Storie di civismo e di mal d’Africa

testo di Sante Altizio |


I giornalisti, quelli bravi, raccontano la realtà. Chi andando in giro per l’Italia a scovare (anche nei tempi avversi del Covid) esperienze di r-esistenza civica, chi andando in giro per l’Africa a scovare i meccanismi del neocolonialismo.

Coscienza civica e dove trovarla

Ormai abbiamo capito che la pandemia non ci ha resi migliori e forse è stato un po’ naïf augurarselo. Certo, quando tutto sembra andare male, ha senso sperare che il futuro possa essere radioso dopo una notte buia e tempestosa.

C’è, però, un libro, uscito in giugno con Neos Edizioni e firmato da Gloria Schiavi e Luca Rolandi, che ha il merito di mostrare come la speranza abbia i suoi fondamenti, anche molto concreti. Il libro si intitola Coscienza civica e dove trovarla. Storie da un’Italia che r-esiste, e accende i riflettori su un mondo che, durante i vari lockdown più o meno rigidi di questo ultimo anno e mezzo, sarebbe potuto scomparire e che, invece, ha trovato la forza di resistere. E non solo di resistere, ma addirittura di crescere.

È il mondo delle associazioni, dei movimenti di base, di quei gruppi espressione di «coscienza civica», di attenzione al territorio, alle persone che lo abitano, all’ambiente, ai fenomeni globali.

L’editore racconta così la sua pubblicazione: «Si tratta di un libro inchiesta che racconta trenta storie di cittadinanza attiva e di partecipazione “dal basso”, trenta casi esemplari di coscienza civica, trenta iniziative sparse su tutto il territorio nazionale, da Torino a Roma a Lecce, da Milano a Rimini ad
Accumoli, messe in campo da comuni cittadini che hanno avviato cambiamenti all’interno delle loro realtà e che si battono per il bene comune nelle forme più diverse».

Il sociologo Franco Garelli, al quale è stata affidata la prefazione, le ha definite «storie di ordinario civismo», e di questo infatti si tratta.

Gloria Schiavi e Luca Rolandi sono giornalisti capaci, e hanno costruito un giro d’Italia che apre il cuore alla speranza.

Le trenta storie raccontate sono poco note, ma potenti. Parlano di obiettivi importanti raggiunti nonostante da febbraio 2020 mezzo mondo tenga il fiato sospeso e le porte più o meno serrate. Parlano di «piccole rivoluzioni nate dal basso, magari per rispondere alle difficoltà – dice Neos -. Buone pratiche operose e silenziose, che spesso cadono nell’indifferenza dei media. Questa raccolta di casi e testimonianze vuole portare in primo piano e dare dignità documentaria a quegli alveari innovativi che crescono in Italia: una risorsa di energia costruttiva che mette in moto cambiamenti concreti ed innesca altre azioni positive».

Mal d’Africa

Sollevando lo sguardo al mondo, vale la pena segnalare l’ultima uscita nella collana Orizzonti Geopolitici di Rosenberg & Sellier. Si tratta di Mal d’Africa, volume scritto da Angelo Ferrari e dal compianto Raffaele Masto.

Chiunque abbia l’intenzione di capire lo stato dell’arte del «continente nero» non può fare a meno di misurarsi con questo testo che è a metà strada tra un saggio e un reportage.

Ferrari e Masto sono due firme di gran livello. Il primo è responsabile del desk esteri dell’agenzia Agi, il secondo, che, purtroppo, ci ha lasciati nel maggio del 2020, è stato, per «Radio Popolare», uno dei più attenti osservatori sul campo delle «cose africane»
(cfr Librarsi di giugno).

La forza di Mal d’Africa è l’assenza di retorica e di parole d’ordine. C’è in esso, piuttosto, una lettura attenta della realtà, complessa, ricca di distinguo, che il continente sta vivendo.

La tesi che sottende al lavoro di Ferrari e Masto è questa: sebbene il Pil africano sia quasi ovunque in crescita, la percentuale di abitanti che sopravvivono con meno di 2 dollari al giorno continua a essere enorme. E questo perché l’Africa continua a essere vista (e usata) dai potenti di turno come un serbatoio dal quale attingere materie prime a basso costo e al quale vendere prodotti finiti a costi molto più alti.

L’Africa esporta materie prime e importa prodotti finiti pagando il dazio due volte.

La trasformazione avviene altrove, il lavoro è eseguito altrove. Nessuna ricaduta economica sul territorio. E senza ricadute, nessuna speranza di creare un’economia capace di formare una borghesia con potere d’acquisto, una classe dirigente non corrotta, uno sbocco reale di progresso diffuso.

Con modalità profondamente diverse rispetto al passato, il colonialismo è tornato di gran moda (ammesso che sia mai finito per davvero). La Cina, prima di tutto, poi Russia, Turchia e i paesi del Golfo Persico sono i nuovi attori che hanno scelto l’Africa come terra di conquista economica.

A loro si sommano quelli «storici»: Francia, Stati Uniti, Germania, Italia.

L’Africa è un forziere straordinario, in grado di sostenere a basso costo le nostre catene produttive e agroalimentari. Prendiamo il fenomeno del land grabbing: faccio un accordo (farlocco, che dura un’eternità) con un governo (che corrompo), nel quale si stabilisce che un pezzo di terra (tendenzialmente enorme) diventa mio e ci coltivo ciò che voglio o vi estraggo qualche minerale prezioso. Il frutto di quel raccolto, ovviamente, prende la strada del mio paese.

I cinesi, sovente, fanno arrivare in Africa dalla madre patria anche la manodopera, per tenere i costi vicini allo zero.

C’è questo, ma anche molto altro, in Mal d’Africa: dalle ipocrisie occidentali, alle responsabilità di una classe dirigente africana senza scrupoli. E un occhio attendo alle persone, al miliardo di cittadini africani che subiscono questo meccanismo disumano e che spesso, se possono, tentano la via dell’emigrazione verso quei luoghi che sono all’origine della loro fuga. E lo fanno sapendo che sarà un viaggio illegale e molto pericoloso, nel quale perdere la vita è una possibilità concreta, da mettere in conto.


Adotta un libro

Per chiudere, una nota leggera: Effatà Editrice ha varato l’iniziativa «Adotta un libro! Un libro in omaggio per salvarlo dal macero». Chi acquista un libro dal catalogo dell’editore cattolico di Cantalupa (To), potrà scegliere uno dei volumi pubblicati negli ultimi anni che non hanno trovato «casa» e sono destinati alla distruzione.

Per info: www.editrice.effata.it

Sante Altizio




Ministeri e montagne


Il ministero della Cultura ha lanciato un portale streaming per la cultura italiana: itsart.tv. Intanto nel cuneese, un produttore e regista di cinema indipendente, porta nelle piazze a bordo della sua Renault4 un film su un amico di Boves che vive la sobrietà in modo radicale.

itsart.tv

Da fine giugno l’italia è diventata tutta «zona bianca». La campagna vaccinale sta funzionando, si torna lentamente alla «normalità».

Anche il mondo delle sale cinematografiche, che da qualche settimana ha riaperto i battenti dopo un anno di stop, prova a rialzare la testa.

A fine maggio, aveva ripreso l’attività meno del 50% delle sale italiane (500 su 1.250), ma è il confronto del box office di quest’anno con quello di due anni fa a fare impressione. Il bimestre aprile-maggio 2021 ha segnato incassi per circa 3 milioni e mezzo di euro e poco meno di 600mila spettatori; nel 2019, nello stesso periodo, gli incassi superavano i 52 milioni di euro e le presenze sfioravano gli 8 milioni. Un abisso che gli interventi governativi faticheranno a colmare.

In questo contesto, ancora inevitabilmente segnato dai cambi di abitudini ai quali ci ha costretto l’emergenza sanitaria, vale la pena segnalare la nascita di ItsArt, quella che è stata soprannominata, forse un po’ troppo frettolosamente, «la Netflix della cultura italiana».

Si tratta del nuovo portale streaming annunciato nell’aprile del 2020 dal ministro della Cultura Dario Franceschini che, di fronte al lockdown e alla conseguente esplosione della fruizione online di tutto il fruibile, ha dato il via al progetto.

Sgombriamo subito il campo da un equivoco. La piattaforma streaming che si trova all’indirizzo www.itsart.tv, non assomiglia a Netflix.

Non è una app che ti apre le porte di una library alla quale accedi senza limiti con un canone mensile, ma una piattaforma sulla quale ci si registra gratuitamente (anche con il profilo Facebook o l’account di Gmail) e tramite cui si può accedere a un catalogo di contenuti: gratuiti, gratuiti con pubblicità, a noleggio e, infine, da acquistare e scaricare.

Il catalogo è diviso in tre macro sezioni: «Palco», dedicato al teatro, «Luoghi» focalizzato sui musei, «Storie», sul cinema d’autore italiano.

Non mancano gli eventi musicali in esclusiva: da Emma Marrone a Claudio Baglioni.

Per il momento non è un catalogo amplissimo, soprattutto nella sezione cinematografica.

La piattaforma però è interessante, e copre un vuoto di mercato, che è giusto sia stato colmato dal ministero.

