Il profeta, il vecchio e il minatore


Un ex muratore semianalfabeta diventa profeta e artista in Sicilia. Un coro collettivo di donne e uomini anziani di cinque regioni italiane porta alla luce un passato che rimane ancora presente. Un minatore peruviano compie un viaggio nell’aspetto infernale dell’oro.

Lassù

«È venuto il tempo di annientare coloro che distruggono la terra». Con questa citazione di Apocalisse 11,18, Bartolomeo
Pampaloni apre il suo ultimo film doc, Lassù, uscito nella primavera di quest’anno, prodotto da Graffiti Doc e Aeternam Film, e già vincitore sia del Trento Film Festival che del Nuovi Mondi Festival, due premi che pesano e che rendono la misura di quanta strada abbia fatto Pampaloni, già noto per il suo Roma Termini.

Lassù racconta la storia (reale) di Nino, ex muratore che viveva nella periferia di Palermo con la sua famiglia e che ora vive da solo in cima a una montagna facendo il profeta e facendosi chiamare Isravele («Elevarsi» letto al contrario).

Lassù, sul monte che sovrasta la Riserva naturale di Capo Gallo, c’è la sua dimora: una vecchia e abbandonata postazione di vedetta della Reale marina militare borbonica del Regno delle Due Sicilie che, negli ultimi vent’anni di lavoro solitario, Isravele ha trasformato in un portentoso tempio naïf, considerato uno dei più impressionanti esempi di outsider art in Europa.

Isravele sale e scende, ogni giorno, con lo zaino carico di sassolini e cemento. Porta in alto il basso, e così lo purifica. Trasforma l’incuria in bellezza, tramite un lavoro costante, al limite del disumano, che lui chiama preghiera.

Da qualche tempo turisti sempre più numerosi arrivano lassù, spinti dalla curiosità per quell’uomo misterioso che annuncia la venuta dell’Apocalisse e che in città viene chiamato l’eremita.

«Per raccontare quest’uomo – afferma l’autore del film doc – ho deciso di piantare la mia tenda nel terreno adiacente questo magnifico tempio e di passare le giornate assieme a lui. È così che, giorno dopo giorno, per quasi due anni, ho tentato di penetrare il mistero del meraviglioso artista che si è incarnato nel corpo di un muratore semi-analfabeta. Il risultato è un ritratto dell’artista, di ogni artista, la cui esistenza, in ogni tempo e luogo, non può nutrirsi d’altro che dell’irriducibilità assoluta rispetto alle logiche del mondo, di quel mondo che sorge ai piedi del monte sul quale si staglia l’opera di Nino. Un mondo che scorre sempre più veloce verso l’oblio di sé e per il quale l’artista non cessa di essere uno scandalo vivente».

Il tempo rimasto

Se la storia di Nino è quasi sospesa nella realtà, Il tempo rimasto di Daniele Gaglianone, classe 1966, è un poetico tuffo nella vita quotidiana di chi ha alle spalle molto tempo già trascorso e poco, davvero poco, ancora davanti a sé. Uscito nel gennaio scorso e prodotto da Zalab Film, Istituto Luce Cinecittà e Rai Cinema, Il tempo rimasto è una riflessione sulla vecchiaia e su cosa si può scoprire quando ci si ferma a recuperare i propri ricordi.

Il film nasce da un lungo percorso di ascolto di decine di persone in cinque regioni italiane, alla ricerca di un mondo che «fino a ieri» poteva apparire remotissimo e che invece sembra stranamente ancora presente.

Daniele Gaglianone è uno dei più importanti registi indipendenti del cinema italiano contemporaneo, in un’intervista rilasciata a Gabriella Mancini ha affermato: «Volevo a tutti i costi, al di là dell’ascolto delle parole, raccogliere i piccoli segnali meno evidenti: i gesti, i volti scavati dalle rughe, il segno del tempo che è trascorso. Così come i silenzi che nel film affiorano e sono silenzi non gratuiti, ma seguono l’onda emotiva del racconto. Sono storie tutte in bilico tra un futuro che forse non interessa più, che per quanto possa riservarci delle sorprese, è sempre all’ombra della luce di quanto già vissuto e un presente che è ancora intrecciato con il passato, perché chi racconta non si limita a ricordare ciò che è addietro, ma lo rivive. E lo rivive in modo talmente intenso da sorprendere prima di tutto chi racconta».

Il film di Gaglianone si gioca sul filo dell’emozione scatenata dal recupero della memoria di persone anziane, diverse tra loro, ma identiche nella capacità di ricostruire se stesse com’erano anni e anni prima, in un modo corale. «L’intento è quello di accompagnare lo spettatore dentro una storia nella quale non ci sono singoli protagonisti, dove non bisogna cercare un filo, perché se non lo cerchi sarà poi il filo a trovare lo spettatore».

C’è una domanda che aleggia nel film, a volte quasi esplicitata, però decisiva per cogliere la sua cifra poetica: di tutto ciò che ho vissuto, visto, provato, resterà qualcosa? Il film, grazie a Gaglianone, offre la risposta, ed è sì, resterà.

Mother Lode

Con Mother Lode, uscito nel 2021 per la regia di Matteo Tortone, lasciamo l’Italia e approdiamo in Sud America.

È la storia di Jorge che lascia la sua famiglia e il suo lavoro di mototaxi nei sobborghi di Lima per cercare fortuna nella miniera più elevata e più pericolosa delle Ande peruviane. Isolata su un ghiacciaio, La Rinconada è «la città più vicina al cielo». Qui arrivano ogni anno migliaia di lavoratori stagionali attratti dalla possibilità di far fortuna e dalla speranza di una vita migliore.

Da qui, Jorge inizia un viaggio fatto di premonizioni, dove la realtà e l’immaginazione si mescolano e dove il sogno della ricchezza viene pagato dal sacrificio umano: l’oro, infatti, appartiene al Diavolo e el Tio de la Mina reclama sacrifici. Occasionalmente dei giovani minatori scompaiono.

Una coproduzione italo-franco-svizzera davvero ben riuscita, in bianco e nero con un sapore di neorealismo italiano.

Nelle note di regia, Matteo Tortone scrive: «L’idea del film inizia in un villaggio di minatori, nella parte Nord della Tanzania. Ero attratto dall’aspetto metafisico dell’oro, controcampo delle implicazioni macroeconomiche del mercato dell’oro.

La Rinconada mi è sembrata il setting perfetto per raccontare la corsa all’oro contemporanea: una città di minatori situata a 5.300 metri d’altezza sulle Ande, una destinazione che attira masse di uomini a causa della crisi economica globale».

Nel lavoro di Tortone c’è molto più di una generica, seppur doverosa, denuncia del «sistema». C’è la capacità di fare di Jorge una sorta di Virgilio che ci accompagna negli inferi del mondo con una semplicità disarmante, mettendoci di fronte alle singole responsabilità personali. Il sistema siamo anche noi, nessuno escluso. Ognuno per la sua parte.

Sante Altizio




Di Guatemala, Roma e Senegal


Un prete torinese fidei donum in Guatemala, innamorato dei poveri. Un monsignore guatemalteco martire per la liberazione degli oppressi. Un francescano in missione nella movida di Trastevere. E una donna italiana «expat» felice in Senegal.

Prete con gli ultimi

Si intitola «Don Piero Nota. Un prete dalla parte degli ultimi», lo ha curato e pubblicato il gruppo famiglie della parrocchia Gesù Redentore di Torino; è un tributo a un sacerdote che in quella comunità si è speso a lungo lasciando un ricordo che andava raccolto, organizzato e condiviso.

Don Piero è morto il 18 gennaio del 2021, dopo una vita in missione: in Italia, nella periferia operaia della ex capitale dell’automobile, e in Centro America, in un quartiere della periferia di Ciudad Guatemala, in anni nei quali gli squadroni della morte, indisturbati, mietevano vittime in nome della presunta lotta al comunismo. Anni bui, di minacce di morte, che hanno costretto don Piero, prete fidei donum della diocesi, a far ritorno in Italia. Di nuovo a Torino, stesso quartiere.

Don Piero aveva fatto sua la «scelta preferenziale per i poveri» della chiesa latinoamericana, e il suo apostolato si è svolto sempre attorno a essa.

L’antologia di racconti e ricordi che il gruppo famiglie mette insieme nel libro è di grande intensità, e rende omaggio a don Nota come meglio non si potrebbe. La biografia è accompagnata da molte foto, documenti, ricostruzioni. Otto capitoli, duecento pagine, decine di amici che raccontano il loro don Piero.

