Italia: intese tra Fedi e Stato

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 25

Iniziamo con
l’intervista a Stefano Ceccanti, ex senatore del Pd che si è occupato in senato
di libertà religiosa, una piccola serie di dialoghi con politici italiani di
diverso orientamento. Diritto sancito dalla Costituzione, la libertà di culto,
a livello legislativo, deve ancora trovare compimento. Alcune intese tra lo
stato italiano e confessioni religiose ampliano il panorama, in attesa di una
legge generale sul tema.

«Nonostante sia necessario per l’Italia
arrivare a una legge generale sulla libertà religiosa che sia pienamente
inserita nella Costituzione repubblicana, oggi purtroppo ne abbiamo ancora una
– ampiamente amputata dalla Corte costituzionale – del ‘29, quella sui culti
ammessi».

Professore ordinario di Diritto
pubblico comparato, Stefano Ceccanti è docente di Diritto costituzionale
italiano e comparato e di Diritto parlamentare presso l’Università La Sapienza
di Roma. È stato senatore del Pd nella XVI legislatura (2008-2013). È autore di
numerose pubblicazioni su riviste italiane e inteazionali.

Lo incontriamo per approfondire la
questione della libertà religiosa nel nostro paese, non da un punto di vista «filosofico»
o «teologico», ma da quello giuridico: il diritto dell’individuo di avere una
fede religiosa e di praticarla, o di non avee nessuna.

La nostra conversazione si avvia
subito dal nodo fondamentale: la difficoltà di arrivare a una legge generale
che finalmente sostituisca quella del ‘29. La legge sui culti ammessi era stata
emanata dopo i Patti lateranensi tra la chiesa e lo stato italiano. Essi
riconoscevano il cattolicesimo come religione dello stato, ponendolo in una
condizione superiore agli altri culti religiosi «ammessi». La Costituzione
repubblicana eliminò questa sperequazione, affermando la piena eguaglianza tra
i culti e foendo ampie garanzie per la libertà religiosa di tutti. Tuttavia,
fino alla seconda metà degli anni Cinquanta, la libera esplicazione dei culti
non cattolici, in particolare protestanti, fu molto limitata, con
un’applicazione della legislazione in materia sostanzialmente simile a quella
del periodo fascista. I principi costituzionali, insomma, erano come «congelati».
La svolta si ebbe a partire dal 1956, quando entrò in funzione la Corte
costituzionale che intervenne ripetutamente, abrogando le norme in contrasto
con la Carta fondamentale.

Allo stesso tempo, col Concilio
Vaticano II, la chiesa cattolica inaugurò una stagione di grande rinnovamento,
anche in questo campo. La dichiarazione Dignitatis Humanae, il decreto Unitatis
Redintegratio
sull’ecumenismo e la dichiarazione Nostra Aetate sulle
relazioni con le religioni non cristiane, costituirono documenti fondamentali
per il pieno riconoscimento da parte dei cattolici della libertà religiosa di
ogni essere umano. Fu possibile, così, giungere nel 1984 al superamento del
Concordato del ’29, sostituendolo con un accordo tra la chiesa cattolica e lo
stato italiano ispirato ai principi della Costituzione e ai valori del
Concilio.

Si avviò quindi una trasformazione
che, tuttavia, non è ancora conclusa. Oggi, infatti, ci si trova con la vecchia
legge profondamente amputata delle sue parti incompatibili con la Costituzione.

Come mai quella del ‘29 non
è stata ancora sostituita da una nuova legge complessiva che regoli le
questioni connesse alla libertà religiosa nel nostro paese?

«Nella storia dell’Italia
repubblicana è mancata, da parte delle autorità, una consapevole e organica
politica ecclesiastica. Lo aveva rilevato già Arturo Carlo Jemolo (1891-1981,
luminare di diritto ecclesiastico, cattolico liberale, impegnato in sostegno
della laicità dello stato, ndr)».

Non sono mancati, tuttavia,
tentativi di introdurre una disciplina generale e organica sulla questione.

«Sì. L’ultimo risale alla XV
legislatura (2006-2008). Ma la proposta di legge di cui fu relatore Roberto
Zaccaria (Pd) è naufragata».

Ricordo che essa,
recuperando proposte presentate in precedenza e mai approvate, intendeva
caratterizzare in modo molto preciso il diritto di libertà religiosa,
specificando i diritti dei singoli e delle confessioni religiose, ad esempio,
anche in relazione all’educazione scolastica, al lavoro, allo stato di «ministro
di culto», ai loro rapporti con i privati e con le pubbliche amministrazioni,
alla degenza in luoghi di cura, all’appartenenza alle forze armate,
all’inteamento in istituti di pena, alle esequie, alla tumulazione e, non da
ultimo, agli effetti civili del matrimonio celebrato davanti a un ministro di
culto non cattolico o a «soggetto equiparato». Prevedeva pure, tra l’altro, una
novità rilevante come l’istituzione di un registro delle confessioni religiose
presso il ministero dell’Inteo per definie lo «status» nei confronti
dell’ordinamento italiano.
Per quale motivo la proposta non è stata approvata?

«Soprattutto perché non si è riusciti
a trovare una posizione comune attorno al concetto di laicità dello stato. Esso
era espre-sso nei primissimi articoli, tra le disposizioni di principio. In
parlamento e nel paese, in particolare nella posizione assunta dalla Conferenza
episcopale italiana, si è manifestato un disaccordo che non è stato possibile
conciliare».

Sì. L’allora segretario
generale della Cei, monsignor Giuseppe Betori, sostenne, ad esempio, che
l’introduzione del principio di laicità, «addirittura quale fondamento della
legge sulla libertà religiosa», suscitava «sorpresa e contrarietà». Gli
interventi su questo punto in parlamento, poi, avevano, a mio avviso, rivelato
molteplici modi d’intendere il principio della laicità dello stato, passando
dall’uno all’altro senza vera consapevolezza. Cosa può insegnare tale
esperienza?

«Credo si debba concludere che è
difficile superare le diverse visioni quando si affrontano problemi generali,
concettuali e teologici. Una normativa generale inevitabilmente cerca di dare
delle “definizioni di sistema” sulle quali l’accordo è arduo, se non
addirittura impossibile.

Non bisogna mai dimenticare, infatti,
la lezione di Jean Bauberot (nato nel 1941, ndr), storico e sociologo
delle religioni francese, fondatore della sociologia della laicità. Egli ha
sostenuto che, quando si parla di questi temi, ognuno parte dal suo lato del triangolo:
1) la libertà religiosa con la forza dei numeri per i credenti nella/e
religione/i di maggioranza, 2) l’uguaglianza a prescindere dai numeri delle
confessioni di minoranza, 3) la separazione tra chiese e stato per atei e
agnostici. Si fa fatica a condurre tutti dentro i confini del triangolo per far
loro prendere coscienza di tutti i lati. Prima di Bauberot, Jacques Maritain
(1882-1973, filosofo cattolico francese, ndr) lo aveva già spiegato bene
a Città del Messico il 6 novembre del 1947. Si era nella fase di preparazione
della Dichiarazione dei diritti umani dell’Onu. Egli sostenne che si trattava
di accettare un paradosso: arrivare a un accordo su un comune pensiero
politico, sull’affermazione di un medesimo insieme di “convinzioni che dirigano
l’azione”, è tanto più facile quanto più si rinunci a convergere sui
fondamenti, cioè “sulla giustificazione dei principi pratici”».

Secondo
lei, dunque, è molto più proficuo un approccio «pragmatico» alla questione.

«Sì. Del resto
in questo modo si sono ottenuti dei risultati non trascurabili nella XVI
legislatura».

Nel
corso di essa lei, assieme al senatore Lucio Malan di Forza Italia, ha
presentato un disegno di legge sulla libertà religiosa che ha contribuito a
raggiungere i risultati a cui si riferisce. Cosa vi proponevate di ottenere con
quell’iniziativa?

«Diverse intese
tra lo stato e alcune confessioni religiose già stipulate dal primo governo
Prodi e, in seguito, dal quarto governo Berlusconi, erano di fatto congelate.
Si trattava di arrivare alla loro approvazione anche in via legislativa».

Le
Intese sono previste dall’articolo 8 della Costituzione per regolare i rapporti
delle confessioni religiose con lo stato. È una prescrizione che serve a
proteggerle da eventuali imposizioni unilaterali, da parte dello stato
italiano, di una qualche disciplina relativa ai loro rapporti con esso.
Ciascuna intesa deve poi tradursi in legge, per entrare a tutti gli effetti
nell’ordinamento dello stato. Con quante confessioni religiose sono state
stipulate intese?

«A tutt’oggi
sono 11 (si veda Box, ndr). Le intese rendono possibile, alle
confessioni che le hanno stipulate e che lo richiedano, l’accesso all’otto per
mille. Delle 11, solo 10 lo fanno, perché i Mormoni non l’hanno richiesto. I
contribuenti quindi possono scegliere tra queste dieci, oltre alla chiesa
cattolica e allo stato. Si tratta di 12 opzioni: un complesso piuttosto ampio.
In favore di tutte quante, oltre che in favore della chiesa cattolica, è
possibile fare offerte deducibili nella dichiarazione dei redditi».

Si è
poi raggiunta l’approvazione per legge delle intese?

«Sì, cinque
delle undici sono state approvate per legge proprio nella XVI legislatura. Tra
esse, due sono per la prima volta estee al tradizionale ambito giudeo
cristiano. Si tratta dell’intesa con i buddisti e di quella con gli induisti».

I
risultati di questo modo di procedere che punta su accordi diretti con le
confessioni religiose, mettendo da parte, per il momento, una legge generale
sulla libertà religiosa, sembrano dunque molto positivi.

«Certamente.
L’approvazione con una legge delle nuove intese ha reso possibile una cosa
importante, cioè la soluzione delle macro questioni di carattere organizzativo,
senza perdersi in quelle di “definizione generale” che avrebbero molto
probabilmente bloccato di nuovo il dibattito».

Questo
tipo di approccio tuttavia è stato criticato. Da ultimo lo ha fatto Alessandro
Ferrari, docente di diritto canonico ed ecclesiastico all’Università degli
studi dell’Insubria, nel libro La libertà religiosa in Italia. Un percorso
incompiuto
. Cosa sostengono questi critici?

«Per loro la
preferenza accordata alle intese – non solo quelle approvate recentemente con
legge, ma anche le “intese storiche” – piuttosto che a una legge generale, ha
generato una “piramide dei culti” al cui apice sarebbe un “diritto
specialissimo”: il diritto pattizio con la chiesa cattolica e con le
confessioni, ma con la prima in posizione sovraordinata rispetto alle seconde.
Tale “diritto specialissimo” sarebbe seguito da un “diritto speciale” che
dovrebbe essere rappresentato dalla legge generale sulla libertà religiosa, in
sostituzione della legislazione fascista, e che al momento è molto ridotto. Da
ultimo vi sarebbe il “diritto comune”».

Quali
problemi creerebbe questo sistema?

«Produrrebbe
delle vittime: le confessioni non riconosciute, lasciate sole alla base della
piramide e alla mercé della discrezionalità delle autorità statali».

Lei
non è d’accordo con tale critica. Perché?

«In realtà,
fermo restando il dialogo che in ogni momento può essere attivato con tutte le
confessioni religiose, l’avvicinamento delle confessioni diverse dalla
cattolica al regime concordatario rappresenta il superamento degli effetti
negativi della “uguale libertà e non completa uguaglianza” che erano ancora
insiti nel primo regime concordatario e che, prima della revisione del 1984, la
stessa Corte costituzionale faceva fatica a rimodulare. È
vero, quindi, che le tutele sono aumentate per tutti, e non viceversa. Puntare
a una legge generale prima delle intese, al contrario, avrebbe portato a
ulteriori fallimenti determinati dalla insistente volontà di individuare
definizioni che non sono ancora condivise».

Questo modo di operare può
valere anche per l’Islam?

«Al momento l’Islam vi sfugge, per
una serie di ragioni».

Quali sono?

«L’Islam è una religione estranea al
“paradigma confessionale”, è policentrica, sia per gli orientamenti teologici
sia per la particolare composizione etnica dei musulmani italiani. Questo rende
difficile individuare un unico interlocutore».

È un problema risolvibile?

«Penso di sì. Si era proposto allo
stesso modo anche per i Buddisti e gli Ortodossi, con cui l’intesa è stata
realizzata. Anche Valdesi e Metodisti, che in origine erano divisi, si sono
aggregati proprio in vista dell’intesa. D’altro canto la Spagna, che è
culturalmente simile all’Italia, ha raggiunto da tempo l’intesa con l’Islam».

Vi sono altri problemi che
rallentano il raggiungimento di un’intesa con l’Islam?

«Sì. È difficile, ad esempio,
distinguere tra fattore religioso e fattore etnico culturale (poligamia,
mutilazioni genitali femminili, burqa), o anche trattare alcuni precetti della
teologia islamica che riguardano la separazione tra sfera politica e sfera
religiosa che mal si declinano con l’idea di laicità così come si è sviluppata
nel nostro ordinamento.

Anche alla luce di queste considerazioni
è chiaro che l’aspirazione a una normativa generale sulla libertà religiosa
difficilmente può giungere a una realizzazione. Anche in questo caso, lo
strumento delle intese offerto dall’articolo 8 della Costituzione (si veda Box,
ndr), che i Costituenti hanno voluto fosse flessibile, continua a
rappresentare l’opzione preferibile per il superamento di questioni pratiche e
per l’avvicinamento delle parti in causa».

È meglio, dunque,
rinunciare definitivamente a una legge generale sulla libertà religiosa?

«No. Una legge generale può benissimo
esserci. Ci si può arrivare, tuttavia, in un momento successivo e più
pacificato, e solo nell’ottica di fornire una “coice” a un quadro in gran
parte già formato dalle intese».

La preferenza «operativa»
per le intese piuttosto che per una legislazione generale sembra avvicinare
l’approccio del nostro paese alla questione della libertà religiosa e della
laicità al modello americano.

«Sì. Le intese con le confessioni
religiose diverse da quella cattolica in fondo non sono altro che “pratiche di
accomodamento”. Infatti cercano soluzioni a situazioni specifiche, creando in
alcuni casi anche delle deroghe al diritto comune in nome della libertà
religiosa. La pratica dell’accomodamento è tipica degli Stati Uniti d’America,
paese in cui si è realizzato uno dei principali modelli di libertà religiosa al
mondo. Esso, in virtù del diritto giurisprudenziale, affronta le esigenze dei
diversi gruppi religiosi e dei singoli con un approccio “caso per caso”.

L’incremento delle intese ratificate,
nell’ottica di declinare il pluralismo religioso, ha avvicinato il nostro
modello a quello di “laicità aperta”, dove il pluralismo si coniuga con la
separazione tra sfera civile e religiosa, ma non con l’ostilità per la presenza
della religione nel dibattito e nello spazio pubblico, né con l’indifferenza
delle autorità per il fenomeno religioso. Insomma, la laicità pluralista
italiana effettivamente è molto più vicina agli Usa di quanto non si sia
storicamente e culturalmente indotti a pensare».

Questo fatto può avere
influenze sul quadro europeo e sulla gestione del fenomeno religioso nello
spazio pubblico dell’Unione europea?

«Certamente. Il modo in cui l’Italia
risponderà, e sta già rispondendo, alle sfide poste dal pluralismo religioso,
conta molto per l’Europa. Le risposte italiane avranno tanto più valore quanto
più proverranno da un paese la cui storia è fortemente segnata dalla prevalenza
di una religione maggioritaria quale quella cattolica, peraltro in corso di
evidente e fecondo aggioamento».

Paolo Bertezzolo

libertà religiosa e
intese

In Italia la libertà
religiosa è sancita nell’articolo 8 della Costituzione, dove si afferma che «Tutte
le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le
confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi
secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico
italiano». Tale norma costituisce parte del «principio di laicità» dello stato
italiano che si ricava dalla lettura combinata di numerose disposizioni della
Costituzione, come ha precisato la Corte costituzionale nel 1989 e, in
particolare, dell’articolo 7 che stabilisce la separazione tra ordine religioso
e ordine temporale.

Sempre
l’articolo 8 stabilisce che i rapporti delle confessioni religiose con lo stato
«sono regolati per legge sulla base di intese stipulate con le relative
rappresentanze».

La tavola
valdese è stata la prima confessione non cattolica a stipulare un’intesa con lo
stato italiano, nel 1984, subito dopo la revisione del Concordato lateranense
del 1929 avvenuta quell’anno. Da quel momento si è avviata una grande
trasformazione nei rapporti dello stato italiano con la chiesa cattolica e con
le altre confessioni religiose, definita in una serie di leggi.

