche cinque, sei, persino dieci bottiglie al giorno.

Senza dimenticare che Heineken e i suoi concorrenti sono riusciti con successo a trasformare le loro birre in uno status symbol. Per esempio, lo slogan del marchio Mützig, di proprietà di Heineken, è «il gusto del successo». Così fa credere agli africani che, bevendo birre occidentali, faranno parte di una nuova classe media. La conseguenza di tutto questo è che molti spendono i loro guadagni comprando birra, invece di prodotti più utili».

Come lei sottolinea nel libro, è molto difficile giudicare il ruolo che le multinazionali hanno nello sviluppo in Africa. Da una parte creano lavoro, costruiscono infrastrutture, collaborano con le Ong. Dall’altra, invece, sono coinvolte con i governi locali, spesso dittature, e sembrano sottrarre risorse a questi paesi già in difficoltà. C’è una via d’uscita?

«Penso che le aziende, incluse le multinazionali, possono ricoprire un ruolo positivo in Africa. Ma è importante anche guardarle con occhio critico, senza sottovalutare i loro slogan.

Queste aziende cercano il profitto, e non c’è niente di male in questo, ma oggi, sempre più, vogliono convincerci che sono loro la soluzione per un mondo migliore. Vogliono farci credere che sono genuinamente preoccupate per l’ambiente e per l’umanità.

Per chi lavora per queste compagnie, può essere vero, ma un’azienda non è la stessa cosa della somma degli individui che ci lavorano. Risponde a delle sue dinamiche interne e, alla fine, si tratta sempre di generare profitti.

Quindi penso che i governi e le Ong non dovrebbero collaborare con loro, perché il ruolo dei governi e delle Ong è quello di stabilire le regole e di controllare che le aziende le rispettino.

Oggi questo non succede. In particolare, nei paesi in via di sviluppo, praticamente non esiste un sistema di controllo ed equilibrio.

Le multinazionali pagano i media locali perché scrivano storie di successo, e sono riuscite a convincere sia i governi che le Ong che siglare delle collaborazioni con loro per un obiettivo comune sia cruciale per il progresso di quei paesi. Penso che questo sia molto pericoloso.

Per fare solo un esempio che riguarda Heineken: l’azienda si è impegnata ad acquistare per 10 anni il 60% delle sue materie prime da produttori e agricoltori africani. A livello di pubbliche relazioni è stata un’incredibile storia di successo, e ha permesso a Heineken di ricevere aiuti sia dal governo tedesco che da quello americano. Ma i progetti agricoli sono falliti, e l’anno scorso Heineken ha comprato solo il 37% da fornitori locali, cioè meno di quello che acquistava all’inizio del progetto.

Normalmente nessuno va a controllare queste cose, e anche dopo che la storia è stata smascherata, l’azienda continua a presentarla come un successo».

Perché Heineken ha risposto alla sua inchiesta solo nel 2018, dopo l’uscita della seconda edizione? Forse perché sapeva che il libro sarebbe stato pubblicato in vari paesi del mondo e temeva per la propria reputazione? Ci sono state delle conseguenze per Heineken a seguito del libro?

«All’inizio Heineken aveva deciso di non cooperare con me in alcun modo. In realtà poteva essere una buona strategia, perché alcuni lettori avrebbero potuto pensare che i miei scritti fossero solo una parte della storia, anche se io ho presentato la versione dell’azienda attraverso interviste e documenti interni.

Invece per il secondo libro (giunto alla quinta edizione nei Paesi Bassi, nda), che è stato tradotto in diverse lingue, Heineken ha adottato una strategia più “seducente”. Sono stato invitato a una cena, la quale sicuramente si sarebbe tenuta in un ristorante di lusso di Amsterdam, ma io ho rifiutato, dicendo che avrei preferito prendere un caffè nella loro sede centrale.

Il libro ha avuto delle serie conseguenze per Heineken: una banca olandese ha deciso di disinvestire dall’azienda e il Fondo globale contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria, che ha il supporto anche della Bill & Melinda Gates foundation, ha sospeso la sua collaborazione».




Guardare le cose da dentro

testo di Chiara Brivio |


La fragilità umana nelle canzoni di un artista, l’esperienza della conversione al cristianesimo da altre tradizioni millenarie. I temi dei due libri di questo mese sono diversi tra loro, ma uniti dalla narrazione interiore ed esistenziale di persone singolari che condividono la loro esperienza.

Abbi cura di me

«Abbi cura di me» è un libro profondo, una «biografia spirituale» del poliedrico artista Simone Cristicchi, balzato alla ribalta per la sua vittoria a Sanremo nel 2009 con la canzone Ti regalerò una rosa, dedicata ai «matti».

Il volume, scritto con il giornalista Massimo Orlandi e uscito per le edizioni San Paolo, è un grande viaggio nella vicenda artistica, umana e spirituale del cantautore romano. Dalle sue pagine emerge un uomo inquieto, curioso, impegnato soprattutto a indagare le profondità della fragilità umana.

Il libro segue il tortuoso percorso dell’artista dall’adolescenza al primo Sanremo, i periodi di crisi e quelli di intensa produzione creativa (gli esordi nel fumetto, il cantautorato e, oggi, gli spettacoli teatrali di successo), fino alla creazione di una famiglia e al suo ritorno alla kermesse canora nel 2019.

Fil rouge di tutto il percorso artistico di Cristicchi è il suo rifiuto di piegarsi alle logiche commerciali del mercato discografico, e la sua volontà di mantenere la propria libertà artistica, un fatto quasi paradossale se si pensa che fu proprio la canzone su Biagio Antonacci – un’amara riflessione sul mondo della musica che tende a trasformare tutto in «tormentoni estivi» – a renderlo famoso.

Massimo Orlandi, già autore, alcuni anni fa, di una biografia su Gino Girolomoni (La terra è la mia preghiera. Vita di Gino Girolomoni, padre del biologico, Emi, 2014) e legato da una personale amicizia con l’artista maturata alla Fraternità di Romena, compone un testo fluido e scorrevole con uno stile quasi lirico che ben si addice al contenuto.

Lo scopo del volume non è quello di essere il mero racconto della vita del cantante, né di celebrarne i successi, ma di portare alla luce la sua profonda ispirazione spirituale e umana.