Chi scrive lo ha incontrato per la prima volta nel 1987 nella sua parrocchia di El Limon, avevo poco più di vent’anni. Mi misurai per la prima volta con la chiesa missionaria e non lo scordai più.

Juan Gerardi

Rimaniamo in Guatemala grazie ad Anselmo Palini, saggista e insegnante che per la casa editrice Ave ha scritto la biografia Juan Gerardi uscita nella collana Testimoni.

Non è un caso se in esergo l’autore scriva «In memoria di don Piero Nota, che è stato un segno di speranza per i poveri e gli emarginati del Guatemala».

Monsignor Juan Josè Gerardi Conedera è stato uno dei vescovi latinoamericani più importanti dell’era post conciliare. Guatemalteco di nascita, dedicò la sua vita di sacerdote a fronteggiare la dittatura militare che devastò il paese per decenni.

Si espose in prima persona e fu la voce più alta nel chiedere giustizia per le vittime della violenza politica, perpetrata senza limite e pietà. Raccolse in un volume di migliaia di pagine, Guatemala, nunca mas («Guatemala mai più»), i nomi e le storie di 50mila donne e uomini uccisi dalla dittatura. Il libro venne presentato il 25 aprile del 1998. Due giorni dopo gli fracassarono la testa con un blocco di cemento. Aveva 75 anni.

Alla rivista online korazym.org Anselmo Palini ha recentemente dichiarato: «Questo libro si inserisce in un lungo percorso che ho avviato con l’editrice Ave di Roma, l’editrice dell’Azione cattolica, sul tema della memoria del bene, ossia sul proporre le storie e il pensiero di quanti, nella notte delle dittature e dei totalitarismi, hanno operato per la pace, per la giustizia, per la libertà».

Palini ha scritto di dom Helder Camara, di mons. Romero e delle stragi di gesuiti in Salvador. Gerardi è l’ultimo pezzo del puzzle. «La testimonianza di questo vescovo martire, ancora poco noto in Italia, continua oggi a interpellare la Chiesa e ognuno di noi e ci indica la strada per un altro mondo possibile, dove finalmente, come afferma il testo biblico, “sia osservato il diritto e praticata la giustizia”».

Frate Movida

Cambiamo scenario e arriviamo nel cuore della Roma di oggi grazie a Frate Movida. Mission possible sulle banchine del Tevere, scritto da Paolo Fiasconaro, frate francescano, e pubblicato da  Edizioni Messaggero.

Per sei anni, dal 2014 al 2019, nei mesi estivi, padre Paolo Fiasconaro è andato in «missione» nei luoghi della movida romana, una «periferia esistenziale», nel divertimento, nel relax serale e in mezzo alle passeggiate di migliaia romani e di turisti sulle sponde del Tevere.

Il Sud America e il Guatemala di don Piero e mons. Gerardi sono lontani anni luce, eppure anche questa è missione.

Padre Paolo ha vissuto tra e con la gente, e ha condiviso le vacanze come un momento di crescita e di promozione, come un tempo da valorizzare.

Il libro racconta alcuni incontri, dialoghi, lunghe conversazioni, momenti non convenzionali, per costruire ponti e relazioni. In fondo il carisma francescano è affascinante proprio per la sua capacità di vivere inserito nella contemporaneità.

Al giornalista di Radio Vaticana Fabrizio Mastrofini che lo ha recentemente intervistato, padre Fiasconaro ha detto: «Credo che la movida romana sia una periferia. E mi piacerebbe un maggiore coinvolgimento della Chiesa locale. Ne ho parlato col vescovo di settore già a suo tempo. Oggi a Trastevere ci sono otto parrocchie. Vorrei che la Chiesa locale facesse di più. Il Centro missionario si è mosso, sarebbe bello coinvolgere le parrocchie e celebrare la messa sulle banchine».

My beautiful Senegal

Chiudiamo facendo un salto in Senegal.

Segnaliamo il sito www.mybeatifulsenegal.com, da poco on line, costruito e curato da Fabrizia Galvagno, una giovane donna italiana, giornalista «afroentusiasta» (la definizione è sua), che da qualche anno vive in Senegal, a Dakar.

Lì si è sposata, ha avuto due figli, ha avviato una sua attività, ma soprattutto ha deciso di raccontare la vita di una expat (espatriata) in terra d’Africa. «My Beautiful Senegal – scrive Fabrizia Galvagno – nasce dalla curiosità che i miei amici e famiglia hanno sempre dimostrato per la mia vita di expat e dalla difficoltà che ho sempre incontrato a rispondere alle loro domande sul Senegal. Quando vivevo a New York era più facile, tutti avevano visto i film, letto i libri, un mucchio di gente ci era già stata almeno una volta nella vita. Raccontare di New York non è mai stato difficile. Ma il Senegal… è un altro pianeta!».

E nel suo pianeta Fabrizia ci accompagna con un blog che aggiorna spesso, una pagina dedicata alle Faq e un’altra ai preconcetti (da «Vivere in Africa costa poco» a «Sei sempre in spiaggia»). Fate un giro nel mondo di un’italiana a Dakar, ne vale la pena.

Sante Altizio

 




Fratelli di guerra


Un libro sul conflitto e sul dialogo, prendendo spunto dagli incontri di Gesù descritti dai Vangeli. Un secondo libro sulla fraternità, partendo dalle storie di fratelli raccontate nella Bibbia. Con l’auspicio di fare diversamente. Un terzo libro sulla città di Kiev dove sia il dialogo che la fraternità si sono interrotti con la violenza.

Dialoghi e Vangelo

Mentre scriviamo sono trascorse già diverse settimane dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina e anche il mondo dell’editoria, com’è normale, fa i conti con la guerra in Europa, con l’indicibile che bussa alle nostre porte.

Vita e Pensiero, la casa editrice dell’Università Cattolica, promuovendo l’uscita dell’ultimo libro di Johnny Dotti e Mario
Aldegani, imprenditore sociale il primo, sacerdote murialdino il secondo, lo presenta così: «Mandiamo in stampa il volume in quest’alba in chiaroscuro del nuovo millennio, quando bagliori e furori di guerra incredibilmente insanguinano di nuovo l’Europa e minacciano il mondo. Ancora una volta il conflitto, dimensione naturale di ogni relazione umana e sociale, diventa automaticamente violenza e guerra a dimostrazione dell’incapacità di dialogare anche dell’umanità del XXI secolo».

Il libro s’intitola Che cosa cercate? Dialoghi e Vangelo, e passa in rassegna i dialoghi di Gesù, o con Gesù, da cui nascono spunti di orientamento di natura politica, spirituale ed economica.

Il libro, uscito alla vigilia di Pasqua del 2022, si è trovato immerso nella contemporaneità.

Scrivono gli autori: «Il dialogo è una scienza e un’arte. Una scienza perché coinvolge la possibilità di approfondire con un altro o con altri i nostri pensieri e le nostre convinzioni, come anche di condividere le nostre incertezze; la scienza del conversare, nell’Occidente, è diventata principalmente dialettica, a partire dal mondo greco sino ai nostri giorni. Il dialogo, però, è anche un’arte. Non è solo l’incontro di due pensieri, ma di due persone. Non è solo lo scambio tra due intelligenze, ma tra due anime, tra due cuori».

Il percorso di analisi prosegue e focalizza bene il vulnus che stiamo vivendo: in nome della dignità umana, agiamo fino alle estreme conseguenze, avendo come unico risultato la negazione di quella dignità alla quale diciamo di voler finalizzare le nostre azioni.

«Noi, esseri viventi che siamo “mancanza d’essere”, esistiamo perché coesistiamo, perché dialoghiamo. Il dialogo, quindi, ci pare l’orizzonte più concreto per dare forma all’affermazione tanto sbandierata sulla centralità della dignità umana, perché impegna, cioè dà in pegno la nostra parola e ingaggia la nostra presenza; ci riconosce e ci fa riconoscere nel tu per tu come nella manifestazione più alta della nostra dignità e della nostra gioia di vivere».

C’è di che riflettere, e molto, in un momento nel quale la parola e il pensiero sono negati dal rumore dei cingoli dei carri armati e dallo strazio dei civili travolti dalla tragedia della guerra.

Prove di fraternità

Altri spunti di riflessione ce li offre don Luigi Maria Epicoco, il giovane sacerdote brindisino che si è ritagliato con merito un ruolo nell’empireo degli «influencer» del mondo ecclesiale.

In marzo è uscito il suo ultimo libro In principio erano fratelli con Tau editrice.