Le richieste di
intesa devono seguire una procedura precisa. Dapprima vengono sottoposte al
parere della Direzione generale affari dei culti, presso il ministero degli
interni. Quindi il governo avvia le trattative con le rappresentanze delle
confessioni religiose in vista della stipula dell’intesa. Esse sono affidate al
sottosegretario-segretario del Consiglio dei ministri. Le trattative sono
avviate solo con le confessioni che abbiano ottenuto il riconoscimento della
personalità giuridica ai sensi della legge n. 1159 del 24 giugno 1929, su
parere favorevole del Consiglio di stato. Il sottosegretario si avvale della
Commissione interministeriale per le intese con le confessioni religiose
affinché predisponga la bozza di intesa unitamente alle delegazioni delle
confessioni religiose richiedenti. Su tale bozza di intesa esprime il proprio
preliminare parere la Commissione consultiva per la libertà religiosa. Dopo la conclusione
delle trattative, le intese, siglate dal sottosegretario e dal rappresentante
della confessione religiosa, sono sottoposte all’esame del Consiglio dei
ministri ai fini dell’autorizzazione alla firma da parte del presidente del
Consiglio. Dopo la firma del presidente del Consiglio e del presidente della
Confessione religiosa le intese sono trasmesse al parlamento per la loro
approvazione con legge.

Oltre a quella
con la tavola valdese, sono state approvate, con legge ai sensi dell’art. 8
della Costituzione, le intese con: le Assemblee di Dio in Italia (Adi),
l’Unione delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° giorno, l’Unione delle
Comunità Ebraiche in Italia (Ucei), l’Unione Cristiana Evengelica Battista, la
Chiesa Evangelica Luterana in Italia (Celi), la Sacra Arcidiocesi ortodossa
d’Italia ed Esarcato per L’Europa meridionale, la Chiesa di Gesù Cristo dei
Santi degli ultimi giorni, la Chiesa Apostolica in Italia, l’Unione Buddista
italiana (Ubi), l’Unione Induista Italiana. L’intesa con la Congregazione
cristiana dei testimoni di Geova, siglata nel 2007, non è stata invece ancora
approvata con legge.

P.B.

Paolo Bertezzolo




Indonesia: «Il pericolo cristiano»

Riflessioni e fatti sulla
libertà religiosa nel mondo – 22

Anche nella corsa elettorale
per le presidenziali (di luglio 2014) il peso delle istanze islamiste si è
fatto sentire. Se da un lato lo stato cerca di contrastare le derive estremiste
più pericolose, dall’altro sembra lasciare un po’ troppo margine a situazioni discriminatorie.
Le minoranze religiose, tra cui il 10% di popolazione indonesiana di fede cristiana,
sono oggetto di campagne diffamatorie e violazioni di diritti.

In piena campagna elettorale per le
presidenziali del 9 luglio (in corso nel momento in cui scriviamo), la politica
di ispirazione confessionale si è posta di traverso lungo la strada di Joko
Widodo (Jokowi), il candidato favorito, popolare governatore di Jakarta, in
lizza contro Prabowo Subianto, ex comandante delle forze speciali
dell’esercito. La minaccia degli islamisti di togliere il sostegno al suo
partito, il Partito democratico indonesiano per la lotta (Pdi-P), ha inserito
un elemento di incertezza nella corsa elettorale che prima era sembrata priva
di ostacoli.

A minacciare il boicottaggio è stato soprattutto l’alleato
Pkb (Partito per il risveglio nazionale), braccio politico della maggiore
organizzazione di massa indonesiana, il Nahdlatul Ulama (Nu), sottoposto
all’influsso dei leader religiosi, scettici sull’agenda sociale del candidato
del Pdi-P, e sul suo programma in generale, in cui poco spazio trovavano le
istanze religiose.

Al programma laicista del Pdi-P, infatti, il Partito per
il risveglio nazionale contrappone un’agenda fortemente ispirata all’islamismo
sociale che sempre più ricopre un ruolo di peso nelle dinamiche politiche
nazionali. Le istanze del Nahdlatul Ulama, infatti, e quelle dell’altro
grande movimento sociale islamista, la Muhammadiya, entrambi con decine
di milioni di membri, sono difficilmente ignorabili da chi detiene il potere a
Jakarta, e ancor più da chi intenda mantenerlo.

Un paese musulmano

L’Indonesia è il più popoloso paese islamico al mondo, con
250 milioni di abitanti, di cui l’88% musulmani. Arrivato all’inizio del XIV
secolo e abitualmente pacifico e dialogico, l’Islam indonesiano è fortemente
influenzato dall’esperienza della mistica islamica (sufismo) che ha trovato
varie modalità di accordo con la preesistente mistica animista o di ispirazione
induista.

L’arcipelago indonesiano, esteso su quasi due milioni di
chilometri quadrati e frammentato in 17mila isole, decine di etnie e centinaia
di lingue e dialetti, ha fatto in tempi recenti della «grande rete» di Inteet
uno strumento importante di comunicazione e di integrazione nazionale. Anche
per il cristianesimo locale, che raccoglie circa il 10 per cento della
popolazione, Inteet rappresenta uno strumento d’informazione e di educazione
fondamentale. Esso si affianca alla presenza cristiana nei mass media stampati,
televisivi e radiofonici, e alla partecipazione attiva al dibattito politico,
sociale e culturale.

Su Inteet si muove però anche l’islamismo radicale
duramente represso dalle autorità nelle sue espressioni estremiste e
terroriste, indebolito da centinaia di arresti, condanne al carcere e alla pena
capitale dopo i tragici attentati di Bali del 12 ottobre 2002. L’azione di
contrasto del radicalismo islamico cerca insieme di disinnescare il rischio di
conflitto interreligioso, di sovvertimento del potere civile e di fuga dei
cooperanti e investitori stranieri di cui il paese ha bisogno. Essa però fatica
a evitare la pressione crescente che opprime le minoranze religiose.

«Pericolo cristianizzazione»

Gli islamisti paventano una «cristianizzazione»
dell’arcipelago. Essa è lo spauracchio che giustifica le mobilitazioni di massa
e gli attacchi da parte di facinorosi.

Il sobborgo di Bekasi, presso la capitale Jakarta, è
diventato dal 2008 il centro di una contesa tra Chiese cristiane e gruppi
radicali islamici che riguarda edifici religiosi per i quali vengono concessi
permessi di costruzione ma non di apertura al culto. I luoghi di culto di altre
fedi rappresentano una minaccia per chi vede nell’Islam la sola fede possibile
nell’arcipelago.

Dalle strade di Bekasi, lo scontro si è portato da tempo
anche sulle strade «virtuali» di Inteet, sempre aspro e pretestuoso, e con
gli stessi «protagonisti». Alcuni, come il Consiglio indonesiano per la
diffusione dell’Islam e il Movimento degli studenti islamici, con un forte
accento anticristiano. Altri, come il Fronte dei difensori dell’Islam,
particolarmente impegnati contro l’apostasia. Infine, hanno un ruolo di
supporto organizzazioni semilegali o del tutto illegali di derivazione salafita
e jihadista, come pure la Jemaah Ansharut Tauhid, l’organizzazione
fondata nel 2008 da Abu Bakar Ba’asyir, ora in carcere per aver ispirato i
fatti di Bali, ma ancora principale punto di riferimento della Jamaah
Islamiah
, movimento emulo di Al Qaeda.

La propaganda islamista definisce «allarmanti» le
conversioni al cristianesimo, e insinua che l’accesso a religioni diverse da
quella musulmana sia frutto di manipolazione e non di adesione spontanea.
Secondo questa campagna denigratoria, l’Islam dovrebbe affrontare i «concorrenti»
ad armi pari, con propri strumenti televisivi e informatici.

A confutare queste insinuazioni e pretese sono in molti, e
tra essi l’Inteational Crisis Group, che ha denunciato il tentativo di
creare tensioni e scontri tra le comunità, utilizzando a pretesto i dati
relativi ad aree del paese che hanno visto una certa immigrazione cristiana per
ragioni professionali o per fuga da calamità naturali (come nella provincia di
Aceh, sull’isola di Sumatra).

Tagliare le radici dell’odio

Al momento il grande paese asiatico, impegnato a gestire
l’uscita dal sottosviluppo e a mantenersi ancorato a un Islam tradizionalmente
dialogico e tollerante, è al 47° posto nella classifica della persecuzione
anticristiana nel mondo stilata da Open Doors (e reperibile su www.worldwatchlist.us).
Non ha tuttavia tagliato le radici dell’odio. Forze di sicurezza e magistratura
hanno colpito duramente l’islamismo radicale per quanto riguarda la minaccia
alla stabilità nazionale, ma il governo ha mancato di prevenire e combattere le
intimidazioni contro le minoranze religiose. Movimenti di attivisti islamici,
che attuano iniziative da veri e propri vigilantes, sono diventati una minaccia
all’ordine pubblico. In più il fallimento di una vera decentralizzazione
amministrativa, anche delle autorità preposte alle attività religiose, ha
impedito lo sviluppo di iniziative efficaci di dialogo e confronto. Infine, gli
interessi politici e personali che inquinano il dibattito sui limiti della
libertà d’espressione, hanno permesso iniziative propagandistiche e
persecutorie. La carta della paura della «cristianizzazione», di una presunta
minaccia al predominio islamico nell’arcipelago, giocata dai movimenti
islamisti, rischia di portare non soltanto nuovi aderenti al network estremista
e alle sue affiliazioni jihadiste, ma anche visibilità e giustificazione,
finora negate, alle loro azioni.

Leggi per l’unità, destinate
a dividere

A Sumatra, nella provincia di Aceh, dove l’autonomia
garantita dagli accordi di pace firmati tra guerriglieri islamisti e governo
indonesiano ha portato tra l’altro anche all’affermazione – unica provincia
indonesiana – della Sharia, la legge coranica, diverse fonti denunciano
crescenti difficoltà per la cristianità locale che conta 12-13mila individui.

Oggetto del contendere non è soltanto il lungo e tortuoso
iter necessario per aprire un luogo di culto non islamico, ma anche un
documento firmato dai cristiani nella provincia nel 2001 in cui si accetta che
ad Aceh possano esservi una sola chiesa e quattro cappelle. Una situazione
superata negli anni per arrivare a 22 luoghi di culto, formalmente provvisori e
costruiti con l’approvazione – secondo Fides – di un forum
interreligioso locale che include esponenti musulmani. Una necessità per i
cristiani di Aceh, contro cui hanno preso posizione i militanti islamici.

Come sottolineato a agenzia Fides da padre
Romanus Harjito, direttore nazionale delle Pontificie Opere Missionarie, «tali
episodi sono tollerati dal governo centrale, che ha concesso la Sharia. In
questi casi, per noi cattolici, c’è il mancato rispetto della Pancasila, la
legge fondamentale dello stato indonesiano alla base della convivenza fra
comunità religiose, i cui cinque principi sono: fede in un solo Dio, diritti
umani, unità nazionale, democrazia, giustizia sociale».

Proprio nel tentativo di tradurre i cinque principi in
norme che, nella visione dei padri fondatori dello stato nel 1945, dovevano
essere fonte di unità, nazionalismo e identità, starebbero però le radici di
buona parte dei problemi delle minoranze religiose. Sia perché esse hanno
riconosciuto come religioni ufficiali i soli islamismo (nella versione
sunnita), protestantesimo, cattolicesimo, induismo, buddhismo e confucianesimo,
a scapito di altre fedi come il giudaismo, l’islamismo shiita, l’islamismo
Ahmadiya (che sostiene il principio di una profezia non completata con
Maometto), le fedi tradizionali autoctone; sia perché hanno indotto una parte
consistente delle strutture di governo e amministrazione a organizzarsi proprio
sulla base di tali presupposti.

Ad esempio, il ministero per gli Affari religiosi ha
dipartimenti che rispettano le fedi approvate, negando a chi non ne fa parte il
riconoscimento ufficiale e eventuali benefici. I curricula scolastici
rispecchiano la discriminazione, e gli educatori sono scelti in base alla loro
fede per operare con studenti della stessa fede, ovviamente mainstream,
negando così possibilità anche professionali a comunità di fedi non
riconosciute.

Di converso, l’Organismo di cornordinamento per il controllo
delle credenze mistiche (ovvero le fedi ancestrali), attivo dagli anni
Cinquanta, ha, in tempi recenti, esteso le proprie attività fino a includere il
controllo di denominazioni accusate di provocare disordine sociale, tra cui i
circa 400mila Ahmadiya, che da minoranza discriminata si trovano anche a essere
sottoposti a politiche coercitive.

Stefano Vecchia
 

Nahdlatul Ulama e
Muhammadiya

Nata nel 1926, la Nahdlatul Ulama (Nu,
Risveglio dei leader religiosi) è la maggiore organizzazione di ispirazione
islamica (sunnita) dell’Indonesia. Forte oggi di almeno 30 milioni di membri,
con una decisa impronta sociale, ha il suo nucleo operativo nelle quasi 8.000
scuole coraniche (pesantren) che costituiscono un sistema educativo
parallelo a quello pubblico soprattutto tra i gruppi meno favoriti o isolati di
popolazione. Nonostante il suo ruolo determinante nella lotta contro il
colonialismo e l’occupazione giapponese, dopo l’indipendenza il suo impegno
politico è stato solo occasionale. Raramente è scesa a compromessi con la sua
essenza di movimento religioso e sociale con l’obiettivo di far nascere uno
stato islamico in Indonesia, paese musulmano ma dai forti tratti laicisti.
Ufficialmente non ha svolto attività politica nell’ultimo quarto di secolo. La
parentesi della presidenza di Abdurrahman Wahid «Gus Dur», suo leader, tra
l’ottobre 1999 e il luglio 2001, si è conclusa prematuramente, nonostante il
prestigio personale. Essa però è servita a unificare il paese dopo la fine del
regime di Suharto, che aveva usato la carta islamista per rafforzare il suo
potere fino alle massicce proteste che lo hanno indotto alle dimissioni nel
1998.

La Muhammadiya
(Frateità di Maometto), gruppo nato all’inizio del XX secolo e visto con
sospetto dagli islamisti tradizionalisti (Nahdlatul Ulama è nata proprio
in reazione alla Muhammadiya), è nei numeri di poco inferiore alla Nu,
ma ha un impatto maggiore sulla vita pubblica. Si ispira a una diversa visione
dell’Islam (incentiva l’interpretazione individuale del dettato coranico
piuttosto che quella della giurisprudenza islamica), e ha un maggiore slancio
sociale e politico. Anch’essa si avvale di numerose scuole di ispirazione
islamica (6.000). Esse però sono più aperte nei curricula, e in molti casi
accettano studenti non musulmani. Alla Muhammadiya fanno riferimento
anche centinaia di ospedali e cliniche diffusi nel paese, centri culturali e di
studi sociali. Politicamente attiva, l’organizzazione – che ha finora resistito
alle spinte per dare vita a un proprio partito – lascia sostanzialmente liberi
i suoi membri di aderire a movimenti che non contrastino con le sue idee di
base. Suoi limiti, secondo i detrattori, sarebbero l’apertura a istanze
religiose locali precedenti l’arrivo della fede di Maometto nell’arcipelago,
l’apertura dialogica nei confronti di altre fedi immigrate, come quella
cristiana, e infine la mediazione tra Islam e modeità che è al centro delle
sue origini e del suo sviluppo.

Risultati delle elezioni 2014:

Canditato
Vice
Partito
voti
%

Prabowo Subianto
Hatta Rajasa
Great Indonesia Movement Party (Partai
Gerakan Indonesia Raya)
62,248,936
46.83%
Joko Widodo
Jusuf Kalla
Indonesian Democratic Party –
Struggle
(Partai Demokrasi Indonesia-Perjuangan)
70,666,298 
53.17%

Total   132,915,234 votanti 
Dati ufficiali dalla Commissione elettorale Indonesiana (http://www.kpu.go.id)

Il Jakarta Globe parla di vittoria incontestabile di  Joko Widodo.

Vatican Insider commenta: «La sconfitta del presidente in carica e la vittoria dei moderati alimentano la fiducia tra le minoranze cristiane».

Dati completi delle elezioni su Wikipedia.Indonesian presidential elections, 2014.
Nella foto qui sotto il nuovo presidente dell’Indonesia Joko Widodo (da Wikipedia)

S.V.

Tags: Indonesia, presidenziali, Joko
Widodo Jokowi, Nahdlatul Ulama, Muhammadiya, Prabowo Subianto, minoranze
religiose, movimenti islamisti, cristianizzazione, odio religioso, persecuzione

Stefano Vecchia




Il credo e la carta d’identità

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 16


L’alevismo è una espressione religiosa che alcuni aleviti
considerano parte dell’islam, mentre altri no. Un cittadino turco chiede che
sulla sua carta d’identità non venga indicata la sua appartenenza all’islam, ma
all’alevismo. Dopo il rifiuto della Corte d’appello e della Cassazione, l’uomo
si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Gli viene data ragione,
anche se su un aspetto diverso: la violazione della sua libertà di credo c’è stata a causa della presenza sul documento d’identità di
una casella dedicata alla religione di appartenenza.

