Ma le intese non bastano

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 27

Nonostante la legge
sulla libertà religiosa in Italia sia ancora quella del ‘29, non siamo fermi
lì. Le intese tra lo stato e le singole confessioni avvicinano il nostro paese
alla propria Costituzione, ma il deputato del Pd, Roberto Zaccaria, sostiene la
necessità di una nuova legge. Finché essa non ci sarà, non sarà realizzata in
Italia la libertà di credo. Chiudiamo con questa intervista il piccolo ciclo di
dialoghi sulla libertà religiosa con parlamentari italiani.

Una via pragmatica per arrivare in
Italia alla realizzazione del diritto alla libertà religiosa è stata indicata
dal prof. Stefano Ceccanti, ex senatore Pd, e dal senatore Fi Lucio Malan,
nelle due puntate precedenti: quella delle intese tra stato italiano e singole
confessioni religiose, uno strumento previsto dalla Costituzione.

Oggi, infatti, ci si trova ancora con
la vecchia legge del ’29 – anche se profondamente amputata delle sue parti
incompatibili con la Costituzione -, e allo stesso tempo con l’oggettiva
difficoltà a produrre una nuova legge generale, dimostrata dal fallimento di
vari tentativi del Parlamento in diverse legislature. Piuttosto di insistere
sulla strada impraticabile di una legge generale, si sostiene, è meglio
procedere con le intese, e solo in un secondo momento, quando dovessero esserci
le condizioni appropriate, arrivare a una legge generale.

Roberto Zaccaria non è però dello
stesso avviso. Professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico presso
l’Università di Firenze, ha insegnato Diritto costituzionale, Diritto
dell’informazione e Diritto regionale all’Università di Firenze, Macerata,
Lumsa e Luiss di Roma.

È stato membro della Camera dei
deputati nelle legislature XIV (2001-2006, gruppo La Margherita-L’Ulivo), XV
(2006-2008, gruppo L’Ulivo) e XVI (2008-2013, gruppo Pd).

È stato consigliere di
amministrazione della Rai dal 1977 al 1993 e suo presidente dal 1998 al 2002,
vice Presidente dell’Uer (Unione delle televisioni pubbliche europee) dal 2000
al 2002.

È giornalista pubblicista, iscritto
all’Ordine dei giornalisti.

A differenza dei suoi
colleghi Ceccanti e Malan, lei sostiene la necessità di giungere il più presto
possibile a una legge generale sulla libertà religiosa. Per quali motivi?

«L’esigenza
di intervenire per sostituire la legge del 1929 è essenziale e prioritaria. I
principi contenuti nella nostra carta costituzionale soffrono per una
attuazione incompleta nonostante quello che è stato fatto dall’ordinamento
internazionale ed europeo e dalla giurisprudenza a ogni livello.

Le
intese hanno in qualche modo accentuato la divaricazione tra i fedeli delle
diverse religioni e il trattamento delle stesse confessioni e associazioni.

La
strada di trasformare in legge unilaterale il contenuto comune delle diverse
intese è teorica: bisognerebbe comunque passare da un Parlamento che al momento
sembra poco sensibile verso questi temi. Tanto vale, allora, fare una legge ad
hoc, all’altezza dei tempi».

Una normativa
generale inevitabilmente cerca di dare delle «definizioni di sistema» su cui
l’accordo tra le diverse anime del Parlamento è arduo. Qualcuno lo ritiene
addirittura impossibile. Non pensa che sia difficile superare le diverse
visioni quando si affrontano problemi generali, concettuali e teologici?

«Non
credo che il problema sia quello della difficoltà di dare definizioni di
sistema condivise. Il problema è rappresentato piuttosto dalla difficoltà per
il Parlamento di fare leggi di sistema in ogni campo. Basta guardare i dati
sulla produzione normativa per convincersene. La riforma costituzionale e la
legge elettorale sono due eccezioni accompagnate da una fortissima
determinazione politica. Il resto è governo dell’economia. E questa è la
seconda motivazione: una legge sulla libertà religiosa non rientra tra le
priorità in questo momento storico, come non lo rientrano del resto alcune
leggi complementari come quella sulla cittadinanza e quella sull’immigrazione».

Nella XV legislatura
lei è stato promotore di una legge generale che caratterizzasse in modo molto
preciso il diritto di libertà religiosa, specificando i diritti dei singoli e
delle varie confessioni.

«Nella
XV legislatura sono stato più precisamente il relatore della legge sulla libertà
religiosa riprendendo il lavoro che era stato avviato dall’on. Maselli nella
XIII legislatura (1996-2001). Nella XIV legislatura il percorso parlamentare
alla Camera aveva preso le mosse da un disegno di legge del governo Berlusconi
(Ac – Atto della Camera – n. 2531) che riproduceva nella sostanza il testo del
progetto di legge del governo Prodi della XIII legislatura. Nella XV abbiamo
invece lavorato su due proposte di legge d’iniziativa parlamentare,
rispettivamente dei deputati Bornato (Ac n. 36) e Spini (Ac n. 134), intitolate «Norme
sulla libertà religiosa e abrogazione della legislazione sui culti ammessi». Ci
siamo mossi con grande rigore svolgendo addirittura due cicli di audizioni: la
prima sulle proposte Bornato e Spini e la seconda su un testo del relatore.
L’atteggiamento intransigente della Cei, manifestato soprattutto nel secondo
ciclo di audizioni, sull’inserimento nel testo di un riferimento al principio
di laicità, ha prodotto un irrigidimento anche in alcuni dei partiti del
centrodestra. Di fronte a un numero rilevantissimo di emendamenti, il
provvedimento si è arenato. La conclusione dei lavori è avvenuta il 24 luglio
2007. La legislatura è finita alcuni mesi dopo».

Ora ha promosso il
«Gruppo Astrid» che lavora in vista della stesura di una nuova proposta di
legge.

«Poco
dopo l’inizio della XVII legislatura, vedendo che il Parlamento non sembrava
intenzionato ad affrontare l’argomento, con il sostegno di un nutrito gruppo di
professori di diritto ecclesiastico, ho proposto alla Fondazione Astrid di
avviare un gruppo di lavoro per definire una nuova legge sulla libertà
religiosa. A motivare quest’iniziativa non c’era solo il fatto che in
Parlamento il tema risultasse assente, ma anche la necessità di rimettere mano
a una nuova impostazione della legge. I testi che avevano accompagnato il
dibattito parlamentare nelle legislature che abbiamo ricordato erano
decisamente datati e quindi si è deciso di impiegare utilmente le energie
dell’accademia nella predisposizione di un testo che sarebbe potuto essere
utile in una prossima stagione parlamentare. L’idea del gruppo di lavoro ha
preso forma più concreta a Camaldoli, nel maggio del 2013 (cfr. L. Rolandi, L’Italia
religiosa tra disinteresse e sospetto
, in Mc agosto-settembre 2013),
in un convegno organizzato dalla redazione del n. 1 dei «Quadei di diritto e
politica ecclesiastica» in collaborazione con il Fidr (Forum internazionale
democrazia e religioni, www.fidr.it). Il convegno aveva per titolo La libertà
religiosa in Italia: un capitolo chiuso?
1».

In quanto tempo pensa
che il testo possa essere pronto?

«I
tempi di lavoro sono costanti in relazione al progetto. Esiste un gruppo
redazionale più ristretto che presenta proposte per il gruppo più ampio2. Sono stati esaminati una sessantina di
articoli. Il lavoro istruttorio si concluderà entro 6-8 mesi. A quel punto
credo che verrà convocato un seminario per discutere coralmente il testo».

Il testo di questa
nuova proposta di legge si differenzia, e in che cosa, da quello da lei
promosso nella XV legislatura?

«Come
dicevo, il nuovo testo, pur prendendo le mosse da quello vecchio, ne allarga
considerevolmente l’orizzonte, e tiene conto degli stati di avanzamento sia
della giurisprudenza che della dottrina. A partire dagli anni 2000 sta
crescendo sensibilmente il profilo internazionale e comunitario della libertà
religiosa; si affacciano i problemi identitari connessi ai flussi migratori; si
prospettano problemi di bioetica; cresce il coinvolgimento di realtà
confessionali estranee alla tradizione giudaico-cristiana; aumentano i problemi
di pluralismo religioso; si fa più complesso il rapporto tra profilo collettivo
e profilo individuale del diritto di libertà religiosa; e tutto questo ha
rilevanti conseguenze sul concetto stesso di libertà religiosa. Questo è un
diritto che viene sempre più spesso associato a problematiche di natura
etico-morale e di natura politico-culturale in riferimento al cambiamento della
geografia religiosa dovuto ai fenomeni migratori. In più, come vediamo anche in
questi giorni, aumentano le questioni di ordine pubblico e sicurezza».

Su cosa basa la sua
fiducia che questa volta una legge generale sulla libertà religiosa possa
essere approvata dal Parlamento? In particolare, ritiene che tale risultato si
possa conseguire nel corso della presente legislatura?

«Non
ho detto che cresce la fiducia sulle possibilità che il Parlamento arrivi ad
approvare un testo in questa legislatura. È proprio questo il motivo per cui
riteniamo utile lavorare al di fuori del Parlamento in una fondazione come
Astrid che lavora al fianco delle istituzioni ma che consente di riunire
esperienze e discipline diverse. Quando saremo pronti offriremo ben volentieri
questo lavoro alle istituzioni e alla politica. Oggi lavoriamo tranquillamente
anche al riparo dalle inevitabili tensioni che il dibattito politico genera».

La sua proposta
precedente si fermò anche perché non ci fu accordo sul fatto che essa si
fondasse sul principio di laicità che, tuttavia, è alla base della Costituzione
repubblicana. Perché dunque non ci si è trovati d’accordo? Oggi le cose sono
cambiate o l’affermazione della laicità dello stato costituisce ancora un
problema per qualcuno?

«In
quel momento quel riferimento nel testo al principio della laicità è risultato
dirompente, ma non è detto che debba essere
sempre così: le cose cambiano. Del resto ripeto che la nostra proposta
avrà un respiro più ampio e, pur fondandosi ovviamente sul principio di laicità
che è parte essenziale della nostra Costituzione, potrà declinarlo in modo
altrettanto efficace. Non credo proprio che andando alla radice del problema vi
possano essere dei contrasti. Magari vi saranno su altri aspetti».

Ritiene che, anche
quando fosse approvata la nuova legge generale sulla libertà religiosa, sarebbe
utile proseguire con la stipula delle intese tra lo stato e le confessioni
religiose?

«Diciamo
subito che non è lecito chiudere una porta, come quella delle intese, che la
Costituzione prevede. D’altra parte ci sono delle intese che hanno fatto
ampiamente il loro percorso, come quella con i Testimoni di Geova, che
dovrebbero essere approvate. Certo, su un piano generale, diciamo di opportunità,
credo che sarebbe meglio procedere con una legge unilaterale dello stato che
regoli il diritto per tutti perché, paradossalmente, se procedessimo solo sul
terreno della regolamentazione bilaterale attraverso le intese rischieremmo di
allargare le disparità tra chi gode di regimi particolari e chi ancora è
soggetto all’anacronistica legge 1159 del 1929».

In attesa della legge
generale, rimane aperta nel nostro paese la questione di un’intesa con l’Islam.
Quali problemi crea questa situazione, nella prospettiva di una piena
integrazione dei fedeli islamici nel sistema costituzionale e giuridico, oltre
che nella società, del nostro paese?
L’approvazione di una legge generale sulla libertà religiosa faciliterebbe la
soluzione di questi problemi o la renderebbe invece più difficile?

«È
esattamente questo il problema. Proprio all’Islam mi riferivo quando parlavo di
inaccettabili differenziazioni. Visto che fino a questo momento la strada
dell’intesa si è rivelata impercorribile con l’Islam, è essenziale procedere
sulla base della cosiddetta legge generale.

Non
ho alcun dubbio. Oggi questa legge è necessaria. Si potrebbe procedere anche
con la creazione di un testo unico che riunisca le disposizioni sparse in una
quantità enorme di testi normativi diversificati. In questa materia però la
mera compilazione non è sufficiente: si tratta di riordinare e ammodeare. Io
credo che la strada migliore sia invece quella di fare una legge di principi e
anche di disposizioni innovative che mettano in soffitta la legge sui culti
ammessi, che contenga una delega idonea e confezionare le disposizioni più
specifiche, e anche la delega per la redazione di un testo unico innovativo».

Paolo Bertezzolo
Note:

1- Tra i relatori di quel convegno c’erano, tra
gli altri, Roberto Mazzola, dell’Università del Piemonte Orientale A. Avogadro,
Marco Ventura della Katholieke Universiteit Leuven, Romeo Astorri
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Alessandro Ferrari dell’Università
degli Studi dell’Insubria.

2- Il gruppo è formato, oltre che dai professori
indicati nella nota 1, dall’intervistato Roberto Zaccaria, in veste di
cornordinatore, da Francesco Margiotta Broglio, Sara Domianello, Pierangela
Floris, Valerio Tozzi, Paolo Naso, Paolo Cavana e Marco Croce. Ha partecipato
ad alcune riunioni il Sen. Lucio Malan. Hanno anche aderito Paolo Corsini e
Vannino Chiti. Partecipano stabilmente alle riunioni, in veste di osservatori,
la dott.ssa Anna Nardini per l’Ufficio studi e rapporti istituzionali della
Presidenza del Consiglio, e la dott.ssa Giovanna Maria Rita Iurato della
Direzione centrale affari di culto del ministero dell’interno. Ci sono poi
alcuni esponenti di confessioni religiose che ne hanno fatto richiesta: Yahya
Pallavicini (Coreis, Comunità religiosa islamica italiana), Ezzedin Elzir
(Ucoii, Unione delle comunità islamiche d’Italia), Abdellah Redouane (Moschea
di Roma), Tiziano Rimoldi (Avventisti), un rappresentante della chiesa
Ortodossa. Per l’Uaar (Unione atei agnostici razionalisti) partecipa anche
Adele Orioli.

Del gruppo redazionale più
ristretto fanno parte Ferrari, Mazzola, Domianello e Floris.

Paolo Bertezzoro




Non siamo fermi al ’29

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 26

Si può scrivere in
una legge che i lavoratori hanno diritto ad assentarsi nelle feste della
propria confessione? Oppure vietare l’uso di una lingua diversa dall’italiano
nei luoghi di culto? Una nuova legge generale sulla libertà religiosa non è,
per la politica odiea, una priorità, anche per l’oggettiva difficoltà di
sciogliere molti nodi che paiono irrisolvibili. Ne parliamo col senatore di
Forza Italia Lucio Malan.

Deputato nella XII legislatura
(1994-1996), eletto nelle liste della Lega Nord, è senatore dal 2001, prima del
Pdl e ora di Forza Italia. È stato membro della commissione affari
costituzionali fino al 2013. Nell’attuale legislatura è questore del Senato e
fa parte della commissione giustizia. È membro della giunta delle elezioni e
delle immunità parlamentari e del comitato parlamentare per i procedimenti
d’accusa. Per conto del parlamento ha svolto numerosi incarichi a livello
internazionale. È attivo anche nella Chiesa Valdese, cui appartiene.

Intervistiamo Lucio Malan, da anni
impegnato sul tema della libertà religiosa.

L’Italia oggi è una
società multiculturale e multireligiosa, molto diversa da quella del ’29 quando,
durante il regime fascista, era stata approvata la «Legge Rocco» sui «culti
ammessi» per «consentire» il libero esercizio dei culti non cattolici, dopo
aver riservato con i Patti Lateranensi una «particolare condizione giuridica»
alla religione dello stato. Nonostante sia stata modificata dalla Corte
costituzionale, per togliere le parti incompatibili con la Costituzione
repubblicana, quella legge è tuttora in vigore. Un’altra, dunque, si impone.
Lei si è molto impegnato in questa direzione. Cosa ha fatto fino a oggi il
Parlamento per rispondere a questa necessità?

«Ci sono stati diversi tentativi di arrivare all’approvazione di una
legge sulla libertà religiosa, in particolare nelle legislature 1996-2001 e
2001-2006. I governi Prodi I e Berlusconi II presentarono disegni di legge
sostanzialmente uguali fra di loro. Nel 2003 la proposta fu approvata in
commissione e approdò nell’aula della Camera, ma non andò oltre la relazione.
Nel frattempo, però, Camera e Senato dal 1984 hanno approvato undici intese1 oltre a cinque modifiche di esse. Il record è
stato nella legislatura 2008-2013, con cinque nuove intese e tre modifiche,
andando oltre l’ambito giudaico-cristiano grazie agli accordi con buddisti e
induisti».