Emergono dalle pagine aspetti poco conosciuti della vita del cantante. Questi mostrano che la sua attenzione ai reietti della società, ai dimenticati dalla storia, ai profeti incompresi, non è unpretestuoso escamotage, ma invece una necessità primaria del suo cammino artistico – «ciò che gli interessa è l’uomo», scrive Orlandi -.

Così i matti, un eretico del Medioevo, il coro dei minatori della Maremma o gli esuli della città di Fiume, solo per citare alcuni antieroi di Cristicchi, diventano gli strumenti attraverso i quali il cantautore dona «voce a chi non ce l’ha», in un intento, se non dichiaratamente evangelico, sicuramente umano.

Il pregio migliore di Abbi cura di me – il cui titolo, oltre a riprendere la canzone che Cristicchi ha portato a Sanremo lo scorso anno, dà il nome alla recente raccolta dei suoi maggiori successi -, sta proprio nell’aver voluto far emergere le fragilità dell’artista, le sue difficoltà e i suoi dissidi interiori, che forse sono proprio la chiave del suo successo e della sua capacità di «rivolgersi in modo diverso a ogni unicità».


Dal silenzio una voce

Tiziano Tosolini è un missionario saveriano che da più di vent’anni vive in Giappone. Autore di numerosi saggi, esperto di filosofia orientale, è direttore del Centro studi asiatico di Osaka, istituto fondato dalla sua congregazione nel 1999, a seguito della pubblicazione dell’esortazione Ecclesia in Asia, che si occupa dello studio dei fenomeni sociologici e religiosi nel continente asiatico.

Il suo ultimo libro Dal silenzio una voce. Esperienze di conversione nell’Asia di oggi, pubblicato da Emi in occasione del viaggio di papa Francesco in Thailandia e Giappone lo scorso autunno, raccoglie diciannove storie di conversione da cinque paesi dell’Asia, e dalle più importanti tradizioni religiose dell’Oriente: buddhismo, shintoismo, induismo, islam.

Le testimonianze, raccolte dai missionari saveriani in Taiwan, Indonesia, Bangladesh, Giappone e Thailandia, si contraddistinguono sia per la varietà di condizione delle persone coinvolte, sia per la diversità dei modi nei quali ciascuna ha scoperto la fede, sia per l’impatto che la conversione ha avuto sulla loro vita quotidiana.

L’accostamento di storie di banchieri, diplomatici e insegnanti da una parte, con quelle di «scapestrati» e, soprattutto dei «fuoricasta» (Dalit) dall’altra, dà una certa dinamicità al libro, soprattutto perché l’autore affida ai testimoni stessi le redini della narrazione, lasciando che la loro neonata fede emerga attraverso la spontaneità delle loro parole.

S’incontrano così storie di disarmante semplicità – «Mi sono allontanato dalle mascalzonate e dalla cattiveria. Rifiutavo ormai le vecchie abitudini. Alla fine, hanno capito che era stata la mano di Gesù a cambiarmi e a farmi diventare un altro» -, e di grande profondità: «Questo è ciò che ritengo davvero incredibile e meraviglioso: servire i poveri è servire Dio! E questo è ciò che mi rende libero».

Il volume porta la prefazione del cardinale Gokim Tagle di Manila, recentemente nominato da papa Francesco prefetto del Dicastero per l’evangelizzazione dei popoli, il quale sottolinea quanto «l’approdo al battesimo non significa il rifiuto sprezzante né l’abiura violenta del proprio passato religioso». Piuttosto, la conversione lascia aperta la porta alla valorizzazione dell’eredità spirituale di ciascuno, sempre nella «gioia», sottolinea il porporato, che il Vangelo porta nella vita delle persone.

Questo di Tosolini è un libro semplice nella sua stesura, che racconta di contesti e tradizioni lontane da quelle europee, e che narra della silenziosa, ma altrettanto preziosa, presenza della Chiesa cattolica in Asia.

Tiziano Tosolini presenta il suo libro alle serate di testimonianza missionaria all’Oasi dell’OMG (© AfMC/Gigi Anataloni)




Libri: Contro la mentalità predatoria

yesto di Chiara Brivio |


Cosa può accomunare un libro sull’Amazzonia a un altro sulla prostituzione? La denuncia di quella mentalità che considera l’ambiente, da un lato, e la donna, dall’altro, non come un dono da custodire, ma come una preda da possedere e usare a proprio piacimento. Lo sfruttamento dell’Amazzonia, come quello delle donne va fermato.

Anche quando si leggono due libri con temi apparentemente molto lontani tra loro, si possono trovare interessanti assonanze, e una certa comunanza di ideali e di visione di fondo.

Questo mese vi parliamo di due libri che portano l’attenzione sull’Amazzonia sfruttata e depredata, come le tante donne che la abitano, da una parte, e sulle tante ragazze gettate nelle nostre strade e costrette a vendersi per sopravvivere, dall’altra. Due facce di un’unica visione distorta e malata della società – come spesso ci ricorda papa Francesco -, basata sullo sfruttamento dei deboli e degli indifesi.

In questi testi si ritrovano anche esempi di lotte edificanti, di tentativi di riconoscimento e di riscatto delle donne, che offre uno scorcio di speranza, molto spesso nutrita dagli sforzi e dall’impegno della Chiesa.

Frontiera Amazzonia

«Frontiera Amazzonia. Viaggio nel cuore della terra ferita» è il racconto dei viaggi che Lucia Capuzzi e Stefania Falasca, due firme del quotidiano «Avvenire», hanno compiuto nella foresta amazzonica attraverso quattro dei nove paesi che la ospitano. Pubblicato da Editrice Missionaria Italiana in occasione del Sinodo per l’Amazzonia dello scorso ottobre, il libro narra di un viaggio che vuole raccogliere l’eredità e, idealmente, continuare quello iniziato da papa Francesco a Puerto Maldonado, Perù, nel gennaio 2018.

«Frontiera Amazzonia» è un libro interessante già per il modo in cui è strutturato, perché ogni capitolo è dedicato a una particolare «ricchezza» dell’Amazzonia: oro, legname, coca, petrolio, esseri umani; tutte risorse che sono anche la sua maledizione, portando nella foresta miniere illegali, tratta di persone, disboscamento.

Il quadro che emerge da questo appassionato reportage non è affatto roseo, anzi.