C’è anche da dire che una fonte autorevole come la rivista Wired, che il mondo digitale lo segue e lo conosce davvero bene, non è stata tenera con ItsArt. La critica maggiore riguarda la scelta del socio da parte del ministero per realizzare il progetto, cioè ChiliTv (un privato che ha già una piattaforma on demand) e non la Rai, che con la sua RaiPlay ha un know how più che collaudato e affidabile. La critica è sensata. Qualche perplessità c’è anche sui prezzi, non proprio bassissimi, sia per i noleggi che per gli acquisti.

Al netto delle critiche, però, oggi esiste un luogo sul web dove poter trovare un catalogo tutto focalizzato sul «petrolio italiano»: la cultura.

I prossimi mesi ci diranno se il pubblico gradisce e se il progetto di Dario Franceschini ha colpito nel segno.

«Grazie al cielo»

In questo periodo così liquido (per dirla alla Bauman), anche per il cinema, vale la pena segnalare l’uscita dell’ultimo film del cuneese Remo Schellino, classe 1965. S’intitola «Grazie al cielo» e Schellino, che lo ha scritto e prodotto, lo racconta così: «Quella che racconto è la storia di Franco Dalmasso detto “Politica”, un uomo che ha fatto una scelta. Da 1978 fino al 2019 ha vissuto a ridosso di una casa tra i boschi di Cerati a Boves, nel cuneese, senza corrente elettrica, gas e televisore. L’acqua la prendeva alla sorgente e il fuoco lo teneva perennemente acceso. Si era sistemato utilizzando solo l’esterno di una casa, il cortile, il portico e il balcone dove dormiva tutto l’anno. «Mi piace addormentarmi quando fa buio – afferma nel film – e svegliarmi con il chiarore dell’alba e guardare il cielo».

Un pacifista, uomo di montagna, militante politico negli anni ’70 e ’80. Un orto ben coltivato, una vasta conoscenza di tutte le proprietà delle erbe spontanee che usa per curarsi i piccoli malanni stagionali. Legge, si informa dei fatti del mondo tramite una radio alimentata a batterie sempre sintonizzata su Radio Popolare di Milano.

Le poche volte che scendeva a Boves, si recava in biblioteca per il prestito di libri. Franco tende a precisare: «Non sono un guru, per nulla, non mi atteggio a maestro e, come diceva Socrate, so di non sapere. Ho ancora molte cose da imparare».

«Ho conosciuto Franco nel giugno 2012 – racconta il regista Remo Schellino -, e da allora siamo diventati grandi amici e i nostri incontri sono diventati lunghe chiacchierate che ho registrato e filmato sino al 2019 quando si è trasferito in un’abitazione di amici in una frazione di Boves.

Abbiamo fatto anche molte lunghe camminate nel bosco durante le quali lui mi insegnava le varie proprietà curative di determinate erbe spontanee. Si parlava di politica, del senso della vita, della morte e di come lottare per un mondo a dimensione di uomo.

Dal suo saper ascoltare; dalla sua capacità di raccontarsi e di raccontare il vissuto della sua vita scavando dentro l’animo umano e lasciando piano piano affiorare i sentimenti veri; e dal nostro girovagare tra gli alberi, è nato il film Grazie al cielo».

Il film, che dura un’ora, è un’autentica piccola perla, ma, come succede a tante perle del cinema, non avrà una distribuzione tradizionale.

Visto che Remo Schellino non è nuovo alle produzioni di nicchia e di valore che raccontano storie considerate a torto dai broadcaster di poco interesse, la distribuzione dei suoi film se l’è letteralmente inventata.

Si chiama «Cinema itinerante», ed è tutto stipato sulla sua vecchia R4: schermo, proiettore, impianto audio. Lo chiamano piccoli comuni, pro loco, associazioni della zona, ma non solo. Fin dove la sua R4 arriva, arrivano il suo cinema e le sue storie.

Le prime proiezioni di Grazie al cielo hanno già registrato il sold out. Mai meno di 80 persone per ogni proiezione.

La scorsa estate, tra un lockdown e l’altro, Remo Schellino ha totalizzato una trentina di date con una media di 70 spettatori. Oltre duemila persone davanti al grande schermo montato in piazza.

Il cinema continua a essere una splendida magia anche al tempo dello streaming.

Sante Altizio




Le biografie: Romero e Câmara

testo di Sante Altizio |


Due vescovi latinoamericani. Due difensori degli oppressi. Modelli per una Chiesa che compie anche oggi la sua scelta preferenziale per i poveri.

Anselmo Palini è un insegnante bresciano di scuola secondaria che ha all’attivo una serie di pubblicazioni sui temi della pace, della nonviolenza e dei diritti umani davvero notevole.

È stato tra i primi, negli anni Ottanta, a sollevare domande sul senso della presenza della produzione di armi nella provincia di Brescia. La quasi totalità delle armi leggere italiane, infatti, arriva da quell’area.

Nel 2020, la storica Editrice Ave, fondata nel 1935 da Luigi Gedda, ha ripubblicato due testi di Palini che, a distanza di una decina d’anni dal loro primo arrivo in libreria, meritavano di tornare all’attenzione del pubblico.

Si tratta di due biografie ricche, approfondite, senza sbavature: una dedicata a san Oscar Romero, il vescovo martire del Salvador, e l’altra a Hélder Câmara, il «vescovino» brasiliano, tra i massimi alfieri della «scelta preferenziale per i poveri» compiuta dalla Chiesa latinoamericana nella Conferenza di Medellín del 1968.

Il SudAmerica al centro

Con l’elezione al soglio pontificio di José Mario Bergoglio, argentino di Buenos Aires, è diventato chiaro per molti ciò che era già evidente da diversi anni agli osservatori interessati: il mondo latinoamericano è il nuovo motore della chiesa cattolica. E se mons. Bergoglio è diventato papa Francesco, il «merito» è anche di uomini come Oscar Romero e Hélder Câmara, che quel motore lo hanno alimentato.

San Romero de America

La biografia che Palini dedica a Romero ha un sottotitolo forte: «Ho udito il grido del mio popolo», e una postfazione pregiata che porta la firma del cardinale Gregorio Rosa Chávez, il quale, quando l’arcivescovo di San Salvador venne assassinato, era rettore del seminario diocesano della capitale centroamericana.

Era il 24 marzo del 1980. Alle ore 18.25, mentre celebrava la messa, appena terminata l’omelia, mons. Oscar Arnulfo Romero venne raggiunto da un colpo di arma da fuoco in pieno petto. Si accasciò sull’altare e morì.

La biografia di Palini traccia il percorso che portò un uomo di Chiesa con una formazione teologica tutt’altro che avanzata, e nessuna voglia di diventare una celebrità, alla scelta di stare dalla parte dei deboli di fronte alla crudele repressione della dittatura militare.

Mons. Romero spiazzò tutti, forse anche se stesso, e da «vescovo malleabile» diventò la variabile impazzita che catalizzò la speranza di chi non ne aveva più. Una variabile che sarebbe stata eliminata.

Nel 1980 la Guerra Fredda si combatteva anche in America Latina, e lasciava una scia di sangue apparentemente inarrestabile.

«Le sue omelie – scrive Palini – erano seguite dagli inviati della stampa internazionale per il significato che, nel contesto mondiale, aveva la lotta che si combatteva in questa minuscola nazione, e per la presenza di una Chiesa […] evangelicamente schierata a fianco del proprio popolo e, appunto per questo, violentemente colpita […] dagli squadroni della morte».

Maurizio Chierici, un grande inviato italiano (già collaboratore di MC, ndr), che conobbe e intervistò più volte Romero, scrive nella prefazione: «Un paesino da niente (El Salvador, ndr) trasformato nel poligono dove le società benestanti costruivano il prototipo necessario per non perdere il benessere; sperimentavano la paura come arma invisibile dalla quale i popoli non riescono a difendersi».

Hélder Pessoa Câmara

L’assassinio di Romero, non solo non riuscì a far tacere la sua voce, ma diventò un grido di richiesta di giustizia per un continente intero. E tra coloro che seppero far nascere una nuova speranza dalla morte di Romero ci fu sicuramente Hélder Pessoa Câmara, uno dei vescovi brasiliani più amati e coraggiosi della storia recente.

Classe 1909, morto all’età di novant’anni, dal 2017 è, grazie a una legge dello stato, patrono brasiliano dei diritti umani.

Anselmo Palini, per la biografia di dom Hélder, come sottotitolo ha scelto una sua celebre frase, quasi un manifesto: «Il clamore dei poveri è la voce di Dio».

Nella prefazione, affidata a mons. Luigi Bettazzi, che lo conobbe al Concilio Vaticano II, si legge: «Tempo fa non sarebbe stato necessario introdurre un libro su Hélder Câmara […]. Oggi, a oltre vent’anni dalla morte, il suo ricordo tende a offuscarsi».

L’autore ricostruisce con cura tutti i passaggi che hanno segnato la crescita religiosa di Hélder Câmara. Il capitolo iniziale si intitola: «Gli anni dell’integralismo», ed è subito un’immersione nel suo cammino attraverso le lettere e gli scritti lasciati dal vescovo brasiliano.