Perché,
nonostante questo notevole lavoro, non è stata ancora approvata la nuova legge
sulla libertà religiosa?

«Perché non è sentita come una priorità e perché si tratta di cosa
molto complicata. Nella legislatura 2001-2006 il testo approvato conteneva
alcune limitazioni ispirate a questioni di sicurezza, che furono ritenute
inaccettabili da molta parte del centro sinistra. Senza quelle limitazioni
sarebbe stato il centro destra a opporsi. Inoltre la legge dell’epoca fascista,
odiosa nel titolo (“culti ammessi”), in realtà concede molto più di quanto si
crede e molti oggi avrebbero difficoltà a riapprovare le stesse norme. Ad
esempio, include la possibilità dell’ora di religione in contemporanea
all’insegnamento della religione cattolica».

Le
intese tra lo stato e le varie confessioni religiose, nonché la futura nuova
legge sulla libertà religiosa, costituiscono una crescita dei diritti e delle
libertà, nel quadro dell’attuazione piena della società democratica definita
nella Costituzione repubblicana. Alla sua base sta il principio di laicità, in
cui tutti si riconoscono. Perché allora tale principio è diventato uno dei
motivi per cui non si è riusciti ad approvare la nuova legge sulla libertà
religiosa?

«Non so se la laicità finisce per essere un ostacolo. Di certo, molti
temono una legge che includa anche gli islamici, perché nelle loro varie realtà,
potrebbe dare l’opportunità agli estremisti di usare le prerogative di
confessione religiosa per fare altro, e si sa che in gran parte dei paesi
islamici, il concetto di laicità dello stato è del tutto sconosciuto. Inoltre,
come ho detto, nessuno vuole concedere spazi e si dice: piuttosto di una
cattiva legge, meglio andare avanti così, visto che comunque la libertà
religiosa c’è e le intese funzionano».

Quali
sono le questioni principali, in ordine alla libertà religiosa, che la nuova
legge deve regolamentare?

«Si tratterebbe di attribuire a tutte le confessioni alcune
prerogative attualmente riservate a quelle che hanno stipulato l’intesa. In
realtà, molte prerogative sono già oggi garantite, come la possibilità, per i
ministri di culto, di visitare i detenuti, entrare negli ospedali non solo per
uno specifico paziente, come ad esempio un parente, e altre questioni. Già oggi
tutte le confessioni possono farlo, purché abbiano il riconoscimento della
personalità giuridica e la nomina dei ministri di culto sia approvata dal
ministero dell’interno, cosa che ultimamente è diventata problematica. C’è poi
la questione della partecipazione all’8 per mille, oggi riservata ai titolari
di intese, che sembra improbabile poter allargare a tutti. Ci sarebbe anche la
questione delle festività religiose, del riconoscimento degli istituti di
formazione dei ministri di culto, e altro ancora. In realtà, non è facile
scrivere una normativa che preveda le esigenze delle varie confessioni e tenga
conto dei problemi che ciascuna può porre alla collettività. In questo le
intese sono molto efficaci perché partono dai casi concreti e li affrontano in
termini di norma. Per fare un esempio banale: non si può scrivere astrattamente
che i lavoratori hanno diritto ad assentarsi nelle feste della propria
confessione: teoricamente ogni giorno la Chiesa Cattolica festeggia una
ricorrenza, o uno o più santi. Parlando di prevenzione dei problemi che si
possono creare con talune confessioni, c’è chi propone di imporre nelle moschee
l’uso del solo italiano, perché l’eventuale incitamento all’odio possa essere
riscontrato più facilmente, e conosco dei musulmani che non sarebbero contrari.
Resta il problema che il Corano deve poter essere letto in arabo, che per loro è
lingua sacra. In ogni caso, non si può fae una norma generale: vuoi vietare
la messa in latino, che fino a 50 anni fa era l’esperienza comune di tutti i
cattolici, schiacciante maggioranza nel paese? Vuoi vietare agli ebrei di
leggere la Torah in ebraico, la lingua in cui per loro, e anche per noi
cristiani, è stata scritta da Mosè sotto la dettatura di Dio? Ci vuole molto
pragmatismo. Prendiamo l’aspetto delicato della circoncisione: è vero che è un
atto irreversibile praticato su bambini di otto giorni, dunque senza alcun
assenso, ma è anche vero che è tradizione antichissima, che non ha alcun
effetto negativo. Ben altra cosa sono le mutilazioni femminili, anche esse
tradizionali in certe etnie, ma del tutto inaccettabili nella nostra civiltà».

Si
può realisticamente pensare che essa sia approvata nel corso della presente
legislatura?

«No. Ma non mettiamo limiti alla Provvidenza».

C’è
chi sostiene che, a seguito della stipula delle intese con diversi culti
religiosi, sia aumentato il divario tra i diritti di questi e i diritti di
quelli che le intese non le hanno stipulate. In altri termini, mentre si opera
per realizzare una piena eguaglianza tra tutti i culti religiosi,
paradossalmente si fa crescere la disuguaglianza tra di loro. La «strada delle
intese» è davvero quella migliore da seguire? Tra l’altro, procedendo per
questa via, oggi si è finito col ritrovarci in una condizione piuttosto
complessa, tra le intese – che nascono da accordi bilaterali tra una
confessione religiosa e lo stato -, la legge del ’29 ancora in vigore e la
nuova legge che non viene avanti.

«Indubbiamente il problema c’è. Ma non dimentichiamo che la Repubblica
Italiana nasce con una diseguaglianza pregressa costituita dal Concordato, che
neppure il Partito Comunista, teoricamente ateo, tentò seriamente di abrogare.
Purtroppo c’è stato di recente un vero e proprio passo indietro con l’assurda e
incostituzionale decisione del ministero dell’Inteo di applicare un
inopportuno parere del Consiglio di Stato, il quale – per la prima volta dalla
legge del 1929 – ha indicato un limite numerico minimo di fedeli per il
riconoscimento dei ministri di culto, per di più nell’esorbitante cifra di 500,
nel presupposto, peraltro falso, che tale sarebbe il numero minimo dei fedeli
nelle parrocchie cattoliche con sacerdote residente. Orbene, in primo luogo ci
sono, proprio nella mia valle (la Val Pellice in Piemonte, ndr), comuni
sotto i 500 abitanti, la maggioranza dei quali è valdese, con tanto di
sacerdote cattolico residente. In secondo luogo, non si può imporre alle altre
le logiche della confessione maggioritaria, anche perché, per forza di cose,
mentre è facile in un territorio molto piccolo trovare 500 cattolici, non lo è
altrettanto trovare, ad esempio, 500 luterani. I luterani, che pure hanno
l’intesa, sono circa seimila volte meno numerosi dei cattolici, e dunque,
mediamente, 500 luterani saranno sparsi per un territorio seimila volte più
vasto: cosa che rende loro impossibile avere un unico ministro di culto. In
terzo luogo, spesso le confessioni minoritarie hanno dei ministri di culto che,
per mantenersi, hanno un altro lavoro, come del resto la maggioranza dei
rabbini: non si può pensare siano in grado di svolgere lo stesso lavoro di un
sacerdote cattolico a tempo pieno. In quarto luogo, la percentuale di
praticanti è spesso più alta nelle minoranze più recenti di quanto lo sia tra i
cattolici o altre confessioni storiche, nelle quali la secolarizzazione ha
prodotto effetti tra i fedeli. Ecco, eliminando questo obbrobrio, si
rimedierebbe a gran parte del problema. Basterebbe un’indicazione del ministro
dell’Inteo, o del dirigente preposto, visto che la decisione è stata di un
dirigente, e non certo una legge. Il parere del Consiglio di Stato non può
valere più della Costituzione o di una legge. Né è accettabile che una cosa
applicata senza significative limitazioni dal regime fascista (salvo il baratro
delle leggi razziste, naturalmente), venga ristretta oggi, dopo settant’anni di
democrazia».

Nella
società multiculturale italiana, di cui si parlava all’inizio, appare urgente
affrontare anche altri problemi, in particolare quello dell’immigrazione e
quello della «cittadinanza». È possibile arrivare a una piena attuazione della
libertà religiosa senza che la nuova legge venga accompagnata da altre leggi
che riguardino quelle due questioni? Libertà religiosa, immigrazione e
cittadinanza non costituiscono una trilogia che deve andare insieme?

«A mio parere le cose sono ben distinte. Le leggi sull’immigrazione si
applicano indifferentemente a cattolici, musulmani, atei e chiunque altro, com’è
giusto. E la libertà religiosa riguarda italiani, immigrati regolari e
irregolari, turisti e passanti, com’è giusto. Tutte questioni delicate, ma
distinte. Solo un paese, oltre alla Città del Vaticano, ch’io sappia, regola
l’immigrazione sulla base della religione: Israele, che definisce se stesso
come stato ebraico, ma è più facile diventare cittadino italiano per un extra
comunitario che diventare ebreo per un gentile».

Paolo Bertezzolo
Note:

1- L’articolo 8 della Costituzione stabilisce che
i rapporti delle confessioni religiose con lo stato «sono regolati per legge
sulla base di intese [accordi] stipulate con le relative rappresentanze».

Tag: libertà religiosa, Costituzione, Laicità dello stato, Intese

Paolo Bertezzolo




Una primavera solo all’inizio

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 21

Le «primavere arabe»
hanno suscitato entusiasmi e retoriche che paiono oggi non completamente
giustificati. La libertà religiosa, ad esempio, sembra avee fatte le spese. L’islamologo
gesuita Samīr Khalīl Samīr ci racconta ciò che per lui è il grande passo avanti
delle rivoluzioni che dal 2011 stanno, ancora oggi, cambiando il volto
dell’area mediorientale. Nonostante le problematiche.

«Una “primavera” non consiste nei primi
frutti che si possono raccogliere, spesso acerbi e aspri, bensì nello slancio
verso la coscienza democratica che germina nella testa di milioni e milioni di
persone, in gran parte giovani». Parola di Samīr Khalīl Samīr nell’introduzione
al suo libretto Quelle tenaci primavere arabe, edito dalla Emi.

Gesuita egiziano, Samīr Khalīl Samīr è un islamologo
attento ai processi culturali e sociali dell’area mediorientale. Lo
intervistiamo per farci raccontare quanto, secondo lui, le cosiddette primavere
arabe abbiano influito sulla libertà religiosa in quella zona e, in particolar
modo, in Egitto. Secondo un recente studio del Pew Research Center,
infatti, sembra che l’effetto delle rivoluzioni sulla libertà religiosa sia
stato per lo più negativo.

Può
fare un bilancio delle cosiddette «primavere arabe» iniziate tre anni fa?

«Si
sente spesso dire che la primavera araba è diventata l’inverno arabo. Però
secondo me ciò che si è realizzato negli ultimi tre anni è un cambiamento
profondo che porterà delle conseguenze positive anche laddove niente si è
fatto, come nella penisola araba.

Che
cosa sta cambiando? Innanzitutto per la prima volta si sa che si può
protestare. E non protestare nel vuoto, ma per cambiare.

C’è
stata l’epoca delle rivoluzioni: nel ’52 in Egitto con Nasser, nel ’54 in Iraq,
nel ’58 in Siria. Tutte conseguenze di quella crisi enorme che è stata la
creazione dello stato d’Israele. Oggi la gente prende coscienza che quelle
rivoluzioni, di solito militari e autoritarie, non possono continuare, e dice:
“Grazie per ciò che si è fatto, ma adesso è troppo”.

In
Egitto fino agli anni ’50 c’era libertà a tutti i livelli, ma anche ingiustizia
sociale, perché pochi privilegiati avevano tutte le possibilità, mentre la
massa del popolo viveva con difficoltà. La rivoluzione introdotta da Nasser ha
lavorato su questo, ad esempio con le riforme agrarie. Ma politicamente ha
fatto un passo indietro. Oggi, con le primavere arabe, tutti sanno che non solo
è possibile protestare in parole, ma anche cambiare le cose».

Le
primavere arabe sono state accolte dall’Occidente con grande entusiasmo. Sembra
però che col tempo la situazione della libertà sia peggiorata, in particolare
per la libertà religiosa, che già era molto compressa.

«A
fare la rivoluzione in Egitto e Tunisia sono stati essenzialmente i giovani,
che hanno avuto un ruolo decisivo suscitando la presa di coscienza in tutta la
popolazione. Ma poi, quando si è trattato di fare un governo, non essendo
preparati alla gestione del potere, ognuno è andato su una linea diversa: in
Egitto hanno fatto più di 10 partiti.

Gli
unici organizzati per prendere il potere erano gli islamisti. I Fratelli
musulmani, creati nel ’28, hanno infatti una struttura molto disciplinata: un sistema
gerarchico nel quale ognuno obbedisce al superiore, e non sa niente di più.
Hanno un programma molto semplice, sempre uguale fin dalle origini: “L’islam è
la soluzione”. Per qualunque domanda: economica, politica, sociale, religiosa.
Non è un affare intellettuale ma emotivo. L’islam è sacro. E poi i Fratelli
musulmani si sono moltiplicati grazie al finanziamento del Qatar e, all’inizio,
dell’Arabia saudita, prendendo possesso delle moschee e spiegando alla gente
che quando l’Islam avesse preso il potere sarebbe stato il paradiso.

Ecco
perché hanno vinto le elezioni. Benché abbiano ottenuto solo il 51,7%.

E
l’Occidente ha subito detto: “Ecco! Questa è la democrazia!”. L’Occidente ha
sostenuto che Morsi rappresentava il potere del popolo. In realtà il popolo,
dopo un anno, ha visto che la situazione sociale non era cambiata. Anzi era
peggiorata, anche a causa delle regole introdotte per l’islamizzazione del
paese che hanno fatto crollare il turismo, la prima fonte di entrata per
l’Egitto, e ha reagito: “Noi vogliamo la riforma sociale, la riforma politica,
e siamo stati delusi”».

Quindi
c’è stata la nota raccolta di firme per le dimissioni di Morsi.

«I
giovani hanno ripreso il contatto con la popolazione e hanno avviato una
petizione. Dopo 11 mesi di governo, le firme raccolte per mandare via Morsi
sono state 22 milioni. Non si era mai vista in Egitto una petizione di questo
tipo. E poi, un mese dopo, la gente è scesa per strada. In Egitto, grazie a
Dio, non girano molte armi, quindi la gente non poteva fare niente se non con
l’aiuto dell’esercito. Perché dal ’52 l’esercito è il potere che va con il
popolo contro i regimi. E dunque l’esercito è venuto a sostenere il popolo, non
per fare un colpo di stato, come ho letto nella maggioranza dei giornali in
Occidente, ma per creare un governo provvisorio, retto da un magistrato che era
stato nominato da Morsi stesso come uno dei capi della magistratura. Poi ha
invitato tutti i partiti a presentarsi, e tutti hanno accettato fuorché i
Fratelli musulmani, che hanno detto: “O noi o niente”.

Io dico: “Meno male che i Fratelli musulmani hanno preso
il potere”. Perché da 90 anni si presentavano come la soluzione di tutti i
problemi, e la gente semplice ci credeva. Ma ora tutti hanno potuto finalmente
vedere che non hanno cercato di migliorare la situazione sociale, politica, ma
di islamizzare, cambiando i programmi scolastici, le strutture, la televisione,
provando a introdurre la sharia. Ecco perché secondo me c’è una presa di
coscienza: è frutto dell’esperienza! E questo è un passo avanti. Ma non abbiamo
ancora risolto i nostri problemi: ci vorrà credo almeno un decennio per
strutturare democraticamente paesi che non hanno mai praticato la democrazia».

Come
hanno reagito i Fratelli musulmani alla rimozione di Morsi?

«Il
potere islamista è simile ai regimi precedenti: cerca di imporsi. Per questo ci
sono ancora violenze. In Egitto ci sono stati attacchi contro le chiese, contro
i più deboli, quelli che non hanno potere e non cercano di prenderlo. Non c’è
nessuna giustificazione a questo se non il fanatismo che è una tendenza forte e
fondamentale negli islamisti. È un’ideologia radicale che vuole imporre
l’applicazione della religione e che non piace alla maggioranza dei musulmani.