A prima vista potrebbe indurre il lettore a pensare che un’inversione di tendenza per il nostro «polmone verde» non sia nemmeno immaginabile (siamo al 20% del disboscamento, gli scienziati hanno stimato che il punto di non ritorno si aggiri intorno al 40%), soprattutto nell’era del governo di Jair Bolsonaro in Brasile. Tuttavia, come spesso accade, la speranza viene dalle donne, vere protagoniste di questo libro.

Abusate e vittime di soprusi come la loro terra – «l’Amazzonia è una donna, una donna stuprata», scrivono Capuzzi e Falasca nell’introduzione -, sono impegnate nella lotta e nella difesa dei loro diritti, nonché nel mantenimento del delicato equilibrio ecologico del loro territorio. Figure fiere e forti, sono suore, contadine, leader indigene come Nemo, del popolo degli Waorani, che lotta contro i «rapinatori della terra» che inquinano il territorio con l’estrazione del petrolio. O come Marcivana Sateré Mawé, leader del Copime (Coordinação dos povos indígenas), che ci ricorda che, oltre alle multinazionali, sono in primis i pregiudizi a dover essere estirpati: «La gente non può concepire che l’indio oggi possa andare al college, che sia dottore, avvocato, insegnante. L’indio sa che cosa vuole. Vogliamo essere noi stessi e mantenere viva la nostra cultura per le generazioni future».

Sono vittime dell’estrattivismo e di quel «capitalismo rapace» e «usa e getta» che «produce scarti», come più volte denunciato da papa Francesco.

Sono rappresentanti di una condizione femminile che si rispecchia anche nel ruolo che ricoprono all’interno della chiesa locale, come suggerisce padre Enrico Uggè, missionario del Pime in Amazzonia: «Non si tratta di “supplenze”. Il futuro di una chiesa che rimane e cresce passa per il cuore di queste donne. E laggiù in Vaticano dovrebbero considerare anche loro e tenere conto del ruolo centrale che oggi svolgono nella chiesa amazzonica». Da leggere la prefazione del cardinale Cláudio Hummes, relatore speciale al Sinodo panamazzonico.

Donne crocifisse

«Qualsiasi forma di prostituzione è una riduzione in schiavitù, un atto criminale, un vizio schifoso». Pesano come macigni le parole di papa Francesco nella sua prefazione al volume di don Aldo Buonaiuto, «Donne crocifisse. La vergogna della tratta raccontata dalla strada», uscito per Rubbettino.

Buonaiuto, sacerdote, membro della Comunità Papa Giovanni XXIII, esorcista, da anni in prima linea contro lo sfruttamento, ha voluto raccogliere nel libro le numerose storie di quelle «sorelline» – come le chiamava il fondatore della Comunità, don Oreste Benzi – che ha incontrato sulle strade nel corso degli anni. Storie di violenza, di soprusi e di sfruttamento raccolte dalla voce delle tante, troppe, ragazze che finiscono costrette sui marciapiedi delle nostre città.

I dati che Buonaiuto cita nella prima parte del volume, un’accurata analisi del fenomeno sulla strada e online, sono impressionanti: in Italia le schiave del sesso sono circa 120mila, il 37% delle quali minorenni. Il 36% del totale proviene dalla Nigeria. Un giro d’affari che, a livello globale, si aggira sui 186 miliardi di dollari all’anno.

L’autore del libro pensa che l’unica soluzione sia una riforma della legislazione italiana, sul modello di Svezia e Francia dove viene punito il cliente invece della prostituta, producendo un capovolgimento di prospettiva che riconoscerebbe alle donne il loro status di vittime di sfruttamento e che in quei paesi ha portato a una drastica diminuzione della domanda.

Il libro è una risposta chiara a tutti coloro che vorrebbero riaprire le case chiuse, o che la pensano come il governatore di una ricca regione italiana che recentemente ha dichiarato che chi si fa complice dello sfruttamento di queste ragazze è «una persona che ha qualche necessità fisiologica».

Le vere protagoniste di questo volume sono, comunque, le testimonianze delle vittime sotto forma di lettere. Esse raccontano di un destino comune: la fuga dalla povertà, la promessa (fasulla) di un lavoro in Europa, la schiavitù – termine che ricorre spesso nel libro – per le strade.

Tra queste donne c’è Mary, «ex bambina soldato abituata a difendersi da sola e soprattutto a lottare per sopravvivere», che non sopporta il pianto dei bambini perché le ricordano sua figlia, partorita in agonia dietro un cespuglio, sotto gli occhi di tutti, e lì spirata dopo pochi istanti. C’è Stefania, bulgara, che davanti al presidente Mattarella, nonostante la sordità che la affligge per le torture subite, si è appellata a tutti i «clienti», dicendo: «Sappiano che stanno sbagliando». C’è Blessing, nigeriana, che, alla richiesta di don Buonaiuto di mostrarle il braccio nascosto sotto la giacca intrisa di sangue, raccontò che un cliente «dopo averla pagata le bloccò il braccio incastrandole la mano nella portiera per riprendersi il denaro e scappare».

Leggendo questo libro viene da chiedersi perché ancora ci siano così tanti uomini nel nostro paese (le stime parlano di tre milioni di clienti) che desiderano di abusare di queste donne, obbedendo a quella «mentalità patologica» a cui fa riferimento papa Francesco nella sua prefazione.

Sarebbe necessaria una «conversione» da parte loro, una conversione che li spinga, come faceva don Benzi, a domandare: non «quanto vuoi?», ma «quanto soffri?».




Il lavoro nella bibbia e la voce delle donne

Testi di Chiara Brivio


I libri che vi suggeriamo questo mese riguardano entrambi la riflessione sulle Sacre Scritture, ma con due approcci ben distinti tra loro. Da una parte è il lavoro come opera umana e divina il fulcro dell’analisi dell’autore, l’economista Luigino Bruni. Dall’altra è il ruolo delle donne nella Chiesa di Francesco, quello attuale e le sue prospettive future, affrontato dalla giornalista Sabina Caligiani attraverso le voci di 17 donne, tra le quali eminenti teologhe e ricercatrici.

L’arca e i talenti

L’Arca e i talenti. Quel che dice la Bibbia sul lavoro è un bel libro, un breve saggio, chiaro e scorrevole, su quello che le Sacre Scritture hanno da dire circa l’operare con le nostre mani, il lavoro e l’economia.