Sinan Isik, un cittadino turco di
Izmir, l’antica Smie, nel 2004 chiese alla Corte d’appello della sua città di
cambiare sulla sua carta d’identità la dicitura «islam» con «alevita1». Secondo la legge turca, infatti,
sul documento di riconoscimento si deve indicare la confessione religiosa cui
si appartiene. Quella posta dall’ufficiale dello stato civile sul suo documento,
secondo Isik, era sbagliata.

Alevismo e islam

Gli aleviti sono una minoranza religiosa piuttosto consistente in
Turchia. A essa, infatti, appartiene almeno il 10% della popolazione, ma forse
anche di più.

Se l’alevismo sia o meno una confessione islamica è una questione
aperta. Una parte dei suoi membri lo crede, ma un’altra lo nega. Sinan Isik era
di questa seconda convinzione, sostenuta dalle associazioni che fanno parte
della Federazione degli aleviti Bektachi.

«Io ritengo, sulla base delle mie convinzioni – sostenne Isik –
che una persona non possa essere contemporaneamente alevita e musulmana. La
Repubblica di Turchia protegge nella propria Costituzione la libertà di
religione e di coscienza e mi rifiuto quindi di tollerare questa ingiustizia
che mi ferisce profondamente».

La Corte d’appello, qualche mese dopo, respinse la sua domanda,
sulla base del parere della Direzione degli affari religiosi da essa
interpellata. La Direzione è un organismo che dipende dal primo ministro e ha
il compito di occuparsi delle credenze, del culto e della morale dell’islam,
nonché della gestione dei luoghi di culto. Essa indicò l’alevismo come un
sottogruppo dell’islam che non può essere considerato una religione
indipendente. La dicitura «alevita» – secondo la Direzione degli affari
religiosi – non va quindi indicata sulla carta d’identità, dove non possono
essere riportate le sottoculture o le interpretazioni di una religione, ma solo
la dicitura generale per non compromettere «l’unità nazionale, i principi
repubblicani e il principio di laicità».

La Corte d’appello stabilì dunque che non vi era errore relativo
all’indicazione dell’appartenenza religiosa sul documento di riconoscimento di
Isik. Per chiarirlo ancora meglio, indicò che dal materiale stesso prodotto
dall’interessato a sostegno della sua richiesta, l’alevismo risultava
un’articolazione dell’islam. Gli aleviti infatti, ad esempio, considerano Ali
come il primo imam con un ruolo centrale nella loro confessione religiosa. Ma,
come quarto califfo, genero e successore di Maometto, egli è una delle
personalità più illustri dell’islam. Gli aleviti, insomma, secondo la Corte
d’appello, sono degli islamici, esattamente come cattolici, protestanti e
ortodossi sono tutti cristiani. Quando un individuo aderisce a una delle
interpretazioni dell’islam, rimane islamico.

Sull’obbligo di dichiarare
il proprio credo

Isik non accettò la sentenza e fece ricorso alla Cassazione,
precisando meglio la sua posizione. Oltre all’indicazione errata della propria
religione, egli infatti contestò il fatto stesso di doverla segnalare sul
documento d’identità. L’obbligo lo costringeva contro la sua volontà a rivelare
la sua appartenenza religiosa, violando, a suo parere, la Costituzione turca,
che nell’articolo 24 afferma: «Nessuno può essere obbligato a rivelare le
proprie credenze e le proprie convinzioni religiose». Anche il parere della
Direzione degli affari religiosi, che aveva considerato la sua confessione come
islamica, per Isik era inaccettabile.

La giustizia turca ha tempi invidiabili. Prima della fine di
quello stesso 2004 arrivò la decisione della Cassazione. Purtroppo per Isik,
anche questa a suo sfavore. La Cassazione infatti confermò la sentenza della
Corte d’appello, respingendo la sua richiesta. Per la Direzione degli affari religiosi,
così come per i giudici di primo e secondo grado, l’obbligo di indicare la
propria religione sulla carta d’identità non violava il principio di rispetto
della laicità prescritto dall’articolo 136 della Costituzione.

A sostegno di questa posizione c’era addirittura una sentenza
della Corte costituzionale turca del 1995, che difese quell’obbligo di legge:
«Lo stato deve conoscere le caratteristiche dei suoi cittadini» per esigenze di
ordine pubblico, di interesse generale e per «imperativi economici, politici e
sociali». La norma riguarda tutte le religioni, che vengono quindi trattate
allo stesso modo come deve avvenire in uno stato laico. Di conseguenza non crea
alcuna discriminazione tra i cittadini. Essa, infine, non si intromette nelle
credenze degli individui, o nella loro mancanza di credenze. In particolare,
non introduce alcun obbligo – incostituzionale – a divulgarle. D’altro canto il
codice civile turco permette a ogni cittadino maggiorenne di scegliere
liberamente la propria religione. Nel caso la cambi, è sufficiente che richieda
agli uffici dello stato civile di scrivere quella nuova.

Cinque giudici costituzionali su undici, si erano opposti alla
decisione degli altri sei, ritenendo incostituzionale la legge. La sentenza del
1995 fu, quindi, a strettissima maggioranza.

L’ostinazione di Isik

Sinan Isik non si diede per vinto, e si appellò alla Corte europea
dei diritti dell’uomo (Cedu). Poté farlo perché la Turchia, che non appartiene,
come noto, all’Unione Europea – è in corso l’esame della sua richiesta di
entrare a fae parte -, è però membro del Consiglio d’Europa, e ha quindi
sottoscritto la Convenzione dei diritti dell’uomo di cui la Cedu controlla il
rispetto.

Nel frattempo in Turchia fu introdotta una normativa più
tollerante che abrogava la precedente. Da quel momento le informazioni relative
alla religione dell’individuo sono inserite o modificate nei registri di stato
civile solo in base a quanto dichiarato per iscritto dall’interessato. È
previsto inoltre che la casella relativa sul documento d’identità possa essere
lasciata vuota o che l’informazione già trascritta venga cancellata.

Nel suo ricorso alla Cedu Isik ribadì le sue posizioni, ritenendo
che la normativa, anche se nel frattempo modificata, violasse l’articolo 9
della Convenzione europea per i diritti dell’uomo (quella sulla libertà di
religione di cui abbiamo parlato anche nei due precedenti articoli, ndr.). Secondo lui, infatti, il rigetto
della sua domanda di sostituire «islam» con «alevita» sulla sua carta
d’identità, aveva rappresentato un’ingerenza dello stato nel suo diritto alla
libertà religiosa, oltre al fatto che la carta d’identità, presentata
continuamente e per i più svariati motivi, rappresentava di per sé una
divulgazione obbligatoria delle proprie opinioni religiose.

Durante il dibattimento, pure il rappresentante del governo turco
ribadì le posizioni della propria parte. Per rinforzarle, si riferì anche alla
sentenza della Corte costituzionale del 1995 già ricordata. «La Repubblica di
Turchia è uno stato laico – affermò – dove la libertà di religione è
espressamente consacrata dalla Costituzione». Negò che la legge contestata da
Isik andasse contro quel principio. Il contenuto della carta d’identità,
secondo lui, non poteva essere determinato in funzione dei gusti di ogni
persona: le confessioni che fanno parte dell’islam sono molteplici ed era
quindi necessario non menzionarle «per preservare l’ordine pubblico e la
neutralità dello stato».

La sentenza di Strasburgo

La Cedu diede ragione a Sinan Isik con la sentenza del 2 febbraio
2010: c’era stata effettivamente una violazione dell’articolo 9 della
Convenzione europea a causa dell’obbligo di indicare la propria religione sulla
carta d’identità. Anche il ricorso al parere della Direzione per gli affari
religiosi, secondo la Corte europea, era stata discutibile. Infatti in una
società democratica lo stato è il garante ultimo dei pluralismi, compreso
quello religioso. Le autorità dunque non possono privilegiare
un’interpretazione della religione a scapito di un’altra, o costringere una
comunità religiosa divisa a porsi, contro la sua volontà, sotto una direzione
unica: si violerebbe di nuovo, in tal caso, il dovere di neutralità e
imparzialità dello stato. Ricorrere al parere della Direzione degli affari
religiosi, che si occupa solo di affari riguardanti la religione musulmana, non
è conciliabile con tale dovere. Essa infatti è un organismo di parte, che
esclude l’esistenza dell’alevismo come religione a se stante.

È interessante, infine, pure quanto la Cedu affermò a proposito
della possibilità di lasciare vuota sulla carta d’identità la casella
riguardante l’appartenenza religiosa. Con la nuova legge, che lo prevede,
infatti, le istituzioni mantengono comunque informazioni sulla religione dei
cittadini nei registri di stato civile. La casella dedicata al credo
d’appartenenza, compilata o lasciata vuota, continua a esistere sulle carte
d’identità e rischia in entrambi i casi di diventare un’informazione sulle
convinzioni intime dell’individuo. Chi chiedesse di cancellare l’indicazione
religiosa potrebbe essere ritenuto avverso al divino, chi invece lasciasse
vuota la casella si distinguerebbe – contrariamente alla propria volontà e in
virtù di un’ingerenza delle pubbliche autorità – da chi invece vi indicherebbe
la propria appartenenza.

La Cedu, insomma, con la sua sentenza indicò qual era il vero
problema contenuto nel caso Isik. Esso non riguardava tanto il rifiuto in sé di
sostituire «islam» con «alevita» sulla carta d’identità, quanto la trascrizione
– obbligatoria o facoltativa che fosse – della religione sulla carta d’identità
che comportava, a causa dello stesso utilizzo del documento, la divulgazione
obbligatoria di convinzioni intime e personali. Era quella trascrizione che
andava tolta. Solo così, concluse la Cedu, sopprimendo cioè la casella dedicata
alla religione sulle carte d’identità, si sarebbe potuto riparare il danno
subito da Sinan Isik, rimediando alla violazione dei suoi diritti.

La decisione fu condivisa da sei giudici su sette. Anche l’unico
che non era d’accordo, per ragioni che non è qui il caso di esaminare, sostenne
comunque di non comprendere né l’interesse, né l’utilità di far comparire la
religione su una carta d’identità, anche se su base volontaria.

L’impegno degli stati

Le sentenze della Cedu diventano esecutive, perché gli stati che
hanno sottoscritto la Convenzione sono impegnati a conformarsi a esse. C’è un
Comitato dei ministri, cui le sentenze sono trasmesse, che ha appunto il
compito di sorvegliae l’esecuzione.

Questo permette di riprendere una considerazione fatta già nei
precedenti articoli: la Corte, di fronte alla condivisione dei principi da
parte di tutti i membri del Consiglio d’Europa, rende possibile uniformare
anche la loro applicazione nei vari stati. Questa funzione ne fa uno degli
strumenti più rilevanti per la costruzione in Europa di una comune coscienza
civile e della sua traduzione pratica.

Paolo Bertezzolo

 
Note:

1-
Gli Aleviti sono un gruppo religioso, sub-etnico e culturale
presente in Turchia che conta circa dieci milioni di membri. L’Alevismo è
considerato una delle molte sette dell’Islam.

L’Alevismo
è una setta unica nell’ambito dell’Islam sciita duodecimano, dal momento che
gli Aleviti accettano il credo sciita riguardo Alī
e i dodici Imam. Alcuni Aleviti non vogliono però essere descritti come Sciiti
ortodossi.

Non
sono da confondere con gli Alawiti presenti ad esempio in Siria.

Nel
capitolo dell’Inteational Religious Freedom Report for 2012 del
Dipartimento di stato Usa dedicato alla Turchia gli aleviti vengono stimati tra
i 15 e i 20 milioni, mentre si dà conto del fatto che i leader del gruppo
religioso sostengono essere 20-25 milioni gli aleviti in Turchia. Secondo il
suddetto rapporto, su una popolazione di 74,7 milioni stimata nel 2011, il 99%
è musulmano, di cui la maggioranza sunnita.

Circa
165mila cristiani delle varie Chiese, tra cui 25mila cattolici.

Paolo Bertezzolo




Europa: libertà contro laicità? Riflessioni e fatti sulla Libertà Religiosa nel mondo – 14

L’effigie
degli evangelizzatori Cirillo e Metodio sulle monete da due Euro slovacche
trova l’opposizione della Commissione Europea (Ue). C’è chi considera
quest’ultima come «l’anticristo». Ma il fatto che in alcune aree del vecchio
continente ci siano più persone che credono negli extraterrestri di quante
credano in Dio non sembra una conseguenza del laicismo delle istituzioni.
In merito al
rispetto dei diritti (tra cui la libertà religiosa) il punto di riferimento –
anche per la Ue – diventa sempre più la Corte europea dei diritti dell’uomo del
Consiglio d’Europa. È alle sue sentenze che bisogna guardare per capire in che
direzione va la libertà di credo nel Vecchio Continente.

Il 17 giugno scorso il New York
Times
ha pubblicato un articolo in cui raccontava di un contrasto tra la
Banca Nazionale Slovacca e la Commissione Europea. La cosa sorprendente è che
tale contrasto non riguardava temi finanziari, ma religiosi. L’istituto
bancario slovacco intendeva commemorare il 1150° anniversario della
cristianizzazione del paese emettendo una moneta Euro che riportasse l’immagine
dei santi Cirillo e Metodio coronati dall’aureola e con le vesti oate di ben
visibili croci. La Commissione Europea si è opposta, ordinando la rimozione dei
simboli religiosi.

L’articolo del prestigioso quotidiano statunitense, dal titolo a
effetto Un’Europa sempre più secolarizzata, divisa dalla Croce, è
interessante per diversi motivi: indica l’episodio come possibile «segno della
scomparsa della fede dall’Europa contemporanea», e come frutto di una
secolarizzazione molto spinta.

«In God we trust»

La tesi in un certo senso è condivisa da mons. Stanislav
Zvolensky, vescovo cattolico di Bratislava, che ha sostenuto: «C’è un movimento
all’interno dell’Unione Europea che vuole una neutralità religiosa totale e non
può accettare le nostre tradizioni cristiane».

In Europa è dunque in gioco la libertà religiosa e, in
particolare, la plurisecolare presenza cristiana? Il Nyt non giunge,
ovviamente, ad affermare questo. È significativo però che, mentre tale fatto
non ha avuto alcuna menzione sui mezzi di informazione europei, se ne sia occupata
la stampa degli Usa, paese che sulle proprie monete non ha problemi a scrivere:
«In God We Trust». Dall’altra parte dell’oceano non si vede in questo
riferimento a Dio alcun problema, dalla nostra invece si rischia addirittura di
non rispettare la storia, con effetti paradossali e anche un po’ comici: i due
evangelizzatori dell’Europa orientale, senza le loro croci, finirebbero col
trasformarsi in due «laici» del tutto irriconoscibili. Lo stesso evento che si
desidera commemorare, a quel punto diverrebbe esso stesso pressoché
incomprensibile.

Unione – o divisione – europea?

Nelle parole del vescovo Zvolensky si può anche cogliere un’eco
delle discussioni e delle polemiche che si ebbero nel momento in cui fu
definita la Costituzione dell’Unione Europea: ci si divise infatti tra chi
chiedeva che vi fosse inserito un riferimento alle radici ebraico-cristiane e
chi invece vi si opponeva. Come noto, prevalse questa seconda posizione.

Nella questione che stiamo affrontando, tuttavia, non è tanto
questo il tema in gioco. Il problema riguarda piuttosto la tutela della libertà
di credo in un’Europa che, come tutti gli stati occidentali, intende fondarsi
sulla laicità e sul rispetto del pluralismo religioso. Libertà di religione e
laicità sono due questioni strettamente collegate. Lo sono anche nell’Unione
Europea. Essa sta faticosamente costruendo una propria unità, capace di andare
oltre le profonde divisioni linguistiche, culturali ed economiche che la
caratterizzano. In questo processo le religioni, e soprattutto quella cristiana
per il fondamentale ruolo svolto nella storia del vecchio continente, possono
diventare un ulteriore elemento di divisione oppure una primaria forza di
coesione. Molto dipenderà proprio da come, nelle istituzioni europee e nelle
grandi religioni presenti nell’Unione, saranno intesi e interagiranno tra loro
laicità, pluralismo, libertà di credo – e quindi presenza e visibilità delle
fedi -, e quale equilibrio sarà raggiunto tra questi valori al termine del
processo di costruzione di un’Unione finalmente compiuta sul piano politico e
civile.

Parecchio resta da fare. Questi valori, infatti, appaiono
diversamente intesi nelle parti d’Europa – particolarmente quella occidentale –
in cui la laicità spesso si confonde con una secolarizzazione spinta, e in
quelle dove invece il cristianesimo è tuttora forza anche sociale e civile
molto viva, come avviene in prevalenza nei paesi dell’Europa orientale.