L’ascesa
al potere dei Fratelli musulmani è stata un passo avanti dal punto di vista
della presa di coscienza che una religione può anche diventare una dittatura.
Quando sono arrivati al potere, in un mese hanno fatto da soli una nuova
Costituzione, e abbiamo dovuto votarla nel giro di una settimana. Ma come si fa
a leggere e ponderare una Costituzione in una settimana? Nessuno lo crederà, ma
l’Egitto ha il 40% di analfabeti che, per questo, seguono ciecamente il
predicatore che tocca la corda sensibile della religione».

E
in Tunisia com’è la situazione?

«In
Tunisia è andata meglio, perché lì c’è una lunga esperienza di laicità dello
stato. Nella Costituzione tunisina c’è la parità tra uomo e donna. La Tunisia è
l’unico paese islamico al mondo ad aver vietato la poligamia, che ha imposto
l’uguaglianza tra uomo e donna nell’eredità, mentre il Corano dice che la donna
deve ricevere la metà di ciò che ricevono in eredità i suoi fratelli. La
Tunisia quindi aveva già fatto ben altri passi avanti. Anche se ora si sta
riducendo la laicità, e l’islamismo si diffonde, rimane però un Islam molto più
democratico».

Tutto
ciò sembra confermare l’opinione di chi sostiene che la libertà religiosa si
sia ridotta.

«Nell’area
mediorientale e nordafricana la situazione dei cristiani oggi è più difficile
di prima. Proprio a causa di questo background islamista.

L’Islam
storicamente categorizza le persone in tre gruppi: i musulmani, che hanno tutti
i diritti e doveri. La società deve essere musulmana. All’opposto c’è l’ateo. È
inammissibile non credere. L’ateo non può vivere nella società musulmana. La
terza categoria è intermedia: sono i protetti, cioè gli ebrei e i cristiani.
Essi sono in una posizione intermedia perché credono in Dio, ma non sono
musulmani, e quindi non hanno la credenza perfetta. Per cui possono vivere
nella società musulmana, ma sottomessi.

Questo
sistema dall’Ottocento in avanti si è lasciato influenzare dall’Occidente. Oggi
la categoria dei sottomessi esiste ancora, però è meno forte.

In
Egitto una moschea si può costruire anche senza permessi, e nessuno la può
distruggere.

Per
costruire una chiesa bisogna chiedere il permesso e possono passare anche dieci
anni prima che venga data l’autorizzazione. La richiesta rischia di non
arrivare mai a conclusione, perché bloccata nell’iter burocratico da qualche
islamista. Per cui ogni tanto viene distrutta una chiesa perché costruita in
modo illegale. La discriminazione nel concreto della vita è forte. Anche
convertirsi dall’Islam al cristianesimo è impossibile. L’unico modo è emigrare».

Quindi
come vede lei la condizione dei cristiani nell’area, e come vede il loro
futuro?

«In
Nord Africa cristiani ce ne sono pochi. Ci sono alcune migliaia di nordafricani
diventati cristiani, in particolare in Algeria. In teoria non possono. Si fa di
nascosto ma con il rischio della prigione. In Arabia saudita gli apostati
vengono uccisi. Nella penisola arabica ci sono più di due milioni di cristiani:
filippini, srilankesi, indiani, etiopi, ecc. Essi non hanno il diritto di
ritrovarsi insieme neppure in privato. In Occidente nessuno dice nulla su
questa ingiustizia perché l’Arabia è ricca.

Ciò
che noi chiediamo come cristiani è di essere semplicemente dei cittadini.

Sul
passaporto egiziano, come su qualunque documento, è obbligatorio indicare la
religione. Quando ho dovuto rifare il passaporto in ambasciata a Parigi, alla
voce “religione” ho scritto “ateo”. Poi alla voce “mestiere”, “monaco”. Sono
stato subito richiamato, e l’ambasciatore mi ha chiesto: “Sa che cosa ha
scritto? Di essere monaco e ateo”. Io allora gli ho chiesto che cosa avesse a
che fare la religione con lo stato, e gli ho detto che è un affare tra me e
Dio. Poi gli ho richiamato il principio della rivoluzione egiziana nasseriana
del ’52: “La religione appartiene a Dio, la patria a tutti”. A quel punto
l’ambasciatore mi ha detto che ero troppo avanzato, che ci vuole del tempo. Io
gli ho replicato che con il suo ragionamento anche mille anni non sarebbero
sufficienti.

Tutto
questo suscita domande tra i cristiani del medio oriente. Molti mi dicono:
“Abuna, io voglio vivere e morire qui. Ma i miei figli? Devo pensare a loro. È
per questo che ho deciso di emigrare. Perché qui non si può vivere”. Io rispondo
loro che hanno ragione, ma anche che c’è un’altra possibilità: rimanere per
cambiare la società. Io sono convinto che questa è la missione dei cristiani:
come dice il Vangelo, siamo il lievito nella pasta. La storia e gli studi del
centro che ho creato a Beirut dicono che sono stati i cristiani nel corso della
storia ad aver plasmato gran parte della cultura mediorientale: sono stati il
lievito. Oggi abbiamo questa missione: diffondere lo spirito del Vangelo».

Luca Lorusso

Samir Khalil
Samir

Nato al Cairo nel ’38, Samir
Khalil Samir
è gesuita dal ’55. Ha compiuto gli studi in Francia, tra cui
un dottorato di islamistica ad Aix-en-Provence. A Roma ha fatto un dottorato in
scienze religiose al Pio (Pontificio Istituto Orientale), istituto in cui
insegna da 40 anni. Ha insegnato per 12 anni anche al Pisai (Pontificio
Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica). E insegna regolarmente altrove nel
mondo. È stato anche impegnato per sette anni in Egitto per lo sviluppo sociale
nei villaggi e nei quartieri poveri del Cairo, lanciando, tra le altre cose, un
insieme di piccole scuole per analfabeti musulmani e cristiani. Da più di
quarant’anni è impegnato a far conoscere il patrimonio culturale dei cristiani
di lingua araba, avendo essi una teologia, un pensiero essenzialmente
improntato al rapporto con i musulmani, sviluppati dall’ottavo secolo in
avanti, sconosciuto agli stessi arabi. Ha pubblicato una sessantina di libri in
questo settore, e ha creato un centro che promuove tali studi, il Cedrac, a
Beirut, città in cui vive e insegna (all’università Saint-Josef).

«Essenzialmente la grande letteratura
arabo-cristiana appartiene al Medio Evo, dall’ottavo al quattordicesimo secolo.
Sia per i musulmani che per i cristiani è il periodo aureo. È in questo periodo
che i cristiani hanno dato un contributo di prim’ordine alla cultura araba, che
quindi non è esclusivamente islamica. Dal 14° secolo in avanti è iniziata
l’epoca della decadenza, durata fino al 19° secolo, quando è nato un nuovo
“rinascimento”, di nuovo con il grande contributo dei cristiani. Il ruolo
culturale dei cristiani nel mondo arabo è grandissimo. Perciò abbiamo una
cultura comune, e su questa base possiamo costruire, proporre un progetto
condiviso».

L.L.
Egitto 2014

Nuovo presidente,
vecchi padroni

Il nuovo presidente dell’Egitto è
Abdel Fattah al Sissi, ex ministro e ufficiale dell’esercito, che si è
confermato il vero padrone del paese africano. Al Sissi si è imposto con oltre
il 96% dei suffragi, percentuale che rafforza ancora di più i dubbi sulla
democraticità delle elezioni egiziane. Queste erano state indette per il 26 e
27 maggio, ma la scarsissima affluenza ai seggi aveva indotto il Comitato
elettorale (Pec) a prolungare di 24 ore la possibilità di votare. Nonostante
questo, si è recato alle ue soltanto il 46,9% degli egiziani. Nel corso
dell’ultimo anno, il movimento della Fratellanza musulmana, che aveva vinto le
elezioni del giugno 2012, è stato dichiarato fuorilegge. Il suo principale
rappresentante, Mohamed Morsi, presidente deposto da un colpo di stato (luglio
2013), è attualmente sotto processo.

Tags: libertà religiosa, fondamentalismo, religione, primavere arabe, Egitto, Fratelli Musulmani

Luca lorusso




Binomio impossibile: fondamentalismo e religione

Riflessioni e fatti sulla Libertà Religiosa nel mondo – 20
La violenza dettata dall’intolleranza sembra essere una realtà
molto diffusa nel mondo. Spesso associata alla religione, o meglio ai
fondamentalismi religiosi. Ma è lecito accostare il termine «fondamentalismo»
al termine «religione»?

Accade di frequente oggi che si
confonda il fondamentalismo con la religione. È così che conflitti nati da
questioni economiche o politiche o etniche vengono descritti come di natura
religiosa. Con questo criterio si contrappongono facilmente cristiani e
musulmani, buddisti e induisti, e altri ancora, come nei casi in cui i
cristiani divengono vittime di intolleranza e di persecuzione, ad esempio in
Nigeria, in India e in altre nazioni dell’Africa e del continente asiatico.

La violenza fa purtroppo parte di
quel fondamentalismo religioso che oggi sembra nascere soprattutto in seno
all’Islam, ma che è stato usato in passato anche nel mondo cristiano, e ancora
oggi in certi movimenti cristiani integralisti.

Il medioevo cristiano

La concezione che nel medioevo si
aveva della Chiesa e dello stato può, per esempio, spiegare la guerra scatenata
dal mondo cattolico contro i Catari, o più comunemente Albigesi, nella Francia
meridionale. Una guerra durata vent’anni, dal 1209 al 1229, che qualcuno definì
la prima crociata di cristiani contro altri cristiani, nella quale caddero
vittime non solo gli eretici, ma a volte l’intera popolazione di una città,
come avvenne a Bézier nel 1209. Il legato pontificio, alla domanda di un capo
della spedizione, pare abbia pronunciato questa orribile frase: «Uccidete,
uccidete! Dio saprà riconoscere i suoi». Il risultato di simile concezione fu
un massacro generalizzato, che si estese poi alle città di Carcassone, Pamiers
e Albi. Nel 1244 i Catari furono massacrati senza pietà anche a Montségur e
continuarono a essere messi al rogo fino alla metà del Trecento.

Ma oltre alla tragedia subita dai
Catari, possiamo citare anche le dolorose persecuzioni che colpirono il
movimento pauperistico dei Valdesi, fondato da un commerciante di Lione, Pietro
Valdo, o Valdesio, e diffuso ancora oggi nelle valli del Pinerolese e
nell’Italia meridionale.

In quel periodo storico, a causa
dell’intima compenetrazione tra l’elemento politico e quello religioso,
l’eresia non veniva considerata solo un peccato di coscienza o di fede, ma un
attentato contro la sicurezza della società. La difesa della verità sembrava
dovesse essere attuata con la violenza.

Soltanto poche persone in quel
periodo compresero il vero senso dell’insegnamento evangelico di non uccidere e
di essere invece disposti a subire la croce per testimoniare la propria fede.
Un vescovo, Vado di Liegi (980-1048), biasimò le brutali misure contro eretici
veri o presunti adottate in Francia. San Beardo di Chiaravalle, anche se
arrivò ad affermare che agli eretici spettava il rogo, condannò le persecuzioni
degli ebrei e l’uccisione di eretici a Colonia nel 1144, asserendo che la fede
deve nascere dentro il cuore dell’uomo e non mediante la costrizione.


Violenza: segno del «fallimento» della religione

Questo insegnamento fu preceduto
molto prima da alcuni cristiani delle prime generazioni. Tutti sappiamo che i
cristiani dei primi secoli furono oggetto di ostilità sanguinose. Contro quella
che oggi possiamo definire intolleranza religiosa dei primi secoli, gli
apologisti come Giustino (+165 d.C.), Tertulliano (+220 circa) e Lattanzio
(+320 circa) rivendicarono la libertà e il diritto naturale che ciascuna
persona ha di adorare le proprie divinità. La violenza è il peggior strumento
di diffusione della religione e un segno evidente del suo fallimento. Nessuna
religione infatti si difende e si propaga con la violenza.

Il Mahatma Gandhi soleva dire che «la
violenza è l’arma più debole, la nonviolenza quella più forte».

Nella premessa della sua prima
apologia in difesa dei cristiani Giustino partì dalla considerazione che lo
stato non deve lasciarsi guidare dalla violenza e dalla tirannia, ma ispirarsi
a saggezza, pietà e rispetto delle persone. Tertulliano nell’Apologetico
(n. 24) sostenne che una religione coatta e imposta è una strada aperta verso
l’irreligiosità, e aggiunse che nessuno vuole essere adorato per forza, neppure
un uomo. Infine, Lattanzio nel De divinis institutionibus (V, 20), di
fronte alla persecuzione di Diocleziano, la più cruenta di tutte, dettò un
celebre passo che non si può ignorare: «La religione si difende non uccidendo,
ma morendo; non con la crudeltà, ma con la fede… Se tu vorrai difendere la
religione con il sangue, i tormenti, il male, non la difenderai, ma la
contaminerai e la violerai».

«Perché non era uno di noi»

Il tema del fondamentalismo che usa
la violenza nel nome dell’appartenenza religiosa non può quindi essere
applicato solo al mondo musulmano o induista. Nessuna religione è immune dalla
violenza, così come dalla superstizione. La storia ci insegna che il
fondamentalismo può riferirsi a qualsiasi religione. È troppo facile dire che «il
mio Dio non è il tuo Dio, il mio è vero e il tuo no!». Sotto queste frasi si
nascondono spesso altre idee e altri interessi, etnici, economici, politici.
Oppure, più semplicemente, si nasconde una strana gelosia religiosa, cioè il
bisogno di appartenere alla religione migliore, più buona e più vera delle
altre.

Un giorno Gesù rimproverò i suoi
discepoli perché avevano visto un tale che scacciava i demoni nel suo nome e
glielo avevano proibito, «perché non era uno di noi». E Gesù disse loro: «Non
glielo proibite… Chi non è contro di noi è per noi» (Mc 9, 38-40).

Lo spirito di Assisi

Il pericolo dell’esistenza di una
religione non autentica è comunque sempre presente. Per questo la Parola di Dio
chiede una quotidiana conversione, di passare cioè dagli idoli vuoti e vani
all’unico vero Dio. La Chiesa del Concilio Vaticano II si è soffermata più
volte sul valore delle religioni storiche, di qualsiasi religione. Nella
Dichiarazione sulla Chiesa e le Religioni non cristiane ha sottolineato come «la
Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni.
Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei
precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da
quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio
di quelle verità che illuminano tutti gli uomini» (n. 2).

In altre parole tutte le religioni
contengono cose vere e buone; esse sono la presenza e il riflesso di quella «luce
che illumina ogni uomo» (Gv 1, 2), mediante cui Dio chiama alla salvezza.
Questa visione teologica ha conosciuto una sua meravigliosa attuazione nel 1989
ad Assisi quando, in uno straordinario incontro tra le religioni, Giovanni
Paolo II lanciò «lo spirito di Assisi»: non più le religioni una contro le altre,
ma una accanto alle altre, anzi le une che pregano Dio accanto e insieme alle
altre.

La lista dei martiri

Rimane comunque il fatto che il
fondamentalismo detto religioso produce ancora oggi violenza. I cristiani, ma
anche i musulmani, i buddhisti, e gli altri, soffrono persecuzioni a causa
della loro testimonianza di fede e di carità.

In base ai dati raccolti e pubblicati
dall’Agenzia Fides, nel 2013 sono stati uccisi nel mondo 22 cristiani,
per la maggior parte sacerdoti in cura d’anime, insieme a una religiosa e a due
laici. Il doppio rispetto al 2012 in cui ne furono uccisi 13 (e comunque un
numero che si riferisce solo a quei «martiri» che avevano incarichi ecclesiali,
e non ai molti «cristiani comuni» vessati anch’essi per la loro fede, ndr).
Scorrendo le poche notizie che si hanno di questi sacerdoti, si osserva che non
tutti possono essere definiti martiri nel senso tradizionale del termine, perché
quasi tutti sono stati uccisi in seguito a tentativi di rapina o di furto,
aggrediti in alcuni casi con efferatezza e ferocia, segno del clima di
decadimento morale, di povertà economica e culturale, che genera violenza e
disprezzo della vita umana, tutti però vivevano la loro testimonianza di fede
in un contesto di degrado umano e sociale, annunciando il messaggio evangelico
senza gesti eclatanti, ma con le opere e la loro presenza nell’umiltà della
vita quotidiana.