Il punto di partenza dell’analisi di don Epicoco è il conflitto che alberga in ciascuno di noi, letto partendo dalla Bibbia.

Caino e Abele, i figli di Noè: Sem, Cam e Jafet. Poi Esaù e Giacobbe, Giuseppe e i fratelli.

Scrive l’editore umbro presentando il volume: «Tutto il racconto della Genesi è abbracciato da una grande parentesi di fraternità fallite. La Bibbia mette queste vicende proprio all’inizio perché nella parte più profonda dell’uomo è sedimentata una ferita, un fallimento, un anello debole, non la capacità ideale di essere in relazione e in comunione. C’è una parte di noi che va presa in considerazione, offerta a Dio e redenta, affinché non diventi famelica e omicida. Soltanto questo farà di noi persone libere e capaci di amarsi. Figli (quindi fratelli) e non servi».

Pensando a quanta difficoltà ha la chiesa ortodossa russa nel denunciare la follia dell’uso delle armi, queste parole risuonano fortissime.

E lo stesso Epicoco aggiunge: «Viviamo in un tempo in cui si sente spesso parlare di fraternità, e questo può risultare davvero controcorrente in un’epoca come la nostra, dominata da un potente individualismo alimentato dalla cultura contemporanea. Nel mondo degli individualisti non esistono fratelli, ma solo figli unici».

Un mondo di figli unici: un’immagine forte, che rende bene il contesto che stiamo vivendo.

Kiev

Il contesto della guerra, quella attuale, lo ha descritto bene l’inviato speciale di «Avvenire», Nello Scavo, che per Garzanti ha scritto Kiev, un vero e proprio diario dei primissimi giorni di guerra.

Nello Scavo, esperto inviato di guerra, raggiunge la capitale ucraina a metà febbraio 2022, quando la minaccia di un attacco russo si fa sempre più insistente, ma ancora in pochi credono possibile l’invasione.

Da quel momento, il giornalista registra senza censure il rapido tracollo di una situazione che si fa sempre più pericolosa: la dichiarazione dello stato di emergenza, il trasferimento delle ambasciate, e poi le esplosioni, le colonne di carri armati, il disperato esodo dalle città.

Giorno dopo giorno Nello Scavo descrive i movimenti delle truppe russe e la resistenza degli ucraini; approfondisce le conseguenze politiche ed economiche dei combattimenti; svela le ragioni ideologiche alla base delle decisioni dei leader.

Allo stesso tempo non dimentica la dimensione umana del dramma in corso, raccogliendo le testimonianze dirette di chi da un momento all’altro ha dovuto abbandonare la casa, ha perso la famiglia, ha scelto di imbracciare un fucile.

«Kiev» è un diario personale dal conflitto nel cuore dell’Europa, scritto sul campo da un giornalista chiaro nello spiegare le ragioni di quanti la guerra la decidono, ma soprattutto capace di dare voce a coloro che questa tragedia sono costretti a subirla.

Il suo scritto è prezioso.

«Non esistono parole giuste per raccontare la guerra – sostiene -. Ma di certo esiste il modo migliore: in presa diretta».

Questa guerra è la prima che vede i social network e l’hackeraggio informatico schierati sui due fronti e usati come arma.

Se l’informazione ufficiale è poco attendibile, e lo è, non rimane che ascoltare la voce dei testimoni. Sono loro gli unici in grado di restituirci la realtà del momento, a raccontare il qui e ora senza possibilità di fraintendimenti.

Sante Altizio


Libro Emi del mese:

 




Il mondo al pronto soccorso


Il clima, la pandemia, la situazione in Ucraina precedente alla guerra. Tre film documentari sulle tre emergenze che, in modi diversi, stanno scuotendo il mondo. Quando il linguaggio cinematografico aiuta a guardare le cose per farsene carico.

A riveder le stelle

Emanuele Caruso, classe 1985, è un regista di cui si parla parecchio da alcuni anni, e non a caso.

Di origini siciliane e radici albesi, Caruso rappresenta, sia nella forma che nella sostanza, una sorta di piccola nuova frontiera della produzione cinematografica di casa nostra. Ha prodotto, tra il 2014 e il 2018, due film (E fu sera e fu mattina e La terra buona) finanziati interamente da compagne di crowdfunding di grande successo e, nonostante lo scetticismo che accompagna spesso chi ha il coraggio di buttare il cuore oltre l’ostacolo, anche nelle sale cinematografiche il pubblico ha risposto con un entusiasmo che ha di molto superato le attese.

Il 2 marzo, a Domodossola, è stata la volta della prima nazionale del suo nuovo film: A riveder le stelle, prodotto di nuovo con la sua Obiettivo Cinema.

Questa volta Caruso si è cimentato su un terreno già frequentato in gioventù: il documentario d’autore. Un gruppo di sei persone che non si conoscevano prima, tra cui gli attori Maya Sansa e Giuseppe Cederna, e il medico Franco Berrino, fondatore dell’associazione «La grande via», per sette giorni hanno macinato molta strada e scoperto la Val Grande, al confine tra Piemonte e Svizzera, 150 chilometri quadrati di natura selvaggia. A guidare il loro cammino c’era una semplice riflessione, che per il regista rappresenta il filo rosso che lega tutto il racconto: «Stiamo distruggendo il pianeta e nessuno fa niente. Nessuno, sono io».

Sulla pagina web dedicata al film, Emanuele Caruso scrive: «Quando, nei prossimi anni, il cambiamento climatico provocherà la più grande crisi che l’uomo dovrà mai affrontare, volgeremo il nostro sguardo al passato. Guardando indietro, ai tanti errori che con consapevolezza abbiamo commesso negli anni, ci porremo allora un’unica domanda: “Come abbiamo potuto permetterlo?”».

Il film è in distribuzione in alcune sale del Nord Italia, ma è possibile organizzare ovunque si voglia proiezioni per scuole e associazioni.

Tutti i dettagli sono sul sito www.obiettivocinema.com.

Ogni 90 secondi

Restando nell’ambito delle emergenze che ci riguardano tutti direttamente, va segnalato che il 31 marzo, giorno della fine ufficiale dello stato d’emergenza sanitaria in Italia, alle ore 23,30 su Rai1 è andato in onda Ogni 90 secondi. Storie di pronto soccorso tra emergenza e urgenza, un film documentario prodotto dalla Simeu, Società italiana medicina d’emergenza urgenza, firmato dal regista televisivo Davide Demichelis.

Il lavoro è un tributo a quei luoghi – sono 650 i pronto soccorso attivi in Italia -, che nel marzo del 2020 sono stati travolti dalla pandemia.

Uscendo dalla retorica dell’eroismo, Davide Demichelis viaggia da Nord a Sud alla scoperta della prima frontiera della sanità italiana e di chi, con dedizione e una professionalità altissima, permette che i pronto soccorso funzionino al meglio delle loro possibilità.

La forza del film è anche la rinuncia al catalogo delle debolezze del sistema. Quelle le conosciamo. Ciò che non conosciamo abbastanza, invece, sono le storie dei medici, degli infermieri, dei professionisti della medicina d’emergenza.

Li abbiamo scoperti a causa della pandemia, ma loro c’erano prima e ci saranno dopo. Certo per chi ha lavorato settimane di fila senza staccare mai, ha iniziato il turno a febbraio del 2020 e lo ha finito a maggio, nulla sarà davvero più come prima.

Quando la competenza e l’esperienza si fanno servizio e si mettono a disposizione, tutto sembra possibile. Il senso del dovere prende il sopravvento e il pronto soccorso diventa casa e famiglia, il luogo in cui rimarrai fino a quando sarà necessario. Non un minuto di meno.

In chiusura, un medico denuncia chiaramente quanto pesi ancora ciò che (forse) ci siamo lasciati alle spalle, afferma: «Se per assurdo dovesse restare un solo medico al mondo, quel medico sarà un medico di pronto soccorso. Non c’è nessuna alternativa possibile».

Per poter seguire la programmazione del film o organizzare una proiezione, scrivere a ufficio.stampa@simeu.it.

Il documentario è visibile anche sulla piattaforma di Raiplay.

Winter on fire

L’ultima emergenza, dopo quella ambientale e quella sanitaria, con cui chiudiamo questo numero di Librarsi, è la guerra in corso in Ucraina.

Su Netflix dal 2016 è presente un film documentario che ora è tempo, per chi non lo avesse fatto, di vedere. O magari anche di rivedere, perché alla luce degli avvenimenti e dello strano dibattito che circonda il conflitto, la visione di Winter on Fire del regista russo Evgeny Afineevsky può rivelarsi illuminante.