Non stupisce che a scriverlo sia stato uno degli economisti più noti in Italia, Luigino Bruni, professore di Economia politica all’Università Lumsa di Roma, editorialista di «Avvenire», saggista, coordinatore internazionale del progetto Economia di comunione (edc-online.org).

Il libro, edito da San Paolo, concentra la decennale riflessione di Bruni sull’economia e sulle relazioni sociali, e su come questi due temi possano essere illuminati dal messaggio della Bibbia, testo fondamentale e fonte di speranza e di sorpresa anche per l’uomo di oggi costretto a vivere in un mondo dominato da un capitalismo rapace e alienante.

Ripercorrendo le pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento, Bruni attua una vera e propria mappatura dei libri biblici e delle parabole più famose, riportandone in vita le narrazioni e contestualizzandole nel nostro tempo. Così nel confronto tra le storie di Noè e di Babele, ritroviamo la contrapposizione tra un lavoro di cooperazione «buono» ed edificante che porta alla costruzione dell’Arca, e un lavoro «cattivo», quello degli ingegneri e dei muratori di Babele, che porta all’innalzamento della famosa torre.

«Ci sono lavori che è bene che vadano dispersi», scrive Bruni, «i lavori creati oggi dai potentissimi imperi delle mafie, della pornografia, dell’azzardo, delle imprese che avvelenano, delle guerre, della prostituzione, dobbiamo continuare a disperderli». Ci sono gli schiavi di ieri e quelli di oggi, i domini (anche economici) che continuano a generare sfruttamento, i faraoni dell’antico Egitto paragonati ai moderni dirigenti e manager che «aumentano stress e malessere nei luoghi di lavoro».

I paragoni proposti da Bruni possono, a prima vista, sembrare azzardati, ma non lo sono affatto, e anzi contribuiscono a orientare la riflessione sul valore intrinsecamente umano del lavoro e delle relazioni tra gli uomini che lo svolgono.

Così Bruni ritrova nei libri di Isaia e Geremia alcune delle pagine più belle ed edificanti sull’operare con le mani: «Dio ci attende nelle botteghe, manovrando il tornio dal suo banco di lavoro», e si spinge a dire che alcuni versetti del libro del Qoelet dovrebbero essere affissi «all’ingresso di tutte le business schools, imprese, banche».

Gli ultimi capitoli del libro sono dedicati alle parabole più conosciute (e forse più interpretate) del Nuovo Testamento, tra le quali quella del figliol prodigo, quella dei talenti, del buon samaritano, interpretate anche alla luce di nuovi studi biblici («che in un libro sul tema del lavoro nella Bibbia può valere la pena almeno conoscere»). Così il figliol prodigo diventa il migrante moderno che lascia la casa paterna e si ritrova a svolgere i lavori più umili, e scopriamo che il racconto del buon samaritano ha ispirato le teorie del premio Nobel per l’economia Amartya Sen sulla giustizia come equità e imparzialità.

L’Arca e i talenti è un libro semplice che fa riflettere sulle condizioni del lavoro di ognuno di noi, forse «meno divino» di quello raccontato dalle Sacre Scritture, e sulla possibilità di considerarlo, come farebbe San Francesco, un «fratello lavoro», capace di generare relazioni di cooperazione e amicizia.

 


La voce delle donne

Le diciassette voci raccolte dalla giornalista Sabina Caligiani e pubblicate nel volume La voce delle donne. Pluralità e differenza nel cuore della Chiesa, recentemente uscito per le edizioni Paoline, sono le voci di teologhe, filosofe, sociologhe, bibliste, storiche dell’arte, laiche e religiose, che hanno focalizzato la loro ricerca, in un modo o nell’altro, sul ruolo e sul contributo delle donne nella Chiesa, soprattutto nella Chiesa di Francesco.

Nell’introduzione al volume, Caligiani dice di essere stata ispirata dal libro di Beate Beckmann Zöller, Frauen bewegen die Päpste: Hildegard von Bingen, Brigitta von Schweden, Caterina von Siena, Mary Ward, Elena Guerra, Edith Stein, su quanta influenza le donne del passato ebbero nelle gerarchie ecclesiastiche storiche, e di come posero le basi per la «costruzione di una “teologia al femminile”». Dalla lettura di quel libro è nata l’idea di raccogliere alcuni contributi sui nostri giorni di donne che si trovano ad affrontare gli stessi problemi e le stesse questioni del passato.

Le voci che ne emergono non sono un unisono, anzi, alle volte sono molto discordanti tra loro, riflesso di modi diversi di vivere la propria «missione» all’interno della comunità secondo il carisma e la sensibilità di ciascuna.

Un filo comune tuttavia c’è: la ricerca di nuovi modelli e prospettive per la costruzione di una nuova «teologia al femminile». Ciò che non viene negato è l’indiscusso, ma forse poco conosciuto, contributo delle donne nella storia della chiesa, ma da tutte le interviste emerge, più o meno marcatamente, che soltanto con l’accesso delle donne alle facoltà teologiche sancito dal Concilio Vaticano II si è avuto un vero punto di svolta nello studio e nella riflessione biblico-teologica.

Le dissonanze si sentono su altre questioni: se da una parte le riflessioni di studiose e teologhe del calibro di Cettina Militello, Adriana Valerio, Cristina Simonelli, Marinella Perroni e Serena Noceti puntano l’attenzione sugli stereotipi di genere, sull’emarginazione delle donne, sul «femminismo come onda d’urto», sull’antropocentrismo e sull’«esercizio diffuso del potere maschile», sia a livello politico che ecclesiale, affrontando anche di petto la questione del gender (inteso come genere) e le relazioni di potere uomo-donna (modelli e paradigmi che continuano a essere perpetuati), dall’altra, i toni di Mery Melone, di suor Marcella Farina, tra le altre, si fanno più pacati e più in linea con l’idea del «genio femminile» della Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II.

Diverse e molteplici sono anche le considerazioni sull’istituzione del diaconato femminile, per il quale, ad esempio, Serena Noceti si dichiara a favore perché introdurrebbe un «necessario riequilibrio con la figura del prete nella comunità».

Nonostante l’intento del libro non sia quello di fornire una summa sulla discussione in atto nella Chiesa circa la teologia femminile e femminista, ma piuttosto di stimolare una discussione sul tema, l’assenza di una conclusione comune sembra indebolire il volume lasciandolo in una certa misura irrisolto.