Il dialogo possibile

La Chiesa del Concilio condanna ogni
violenza nel nome dell’appartenenza religiosa, e non manca di continuare a
proclamare e a vivere il proprio impegno per la riconciliazione e la pace
attraverso il dialogo interreligioso e le molteplici opere di carità
evangelica, che foiscono aiuto e conforto a gente di qualsiasi religione. Lo
ha sottolineato l’appello lanciato dalla Comunità di Sant’Egidio a Roma nel
febbraio 2014 in un convegno internazionale dal titolo «La religione e la
violenza», che ha visto la partecipazione di personalità delle religioni, della
diplomazia e della politica, provenienti da Europa, Asia, Africa e Medio
Oriente.

In un mondo infetto da un’epidemia di
violenza – ha sottolineato Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di
Sant’Egidio – «la diplomazia tradizionale ha bisogno di nuovi strumenti: in
primo luogo la religione, poi la politica, la cultura, la lotta al
sottosviluppo. L’intera società civile deve essere impegnata in uno sforzo di
superamento di antiche diffidenze, quando non di veri e propri conflitti, che
sono all’origine delle esplosioni di violenze e terrorismo che hanno
insanguinato il mondo all’inizio del Terzo Millennio».

Il convegno è partito da una
considerazione poco ottimista: «Negli ultimi anni la violenza religiosa è aumentata
in maniera sconvolgente» – ha detto il cardinale Walter Kasper, presidente
emerito del Pontificio Consiglio per l’Unità dei cristiani – e ciò è avvenuto
perché «gli appartenenti a tutte le religioni, compresi i cristiani, vale a
dire persone o gruppi che pretendono di agire in nome di una religione, o del
cristianesimo, sono stati o sono fautori di violenza». Dunque la religione è
insieme autrice e vittima di violenza. Eppure «la pace nel mondo non è
possibile senza pace tra le religioni» e senza che le fedi promuovano i loro
tratti comuni circa i diritti umani, la libertà religiosa, la tolleranza e il
dialogo, spezzando «il circolo vizioso della violenza che genera violenza».

A sua volta Benjamin Kwashi, vescovo
di Jos in Nigeria, ha dato una valida testimonianza dell’importanza che il
dialogo interreligioso ha nelle diverse articolazioni della società, e in
particolare tra la sua gente che vive da anni una situazione di drammatica
violenza tra musulmani e cristiani.

Ha sottolineato l’importanza del
dialogo anche Abdelfattah Mouron, vincitore delle elezioni in Tunisia e
artefice della nuova Costituzione, uno dei frutti più maturi delle primavere
arabe. «La violenza – ha affermato – normalmente precede la religione». Compito
della religione «è di recuperare la propria autonomia e di costruire la pace
alimentando cultura, valori ed educazione».

Allo stesso modo, Muhammad Khalid
Masud, membro della corte suprema del Pakistan, ha sostenuto che la religione
non fa «parte della violenza», anche se ha riconosciuto che «possa essere usata
per giustificare la violenza».

La verità aperta

Ecco quindi che il rapporto tra
religioni e violenza, tra religioni e fondamentalismo, va posto in maniera
radicalmente diversa. In un contesto di assuefazione all’uso della violenza, le
religioni hanno il dovere di purificarsi e di assumersi le proprie
responsabilità, altrimenti il fondamentalismo verrà sempre più definito
religioso, fino a qualificare qualsiasi religione come generatrice di
vessazioni e di violenza e non invece di pace.

«Chi si rifugia nel fondamentalismo è
una persona che ha paura di mettersi in cammino per cercare la verità». Lo
scrive papa Francesco in un testo tratto da La bellezza educherà il mondo,
pubblicato dalla Editrice Missionaria Italiana a un anno dalla sua elezione in
Conclave (13 marzo 2013). «La nostra verità – afferma – non sia
fondamentalista, ma aperta al dialogo».

Giampietro Casiraghi


Tags
: libertà religiosa, dialogo, fondamentalismo, religione

Giampietro Casiraghi




Libertà in affanno 

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 19


La libertà di religione si conferma un diritto a rischio per
la maggioranza della popolazione mondiale. La regione più restrittiva è quella
del Medio Oriente-Nord Africa, seguita da quella dell’Asia-Pacifico. In Europa,
al terzo posto, a una crescente ostilità sociale corrisponde una crescente
pressione governativa.

Il 14 gennaio scorso è uscito il
quinto rapporto annuale del Pew Research Center1 sulle restrizioni alla libertà
religiosa nel mondo, Religious hostilities reach six-year high. I dati
riferiti riguardano l’anno 2012, che è stato il peggiore per la libertà
religiosa da quando l’organizzazione con sede in Washington DC ha iniziato a
monitorare la situazione, nel 2006-2007.

Libia post Gheddafi

È sufficiente fare attenzione alle
agenzie d’informazione riguardanti un paese come la Libia – scelto a esempio –
per trovarsi concordi con l’analisi del Pew Center che indica un
incremento molto forte delle restrizioni alla libertà religiosa in quelle terre
nel 2012, e per immaginare che, dopo quell’anno, non è probabilmente seguita
una sostanziale diminuzione.

Era il 25 febbraio quando l’agenzia Fides
pubblicava sul suo sito le dichiarazioni del Vicario apostolico di Tripoli
riguardanti il massacro di sette copti a Bengasi: «“Non si capisce bene cosa
vogliano questi fondamentalisti. Sicuramente vogliono mettersi in evidenza
spargendo il sangue di vittime innocenti. I copti ortodossi sono da tempo il
loro bersaglio, soprattutto in Cirenaica” dice […] mons. Giovanni Innocenzo
Martinelli […], commentando l’uccisione di sette lavoratori egiziani di
confessione copto ortodossa […]. Secondo fonti di agenzia, domenica 23 febbraio
i sette egiziani erano stati prelevati nelle loro abitazioni da uomini armati.
I loro corpi sono stati ritrovati il giorno successivo in una località alla
periferia della città. Le vittime sono state uccise da colpi d’arma da fuoco al
petto e alla testa. “Non sappiamo altro […]” dice mons. Martinelli. […] “Siamo
nelle mani di Dio, in queste situazioni incerte e insicure”». Agenzie
precedenti parlano di aggressioni a sacerdoti cattolici o copti ortodossi da
parte di milizie armate, di arresti ed espulsioni di decine di egiziani copti,
o di membri di comunità protestanti, in seguito ad accuse di «proselitismo», di
chiese prese d’assalto.

«In Libia due fedeli sono stati
uccisi in un attacco contro una chiesa copta ortodossa nella città di Misurata
nel mese di dicembre 2012. Questo è stato il “primo attacco [in Libia]
destinato a una chiesa dopo la rivoluzione del 2011”», scrive il Pew Center
nel suo rapporto, illustrando la crescita dell’ostilità sociale nel paese.

L’ostilità sociale nei confronti delle religioni

Per quantificare gli ostacoli
all’espressione e alla pratica religiosa nei singoli paesi, il Pew Center
usa due indicatori: l’indice delle ostilità sociali (Shi: social hostilities
index
), il quale misura gli atti contrari alla libertà di credo verso
determinati gruppi religiosi da parte della società civile, di gruppi o di
singoli; e l’indice delle restrizioni governative (Gri: govement
restrictions index
), il quale misura le azioni delle istituzioni nazionali
o locali che contrastano la religione. Lo studio statistico, avverte il Pew
Center
, tiene conto di alcuni dati e non di altri: misura gli impedimenti
alla libertà religiosa, ma non misura, ad esempio, la quantità di attività
libere e senza ostacoli, non giudica se le restrizioni siano giustificate o
meno, non valuta i processi storici, culturali, sociali che portano alle
restrizioni.

Attraverso una panoramica sul primo
dei due indici, veniamo informati del fatto che l’anno esaminato nel rapporto,
il 2012, è stato quello con i livelli più alti di ostilità sociale nei
confronti della religione mai registrato dall’inizio delle indagini nel
2006-2007. Se nel 2007 si era verificato un livello alto o molto alto nel 20%
dei 198 paesi presi in esame, nel 2011 tali livelli si erano attestati nel 29%
dei paesi, e nel 2012 nel 33%. L’aumento dell’ostilità sociale tra il 2011 e il
2012 è stato constatato in 4 delle 5 aree in cui il Pew Center suddivide
il mondo: l’unica area in cui c’è stata una lieve diminuzione è quella delle
Americhe, mentre l’incremento maggiore è stato rilevato nell’area del Medio
Oriente-Nord Africa. Quest’ultima regione, che è quella con livello medio
dell’indice di ostilità sociale più alto, nel 2012, su una scala di 10 punti,
ha fatto registrare un valore di 6,4 (nel 2011 era 5,4). In alcuni paesi della
zona l’aumento è stato molto vistoso: nella Libia di cui abbiamo già parlato
(da 1,9 nel 2011 a 5,4 nel 2012), in Tunisia (da 3,5 a 6,8), in Siria (da 5,8 a
8,8) e in Libano (da 5,6 a 7,9).

Prendendo in considerazione il mondo
intero, oltre ai quattro paesi dell’area Medio Oriente-Nord Africa, altri sette
hanno fatto registrare un aumento di due punti e più tra il 2011 e il 2012:
Mali, Messico, Guinea, Olanda, Madagascar, Afghanistan e Malawi. Nessun paese
al mondo ha avuto una diminuzione altrettanto cospicua.

L’incremento generale dell’indice è
stato dato dall’aumento molto forte di alcune forme di ostilità sociale: ad
esempio casi di individui aggrediti o sfollati dalle loro case per le loro
attività religiose (questo tipo di vessazione nel 2007 era stato registrato nel
24% dei paesi del mondo, nel 2011 nel 38%, e nel 2012 nel 47%). Il Pew
Center
riporta alcuni episodi emblematici avvenuti in diversi paesi: nel
Nord del Mali, per esempio, gruppi di estremisti islamici hanno condotto
esecuzioni, amputazioni, fustigazioni, distrutto chiese, vietato battesimi,
provocando la fuga di centinaia di cristiani verso la parte Sud del paese; «nello
Sri Lanka a maggioranza buddista alcuni monaci hanno attaccato luoghi di culto
musulmani e cristiani nella città di Dambulla nell’aprile 2012 ed è avvenuta
un’occupazione forzata di una chiesa degli Avventisti del settimo giorno nella
città di Deniyaya nell’agosto dello stesso anno per trasformarlo in un tempio
buddista».

Le restrizioni governative

Per quanto riguarda l’indice relativo
alle restrizioni governative della libertà di credo, il Pew Research Center
informa che non si sono registrati nel 2012 aumenti significativi. Restrizioni
elevate o molto elevate da parte delle istituzioni nazionali o locali si sono
verificate nel 29% dei 198 paesi presi in esame (28% nel 2011; 20% nel 2007).

Nell’ambito delle restrizioni
governative, nel 2012 rispetto all’anno precedente, i cambiamenti significativi
(almeno 2 punti su una scala di 10) sono avvenuti in due soli paesi: un grande
aumento di restrizioni in Rwanda, dove una legge di regolazione delle
organizzazioni religiose ha introdotto requisiti di registrazione molto
stringenti; e una grande diminuzione in Costa d’Avorio dove nel 2012 si sono
placate le violenze etnico-religiose postelettorali del 2011.

Il livello medio delle restrizioni
governative è aumentato in due delle cinque aree: in Medio Oriente-Nord Africa
e in Europa, mentre nelle Americhe è rimasto inalterato, e nelle altre due
regioni (Africa subsahariana e Asia-Pacifico) è diminuito. In particolare
l’Europa è stato il continente in cui le restrizioni governative sono aumentate
di più. L’area in cui invece sono diminuite di più è stata l’Asia-Pacifico.

Anche per le restrizioni governative
il Pew Center riporta alcuni episodi: parla ad esempio del caso di
Tuvalu, il cui governo centrale nel 2012 ha iniziato ad applicare una legge che
impedisce ai fedeli di religioni non riconosciute di riunirsi; della Tunisia,
in cui sono stati fatti dalle autorità pubbliche molti sforzi per rimuovere
alcuni imam che predicavano il salafismo.

I governi hanno usato atti di forza
contro gruppi religiosi o singoli fedeli in quasi la metà (il 48%) dei paesi
del mondo. Altro esempio è quello della Mauritania, il cui governo nell’aprile
2012 ha arrestato 12 attivisti anti-schiavitù con l’accusa di sacrilegio e
blasfemia per aver pubblicamente bruciato alcuni testi sacri considerati dagli
attivisti ispiratori dello schiavismo.

Uno sguardo d’insieme

Mettendo insieme i rilevamenti relativi
ai due indici, il Pew Center afferma che nel 2012 ci sono state
restrizioni elevate o molto elevate (sia sociali che governative) nel 43% dei
paesi (la percentuale più alta registrata dall’organizzazione in 6 anni). Data
la particolare popolosità di alcuni di questi paesi (Nigeria, India, Pakistan,
Egitto, Indonesia e così via) la porzione di popolazione mondiale che ha
vissuto il 2012 in un paese con livelli di restrizione della libertà religiosa
elevati o molto elevati è stata pari al 76% (5,3 miliardi di persone). Nel 2011
la percentuale era del 74%, nel 2007 del 68%.

Tra i 34 paesi con restrizioni molto
elevate (sociali o governative o entrambe) l’unico paese europeo presente era
la Russia (con entrambi gli indici al livello molto elevato). Tra quelli con
restrizioni elevate, i paesi europei erano 17, di cui tre – Bulgaria, Grecia e
Moldova – avevano entrambi gli indici al livello elevato, due avevano al
livello elevato solo l’indice di restrizioni governative, dodici avevano un
elevato indice di ostilità sociale (tra questi ultimi anche l’Italia).

Nel complesso le restrizioni, sia
sociali che governative, alla libertà religiosa nel mondo sono aumentate tra il
2011 e il 2012 almeno un po’ nel 61% dei paesi, e sono diminuite almeno un po’
nel 29%.

Vessazioni nei confronti di gruppi specifici

Un ultimo approfondimento cui vale la
pena accennare, è quello riguardante le vessazioni rivolte a specifici gruppi
religiosi.

I maltrattamenti nei confronti di
gruppi specifici possono avere una matrice sia sociale che istituzionale:
aggressioni fisiche, arresti e detenzioni, profanazione di luoghi sacri,
discriminazioni nel mondo del lavoro, dell’istruzione, delle possibilità di
accesso a un alloggio, aggressioni verbali, intimidazioni. Questo genere di
molestie si sono verificate, nel 2012, in 166 paesi su 198 studiati. Prendendo
in considerazione solo le tre religioni monoteiste, vessazioni nei confronti di
gruppi di musulmani sono state registrate in 109 paesi, nei confronti di gruppi
di ebrei in 71 paesi, verso i cristiani in 110 paesi.

Nel 2012, alcuni gruppi religiosi
avevano più probabilità di essere molestati dai governi che da gruppi sociali o
da privati cittadini, mentre altri avevano più probabilità di essere oggetto di
vessazioni da parte di individui o gruppi sociali che da parte di politiche
governative. Gli ebrei, per esempio hanno subito maltrattamenti sociali in 66
paesi, mentre hanno affrontato vessazioni governative in 28 paesi. Al
contrario, i membri di altre religioni del mondo, come i sikh e i baha’i, sono
stati molestati più volte dai governi (in 35 paesi) di quanto non lo siano
stati da gruppi o individui nella società (21 paesi).

Luca Lorusso
Note

1. Il Pew Forum (pewforum.org) è
un progetto del Pew Research Center, con base a Washington, finanziato
dalla Pew Charitable Trusts: un’organizzazione indipendente non-profit,
non governativa (Ong), fondata negli Usa nel 1948. Tutte le relazioni del
centro sono disponibili su www.pewresearch.org

Tags: libertà religiosa

Luca Lorusso




«Più stato!», «meno stato!» Fedi e laicità

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 18

Vignette satiriche in
Inghilterra e pillola del giorno dopo negli Usa. Due casi recenti che mettono
al centro il tema della laicità delle istituzioni. Da un lato c’è chi, per
difendere la fede, chiede una maggiore presenza dello stato. Dall’altro c’è
chi, sempre per garantire la libertà di credo, ne chiede una presenza minore. Come
sciogliere un nodo così centrale nella vita delle democrazie costituzionali?