C’è un passaggio, a pag. 32, che merita di essere riportato: «Avevo ventidue anni, sognavo anche allora di cambiare il mondo e lo vedevo diviso tra destra e sinistra, cioè tra fascismo e comunismo. […] Scelsi il fascismo. Si chiama Azione integralista, in Brasile. […] E il loro motto era Dio-Patria-Famiglia: un motto che a me andava benissimo. Come giudico ciò? Con il mio semplicismo giovanile […] non c’erano molti libri da leggere, né molti uomini sani da ascoltare». Solo una persona matura può osservare con tanta franchezza il proprio passato.

Seguono due capitoli corposi: «Gli anni del cambiamento» e «Gli anni della profezia».

il vescovo brasiliano Don Helder Camara all’Eucaristia a Den Bosch; tra i partecipanti all’escursione Pax Christi – Data 27 ottobre 1974 Posizione Den Bosch, Olanda, foto in CC di Peters, Hans / Anefo

Câmara per i poveri

Come successo per Romero, quando la realtà bussò alla sua porta, non fu facile per lui fingere di non aver sentito. Il Brasile degli anni delle dittature militari, della povertà diffusa, del razzismo, della devastante ingiustizia sociale, iniziava a far sentire la sua voce disperata. Il giovane sacerdote brasiliano crebbe, e crebbe in lui anche una nuova consapevolezza.

Negli anni Cinquanta, Câmara arrivò a Rio de Janeiro come vescovo ausiliario, poi partecipò al Concilio e, in seguito, alla Conferenza di Medellín.

Le sue prese di posizione erano sempre più nette contro la violenza e la prepotenza del potere. E poi nacquero decine e decine di gruppi di base, sindacati, cooperative che vennero fondati per organizzare il tessuto sociale, sempre partendo dal basso, dagli ultimi.

Câmara mistico

Dom Hélder aveva doti da mistico: «Tutte le notti si svegliava per un’ora di preghiere e di orientamento della giornata», ricorda mons. Bettazzi; doti da teologo e da vero oppositore politico: cosa che alla dittatura non piacque per nulla.

«La fede, basata sulla Parola di Dio, toglie la maschera alle ideologie dei dominatori. Gesù assume l’identità degli oppressi e vuole essere amato e servito in loro».

Il merito di Anselmo Palini è quello di permetterci di ripercorrere le storie di Oscar Romero e Hélder Câmara con la consapevolezza che, se anche un po’ della loro memoria si è offuscata, i frutti della loro testimonianza ci sono ancora tutti e sono arrivati sino a San Pietro.

Sante Altizio




Tra Italia e Africa


Un giallista torinese che indaga luoghi e quartieri abitati da un’umanità di poveri e immigrati. Un libro intervista che attraversa l’Italia in 10 delle sue ferite ambientali grazie alla voce di altrettanti sacerdoti. Una raccolta di reportage africani firmati dal compianto Raffaele Masto.

Gialli tra migranti

Uno dei grandi meriti di Andrea Camilleri è di avere creato, grazie al suo commissario Montalbano, una vera e propria «scuola italiana della letteratura gialla». Camilleri ha indicato una strada e tanti autori di casa nostra hanno provato a percorrerla. Alcuni con ottimi risultati.

Tra coloro che hanno appreso, e bene, la lezione di Camilleri, ce n’è uno torinese i cui libri meritano, a mio avviso, grande attenzione. Prima di tutto per la loro capacità di caratterizzarsi e rendersi originali all’interno di un genere letterario in sé molto lineare: trovare l’assassino.

Gioele Urso, che nella vita fa il giornalista, è autore di Calma & Karma. Torino rosso sangue, uscito nel novembre scorso per Golem Edizioni. Il titolo è l’unico particolare poco azzeccato: sembra il viatico alla lettura di un libro splatter. Invece no. Urso ha scritto una storia degna di nota. Delicata, profonda, socialmente rilevante.

Due anni fa aveva esordito con Le colpe del nero per le Edizioni del Capricorno. Titolo, questa volta, più che centrato.

Protagonista di entrambe le storie è il commissario Riccardo Montelupo (due omaggi in un solo nome: Montelupo è nel carattere, nelle movenze, nel metodo investigativo, un po’ il Ricciardi di De Giovanni e un po’ il Montalbano di Camilleri).

Il commissario di Urso è in forza alla questura di Torino, ha radici siciliane e una idiosincrasia innata per le ingiustizie sociali.

Accanto a Montelupo compare, sia nel primo che nel secondo libro, il giovane videogiornalista Gianni Incerti, con un fiuto da cronista di razza e una grande passione per il Milan degli olandesi. Per la cronaca, Urso è milanista, oltre che reporter.

Fin qui siamo quasi nella norma. Ciò che però rende, a mio avviso, il lavoro di Urso più interessante di altri, sono i contesti sociali nei quali si sviluppano le trame: nel primo era il Cie, Centro di identificazione ed espulsione, di corso Brunelleschi, nel secondo l’ex Moi, le palazzine di via Giordano Bruno costruite per le olimpiadi invernali del 2006, poi occupate da rifugiati.

I torinesi hanno ben chiaro che tipo di ferite sono stati quei due luoghi per la città. Il tema migratorio, le storie delle persone arrivate a Torino, in genere per essere sfruttate, abusate, usate, sono il cuore del racconto.

Non ricordo altri giallisti che abbiano scelto strutturalmente quel mondo per raccontarlo (e denunciarlo) nei loro libri.


Preti verdi

S’intitola Preti verdi, è uscito per Edizioni Terra Santa. Lo ha scritto il giornalista toscano Mario Lancisi, al quale si devono già diverse apprezzatissime pubblicazioni su don Milani.

È un libro che possiamo tranquillamente definire «necessario», e la ragione è racchiusa, prima di tutto, nel suo sottotitolo: L’Italia dei veleni e i sacerdoti simbolo della battaglia
ambientalista.

Mario Lancisi ha incontrato e raccontato la vicenda di dieci territori dall’ecosistema devastato e di altrettanti sacerdoti che hanno speso e spendono la propria vocazione per sanare la ferita inferta alle persone che quel territorio lo vivono.

Si tratta di don Palmiro Prisutto, don Giuseppe Trifirò, padre Nicola Preziuso, padre Maurizio Patriciello, don Marco Ricci, don Michele Olivieri, padre Guidalberto Bormolini, don Albino Bizzotto, don Gabriele Scalmana e padre Bernardino Zanella.

Il libro traccia un viaggio doloroso, quasi una Via Crucis che, dalla Sicilia, passando per Taranto e «la terra dei fuochi», porta al Veneto.

A segnare le tappe di questo terribile Giro d’Italia senza bicicletta sono le migliaia di morti provocate dalla devastazione ambientale. Bambini, donne, uomini, comunità intere decimate da forme tumorali le cui cause sono da ascrivere alla voracità di gruppi industriali e organizzazioni mafiose.

La dedica del libro è chiara: «A tutti i morti di tumore per l’inquinamento e i veleni provocati da uno sviluppo economico che mette al centro il profitto e non l’uomo».

A dare il via a questo coraggioso lavoro di Lancisi è l’enciclica Laudato si’ che rimette al centro del dibattito ecclesiale la tutela dell’ambiente, il rispetto del creato, i danni (spesso irreparabili) che ricadono su popolazioni inermi e incolpevoli.

E poi c’è la pandemia. Anch’essa è stata, per l’autore di Preti verdi un elemento nodale. «A noi interessa un’ipotesi di lavoro, che affiora anche in questo viaggio: forse c’è un nesso causa-effetto tra inquinamento della terra e coronavirus. Forse. Non è questa la sede per discuterne. Preme sottolineare che la dicotomia “salute e lavoro” che caratterizza il libro ha attraversato anche l’anno del Covid-19. Viene prima la borsa o la vita?».


L’Africa riscoperta

Cambiamo genere. Passiamo alle inchieste giornalistiche di un grande reporter che, purtroppo, il 28 marzo del 2020 ci ha lasciato: Raffaele Masto.

Raffaele è stato uno dei più attenti cronisti di «cose africane».

Come responsabile esteri della storica emittente milanese Radio Popolare, per oltre 20 anni, ha percorso l’Africa da Nord a Sud, e ne ha raccontato la vita, la sofferenza, le speranze puntualmente tradite. Ha scritto una dozzina di libri sul continente, alcuni tradotti in mezzo mondo.

I racconti di Raffa, come lo chiamavano gli amici, aveva un particolare marchio di fabbrica: non esprimevano amore per i potenti. La sua Africa era sempre letta attraverso gli occhi di un profugo che ha perso tutto, di una donna che prende l’acqua al pozzo, di un bambino che ha perso le gambe scambiando una mina per un giocattolo, di un autista di taxi, di un contadino in attesa della pioggia che non arriva mai.

A 12 mesi dalla scomparsa di Masto, i colleghi e gli amici di una vita hanno pubblicato, a firma di Raffaele, L’Africa riscoperta. Memorie di un reporter, una raccolta di alcuni dei suoi reportage più belli arricchita con una serie di post tratti dal suo blog «Buongiorno Africa!».