Dal libro, tuttavia, emerge un’opinione condivisa e una speranza che il futuro potrà essere più «roseo» per le donne in questa Chiesa di Francesco, e la necessità di una comunione di visioni, nel rispetto delle differenze individuali di ciascuna, che possa costituire un «approccio fecondo» alla discussione.




Libri: Superare i Confini

Testp di Chiara Brivio |


Tre volumi scritti con tre stili, metodi, culture di provenienza differenti. Da una giornalista cattolica, un antropologo e un eclettico intellettuale. Tre testi che parlano di confini: quelli attraversabili dei missionari, quelli sempre in fase di assestamento delle comunità in cerca di identità, quelli che vengono di volta in volta aperti e poi ricostruiti dal tiremmolla tra il potere e la libertà.

Ci sono diversi modi di descrivere i «confini»: possono essere fisici, psicologici, emotivi, immaginari o reali. Abitualmente si tracciano per separare un fuori da un dentro, un di là da un di qua, per fermare dall’altra parte quello che non vogliamo con noi, ad esempio quelle persone che preferiamo non avere nella nostra comunità, nel nostro paese.

I tre libri di questo mese affrontano il tema dei «confini» da punti di vista diversi: da quello di una chiesa, quella missionaria, che aspira all’universalità, e per questo i confini li valica; da quello delle nuove «comunità», altrimenti dette community, che sembrano ignorare completamente i confini in un’epoca nella quale stanno rifiorendo le comunità chiuse; infine da quello di chi vede nei confini creati dal potere un ostacolo alla libertà umana e creativa.

Dove solo l’anima arriva

La giornalista Monica Mondo, conduttrice della fortunata trasmissione Soul su Tv2000, ha raccolto 15 interviste a missionari e missionarie che negli anni sono stati ospiti del suo programma. Le testimonianze sembrano convergere su una domanda chiave: «Che cosa vuol dire fare missione oggi, soprattutto in territori dove la chiesa va completamente rifondata?».

Tra essi c’è chi costruisce interi villaggi, come Pedro Paolo Opeka – vincenziano «carpentiere» che è stato visto a fianco di papa Francesco nella sua recente visita ad Antananarivo, capitale del Madagascar -; chi porta avanti una «intifada dei rosari» tra Israele e Cisgiordania, come suor Donatella Lessio; e c’è chi, come il missionario Fabio Mella, ha portato il cantautore Enzo Jannacci a visitare i boat people, persone senza diritti che vivono su imbarcazioni di fortuna nella baia infestata dai liquami di Hong Kong.

Ma ci sono anche intellettuali e teologi – dal domenicano inglese Timothy Radcliffe al neo cardinale e poeta portoghese José Tolentino Mendonça -, a testimonianza del fatto che la missione si può fare sia «stando là», anche a rischio della propria vita, sia stando «qua», cercando di instaurare un dialogo con laici, non credenti e coloro che si sono allontanati dalla chiesa.

Forse la cosa più curiosa che emerge da questi racconti, a tratti coloriti e divertenti, spesso tragici e commoventi, preceduti dalla prefazione di Paolo Ruffini, prefetto del dicastero vaticano per la Comunicazione, è il ruolo del film di Franco Zeffirelli sulla figura di Francesco d’Assisi, simbolo di povertà radicale. Molti degli intervistati hanno, infatti, dichiarato che fu proprio quella pellicola a confermare e rafforzare la loro vocazione.

Quelli raccontati da Monica Mondo sono uomini e donne che costruiscono ponti, superando ogni confine, come dice uno dei protagonisti: «Dobbiamo essere ponti e non muri. Ponti fra popoli, ponti fra chiese, ponti fra culture».

Comunità

Marco Aime è uno degli antropologi più famosi in Italia, nonché uno dei più prolifici. Questo suo breve e agile saggio, pubblicato dalla casa editrice bolognese Il Mulino, esplora il concetto di comunità dal punto di vista sociologico, antropologico e storico, spiegando come si sia passati dalle «antiche» comunità alle community online del nostro tempo.

Se la caduta del muro di Berlino nel 1989, era forse stato l’emblema della dissoluzione dei confini, oggi, con l’avvento dell’epoca dei Trump e dei Salvini con i loro «prima noi» (americani o italiani che siano), c’è stato un pericoloso ritorno alla paura del diverso, dell’altro, all’ansia generata dall’apparente disgregazione di antiche comunità, spesso puramente immaginarie (à la Benedict Anderson).

Aime fa notare che il paradosso odierno risiede proprio nel rafforzamento di quell’idea di «comunità chiuse» nell’era della globalizzazione e della rete, dove i confini sono stati virtualmente cancellati. L’antropologo ne rintraccia le cause nel passaggio dalla società contadina a quella industriale, con l’avvento del capitalismo che ha monetizzato e commodificato il tempo, fino all’arrivo delle società liquide della rete dove la tecnologia ha annullato questo concetto, rendendoci sempre reperibili e contattabili, nonché sempre più soli.

Il problema fondamentale è che non esiste più il luogo «fisico» dell’incontro, anima dell’essere umano come animale sociale, ma spesso solo quello virtuale. Quanto ha influito questo sulle relazioni sociali? Molto, secondo l’antropologo. Il quale teorizza una fine alquanto funesta per le comunità di oggi, se non saranno in grado di rimettere al centro le relazioni umane, a partire dalle famiglie stesse. «Forse sarà proprio dal nostro spirito di sopravvivenza che nasceranno nuove forme di convivenza, capaci di abbattere e superare certi confini», chiosa l’autore. Non abbiamo quindi che da sperare.

Smurare la libertà

Wole Soyinka è un intellettuale nigeriano, drammaturgo, scrittore, poeta e saggista premio Nobel per la letteratura nel 1986. Il suo volume L’uomo è morto? Smurare la libertà, edito da Jaca Book, raccoglie tre dei suoi testi scritti in diversi momenti sul tema della libertà. I primi due sono il discorso dello scrittore al Nobel del 1986 e un saggio del 1988 sul teatro nelle culture tradizionali africane. Entrambi già pubblicati negli anni ’80. Il terzo, invece, è un inedito intitolato Smurare la libertà, inizialmente scritto del 2004 e successivamente rimaneggiato.