Fino a che punto può spingersi la
libertà di critica e di satira nei confronti della religione? Nella società
secolarizzata esiste infatti anche questo problema che, tra gli altri, riguarda
la laicità dello stato. Lo stato laico non può avere una propria confessione
religiosa, né creare condizioni favorevoli per una a dispetto delle altre. Esso
deve garantire la libertà religiosa e di coscienza a tutti: credenti e non
credenti.

Per assicurare il rispetto di questi
principi ci sono le costituzioni, le leggi e le apposite istituzioni (come, in
Europa, la Cedu, di cui abbiamo scritto nei numeri scorsi). Rimangono tuttavia
aperti diversi problemi, tra i quali quello cui abbiamo accennato all’inizio:
la libertà, in questo caso di coscienza e di espressione, trova un limite nella
libertà degli altri? Se uno non è credente, fino a che punto può criticare la
religione senza offendere la coscienza dei credenti? È una questione emersa in
questi ultimi anni proprio nel campo dell’umorismo e della satira.

I due grandi amici «Jesus and Mo»

Tutti ricordiamo il caso delle
caricature di Maometto pubblicate il 30 settembre 2005 sul quotidiano danese Jyllands-Posten,
considerate blasfeme dai musulmani, che avevano prodotto reazioni molto
violente, morti e feriti.

Un episodio analogo ma, per fortuna,
del tutto pacifico, è accaduto qualche mese fa in Inghilterra. La mattina del 3
ottobre scorso Chris Moos e Abhishek Phadnis, studenti della London School
of Economics
, famosa università privata di Londra, si sono presentati in
aula con una maglietta che riproduceva un’immagine di «Jesus and Mo», un
fumetto umoristico celebre nel paese d’oltremanica. I due giovani, che si
dichiaravano atei, l’hanno indossata per scherzo. Il fumetto rappresenta Gesù e
Maometto come due grandi amici che si parlano dandosi del tu, e prendono in giro
in modo sarcastico il mondo religioso rappresentato da ciascuno dei due. C’è
addirittura un sito internet molto seguito che riporta tutte le vignette via
via prodotte dagli autori (jesusandmo.net *).

Lo scherzo dei due non è stato preso
bene da altri studenti, rappresentanti di associazioni e forze politiche
studentesche, che lo hanno considerato «non politicamente corretto». Hanno
ritenuto, infatti, che la vignetta fosse offensiva per cristiani e musulmani.
Cris Moos e Abhishek Phadnis sono stati quindi costretti a nascondere le loro
magliette sotto una giacca.

Censurare la censura

Il giornalista del quotidiano
londinese The Guardian, che ha raccontato l’episodio, ha criticato
pesantemente il comportamento degli studenti contrari alle magliette,
considerandolo «un altro esempio di repressione nelle nostre università». Egli
infatti lamenta che quanto accaduto nella London School non sia un fatto
isolato e che, quindi, il problema stia diventando preoccupante in Inghilterra.
Le università, sostiene, sono l’ultimo posto dove la censura dovrebbe essere
ammessa. Egli non difende i due studenti per principio, ma perché la vignetta
riprodotta sulle loro magliette non era, a suo avviso, affatto offensiva.
Questo è l’aspetto che suscita la sua preoccupazione. Per il giornalista,
infatti, non è la «provocazione» dei due amici a essere stata sproporzionata,
ma la reazione inaccettabile degli altri giovani.

Usa: assicurazione sanitaria e pillola del giorno dopo

Dall’altra parte dell’oceano, negli
Usa, si manifesta un problema che non riguarda la libertà di espressione e di
satira, ma in modo direttamente più esplicito la libertà religiosa e la laicità
dello stato. In questo caso la domanda potrebbe essere: fino a che punto le
comunità religiose possono ritenere che alcune leggi dello stato non siano
valide al loro interno?

Ne ha parlato il primo novembre
scorso il quotidiano francese Le Monde in un articolo dal titolo
emblematico: Le ambiguità della libertà religiosa americana. Vi si
racconta che il 24 ottobre Richard Mourdock, candidato repubblicano al senato
nell’Indiana, ha affermato che «la vita è un dono di Dio anche quando inizia in
una terribile condizione di violenza». Si riferiva a una questione molto
dibattuta, legata alla riforma sanitaria del presidente Barak Obama.
Quest’ultima infatti prevede l’obbligo per i datori di lavoro di offrire ai
propri dipendenti assicurazioni mediche che coprano anche le spese per la
contraccezione. E le parole di Mourdock erano indirizzate alla cosiddetta «pillola
del giorno dopo», la quale sarebbe compresa nell’assicurazione sanitaria
offerta obbligatoriamente ai propri dipendenti anche dalle università e
istituzioni religiose contrarie all’uso della pillola stessa.

Può essere certamente, come sostiene
l’autrice dell’articolo, che ci si trovi di fronte a una forzatura polemica che
trasferisce sul piano della libertà religiosa un problema, in realtà, politico.
La riforma sanitaria ha infatti scatenato negli Usa forti contrapposizioni tra
repubblicani e democratici, facendo muovere numerose associazioni, consistenti
forze economiche e sociali, e istituzioni religiose. Resta il fatto che negli
Stati Uniti, dall’11 settembre 2001 in poi, nella «destra religiosa» si sono
rafforzate le paure nei confronti di una perdita dell’«identità cristiana»
americana, minacciata, da una parte, dagli islamici e, dall’altra, dalla
secolarizzazione. Questi pericoli, da quando siede alla Casa Bianca, vengono
ricondotti al presidente Obama e alle sue politiche.

Fuori dalla vita pubblica

Nel numero di marzo 2012 del mensile
conservatore First Things era stata pubblicata una dichiarazione
congiunta di esponenti religiosi protestanti e cattolici in cui si afferma che «i
difensori dei diritti dell’uomo, ivi compresi i governanti, hanno cominciato a
definire la libertà religiosa in un modo sempre più riduttivo, riconducendola a
una semplice libertà di culto». La religione biblica, invece, secondo la
dichiarazione, ha un carattere essenzialmente pubblico e non può essere ridotta
a un fatto privato. «Non è affatto esagerato» prosegue il documento «vedere in
questi sviluppi un movimento che cerca di spingere la fede religiosa, e
soprattutto le convinzioni religiose e morali cristiane ortodosse, fuori dalla
vita pubblica». Dentro questo quadro espresso sul periodico conservatore, il
fatto che lo stato renda obbligatoria, anche da parte delle istituzioni
religiose, l’offerta gratuita di contraccezione, diventa un attentato alla
costituzione e ai diritti che essa riconosce. In particolare alla libertà
religiosa, dato che tali imposizioni entrano nel campo della liceità della
contraccezione rispetto alla quale cattolici e protestanti, pur non
condividendo la stessa valutazione generale, concordano quando ci sia da
ritenere abortivo, e quindi moralmente inaccettabile, il ricorso alla «pillola
del giorno dopo».

Ingerenze confessionali, ingerenze laiche

Cosa lega tra loro il dibattito
statunitense appena riferito e l’episodio della London School of Economics?

Apparentemente nulla. In realtà
entrambi riguardano la concezione di laicità dello stato e la libertà di
espressione. Nel caso londinese viene stigmatizzata una ingerenza «confessionale»
nella libertà di espressione personale. Nel secondo una ingerenza «laica» dello
stato nella libertà di adesione alle convinzioni religiose di alcune
istituzioni private. In tutti e due i casi è in gioco anche un altro aspetto:
quello del cosiddetto «spazio pubblico».

In esso si devono poter manifestare
liberamente le proprie convinzioni. Nessuno, ovviamente, mette in discussione
la libertà di farlo in privato. Ciò che costituisce problema è, invece, la
dimensione pubblica della propria fede religiosa o della propria valutazione,
anche critica, della fede stessa.

Non c’è dubbio, inoltre, che la fede
biblica abbia un carattere pubblico, come sostiene la dichiarazione pubblicata
dal First Things. Lo stesso vale anche, e forse ancora di più, per
l’islam. Ma tale «carattere pubblico» della fede può spingere una religione a
pretendere che la propria concezione morale entri tout court nello «spazio
pubblico» rappresentato dalle norme dello stato?

Probabilmente no. Si violerebbe,
altrimenti, la sua laicità. Ma si violerebbe la laicità dello stato anche se,
al contrario, lo «spazio pubblico» diventasse un luogo in cui la «religione non
c’è», uno spazio religiosamente vuoto (cosa che occorrerebbe verificare se
possibile, oltreché giusta), o un luogo in cui fosse possibile realizzare un’«etica
irreligiosa»: sia sotto forma di satira irrispettosa, sia sotto forma di norme
contrarie alle convinzioni religiose.

Laicità piegata ai propri fini

Non si tratta di un nodo semplice da
sciogliere.

Ci sono casi in cui le norme
contrarie alle convinzioni religiose vengono considerate legittime anche dalla «destra
religiosa», quando queste concordano con i suoi obiettivi.

Per rimanere negli Usa, dove i
problemi si presentano spesso in modo più evidente e, a volte, anche più acuto
che in Europa, dal 2010 alcuni stati come il Tennessee, la Louisiana, l’Arizona
– ma in molti altri si sta procedendo nella stessa direzione -, hanno
introdotto norme che pongono restrizioni significative alla libertà religiosa
delle comunità musulmane ed ebraiche. In queste comunità infatti operano «tribunali»
che applicano ai propri fedeli le leggi religiose, la sharia islamica e
la halakhah ebraica. Quando tali «tribunali» non garantiscono gli stessi
diritti previsti dalla Costituzione, le parti interessate possono ricorrere a
un tribunale laico. Perché in questi casi è considerata legittima l’«ingerenza»
dello stato e la restrizione della libertà religiosa?

La bussola dei diritti costituzionali

La risposta è chiara: la restrizione
del diritto alla libertà religiosa è possibile quando questa eviti la
violazione di altri diritti costituzionali.

Sono le norme costituzionali, dunque
– naturalmente delle costituzioni democratiche che riconoscono e proteggono
tutti i diritti civili e di libertà -, che debbono prevalere, perché
garantiscono a tutti i cittadini pari diritti e pari libertà. Questo deve
valere anche quando si invoca uno «spazio pubblico» in cui esprimere la propria
fede religiosa. Tale spazio dev’essere regolato dalle norme costituzionali che
valgono per tutti. È questo, propriamente, che caratterizza lo stato laico e
non confessionale.

E dell’obiezione di coscienza

Se dalle istituzioni
e dalle comunità si passa a considerare la persona, per difenderla
dall’ingerenza dello stato nelle sue convinzioni religiose e nella sua
coscienza, rimane fondamentale il diritto all’obiezione di coscienza. Ha
costituito un grande progresso civile il suo ingresso da qualche decennio tra
le leggi degli stati. Uno stato laico deve sempre prevederla quando sono in
gioco norme che possono contrastare le convinzioni morali e religiose di una
persona.

In Italia non è
stato facile raggiungere questo risultato. Molti hanno pagato prezzi elevati
perché tale diritto fosse riconosciuto. Ricordiamo il caso degli obiettori di
coscienza al servizio militare, esploso negli anni ‘70, costretti in carcere
perché non volevano indossare la divisa. La loro scelta ha reso possibile la
legalizzazione di quella forma di obiezione di coscienza. In seguito, come
noto, in Italia ne sono state riconosciute altre: ad esempio l’obiezione dei
medici alla legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza.

Per quanto
riguarda la riforma di Obama, alla fine di giugno 2012, la Corte suprema
americana l’ha dichiarata costituzionale, in particolare dove prevede l’obbligo
per tutti i cittadini di dotarsi di un’assicurazione sanitaria. Rimane però
aperta la questione che contrappone il presidente e le istituzioni religiose.
Obama ha fatto un passo indietro, cercando un accordo: «Le organizzazioni
religiose non dovranno pagare per questi servizi o provvedervi direttamente»,
ha affermato ancora nel febbraio del 2012, precisando che le istituzioni
affiliate a organizzazioni religiose non avrebbero più avuto l’obbligo di
coprire la spesa sanitaria dei dipendenti per gli anticoncezionali. Questo non
ha impedito che le arcidiocesi di New York e Washington, insieme a una
quarantina di altre istituzioni e gruppi cattolici, avviassero alcuni mesi dopo
una causa contro la riforma, sostenendo che «i progressi nella modifica della
norma non erano stati incoraggianti».

Paolo Bertezzolo

* Per correttezza abbiamo
riportato questo sito, ma se la sua qualità è rappresentata da alcune delle
vignette che abbiamo visto, non vale davvero il nostro tempo; è più frutto di
goliardia e d’ignoranza in malafede che d’intelligenza; il fatto che se la
prenda sia con Islam e Cristianesimo non contribuisce certo a renderlo almeno
dignitoso, ndr.

Paolo Bertezzolo




Francia. Il velo e gli altri simboli

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 17


Belgin Dogru, 11 anni, musulmana, viene esclusa dalla scuola per
il suo rifiuto di partecipare alle lezioni di ginnastica in cui è obbligatorio
togliere il velo. Dal suo caso nasce un forte dibattito che porta alla nota
legge francese sul divieto di esporre simboli religiosi nei luoghi pubblici. I
numerosi ricorsi presentati dalla famiglia di Belgin vengono respinti. L’ultima
opzione è quella di rivolgersi alla Corte europea per i diritti umani che
vigila sulla libertà religiosa, la cui sentenza finale, emessa nel dicembre
2008, non è per nulla scontata.

Molti ricorderanno la questione del
velo islamico scoppiata anni addietro in Francia. In una città del Nord, un
giorno del 1989, due ragazze di origine marocchina si erano presentate nel loro
liceo con un foulard in testa. La cosa forse non avrebbe destato alcun problema
se il preside non avesse impedito loro di seguire le lezioni finché non se lo
fossero tolte. I mezzi di informazione fecero il resto e la notizia si diffuse
rapidamente un po’ in tutta Europa.

Una dozzina di anni dopo, altri casi
del genere hanno scatenato accese discussioni nel paese transalpino. Indossare
il velo si è trasformato da questione privata in fatto politico. Per molti
islamici, infatti, è diventato un simbolo di resistenza contro la cultura
occidentale. Sempre più frequentemente giovani figlie di immigrati maghrebini,
di nazionalità francese, hanno inteso affermare la loro appartenenza all’Islam
indossando un foulard che ne nascondesse la capigliatura.

Il caso di Belgin Dogru: a scuola senza velo

Il caso di Belgin Dogru, di cui si è
occupata la Cedu (la Corte europea dei diritti umani), è sorto in questo
contesto. Dogru, nata nel 1987 e residente a Flers, un centro di circa 16.000
abitanti della Bassa Normandia, al tempo dei fatti aveva 11 anni. Musulmana,
frequentava una scuola pubblica del paese. A partire dal gennaio 1999 ha
iniziato a presentarsi alle lezioni con i capelli coperti da un velo.
L’insegnante di educazione fisica l’ha ripetutamente richiamata, invitandola a
toglierselo perché quella tenuta era incompatibile con la pratica della sua
disciplina. La ragazza ha sempre rifiutato di obbedirgli ed è stata ogni volta
esclusa dalle lezioni. Il docente, alla fine, si è rivolto all’autorità
scolastica che, alcuni giorni dopo, ha escluso dalla scuola l’alunna per non
aver rispettato l’obbligo della frequenza.

Ricorsi respinti fino all’ultima opzione: la Cedu

Il ricorso dei genitori contro questa
decisione è stato respinto dalla commissione accademica d’appello e la ragazza
ha dovuto proseguire i suoi studi frequentando corsi per corrispondenza. Nel
frattempo, però, i genitori hanno presentato ricorso anche al tribunale
amministrativo di Caen e, dopo il rigetto di questo, alla corte d’appello di
Nantes, che lo ha respinto a sua volta. In entrambi i casi il tribunale ha
ritenuto che il comportamento di Belgin Dogru avesse creato un clima di
tensione all’interno dell’istituto e che, nonostante la ragazza avesse a suo
tempo proposto di sostituire il velo con una cuffia, l’insieme delle
circostanze avesse giustificato la sua esclusione definitiva dalla scuola. La
giovane, è stato affermato, ha oltrepassato i limiti del diritto di esprimere e
manifestare il suo credo religioso all’interno dell’istituto. Il Consiglio di
Stato, cui i genitori di Belgin hanno presentato alla fine ricorso, ha dato
loro definitivamente torto, dichiarandolo inammissibile.

A questo punto essi si sono rivolti
alla Cedu, ritenendo violata la propria libertà religiosa.