Il film, del 2015, è il racconto di quanto avvenne a Kiev dal novembre 2013 al febbraio del 2014 in Piazza Maidan.

Rileggere quei fatti, che portarono alla fuga del presidente Victor Yanukovic in Russia, oggi ha un sapore diverso. Evgeny Afineevsky compone un puzzle che rende con grande chiarezza la drammaticità di quelle settimane: da una parte c’era una grande fetta di opinione pubblica che voleva avvicinarsi all’Europa per dare all’Ucraina una vera indipendenza da Mosca, dall’altra una politica troppo debole e corrotta per andare fino in fondo e recidere il vincolo con la Federazione Russa.

Il film è crudo. La violenza dei Berkut, i corpi speciali della polizia poi disciolti, sui manifestanti è impressionante. Le scene dei cecchini che sparano sulla folla, che prendono di mira coloro che soccorrono i feriti, riporta alle pagine più buie dell’assedio serbo di Sarajevo. Ciò che però oggi più colpisce di Winter on Fire è la consapevolezza che quella vittoria di piazza è stata tradita di nuovo. A distanza di soli otto anni è ancora la voglia del popolo ucraino di essere Europa a segnare il tragico destino della sua nazione.

Sante Altizio




Un libro che parla di ferite nel cuore della Chiesa e uno di amore


Lo scisma e l’amore

Un giornalista e una teologa affrontano, senza peli sulla lingua, quella frangia di chiesa che si oppone a Francesco, parlando di scisma.

Una giovane laica missionaria parla, mettendo a nudo il suo cuore, del suo grande Amore: quello per Dio e per l’uomo, incontrati nella sua Italia, in Brasile, Benin, Palestina e Thailandia.

Lo scisma emerso

Si intitola Lo scisma emerso. Conflitti, lacerazioni e silenzi nella Chiesa del Terzo Millennio. Lo hanno scritto il giornalista Francesco Antonioli e la teologa Laura Verrani, ed è stato pubblicato in febbraio da Edizioni Terra Santa (dimostrando coraggio).

Il titolo è la perfetta sinossi di quanto hanno raccolto i due autori nelle 250 pagine del volume. Il mix è intrigante, da una parte c’è Antonioli che è un giornalista professionista dal curriculum importante e da sempre attento anche alle «cose di Chiesa»; dall’altra c’è Verrani, una teologa che da oltre venti anni si occupa di catechesi biblica. I loro saperi e i loro stili si fondono e raccontano, forse per la prima volta con così grande nettezza, ciò che purtroppo è sotto gli occhi di tutta la comunità ecclesiale: la spaccatura creata, nella Chiesa di Francesco, dall’ostilità di quella parte cosiddetta «tradizionalista», minoritaria, ma rumorosa. «Basta, chiamiamo le cose con il loro nome – si legge a pagina 13 -. E pronunciamole: senza il timore di tacere. È ben radicata una prassi corrosiva, nella Chiesa cattolica, che nasce dall’abitudine di edulcorare la verità, soprattutto quando risulta spiacevole o in grado di cambiare lo status quo». La vecchia abitudine dell’essere umano di accumulare polvere sotto il tappeto sta producendo danni enormi alla comunità ecclesiale. Dall’uso disinvolto del denaro, al recente caso torinese delle «vocazioni forzate», dalle discriminazioni di genere, agli abusi psicologici e sessuali, gli autori ricostruiscono la cronaca, ma danno anche una lettura di prospettiva, Vangelo alla mano.

La domanda di fondo offerta dal libro è: vista la spaccatura interna alla Chiesa, aperta anche dalla pessima abitudine di non dare i nomi giusti alle cose, quale Chiesa vogliono i cattolici? «Questa frattura profonda – scrivono gli autori – non è uno degli effetti della cosiddetta secolarizzazione. Per lo meno: anche, ma soltanto in parte. Il punto è che la pandemia […] ha divaricato ulteriormente le posizioni da quando, nel 2013, è salito al soglio pontificio Jorge
Mario Bergoglio. Una divaricazione sempre più evidente e graffiante. È questa la Chiesa del Vangelo? È questo il futuro della presenza dei cattolici nella società civile?».

Lo scisma emerso è una lettura che scorre veloce, non è per addetti ai lavori, per amanti delle analisi in filigrana, ma per tutti coloro che vivono e si muovono all’interno della comunità, credenti e non. Inevitabilmente è una lettura che lascia un po’ di amaro in bocca, ma tanto Laura Verrani quanto Francesco Antonioli, come si evince chiaramente dalla lettura del loro lavoro, non hanno alcuna intenzione di picconare una casa pericolante che sentono in tutto e per tutto anche la loro, anzi: «La Chiesa sta vivendo per la prima volta una chiamata al confronto sinodale capillare – scrivono -. Bisogna dirci ciò che non funziona. Senza livore, polemiche o anticlericalismo pregiudiziali. È invece proprio in quanto credenti e sinceramente appartenenti alla Chiesa che riteniamo importante mettere sul tavolo le questioni».


Amare, voce del verbo…

Nel febbraio scorso è uscita anche una piccola chicca che vale davvero la pena segnalare: Amare, voce del verbo… Come esperienze e vite intrecciate mi hanno fatto conoscere l’Amore, libro d’esordio della giovanissima Maristella Tommaso per le Edizioni San Paolo.

Nata a Conversano (Ba) ventotto anni fa, Maristella è stata segretaria regionale di Missio Giovani Puglia. Ora vive a Torino, è membro della Consulta del Centro missionario dell’arcidiocesi e collabora per la formazione missionaria dei giovani. Quella di Maristella
Tommaso è una riflessione ad alta voce, un mettere nero su bianco un flusso di parole che pone al centro di tutto l’Amore. Già, quello con la A maiuscola. Quell’Amore che si è fatto carne, il Verbo, e che è venuto in mezzo a noi. Gesù.

Non stupisca che l’autrice si sia spinta così avanti (o in alto): il suo non è un trattato teologico, né ha velleità filosofiche. Piuttosto è un percorso di scoperta di sé e di quell’Amore percepito con chiarezza, nel quale ha un peso determinante la missione, il tempo trascorso in Brasile, Benin, Palestina e Thailandia.

«Sono stata fortunata e lo dico spesso – scrive -. Sono sempre stata circondata da persone meravigliose che mi hanno rivelato l’Amore. L’Amore che si incarna, che si spoglia, che si fa povero con i poveri, che ci accarezza con tenerezza, ci sostiene e ci libera. L’Amore che si fa uomo e che cammina insieme a noi, che si fa strada, silenzio, speranza. L’Amore che ci spinge ad andare, a tendere verso gli altri, a prenderli per mano, che ci sprona a migliorare, che alimenta il nostro entusiasmo, che ci fa uscire per le strade e si fa presente negli occhi che incrociamo, nelle mani che stringiamo, nei volti che accarezziamo, nei piedi di chi decide di fare un pezzo di strada insieme a noi».

Un inno alla speranza in tempi che sembrano, forse per la prima volta da decenni a questa parte, davvero bui.

L’autrice traccia anche una piccola personale road map, un sentiero lessicale che ha ricostruito per dare senso e profondità alla voce del verbo amare. Tredici capitoli per declinare quel verbo in altrettanti verbi all’infinito: proteggere, attendere, camminare, stare, perdonare, vivere, sorridere, cadere, guarire, liberare, risorgere, (r)esistere, sognare.

In ogni capitolo c’è la vita vissuta di Maristella: gli incontri, le sofferenze, le rinascite, la fede, i dubbi. Racconta tutto con naturalezza e semplicità, accompagnando il lettore in un cammino di scoperta che, partendo dall’autrice, diventa, in qualche modo, corale.

«Siate sentieri, lasciatevi percorrere. Siate mani sempre spalancate che sappiano accogliere qualsiasi cosa come un dono, sappiano accarezzare e sappiano donare. Siate sorrisi in un mondo in cui, purtroppo, regnano l’odio, l’indifferenza, il razzismo, l’egoismo. Siate piedi per chi ha paura di cambiare strada, di camminare e di percorrere sempre insieme agli altri le strade che Dio vi metterà davanti. Siate occhi capaci di guardare oltre, capaci di oltrepassare muri, capaci di innamorarsi ancora, ancora e ancora. Siate costruttori di pace… innalzate ponti e abbiate sempre il cuore aperto al mondo. […] Quando vi dicono che siete il futuro non ci credete, voi siete il presente! Il presente. Impegnatevi oggi. Amate oggi. Sporcatevi le mani. Metteteci la faccia, ma oggi».