La commissione europea non è l’anticristo

In questa situazione la Commissione europea che, assieme al
parlamento, ha il compito non facile di governare le aspirazioni comuni
europee, finisce col diventare bersaglio delle critiche di tutti. C’è chi
l’accusa di essere troppo arrendevole nei confronti della religione e chi
invece l’accusa del contrario. «Posso assicurare che la Commissione non è
l’Anticristo», ha dichiarato Katharina von Schnurbein, funzionario della
Commissione responsabile dei rapporti con i gruppi religiosi e laici, a chi le
riportava le critiche di movimenti cristiani integralisti. Del resto lo stesso
mons. Stanislav Zvolensky si era dichiarato entusiasta della Commissione
quando, tre anni fa, era stato invitato a Bruxelles per discutere della lotta
contro la povertà nell’Unione. Nessuno, tra l’altro, si era sognato di
chiedergli di togliersi la croce episcopale dal petto. Ma poi, chi mai potrebbe
seriamente puntare a un «occultamento» dei simboli religiosi cristiani in un
continente disseminato di chiese e monasteri, dove nomi di città, paesi,
luoghi, strade e piazze, sono in gran parte riferiti a santi, tradizioni,
storie e fatti cristiani, le cui università più prestigiose sono nate per
volontà di papi e i cui stati spesso riportano la croce nelle loro stesse
bandiere nazionali?

Le dodici stelle della Vergine Maria

C’è un fatto curioso, a questo proposito. Pochissimi sanno che
anche la bandiera dell’Unione europea ha un’origine cristiana. Il cerchio di
dodici stelle su sfondo blu che la caratterizza fu disegnato nel 1955 dal
francese Arsène Heits. Era cattolico e volle ispirarsi all’iconografia della
Vergine Maria. Le stesse dodici stelle, va ricordato, compaiono sulle monete
dell’euro. Anche i tre grandi padri fondatori della Comunità europea erano
cattolici praticanti: il francese Schumann, il tedesco Adenauer e l’italiano De
Gasperi.

«C’è una generale diffidenza verso tutto ciò che è religioso,
un’idea che la fede debba essere tenuta fuori dalla sfera pubblica» sostiene
tuttavia Gudrun Kugles, direttore dell’Osservatorio sulla intolleranza e la
discriminazione contro i cristiani che ha sede a Vienna. «C’è una fortissima
corrente di secolarismo radicale» aggiunge, «che interessa tutte le religioni
ma in particolare quella cristiana».

Sono affermazioni che Katharina von Schnurbein non condivide.
L’Unione europea non segue affatto una «linea» anticristiana, afferma. Non
cerca di eliminare la religione. La Commissione, al contrario, come è detto nel
Trattato, attribuisce moltissima importanza al dialogo con i credenti e i non
credenti.

Dio vs extraterrestri

In questo momento, tuttavia, non pare proprio il frutto di un
comportamento anticristiano delle istituzioni il fatto che le chiese si
svuotino, nuove religioni crescano in Europa, come l’Islam, e un fideismo
sconcertante si diffonda un po’ dovunque.

Secondo un’indagine compiuta lo scorso anno, in Gran Bretagna le
persone che credono negli extraterrestri sono più numerose di quelle che
credono in Dio. D’altro canto un sondaggio del 2010 ha rivelato che nell’intera
Unione europea solo circa metà della popolazione crede in Dio, mentre negli Stati
Uniti il 90%.

Sono problemi che interpellano pastorale, catechesi e formazione
di laici e sacerdoti nelle Chiese, prima ancora che il rapporto tra religione e
istituzioni «statali», o l’influenza delle fedi nella definizione delle norme
pubbliche.

Il ruolo della Corte Europea dei diritti umani

Per le questioni affrontate fin qua, riveste un’importanza
primaria la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). È tale Corte, infatti,
che ha il compito di decidere i casi in cui possa essere violata la libertà
religiosa, oppure messa in discussione la laicità dello stato o, ancora, il
pluralismo religioso e la pari dignità di tutte le fedi che rispettino i
principi costitutivi dell’Europa. È un compito estremamente importante, che va
oltre la particolarità dei casi trattati. Infatti, con le proprie sentenze la
Corte sta contribuendo a costruire una coscienza civile comune dell’Europa
stessa.

La Cedu ha sede a Strasburgo e non è da confondere con la Corte di
giustizia dell’Unione europea, organismo della Ue con sede invece in
Lussemburgo. È sorta nel 1959 per assicurare il rispetto della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Vi aderiscono i 47 stati che fanno parte del Consiglio d’Europa, compresi
quelli dell’Unione europea. Dunque la Cedu vale sia per il Consiglio d’Europa
sia per l’Unione europea: situazione che può creare problemi, perché possono
verificarsi casi di sentenze contraddittorie delle due Corti. Tuttavia in base
al trattato di Maastricht tutte le istituzioni dell’Unione sono tenute a
rispettare la Convenzione europea sui diritti dell’uomo. La Corte di giustizia
dell’Ue dunque fa riferimento nelle proprie sentenze a quelle della Cedu che
della Convenzione stessa è l’interprete. Il potenziale conflitto tra le due
Corti, che permane in linea di principio, sarebbe definitivamente eliminato se
l’Unione europea aderisse come tale alla Convenzione, cosa che non poteva fare
in passato ma che le è possibile ora, in base al Trattato di Lisbona del 2009.
Nel momento in cui questo avvenisse, la Corte di giustizia dell’Unione europea
sarebbe obbligata a rispettare le sentenze della Cedu.

Quale laicità?

La Cedu, dunque, si avvia ormai a essere
l’organo di suprema istanza anche dell’Ue in merito al rispetto dei diritti e
delle libertà civili. Per capire quindi quale concezione di laicità si stia
affermando in Europa, cosa si intenda per libertà religiosa e come essa venga
tutelata, è molto importante esaminare le sue sentenze che riguardano questi
temi. Esse fanno riferimento in particolare all’articolo 9 della Convenzione,
che tratta appunto dei diritti di libertà. È interessante notare che la libertà
di religione, come quella di pensiero e di coscienza, in quell’articolo viene
riconosciuta non solo come diritto «privato» ma, come non può che essere, anche
«pubblico». Nessuna restrizione può esservi al diritto di manifestare
pubblicamente la religione, tranne ovviamente il caso in cui possano nascere
problemi di ordine, salute e morale pubblici, o di protezione dei diritti
altrui.

Cirillo e Metodio «a spasso» per l’Europa

La vicenda della moneta slovacca da cui siamo
partiti non ha nulla a che fare con casi in cui l’ordine, la salute o la morale
pubblici vengono messi in pericolo. Riguarda, invece, proprio la laicità. È
stata la Francia a spingere la Commissione europea ad opporsi al progetto della
Banca Nazionale Slovacca, in nome di una concezione della laicità che prevede
una rigida separazione tra lo stato e la religione, e che non permette quindi
la presenza di simboli religiosi in tutto ciò che riguarda l’ambito statale.
Con buona pace dei Transalpini (e della Grecia che si opponeva alla moneta
commemorativa slovacca per ragioni «nazionali») la Banca Nazionale Slovacca ha
tenuto fermo il proprio progetto. La Commissione non se l’è sentita di
insistere nella sua posizione e, quindi, la moneta sarà prossimamente coniata.
Come ogni altra, circolerà liberamente in tutta l’Unione europea: anche in
Francia.

Paolo Bertezzolo

Convenzione per la salvaguardia dei
Diritti dell’uomo e delle Libertà fondamentali

ARTICOLO 9: Libertà di pensiero, di
coscienza e di religione

1. Ogni persona ha diritto alla libertà
di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di
cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria
religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o
in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei
riti.

2. La
libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere
oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che
costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica
sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o
alla protezione dei diritti e della libertà altrui.

Paolo Bertezzoro




Per «tutelare Dio»

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa
nel mondo – 13

Bestemmiare, cambiare credo e diffamare fede, persone o gruppi
religiosi è reato in diversi paesi. Le leggi «antiblasfemia» nascono con
l’intento di difendere la religione, ma nei fatti soffocano la libertà
religiosa. Mentre l’apostasia viene punita in 20 paesi, tutti a maggioranza
musulmana, la blasfemia è punita anche in paesi «insospettabili» come Grecia,
Germania, Danimarca, Italia.

Dal Pakistan all’India alla Turchia alcuni episodi sono saliti
alla ribalta dell’attenzione internazionale. In anni recenti, un gran numero di fatti di cronaca hanno
accentuato l’attenzione dei mass media sulle cosiddette «leggi antiblasfemia»
che in diversi paesi del mondo hanno portato, e portano, alla violazione del
diritto di libertà religiosa. Tali leggi e politiche governative, infatti,
nonostante siano giustificate per lo più dalla volontà di tutelare le fedi
della popolazione, sono invece spesso lo strumento per reprimere i gruppi
religiosi di minoranza, o espressioni «non ortodosse» del credo di maggioranza.
Sono il 47% del totale gli stati e i territori che nel mondo
applicano legislazioni contro la blasfemia1, l’apostasia2 o le varie forme di
diffamazione della religione3 secondo una recente analisi del Pew Research Center’s Forum on
Religion & Public Life
(centro di ricerca statunitense indipendente,
specializzato in tematiche religiose e sociali). Dei 198 paesi presi in esame
durante l’anno 2011 dal Pew forum, 32 avevano specifiche leggi
antiblasfemia, 20 provvedimenti che colpivano l’apostasia e 87 avevano leggi per
contrastare offese verso una religione, inclusi parole o atteggiamenti di
incitamento all’odio contro un gruppo religioso. Per raccogiere i dati e
attuare le analisi, la ricerca ha utilizzato, oltre al lavoro diretto sul
campo, ben 19 fonti facilmente accessibili: dal dipartimento di Stato Usa alle
Nazioni Unite, da Human Rights Watch ad Amnesty Inteational e Inteational Crisis Group.

Le indagini precedenti avevano sottolineato un elemento importante
per quanto riguarda la libertà di credo nei diversi paesi, confermato
nell’ultimo studio: i paesi che hanno nel loro ordinamento leggi contro la
bestemmia, l’apostasia o la diffamazione della religione tendono ad avere
maggiori restrizioni governative e tensioni sociali più forti riguardo al
fenomeno religioso.

Bestemmia
e diffamazione

Lo scorso anno ha fatto scalpore il caso di Rimsha Masih, una
14enne pachistana di religione cristiana arrestata e incarcerata perché
accusata di aver bruciato pagine di un libro propedeutico allo studio del
Corano. Dopo alcuni mesi di prigionia la ragazza è stata liberata perché le
prove erano state costruite dal suo accusatore, il quale, a sua volta
incolpato, è stato recentemente assolto (si veda pag. 8 di questo numero di
Mc
).

Da tempo l’uso strumentale della legge antiblasfemia è diventato
in Pakistan un ostacolo alla convivenza delle comunità religiose. Dal musulmano
Pakistan passiamo all’India, dove Sanal Edamaruku, presidente della Indian
Rationalist Association
, è stato incriminato, sempre nel 2012, per avere
dichiarato che una statua di Gesù particolarmente venerata a Mumbai per le sue
caratteristiche miracolose sarebbe stata un falso.

I due casi, pur essendo di natura simile, sono stati trattati in
modo diverso sul piano giuridico: il primo, infatti, è rientrato nell’ambito
della blasfemia, il secondo in quello della diffamazione della religione. I
casi che riguardano la blasfemia sono presenti soprattutto in paesi musulmani,
quelli riguardanti la diffamazione sono assai più diffusi. In ogni caso, sono
coinvolti in queste politiche di «protezione» della religione anche paesi «insospettabili».
La Grecia, ad esempio, ha una delle legislazioni più rigide, certamente la più
severa in Europa, riguardo la blasfemia. La Cina, paese formalmente guidato da
un’ideologia atea, il comunismo, che controlla in modo pesante le attività
religiose autorizzate, con la versione più aggiornata del Regolamento degli
Affari religiosi del marzo 2005 persegue la discriminazione e l’offesa
religiosa.

Nel 2011, sul totale già citato di 32 paesi che penalizzavano la
blasfemia, la maggior parte si trovava in Medio Oriente e nell’Africa
settentrionale. In 13 dei 20 paesi di quell’area la blasfemia è un crimine.
Nella regione Asia-Pacifico, sono nove su 50 i paesi con leggi analoghe, mentre
in Europa questa legge si ritrova in otto dei 45 paesi del continente (tra cui
anche l’Italia, si veda la tabella in questa pagina, ndr). Per quanto
riguarda l’Africa Subsahariana, sono solo due i paesi che applicano una legge
antiblasfemia: Nigeria e Somalia.

Il
disagio dell’Islam

Pare inevitabile, parlando di «bestemmia» e
di come le istituzioni di diversi paesi nel mondo cercano di contrastarla
attraverso provvedimenti mirati, concentrarsi quasi esclusivamente sull’Islam.
L’attuale influenza di una versione rigorista della dottrina musulmana, quella
wahhabita, elaborata nel medioevo islamico e predominante in Arabia Saudita e
in altri paesi della regione, sta segnando la pratica di fede nell’ecumene
musulmano e anche la vita di chi musulmano non è. Il wahhabismo, forte degli
abbondanti proventi del petrolio, ha incentivato una diaspora missionaria che
ha sostenuto la nascita di infinite scuole coraniche, moschee, centri di
studio, ma anche la diffusione di ideologie di extraterritorialità e
ribellione, e focolai di intransigenza religiosa. Facendo leva su povertà,
frustrazioni e aspirazioni di molte comunità islamiche, dalla Palestina alle
Filippine meridionali, è diventato anche elemento destabilizzatore per molti
paesi a maggioranza musulmana, provocando più vittime tra i correligionari che
non tra i non-musulmani. Un radicalismo che incentiva il senso di inadeguatezza
di ampie comunità islamiche asiatiche attraverso il continuo accento posto
sulla distanza tra i costumi di vita locali e la necessaria fedeltà all’Islam. È
da questo – ovvero dalla percezione di una identità islamica minacciata – che
derivano probabilmente molte delle legislazioni antiblasfemia. Da qui deriva
anche il contrasto continuo all’interno dei grandi paesi musulmani
sull’applicazione della legge coranica (Shari’a): la giurisprudenza
laicista la vorrebbe vincolante per i soli musulmani, gli oltranzisti invece erga
omnes
, ovvero imposta anche alle minoranze. Ulteriori complicazioni
derivano poi dalla presenza di leggi tribali o locali nei diversi ordinamenti.
Alla fine, nella pratica, la legge più
restrittiva s’impone a scapito delle istanze di uguaglianza e, sovente, di
sviluppo.

In carcere il
blasfemo turco

Un caso recente mostra che la legge si applica in modo esteso
anche ai nuovi media. A fine maggio 2013, alla Turchia è toccato condannare per la prima
volta per blasfemia un blogger, un cittadino turco di origini armene, Sevan
Nisanyan, ritenuto colpevole di «avere apertamente denigrato i valori religiosi
di una certa parte della popolazione» e per questo condannato a un anno e 45
giorni di detenzione.

Una condanna estesa dagli iniziali nove mesi chiesti dal pubblico
ministero perché il suo crimine, come segnalato dall’agenzia d’informazione
semi-ufficiale Anadolu, «è stato commesso attraverso un mezzo
d’informazione». Una sentenza che mostra insieme elementi purtroppo noti e
anche di novità, quella decretata in Turchia, paese dalle solide basi laiciste,
iscritte nella sua storia modea prima ancora che nella costituzione del 1982,
ma che sotto il governo islamista di Regep Tayyip Erdogan ha visto una sicura
svolta integralista. Non senza resistenze, intee ed estee al parlamento di
Ankara e anche sotto lo sguardo attento delle diplomazie inteazionali, a
partire da quelle dell’Unione Europea.

In un testo pubblicato sul suo blog lo scorso settembre, Nisanyan
(pubblicista e tra i pionieri delle nuove tendenze dell’industria turistica
turca) aveva parlato delle proteste inteazionali successive all’uscita del
film di produzione hollywoodiana Innocence of Muslims, una pellicola di
basso livello artistico e tecnico e ancor minore successo commerciale, che
metteva in ridicolo la figura del profeta Maometto. Dure poteste, con episodi
di violenza furono il risultato in diversi paesi  musulmani, tra cui Egitto e Libia. Mentre il
premier turco denunciava il film come «islamofobico», la sua popolazione si
limitava a proteste pacifiche e poco partecipate.

«Non è un crimine che chiama all’odio prendersi gioco di alcuni
leader arabi che molti secoli fa proclamarono di essersi messi in contatto con
Dio e ne ottennero, come conseguenza, benefici politici, economici e sessuali.
Si tratta di un caso quasi a livello di scuola matea di quella che noi
chiamiamo libertà di espressione», aveva scritto tra l’altro Nisanyan.