Quello che offre questo «libro di libri» è un diario di viaggio potentissimo. Chi ha letto qualcosa di Ryszard Kapuściński, tra queste pagine si sentirà a casa.

Raffaele Masto è stato un giornalista di razza, che lasciava la scrivania e andava a lavorare sul campo. Soprattutto girava al largo dai luoghi comuni.

Pochi mezzi, pochi soldi, ma idee chiare e un obiettivo ben definito: vedere con i propri occhi, se possibile, cercare di capire, e poi raccontare.

Esiste un sito dedicato a Masto, www.amicidiraffa.it. È nata anche un’associazione, è stato istituito un premio che porta il suo nome, e creato un centro di
documentazione. Il lavoro di Raffaele, la sua testimonianza, non devono andare perduti.

Sante Altizio




On demand

testo di Sante Altizio |


Con le sale chiuse per Covid, il cinema è più che mai domestico, magari su «piattaforme», come quella tutta italiana che offre contenuti originali. Vale la pena, poi, fare i conti anche con lo smartphone, che la pandemia ha reso ancora più centrale nella fruizione di contenuti audiovisivi.

VatiVision

È metà marzo mentre scrivo, e l’Italia è tornata a essere quasi tutta (di nuovo) «zona rossa».

Una delle conseguenze inevitabili è il perdurare della chiusura dei luoghi di ritrovo, cinema compresi. Nessuna nuova uscita nelle sale, nessun nuovo film da guardare sgranocchiando popcorn. In Italia.

In Cina, invece, il paese da cui la pandemia ha preso il volo, i cinema sono tornati a essere affollatissimi. Da metà marzo nelle sale cinesi è tornato un film uscito nel 2009: il pluripremiato e già campione d’incassi Avatar, di James Cameron. In poco più di un fine settimana ha incassato quasi 9 milioni di dollari. Un segno positivo per il futuro prossimo della settima arte.

Con le sale chiuse, l’attenzione del pubblico, che continua a vivere il proprio tempo libero soprattutto in casa, si concentra sulle piattaforme che offrono contenuti in streaming.

Netflix ha annunciato da poco di avere superato i 200 milioni di abbonati nel mondo. Calcolando a braccio, possiamo dire che sul pianeta Terra, non c’è palazzo che non abbia almeno un abbonato al colosso statunitense. Ed è lì, o su Amazon Prime, l’unico vero competitor di Netflix, che le «prime cinematografiche» arrivano puntuali, mese dopo mese.

In mezzo ai giganti nascono realtà piccole e di qualità che vale la pena segnalare. Ce n’è una tutta italiana, nata da meno di un anno, a suo modo interessante: VatiVision, presieduta da Luca Tomassini, classe 1965, insegnante alla Luiss e, ricorda Wikipedia, uno dei padri della telefonia mobile di casa nostra.

Il nome VatiVision, in realtà, è in parte fuorviante, perché, anche se apprezzata dalla Chiesa, non è un’iniziativa del Vaticano. La piattaforma ha un catalogo piuttosto nutrito di film, serie tv, cartoon e documentari con una dichiarata impronta educational e di ispirazione cattolica. È una piattaforma on demand dove è possibile sia acquistare che noleggiare i contenuti.

Molti titoli sono di produzione recentissima e toccano temi come i diritti civili, l’immigrazione, i conflitti dimenticati, le relazioni sociali. Con uno sguardo decisamente europeo, aperto, per nulla italocentrico.

Se dovessi consigliarvi come spendere i 4,99 € di un noleggio, sicuramente suggerirei Est, dittatura last minute, film del 2020 di Antonio Pisu, ambientato nella Romania del 1989. Racconta di un viaggio che parte da Cesena e vede coinvolti tre venticinquenni (uno dei quali interpretato da Lodo Guenzi, giovane frontman di uno dei gruppi musicali più in vista della scena italiana, Lo stato sociale) che decidono di fare dieci giorni di vacanza oltre la cortina di ferro, proprio mentre la cortina va in frantumi.

All’ultima Mostra internazionale del cinema di Venezia ha fatto molto parlare di sé.

Est, dittatura last minute, non è un’esclusiva VatiVision (lo trovate anche sulle maggiori piattaforme specializzate). Tuttavia fate «due passi» sul sito www.vativision.com, resterete sorpresi dalla qualità dei titoli proposti. Il livello è alto. Tra essi si possono ritrovare titoli importanti del passato e piccole esclusive, soprattutto interessanti reportage dal Sud del mondo.

Sante Altizio

Alberto Ravagnani

Vale la pena fare i conti anche con un altro strumento che la pandemia ha reso ancora più centrale nella fruizione di contenuti audiovisivi: lo smartphone.

TikTok è uno dei social network più recenti e diffusi con oltre un miliardo di utenti nel mondo. È l’unico basato esclusivamente su contenuti video non più lunghi di 30 secondi.

Nato in Cina, al centro di numerose polemiche in tema di sicurezza informatica, bloccato negli States, la app è scaricata e utilizzata soprattutto da giovanissimi.

TikTok è il terreno ideale per un giovane sacerdote che, durante il lockdown dello scorso anno, quando l’imperativo categorico era #iorestoacasa, si è chiesto in quale modo continuare a parlare con i ragazzi della sua parrocchia, anch’essa «chiusa per Covid».

Alberto Ravagnani, sacerdote di 27 anni, dall’Oratorio San Filippo Neri di Busto Arsizio, ha così iniziato a cimentarsi con YouTube, poi Instagram e infine è sbarcato su TikTok, diventandone, in pochi mesi, una vera star. Ha oltre 90mila followers (550mila se si considerano tutti i suoi social), e ogni suo TikTok raccoglie decine di migliaia di like.

Il suo canale merita di essere visto e colpisce perché don Alberto, forte delle sue poche primavere, ha un gran dono: fonde con naturalezza linguaggio alto e linguaggio basso. Usa con sapienza la tecnologia, la postproduzione video, cura l’audio, gli effetti, la color correction. E poi ci sono i testi, le brevi sceneggiature che scrive lui prima di girare.

Il suo studio è diventato un piccolo set, semplice ma curato fin nei dettagli. È bravo.

«Sono un prete, vivo in oratorio, insegno a scuola. Ogni tanto faccio cose sui social. La fede mi fa godere di più la mia vita. Per questo ne parlo. W la fede». Questa la sua breve bio su YouTube.

In una sua recentissima intervista su «Avvenire» ha detto: «I social network non sono il male. Sui social può capitare il male perché dietro ci sono anche persone che fanno il male».

Su YouTube, il suo video più gettonato (650mila visualizzazioni in 10 mesi) s’intitola: A cosa serve pregare (non è una perdita di tempo), il suo TikTok più visto, Ora di religione, conta 2,4 milioni di visualizzazioni.

«Se non impariamo a “essere tutto a tutti”, come diceva San Paolo – ha raccontato don Alberto in un’intervista alla tv della svizzera italiana che si trova in rete – come arriviamo alle persone? Se non ci facciamo “social”, come arriviamo ai ragazzi che stanno sui social? Più di qualcuno ce lo perderemo per strada».

Sante Altizio

 




Viaggiare e rinascere

Viaggiare e rinascere

Questo mese affrontiamo il tema del viaggio attraverso tre libri molto diversi tra loro. Partendo dall’isola di Manus, a Nord della Papua Nuova Guinea, vero inferno dei migranti, passando dal Kenya, visto dagli occhi innamorati di un missionario, oggi vescovo di Asti, arriviamo alle nostre città che inquinano di luce il cielo della notte.

Nessun amico se non le montagne

L’isola di Manus è la quinta per grandezza della Papua Nuova Guinea. Gli australiani, com’è noto, in tema di accoglienza di profughi e immigrati, usano politiche al limite della barbarie, e hanno stretto un accordo con il governo papuano per fare di Manus un campo di detenzione.

Da quella prigione si esce solo se si accetta di tornare nel paese d’origine, diversamente si rimane lì. A tempo indeterminato, senza diritti, tutele, possibilità di riprendersi in mano la propria vita.

Le condizioni di detenzione sono disumane. Lo hanno certificato decine di indagini indipendenti, e il governo australiano fatica a mettere la polvere sotto il tappeto.

Il poeta curdo iraniano Behrouz Boochani ha passato a Manus cinque anni, finché la pressione internazionale gli ha fatto ottenere un visto temporaneo per la Nuova Zelanda.

Usando un vecchio telefonino e una singhiozzante copertura internet, Boochani, che oggi ha 37 anni, sms dopo sms, messaggio Whatsapp dopo messaggio, che inviava ad amici e colleghi, ha scritto un memoriale. Ha raccontato la sua vita nell’isola, la quotidianità del campo di detenzione, le storie dei compagni di viaggio e di prigionia.

La summa di tutto ciò è un libro che Add Editore ha pubblicato nel 2019 e che si intitola Nessun amico se non le montagne.