Il filo rosso che lega le parti del libro è quello della libertà:

  • la libertà dal razzismo e dall’apartheid nel discorso di Stoccolma, dedicato a Nelson Mandela;
  • la libertà di espressione artistica scevra da ogni «colonizzazione della mente» nel secondo testo sul teatro;
  • la libertà contro il potere nel terzo testo che contiene una forte critica anche alle religioni cristiana e islamica.

In Smurare la libertà, fulcro della riflessione di Soyinka è il rapporto tra Potere e Libertà (entrambi maiuscoli nel testo): «Il Potere ama i confini. Il Potere si manifesta all’interno di confini, viene esercitato nell’ambito di territori in qualche modo delimitati». Un potere che lotta per la conquista di tutti i territori, spirituali, fisici e corporei, secondo una logica di assoggettamento e asservimento, in un chiaro richiamo all’epoca coloniale. Per il drammaturgo nigeriano ci sono state due cadute negli ultimi decenni che simboleggiano la lotta tra potere e libertà: quella del muro di Berlino nel 1989, che ha visto trionfare la libertà, e quella delle torri gemelle nel 2001, che ha visto prevalere il potere facendo ripiombare il mondo nella paura, dividendolo tra «credenti infedeli» e tra «alleati o terroristi», tra i Bin Laden e i Bush dell’epoca.

Come uscire dalla paura? Come liberarsi dal dominio del potere, esercitato con terrore e violenza? Soyinka non ha una risposta, se non quella di continuare a lottare contro il sistema che vuole «riabilitare questa mentalità fanatica […] dell’Altro violento, dell’Altro suprematista, intollerante, fascista, apocalittico».




Comprendere l’Islam

testo di Chiara Brivio


Nato 14 secoli fa, l’islam presenta oggi forme diverse. Di solito facciamo l’errore di non darci il tempo per capire la sua complessità e di pensare di poterlo ridurre a pochi concetti. Ma l’islam non è una realtà monolitica, al suo interno ci sono correnti, dottrine, modi di vivere la religione diversissimi tra loro. Entrare in dialogo con i suoi fedeli è la strada maestra. Ne parliamo con il domenicano Adrien Candiard, studioso di islam residente in Egitto.

Adrien Candiard, domenicano francese, classe 1982, è una delle giovani voci più interessanti della Chiesa di oggi. Oltre a essere un apprezzato autore di spiritualità (in Francia i suoi libri hanno ottenuto numerosi riconoscimenti), è anche un esperto di teologia islamica impegnato «sul campo» nel dialogo interreligioso.

Dopo gli studi in scienze politiche alla prestigiosa Sciences Po di Parigi, entrato nello staff di Dominque Strauss-Khann per le primarie socialiste in vista delle presidenziali francesi del 2006, lo lascia in corsa a causa di posizioni divergenti sui temi etici.

In quello stesso anno entra nell’Ordine domenicano e oggi vive al Cairo dove insegna all’Ideo, l’Istituto domenicano di studi orientali.

L’abbiamo intervistato a partire da due sue recenti volumi usciti in Italia per l’Editrice missionaria italiana: Pierre e Mohamed. Algeria, due martiri dell’amicizia, titolo anche di uno spettacolo teatrale in scena in questi giorni in diverse località italiane, e Comprendere l’islam. O meglio, perché non ci capiamo niente, un breve e interessante saggio sui pregiudizi, le fake news e le nostre incomprensioni rispetto alla religione musulmana.

Il suo libro Comprendere l’islam parte da un paradosso. Lei scrive: «Più lo si spiega, meno lo si capisce». Perché è così difficile comprenderlo? È vero che non esiste un «unico islam»?

«Non lo possiamo comprendere perché l’islam è una realtà molto complessa. È una realtà sociale, intellettuale, religiosa nata 14 secoli fa in un territorio amplissimo, e che nel tempo ha preso forme diverse. Noi molto spesso non vogliamo prenderci il tempo di capire questa complessità, vorremmo poterla spiegare con pochi concetti. Infatti l’errore che di solito facciamo è quello di considerare l’islam una realtà unica, monolitica, quando invece al suo interno ci sono correnti, dottrine, modi di vivere la religione diversissimi tra loro e che vediamo manifestarsi molto bene oggi nella crisi che l’islam sta attraversando. Parte di queste difficoltà sono causate dalle divergenze tra gli stessi musulmani».

Di recente ha affermato che «prendersi il tempo di ascoltare i nostri vicini musulmani sulla loro fede è un modo per fare esperienza dell’islam». Lei pensa che nell’Europa di oggi, dove soffiano pericolosi venti nazionalisti e sovranisti, si possa superare la reticenza nell’ascoltare, comprendere e accettare chi ha una cultura, una lingua o una religione diversa?

«Nella Bibbia l’espressione “non abbiate paura” è ripetuta oltre 365 volte, forse perché per l’essere umano è normale avere paura. La paura dell’islam, dell’immigrazione, dei cambiamenti che stiamo vivendo in tutta Europa, sono normali, ma non dobbiamo disprezzare chi prova questi sentimenti, al contrario, dobbiamo prenderli sul serio. Queste paure vanno comprese, non devono però dominarci né dettare ciò che pensiamo, per questo è importantissimo incontrare persone diverse, fuori, per vedere che non sono soltanto dei musulmani, ma che hanno tante altre caratteristiche, e che alla fine sono degli esseri umani come noi. Quando si ha la possibilità di fare amicizia, e questo si può fare, non si vede solo un musulmano, si vede un’altra persona. Poi magari si scopre che le nostre paure erano un po’ troppo generiche».

Perché nel suo libro e spettacolo teatrale Pierre e Mohamed ha scelto di raccontare l’amicizia tra il vescovo di Orano in Algeria e il suo autista Mohamed, uccisi insieme nel 1996 da una bomba dei fondamentalisti islamici?

«La loro mi sembrava una bella storia che ci parla di amicizia. Secondo me l’amicizia è una virtù anche cristiana – non solo, ma anche cristiana – ed è ciò che rende possibile l’incontro tra le religioni. A questo proposito: spesso mi viene chiesto se è possibile un dialogo tra le religioni. Io rispondo di no, che il dialogo si stabilisce tra le persone, non tra le religioni. Questa storia di amicizia mi sembrava un bel simbolo da proporre in questi tempi. Ce n’è più che mai bisogno».