 




Spiritualità e prove impossibili


Le vita ci mette spesso di fronte prove che ci sembra di non sapere superare. Eppure gli eroi di questi film ci provano. E alcuni ci riescono pure. Forse anche grazie a una buona carica spirituale.

Amore e morte

Tutti coloro che amano il cinema lo sospettavano, ma i dati ufficiali sono stati peggiori delle attese. I rilevamenti ufficiali dell’Anica, Associazione nazionale industrie cinematografiche, resi noti a fine dicembre, ci dicono che in Italia nel 2021 i cinema hanno registrato un incasso complessivo di 170 milioni di euro. Il 73% in meno rispetto alla media del triennio 2017-2019. I biglietti staccati al botteghino sono stati 30 milioni, prima della pandemia si oscillava tra gli 80 e i 100 milioni.

Però, anche se è stato un anno terribile per il grande schermo, il più importante festival del cinema indipendente italiano, il Torino film festival, ha battuto un colpo, ed è tornato, a novembre, a respirare in grande.

Il premio come miglior film è andato a «Between two dawns», tra due albe, del regista turco Selman Ancar, che a soli 32 anni, al suo esordio, lascia pubblico e giuria a bocca aperta. Tutto nasce da un incidente mortale all’interno della fabbrica di famiglia di Kadir, il protagonista. Kadir si fa carico di tutto ciò che comporta un dramma di quelle dimensioni, ma non è sempre così facile fare i conti con se stessi in situazioni simili. In una recente intervista rilasciata ad Antonio Maiorino per il sito

taxidrivers.it, è lo stesso Selman Ancar a spiegare: «Ho sempre trovato molto cinematografica la nostra incapacità di raggiungere una conclusione riguardo problemi di questo tipo, così come l’opportunità di poterli osservare da diversi punti di vista. In più, volevo ritrarre il momento in cui un personaggio attraversa un conflitto morale, intrappolato tra la coscienza, la famiglia e i propri sogni».

Un altro regista che ha fatto del realismo e della scelta morale un tratto distintivo della sua cinematografia è Uberto Pasolini, romano trapiantato a Londra, che è stato nelle sale a fine anno con «Nowhere special», bellissimo e struggente. È la storia di un padre un po’ scalcagnato e solo, che ha ancora pochi mesi da vivere a causa di un tumore, e un bimbo di 4 anni al quale decide di trovare una famiglia solida e ricca a cui affidarlo dopo la sua morte. Inutile dire che il bambino, Daniel Lemont, è una vera sorpresa. Amore e morte in «Nowhere special» si tengono per mano. Però Uberto Pasolini (Uberto, non Umberto, e non è parente del grande Pier Paolo) ha una cifra stilistica che strappa applausi ed è capace di vette altissime di tenerezza. Per averne conferma prima di guardare «Nowhere special» (lo trovate per fortuna su Netflix, visto che è sparito dalle sale troppo presto per essere apprezzato come meriterebbe), concedetevi anche «Still life» (lo trovate a noleggio su Google Play e su

iTunes), che il regista romano ha girato nel 2013. È la storia di un impiegato pubblico londinese il cui compito è, ogni volta che muore una persona sola, di trovare qualche amico, parente, conoscente da avvisare e portare al funerale. Nessuno deve fare l’ultimo viaggio da solo.

Il picchiatore con le mani ferite

A queste storie di forte realismo e grandissima umanità possiamo aggiungere un esperimento interessante in corso su Sky. Il 28 gennaio è andata in onda la prima puntata della prima stagione di «Christian». Nella periferia romana un uomo, Christian, lavora per un boss della mala e come tale si comporta. È un picchiatore, uno tosto, fino a quando le mani iniziano a essere doloranti, a tal punto da sanguinare. Ha le stigmate. E la storia prende un’altra piega. La serie è tutta inserita nel genere crime, ma la scelta fatta da Sky e da Lucky Red (che produce) è avvincente. Diretta da Stefano Lodovichi e con un bravo Edoardo Pesce nella parte del picchiatore che deve fare i conti con qualcosa per lui del tutto incomprensibile, «Christian» inaugura un filone definito «dramady supernatural», che ha le carte in regola per fare strada. Il rischio di cadere nel ridicolo è dietro l’angolo, la possibilità di fare a pugni con la sensibilità religiosa, con l’idea di sacro è concreta, ma nelle prime due puntate il rischio pare scampato. Vedremo nel prosieguo della serie.

Spiritualità on demand

Rimanendo nel mondo delle piattaforme che, almeno in questa fase pandemica e post pandemica, hanno soppiantato il ruolo delle sale cinematografiche, vale la pena segnalare che Netflix ha arricchito il suo carnet di titoli a carattere religioso. Digitando le menù di ri-cerca la parola «spiritualità», l’elenco delle proposte è interessante: film, serie tv e documentari che nella home della multinazionale trovano poco spazio, ma che meritano attenzione.

Tra questi: «Blue Miracle. A pesca per un sogno», di Julio Quintana, uscito nel 2021. Tratto da una storia realmente accaduta, Blue Miracle ricostruisce in chiave di dramma a sfondo sportivo la vicenda di Casa Hogar, l’orfanotrofio messicano di Cabo San Lucas che, nel 2014, fece scalpore per la sua incredibile vittoria al Torneo annuale di Bisbee Black & Blue, la competizione di pesca sportiva più importante del paese. La sopravvivenza dell’orfanotrofio dipendeva da quella gara di pesca: vincere o morire.

Infine vale la pena segnalare la nuova avventura sul piccolo schermo di Davide Demichelis, ideatore e conduttore di «Radici, l’altra faccia dell’immigrazione», che, dopo sei stagioni, va ancora in onda in replica su Rai3, la domenica alle ore 13.

Visto che le nuove stagioni, per ora, rimangono nel cassetto delle ipotesi, il gruppo di lavoro di Demichelis trasloca su Green explorer, nuova trasmissione che andrà in onda sul Canale 176 di Sky. Lo stesso autore sui canali social presenta così la stagione che va a iniziare: «Abbiamo fatto un bel viaggio, fra le isole del mar Tirreno, per esplorarne l’ambiente e raccontare storie di na-tura, persone e animali.

Abbiamo esplorato con i volontari di Delphis i delfini di Ischia, e poi il vero oro di Capri (l’olio), le borracce di Procida, le miniere dell’Elba, il miele di Ponza, il carcere della Gorgona che ne protegge la natura, le berte di Ventotene e ancora molte altre storie di persone, animali e ambienti. Filo rosso delle nostre esplorazioni: una barca a vela. Il mezzo di trasporto più ecologico per raggiungere questi luoghi».

Sante Altizio




Pandemia, e punti di vista

Luca ci racconta la vita di Gesù, da una prospettiva più simile alla nostra. E poi un diario dal carcere, quello di un missionario rapito dagli islamisti nel Sahel. Infine, come si è vissuta la pandemia in una terra molto speciale.

Ma Dio ci ama gratis?

È uscito a novembre e, complice l’impossibilità di essere presentato nelle librerie a causa delle restrizioni sanitarie legate alla pandemia, se n’è parlato poco, ma Dio ti ama gratis. In cammino con Luca merita tutta l’attenzione possibile. Scritto dal torinese Paolo De Martino e pubblicato dalla casa editrice veronese Gabrielli, è un libro che si inquadra perfettamente all’interno della nuova realtà che, a partire dal marzo del 2020, si è modellata sotto i nostri occhi.

Paolo De Martino, insegnate di religione in una scuola superiore, diacono della diocesi di Torino, è anche il responsabile dell’apostolato biblico e non è nuovo alle avventure editoriali. Questa volta, però, il viaggio all’interno del Vangelo di Luca ha una valenza precisa: ricordarci che la buona notizia c’è, anche se attorno a noi tira un’aria cupa. E questa buona notizia va semplicemente letta e fatta nostra. Anche e soprattutto oggi che abbiamo un gran bisogno di notizie buone.

Luca è l’evangelista che non ha conosciuto Gesù, proprio come noi, e si rivolge a persone che a loro volta non hanno mai visto il Nazareno. Eppure, ci ricorda l’autore nell’introduzione, «Se non avessimo avuto il suo vangelo, non conosceremmo la parabola del buon samaritano, della pecora perduta, non sapremmo nulla del buon ladrone e di Zaccheo, ci sfuggirebbe il particolare che Gesù era seguito e mantenuto da un gruppo di donne».