Quattrocentotrenta pagine molto dense, toste da leggere. E lo sono per due motivi: in primo luogo, Boochani è innanzitutto un poeta, e il suo sguardo, anche dal profondo degli inferi, rimane visionario, capace di crudezza e levità nello stesso verso. In secondo luogo, i versi di Nessun amico se non le montagne sono un lungo messaggio digitato dal telefonino: non c’è manoscritto, carta, penna, computer, stampante. Solo le sue dita su una piccola tastiera da tenere lontana dagli occhi delle guardie.

Un paradiso terrestre coperto di giungla e contornato da spiagge bellissime, può essere un inferno, e nessuno lo sa.

Dove Dio ha nome di donna

Avviciniamoci un po’, e arriviamo in Africa, nel Kenya di un sacerdote fidei donum torinese oggi vescovo di Asti, una diocesi con radici nel IV secolo d.C.

Monsignor Marco Prastaro è nato a Pisa nel 1968, ma è torinese d’adozione. È stato ordinato sacerdote nel 1988 dal cardinale Ballestrero, e inviato in Kenya, nella parrocchia di Lodokejek, dal card. Saldarini.

Ha lavorato nella diocesi di Maralal, 350 chilometri e 5 ore di fuoristrada a Nord di Nairobi. Un’esperienza africana che si è conclusa dieci anni fa, ma che ancora oggi porta i suoi frutti. Uno di questi è Dove Dio ha nome di donna, edito dall’Editrice missionaria italiana.

«Alcune esperienze […] segnano in modo permanente la vita – scrive mons. Prastaro -. La plasmano, la cambiano, a volte […] la trasformano completamente. Alla fine ci si ritrova un’altra persona. Questa è la resurrezione, che è sempre ingresso in una vita nuova».

A metà strada tra il diario e il recupero della memoria recente, il libro del vescovo di Asti ha un gran merito: è limpido, senza retorica, senza alchimie. È lo specchio di ciò che è la vita missionaria: un incontro tra culture lontane, che hanno bisogno di tempo per comprendersi, entrare in sintonia e dare frutto.

«Nel dicembre del 1997, per la prima volta pensai alla missione. Era appena rientrato per motivi di salute uno dei due preti della nostra missione diocesana di Lodokejek e, pensando a don Adolfo, rimasto lì da solo, mi dissi: “Qualcuno deve pur andare ad aiutarlo […]. Magari potrei andarci io”.

A volte le scelte sono più semplici di quanto uno possa immaginare. E così don Marco si ritrova tra i Samburu a condividere con loro una quotidianità molto complessa: il flagello della siccità che porta al limite la resistenza fisica e mentale, la diffusione dell’Aids, le centinaia di gravidanze indesiderate di donne bambine, il filo troppo sottile che separa la vita e la morte, il senso d’impotenza e rabbia di fronte a un bambino che muore di malaria perché non sei arrivato con quelle due pastiglie che gli avrebbero salvato la vita. E poi quella rassegnazione delle popolazioni locali, che impari a comprendere solo con il tempo.

Nel libro di Prastaro non ci sono risposte, ma il percorso di un uomo bianco che nel cuore dell’Africa cambia e rinasce.

Cieli neri

L’ultimo tratto del viaggio è a casa nostra, o quasi, e ha un altro orizzonte: il cielo.

Irene Borgna, giovane antropologa e guida montana con la passione per la scrittura, ha pubblicato da pochissimo Cieli neri. Come l’inquinamento luminoso ci sta rubando la notte, per Ponte alle grazie.

Savonese, trasferitasi in Valle Gesso, in provincia di Cuneo, con questo libro pone l’accento su un aspetto della nostra vita contemporanea, apparentemente marginale, ma legato al tema serio del cambiamento che la Terra sta subendo: se alziamo gli occhi al cielo non vediamo più le stelle.

A metà strada tra la lettura romantica della notte e l’analisi scientifica di un fenomeno naturale che scompare, Irene Borgna, a bordo di un camper, va a caccia delle aree del Nord Europa nelle quali, di notte, si può ancora essere travolti dal cielo stellato.

«La pianura Padana – scrive Irene – è tra le aree più abbagliate e abbaglianti dell’intero pianeta. […] Nessun italiano può dire di godere di una notte intatta […] otto italiani su dieci non riescono a scorgere la Via Lattea da casa propria».

La luce e il buio dettano i ritmi della vita, alterarli è una pessima idea. Esistono iniziative che cercano di portare il tema all’attenzione del grande pubblico. Irene Borgna invita il suo lettore: «Passa all’azione. Controlla che le luci di casa siano ineccepibili. Se quelle dei tuoi paraggi non ti convincono, consulta la documentazione e la normativa regionale […] sul sito cielobuio.org […], poi chiedi un consiglio su come iniziare a riconquistare la notte».

Il cielo più buio, e quindi luminoso, d’Europa, Irene lo trova. Per scoprire dove, vale la pena leggere il suo libro.

Sante Altizio




Immagini e storie

testo di Sante Altizio |


Dopo un anno di Covid, l’industria del cinema è in serio affanno, ma non il desiderio di produrlo e di fruirne. E di storie da scoprire e dalle quali lasciarsi coinvolgere ce ne sono molte.

Cinema, anno buio

Scrivere di cinema in piena emergenza sanitaria suona stonato, che più stonato non si può.

Il 2020, per chi ricava il proprio reddito da ciò che si proietta sul grande schermo, è stato un anno a dir poco terribile.

Dopo un inizio che faceva sperare in un anno da record, la chiusura forzata delle sale cine-matografiche, iniziata a marzo, e ancora in corso mentre scriviamo, ha sancito un crollo del 90% degli incassi rispetto al 2019. Un dato empirico su tutti: il profilo twitter di Cinetel, che monitora il box office italiano, ha cinguettato l’ultima volta il 9 marzo 2020 così: «05/03-08/03 -95,41% vs stesso weekend 2019. Dal 1° gennaio +5,43% rispetto anno precedente».

È trascorso un anno da allora, e oggi siamo alle macerie per esercenti, attori, sceneggiatori, registi, case di produzione, distributori.

Se poi leggiamo questi numeri da Torino, dove vivo, tutto assume il tono del grottesco.

Per ricordare il ventennale del Museo del Cinema alla Mole Antonelliana, e la nascita della Film Commission Torino Piemonte, la capitale dei Savoia, avrebbe dovuto celebrare la settima arte con «Torino, città del cinema 2020». Un anno di eventi già programmati.

In giro ci sono ancora dei manifesti affissi e dimenticati.

Uno scenario apocalittico.

Botox

Eppure qualcosa si è mosso, e qualcosa vale la pena segnalare come segno di speranza per il futuro prossimo del cinema.

Prendiamo il Torino Film Festival (Tff), per giocare ancora in casa. Dal 20 al 28 novembre si è celebrata la sua edizione numero trentotto. Ovviamente in streaming, ed è andata benissimo.

Oltre 18mila biglietti venduti e 133 film in programma. Incasso superiore ai 100mila euro.

Insomma: la voglia di cinema è immune al virus. C’è luce in fondo al tunnel.

Al Tff, che rimane una delle più importanti vetrine del cinema indipendente d’Europa, ha vinto Kaveh Mazaheri, un giovane regista iraniano, al suo esordio su palcoscenici importanti.

Il suo film si intitola Botox, è una storia familiare a tinte thriller. Per la critica, ci troviamo di fronte a un talento degno dei Fratelli Coen. Per alcuni, e credo con ragione, Botox è un Fargo, girato tra le fredde montagne iraniane.

Il cinema iraniano non lo si scopre oggi, ma con Botox arriva l’ennesima conferma: là dove la vita è più difficile, la libertà in pericolo, l’espressione artistica repressa, nasce il cinema migliore.

Il sito specializzato MyMovies segnala che il film di Mazaheri non è ancora disponibile in streaming, ma lo sarà presto. Di sale, ovviamente, non si parla.

Cholitas

Rimanendo in ambito streaming, va segnalata la nascita di una piattaforma cinematografica totalmente gratuita, amerigofilm.it. Si tratta di uno spin off del Nuovi mondi film festival che da dieci anni si tiene nel piccolo comune montano di Valloriate (Cn), nell’alta Valle Stura, a due passi dal confine francese.

Il Nuovi mondi, che passa per essere il più piccolo festival di cinema di montagna del globo, è diventato un appuntamento imperdibile per i veri cinefili.

Il patrimonio che negli anni il festival ha accumulato grazie al concorso, è stato pubblicato su amerigofilm.it e offerto gratuitamente al pubblico.

Il nome Amerigo non è una scelta casuale: Amerigo Vespucci, navigatore, esploratore, cartografo, cinque secoli fa, fu il primo a rendersi conto che aveva di fronte a sé il nuovo mondo. «Visto il momento così particolare che stiamo vivendo – afferma Fabio Gianotti, direttore del festival – abbiamo pensato di condividere con il nostro pubblico, ma non solo, il nostro viaggio alla scoperta di mondi nuovi. Oggi, crediamo, sia una vera priorità. Il mondo che abbiamo conosciuto fino al marzo scorso è cambiato profondamente, e non è ancora chiaro cosa ci aspetta domani».