I casi
dell’Islam asiatico

L’Asia meridionale e il Sud-Est asiatico raccolgono la maggioranza
dei musulmani del mondo (il 62%), eppure il loro ruolo nell’Islam è ancora
subordinato ai paesi arabi. Le masse che alimentano ecumenismo e orgoglio
nell’Islam sono lì, in Oriente, ma devono sottostare a regole elaborate sotto
le tende beduine come negli uffici «glacializzati» che si affacciano sul Golfo.

L’Indonesia è il primo paese islamico al mondo con i suoi 250
milioni di abitanti all’87% musulmani; il Pakistan è il secondo con 182 milioni
di credenti; l’India, grande paese induista, è al terzo posto (almeno 140
milioni), all’incirca alla pari con il musulmano Bangladesh. Afghanistan,
Malaysia e Boeo sono altri stati a maggioranza islamica, mentre consistenti
comunità musulmane si trovano in Cina, Thailandia, Malaysia, Myanmar,
Filippine, Vietnam, Cambogia e Sri Lanka.

Tra tutti, il Pakistan si distingue per l’uso più concreto e anche
criticato della legge antiblasfemia. Strumento nato nel 1986 per garantire
all’allora dittatore militare Zia ul-Haq l’appoggio degli islamisti contro gli
oppositori. Gli articoli del codice penale collettivamente indicati come «legge
antiblasfemia» continuano a essere in Pakistan un’arma da usare contro
avversari politici, in faide personali e verso le minoranze. Un’arma a volte
letale che arriva a colpire anche bambini di dieci anni e persone mentalmente
incapaci.

Il governo di Islamabad nega di avere dati disponibili e le altre
fonti sono spesso contraddittorie, ma secondo le ricerche della Commissione
Giustizia e Pace della Conferenza episcopale cattolica pachistana, dal 1986
all’agosto 2009, sono almeno 964 i pachistani finiti sotto processo per
blasfemia: 479 musulmani, 340 ahmadi,
119 cristiani, 14 indù e una decina di fede ignota. Mancano i dati delle
condanne e di quanti stanno scontando la pena, ma sono certamente decine.
Diversi sono stati uccisi in carcere oppure subito dopo la liberazione
decretata dai giudici. Se è vero che a essere stati arrestati e giudicati sono
in misura rilevante musulmani «ortodossi» di appartenenza sunnita o sciita,
spesso critici verso il potere o verso l’estremismo religioso, è pur vero che
le minoranze, compresa «l’eresia» islamica Ahmadi, sono presenti tra gli
accusati in misura superiore. 

Stefano Vecchia
 
Note:

1.
Con blasfemia, o bestemmia, si intendono osservazioni o scritti
considerati sprezzanti, offensivi verso Dio.
2.
Con apostasia si intende l’abbandono di una fede religiosa per un’altra.
Ad esempio l’abbandono dell’Islam per diventare cristiano.
3.
Con diffamazione della religione si intendono la denigrazione o la
critica di un credo religioso.

Stefano Vecchia




l’Italia religiosa tra disinteresse e sospetto

Riflessioni e fatti sulla libertà religiosa nel mondo – 12
A fine maggio, diversi studiosi riuniti a Camaldoli (Arezzo)
hanno riflettuto sull’assenza in Italia di un quadro legislativo chiaro
riguardante la libertà di religione, e per formulare proposte da offrire al
parlamento. Molte le valutazioni sulla situazione odiea: il disinteresse
della politica porta conseguenze negative sulla convivenza civile nella nostra
Italia sempre più multiculturale e multireligiosa, la marginalità del tema
religioso porta alla mimetizzazione di gruppi e movimenti e alla scissione
dell’identità religiosa dall’identità civile. È necessario creare una nuova
sensibilità che porti a nuovi strumenti legislativi inclusivi e promotori di
dialogo
.

L’Italia ha
una legislazione inadeguata in materia di libertà religiose, nonostante un
programma costituzionale attento e, per certi aspetti, esauriente.

L’interpretazione del dettato costituzionale
è controversa: non tanto sul generale valore della libertà, sulla valutazione
che la religiosità sia un comportamento umano costituzionalmente apprezzato e
protetto, quanto sul sistema di attuazione della protezione. Secondo alcuni,
l’opera delle istituzioni civili sarebbe limitata dall’incompetenza statale in
materia religiosa, e fondata sul riconoscimento di una competenza quasi
esclusiva delle organizzazioni della religiosità collettiva (le confessioni
religiose). Secondo altri, l’attuazione delle libertà religiose sarebbe oggetto
di un’ampia e diretta competenza dell’autorità civile, fatta salva l’autonomia
delle dette organizzazioni. È principalmente da questo divario dottrinale e
politico, che investe i fondamenti del nostro metodo democratico, che si
produce una situazione di stallo istituzionale a causa della quale non si
riesce a emanare una legge generale. Vi sono forze che non vogliono una tale
legge e altre che ne auspicano l’emanazione. Molti, in entrambi i fronti,
dubitano che la nostra civiltà democratica attuale sia capace di porre rimedio
anche ai guasti unanimemente riconosciuti della situazione.

La Carta di Camaldoli

Partendo da queste considerazioni, la
rivista «Quadei di diritto e politica ecclesiastica», edita da Il Mulino, ha
riunito a Camaldoli (Ar) diversi docenti italiani di diritto ecclesiastico e
canonico. Dall’incontro è nata l’idea di costituire un gruppo di lavoro in
grado di elaborare una proposta da trasmettere al parlamento per favorire la
redazione di una legge organica sulla libertà religiosa nel nostro paese.

La politica, tra  disinteresse e
sospetto

Le politiche conceenti la libertà
religiosa e di coscienza nel contesto italiano soffrono di un problema di
relazione tra centro e periferia: le istituzioni e il legislatore faticano a
comprendere la trasformazione sociale e si perdono in tecnicismi normativi che
si scontrano con le varie dimensioni decisionali: regolamenti regionali,
amministrazioni locali, leggi statali e sovranazionali. In tal senso il fatto
che l’art. 117 della Costituzione attribuisca al governo centrale la competenza
esclusiva in materia di rapporti fra stato e confessioni religiose non comporta
che le questioni di politica ecclesiastica occupino un ruolo rilevante
nell’agenda dell’esecutivo. Infatti, fatte le dovute eccezioni, la prassi
politica e amministrativa testimonia che sui temi della libertà religiosa e di
coscienza domina un sostanziale disinteresse. Lo dimostrano i programmi
strategici delle diverse forze partitiche, per le quali il tema della libertà
religiosa è un «non problema», e la laicità, osserva il professor Nicola
Colaianni (già giudice della Corte suprema di Cassazione fino al 2003,
professore di Diritto ecclesiastico, italiano e comparato, nell’Università di
Bari), un mero «orpello con cui infiorettare i punti programmatici sui diritti».

La verità è che la classe dirigente si
occupa del problema della libertà religiosa solo quando alcuni fatti acquistano
rilievo sul piano politico nazionale, com’è avvenuto, ad esempio, con i casi
Lautsi (l’esposizione dei crocifissi nei luoghi pubblici, ndr) e
Englaro. Fuori da queste circostanze non si può negare che i nodi problematici
sollevati dai comportamenti di natura religiosa, o motivati da ragioni di
coscienza, rimangano marginali nel dibattito politico, e di limitato interesse
per la pubblica amministrazione. Non è una provocazione affermare che esiste un
diffuso sospetto verso il pensiero religioso e un generale analfabetismo
storico-teologico. Quest’ultimo emblematicamente rappresentato sia
dall’esclusione dell’insegnamento della teologia nelle università pubbliche
(avallata nel 1873 dalla stessa Chiesa cattolica), sia dalla marginalità, nel
panorama culturale ed editoriale italiano, di quella parte del lavoro
filosofico-politico – pensiamo ad autori come Rensi, Capitini o De Giorgis –
attenta a disvelare l’attualità e la forza del pensiero religioso nel
superamento della frattura fra fede e modeità.

Ciò che viene meno

Le conseguenze pratiche di tutto ciò sono
molteplici: innanzitutto la scarsa attenzione e sensibilità per il dialogo
interculturale e interreligioso, in contrasto con quanto richiesto nel 2007
dall’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) con le Guidelines
di Toledo [Art. 19: Tutti hanno
diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma,
individuale o associata, di fae propaganda e di esercitae in privato o in
pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume. /
Art. 20. Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una
associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni
legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità
giuridica e ogni forma di attività]. in materia d’insegnamento delle religioni nelle scuole
pubbliche, e, ancor più, dal libro bianco sul dialogo interculturale, Vivere
insieme in pari dignità
, e dalla Raccomandazione n. 12 del Consiglio
d’Europa sulla Dimensione delle religioni e delle convinzioni non religiose
nell’educazione interculturale
rivolta, nel 2008, ai ministri
dell’educazione dei quarantasette paesi membri. Ma soprattutto ciò che è più rilevante
è che la marginalità del dibattito sulla libertà religiosa ha portato a
ritenere secondario il problema della realizzazione di un maturo pluralismo
religioso. Come evidenzia il professor Carlo Cardia (docente di Diritto
Ecclesiastico all’Università degli Studi di Roma 3, avvocato, giurista ed
editorialista di Avvenire): «È nel conflitto e nel cortocircuito tra
intransigenza cattolica e correnti laiciste che sta la radice di una chiusura
provinciale che in Italia condiziona le relazioni ecclesiastiche» e,
aggiungeremmo, influisce negativamente su un potenziale dibattito costruttivo
in materia, e su un progetto di politica ecclesiastica innovativo e di ampio
respiro.

L’identità separata dal diritto di credo?

La perifericità del religioso nel dibattito
politico-istituzionale italiano emerge anche sotto altre forme. Innanzitutto
nella tendenza sempre più accentuata del governo a separare i temi sensibili
connessi all’identità e all’appartenenza etnico-religiosa dalla sfera del
diritto alla libertà di credo, come dimostra, ad esempio, il parere formulato
dal comitato per l’Islam italiano in materia di burqa e del niqab.
Quest’ultimo invita il legislatore a «deconfessionalizzare» la questione del
velo integrale, disgiungendola dall’esercizio del diritto di libertà religiosa.
D’altronde lo stesso Consiglio di stato, nella decisione del 15 aprile 2008, ha
assunto in materia una posizione neutrale, riconducendo l’uso del velo
integrale a pratiche innanzitutto etnico-culturali.

È senza dubbio ascrivibile alla medesima
debole sensibilità ai temi della libertà religiosa il complesso problema del «mimetismo»
cui ricorrono non poche organizzazioni, tra cui quelle musulmane, al fine di
ottenere il riconoscimento di alcuni diritti riconducibili alla sfera degli
art. 19 e 20 della Costituzione1. Nascondere le finalità religiose e di culto per vedere
crescere le probabilità di successo delle proprie attese testimonia la
marginalità sul piano dell’argomentazione politica, del diritto alla libertà
religiosa.

L’Italia religiosa in mutamento

La Carta di Milano 2013, redatta dal Forum delle
religioni
di Milano in occasione dei 1700 anni dell’Editto di Costantino,
ha evidenziato che l’Italia religiosa sta profondamente cambiando, e non si
tratta solo della ricorrente immagine, che tanto timore suscita in una parte
dell’opinione pubblica e della classe dirigente, di un Islam minaccioso, o
dell’ambigua presenza di nuovi movimenti religiosi. Il cambiamento sta
coinvolgendo lo stesso cattolicesimo, «vero basso continuo» della storia
nazionale italiana, osserva Enzo Pace, ordinario di sociologia presso la Facoltà
di Scienze Politiche dell’Università di Padova, studioso e autore di molti
saggi sul fondamentalismo. La communio fidelium (comunione dei fedeli),
nell’interesse della quale fu confermato a Villa Madama nel 1984 il patto di
collaborazione (concordato) tra stato italiano e Chiesa precedentemente siglato
nel febbraio del 1929, sta profondamente mutando. Essa sta subendo
contaminazioni del tutto inedite e inattese, inimmaginabili nella prima metà
degli anni Ottanta: cattolici africani, asiatici, latinoamericani si sono
stabiliti nel nostro paese a seguito delle migrazioni transcontinentali. Essi
cominciano a popolare le parrocchie a fianco dei circa duemila parroci non
italiani che hanno nel frattempo coperto i vuoti lasciati dalla crisi di
vocazioni e dall’invecchiamento del clero nostrano.

Il processo di cambiamento che si sta
velocemente e inesorabilmente attuando sta dunque modificando radicalmente il
paesaggio religioso italiano, da sempre caratterizzato da un’accentuata
monocultura confessionale.

Nuova sensibilità e nuovi strumenti cercasi

Tutto ciò richiede, oltre a una nuova
sensibilità culturale, un rapido adeguamento degli strumenti normativi. Questo
significa che le istituzioni della repubblica hanno l’onere di rivedere le
ragioni del diritto confrontandole con quelle dell’etica sociale; ridefinire il
confine fra ciò che è negoziabile e ciò che non lo è, perché contrario ai
diritti fondamentali della persona; ridefinire ciò che può essere incluso e ciò
che deve essere escluso dal sistema di relazioni sociali; trasformare
l’estraneità in solidarietà gestendo il complesso e difficile rapporto tra la
società multietnica e i valori fondamentali della nostra carta costituzionale.

L’atteggiamento assunto negli ultimi
trent’anni dalle istituzioni centrali della Repubblica italiana nei confronti
del crescente pluralismo religioso è stato improntato a una situazione di paura
sociale. Pur in maniera disomogenea e spesso contraddittoria, gli enti locali e
le regioni sono stati spesso obbligati dai fatti a optare per soluzioni
innovative e coraggiose sul piano delle politiche di integrazione e di dialogo.
L’amministrazione centrale dello stato, e ancor più il legislatore, invece,
hanno preferito perseguire strategie attendiste, nel timore di doversi esporre
dinanzi alle istanze, spesso più che legittime, provenienti dalla società
civile e dalle rappresentanze di alcune minoranze confessionali. In tutti
questi casi, come evidenzia il professor Alessandro Ferrari, docente di diritto
canonico ed ecclesiastico all’Università degli studi dell’Insubria, esperto in «intesa
tra stato e religioni» (in particolare l’Islam), lo stato, anziché fornire alle
nuove religioni un diritto e procedure certe con cui misurarsi, ha preferito
optare per «la via meno impegnativa e più aleatoria e dall’incerto valore
giuridico di tentare di subordinare il godimento dei profili più positivi del
diritto di libertà religiosa alla loro adesione a carte di impegno o carte di
valori predisposte dalle pubbliche amministrazioni, e costituenti una
reinterpretazione e una riscrittura selettiva dei principi e dei valori già
espressi dalla Costituzione».

Solo il tempo lo dirà

Basti pensare all’uso che è stato fatto
della Carta dei Valori della cittadinanza e dell’integrazione del 2007:
da strumento di inclusione si è trasformata in mezzo funzionale all’esclusione
preventiva delle realtà religiose percepite come scomode e distanti dal sentire
comune. Ancora, non è forse vero che i pareri della Consulta giovanile per il
pluralismo religioso e culturale, del Comitato per l’Islam italiano o della
Conferenza permanente per il pluralismo religioso sono principalmente serviti a
legittimare decisioni già assunte da tempo dal potere politico, senza che di
fatto i veri nodi del pluralismo religioso venissero risolti?

Le nuove intese sottoscritte nel febbraio
2013 per regolare i rapporti tra stato italiano e l’Unione induista italiana e
l’Unione buddista italiana (Ubi), di grande rilievo simbolico perché le prime
che lo stato italiano approva con confessioni non cristiane – a eccezione degli
accordi con le Comunità ebraiche nel 1989 -, arricchiscono il pluralismo
religioso. Tuttavia, non si può negare che siano stati scelti gli interlocutori
meno ostici.

In un futuro non lontano lo stato italiano
sarà così coraggioso da adottare anche nei confronti delle comunità religiose
più problematiche, come quella musulmana, la stessa procedura innovativa? Un
organo così strategico come il Dipartimento per le libertà civili e
l’immigrazione del ministero dell’Inteo sarà disposto a collaborare
fattivamente, e non soltanto con formali patrocini, su progetti coinvolgenti le
questioni politicamente più delicate e sensibili del pluralismo religioso e
dell’integrazione? Solo il tempo aiuterà a dare una risposta a questi
interrogativi da cui dipende buona parte del destino della libertà religiosa in
Italia.

Luca Rolandi

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Luca Rolandi




Sufismo imprigionato


Il sufismo, considerato spesso come una corrente estea all’islam e, allo stesso tempo, come un pericolo per l’unità della comunità islamica, ha una lunga storia di persecuzione. Il caso della Turchia è emblematico: i sufi, oltre a essere osteggiati nei secoli passati da un punto di vista religioso, subirono anche una persecuzione di tipo secolarista e laicista a partire dal 1925. La libertà vigilata imposta al sufismo è forse uno dei segni della sua irriducibile vitalità.