Luca intervista, chiede, viaggia, studia, mette insieme i pezzi e ci offre un quadro d’insieme di grande umanità perché «vuole semplicemente inserire la vicenda di Gesù nella storia universale».

Oggi quella storia e quelle parole dell’evangelista risultano urgenti. «Dio ci ama gratis – ci dice l’autore raggiunto nel suo ufficio della Curia torinese -, non ci chiede redenzione o qualcosa in cambio. Lui ci perdona, poi saremo noi che, inevitabilmente, cambieremo il nostro punto di vista».

Con questa pandemia non siamo diventati migliori, anzi, la società è divisa come poche al-tre volte in tempi recenti. La lettura del Vangelo di Luca accompagnata dalla guida di Paolo De Martino, per molti di noi, potrebbe rivelarsi un’occasione da non perdere.

 

Sciogliere le catene

Se c’è qualcuno che non ha mai perso la speranza, anche se la sua vita era appesa a un filo, questi è padre Pier Luigi Maccalli, religioso della Società per le missioni estere (Sme) di Genova, cremasco di nascita, che fu rapito nella notte tra il 17 e il 18 settembre del 2018 in Niger, nella parrocchia di Bomoanga, a circa 150 km dalla capitale Niamey, e poi liberato due anni dopo, nei primi giorni di ottobre del 2020.

Quella difficile esperienza è diventata ora un libro, pubblicato dalla Emi, che porta la firma dello stesso Pier Luigi Maccalli, «Catene di libertà». Il religioso italiano racconta il suo rapimento, ma soprattutto chiude un cerchio: deve fare in modo che quella pagina della sua vita possa essere messa alle spalle una volta per tutte: «Adesso sono libero per liberare il perdono e spegnere sul nascere ogni inizio di violenza – scrive padre Maccalli -.  Sono libero per liberare l’accoglienza e consolare chi è affaticato e oppresso. Sono libero per liberare la parola e dire a tutti di non incatenare mai nessuno». C’è una domanda che lo arrovella mentre è, letteralmente e fisicamente, in catene: «Perché il Signore mi ha abbandonato?». Due anni tra le savane del Sahel e le dune del Sahara, dormendo ogni notte all’addiaccio, il più delle volte solo con i suoi carcerieri, altre volte con altri ostaggi, sono un’esperienza dalla quale si può uscire vivi, ma non si è più se stessi. Scrivere diventa terapeutico, diventa lo strumento per tornare davvero tra i vivi e i liberi. Infatti «Catene di libertà», che la stessa Emi, presentandolo, ha definito un «quaderno dal carcere», oscilla tra cronologia e introspezione, in cui i momenti di sconforto, accentuato dal pensiero costante dei familiari e degli amici che il missionario immagina angosciati e preoccupati a casa, si alternano a quelli di speranza. Con sè, ovviamente, non ha una Bibbia e men che meno può permettersi di celebrare i sacramenti. È sottoposto a un lunghissimo «digiuno eucaristico», ma padre Luigi scopre nuove risorse e una nuova dimensione del vivere e del credere: «È proprio in questa prova delle catene che il mio spirito si libera. Perché i miei piedi sono incatenati, ma il cuore no».

C’è una grande dose di nuova fiducia nel futuro nel diario di padre Maccalli, un’eredità preziosa.

Da una terra molto speciale

Rimanendo legati agli effetti di questo lungo periodo segnato dal Covid-19, vale la pena segnalare, a due anni dal primo lockdown italiano, La pandemia in Terra Santa. Diario di un francescano, uscito nella seconda metà del 2021 per Edizioni Terra Santa.

A scriverlo è stato padre Ibrahim Faltas, frate francescano che vive a Gerusalemme. Attualmente è direttore delle scuole della Custodia di Terra Santa ed è stato vice parroco a Betlemme, parroco a Gerusalemme e responsabile dello status quo della basilica della Natività. «Il mio diario – spiega il religioso – racconta l’esperienza di quest’anno di pandemia. Noi francescani abbiamo continuato la nostra missione in Terra Santa senza mai fermarci, per dare un messaggio di speranza e di attesa di un nuovo futuro». Ci sono ricordi, appunti e immagini, che vanno dalla Pasqua 2020 alla Pasqua 2021: due date fortemente simboliche. La prima è stata una festa umiliata e dimessa con celebrazioni cancellate, santuari vuoti, la gente chiusa in casa e le comunità francescane rinserrate nei conventi. E poi i morti, i malati, la paura. Un anno dopo: tanti fedeli locali e lavoratori migranti che respirano nuovamente la gioia di camminare da Betfage a Gerusalemme per celebrare i riti del tempo pasquale in presenza, nel calore e nella condivisione dei fratelli di fede.

Anche se non tutto è alle nostre spalle, il diario di padre Faltas è una lettura utile per osservare da un altro punto di vista quello che tutti quasi ovunque abbiamo subìto e vissuto. Però, farlo dalla Terra Santa che, per definizione, è il luogo della Resurrezione, ha un sapore intenso e anche un po’ consolante. Il filo che lega le pagine scritte dal francescano è chiaro: la speranza non deve mai cedere il passo allo sconforto.

Sante Altizio




La Letteratura che parla della vita


Un cantautore, un Rom e due donne

Una storia vera e due inventate, ma che parlano di cose vere. L’esperienza di un bambino francese che perde la madre a sei anni, quella di un Rom, perseguitato da uno stigma che gli brucia come un marchio a fuoco, quella di una donna alle prese con un trasloco a novant’anni, e della donna che le porta la notifica di sfratto.

Solo i bambini sanno amare

Gli editori indipendenti sono retti da gente coraggiosa. Coraggiosa e creativa. Chi ama leggere lo sa: nei cataloghi indipendenti spesso si nascondono pagine di letteratura che dovrebbero avere molta più fortuna di quella che hanno.

Ho appena finito di leggere Solo i bambini sanno amare, pubblicato nel 2021 da Vague Edizioni. Lo ha scritto Bruno Caliciuri, in arte Cali, un cantautore francese sconosciuto in Italia, ma di buon seguito oltralpe. In Francia il libro è uscito nel 2018. Vague Edizioni ha scovato la classica perla che rischiava di andare perduta.

I cantautori, almeno in Italia, si concedono spesso digressioni narrative. Da Ligabue a Francesco Guccini, da Roberto Vecchioni a Giuliano Sangiorgi, gli esempi non mancano. Non ho idea se anche in Francia succeda qualcosa di simile, di certo Solo i bambini sanno amare è un libro che non dovrebbe passare inosservato.

Cali, con coraggio e una dose rara di umanità, racconta i mesi terribili che sono seguiti alla morte di sua mamma, la maestra di Vernet Les Baines, un piccolo paesino della Francia meridionale. Lui aveva sei anni.

È un racconto in prima persona, senza distanza temporale. È Cali bambino che si racconta. Attraversa il disorientamento, il dolore, la rabbia, la ricerca di quell’amore materno perduto e che lui ha bisogno in qualche modo di rimpiazzare. Peccato che ci siano vuoti che non possono essere colmati e che capirlo a 6 anni è dura.

Leggendo questo libro, ho rivisto pezzi di Romain Gary, sicuramente con meno ironia, ma di certo con la medesima lucidità. Cali è un autore che vale la pena scoprire come narratore e, se andrete a cercare sue tracce canore su YouTube o Spotify, non resterete di certo delusi.

Un’ultima nota importante sull’editore: Vague Edizioni pubblica solo autori francofoni e rappresenta, per la letteratura francofona, ciò che Sur rappresenta per quella sudamericana, Iperborea per il Nord Europa o Miraggi per il mondo slavo.


Ogni luogo un delitto

Vi segnalo un’altra recente lettura che mi ha colpito non poco. Credo di aver letto, per la prima volta in vita mia, un libro nel quale uno dei due protagonisti, eroe positivo, è un Rom. Un Rom brutto sporco e cattivo, come vogliono gli stereotipi, ma non solo.

Il Rom e tutta la sua comunità vengono raccontati per quello che sono: un popolo imperfetto, con una cultura ancestrale e una religiosità incrollabili alle spalle. Ma anche uno stigma indelebile che li perseguita.

Lo stigma che spinge la signora Pautasso a stringere a sé la borsetta quando li incrocia al mercato, e che fa raccogliere firme nei gazebo per far sgomberare a colpi di ruspa l’accampamento sorto troppo vicino alle nuove villette a schiera.

Gli zingari popolano il razzismo che crediamo di non avere, e che mai nessuno redimerà.