L’ultima edizione del festival si è tenuta a fine settembre, in presenza, nella finestra estiva che ci ha illuso che il peggio fosse passato. Ha vinto, quasi a furor di popolo, Cholitas, degli spagnoli Pablo Iraburu, Jaime Murciego. Il film strappa lacrime e sorrisi a ripetizione. È la storia di cinque donne indigene boliviane che decidono, a discapito della tradizione, dei mariti, di ciò che può dire la gente, di scalare l’Aconcagua, poco meno di 7000 m, la vetta più alta delle Ande, situata in Argentina. Lo decidono e lo fanno. Parliamo di una storia vera, di un film documentario di grande qualità, che ha vinto diversi premi in pochi mesi.

Las Cholitas sono diventate un caso e ora sono diventate un’icona per generazioni di donne andine. Ognuno ha gli/le influencer che si merita.

Tra qualche settimana potremo vedere Cholitas gratuitamente su amerigofilm.it.

Radici e le migrazioni

Chiudiamo con uno sguardo al piccolo schermo e alla tv generalista (sempre più assediata dalle piattaforme on demand). Su Rai3 dal 2011, la domenica, all’ora di pranzo, andava in onda Radici. L’altra faccia dell’immigrazione.

Davide Demichelis, autore e conduttore di valore, ripercorre a ritroso il viaggio che alcuni migranti, donne e uomini residenti in Italia, hanno fatto per arrivare nel nostro paese. Lo percorre assieme a loro, verso le loro radici, per scoprire insieme cosa si sono lasciati alle spalle.

La media di spettatori sfiora il 4% di share, parliamo di circa 700mila persone che, seguendo il programma, dimostrano interesse verso un tema nodale della nostra contemporaneità. Eppure, dal 2018 la produzione di nuove puntate si è interrotta e da domenica 24 gennaio anche la messa in onda delle repliche è stata stoppata. Oggi si possono guardare tutte le stagioni dal 2011 al 2018 su Raiplay, ma cosa aspetta la Rai a produrre nuove puntate?

Sante Altizio




Guerre di ieri e di oggi


Parliamo di guerra. Lo facciamo attraverso le parole di tre autori molto eterogenei tra loro. Tre modi diversi di ricordare, raccontare e vivere la tragedia della guerra che, forse, hanno in comune un obiettivo: esorcizzarla.

La guerra dei Bepi

Andrea Pennacchi è padovano, classe 1969. Attore e scrittore di teatro. Il grande pubblico lo conosce grazie al suo intervento settimanale a Propaganda Live, programma di attualità, politica e società su La7 (l’ex Gazebo di Rai3).

A settembre è uscito, con la casa editrice milanese People, La guerra dei Bepi. Quindici euro molto ben spesi.

Si tratta di un testo teatrale adattato, ma non troppo, alla narrativa, nel quale Pennacchi viaggia attraverso tre guerre: la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, e poi quella Somala.

Dall’aprile del 1945 l’esercito italiano non è più coinvolto in uno scontro bellico fino al 2 luglio del 1993. L’incantesimo si rompe a Mogadiscio, al checkpoint Pasta, dove i soldati italiani sono impegnati nell’operazione Unosom.

Andrea Pennacchi fa parte di quel contingente militare. Volontario. E non per caso.

Suo nonno, da tutti chiamato Bepi, ha combattuto nelle trincee del Carso.

Suo padre, nome di battaglia Bepi, ha combattuto tra le fila partigiane. Arrestato, deportato, sopravvissuto in qualche modo ai lager.

Andrea, nipote e figlio dei due Bepi, va alla ricerca delle sue radici nel modo più complesso, pericoloso e contraddittorio: in guerra.

«Quando ho deciso di fare il servizio militare – racconta -, ero desideroso anche io di far parte di quell’epos che aveva attraversato la storia della mia famiglia, volevo in un certo senso essere anche io un Bepi».

Il testo è godibile, forte, veneto, divertente, tragico, serio, comico, tagliente, proprio come il Pennacchi che abbiamo conosciuto in Tv.


Admira e Bosko

Andrea Roccioletti, torinese, classe 1979, è un libraio, ma anche (forse soprattutto) un art performer di gran talento. Tra i suoi studi, la Scuola di applicazione dell’Esercito, come civile. Ramo peacekeeping.

Nel 2019 ha scritto per l’editore torinese Autori Riuniti, un romanzo breve dal titolo Admira e Bosko. Sarajevo 1993.

Ancora il 1993, ma due mesi prima i fatti di Mogadiscio di cui parla La guerra dei Bepi.

La storia di Admira Ismic e Bosko Brkic è conosciuta: lei, una ragazza musulmana, lui, il suo fidanzato serbo ortodosso, in una Sarajevo assediata. Il 19 maggio del 1993 furono uccisi, mentre cercavano di fuggire assieme attraversando il ponte Vrbanja, dai cecchini serbi
(vedi MC 10/2017, I Perdenti 28).

A rendere originale il lavoro di Roccioletti non è solo la scelta dello strumento, il romanzo, ma il fatto di averlo scritto con una giovane scrittrice di origine tunisina, Miriam Tahri.

L’amore tra un ortodosso e un’islamica, scardina le logiche imposte dall’assedio. Amore e guerra lottano tra loro, e l’amore, in guerra, soccombe.

La domanda che ci facevamo nel ‘93 era: «Com’è possibile stia accadendo a pochi chilometri da qui?». Il libro di Roccioletti e Tahri, ha sempre sotto traccia questa risposta: «Non solo è stato possibile, ma potrebbe esserlo ancora. Magari non più a Sarajevo, ma più vicino. Magari a casa nostra».

Nell’incipit c’è tutta la capacità dell’autore di prendere per mano il lettore: «Adesso. Io sono l’assassino. Sono certo che leggerai le prossime righe con alcune aspettative. Forse ti aspetti che io ti racconti il mio punto di vista […], che ti racconti come si diventa un assassino […], così che tu possa trarre qualche lezione dalla mia esistenza; ma essa è al tuo servizio tanto poco quanto lo è stata al mio, perché sul male inflitto e quello subito, pennelliamo una doratura di significato che niente dura alla prova del tempo».

Andrea Roccioletti non lo trovate sui social, ma ha un sito: www.roccioletti.com.

Parole buone per superare la crisi

Arriviamo così a Sergio Astori, bergamasco, docente all’Università Cattolica, medico chirurgo specializzato in psichiatria. Anche il suo libro parla di guerra, della guerra mondiale in corso, iniziata nella lontana metropoli di Wuhan, in Cina, a fine 2019, e arrivata in Europa, segnando in modo decisivo le nostre vite. La prima guerra pandemica da molti decenni a questa parte.

La chiave di lettura di Astori capovolge lo schema della visione corrente sulla crisi in corso.

Già il titolo del libro segna la differenza: Parole buone. Pillole di resilienza per superare la crisi.

Proprio perché la pandemia, durante il lockdown di primavera, ci ha precipitati in un linguaggio bellico, il prof. Astori e un piccolo ma tosto gruppo di collaboratori, ha iniziato a cercare, raccontare, diffondere #ParoleBuone, testi che affrontano la «solidarietà», la «prossimità», la «semplicità», l’«ascolto», il «rischio», per accendere una luce di speranza in un tempo di vero e proprio smarrimento collettivo, di fronte alle bare, alle ambulanze, agli infermieri stravolti, ai medici che muoiono curando.

Nella prefazione, Luca Rolandi, giornalista e ricercatore storico, scrive: «Non esiste la normalità, il benessere economico che nasconde abissi di dolore psicologico e morale, esiste la tenerezza dell’amore e della solidarietà […] perché le Parole Buone aiutano […] l’uomo a vivere di ciò che sta sopra di lui».

Le Parole Buone raccolte nel libro, sono state in primavera un’oasi per centinaia di persone barricate in casa. La multimedialità messa a punto dal gruppo di lavoro (social, radio, carta stampata, linguaggio dei segni) ne ha permesso la capillarità.

Quelle parole, nate qualche mese fa, sono ancora drammaticamente attuali. La guerra non è ancora finita. Il libro di Sergio Astori ci aiuterà a superarla.

Sante Altizio

 




Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo


Un documentatissimo libro-inchiesta sul perché Bill Gates, Warren Buffett, Bill Clinton e Mark Zuckerberg sono i protagonisti della nuova mega filantropia. Il ruolo ambiguo di Bill Gates sul vaccino anti-Covid19

Perché l’élite dell’1% del pianeta, la classe più predatoria della storia umana, è anche la più socialmente impegnata a sostenere cause nobili come salute, educazione, lotta alla fame, con la scusa di cambiare il mondo? Che cosa si nasconde dietro la rinascita della filantropia a vocazione globale? L’impegno sempre più pervasivo dei filantropi è davvero la soluzione alle sfide della contemporaneità o non è piuttosto un ambiguo e problematico effetto delle disuguaglianze strutturali che rendono la nostra epoca la più ingiusta di tutti i tempi? E che cosa è il «filantrocapitalismo», la versione più sofisticata della filantropia che da due decenni domina la scena internazionale e che si consolida oggi nel tempo di Covid19?