Che il sufismo abbia una storia di persecuzioni è un fatto certo. Il motivo è forse che, nella maggioranza dei casi, esso viene considerato come una corrente estea all’islam. Infatti, il vero dramma dell’islam, oggi come in altre epoche, è quello di non saper mantenere al proprio interno, nel proprio alveo, tutte le tendenze, le correnti, i movimenti religiosi, e questo provoca l’assolutizzazione del monismo già insito nell’idea del Dio uno e unico. Questo è un punto fondamentale per comprendere tutta la vicenda attuale dell’islam: la religione del Profeta si fonda sulla rivelazione coranica, che è il messaggio divino rivelato a Muhammad per il tramite dell’arcangelo Gabriele. Ora, il contenuto rivelato è quello di un monoteismo assoluto, radicale, cioè dell’unità e dell’unicità di Dio. Dio è il più grande, il Sussistente, l’Onnipotente, il Misericordioso, proprio perché – si potrebbe dire – è Uno e l’Unico.

Se volessimo provare a fare un paragone con il cristianesimo, allo scopo di percepire meglio tutta la realtà e anche la differenza del monoteismo musulmano rispetto a quello cristiano, potremmo affermare che, quando noi cristiani professiamo nel credo niceno-costantinopolitano di credere «in un solo Dio, Padre onnipotente…», diciamo di credere in un Dio che è unico, ma è anche Padre, Figlio e Spirito Santo. Per i cristiani l’unità di Dio non è intaccata dal fatto che Dio al suo interno sia Trinità di persone. Per il cristiano Dio è uno, ma in tre persone. Il fatto che Dio nel suo seno sia Trinità costituisce agli occhi dell’islam un indebolimento dell’unità e unicità suprema di Dio. Per un cristiano è quasi necessario partire dalla propria esperienza del Dio trinitario per intuire che cosa significhi il monoteismo radicale dell’islam: un Dio che al suo interno non ha relazioni di persone.

È interessante sottolineare la suprema legge dell’unità divina, perché essa plasma tutti gli ambiti della dottrina e della vita religiosa, nonché politica, della società musulmana. Tutto ciò che appare contrario alla suprema legge dell’unità deve essere impedito e proibito. Ed è a questo proposito che il caso del sufismo diventa interessante e al contempo estremamente simbolico.

Eterodossi e perseguibili

Il sufismo, in sé non ha nessuna idea che possa davvero sconvolgere la dottrina dell’islam, non contiene nessun elemento che sia contro la bontà della religione del Profeta. Esso propone piuttosto una via di realizzazione pratica e spirituale del messaggio dell’islam. Nella storia di questa religione però, in numerosi casi, i sufi e, più in generale, il sufismo, sono stati considerati come elementi eterodossi e quindi anche perseguibili. Perché? Da un lato, il fatto che esistano dei gruppi, delle organizzazioni spirituali musulmane, che sono parte dell’islam, ma che si costituiscono in maniera autonoma e più libera, suscita il timore di un indebolimento dell’unità della comunità islamica, immagine dell’unità divina. La diffusione delle confrateite sufi è quindi interpretata come un attentato alla compattezza dell’islam «ufficiale». Da un altro lato, dal punto di vista dottrinale, l’islam che si ritiene portatore dell’unica interpretazione – a partire dal wahhabismo – rifiuta la dottrina della totale purificazione in Dio, dell’annientamento della persona nell’unità divina (fanâ’). La dottrina sufi dell’annientamento in Dio infatti pone la questione dell’aldilà: come è possibile alla creatura, se si annienta totalmente nell’oceano dell’unità divina, permanere ancora nella sua esistenza di oggi e in quella futura? Questo punto ha sollevato non pochi sospetti, e per questo motivo i sufi l’hanno spiegato attraverso il concetto di permanenza (baqâ’) dell’essere anche dopo l’annientamento. Ricordiamo a questo proposito il celebre al-Hallâj (m. 922) che – secondo un’interpretazione in voga – fu decapitato e poi ridotto in cenere per aver affermato «Ânâ al-Hâqq», cioè: «Io sono la Verità divina, la realtà suprema, Dio». Questa affermazione e altre simili hanno destato più di un sospetto: come è possibile che un sufi si proclami Dio?

Il sufi che pronuncia una frase simile è un mistico, un uomo che ha raggiunto una «trasparenza» spirituale tale da farlo sentire identificato con la divinità. Un’affermazione come quella di al-Hallâj è il riflesso più compiuto del messaggio coranico «non c’è divinità all’infuori di Dio» (lâ ilâha illâ Allâh): se non esiste null’altro al di fuori di Dio, anche io – il soggetto – non sono se non in Dio, quindi io sono Dio. È Dio la realtà suprema, anzi è l’unica vera realtà e tutte le altre sono quasi un soffio, una semplice apparenza di quella suprema verità.

Questo approccio, benché sia fondamentalmente un riflesso del credo islamico, incute timore, e, di fatto, le molteplici persecuzioni e vessazioni nei confronti dei sufi del passato e attuali ne sono la conseguenza.

I timori diventano crociate

Se questo nucleo più mistico pone qualche difficoltà di comprensione, sono sicuramente i riti iniziatici del sufismo che sollevano la maggior parte dei dubbi negli altri musulmani. I timori allora diventano vere e proprie crociate contro i simboli sufi. Nella storia del sufismo sotto l’Impero ottomano si incontrano diverse interpretazioni contrarie alla pratica del sufismo.

Nel XVII secolo, l’Impero ottomano nella sua figura più importante, quella del Sultano, è impegnato a risollevare le sue sorti militari e politiche, e la ragione del declino viene attribuita ai riti, considerati deviati e devianti, del sufismo, in particolare la pratica dei pellegrinaggi alle tombe dei «santi» sufi, la pratica della ripetizione del nome di Dio (dhikr) e la danza rituale (semâ‘).

Una certa interpretazione islamica rigorista dell’epoca fece sì che fosse attribuita la responsabilità delle difficoltà geopolitiche dell’Impero proprio ai sufi e ai loro rituali: nel 1666, i predicatori musulmani (vâiz) intransigenti che officiavano presso la Sublime porta, insieme ai rappresentanti di più d’una corporazione dei mestieri, riuscirono, con un abile colpo di mano, a far proibire dal sultano tutti i riti sufi e in special modo il semâ‘. Si dice che tra i dervisci danzanti, i mevlevî o discepoli di Mevlânâ Rûmî (m. 1273), ne morirono centinaia a causa della tristezza per il fatto di non poter più praticare la danza rituale così importante nella vita del sufi. L’interdetto durò per circa sedici anni, ma già a distanza di un solo anno i dervisci ripresero a eseguire il rituale del quale non potevano fare a meno. Prima del 1666, alcuni sufi furono addirittura condannati a morte per le loro affermazioni e prese di posizione ostili al potere politico1. In generale, la storia ottomana conta un’evoluzione sfavorevole al sufismo, a partire dal XVI secolo, con una ripresa nel XIX secolo, fino alla sua conclusione, con l’inizio della Repubblica di Turchia nel 19252.

Le politiche antisufi dilagano

Se il XVII secolo significò una svolta nella politica religiosa ottomana, anche nelle vicine regioni arabe avvenne qualcosa di importante. Nell’Arabia del XVIII secolo apparve la figura di punta del movimento antisufi, denominato Wahhabismo, movimento che oggi tutti conoscono a causa delle sue ulteriori riforme: il salafismo e, purtroppo, al-Qaeda e l’Isis. Tutte queste interpretazioni dell’islam sono esplicitamente contrarie alla diffusione del sufismo e delle pratiche sufi, e non solo sono contrarie dottrinalmente, ma fanno della lotta al sufismo un vero e proprio cavallo di battaglia nella loro politica religiosa e addirittura militare, come nel caso dell’Isis.

In altri contesti, il sufismo ha anche subito colpi di arresto, come per esempio in Egitto, con la proibizione di pubblicare le opere del grande mistico Ibn ‘Arabî (m. 1240). In Turchia, nel 1925, Atatürk e l’Assemblea nazionale bandirono gli ordini sufi e tutti i loro maestri, e confiscarono i beni immobiliari loro appartenenti. Questo bando stravolse le antiche modalità di vita del sufismo turco ereditate dalla tradizione ottomana. Il caso dei cosiddetti dervisci danzanti è quanto mai indicativo di questa situazione. Se nell’antichità ottomana, e prima ancora selgiuchide, i mevlevî godevano della libertà di formarsi all’interno dei loro conventi sufi (tekke) senza alcun problema, con il potere politico che li favoriva, dopo il 1925 ogni ordine sufi, e specialmente i dervisci danzanti, dovettero lasciare il suolo turco per poter continuare a «esibirsi» nel loro rituale di danza. A dire la verità, non solo la danza poneva problema, ma ancora di più la formazione stessa che prevedeva almeno 1001 giorni di disciplina comune sotto la guida severa e ferma di un maestro3. Per tre anni, i dervisci danzanti vivevano in comunità, e i novizi erano formati nelle grandi cucine del convento di Konya, l’antica Iconium di San Paolo. Con la soppressione di tutti gli ordini sufi, è chiaro che questa disciplina veniva inesorabilmente a decadere e, insieme a questa, anche la classica e autentica formazione.

La diaspora

Un certo numero di dervisci lasciò la Turchia e si rifugiò nei Balcani, a Cipro e in ultima istanza anche negli Stati Uniti. Un esempio su tutti: il gran maestro sufi dei Bektashi, compagine legata al corpo d’armata del sultano (i famosi giannizzeri), lasciò la Turchia per l’Albania e poi si ritirò negli Stati Uniti dove ancora oggi si trova un centro importante. Altri ordini sufi, come i Naqshbandî riuscirono a sopravvivere quasi indenni perché il loro modo di formazione non richiedeva una visibilità particolare. Di fatto, questo gruppo è quello che permane ancora oggi in Turchia e altrove come uno dei più influenti di tutto il mondo sufi all’interno dell’universo musulmano.

La legge del settembre del 1925 varata dalla Grande Assemblea di Turchia e applicata a partire dal dicembre seguente, prevedeva addirittura il carcere per tutti coloro che tentassero la riapertura di uno degli spazi sufi (conventi, tombe, complessi) presenti sul territorio di Turchia. La legge prevedeva non solo il carcere, ma anche una salata multa. In certi casi si imponeva il confino e l’esilio, come nel caso del celebre maestro sufi Said Nursî (m. 1960), che fu osteggiato durante tutta la sua vita. Non va però taciuto che il numero di conventi sufi nella sola città di Istanbul alla vigilia della soppressione, ha un che di inquietante: ce n’erano più di trecento. Questo elevato numero indica che la compagine degli ordini godeva di un impatto notevole, sia dal punto di vista geografico che politico.

In stato di libertà vigilata

Il caso della Turchia è sicuramente uno dei più significativi nella storia dell’islam, perché i sufi, oltre ad essere osteggiati da un punto di vista prettamente religioso nei secoli precedenti il XX, a partire dal 1925 subirono una nuova persecuzione originata da un’ideologia secolarista e laicista, che vedeva nella religione solo un mezzo per regolare la società civile. Il fatto che il governo si trovasse a scontrarsi con diversi Ordini sufi era un vero e proprio impedimento nella gestione sociale dell’aspetto religioso. Per questo gli ordini sufi furono soppressi e fu istituito un ministero per gli affari del culto (Diyanet).

Si capisce allora perché il sufismo in Turchia, come in molti altri paesi (l’Egitto nella sua storia recente, ma anche l’Algeria) viva in una specie di libertà vigilata. È il tentativo di ridurre le potenziali scalfitture che la presenza degli ordini sufi potrebbero procurare, seppur minimamente, a quell’idea monolitica dell’unità della massa musulmana che vuole essere l’immagine dell’unicità divina.

È quindi, il sufismo, un criterio ermeneutico importantissimo per capire il modello di islam che vuole imporsi sugli altri, e finanche un paradigma teologico che plasma la società. Tuttavia, il sufismo è sospetto anche nei regimi laicisti perché tacciato di essere tradizionalista e conservatore. Questa libertà vigilata imposta al sufismo è forse segno della sua libertà dottrinale e della vitalità irriducibile degli ordini sufi.

Alberto Fabio Ambrosio

Note

1 – Cfr. Alberto Fabio Ambrosio, Vita di un derviscio. Dottrina e rituali del sufismo nel XVII s., Carocci editore, 2014; id., Soufis à Istanbul. Hier et aujourd’hui, Parigi, Les Editions du Cerf, 2014.

2 – Cfr. Alberto Fabio Ambrosio, L’islam in Turchia, Carocci editore, 2015.

3 – Cfr. Alberto Fabio Ambrosio, Dervisci. Storia, antropologia, Mistica, Carocci editore, 2011.

Alberto Fabio Ambrosio




Religioni e violenza secondoMedha Patkar

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 30

Attivista indiana per
i diritti umani, ambientalista e donna politica, Medha Patkar mette in
evidenza, nelle sue riflessioni, il nesso tra violenza, religioni e potere
politico ed economico. In un contesto come quello indiano in cui il primo
ministro, Narendra Modi, è l’esponente di spicco del Partito del popolo
indiano: conservatore, nazionalista, di esplicita ispirazione induista.

«Occorre comprendere che la violenza,
l’emarginazione di ispirazione religiosa non è il solo problema dell’India,
dell’Orissa e del Kandhamal. Sovente il fattore religioso è pretesto per
accrescere la presa dei potenti sul territorio, per svendee le ricchezze
naturali a grandi compagnie, per espropriare tribali, aborigeni e contadini a
favore di colossali interessi agricolo-industriali o minerari».

A dirlo è Medha Patkar, attivista
indiana conosciuta per le sue battaglie ambientaliste. In tempi recenti ha
portato il suo impegno sul piano politico, ma senza cessare di sostenere la
trentennale lotta delle popolazioni interessate dalla controversa diga del
Sardar Sarovar sul fiume Narmada che coinvolge quattro stati dell’India
centrale. A lei si deve la fondazione, con altri, dell’«Alleanza nazionale dei
movimenti popolari» che si è impegnata contro globalizzazione e strapotere delle
grandi aziende, e che nel 2004 si è trasformata in movimento politico, il «Fronte
politico popolare». Una scelta non da tutti compresa, il passaggio
dall’attivismo ecologista alla politica attiva, che Patkar ha spiegato con la
necessità di portare impegno e lotte prima rivolte a obiettivi particolari, su
un piano più generale ma anche più incisivo: «Noi crediamo che i movimenti
popolari siano inevitabili in ogni democrazia per tenere vivo il processo
democratico e per sollevare e risolvere i conflitti tra stato e cittadini su
questioni di ampio interesse. Questo ruolo, lo diciamo con umiltà, è importante
e occorre proseguirlo. Contemporaneamente abbiamo sempre detto che la politica
elettorale non è intoccabile. Piuttosto la consideriamo complementare a quella
non elettorale.

Riteniamo necessario sfidare e
cambiare quella parte di cultura politica che è criminale e disgregatrice, che
sfrutta non solo la religione ma anche le caste come una forza per proseguire
con il gioco dei numeri».

Qualche tempo fa in un’intervista
alla scrittrice e giornalista Gargi Parsai, riflettendo su un tema a lei caro e
solo all’apparenza lontano dal suo impegno primario, la Patkar sosteneva che «è
vero, le caste dividono la società, e oggi sono strumentalizzate al punto da
mettere gli uni contro gli altri contadini e contadini, operai contro operai.
Anche le caste vengono contrapposte alle altre caste e così finisce che si
riduce la loro capacità di unirsi contro le ingiustizie, ma anche contro le
minacce crescenti all’ambiente. Di conseguenza, è tempo che le popolazioni
costrette a lasciare le proprie terre e gli emarginati si uniscano, in modo che
queste forme di ingiustizia possano essere affrontate in modo unitario e
efficace».

I massacri di
Kandhamal

Più di recente, nel 2014, in
occasione di un grande raduno che ha ricordato l’avvio dell’ondata persecutoria
anticristiana nello stato di Orissa, la Patkar ha avuto modo di riflettere su
questo aspetto del suo impegno che è di riconciliazione prima ancora che di
contrasto a abusi e discriminazioni.

«Sono davvero felice e allo stesso
tempo triste di vedere che a sei anni dai massacri del Kandhamal molti abbiano
ancora così tanto entusiasmo, tanta energia, coraggio e forza di opporsi al
governo dell’Orissa e a quello federale guidato da Narendra Modi.