Flavio Troisi, scrittore, ghostwriter e youtuber, ha scritto per Autori Riuniti, Ogni luogo un delitto. È uscito a febbraio del 2021 ed è già alla prima ristampa. Non sono sorpreso. Flavio (che è un tipo interessante, colto, con una visione del mondo che non ama l’ovvio) ha scritto davvero un bel libro, un intrigante viaggio nel mondo zigano, in un accampamento che ha collocato in Val Susa, nella «valle che resiste» (più ai tempi che cambiano troppo rapidamente le vite, che al treno veloce), ma soprattutto ha trasformato un riuscitissimo racconto thriller in un piccolo manifesto di lucida protesta.

Tutti i protagonisti del libro di Troisi sono alla ricerca di un «piano B», di una seconda possibilità. Sono stanchi di un modello sociale nel quale non si identificano, e, alla faccia di ogni regola non scritta, si costruiscono, un pezzo alla volta, un’alternativa, un luogo nel quale poter essere se stessi fino in fondo.

Costel, autorevole boss della comunità rom, e Fabio, ex dirigente scaricato dalla multinazionale di turno, reinventatosi muratore, si ritrovano senza volerlo per un secondo a fare i conti con una brutta (bruttissima) storia di sangue.

Tra loro nasce quel legame di amicizia che nessuno dei due avrebbe mai messo in conto, e scoprono due cose: innanzitutto di essere dei discreti investigatori, poi di essere molto più simili di quanto fosse ipotizzabile.

Costel è un uomo in fuga, come tutti gli zingari del globo, da una storia infinita di pregiudizi. Fabio, invece, dopo essere stato preso a calci nel sedere da ciò in cui credeva, ha bisogno di riprendere in mano la propria esistenza.

Questa storiaccia brutta, darà loro l’opportunità per svoltare.

Non so se in un libro vada cercata la «morale della storia», ma io, in Ogni luogo un delitto, ho trovato questa: la ricerca di un posto nuovo nel quale dormire il sonno del giusto, prima o poi, tocca tutti. E questa ricerca ci rende, che lo si voglia o meno, nomadi.

Anche se non abbiamo origini slave, non suoniamo violini zigani, non siamo circensi, non svuotiamo appartamenti o rubiamo portafogli sul tram. Siamo un po’ Rom, anche se siamo gagi (non Rom). Rom, per la cronaca, significa uomo.


Olmo

Chiudiamo con Olmo, il sesto romanzo di Marcello Loprencipe, uscito con Campi di Carta nel 2021.

Loprencipe, autore con una vicenda personale intrigante (Google vi aiuterà a scoprirla), ci sorprende con una storia intima e tutta al femminile. Le protagoniste infatti sono due donne, molto diverse tra loro per età, vissuto e approccio alla vita e ai sentimenti. Margherita è una novantenne che vive sola in una casa, piena di ricordi, che dovrà lasciare. Viola è la giovane donna che le consegna la notifica di sfratto, ma che non rimane indifferente al racconto dell’anziana.

Quasi tutta la vicenda si svolge su una panchina, dove le due donne si raccontano.

È qui che il romanzo prende corpo, nell’immersione dentro il sentire femminile e, allo stesso tempo, nella rottura degli stereotipi sulla vecchiaia, sui rapporti di forza, sull’importanza del passato e sulle paure del futuro e della morte. Infatti non è detto che Margherita viva nel passato e che Viola progetti il futuro.

Intensa, densa, poetica, come sempre, la scrittura di Loprencipe, che non ama dilungarsi e che in ogni pagina racconta un mondo, in fondo conosciuto e vissuto da ognuno di noi.

Rimane il perché del titolo Olmo. Cosa rappresenta, cos’è, chi è? La risposta la troverete leggendo il libro, ma ciascuno di voi se ne farà un’immagine diversa, ne sono certo.

Sante Altizio

 

 




Storie a Est, verso l’Europa


La rotta balcanica è assai dura. Specie in inverno. I piedi dei migranti si congelano e si disfano nel tentativo di passare la «cortina». Ecco un film che non è un documentario, ma è «cinema del reale».

Un pugno nello stomaco

Dall’11 ottobre le sale cinematografiche sono tornate ad avere la possibilità di capienza al 100%. Speriamo non sia troppo tardi. Nell’ultima settimana di ottobre, con le limitazioni dovute all’emergenza sanitaria, i cinema italiani, segnala Cinetel, hanno incassato circa quattro milioni e mezzo di euro. Il 20% in meno rispetto alla settimana precedente. Nel weekend dell’11 ottobre 2019, The Joker, di Todd Philips, aveva incassato, da solo, oltre sei milioni di euro. Presto sapremo quanto la pandemia ha cambiato le nostre abitudini di consumo cinematografico, con tutto ciò che ne consegue.

Intanto all’inizio di settembre è uscito nelle sale italiane un piccolo capolavoro, che ha fatto parlare di sé anche all’ultimo Festival del Cinema di Cannes: «Europa». A firmarlo è Haider Rashid, figlio di Erfan, giornalista e regista iracheno che da anni vive a Firenze. Haider ha 36 anni ed è nato a Fiesole, non è nuovo al successo, ma questa volta ha davvero toccato vette alte.

«Europa» è un pugno nello stomaco di straziante attualità.

La storia, se vogliamo, è semplice: Kamal è un giovane iracheno che sta cercando di entrare illegalmente in Europa attraverso la frontiera bulgara, a piedi dalla Turchia. Kamal diventa una preda per cacciatori, legali e illegali.

Sulla «rotta balcanica» abbiamo visto servizi in Tv e letto articoli, anche su MC (vedi dossier di questo numero), ma «Europa» ha il pregio di portarci dentro quella strada invernale e, in poco più di un’ora, ci fa vivere tutta l’angoscia e l’ingiustizia che subiscono, ogni giorno, migliaia di persone «colpevoli» di desiderare un futuro migliore per sé e la propria famiglia (si veda il dossier a pag 35).

Nel film di Rashid c’è qualcosa di «Fuocoammare», ultimo grande capolavoro di Gianfranco Rosi. Pur non essendo un documentario, «Europa» può tranquillamente essere catalogato come cinema del reale. Rashid quella storia la sente sulla pelle, è la storia della sua gente. E questa fortissima empatia si sente dalle prime inquadrature fino ai titoli di coda, con una dedica a chi quel viaggio per entrare nella «Fortezza Europa» lo ha iniziato, ma mai finito. Il film è rimasto nelle sale meno di un mese e ha incassato pochissimo. Presto però sarà disponibile in streaming, non perdetelo.

Fatma e la natura

Rimanendo al confine tra Est Europa e Vicino Oriente, vale la pena segnalare un titolo made in Turkey presentato in anteprima mondiale all’ultima e decima edizione del «Nuovi mondi film festival» di Valloriate, in provincia di Cuneo.

Si intitola «Untold story of Fatma Kayaci». In italiano il titolo è diventato «La storia di Fatma Kayaci, che ascoltò il richiamo della montagna». La regia è di Orhan Tekeoglu, classe 1954.

A differenza di «Europa», la vicenda di Fatma non è una storia collettiva, non è così tragica (per fortuna) e non porta con sé conseguenze che segnano i tempi, ma, nel suo piccolo, è la classica storia che dice molto di chi siamo o non siamo più.

Fatma è una donna molto anziana che da 55 anni vive da sola in una casa di pietra lontana da tutto e tutti, immersa tra gli alberi, in montagna nel distretto di Tonya, provincia di Trebisonda. Il confine armeno non è così lontano. Fatma non si è sposata, non ha avuto figli. Si è isolata da quando, a causa di un incidente avvenuto in casa, un nipote al quale era molto affezionata è morto.

Lei si sente responsabile, i genitori del bambino le hanno rimproverato imprudenza, si è arrivati allo scontro, anche fisico. Così Fatma ha scelto di chiudersi nel suo dolore e di tagliare i ponti con il mondo. La gente del villaggio sa che quanto è successo è solo frutto di un tragico destino, attorno a Fatma c’è comprensione per lei e rispetto per la scelta fatta.

Nonostante la neve la isoli per almeno quattro mesi all’anno, Fatma non scende a valle, dove le autorità locali le hanno messo a disposizione una casa. La montagna diventa il suo habitat. A farle compagnia ci sono solo un gatto e due mucche. Soprattutto diventa la custode del luogo. Se ne prende cura arbusto per arbusto, pianta per pianta. Non solo: coltiva, pianta e impedisce il taglio degli alberi di tutta l’area circostante. Solo quelli secchi possono essere abbattuti. La sua sola presenza, la sua capacità di vivere lì da sola, le conferiscono un’autorevolezza naturale.