Riguardo alla presunta incompatibilità tra islam e democrazia, in Comprendere l’islam lei afferma che «come per ogni trasformazione di grande entità, essa ha bisogno di discussione, le cui conclusioni non possono essere scritte in anticipo». Ce lo può spiegare meglio?

«Mi viene in mente spesso una teoria che è stata popolare in Francia fino al 1945 e che riguardava i tedeschi. Si diceva che era impossibile per loro, a causa della loro germanicità, vivere in uno stato democratico. Poi si è visto che questa germanicità non impediva il processo democratico, anzi. Secondo me non esistono delle impossibilità strutturali essenziali. È ovvio che nelle culture islamiche, che tra l’altro sono diverse tra di loro, ci sono degli ostacoli nei confronti della democrazia, tuttavia questi sono ostacoli umani. Le evoluzioni sono possibili, le abbiamo viste in quasi tutti i paesi musulmani nel ‘900, quando sono nate legislazioni civili, parlamenti, anche se forse in poca democrazia. Guardiamo per esempio alla Tunisia di oggi, che si sta inventando un modello di democrazia in un paese arabo islamico, pur con tutte le difficoltà del caso. Vedremo come questo modello si evolverà».

Da dove viene il terrorismo islamista?

«Il fenomeno del terrorismo non può essere spiegato del tutto solo dalla teologia, perché non è solo un fenomeno religioso, ma anche dalla psicologia, dalla geopolitica e da altre discipline. Però dal punto di vista religioso l’islam di oggi sta attraversando una grave crisi di legittimità. Nell’islam sunnita le autorità tradizionali vengono messe in discussione da un movimento di riforma chiamato salafismo, che è nato nell’800 ma che ha trovato slancio nel secondo ‘900 e che sta creando una fortissima destabilizzazione. Il terrorismo è anche conseguenza di questo».

Il documento sulla fratellanza umana firmato da papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyib, grande imam di Al-Azhar, durante il viaggio del santo padre negli Emirati Arabi Uniti, è considerato da molti un documento epocale in termini di apertura e dialogo tra cristiani e musulmani. Che valore ha questo documento e come è stato ricevuto in Egitto, dove lei risiede?

«È un documento molto importante non tanto per il suo contenuto, ma per il fatto di essere stato scritto a quattro mani da due autorità, una cristiana e una musulmana. È una cosa nuova e molto bella che ci dimostra che questo dialogo è possibile. In Egitto è stato preso molto sul serio, e il grande imam l’ha fatto leggere e studiare a tutti i suoi allievi, che rappresentano milioni di persone. Penso comunque che ci vorrà del tempo per comprendere a fondo le conseguenze e le implicazioni del documento».

Chiara Brivio


Comprendere l’islam

Dall’11 settembre l’islam è stato analizzato in centinaia di testi. I talk show ci bombardano di pareri e opinioni. Spesso la discussione pubblica viaggia sulla strada della semplificazione. E semplificare una religione che coinvolge oltre un miliardo di persone non le rende giustizia.

Adrien Candiard, che l’islam lo studia da anni abitando in terra islamica, ci consegna in queste pagine una fotografia più realistica di cosa sono e di cosa significano gli islam: quello sciita, quello sunnita e quello di altre minoranze.

Candiard smaschera tanti pregiudizi e ci apre a un dialogo intelligente insegnandoci il rispetto per la pluralità.

Il libro: Adrien Candiard, Comprendere l’islam. O meglio, perché non ci capiamo niente, Emi, Verona 2019, pp. 128, 13 Euro.

da emi.it


Pierre e Mohamed

Due amici: Pierre Claverie, un vescovo cattolico, Mohamed Bouchikhi, un giovane musulmano. Il primo ha scelto di restare in Algeria per testimoniare Cristo dentro la violenza del terrorismo. Il secondo ha deciso di diventare il suo autista. Intorno a questi due personaggi, reali come la vita e la morte, infuria la guerra civile: siamo nell’Algeria degli anni Novanta, 150mila morti ammazzati nello scontro fratricida fra integralisti islamici e militari.

Le due voci sono quelle del vescovo Pierre che resta a fianco del suo popolo come chi rimane «al capezzale di un fratello ammalato, in silenzio, stringendogli la mano». Per questo motivo oggi la chiesa lo riconosce martire. E dell’autista Mohamed, ben consapevole del rischio, che resta accanto all’amico cristiano in pericolo di vita. Fino alla fine, fino a quel drammatico 1° agosto 1996.

Il libro: Adrien Candiard, Pierre e Mohamed. Algeria, due martiri dell’amicizia, Emi, Verona 2018, pp. 88, 9,50 Euro.

Da questo libro è stata tratta una pièce teatrale replicata 1.400 volte in 7 diversi paesi del mondo. Da settembre 2019 lo spettacolo è anche in Italia.

da emi.it

 




Tra diritto e non diritto

Testo di Chiara Brivio


Immigrazione, sovranismo, razzismo, opinione pubblica, rapporto tra cristiani e politica. In un recente convegno presso la fraternità di Romena, il giornalista de «La Stampa» ha offerto un’analisi di alcuni dei temi più caldi della nostra Italia e del mondo odierno. Con il suo tono «apocalittico» tenta di rompere il silenzio e l’apparente indifferenza dell’opinione pubblica sulla deriva del discorso politico nei riguardi della dignità delle persone.

Nostro malgrado viviamo in un tempo nel quale espressioni come «migranti», «porti chiusi», «diritto di emigrare» (presunto o negato), «accoglienza», sono parti integranti della narrazione della nostra realtà quotidiana, non solo italiana, ma mondiale.

Lo stesso papa Francesco è tornato su questo tema firmando il 13 giugno scorso La speranza dei poveri non sarà mai delusa, il messaggio per la III Giornata mondiale dei poveri che si celebrerà il 17 novembre.

Nel messaggio, il pontefice evidenzia ancora una volta come «si possono costruire tanti muri e sbarrare gli ingressi per illudersi di sentirsi sicuri con le proprie ricchezze a danno di quanti si lasciano fuori. Non sarà così per sempre. Il loro grido (dei poveri, ndr) aumenta e abbraccia la terra intera. Come scriveva don Primo Mazzolari: “Il povero è una protesta continua contro le nostre ingiustizie; il povero è una polveriera. Se le dai fuoco, il mondo salta”».