La questione, come appare chiaro,
riveste una notevole importanza. Chiama in causa infatti il valore della laicità
dello stato e quindi il rapporto tra questo e le confessioni religiose presenti
sul suo territorio. Tale questione, di primaria portata in Europa, assume un
valore tutto particolare in Francia.

Per imparare, non per fare proselitismo

Il paese transalpino, infatti, è
l’unico ad avere realizzato fin dal 1905 una piena separazione tra Chiesa e
stato. La questione del velo è stata presa come una minaccia contro tale
separazione e una negazione della laicità.

Di fronte all’estendersi delle
polemiche nel paese, e prima che il caso Dogru arrivasse alla Cedu, il
parlamento nel 2004 ha approvato una legge che bandisce i simboli religiosi
dalle scuole statali francesi. La decisione è stata presa a larghissima
maggioranza, perché hanno votato a favore sia la maggioranza (allora di
centrodestra) sia l’opposizione socialista. Il governo ha più volte
sottolineato che essa non mirava a colpire alcuna religione, ma intendeva
difendere, appunto, la laicità dello stato. «Si tratta di affermare con
chiarezza che la scuola pubblica è un luogo dove si va per imparare e non per
fare attività militante o proselitismo», ha proclamato il presidente
dell’Assemblea legislativa in occasione dell’approvazione della legge.

Dalla rivoluzione del 1789 al 1905 a oggi

Occorre tener presente che la
repubblica francese è stata costruita attorno al principio di laicità, derivato
da una lunga tradizione. È nato infatti dalla Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino del 1789, in piena rivoluzione. In seguito è stato
richiamato nelle leggi di riforma della scuola del 1882 e del 1886, che hanno
istituito la scuola primaria obbligatoria, pubblica e, appunto, laica. Ma la
vera chiave di volta della laicità francese è stata, come accennato, la legge
del 9 dicembre 1905, che ha separato in modo netto la Chiesa e lo stato.
Nell’articolo 1 vi si afferma: «La repubblica assicura la libertà di coscienza.
Essa garantisce il libero esercizio del culto sotto le sole restrizioni di seguito
decretate nell’interesse dell’ordine pubblico». E nell’articolo 2 la
separazione è definita in modo preciso: «La repubblica – vi si legge – non
riconosce, né stipendia, né sovvenziona alcun culto».

Una legge, in sostanza, che ha
stabilito un vero e proprio «patto di laicità», da cui sono derivate e derivano
varie conseguenze sia per i servizi pubblici sia per i cittadini che ne
usufruiscono. Lo stato, da una parte, riconosce il pluralismo religioso e la
propria neutralità nei confronti dei culti. I cittadini, dall’altra, come
contropartita di tale «protezione» della loro libertà religiosa, devono
rispettare i luoghi pubblici condivisi da tutti. La laicità dello stato è stata
poi consacrata dall’articolo 1 della Costituzione del 4 ottobre 1958, che dispone:
«La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Essa
assicura l’uguaglianza dinanzi alla legge di ogni cittadino senza distinzione
di origine, razza o religione. Essa rispetta ogni credo». Non c’è chi non veda
l’affinità di tale formulazione, fin nell’uso delle stesse espressioni, con
quella dell’articolo 3 della Costituzione italiana. In Italia, tuttavia, dagli
stessi principi non sono seguiti gli stessi comportamenti legislativi. Non c’è
mai stato, in particolare, un problema di uso del velo nelle scuole statali. Lo
stesso è accaduto nel resto d’Europa. Là dove la questione si è posta, come in
Germania, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Spagna, Svezia e Danimarca, è stata
risolta in modi diversi, ma senza particolari conflitti. Problemi invece si
sono avuti – e ci sono ancora – in Turchia, dopo l’avvento al governo di
Erdogan che ha rimesso in discussione quanto stabilito agli inizi del ’900 dal
regime laico di Ataturk, il primo a impedire alle donne di portare il velo
nelle istituzioni pubbliche.

Uno scontro ideologico

In Francia, invece, l’uso del velo ha
suscitato un vero scontro ideologico. Indossarlo ha assunto per i musulmani –
non per tutti, in verità: vi sono state infatti associazioni islamiche che
hanno appoggiato la legge – un significato preciso: rifiutare la laicità,
rifiutando la scuola pubblica, di seguire le lezioni di ginnastica, le lezioni
di biologia, le lezioni di musica, le lezioni di disegno e così via.

Le ragazze che vogliono indossare il
velo partono dal principio che la donna occidentale non è rispettata dall’uomo
e che loro stesse parteciperebbero a questa mancanza di rispetto se
accettassero appunto di non metterlo.

La polemica è cresciuta ancor più
dopo l’approvazione della legge. La maggioranza dei musulmani in Francia e
quelli all’estero, infatti, l’hanno intesa come un’aggressione e un rifiuto
dell’Islam, anche se la legge in realtà tratta dei simboli di ogni religione,
compresi il crocefisso e la kippah ebraica.

Si sono accese discussioni violente e
confuse. Per gli estremisti musulmani è stata l’occasione per designare la
Francia e l’Occidente come «nemici dell’Islam».

Insomma: il caso è diventato
l’emblema del confronto/scontro del modello francese di laicità con
l’integrazione dei musulmani negli spazi pubblici e, in primis, nella scuola.
Per molti cittadini francesi, l’aumento della presenza islamica minaccia i
valori dello stato, per cui occorre restaurare l’autorità repubblicana. La
scuola è diventata il terreno privilegiato di tale «risposta». La presenza
visibile in essa di segni religiosi è avvertita da molti come contraria alla
sua missione (di essere cioè uno spazio di neutralità e un luogo di risveglio
della coscienza critica), nonché una minaccia ai valori che deve insegnare, a
partire dall’uguaglianza tra uomini e donne.


Condizioni di coabitazione

Con il caso di Belgin Dogru la Cedu
si è dunque trovata a risolvere un problema giuridico, sconfinato però nel
campo politico e ideologico e gravato da implicazioni di grandissimo rilievo.
In ballo c’è la convivenza in Europa con una popolazione musulmana ormai
quantitativamente consistente. L’Islam costituisce la seconda religione del
vecchio continente. È importante rendersi conto di questo e ammettere che
l’Europa vive e continuerà a vivere con una parte della propria popolazione di
religione musulmana. Solo così si potranno definire sempre meglio l’ambito e le
condizioni di tale coabitazione.

La legge francese contro
l’ostentazione dei simboli religiosi nelle scuole, concepita con questo
spirito, è stata tuttavia raffazzonata e votata in un clima di forte tensione e
contrapposizione sociale. Così non si è riusciti a portare il confronto sui
problemi veri che si volevano affrontare: la laicità dello stato, appunto, e la
condizione della donna, la libertà della quale è tutelata e promossa
dall’ordinamento europeo. Questo secondo aspetto è a sua volta di primaria
importanza. Alcuni immigrati infatti vorrebbero che le loro donne, le loro
figlie e le loro sorelle vivessero nelle medesime condizioni dei loro
concittadini rimasti in patria, rifiutando i diritti di cui godono le donne
occidentali.

I rischi dei simboli

Di fronte alla Cedu il governo
francese ha ammesso che le restrizioni imposte alla giovane Dogru
nell’indossare il velo islamico all’interno della scuola costituivano una
limitazione del suo diritto di manifestare la propria religione. Tuttavia, ha
sostenuto, tale limitazione rispettava quanto previsto dall’articolo 9 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Essa infatti, oltre a rispondere a
necessità pratiche, come quella di dotarsi di un abbigliamento adatto
all’esercizio dell’educazione fisica a scuola, era necessaria per rispettare i
principi costituzionali di laicità e di uguaglianza tra i sessi.

Il governo tuttavia si è spinto più
in là, proprio per la forte concezione di laicità che viene sostenuta dalle
leggi francesi. Occorre anche tener conto – ha infatti osservato – delle
ripercussioni del comportamento di Belgin Dogru sugli altri alunni della sua
classe, che al tempo dei fatti avevano, come lei, undici anni, e valutare
l’impatto che un simbolo esteriore, quale il portare un velo, poteva avere
sulla libertà di coscienza e di religione di alunni in giovane età, facilmente
influenzabili. Si sarebbe potuto avere, in altri termini, un effetto di
proselitismo. Insomma, e questo è il senso della posizione del governo francese
nel dibattito di fronte alla Corte, lo stato, e le sue istituzioni come la
scuola, devono rimanere rigidamente neutrali in fatto di religione e dei suoi simboli.

La sentenza della Corte europea

La Corte, con la sentenza del 4
dicembre 2008 ha dato all’unanimità ragione al governo, condividendone le
ragioni. In più ha ricordato che la giovane Dogru e i suoi genitori, all’atto
dell’iscrizione alla scuola, avevano sottoscritto il regolamento interno
dell’istituto, impegnandosi così a rispettarlo. Esso vietava espressamente
l’uso di «simboli ostentatori che costituiscono in se stessi elemento di
proselitismo e di discriminazione». La giovane e i suoi genitori, dunque,
potevano ragionevolmente prevedere che il rifiuto di togliere il velo durante
il corso di educazione fisica e sportiva avrebbe potuto portare alla esclusione
dall’istituto per il mancato rispetto dell’obbligo di frequenza. In questo
caso, dunque, non è stata violata la Convenzione europea, e la restrizione alla
manifestazione della libertà religiosa, nei termini in cui è avvenuta, è stata
legittima, proprio perché ha avuto la finalità di preservare gli imperativi
della laicità negli spazi pubblici scolastici.

Al di là della sentenza, una questione aperta

La Francia, dove secondo le stime
ufficiali, su una popolazione di religione musulmana stimata tra i 4 e i 6
milioni, le donne che indossano il velo sono circa 2000, ha approvato nel 2011
un’altra legge che vieta l’uso del velo islamico in pubblico. Anche questa ha
suscitato la reazione della comunità islamica. La Cedu è stata nuovamente
interpellata da donne condannate in base alla nuova legge, perché ritengono che
violi la loro libertà religiosa. Entro quest’anno la Corte europea dovrebbe
esprimersi in merito. Ma al di là di questo rimane aperto il problema, che è
politico, culturale e sociale, del rapporto degli stati democratici europei con
le nuove religioni presenti oggi nel vecchio continente e, in particolare con
l’Islam. Quale sia la strada migliore per realizzare convivenza, integrazione,
dialogo, rispetto reciproco, non è certamente facile stabilirlo. L’Europa
dispone di un patrimonio preziosissimo di valori sociali, civili, liberali e
democratici, in base ai quali il problema di cui si è detto deve essere gestito
e risolto. Non si tratta di una questione solo «formale», né si può affrontarla
in termini ideologici o manichei. La laicità appartiene a tutti, «vecchi» e «nuovi»
europei, e permette a tutti di esercitare la libertà di religione. È
importante, tuttavia, rendere il più possibile omogenea, nei vari paesi, la sua
traduzione nella vita concreta delle istituzioni e della società. Quanto sarà
possibile, infatti, il perdurare di una situazione che vede il medesimo
principio di separazione tra stato, Chiesa e religioni affermato nell’Unione
europea, tradursi nelle istituzioni dei vari paesi in livelli diversi di
tolleranza nei confronti del crescente pluralismo della società contemporanea? È
una situazione in cui la Cedu ha un compito notevole da svolgere. Ma certo non
può risolverlo da sola.

Paolo Bertezzolo

Paolo Bertezzolo




Quando l’islamofobia è buddhista

Riflessioni e fatti sulla libertà
religiosa nel mondo – 11
In Myanmar si registrano centinaia di musulmani uccisi e decine
di migliaia sfollati. Recenti episodi di vessazioni anti islam si sono
verificati in Sri Lanka. Anche la voce autorevole del Dalai Lama si è alzata
per condannare le violenze e implorare i monaci buddhisti dei due paesi, benché
non appartenenti al buddhismo tibetano: «Uccidere le persone in nome della
religione è davvero molto triste, impensabile». E il rischio di una reazione uguale e opposta in
altri paesi a maggioranza islamica cresce.

Da un anno, la violenza ha
sostituito un difficile «status quo» nei rapporti tra maggioranza buddhista e
minoranza musulmana in Myanmar. Prima ha colpito i Rohingya, minoranza etnica
che abita prevalentemente nello stato Rakhine, al confine con il Bangladesh, a
cui il governo birmano non riconosce alcuna cittadinanza, e poi le sparse ma
attive comunità islamiche di antica presenza e di piena cittadinanza. I
Rohingya, circa 800mila in Myanmar e 300mila nei campi profughi in Bangladesh,
rappresentano una delle tante «questioni» irrisolte di un paese sottoposto fino
a due anni fa a un regime militare autoreferenziale e intransigente che pare
oggi avviato verso una concreta apertura alle istanze di libertà, benessere e
diritti. I musulmani locali, in parte arrivati in Myanmar con l’esperienza
coloniale britannica, in parte convertiti dal buddhismo nei secoli scorsi, sono
oggetto di una campagna di odio che fa leva sull’islamofobia ma anche sulla
rivalità economica tra le comunità.

In modo inatteso – e nel sorprendente silenzio dei personaggi e
movimenti che stanno guidando la nazione fuori da una delle più gravi
repressioni della storia modea – la nuova realtà politica e istituzionale del
paese ha portato immediatamente in superficie tensioni latenti, ma anche un impensato
nazionalismo e la xenofobia di una parte della comunità buddhista e della
stessa leadership monastica.

Anche in Sri Lanka

Dalla parte opposta del golfo del Bengala, una situazione meno
radicale ma simile nei presupposti sta interessando lo Sri Lanka. Qui, la fine
della guerra civile nel maggio 2009, con la sconfitta della guerriglia espressa
dalla minoranza tamil, ha di fatto costretto al silenzio le voci di dialogo. Il
governo e il presidente Mahinda Rajapakse hanno, senza ormai ostacoli, perseguito
la politica del pieno potere dei singalesi buddhisti, non solo rifiutando gli
interventi estei volti ad accertare, ad esempio, gli abusi compiuti dalle
forze governative su ribelli e civili Tamil, ma anche stringendo la morsa della
censura e della «sicurezza pubblica», e allentando il controllo sul
nazionalismo estremista, il quale ha nell’identità religiosa il suo caposaldo.
Atti di intimidazione e violenze vere e proprie sono stati commessi negli
ultimi mesi soprattutto contro la consistente comunità islamica dell’isola (il
10% su 20 milioni di abitanti), ma non solo.

Buddhismo nonviolento?

Colpisce che nei due casi birmano e singalese sembri mancare un
elemento «scatenante», come sarebbe potuta essere l’infiltrazione nelle comunità
musulmane di membri militanti. Stupisce anche la partecipazione di esponenti
religiosi buddhisti, in molti casi addirittura direttamente coinvolti nelle
violenze.

Da qui nascono domande legittime sulla validità della tradizionale
opinione – diffusa soprattutto in Occidente – per cui la pratica della dottrina
buddhista, nelle sue varie forme storiche, sarebbe di per sé pacifista.

A maggior ragione impressiona l’emergere di un movimento violento
in paesi dove il buddhismo giocò in passato un ruolo essenziale nel processo
indipendentista anti britannico. E se per lo Sri Lanka si può sostenere che la
leadership
religiosa è stata imbavagliata e, soprattutto, tenuta
strettamente legata alle esigenze del potere politico e dei militari, in
Myanmar invece il clero buddhista ha cercato di essere attivo agente di
cambiamento e di democrazia, anche pagando duramente per le sue convinzioni, e
sempre mantenendo un atteggiamento nonviolento.

Vero è che l’identità nazionale in entrambi i paesi è strettamente
legata al buddhismo, e che questo ha spesso messo le minoranze, nella storia
post indipendenza, in condizioni difficili.

Gli eventi violenti degli ultimi tempi, tra l’altro, rischiano di
avere ripercussioni altrove: già oggi si registrano segnali di reazione alle
notizie che arrivano da Myanmar e Sri Lanka in paesi musulmani come Indonesia e
Malaysia.

Il Silenzio di San Suu Kyi

Uno studio sui rapporti tra organizzazione monastica, comunità
buddhista e leadership politica dei due paesi potrebbe spiegare con maggiore
chiarezza la situazione attuale, anche se comunque con ampie aree grigie.