I fondamentalisti (non importa a
quale religione appartengano), gli individui che hanno stuprato suor Meena e
coloro che hanno distrutto più di 300 chiese, 6500 case (ucciso più di cento
persone, ndr) e costretto 56mila persone a lasciare le proprie
abitazioni e a vivere per le strade, che hanno devastato i loro campi e
raccolti e altri mezzi di sostentamento, hanno trasformato uomini liberi in
schiavi».

L’attivista, in queste parole, faceva
riferimento ai gravi fatti – la peggiore persecuzione anticristiana della
storia modea del paese – che ebbero luogo nel distretto del Kandhamal, nello
stato orientale di Orissa. Iniziati nel Natale del 2007, quando radicali indù
sobillati da un leader locale, Laxmanananda Saraswati, bloccarono con una
serrata le celebrazioni cristiane, si concretizzarono violentemente dopo
l’uccisione dello stesso Saraswati il 23 agosto 2008. Un delitto di cui vennero
accusati i cristiani locali, in maggioranza convertiti da etnie animiste e
gruppi indù fuoricasta. L’evidente pianificazione del pogrom, con
l’arrivo organizzato di migliaia di fanatici da altre aree dello stato di
Orissa e del paese, fu negata a favore di una tesi che sosteneva invece la
spontaneità della persecuzione. Quegli eventi, che hanno segnato profondamente
la coscienza collettiva della comunità cristiana indiana, e la difficoltà da
parte delle vittime di avere giustizia a causa di un pesante clima di
intimidazioni e coperture, hanno chiarito i limiti della giustizia indiana e
accentuato i timori delle minoranze, in particolare sotto l’attuale governo
nazionalista e filoinduista del paese.

«Il Kandhamal è uno dei molti luoghi
in India segnati dalla violenza comunitaria. Ovunque si verifichino rivolte nel
nome della religione, a finire sotto attacco è l’umanità, che viene seppellita
– ha indicato la Patkar -. Comunque, deplorare questi incidenti, per quanto lo
facciamo con forza, non può essere sufficiente. Chi promuove un atteggiamento
violento nel nome della religione va condannato».

Estremismo induista

Convinzioni, quelle di Medha Patkar,
che trovano sempre più spazio nella società civile indiana – che va aprendosi a
tematiche come la discriminazione e la violenza sessuale, la lotta a malgoverno
e corruzione, la ricerca di unità in un paese sempre più frammentato e quindi
sempre più distante dall’integrazione sognata dai suoi fondatori –
contemporaneamente a un aumento della violenza religiosa. Quest’ultima è
incentivata dal movimento di riconversione all’induismo promosso da gruppi
estremisti che non agiscono più attraverso la sola coercizione o intimidazione,
ma anche proponendo incentivi materiali, e utilizzando metodi che ricalcano le
iniziative benefiche presenti, ad esempio, nella prassi cristiana che gli
stessi gruppi stigmatizzano come mirati alla conversione.

«È molto importante che comprendiamo
che cos’è la religione», ha segnalato la Patkar aprendosi a una tematica
raramente parte del suo impegno, ma che, come altre, riveste un ruolo
essenziale nel paese e nelle sue difficoltà attuali, a partire dal settarismo
che va diffondendosi. «Religione è prassi di vita, religione significa legge;
indica alcuni principi fondamentali e nient’altro che questo».

«Alcuni riconoscono Bhagwan (termine
generico per indicare dio nell’induismo, nda) o Allah, altri offrono namaaz
(preghiera islamica, nda) e altri fanno i rituali della puja (atto
di adorazione induista, ndr) e i nostri fratelli adivasi (aborigeni, nda)
trovano i fondamenti della loro religione tra gli alberi, sulle montagne e nei
fiumi. La comunità dalit (termine più attuale per fuoricasta, intoccabili, nda)
considera il dottor Ambedkar (che guidò il movimento per la loro emancipazione
negli anni Sessanta, nda) come loro divinità. Anche Buddha, Kabir,
Periyar, Vivekanand e Mahavir non hanno mai predicato la violenza, lo stupro,
la distruzione per diffondere le rispettive pratiche religiose o filosofiche.
In molti casi, tuttavia, i loro seguaci hanno intrapreso un cammino che
contrasta con gli ideali religiosi e ovunque questo succeda non sono soltanto
case e campi a essere devastati, ma è la stessa religione a essere distrutta».

Prove di pulizia
etnica

Si è spesso detto, in modo
particolare da parte della Chiesa cattolica la quale dal 2008 fronteggia con
coraggio la sfida dell’integralismo indù al fianco delle comunità di battezzati
sparse tra le foreste e le colline dell’Orissa, che la situazione vissuta in
Kandhamal è stata una prova di pulizia etnica. Una spallata alla convivenza e
all’integrazione, come già era avvenuto nell’enorme pogrom antimusulmano
del Gujarat nel 2002, quando la violenza integralista indù provocò 1044 vittime
accertate (di cui 790 musulmani), migliaia di feriti e mutilati, stupri di
massa, più di 60mila sfollati.

Per questo, segnala la Patkar, è
fondamentale capire che cosa è successo in Kandhamal: «Occorre partire dalla
conoscenza della sorte della popolazione interessata dalla persecuzione,
soprattutto delle donne e dei bambini. Le grida strazianti delle donne che ho
sentito, in un tempo in cui sono usate come puro oggetto di repressione, devono
essere ascoltate. Non è solo il mercato con le sue logiche a trattare le donne
come oggetti, ma a volte anche la religione».

In Kandhamal, obiettivi dei radicali
che scatenarono il pogrom erano dalit e adivasi cristiani. I richiami
alla calma furono ignorati e le violenze scoppiarono quando ai cristiani venne
attribuita la responsabilità dell’uccisione del leader radicale indù Swami
Laxmanananda Saraswati e di due suoi seguaci in un presunto centro spirituale
che altro non era che un luogo di cornordinamento delle strategie induiste nella
regione. Di fatto i cristiani furono scagionati subito dai guerriglieri maoisti
che rivendicarono di aver ucciso l’uomo per le sue attività persecutorie e per
il suo ruolo di apripista del controllo economico sul territorio dell’interno
dell’Orissa da parte di facoltosi correligionari.

«Le accuse comunque sfociarono in
violenze diffuse, vittime, conseguenze ancora presenti. Su che cosa furono
basate le accuse verso la pacifica comunità cristiana? Se ci fossero state
responsabilità concrete, la popolazione locale si sarebbe rivolta alle autorità.
Il fatto fu che a incentivare i disordini fu un gran numero di elementi
arrivati da fuori Kandhamal e anche da fuori Orissa, e a prolungarli contribuì
la latitanza della polizia in uno stato governato allora in coalizione da un
partito locale di centrodestra, il Biju Janata Dal, e dal Bharatiya
Janata Party
, gruppo di riferimento politico dell’estremismo induista, oggi
al potere centrale a livello federale».

Goveo e
fondamentalisti

Ogni anno ad agosto, gli estremisti
indù organizzano manifestazioni in cui accusano i cristiani di essere colpevoli
degli eventi del Kandhamal e di conversioni forzate. Allo stesso modo, i
cristiani, insieme ad altre organizzazioni della società civile locale e
nazionale, chiedono giustizia accusando gli indù di atteggiamento persecutorio.
A chi dovremmo credere? La risposta di Medha Patkar è chiara: «Ricordate: se c’è
violenza di ispirazione religiosa, la responsabilità ricade sia sul governo,
sia sui fondamentalisti. Dov’era il governo nei terribili giorni del Kandhamal,
dal 23 agosto 2008 in avanti? Chi aveva il potere allora in Orissa?
Evidentemente i due partiti della coalizione decisero di non intervenire, anche
se successivamente l’alleanza si allentò notevolmente. Gli ufficiali di polizia
che resero possibile alle violenze di propagarsi non sono stati puniti, come
pure i responsabili dello stupro di suor Meena. Ai profughi, espropriati di
case e beni viene ancora negata la possibilità del ritorno».

Politica (e
ingiustizia) in nome della religione

Questa problematica non è solo
limitata al Kandhamal, e il continuo accento, posto dalle istituzioni,
sull’unità e integrità del paese – a fronte di pratiche di segno opposto che
proprio la stessa politica e le stesse autorità incentivano o consentono – la
rende più evidente per contrasto.

«Fratelli e sorelle – concludeva
Medha Patkar lo scorso agosto il suo discorso in Orissa, mostrando una copia
del rapporto del Tribunale del popolo per il Kandhamal, impegnato a cercare
giustizia per le vittime – qui sono descritte le azioni che occorrerebbe
intraprendere, quali sono le leggi in base alle quali punire i criminali. La
gente non ottiene giustizia perché i politici fanno politica in nome della
religione. I cristiani sono soltanto il 3% della popolazione, i musulmani il
13%, gli adivasi il 9%. Perché i politici dovrebbero sostenerli? Quando i
partiti pensano così, il popolo non ottiene giustizia, i colpevoli non sono mai
puniti mentre innocenti finiscono in carcere per avere reclamato i propri
diritti. Perché non ci sono state indagini efficaci nel caso del Kandhamal?
Perché nessuno pone questa domanda? Questa è la mia domanda». 

Stefano Vecchia

Tags: Medha Patkar, Narenda Modi, Fondamentalismo, fondamentalismo indù, Orissa, intolleranza religiosa, persecuzioni

Stefano Vecchia




Brunei la ricca, sulla via della sharia

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 29

È uno dei più ricchi
paesi del Sud Est asiatico grazie all’esportazione di petrolio. Tra i paradisi
fiscali maggiormente «frequentati». Conta una popolazione di 400mila persone
distribuite su un territorio poco più grande del Molise. Dal 1 maggio 2014, per
tappe successive, sta riformando il proprio codice penale nella direzione della
Sharia: «Un atto di fede e gratitudine nei confronti di Allah, l’onnipotente»,
ha dichiarato il suo sultano.

Un anno fa il pacifico e benestante
sultanato del Brunei virava verso l’islamismo. Ad annunciarlo, lo stesso
Hassanal Bolkiah, sultano del paese dal 1967: «Sono grato ad Allah
l’onnipotente nell’annunciare che il 1° maggio [2014] vedrà la luce la prima
fase dell’applicazione della legge coranica».

Le regole del nuovo codice penale
saranno estese gradualmente fino a sostituire le precedenti e saranno
caratterizzate da un’inasprimento rilevante delle pene. Il «nuovo corso» di
rigida applicazione della legge coranica contrasta con il passato del paese
segnato da un’interpretazione dell’Islam più liberale, utile anche a
legittimare la ricchezza sfacciata e gli eccessi dei regnanti (è degli inizi di
aprile scorso la notizia delle sfarzose nozze del figlio del sultano, segnate
da bouquet di pietre preziose, abiti d’oro, scarpe di diamanti, ndr).

Il nuovo codice penale è uno degli
strumenti che l’oggi 68enne sovrano sta mettendo in campo, oltre alla decisione
di limitare poteri e spese proprie e dei consanguinei, per risollevare la
dignità nazionale e il livello delle casse pubbliche di un paese su cui
esercita un potere quasi assoluto.

Dopo un avvio complesso e più volte
ritardato, il controverso codice penale basato sulla Sharia ha visto finora
un’applicazione graduale con scarsi risultati.

Già in vigore da tempo, in modo
parziale, in ambito civile, a esempio quello familiare, la Sharia è ora legge
di riferimento. Sulla carta, i provvedimenti sono gli stessi, severi e arcaici,
che vengono già applicati altrove: tra essi, l’amputazione delle mani per i
ladri, la fustigazione per reati che includono aborto e uso di alcolici, la
lapidazione per adulterio e sodomia.

Le nuove regole non riguardano solo i
musulmani che rappresentano la grande maggioranza della popolazione, ma anche
la folta comunità immigrata, tra cui diversi cristiani, necessaria al
funzionamento del paese e alle necessità di aziende e famiglie.

Svolta integralista

Benché nel Brunei le manifestazioni
di dissenso verso le decisioni del sovrano e in generale delle autorità, siano
assai rare, le nuove norme hanno suscitato perplessità e proteste da parte
della popolazione sia musulmana che non: attivisti e semplici cittadini hanno
trovato su internet e nei social media strumenti di cornordinamento e
diffusione del loro disagio.

Forte il timore che la legge crei
particolare ostilità e discriminazione nei confronti dei non musulmani. A esprimerlo
sono soprattutto i cinesi, che rappresentano il 15% dei 400mila abitanti del
paese, ma anche gli immigrati, in parte di fede cristiana.

Avvicinandosi la data del 1° maggio
2014, l’Alto Commissariato Onu per i diritti umani aveva espresso «profonda
preoccupazione» per le pene previste dalle nuove norme, considerate – aveva
segnalato – alla stregua di «tortura o altri trattamenti o punizioni crudeli,
inumani e degradanti».

Con questo provvedimento, il Brunei
va ad aggiungersi all’elenco di quei paesi dotati di leggi draconiane di stampo
religioso, e si mette in una posizione disagevole tra vicini musulmani di ben
altre dimensioni e influenza (ma di minore benessere procapite), come Malesia e
Indonesia, che cercano di contrastare le pretese della politica d’ispirazione
islamista.

La fisionomia del nuovo codice penale
è stata fortemente plasmata dallo stesso sovrano Hassanal Bolkiah. Il sultano
ha specificato che l’emanazione della legge islamica era in cantiere da anni,
in discussione almeno dal 1996, e che «con l’entrata in vigore della presente
legge, adempiamo al nostro dovere verso Allah».

Hassanal, è erede di una famiglia al
potere da sei secoli, passata indenne attraverso conflitti e dominazioni
coloniali, ultima quella britannica che ha imposto un protettorato terminato
soltanto nel 1984. Proprio codici di ispirazione anglosassone avevano finora
definito delitti e pene, mentre la legge religiosa restava relegata alle
contese personali o familiari.

Con i suoi sudditi al 70% di etnia
malese, concentrati per oltre metà nella capitale Bandar Seri Begawan, e per il
resto sparsi su 5.770 chilometri quadrati di territorio, il Brunei si affaccia
su un mare ricco di petrolio e di gas, ed è tra gli stati più benestanti al
mondo con un tenore di vita elevato, sanità e istruzione gratuite. Nonostante
il benessere procapite superiore a quello di molti vicini, e nonostante
l’influenza britannica, da tempo il paese presenta una forma di Islam meno
tollerante rispetto a quello dei due partner regionali già citati, con forti
limitazioni alla presenza di fedi diverse, il bando degli alcornolici, la rigida
applicazione delle regole morali. All’apparenza è una situazione funzionale
all’immagine che la monarchia vorrebbe dare di sé, all’acquisizione di un ruolo
diverso nella regione e anche ai lucrosi rapporti con le petro-monarchie del
Golfo.

La legge e le reazioni

Le difficoltà del sultanato negli
ultimi dodici mesi, comunque, non sono solo quelle date dal dissenso interno o
da quello di carattere diplomatico, ma anche quelle relative alla scarsità di
avvocati in grado di consentire il funzionamento dei tribunali e l’approdo a
giudizi equi e legalmente ineccepibili.

Sui 103 avvocati che, a partire dal
2003, si sono qualificati e successivamente registrati per operare nell’ambito
della legislazione di ispirazione religiosa islamica, solo 16 hanno fatto
domanda di operare nei tribunali islamici. A confermarlo qualche tempo fa, il
giudice di uno di questi tribunali, Yahya Ibrahim, che ne definisce «insoddisfacente»
il numero, ancor più considerando che, in base all’Ordinanza 2013 sul Codice
penale della Sharia, agli avvocati viene chiesto di giocare un ruolo importante
nei dibattimenti a sostegno di sentenze corrette ed efficaci.

Per legge, infatti, gli avvocati
specializzati in legge coranica dovrebbero essere almeno la metà di quelli
registrati in ciascun tribunale, ha affermato Ibrahim durante la cerimonia di
consegna dei certificati ufficiali ai 26 avvocati che avevano completato la
preparazione in questa particolare branca giuridica. Il giudice ha anche
suggerito una seria indagine sulle ragioni per cui essere un avvocato
specializzato nella Sharia sembra al momento poco appetibile per i
professionisti.

Nel loro complesso, le nuove pene,
indicate dal sultano come una «barriera contro negativi influssi estei», sono
state salutate con grande scetticismo e, per la prima volta, come già scritto,
da una vera e propria ondata di proteste attraverso i social media.