Sono queste, e molte altre, le domande che la giornalista Nicoletta Dentico, esperta di salute globale e cooperazione internazionale, affronta nel suo formidabile saggio-inchiesta Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo (Editrice missionaria italiana, pp. 288, euro 20, già in libreria). Si tratta del primo libro in Italia dedicato al tema del filantrocapitalismo, un’abile strategia inaugurata all’inizio del nuovo millennio da una ristretta classe di vincitori sulla scena della globalizzazione economica e finanziaria. Grazie alle donazioni erogate tramite le loro fondazioni in nome della lotta alla povertà questi imprenditori, nuovi salvatori bianchi, hanno cominciato a esercitare un’influenza sempre più incontrollata sui meccanismi di governo del mondo e sulle loro istituzioni, modificandole profondamente. Il tutto, in un intreccio di soldi, potere e alleanze con il settore del business che i governi non sanno più arginare né possono più controllare. Anzi, sono i leader del mondo politico ad accogliere i ricchi filantropi a braccia aperte, ormai, senza più fare domande.

Come è avvenuto in passato con John Rockefeller e Andrew Carnegie, la generosità di chi ha accumulato mastodontiche ricchezze rischia di non essere del tutto disinteressata. «Il Wealth-X and Arton Capital Philantrophy Report 2016 evidenzia come le donazioni dei super-ricchi siano incrementate del 3% nel 2015», scrive Dentico. «Numeri alla mano, il rapporto racconta gli effetti benefici di questa arte della generosità: gli imprenditori che hanno versato almeno un milione di dollari hanno finito per ammassare più profitti dei loro pari di classe».

Di questa realtà di costante accumulazione si nutre l’ottimismo win-win che alimenta il fenomeno filantropico, i cui valori, strumenti e metodi sono inequivocabilmente quelli della cultura di impresa, applicata al mondo dei bisogni umani disattesi. I filantropi, per loro stessa ammissione, puntano a creare nuovi mercati per i poveri. «Funziona così: se i poveri diventano consumatori non saranno più emarginati. E da clienti possono riguadagnarsi la loro dignità». Rispetto alla filantropia classica, il filantrocapitalismo ha assunto dimensioni così pervasive e sistemiche da condizionare la stessa azione degli stati: «Libere da ogni costrizione territoriale, le fondazioni filantrocapitaliste sono riuscite a occupare un campo d’azione sconfinato» si legge nel libro. «Esercitano un ruolo ingombrante nella produzione di conoscenza, nell’affermazione di modelli, nella definizione di nuove strutture della governance globale».

«Il liquido amniotico della filantropia è la disuguaglianza» sostiene Nicoletta Dentico, che nella sua poderosa inchiesta motiva accuratamente le ragioni per cui questa élite si è messa alla testa della battaglia per cambiare il mondo. Invece, «se nel mondo vigesse un’equa distribuzione delle risorse non ci sarebbe tanto spazio per la filantropia», perché non ci sarebbero più i pochi plutocrati che detengono più della metà delle risorse del pianeta. Dentico mette in luce uno degli aspetti più controversi e paradossali del fenomeno: le enormi agevolazioni fiscali di cui godono nel mondo filantropi e fondazioni, anche le più opulente: «Che cosa legittima politicamente l’idea di un incentivo sulle tasse a questi miliardari e alle loro fondazioni? Quali vantaggi ne avrebbe una società, se si utilizzasse invece la tesoreria pubblica, perduta a causa degli incentivi, per produrre il bene comune?».

Il filantrocapitalismo diventa così una strana forma di legittimazione morale, «una valvola di sfogo» tramite cui investire, detassati, i profitti spesso accumulati con flagranti operazioni di elusione o evasione fiscale. Un esempio per tutti: «Nel 2012, un rapporto del Senato americano calcolava in quasi 21 miliardi di dollari la quantità di denaro che Microsoft era riuscita a trafugare nei paradisi fiscali in un periodo di tre anni, grosso modo l’equivalente della metà dell’incasso netto delle vendite al dettaglio negli Stati Uniti, con un guadagno fiscale di 4,5 miliardi dollari annui». Oggi il fondatore di Microsoft, Bill Gates, è la figura preminente e più iconica del filantrocapitalismo, con una fondazione intitolata a lui e alla moglie Melinda che al momento della nascita (2000) disponeva di 15,5 miliardi di dollari per esercitare la propria azione, focalizzata su salute e vaccinazioni, biotecnologie, incremento della produttività agricoltura in Africa (ciò che significa far largo agli Ogm), educazione, finanza. La Fondazione Gates mantiene un forte legame finanziario con aziende assai poco virtuose sul piano dei consumi e della salute, che però garantiscono sicure remunerazioni sull’investimento: ad esempio, investe 466 milioni di dollari negli stabilimenti della Coca-Cola e 837 milioni di dollari in Walmart, la più grande catena di cibo, farmaceutici e alcolici degli Usa.

La Fondazione Gates spicca oggi per l’incontenibile attivismo con cui dirige le attività internazionali nella ricerca di un vaccino anti-coronavirus, con implicazioni non banali data la rilevanza pubblica di un’emergenza mondiale come quella di Covid-19: «Nel 2015, Gates aveva capito che un virus molto contagioso sarebbe arrivato a sconquassare il mondo iperglobalizzato. Sars-CoV-2 è arrivato, alla fine, e il mondo si è fatto trovare del tutto impreparato. L’unico pronto a un simile scenario è stato il monopolista filantropo di Seattle», spiega Dentico: 300 milioni di dollari subito sul piatto da parte della Fondazione Gates (poi saliti addirittura a 530 milioni di dollari), ormai accreditatasi sulla scena della lotta alla pandemia alla pari di istituzioni internazionali come Oms, Banca Mondiale e Commissione europea, un pericoloso precedente nella governance di fenomeni globali – come in questo caso la lotta a una pandemia. Tanto più che «in tutti questi anni, Bill Gates ha molto contribuito al rafforzamento geopolitico di Big Pharma [il cartello composto dalle principali case farmaceutiche mondiali, ndr], erodendo e sottraendo terreno alla società civile in questo duro conflitto politico».

L’implacabile inchiesta di Nicoletta Dentico scruta anche l’azione filantropica di altre figure di imprenditori plutocrati o politici potentissimi diventati improvvisamente «benefattori» globali: Ted Turner, Bill e Hillary Clinton, e i nuovi arrivati sulla scena della filantropia come Mark Zuckerberg. Unico nella sua genesi è il caso della famiglia Clinton, che ha fatto della filantropia globale – tramite la Fondazione Clinton – la via maestra per continuare a esercitare il potere dopo due mandati presidenziali, anche a costo di contraddire l’agenda diplomatica statunitense, nel momento in cui Hillary Clinton è segretaria di stato dell’amministrazione Obama. Molto eloquente a questo riguardo il caso del potentissimo uomo d’affari Frank Giustra che entra nel giro delle estrazioni minerarie in Kazakhstan grazie ai buoni uffici della Fondazione Clinton nel paese centro-asiatico, che gli Stati Uniti hanno stigmatizzato per le sistematiche violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali della persona.

Come scrive Bandana Shiva nella prefazione, «il libro di Nicoletta Dentico arriva al momento giusto, ed è necessario. Sarà una bussola importante per difendere le nostre esistenze e libertà dalle forme della ricolonizzazione variamente avallate dal filantrocapitalismo».

 


I NUMERI E LE CIFRE DA RICCHI E BUONI?

Lotta alla povertà? Basta l’1% del Pil (e meno armi)

«Ho imparato a diffidare dalla narrazione legnosa sulla “lotta alla povertà”. Basterebbe una frazione di quanto si spende in armi, poco più dell’1% del prodotto interno lordo mondiale, per invertire la rotta. (p. 21)

 L’età dell’oro delle Fondazioni filantropiche: una rinascita sospetta nei tempi della disuguaglianza

«Si contano oltre 200.000 fondazioni nel mondo. Sono 87.142 le entità registrate negli Usa. Circa 85.000 in Europa occidentale, e circa 35.000 nell’Europa dell’Est. Si contano circa 10.000 fondazioni in Messico, almeno 1000 in Brasile e 2000 in Cina». (p. 57)

 Bill Gates conta più dell’Onu (in fatto di quattrini)

«Dall’inizio delle attività la Fondazione Bill & Melinda Gates ha mobilitato una massa totale di finanziamenti di 50,1 miliardi di dollari e una capacità di erogazione nel 2018 di 5 miliardi di dollari. Tra il 2013 e il 2015, la Fondazione Gates ha potuto destinare 11,6 miliardi di dollari allo sviluppo globale, più di quanto non riescano a fare le agenzie delle Nazioni Unite». (p. 59)

Gates finanzia l’Oms 24 volte quel che danno i Brics!