Gli abitanti del villaggio, compresi gli uomini più avvezzi alla vita di montagna, lo ammettono candidamente: «Nessuno avrebbe resistito così tanto a una vita così dura».

L’acqua di un rigagnolo, una lampada a gas, un fuoco acceso 12 mesi all’anno, due stanze ingombre di sacchetti di plastica pieni di nulla, qualche coperta, è tutto ciò che Fatma possiede, eppure, forse senza nemmeno volerlo, a forza di prendersi cura dell’ambiente che la circonda ora ci sono decine e decine di alberi da frutta, peri, meli, pruni. La flora stessa è varia come mai prima. «È stata capace perfino di far crescere le fragole, che qui non si erano mai viste», confessa un suo parente. Tutta questa sua determinazione le vale un premio che la comunità di Tonya riserva ogni anno alla «Donna più meritevole».

Ovviamente il suo volto segnato da mille rughe e dall’assenza di denti non si lascia intenerire. Ringrazia e ribadisce che il giorno in cui morirà vorrà essere sepolta nel suo bosco, davanti alla sua casa.

La storia di Fatma sarà presto visibile in streaming sul sito amerigofilm.it.

Il mercante georgiano

Sempre a Est, a quella che fino alla fine degli anni Novanta era l’area definita «oltre cortina», merita una segnalazione «The Trader», il mercante, una piccola produzione indipendente che arriva dalla Georgia e che possono vedere gli abbonati a Netflix. La firma è della regista, classe 1986, Tamta Gabrichidze. Si tratta di un documentario breve, tutto girato on the road, che ha vinto il premio come «miglior corto» al Sundance film festival del 2020. Ventitre minuti insieme a un commerciante che, a bordo di uno sgangheratissimo furgone, parte da Tblisi e gira le campagne armene scambiando oggetti usati con chilogrammi di patate, l’unica vera moneta corrente dell’entroterra agricolo. Il baratto, alle porte dell’Europa, oggi.

Sante Altizio




Disinformazione, misteri e leggende

testo di Sante Altizio |


Quando le notizie false possono renderci felici, e quando invece mancano le notizie vere, necessarie per fare giustizia. E poi un poema, che nasce da un viaggio e dai miti, che di notizia non hanno nulla.

Le fake news e la felicità

Il termine fake news è entrato prepotentemente nel nostro vocabolario quotidiano. Le notizie false, le «bufale», come spesso le definiamo, sono diventate, forse per la prima volta, oggetto di dibattito collettivo. E pensare che le notizie false, inventate, costruite artificialmente, appositamente messe in circolazione sono sempre esistite. E con tutta probabilità sempre esisteranno. Meglio, quindi, imparare a conviverci con serenità.

Fabio Paglieri, savonese, classe 1976, nonché ricercatore presso l’Istituto di scienze e tecnologia della cognizione del Cnr di Roma, ha recentemente pubblicato per Il Mulino un piccolo divertentissimo saggio che meriterebbe quella che i social media manager più agguerriti chiamano «massima diffusione». Si intitola «La disinformazione felice. Cosa ci insegnano le bufale», 250 pagine di grande efficacia e di facile lettura anche per chi non ha sulle spalle studi di peso.

«Questo libro – scrive nella premessa l’autore – propone un radicale ribaltamento di prospettiva sul tema della disinformazione online: si invita infatti il lettore ad abbracciare una prospettiva di disinformazione felice. In analogia con la decrescita felice, si sta suggerendo che si possa vivere circondati di disinformazione, e al contempo trarne valore e benessere: essere felici, dunque, non a dispetto delle bufale, ma proprio grazie ad esse, sviluppando un rapporto più sano con la natura, la qualità e la quantità dell’informazione in cui siamo immersi».

La provocazione è forte. Il problema non sono le bufale, ma siamo noi. «Dobbiamo smetterla di pensare alle bufale come oggetti minacciosi che circolano là fuori, novelli squali bianchi nell’oceano digitale […]. Se di colpo producono disastri peggiori che in passato (tesi tutt’altro che dimostrata, per inciso), ciò dipende dagli atteggiamenti che tutti noi assumiamo o non assumiamo a fronte delle informazioni di cui ci nutriamo ogni giorno».

Quindi, se una notizia falsa circola, la colpa non è di chi ha fatto partire la giostra, ma nostra che ci saliamo senza farci qualche domanda basilare. Non che sia sempre facile, va detto, anzi. Per questo motivo la lettura del libro di Paglieri può essere di grande aiuto.

Verità e giustizia

Dalle notizie false, passiamo alle notizie che, per quanto drammatiche e vicine a noi, dimentichiamo con disarmante facilità.

Qualcuno ancora ricorda l’uccisione di Luca Attanasio, nostro ambasciatore nella Repubblica democratica del Congo, avvenuta a Goma il 22 febbraio di quest’anno. Aveva 44 anni e con lui sono stati uccisi Mustapha Milambo, suo autista, e il carabiniere della scorta, Vittorio Iacovacci appena trentenne.

Matteo Giusti, giornalista aretino, esperto d’Africa e da dieci anni collaboratore della rivista di geopolitica Limes, nel maggio scorso ha pubblicato con Castelvecchi «L’omicidio Attanasio. Morte di un ambasciatore».

Il libro di Giusti da un lato inquadra in modo efficace la situazione ormai strutturalmente caotica della Rdc, dall’altro rende il giusto tributo a un uomo che in quella terra stava lavorando con grande dedizione. Non è un caso se Attanasio è stato ucciso mentre accompagnava un convoglio di aiuti alimentari diretti verso la zona di confine tra Congo e Uganda.

Il lavoro sul campo fatto dall’autore permette di farsi un’idea piuttosto chiara di cosa è successo e perché, ma sarebbe riduttivo pensare a «Morte di un ambasciatore» come a un libro inchiesta. L’esigenza è più alta e traspare chiaramente: «È difficile capire quale possa essere il futuro del Kivu e dell’intero Congo – scrive nella prefazione Denis Mukwege, premio Nobel per la Pace del 2018 e amico personale di Attanasio e della sua famiglia – […] In questa regione non potrà esserci un futuro di sviluppo senza la pace, e non ci sarà pace senza giustizia […]. Siamo certi che se domani nasceranno, emergeranno dei nuovi Luca Attanasio in Italia e in Congo, il cammino della pace sarà possibile […]. Il futuro ha sempre il volto delle azioni delle donne e degli uomini che malgrado le difficoltà si impegnano a scrivere le più belle pagine della loro storia, e della storia della comunità mondiale».

Il merito del libro di Giusti è la sua capacità di restituire la complessità di una situazione intricata prima di tutto a causa dei nuovi assetti geopolitici, del ruolo non marginale dell’occidente, della corsa alle terre rare e della difficoltà che abbiamo noi italiani di «fare nostre» le cose che succedono lontano dai nostri confini.

L’ipotesi che la morte del nostro ambasciatore, del carabiniere di scorta e dell’autista, sia il frutto di un rapimento finito male è forse la più accreditata e sensata, ma mancano risposte ufficiali. Risposte che difficilmente arriveranno. Quello che possiamo fare, però, è non dimenticare Luca Attanasio, «Un uomo – chiosa Giusti – che era andato nella Repubblica democratica del Congo per rappresentare l’Italia ed era diventato un simbolo di altruismo e generosità e che meriterebbe almeno verità e giustizia, due parole che in Congo hanno perso significato da tempo».

Meraviglia della natura

Restiamo in Africa, ma seguiamo un registro diverso: quello del racconto orale del mito. Lorenzo Allegrini è un giornalista di lungo corso, che ha girato il mondo.

La scorsa primavera è uscito il suo «La leggenda del Capo di Buona Speranza», pubblicato da Il Viandante. Il libro nasce da un viaggio fatto dallo scrittore marchigiano in Sudafrica, ed essendo Allegrini ormai un giornalista prestato tanto al teatro quanto alla poesia, il suo è a tutti gli effetti un poema, sia nella forma che nella sostanza.

Attinge ai miti africani ed europei, gioca con il conflitto perenne tra uomo e mare, culmina con il sanguinoso sbarco dei coloni olandesi. Utilizzando l’espediente del manoscritto ritrovato, ricostruisce il momento in cui prende corpo una delle meraviglie della natura: il Capo di Buona Speranza.

«La leggenda» è diventato un monologo teatrale godibilissimo nel quale l’autore mette sul palco un’energia rara. Seguitelo sul sito dell’Huffington Post dove tiene un blog dedicato alla poesia.

 

Sante Altizio