Non a caso, recentemente il sultano
ha parlato della monarchia islamica come di un «firewall (il “muro
tagliafuoco” che difende una rete informatica da attacchi estei, ndr.)
contro la globalizzazione». Certamente dedita al controllo dei sudditi, tanto
che, al primo manifestarsi di voci dissidenti riguardo l’introduzione piena
della Sharia, ha avvertito, tramite un messaggio consegnato ai media ufficiali:
«I nostri denigratori non possono continuare con questi insulti. Se ci sono
elementi che consentiranno di portarli in tribunale, allora la prima fase di
attuazione del codice penale islamico avrà un’applicazione certa nei loro
confronti». Non viene specificato chi siano i destinatari del messaggio, i «denigratori»,
ma in un paese in cui i mezzi di comunicazione tradizionali sono strettamente
regolamentati e dove la presenza di inteauti è invece tra le più alte in
Asia, è probabile che nel mirino ci fossero proprio la grande rete e i suoi
strumenti. Infatti proprio su blog e social network cresce la
preoccupazione verso le nuovo norme. Come riportato in uno dei molti posts:
«Fa davvero paura la possibilità di essere lapidati a morte per essere amanti o
multati per diversità sessuale oppure essere puniti per un abbigliamento non
considerato conforme alla morale».

Morale dinastica

Se la levata di scudi contro il
provvedimento ha mostrato quanto poco esso sia sentito come funzionale alla
propria vita dalla popolazione autoctona o immigrata, resta da chiarire quali
siamo le vere ragioni dietro l’introduzione nella versione più severa (almeno
sulla carta) del codice penale islamico. Dalla varietà delle analisi in
proposito, emergono tre punti di convergenza.

Il primo è quello dell’identità nazionale, strettamente legata a quella della sua monarchia. Il passato ha
dimostrato la fragilità del sultanato davanti a potenze straniere. Se tra il XV
e il XVII secolo era stato al centro di un dominio esteso dal Boeo alle
Filippine, ai giapponesi occorse una settimana per conquistarlo durante la
Seconda guerra mondiale. Una fragilità che resta caratteristica del paese anche
oggi. Da qui la necessità di rafforzare (primo tra i paesi dell’area con questa
radicalità) l’identità nazionale attraverso l’ideologia di una «monarchia
islamica malese». Hassanal Bolkiah, al potere dal 1967, noto per disporre,
almeno in passato, di harem rigogliosi nel suo palazzo di 1700 stanze, ha
deciso di cambiare drasticamente l’immagine del suo regno e la propria,
puntando sull’islamizzazione non più solo di facciata.

Secondo punto da considerare è che
l’applicazione severa della Sharia fornisce al sultano – il quale è leader sia
temporale che spirituale – un nuovo potere di controllo in un sistema
che presenta crescenti segnali di disagio. Per questo motivo i gruppi e gli
individui che già prima lamentavano poca libertà e diritti, temono un ulteriore
peggioramento, in contrasto con le loro richieste di maggiore apertura
ideologica e culturale. La gran parte dei cittadini è infatti impiegata nel
settore pubblico, ma al livello di preparazione dei giovani non corrisponde un’adeguata
disponibilità di posti di lavoro qualificati, cosa che determina una
disoccupazione limitata ma in crescita. Il fenomeno è causa di una maggiore
disaffezione al proprio paese nelle fasce d’età inferiori che cercano in
attività come l’uso intensivo del web, il vandalismo, l’uso di anfetamine e la
microcriminalità, alternative alla noia e alla demotivazione. Una situazione
che il sultano ha addebitato a negative influenze estee e a un’adesione solo
parziale al dettato coranico che va rettificata.

Terzo punto, quello economico-diplomatico,
per molti centrale. La legge in vigore, per un biennio in fase transitoria,
consentirà infatti al Brunei di diventare il centro della finanza e del sistema
creditizio islamico nella regione, accogliendo anche maggiori investimenti
dalle economie islamiche, con una differenziazione maggiore di attori e
tipologie d’impresa. Con una svolta netta rispetto alla sua finora quasi
completa dipendenza dalle risorse petrolifere, esportate soprattutto in
Giappone e Corea del Sud, il paese ha deciso di sfruttare le prospettive di
crescita dell’economia islamica globale. Questa, che un rapporto di Thomson
Reuters
stima in un potenziale del valore di 5.000 miliardi di dollari, in
parte consistente dovrebbe convergere sul Sud Est asiatico, sull’Indonesia e la
Malesia.

Una situazione di cui il sultanato,
che punta a diventare una «Singapore musulmana», vuole approfittare dandosi più
salde radici islamiche, un sistema penale e civile consequenziale e strutture
finanziarie-economiche basate sul diritto religioso per attrarre iniziative e
investimenti da Medio Oriente e Asia occidentale.

Una scommessa per il futuro che
potrebbe farlo diventare, suo malgrado, un centro di diffusione dell’ideologia
integralista di matrice araba, e un santuario finanziario per gruppi jihadisti
globali nel cuore dell’Asia.

Stefano Vecchia

Tag: Sharia, Sultanato, Libertà religiosa, Paradiso fiscale, Petrolio

Stefano Vecchia




La laicità che allarga le opportunità

Riflessioni e fatti
sulla libertà religiosa nel mondo – 28

Oggi l’Italia è un
paese multiculturale e multireligioso, molto diverso da quello che esisteva
soltanto alcuni decenni fa. Benché il diritto alla libertà religiosa sia
sancito dalla Costituzione, nel mosaico legislativo italiano mancano ancora
diversi tasselli. Uno fra tanti, ad esempio, è quello dell’intesa con l’Islam.
In attesa di una legge generale che, anno dopo anno, diventa sempre più ineludibile.

 


L’opinione comune è che in Italia non
esistano veri problemi all’esercizio della libertà religiosa. Essa, del resto, è
tra i diritti più tutelati. Ne parla la Costituzione, direttamente in ben
cinque articoli (3, 7, 8, 19 e 20) e indirettamente in altri quattro (2, 17, 18
e 21). La Corte costituzionale è stata chiamata in molte occasioni a garantie
il rispetto.

Perché dunque occuparsene?

Come emerge dalle interviste
pubblicate nei numeri precedenti di MC (si vedano i n. 1/2, 3 e 4 del 2015, ndr.),
la questione non è affatto risolta. C’è, sì, quanto prevede la Costituzione, ma
i suoi principi non sono ancora attuati del tutto e per tutti.

È tuttora in vigore la legge del ’29,
promulgata dunque durante il fascismo, che definiva la Chiesa cattolica come
religione dello stato riservando alle altre confessioni religiose la condizione
di «culti ammessi». Superato il fascismo e approvata la Costituzione
repubblicana, questa legge non era più sostenibile. La Carta fondamentale dello
stato riconosce infatti ai cittadini piena uguaglianza di fronte alla legge,
indipendentemente da sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche,
condizioni personali e sociali (art. 3). Tuttavia sono occorsi diversi anni per
arrivare alla revisione del concordato tra la Chiesa cattolica e lo stato
italiano che, nel 1984, ha reso possibile superare ogni prospettiva
confessionale, eliminando appunto il principio del Cattolicesimo come religione
dello Stato.

Il ruolo del Concilio

Si è giunti a tanto anche grazie al
Concilio Vaticano II, che ha una grande importanza per quanto riguarda la
libertà religiosa. In esso, infatti, la Chiesa ha proclamato «il diritto della
persona umana e delle comunità alla libertà sociale e civile in materia di
religione» (Dignitatis Humanae), ha rilanciato l’ecumenismo, dichiarando
come uno dei principali compiti «promuovere il ristabilimento dell’unità tra
tutti i cristiani» (Unitatis Redintegratio) e promosso il dialogo
interreligioso (dichiarazione Nostra Aetate sulle relazioni con le
religioni non cristiane).

Grazie al Concilio si è diffusa nella
Chiesa italiana una nuova sensibilità ai valori della libertà religiosa che ha
permesso, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, di iniziare il cammino
della revisione concordataria concluso poi nel 1984 con la stipula del nuovo
concordato con lo stato italiano.

Il mosaico incompleto delle
intese

Sull’onda di
questo risultato si è aperta la «stagione delle intese», dando così attuazione
all’art. 8 della Costituzione, che le prevede ma che era rimasto fino ad allora
disatteso. Le intese, secondo la Costituzione, hanno il compito di
regolamentare i rapporti reciproci tra lo stato e le varie confessioni
religiose. La prima è stata siglata con i Valdesi proprio nel 1984. Negli anni
successivi sono state raggiunte intese con altre 11 confessioni. Dieci sono
state poi recepite nell’ordinamento giuridico italiano da apposite leggi,
necessarie per renderle pienamente operanti. Per una, quella con i Testimoni di
Geova, l’approvazione per legge non è ancora avvenuta.

In Italia,
insomma, si sta procedendo molto pragmaticamente per regolamentare la libertà
religiosa, costruendo una sorta di mosaico, di cui ogni nuova intesa
rappresenta un tassello, che tuttavia non è ancora concluso. Si tratta di
un’opera notevole e preziosa per rispondere alla geografia religiosa del nostro
paese, profondamente mutata nel corso del tempo anche per effetto dei flussi
migratori. Oggi infatti l’Italia è un paese multiculturale e multireligioso,
molto diverso da quello che esisteva soltanto alcuni decenni fa. Rimangono
aperti tuttavia problemi notevoli. Con l’Islam, ad esempio, non è ancora stato
possibile raggiungere alcuna intesa, soprattutto perché risulta difficile
individuare interlocutori in grado di rappresentare l’intera comunità islamica.
Si può comprendere quanto sia manchevole e fonte di problemi questa situazione
se si pensa che la questione non sta nel «concedere diritti» (che esistono già,
in quanto, appunto, sanciti dalla Costituzione e dalle leggi), ma
nell’integrare pienamente anche questa religione nell’ordinamento
costituzionale e giuridico del nostro paese: il che significa riconoscee i diritti
– tra cui quello ai luoghi di culto, spesso messo in discussione o addirittura
negato nei fatti ricorrendo a espedienti e cavilli: come non dimenticare la «guerra
delle moschee» che si è avuta negli anni scorsi in diverse città? – ma anche
definie i doveri verso la comunità nazionale in cui essa vive.

Tentativi a vuoto

Molti problemi sarebbero risolti se
si arrivasse ad approvare una legge generale che sostituisca definitivamente
quella del 1929.

È dal 1990 che il parlamento prova a
realizzarla, senza riuscirci: cosa che sorprende ancora di più se si comparano
tra loro i vari disegni di legge via via presentati dalle maggioranze che in
questi 25 anni si sono alternate in Parlamento. Essi, infatti, non sono molto
diversi tra loro nelle questioni fondamentali.

Perché allora un tale ritardo? Quasi
tutti riconoscono che una legge generale sulla libertà religiosa è necessaria.
L’ultimo tentativo per approvarla è stato compiuto nella XVI legislatura con la
«proposta Zaccaria» (vedi Mc aprile 2015, ndr.). Nella seduta del 24
luglio 2007 essa è stata «sepolta» sotto una montagna di emendamenti e si è
arenata, senza riuscire ad arrivare al voto.

Il motivo principale è stato il
rifiuto di molti del riferimento, contenuto nell’articolo 1, alla laicità dello
stato, così come definita dalla Costituzione, quale fondamento della legge che
si presentava al Parlamento. Nella Commissione affari costituzionali di
Montecitorio sono risuonate parole di sorpresa e commenti sdegnati, soprattutto
dai banchi del centrodestra. Qualcuno ha sostenuto che parlare di laicità come
fondamento della legge fosse in contrasto con la Costituzione e col principio
della libertà religiosa, qualcun altro ha affermato che fosse «pleonastico e provocatorio»
il parlarne in una proposta di legge che riguardava scelte da assumere «sul
versante della religione», altri ancora che stabilire «un principio di laicità
al quale deve essere data attuazione nelle leggi dello stato» costituisse «uno
strumento certamente rivoluzionario e certamente difforme dalla logica
costituzionale».

È evidente che si è trattato di
fraintendimenti del concetto di laicità e anche di scarsa conoscenza del
significato che essa ha nella Costituzione del nostro paese. Anche questo può
aiutare a capire come mai il parlamento non riesca ad approvare una legge
generale sulla libertà religiosa.

L’imprescindibile concetto
di laicità della Stato

Non è possibile che una legge
riguardante questa materia prescinda dal principio della laicità dello Stato,
cioè dal fatto che esso non si identifica, né ha una posizione di favore, nei
confronti di alcuna religione. Lo stato è neutrale nei confronti della
religione, e proprio per questo può e deve assicurare agli individui e ai
gruppi la libertà di professare il proprio credo (o di non credere) e garantire
che non subiscano per questo motivo alcuna discriminazione.

La Corte costituzionale, con una
sentenza molto importante (n. 203 del 12 aprile 1989), ha chiarito la portata e
il significato della laicità secondo l’ordinamento italiano. Proprio
riferendosi al nuovo Concordato del 1984, essa ha sostenuto che laicità non
significa indifferenza dello stato dinanzi alle religioni. Al contrario,
costituisce la garanzia che esso, in un regime di pluralismo confessionale e
culturale, intervenga a salvaguardare la libertà di religione di tutti. Ma la
parte forse più significativa della sentenza sta nel riconoscimento che il
nuovo Concordato realizza pienamente la laicità prevista dalla Costituzione.
Infatti il dibattutissimo articolo 7, che attribuisce alla Chiesa cattolica una
condizione del tutto particolare, definita appunto da un concordato, appartiene
alle disposizioni che danno sostanza al principio della laicità dello Stato.

Insomma, è importante rilevare che la
laicità definita dalla Costituzione italiana non stabilisce la separazione
rigida tra lo stato e le religioni come fanno, sia pure con modalità molto
diverse tra loro, quella degli Stati Uniti d’America e della Francia. Per lo
stato italiano la secolarizzazione crescente della società non riduce
l’incidenza della religione o l’esigenza di religiosità delle persone. Il
principio di laicità, inoltre, riconosce l’eguale dignità delle diverse fedi
religiose, andando oltre il semplice principio della tolleranza. E questa è
l’architrave di una effettiva garanzia della libertà religiosa. Ma, e questo è
altrettanto importante, la stessa sentenza riconosce che la pari dignità di
tutte le confessioni convive, per ragioni storiche e culturali che l’ordinamento
costituzionale permette di riconoscere, con uno speciale regime a vantaggio del
cattolicesimo. È una situazione presente anche in altri paesi europei. A una
disciplina di natura generale della religione si affianca una disciplina
speciale.

Per un verso, insomma, si fanno leggi
valide per tutte le religioni, per un altro si ammette un regime bilaterale che
regola, sulla base del concordato, la condizione giuridica del cattolicesimo.
La laicità dello stato italiano, dunque, ha un carattere intermedio rispetto ai
modelli statunitense e francese. Si tratta di una «laicità aperta», in base
alla quale viene garantita la separazione dello stato dalle chiese, ma non
dalla religione. Viene riconosciuta la libertà religiosa e l’eguaglianza di
tutte le confessioni religiose ma anche il «patrimonio storico» del
cattolicesimo. Lo stato non fa propri i principi appartenenti alla sfera
religiosa, rendendoli obbligatori e vincolanti per i suoi cittadini, ma
contemporaneamente garantisce un’apertura dello spazio pubblico ai valori
religiosi. Si tratta, in altri termini, di un atteggiamento che, nei confronti
del fenomeno religioso, affida allo stato il compito non solo di evitare
discriminazioni e di tutelare il pluralismo, ma anche di allargare le
opportunità. La neutralità dello stato si identifica con il rispetto per
l’eguale dignità di tutte le credenze religiose e, naturalmente, anche della
mancanza di ogni credenza.

Riferirsi al «principio di laicità»
nel definire una legge sulla libertà religiosa non deve dunque costituire un
ostacolo alla sua approvazione.

Una necessità reale e
impellente

Risulta chiaro, comunque, che ancora
molto resta da fare. Una regolamentazione tuttavia è indispensabile. Infatti
l’esigenza di assicurare la libertà religiosa si presenta in molteplici
situazioni che fanno parte della vita ordinaria delle persone, come
l’alimentazione, la sepoltura, il matrimonio, l’educazione scolastica, il
lavoro, il ricovero nei luoghi di cura. Ma vanno regolamentati anche il rispetto
delle festività religiose, la disponibilità e la tutela degli edifici di culto,
il libero esercizio dell’attività dei ministri di culto, l’assistenza
spirituale ai carcerati, i rapporti con le pubbliche amministrazioni,
l’appartenenza alle forze armate. Non si tratta di questioni formali o
astratte. Per darvi risposta si può procedere «pragmaticamente» seguendo la
strada delle intese. Ma si deve essere consapevoli che il risultato sarà
ottenuto pienamente solo quando il «mosaico» sarà completato, cioè quando si
arriverà a un quadro legislativo generale delle condizioni che rendono
effettiva la libertà religiosa, eliminando ogni discriminazione in questo
ambito. È una necessità reale e impellente, che sarà soddisfatta solo se
governo e parlamento riusciranno finalmente a superare il limite da più parti
evidenziato, della mancanza nella storia recente del nostro paese di una
consapevole e organica politica ecclesiastica.

Paolo Bertezzolo

Tags: patti lateranensi, concordato, concilio vaticano II, laicità della stato, legge, libertà religiosa, intese

Paolo Bertezzolo