Le recenti dichiarazioni del governo birmano di volere garantire i
diritti alla sicurezza e alla pratica religiosa della comunità musulmana (il 5%
dei 58 milioni di abitanti) contrastano con l’allargarsi delle aree di tensione
anche in regioni (come lo stato Kachin) che sfuggono in parte al controllo
diretto delle autorità centrali. Suscita meraviglia e attira critiche anche il
silenzio di Aung San Suu Kyi, spiegabile forse con la sua candidatura alle
elezioni presidenziali del 2015, o con la coerenza verso il suo impegno a
lavorare per la riconciliazione piuttosto che per la sottolineatura di fratture
già presenti nella composita società birmana. In ogni caso, pochi sembrano gli
spazi per una soluzione pacifica e duratura. Anzi, il rischio è che le violenze
si allarghino, anche davanti all’evidente impotenza della comunità
internazionale che ha – significativamente – lasciato cadere buona parte delle
sanzioni verso il governo erede del regime che per oltre 50 anni ha fatto
affondare il paese nella violenza e nella povertà.

Come sia possibile che il monaco Ashin Wirathu sia emerso come
referente del buddhismo violento e xenofobo in Myanmar, pochi lo spiegano, ma
colui che nel 2012, appena rilasciato dopo nove anni di carcere per incitamento
all’odio religioso, si era dichiarato «il Bin Laden birmano», da un anno spinge
il suo «Gruppo 969» a propagandare l’intolleranza nel paese.

La sua «campagna», orchestrata con ogni probabilità assieme ad
alcuni settori della politica e delle forze armate, cade in un vuoto di moralità
e di legittimazione dell’organizzazione monastica buddhista. Tra i 500mila
monaci ci sono infatti molti che nei monasteri hanno trovato un rifugio da
povertà, violenza, emarginazione. Giovani uomini con un’infarinatura di fede e
uno scarso bagaglio dottrinale pronti a scaricare rabbia e frustrazioni sui
bersagli loro indicati.

Rischi di contagi

Per Shwe Nya Wa, abate buddhista a Mandalay, un moderato, la
situazione segnala come qualcuno voglia accendere seri problemi nel paese per
spingere il governo a intervenire con durezza, come un tempo, e per confermare
la «debolezza» della democrazia e delle sue istituzioni già insinuata dagli
abusi di vario tenore verificatisi grazie all’eliminazione del blocco degli
investimenti stranieri che ha portato nel paese investitori istituzionali e
occasionali, pubblici e privati.

Davanti a oltre 300 morti e 140mila profughi dal giugno 2012,
appare chiaro che non solo la situazione è fuori controllo, ma è anche forte il
rischio di un «contagio» alla vicina Thailandia, anch’essa in maggioranza
buddhista, dove il conflitto in corso da tempo nel Sud tra forze di sicurezza e
ribelli indipendentisti musulmani potrebbe incentivare – se intervenisse una
spinta di carattere religioso-istituzionale – l’ostilità generale verso i
seguaci di Allah, il 4% della popolazione.

Tamil sotto torchio

In Sri Lanka nessun musulmano risulta finora vittima dell’ostilità
dei conterranei buddhisti che comunque fa sorgere preoccupazioni nella società,
oltre a reazioni nel mondo islamico. Durante la devastante guerra civile che ha
interessato il paese dal 1983, i musulmani locali hanno pagato un caro prezzo
per la loro neutralità. Soprattutto ai guerriglieri tamil. Oggi, con i Tamil
totalmente sottomessi al dominio dell’etnia singalese, i musulmani si ritrovano
sotto il giogo dei vincitori.

Vittima, in parte dei sospetti che risalgono ai tempi della
dominazione britannica, in parte degli effetti del radicalismo musulmano di
molte aree del mondo, in parte – ancora – della recente opposizione alla
macellazione secondo i dettami di purità musulmana (halal) o di piccole
rivalità locali, oggi la comunità islamica, pacifica e laboriosa, certamente
lontana delle suggestioni jihadiste, si trova sotto il tiro degli
estremisti del Bodu Sena (la Brigata buddhista), che contro i seguaci di
Maometto tiene comizi, proclama azioni di boicottaggio, condanna la prolificità
delle famiglie devote di Allah o chiama più chiaramente all’espulsione.

Il fatto che alti esponenti del governo di Colombo, e tra questi
il potente ministro della Difesa Gotabhaya Rajapaksa (fratello del presidente)
partecipino a iniziative della Brigata, come l’apertura di centri di
addestramento, e definiscano i monaci nazionalisti come destinati a «proteggere
il paese, la religione e la razza», chiarisce come il rischio di un nuovo
conflitto interno sia reale e le motivazioni del tutto pretestuose, utili solo
al nazionalismo e a chi se ne avvantaggia. Mostra inoltre la debolezza
identitaria, e la scarsa conoscenza del mondo, frutto anche di un’informazione
censurata e parziale.

Il senso di unità nazionale, incentivato da decenni di regimi
oppressivi, la dominanza storica su altre fedi, la preoccupazione per un «contagio
islamista», sia attraverso il potere dei petrodollari, sia attraverso una
volontà dell’Islam di convertire i buddhisti, contribuisce a una reazione che
non ha nelle istituzioni un freno, ma piuttosto un garante.

Stefano Vecchia
 


«Buddhismo e pacifismo»

Il principio della nonviolenza è intrinseco alla pratica
buddhista, come indicato nel Dhammapada, la raccolta di scritti che
raccoglierebbe, secondo la tradizione, l’originaria dottrina del Buddha. Il
primo sutra (aforisma) indica che «se
un uomo parla o agisce secondo un pensiero malvagio, il dolore lo segue come la
ruota segue lo zoccolo del bue che tira il carro».

Dei cinque precetti morali obbligatori per il monaco, il
primo è l’astenersi dall’uccidere esseri viventi. Strumento per raggiungere
pace interiore ed equilibrio, anche la meditazione è indicata negli antichi
testi come idonea a produrre uno stato di «consapevolezza amorevole» verso
tutti.  Storicamente, però, la religione
buddhista, che pure non si riferisce a un Dio onnipotente, a un popolo eletto e
nemmeno ha un carattere prettamente proselitistico e universalistico, ha
dimostrato di essere militante quanto l’Islam e il Cristianesimo. Le cronache
srilankesi ricordano come la dottrina del Buddha si sia affermata sull’isola
nel II secolo a.C., quando re Dutugemunu infilò sulla punta di una lancia una
reliquia del Buddha e guidò alla vittoria contro il rivale induista le sue
truppe che includevano 500 monaci. Fu un massacro, ma le cronache ricordano
come il sangue sparso sia andato a beneficio della fede oggi dominante.
Similmente sovrani indiani, khmer, birmani, thai e indonesiani giustificarono
le loro campagne belliche con la «necessità» di diffondere il buddhismo e
innalzare reliquiari in aree sempre più vaste.

In sostanza, da lungo tempo l’intransigenza dottrinale e il
rigore morale sono stati sovente espropriati nell’ecumene buddhista da
interessi diversi. Oggi fede minoritaria, posta sulla difensiva per ragioni
storiche e demografiche, il buddhismo rischia derive integraliste contrarie non
solo alle sue origini che stanno nel Buddha storico, ma anche ai suoi stessi
principi tramandati.  (S.V.)

Stefano Vecchia




Lo Yom Kippur alla corte di Strasburgo

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 15
Un avvocato napoletano di religione ebraica vede rifiutata
la sua richiesta di rinvio di un’udienza per partecipare alla festa del Yom
Kippur. E ricorre alla Corte di Strasburgo (Cedu) per il mancato rispetto del
suo diritto di culto. Un caso emblematico della difficile ricerca di equilibrio
tra diritti in conflitto. E del ruolo fondamentale che la Corte svolge nella
costruzione di una comune coscienza civile in Europa, anche sul tema della
libertà di religione. Prendendo in esame le sentenze della Cedu, possiamo
comprendere se in Europa esiste un problema di libertà religiosa e di pensiero
e, quindi, di laicità dello stato.

La Corte europea dei diritti
dell’uomo (Cedu) ha il compito di decidere se nei paesi che fanno parte del
Consiglio d’Europa e dell’Unione europea viene violata la libertà religiosa,
oppure messa in discussione la laicità dello stato o, ancora, il pluralismo
religioso e la pari dignità di tutte le fedi che rispettino i principi
costitutivi dell’Europa. La Cedu è sorta nel 1959 sulla base della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
.
Chiunque ritenga che tali diritti non siano stati rispettati, si può appellare
a essa. Per i casi riguardanti la libertà religiosa l’articolo della
Convenzione europea a cui fare riferimento è il numero 9 sulla libertà di
pensiero, di coscienza, di religione e di manifestare la propria fede o le
proprie convinzioni.

Costruire una comune coscienza civile europea

A livello europeo le sentenze della Cedu sono molto importanti, al
di là di quanto affermano le singole Costituzioni nazionali (le quali, essendo
tutte democratiche, riconoscono esse stesse in linea di principio le medesime
libertà). Se infatti, all’interno di un singolo paese europeo i diritti e le
libertà fondamentali venissero, per qualsiasi motivo, violati, la Cedu può
riconoscerlo grazie al suo ruolo di giudice di ultima istanza.

È per questo che la Corte svolge il fondamentale compito di
contribuire alla costruzione in Europa di una comune coscienza civile, quindi
anche riguardo alla libertà di religione.

Tra Yom Kippur e lavoro

Analizzando le sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo ci
troviamo di fronte a casi emblematici che mostrano, spesso, quanto sia
difficile trovare l’equilibrio giusto tra diversi diritti: ad esempio il
diritto di culto di un avvocato e il diritto di altre persone alla durata
ragionevole di un processo.

È il caso della sentenza emessa dalla Corte il 3 aprile 2012 che
vedeva l’avvocato napoletano di religione ebraica Francesco Sessa in
contrapposizione al governo italiano per la presunta violazione del suo diritto
di culto.

Il 7 giugno 2005 l’avvocato Sessa si presenta al giudice delle
indagini preliminari (Gip) di Forlì in rappresentanza di uno dei due querelanti
in una causa penale contro diverse banche. Il Gip titolare non può presenziare
all’udienza, e il suo sostituto, per fissare l’udienza successiva, propone due
possibili date: il 13 o il 18 ottobre. Entrambe, tuttavia coincidono con feste
ebraiche: rispettivamente lo Yom Kippur e il Succot. L’avvocato di Napoli lo fà
presente. Osservante, membro della comunità ebraica della sua città, non potrà
partecipare all’udienza di rinvio. E chiede che venga indicata una data
diversa, appellandosi alla legge del 1989 che regola i rapporti tra lo stato
italiano e l’Unione delle comunità ebraiche. Ma il giudice non tiene conto
della richiesta, e fissa l’udienza per il 13 ottobre. Anche il Gip titolare
della causa, cui l’avvocato napoletano si rivolge immediatamente, respinge la
sua richiesta di rinviare la nuova udienza. L’interessato, allora, sporge
querela contro entrambi i giudici.

Diritti o «ragioni personali»?

Arriva frattanto l’udienza del 13 ottobre e l’avvocato non si
presenta. Il Gip lo dichiara assente per «ragioni personali» e, raccolto il
parere delle parti, rigetta la sua richiesta di rinvio perché non aveva motivi
legittimi per ottenerlo. L’avvocato napoletano fa ricorso contro tale
decisione. La causa, attraversati tutti i gradi di giudizio, termina il 15
febbraio del 2008, quando il Gip di Ancona, cui era alla fine pervenuta,
l’annulla sostenendo che nessun elemento dimostrava una violazione del diritto
dell’avvocato di esercitare liberamente il culto ebraico o un attentato alla
sua dignità in ragione della sua fede religiosa.

Cedu: ultima istanza

Sessa decide quindi di fare ricorso alla Cedu. Appellandosi all’art.
9 della Convenzione per i diritti dell’uomo, sostiene che l’aver fissato
l’udienza nel giorno di una festa ebraica gli ha impedito di partecipare
all’udienza attentando al suo diritto di manifestare liberamente la propria
religione. La legge del 1989, secondo lui, l’autorizzava ad assentarsi dal
lavoro in occasione di feste ebraiche, per poter esercitare il proprio culto.

Il governo italiano, contro cui l’appello alla Cedu è rivolto,
naturalmente è di parere contrario. E sostiene che il diritto invocato dall’avvocato
di Napoli non riveste carattere assoluto. Infatti la stessa legge che regola i
rapporti dello stato con l’Unione delle comunità ebraiche prevede espressamente
che le esigenze legate a servizi essenziali dello stato prevalgano sul diritto
dell’individuo a esercitare liberamente il proprio culto. E l’amministrazione
della giustizia costituisce certamente un servizio essenziale. Inoltre
l’avvocato avrebbe potuto farsi sostituire per quella particolare giornata da
un collega, e non l’ha fatto. Egli dunque ha rinunciato a conciliare gli
obblighi religiosi legati al suo culto con le esigenze della buona
amministrazione della giustizia.

Ribadire il diritto alla libertà religiosa…

Questa causa riveste un interesse particolare per il tema della
libertà religiosa nel nostro continente, perché la Corte europea dei diritti
umani deve confrontare il caso specifico dell’avvocato napoletano con i
principi fondamentali espressi nell’articolo 9 della Convenzione: la libertà
religiosa riguarda prima di tutto il «foro interiore» delle persone, ma implica
egualmente il diritto di manifestare la propria religione sia in modo
collettivo, in pubblico e assieme a chi condivide la stessa fede, sia
individualmente e in privato. La Corte sottolinea quindi che la libertà
religiosa non è una questione solo «interiore», soggettiva e individuale. Essa
non è un fatto «privato», come un certo «laicismo» di carattere «radicale»
pretende. Ha invece anche dimensione e rilievo pubblici. E solo tutelando
entrambe queste dimensioni si può parlare di libertà religiosa.

La Corte, da un lato, sostiene, in base a queste valutazioni, che
l’avvocato di Napoli aveva tutto il diritto di partecipare alle feste della sua
religione.

…puntualizzandone i limiti

Dall’altro lato, la stessa Corte afferma che tale diritto non è
assoluto. L’articolo 9, infatti non protegge qualsiasi atto ispirato a una
religione. E per chiarirlo ricorda altri due casi emblematici, su cui si era
espressa in precedenza. Il primo riguardava un agente di servizio pubblico,
Tuomo Konttinen, Finlandese, licenziato perché non aveva rispettato i suoi
orari di lavoro per la ragione che la Chiesa avventista del settimo giorno, a
cui egli apparteneva, vieta ai suoi fedeli di lavorare il venerdì dopo il
tramonto del sole. Il secondo si riferiva a un militare turco di nome Kalac
collocato d’ufficio in pensione per motivi disciplinari, perché manifestava
idee integraliste. In questi casi la Corte aveva ritenuto che non valesse
l’art. 9 perché le misure prese non erano motivate dalle idee religiose degli
interessati ma dagli obblighi contrattuali specifici che li legavano ai loro
datori di lavoro.

Anche nel caso dell’avvocato napoletano secondo la Corte non si è
verificata alcuna restrizione del suo diritto di esercitare liberamente il suo
culto. Infatti l’interessato aveva potuto svolgere i propri doveri religiosi.
Egli avrebbe dovuto invece soddisfare comunque i suoi doveri professionali
facendosi sostituire nell’udienza da un collega.

4 a 3: la delicatezza dell’equilibrio

La sostanza della sentenza della Corte va quindi contro Francesco
Sessa: non è stato un caso di violazione del suo diritto di religione.

All’interno della Corte la decisione non è stata facile da
prendere. Dei sette membri che la costituivano, tre hanno sostenuto che si era
verificata comunque una ingerenza nei diritti dell’interessato.

In una società democratica la possibilità di ingerenza è ammessa
dalla legge quando si tratta di proteggere i diritti e le libertà altrui. In
questo caso il diritto dell’avvocato napoletano era in conflitto con il diritto
delle persone coinvolte nel processo al quale Sessa avrebbe dovuto prender
parte a godere di una buona amministrazione della giustizia e a vedere
rispettato il principio della durata ragionevole del processo. Secondo i tre
membri della corte che davano «ragione» all’avvocato, tuttavia, l’ingerenza non
aveva risposto al criterio della proporzionalità, secondo cui tra i vari mezzi
che permettono di raggiungere lo scopo legittimo perseguito, le autorità devono
scegliere quello che lede meno i diritti e le libertà. Si doveva infatti
scegliere una soluzione che permettesse di conciliare sia i diritti di libertà
religiosa dell’avvocato di Napoli sia quello di buona amministrazione della
giustizia delle parti in causa, ad esempio organizzando in modo diverso il
calendario delle udienze. In quel caso, i disagi e i problemi provocati da tale
scelta avrebbero rappresentato un modico prezzo da pagare per il rispetto della
libertà di religione in una società multiculturale. In più, secondo loro, non
esisteva alcun motivo di urgenza, dato che non erano previste misure che
privassero qualcuno della libertà. Per questo, tre giudici su sette erano del
parere che fosse stata violata la libertà religiosa di Francesco Sessa.