Far saltare il mondo dei poveri

È stato proprio questo «far saltare il mondo» dei poveri e dei migranti il fulcro di un intervento del giornalista Domenico Quirico a un recente convegno della fraternità di Romena1 sul tema dell’accoglienza.

L’inviato de «La Stampa» – noto per i suoi reportage e articoli dalle zone più calde del mondo, rapito e tenuto prigioniero in Siria per cinque mesi nel 2013 -, a partire da uno dei suoi ultimi libri, Esodo. Storia del nuovo millennio, edito da Neri Pozza, ha proposto una riflessione a 360 gradi su alcune delle questioni più pressanti del nostro tempo: immigrazione, sovranismo, razzismo, rapporto tra giornalismo e opinione pubblica.

L’Esodo

Esodo è il racconto del viaggio che il giornalista ha intrapreso con i migranti sulle rotte verso l’Europa – quella africana, quella balcanica e quella dell’enclave spagnola di Melilla in Marocco -, che l’ha portato ad attraversare il Mediterraneo su un barcone, a rischiare di naufragare, e a essere salvato dall’intervento della guardia costiera italiana.

Parte del racconto è anche l’approdo a Lampedusa, dove il fatto di possedere il passaporto italiano ha significato uno spartiacque tra lui (che è potuto tornare alla propria identità e alla propria vita), e gli altri: «Il migrante è la personalità più straordinaria del XXI secolo – ha detto Quirico a Romena -. Non ha nulla, non ha passato, non ha presente, non ha futuro. Ha fatto saltare i confini nel secolo dei confini».

Il movimento di persone, il flusso enorme che nel continente africano è in moto da generazioni, nel libro del giornalista è descritto anche dalle voci dei compagni di strada: «La migrazione è una religione per noi, siamo tutti migranti, la nostra vita è la migrazione», afferma Nyang, maliano che conta i morti del suo villaggio.

«La speranza è inestirpabile. Perché mai i migranti non dovrebbero fuggire?», scrive Quirico, ponendo una domanda che sembra il rovescio dell’«aiutiamoli a casa loro». Fuggono perché a casa loro la differenza tra essere un «uomo» ed essere un «non uomo» a volte passa dal possesso di un kalashnikov, perché «casa loro» sono paesi nei quali «un passaporto è un’utopia», sono villaggi distrutti dalla guerra o sconvolti dal cambiamento climatico. Fuggono perché non vogliono più subire torture o vederle subite da altri, o essere costretti a farle subire.

Quel che resta è il diritto

«Che cos’è che distingue l’Occidente?», si è domandato Quirico nel suo intervento. «L’invenzione del diritto», è stata la sua risposta: l’idea che l’uomo nasca con dei diritti, come quelli fondamentali alla vita, alla libertà, alla ricerca della felicità. «Ma la ricerca della felicità comprende tutti i paesi, e si può ricercare muovendosi. La gente viene qui per sfuggire alla morte e per cercare la libertà e la felicità».

Ed è precisamente questa libertà di movimento, di superamento delle barriere e dei confini, che rende il migrante «un problema». Egli «ha fatto un gesto rivoluzionario: ha preso un barcone ed è arrivato qui», ha detto il giornalista, ma questo gesto rivoluzionario, che afferma il diritto dell’umanità alla vita e alla dignità, allo stesso tempo è usato dal potere come pretesto per affermare l’inesistenza del diritto, per sperimentare la creazione di una società «illiberale». Anche nelle nostre democrazie occidentali.

I migranti diventano il capro espiatorio, il nemico che non c’è ma che tuttavia deve continuare a esistere per motivare l’erosione dei diritti. Alla fine, ha affermato Quirico in tono apocalittico, «ci troveremo in una società illiberale dove se staremo buoni ci verranno dati dei diritti», proprio come accade già oggi nei paesi dai quali fugge la gran parte dei migranti. «L’unica cosa rimasta su cui bisogna battersi è il diritto. Il mondo oggi è diviso tra diritto e non diritto», tra una sparizione forzata e un processo giusto ed equo sulla base del diritto.

Il fallimento del giornalismo

La disamina di Quirico si è incentrata anche sul ruolo del giornalismo come strumento di comunicazione e di «commozione», e sulla sua (in)capacità di smuovere le coscienze e formare l’opinione pubblica.

«Mi muovo per raccontare la sofferenza altrui – ha affermato -, la sofferenza umana è il materiale su cui costruisco la mia narrazione». Tuttavia, ha continuato, oggi il meccanismo della narrazione della commozione sembra non sortire più alcun effetto: «In Siria ci sono stati 500mila morti in 8 anni, e molti di noi sono morti per scrivere 70 righe per raccontare la vita dei siriani. Risultato? Zero», ha concluso Quirico, non senza un pizzico di rammarico: «I razzisti sono al 50% oggi, nel 2011 erano al 3%. Un fallimento totale».

Una visione della realtà forse troppo negativa, quella del giornalista. Tanto negativa da evocare gli anni ‘30, decennio nel quale opinioni pubbliche sopite e intorpidite, composte da «gente per bene», decisero, «pur di non avere guai», di seguire una minoranza estremista facendola diventare maggioranza. Attenzione quindi a sottovalutare il problema. Attenzione a pensare che i razzismi, i sovranismi e i nazionalismi siano appannaggio di una minoranza. Bisogna mettersi in allerta sullo stato dell’opinione pubblica di oggi a livello globale, e comprendere meglio che «il nostro compito di giornalisti è fare in modo che nessuno possa dire “non sapevo”»: non possiamo non sapere dell’esistenza delle carceri libiche, delle orribili torture che subiscono i migranti, dei naufragi, della disperazione.

Cristiani e politica

A conclusione del suo intervento, Quirico si è, infine, posto una domanda sul rapporto tra i cristiani e il clima politico degli ultimi mesi e anni. Come può un cristiano definirsi tale se non difendendo i valori della carità e dell’accoglienza? Davanti a uno scioccante 30% di cattolici che ha deciso di votare Lega alle recenti elezioni europee, per Quirico la risposta è netta: «O sei cristiano o non lo sei. Chi è razzista non può essere cristiano!».

Note:

1- Sulla fraternità di Romena si veda: Massimo Orlandi, Un porto di terra, MC gennaio 2017.