«Nel biennio 2010-11 la Fondazione Gates ha versato oltre 446 milioni di dollari all’Oms, più di ogni altro contribuente statale dopo gli Stati Uniti: una cifra 24 volte superiore ai contributo erogati da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica messi insieme». (p. 156)

Se i ricchi pagano meno tasse delle fasce sociali più emarginate

«La ricerca degli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman evidenzia che le 400 famiglie più ricche d’America hanno pagato nel 2018 un’aliquota effettiva del 23%, cioè un punto percentuale in meno di quello versato dalle famiglie delle fasce sociali meno abbienti (24,2%)». (p. 98)

Pagare le tasse? Anche no (per i super-ricchi)

«In un anno è semplicemente raddoppiato il numero delle mega-imprese che non hanno pagato tasse grazie alle radicali politiche fiscali dell’amministrazione Trump a beneficio dei ricchi e delle aziende private. Sono 60, alla fine del 2019. Tra i titani esentasse si contano Amazon, Netflix, Ibm, Chevron, Ely Lilly, Delta Airlines, General Motors e Goodyear». (p. 99)

La «podium economy» di Bill Clinton

«La professione di conferenziere segna la fortuna dell’abilissimo oratore che, liberatosi dalla Casa Bianca, cominciò a battere il circuito dei più prestigiosi eventi internazionali con esiti finanziari sbalorditivi: 105,5 milioni di dollari raccolti per sé in dieci anni, dal 2002 al 2012». (p. 230)

Zuckerberg, il generosissimo che non paga le tasse

«Ispirata dalla nascita della prima figlia, la coppia Mark e Priscilla Zuckeberg ebbe a comunicare la costituzione della Chan Zuckerberg Initiative, una fondazione nuova di zecca con cui s’impegnavano a destinare nientemeno che il 99% della ricchezza accumulata nel corso della vita a finalità benefiche – circa 45 miliardi di dollari, al valore corrente di Facebook. […] Il gruppo di Zuckerberg ha avuto un’aliquota fiscale media dell’1% nei paesi extra Ue in cui ha operato». (p. 265)


L’AUTRICE

 Nicoletta Dentico, giornalista, è esperta di cooperazione internazionale e salute globale. Dopo una lunga esperienza con Mani Tese, ha coordinato in Italia la Campagna per la messa al bando delle mine vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 1997, e diretto in Italia Medici Senza Frontiere (MSF) – premio Nobel per la Pace nel 1999 – con un ruolo di primo piano nel lancio e promozione della Campagna internazionale per l’Accesso ai Farmaci Essenziali. Co-fondatrice dell’Osservatorio Italiano sulla Salute Globale (Oisg), ha lavorato a Ginevra per Drugs for Neglected Diseases Initiative (DNDi) e poi per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). Più di recente è stata per alcuni anni responsabile della sezione internazionale della Fondazione Lelio Basso. Dal 2013 al 2019 è stata consigliera di amministrazione di Banca Popolare Etica e vicepresidente della Fondazione Finanza Etica. Dalla fine del 2019 dirige il programma di salute globale di Society for International Development (SID).

Lorenzo Fazzini – Ufficio stampa EMI
Verona, 16 ottobre 2020




Tre libri sul futuro prossimo e su quello possibile

Globali e monastici


a cura di Sante Altizio |


Dalla Cina delle nanotecnologie alla vicenda di Silvia Romano, passando per le regole (economiche, oltre che spirituali) dei santi Francesco e Benedetto. Tre libri che raccontano quanto la storia a volte corre più veloce del calendario.


Red mirror

Le cose accadono, ma, a volte, corrono a velocità doppia. «Red Mirror» di Simone Pieranni (La Terza, 2020), è il nostro punto di partenza.

Pieranni (autore di diversi articoli per MC, ndr) è un giornalista che ha vissuto in Cina, la visita e continua a studiarla. Ha fondato un’agenzia di comunicazione con gli occhi puntati su Pechino, «China files», che da anni informa in modo puntuale e originale su quell’importante area del mondo.

Con Red Mirror, 224 pagine dense come marmellata di fichi, Pieranni apre la finestra su una realtà che fatichiamo ancora a mettere a fuoco: lo sviluppo cinese della nano tecnologia, della realtà aumentata, dell’intelligenza artificiale. Ciò che qui pensiamo sia futuro, lì è presente. Il nostro futuro esiste già e lo stanno vivendo, in anteprima, centinaia di milioni di persone a otto ore di aereo da noi.

È tutto talmente già avviato, consolidato e acquisito, che la Cina non è più il luogo dove si copia la tecnologia occidentale, ma il mercato dove gli occidentali scoprono (e comprano) le ultime novità hi tech.

Il riferimento alla quasi omonima serie tv, Black Mirror, è tutto meno che casuale, perché il saggio di Pieranni parte proprio dall’oggetto che è diventato la nostra protesi naturale: lo smartphone.

In Cina, se vuoi condurre un’esistenza quotidiana normale, devi scaricare sullo smartphone (Huawei, ma non solo, i colossi da quelle parti sono tanti) WeChat, un’app che si è trasformata in browser e con la quale puoi fare tutto. «Tutto» in senso stretto, non in senso lato. Anche l’elemosina.

Ovviamente con tutto il corollario di controllo sociale, che in Cina è vissuto con meno ansia rispetto a noi.

Strano? Folle? No. È il nostro futuro prossimo.


Meno è di più

L’Europa non è più il centro del mondo e, in attesa che il futuro prossimo cinese arrivi, è importante fare i conti con il presente di casa nostra, con la crisi strutturale che ci perseguita dal crollo della Lemann Brothers, e capire se e come possiamo costruirci un domani migliore.

Un’analisi molto intrigante arriva dal giornalista economico Francesco Antonioli. Per la rinnovata Edizioni Terra Santa, guidata ora dalla brava Roberta Russo, ha scritto Meno è di più (2020), con un sottotitolo che la dice lunga: Le Regole monastiche di Francesco e Benedetto per ridare anima all’economia, alla finanza, all’impresa e al lavoro.

La premessa di Antonioli è semplice: o ripensiamo l’economia, o implodiamo.

L’idea nasce dalle parole e dai documenti di papa Francesco, che hanno, va da sé, una matrice religiosa, ma indicazioni profondamente laiche.

Dobbiamo costruire un’economia di socialità che, con meno impatto, crei più ricchezza. Intendiamoci: nulla a che vedere con la «decrescita felice» che qui viene smontata grazie alle parole di Stefano Zamagni, economista da sempre attento alle dinamiche dell’economia globale e alla difesa di chi ne subisce gli effetti deleteri.

Ma come costruire questo diverso cammino? Riprendendo in mano le regole di San Francesco e San Benedetto.

Il terzo capitolo, solo per fare un esempio, s’intitola «San Francesco precursore di Steve Jobs?». Il secondo, invece, individua nella regola benedettina la guida perfetta per formare il management, costruire un’efficace policy aziendale, migliorare la qualità del prodotto, coinvolgere i dipendenti nelle scelte imprenditoriali.

Può sembrare un gioco provocatorio, ma non lo è: i monasteri dei secoli intorno all’anno Mille erano fabbriche, aggregazione, centri di pensiero e cuore dell’economia.

In quelle regole c’è il segreto per ripartire, per ri-animare l’economia mettendo al centro l’uomo.

Antonioli ha lavorato per lungo tempo al Sole 24 ore, è stato tra i fondatori dell’inserto Nord Ovest, ma ha anche al suo attivo libri su papa Francesco e Piergiorgio Frassati, sulle innovative scelte imprenditoriali di Andrea Illy e, tra non molto, sulla storia della Fondazione Agnelli. Di lui ci si può fidare.


Silvia, Diario di un rapimento

Chiudiamo il cerchio con un instant book che mostra quanto sia aggrovigliato il gomitolo della globalizzazione: Silvia Romano. Diario di un rapimento (2019), di Angelo Ferrari, pubblicato da People, una piccola casa editrice fondata due anni fa da Pippo Civati, Francesco Foti e Stefano Catone, che sta costruendo un catalogo di tutto rispetto.

Angelo Ferrari è stato il giornalista che più da vicino e con maggiore attenzione ha seguito, per il Desk Africa dell’Agenzia Italia, il rapimento in Kenya di Silvia Romano. Il libro, uscito poche settimane prima della liberazione della giovane milanese, è una raccolta dei tanti articoli scritti da Ferrari durante la prigionia della ragazza. Una piccola antologia di articoli che porta in sé, nello scoramento che a volte li pervade sotto traccia, un’ammissione dolorosa: di ciò che capita lontano dal cortile di casa, a noi non importa nulla. Silvia è stata rapita, separata dai suoi affetti per un tempo che le sarà sembrato eterno; è tornata (per fortuna) cambiata (poteva essere altrimenti?), e tutti ne hanno parlato, ma le ragioni che stanno a monte dell’esperienza di Silvia pochi le hanno indagate.

Angelo Ferrari fa parte di un piccolo collettivo di giornalisti italiani che si chiama Hic sunt leones, l’Africa che non ti immagini (www.dallapartedinice.org) che prova a far breccia nel nostro muro d’indifferenza. Per fortuna non demordono.

Tra il miracolo tecnologico cinese, la crisi d’identità dell’economia occidentale e il rapimento di una ragazza italiana in Kenya, un filo sottile che percorre le tre storie c’è: il mondo è globale, ma il centro della globalizzazione non è più qui.

Assistere da spettatori passivi è una pessima idea.

Sante Altizio