Fatto sta che alla fine, nonostante i tre pareri a favore
dell’avvocato di fede ebraica, la sentenza della Corte gli ha invece dato
torto. Si può non essere d’accordo. Occorre tuttavia sottolineare l’importanza
dei principi affermati dalla Corte nella sua sentenza. Il fatto stesso che essa
abbia deciso a stretta maggioranza, dimostra quanto delicata sia la questione
del rispetto del diritto alla libertà religiosa, sia nella sfera privata sia in
quella collettiva e pubblica. Esso non è, come detto, un diritto assoluto, e la
sua limitazione – possibile esclusivamente per tutelare i diritti altrui – va
considerata con grande attenzione e prudenza. La libertà religiosa, come quella
di pensiero e di coscienza, è uno dei cardini fondamentali su cui si basa una
società autenticamente laica e pluralista.

Paolo Bertezzolo

Paolo Bertezzolo




Egitto: Prima e dopo la primavera araba

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa
nel mondo – 11

Secondo le ricerche del Pew Forum è uno dei paesi al mondo in
cui maggiormente viene violata la libertà religiosa. L’Egitto ha fin dalle sue
origini modee una grande difficoltà a risolvere il conflitto tra potere
statale e potere religioso. La cosiddetta primavera araba ha sparigliato le
carte sul tavolo dando maggiore peso alle autorità religiose e alla sharia. Ma
tutto è in movimento. 

Chiunque voglia iniziare a
occuparsi di Egitto si renderà immediatamente conto che non potrà non
considerare il fattore religioso. La società egiziana in patria e in
emigrazione (ad esempio la comunità egiziana in Italia) ne è profondamente
intrisa, e questo non riguarda solo i musulmani.

In Egitto circa il 90% della popolazione è costituito da musulmani
sunniti, l’1% da musulmani shiiti, l’8-12% da cristiani, in maggioranza della
Chiesa ortodossa copta, e il restante da altre minoranze, tra le quali i
baha’i  e gli ebrei (questi ultimi
stimati dall’Inteational Religious Freedom Report stilato dal
Dipartimento di Stato degli Usa in meno di 200 individui nel 2008, e in circa
100 nel 2012).

Per quanto riguarda la comunità cristiana, nonostante la Chiesa
copta ortodossa ne rappresenti la maggioranza, è importante considerare la
presenza di altre chiese: quella cattolica (con le sue sette denominazioni:
copto-cattolica, greco-melchita, maronita, siriaca, caldea, armena e latina),
quella greco-ortodossa, e quelle anglicana ed evangelica. Uno dei problemi
posti dalla predominanza della Chiesa copta ortodossa, messo in evidenza da
Michael Fitzgerald, ex presidente del Pontificio consiglio per il dialogo
interreligioso, oggi nunzio apostolico al Cairo, è il fatto che le autorità,
sia quelle del precedente regime che quelle dell’odierno governo, tendono a
vedere tutti i cristiani come copti e a considerare il loro papa Tawadros II
come loro unico rappresentante.

Altra questione posta dalle minoranze religiose riguarda la
presenza di comunità non riconosciute che si trovano private della maggioranza
dei diritti. Il caso più eclatante è quello della comunità baha’i, che a
partire dagli anni Sessanta è stata disconosciuta e interdetta, le sono stati
confiscati tutti i beni, con l’ovvia conseguenza dell’impossibilità di
costruire o mantenere propri luoghi di culto.

Secondo Elisa Ferrero, giornalista freelance, profonda
conoscitrice del contesto religioso egiziano, che abbiamo sentito proprio sul
tema della libertà di religione in Egitto, «la nuova costituzione ha radicato
l’esclusione di altre religioni. Paradossalmente ha riconosciuto maggiormente i
cristiani, dando alla Chiesa ortodossa copta la prerogativa di decidere su
alcune questioni come la famiglia, i matrimoni, l’eredità. Questo non è
piaciuto a molti cristiani che preferiscono invece uno stato laico in cui sia
effettivamente garantita la libertà di credo di tutti».

La libertà
religiosa prima della primavera araba

Gianluca Parolin, costituzionalista italiano e professore di
diritto comparato presso l’Università Americana del Cairo ci offre
un’interessante analisi della libertà religiosa in Egitto dal punto di vista
giuridico. Nel suo articolo La libertà religiosa nell’Egitto post coloniale
descrive la relazione tra politica e religione in Egitto dalle sue origini
modee a oggi, e le principali questioni (nella maggior parte dei casi ancora
aperte) relative alla libertà religiosa. Lo studioso sostiene che la stessa
creazione dell’Egitto moderno – la quale coincide con l’affermazione di
un’autorità politica il cui controllo si estende al di là dell’ambito
precedentemente ricoperto, e che «progressivamente circoscrive, assedia,
penetra ed espugna il dominio dell’autorità religiosa, incidendo in tal modo
assai profondamente sul fenomeno religioso stesso» – potrebbe essere
ricostruita seguendo la ri-articolazione dello snodo tra fenomeno religioso e
autorità politica nei decenni.

Da Muhammad ’Ali (1769-1849), colui che è ritenuto il fondatore
dell’Egitto moderno, fino alla rivoluzione del 1952, infatti, sono stati erosi
gli spazi di autonomia della religione, ed è stato delineato un sistema
giuridico con aspirazioni esclusive, ma dalla natura plurale.

Tra l’inizio dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, in
particolare, la relazione tra autorità politica e fenomeno religioso in Egitto
ha subito, secondo lo studioso, tre ri-articolazioni fondamentali. La prima ha
riguardato l’introduzione della gestione centralizzata delle fondazioni pie (waqf)
che ha sottratto alle autorità religiose l’indipendenza economica
trasformandole in «salariate» dello Stato. La seconda ha colpito la giurisdizione
dell’autorità religiosa con la creazione di giurisdizioni concorrenti che hanno
limitato l’area d’influenza del diritto confessionale. La terza ha coinvolto il
contenuto del diritto confessionale attraverso forti incursioni dell’autorità
politica, primo tra tutti nel diritto di famiglia.

La rivoluzione del 1952 ha infine portato a compimento il processo
cominciato nell’Ottocento.

Nella sua analisi Parolin evidenzia come nella seconda metà del
Novecento «l’autorità politica estende significativamente il suo controllo sul
fenomeno religioso con due operazioni di grande impatto»:

1) la giurisdizione dei giudici religiosi viene accorpata nel
sistema di tribunali statali, diventando una sezione specializzata dei
tribunali civili dello stato (pur mantenendo invariato il personale e il
diritto sostanziale applicato);

2) lo stato nazionalizza l’università al-Azhar, la maggiore
istituzione di formazione religiosa, disponendo che lo shaykh al-Azhar,
il suo vertice, venga nominato con decreto presidenziale e ridisegnando
l’impianto stesso della formazione offerta.

Primavera
Araba, trasformazioni religiose?

La situazione descritta è rimasta più o meno stabile fino agli
eventi del gennaio 2011 e alle dimissioni di Mubarak.

Diverse fonti sono concordi nell’affermare che la «rivoluzione»
egiziana sia stata portata avanti da forze diverse e che nelle proteste di
piazza Tahrir si respirasse un generale senso di unità e di orgoglio di essere
egiziani, prima che cristiani o musulmani, moderati o fondamentalisti.
Cristiani e musulmani erano insieme, «una sola mano», come titola Elisa Ferrero
il suo bel libro che descrive i giorni caldi della rivolta.

La «rivoluzione» del 25 gennaio non ha però assunto tra i suoi
temi la questione della libertà religiosa, e molti dei nodi irrisolti si sono
riproposti nei mesi successivi, soprattutto con la polarizzazione elettorale
(sia per le elezioni parlamentari sia per quelle presidenziali).

Sono due in particolare – riprendendo ancora Gianluca Parolin – le
questioni ancora aperte che continuano a generare tensioni interconfessionali:
la disciplina delle conversioni e quella degli edifici di culto non musulmani.
Per quanto riguarda il primo punto, la questione riguarda, ad esempio, i copti
ortodossi che si convertono all’islam per aggirare la severità del diritto di
famiglia copto ortodosso. Papa Shenouda, nel 2008, aveva infatti ridotto le
nove condizioni per divorziare, previste dalla legge del 1938, al solo
adulterio, spingendo molti copti alla conversione (a volte temporanea)
all’islam, per essere così in grado di annullare il proprio matrimonio. Tale
pratica ha causato spesso tensioni settarie anche gravi. Per quanto riguarda i
luoghi di culto non musulmani, da una parte l’art. 46 della Costituzione
egiziana impone «dieci condizioni» difficilmente rispettabili per la
costruzione, dall’altra la riluttanza e la discrezionalità delle autorità a
concedere l’autorizzazione, anche in presenza delle condizioni, rende il
rispetto della normativa rarissimo: la creatività dimostrata nell’aggirarla
pone, secondo Parolin, le comunità non musulmane nell’illegalità, e le espone a
rappresaglie che ciclicamente culminano in scontri con vittime e luoghi di
culto incendiati.

Oltre alle questioni legate ai «due nervi scoperti del sistema»
appena analizzati, nel dibattito pubblico dopo il 25 gennaio 2011 sono state
costanti le discussioni sul ruolo dell’islam nella vita pubblica egiziana e sul
ruolo dello stato nel fenomeno religioso. La prima delle due ha fortemente
polarizzato i processi referendari ed elettorali e si è riproposta anche in
occasione della stesura della «nuova» Costituzione. L’accesa campagna
referendaria, infatti – sempre riprendendo le analisi di Parolin – «non è stata
condotta se non sul rapporto tra islam e stato», con particolare riferimento all’art.
2 della Costituzione del 1971: «L’islam è la religione dello stato, l’arabo la
sua lingua ufficiale e i principi del diritto musulmano la fonte principale
della legislazione», anche se il pacchetto di emendamenti sottoposto a
referendum verteva su altro. Dopo il voto referendario pare che l’art. 2 sia
scomparso dal dibattito pubblico e tutte le successive bozze di Costituzione lo
hanno mantenuto fondamentalmente invariato. Questo anche perché l’art. 2 «gode
– secondo Parolin – di quella caratteristica ambiguità che fornisce alle
previsioni costituzionali di compromesso una lunga tenuta» avendo in sé diverse
possibili interpretazioni.

La polarizzazione ideologica riscontrata nella campagna per il
referendum pare essere stata presente anche nel lungo processo di elezione dei
due rami del parlamento e nelle elezioni presidenziali.

Per quanto riguarda il ruolo dello stato nel fenomeno religioso
significativo è stato il dibattito sulla riforma dell’università al-Azhar. La
sua nazionalizzazione aveva segnato l’apice della penetrazione del potere
politico nel campo religioso, oggi la Costituzione stabilisce l’indipendenza di
al-Azhar e prevede che essa revisioni tutte le leggi prima della loro
promulgazione, per controllare che non siano in contrasto con la sharia.

Il Dialogo
Interreligioso

Il 18 novembre 2012, la Chiesa copta ortodossa egiziana ha
ufficialmente insediato il suo nuovo pontefice, Tawadros II, che si trova ad
affrontare come prima sfida il confronto con l’islam politico al governo.
Proprio per questo, poco dopo la sua elezione, papa Tawadros ha dichiarato di
voler servire l’interesse del paese intero ponendo l’accento sul dialogo e
l’unità nazionale, considerando se stesso, innanzitutto, un cittadino egiziano.
Egli ha inoltre espressamente affermato di voler privilegiare il ruolo
spirituale della sua Chiesa, con particolare attenzione all’educazione dei
giovani. Così facendo è parso abbracciare la posizione di chi vuole il ritiro
della Chiesa dalla politica. Al tempo stesso, però, ha anche ribadito che i
cristiani si aspettano il pieno rispetto dei loro diritti.

Per quanto riguarda le altre Chiese cristiane, poi, proprio
quest’anno, al termine della Settimana di preghiera per l’Unità dei cristiani a
gennaio, è nato il Consiglio nazionale delle Chiese di cui fanno parte tutte le
cinque confessioni dell’Egitto. L’idea è che il consiglio possa contribuire a
rafforzare l’unità tra i cristiani, a lottare su alcuni temi comuni, e ad
affrontare discriminazioni e violazioni di diritti.

In conclusione possiamo dire che, se da un lato la situazione
della libertà religiosa in Egitto non ha subito grosse trasformazioni a livello
legislativo con il nuovo governo e la nuova Costituzione, dall’altro è vero che
a livello di società civile qualcosa si sta muovendo. Elisa Ferrero riconosce
infatti come «sia un po’ caduto il tabù della religione, e ci siano maggiori
confronti aperti sul tema delle minoranze (riconosciute e non) e dell’ateismo».

Viviana Premazzi
 
«Centro Culturale Tawasul»

«Il Centro culturale Tawasul è una piccola associazione nata
al Cairo nel 2006, su iniziativa di un gruppo di musulmani laici
(intellettuali, professori universitari, artisti, giudici, giornalisti, ecc.),
con lo scopo di creare uno spazio di incontro per la conoscenza reciproca fra
Europa e mondo arabo, musulmani e cristiani, che privilegiasse la relazione
diretta tra individui, piuttosto che quella tra istituzioni. Il termine arabo
Tawasul, impossibile da tradurre in italiano con una parola sola, ben esprime
l’idea ispiratrice del Centro. Esso riassume in sé, infatti, il significato di
una «continua comunicazione attraverso una relazione di amore».

Il 28 e 29 ottobre 2010, Tawasul ha ospitato il Meeting del
Cairo, un’edizione egiziana del Meeting di Rimini. Il risultato più importante
dell’incontro è stato il coinvolgimento di centinaia di giovani volontari
egiziani, musulmani e cristiani di ogni denominazione, che hanno lavorato
insieme per giorni. L’esperienza di dialogo e condivisione non si è fermata con
la fine del Meeting, ma è proseguita fino agli eventi del gennaio 2011, poiché
gli organizzatori e i volontari avevano deciso di continuare a incontrarsi
regolarmente per discutere insieme dei problemi della società egiziana e
sviluppare iniziative per contribuire alla loro risoluzione.

In seguito agli attentati contro le chiese copte di
Alessandria d’Egitto del Capodanno 2011 il Centro ha chiesto ai suoi membri e
ai volontari del Meeting del Cairo di indossare qualcosa di nero in segno di
lutto, quindi ha domandato a ciascun volontario musulmano di visitare una
chiesa del proprio quartiere per porgere le proprie condoglianze, come gesto
visibile di solidarietà. Pochi giorni dopo l’attentato, è stato poi organizzato
un concerto di musica sacra, musulmana e cristiana insieme, in segno di
riconciliazione, e alcuni suoi membri hanno partecipato alla messa di Natale
del 6 gennaio. Infine, il giorno 7 gennaio, subito dopo la preghiera del venerdì,
Tawasul ha organizzato una breve dimostrazione sul piazzale della moschea della
Luce del Cairo, occupando quel luogo in silenzio, per breve tempo, per impedire
le consuete arringhe contro i cristiani, tenute da fanatici che spesso prendono
la parola dopo la funzione.

I responsabili del Centro sono convinti che la lotta contro
il terrorismo e il fanatismo religioso non si gioca soltanto sul piano politico
e della sicurezza, ma soprattutto e fondamentalmente sul piano culturale. Molti
in Egitto l’hanno capito e stanno agendo in tal senso, meritando tutto il
nostro appoggio e la nostra collaborazione. Queste persone hanno principalmente
bisogno di visibilità e occasioni per far sentire la propria voce, poiché
troppo spesso le società civili dei paesi arabi vengono fatte scomparire dai
mezzi di informazione che prediligono la cronaca degli eventi che dividono,
nonostante siano proprio le società civili a lottare quotidianamente contro i
profeti dello scontro di civiltà». 

Tratto da Qualcosa di nero in segno di lutto di Elisa
Ferrero.

 

Viviana Premazzi