Fratelli tutti: per un mondo senza scartati

testo di Francesco Gesualdi |


A ottobre 2020, è uscita la terza enciclica di papa Francesco. Tratta di convivenza e fratellanza. Visto che la qualità dell’esistenza dipende anche dall’economia, il pontefice ne esamina le problematiche. Facendo critiche precise e proponendo soluzioni.

Fratelli tutti: è questo il titolo dell’ultima enciclica di papa Francesco che ha un obiettivo, una motivazione e una strategia. L’obiettivo è quello di sollecitarci a costruire un mondo fraterno senza scartati. La motivazione è la convinzione, condivisa anche con il grande imam Ahmad Al-Tayyeb, secondo la quale Dio «ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro». La strategia è il dialogo.

Economia e povertà

L’enciclica si apre con un’analisi della situazione che, oltre a concentrarsi su aspetti morali, culturali e sociali, inevitabilmente comprende anche aspetti economici, perché la qualità della nostra esistenza dipende in gran parte da come l’economia è organizzata. L’enciclica lo dice chiaramente: «Persistono oggi nel mondo numerose forme di ingiustizia, nutrite da visioni antropologiche riduttive e da un modello economico fondato sul profitto, che non esita a sfruttare, a scartare e perfino ad uccidere l’uomo. Mentre una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati o violati». E precisa: «Questo scarto si manifesta in molti modi, come nell’ossessione di ridurre i costi del lavoro, senza rendersi conto delle gravi conseguenze che ciò provoca, perché la disoccupazione che si produce ha come effetto diretto di allargare i confini della povertà. […] Ci sono regole economiche che sono risultate efficaci per la crescita, ma non altrettanto per lo sviluppo umano integrale. È aumentata la ricchezza, ma senza equità, e così ciò che accade è che nascono nuove povertà».

La proprietà privata

Tra i fondamentali capitalistici che papa Francesco torna a mettere in discussione c’è il primato della proprietà privata. Una puntualizzazione che conviene riportare in maniera integrale, perché su questo tema, dentro la Chiesa, ci sono ancora troppe ambiguità: «Il mondo esiste per tutti, perché tutti noi esseri umani nasciamo su questa terra con la stessa dignità. Le differenze di colore, religione, capacità, luogo di origine, luogo di residenza e tante altre non si possono anteporre o utilizzare per giustificare i privilegi di alcuni a scapito dei diritti di tutti. Di conseguenza, come comunità siamo tenuti a garantire che ogni persona viva con dignità e abbia opportunità adeguate al suo sviluppo integrale. Nei primi secoli della fede cristiana, diversi sapienti hanno sviluppato un senso universale nella loro riflessione sulla destinazione comune dei beni creati. Ciò conduceva a pensare che, se qualcuno non ha il necessario per vivere con dignità, è perché un altro se ne sta appropriando. Lo riassume San Giovanni Crisostomo dicendo che “non dare ai poveri parte dei propri beni è rubare ai poveri, è privarli della loro stessa vita; e quanto possediamo non è nostro, ma loro”. Come pure queste parole di San Gregorio Magno: “Quando distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba nostra ma restituiamo loro ciò che ad essi appartiene”. Di nuovo faccio mie e propongo a tutti alcune parole di San Giovanni Paolo II, la cui forza non è stata forse compresa: “Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno”. In questa linea ricordo che “la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata”. Il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il “primo principio di tutto l’ordinamento etico sociale”, è un diritto naturale, originario e prioritario. Tutti gli altri diritti sui beni necessari alla realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della proprietà privata e qualunque altro, “non devono quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione”, come affermava San Paolo VI. Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società».

Il mercato

Parole altrettanto chiare sono riservate al mercato: «Qualcuno pretendeva di farci credere che bastava la libertà di mercato perché tutto si potesse considerare sicuro […]. Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si presenti». E facendo riferimento alla così detta teoria del trickledown, dello sgocciolamento, secondo la quale se si accresce la ricchezza prodotta – non importa cosa, né in quali condizioni, né a vantaggio di chi -, qualcosa arriverà anche ai poveri in virtù del fatto che i ricchi richiederanno un numero di servitori sempre più ampio, il papa aggiunge: «Il neoliberismo riproduce sé stesso tale e quale, ricorrendo alla magica teoria del “traboccamento” (sgocciolamento) – senza nominarla – come unica via per risolvere i problemi sociali. Non ci si accorge che il presunto traboccamento non risolve l’inequità, la quale è fonte di nuove forme di violenza che minacciano il tessuto sociale. Da una parte è indispensabile una politica economica attiva, orientata a “promuovere un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale”, perché sia possibile aumentare i posti di lavoro invece di ridurli. La speculazione finanziaria con il guadagno facile come scopo fondamentale continua a fare strage. D’altra parte, senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare».

Per papa Francesco, dunque, la soluzione risiede nella solidarietà e nella gratuità, principi da vivere ad ogni livello, da quello interpersonale e di quartiere fino a quello statale: «Alcuni nascono in famiglie di buone condizioni economiche, ricevono una buona educazione, crescono ben nutriti, o possiedono naturalmente capacità notevoli. Essi sicuramente non avranno bisogno di uno stato attivo e chiederanno solo libertà. Ma evidentemente non vale la stessa regola per una persona disabile, per chi è nato in una casa misera, per chi è cresciuto con un’educazione di bassa qualità e con scarse possibilità di curare come si deve le proprie malattie. Se la società si regge primariamente sui criteri della libertà di mercato e dell’efficienza, non c’è posto per costoro, e la fraternità sarà tutt’al più un’espressione romantica».

Le migrazioni

L’enciclica non rinuncia ad affrontare anche un altro tema su cui oggi c’è grande fermento: come orientarsi fra locale e globale? Prendendo come riferimento il «vicinato» papa Francesco indica la dimensione regionale, intesa come dimensione continentale, come livello ottimale di collaborazione economica, mettendo in guardia dall’interesse che le grandi potenze hanno a impedire che i paesi poveri stringano alleanze fra loro: «Ci sono paesi potenti e grandi imprese che traggono profitto da questo isolamento e preferiscono trattare con ciascun paese separatamente. Al contrario, per i paesi piccoli o poveri si apre la possibilità di raggiungere accordi regionali con i vicini, che permettano loro di trattare in blocco ed evitare di diventare segmenti marginali e dipendenti dalle grandi potenze. Oggi nessuno stato nazionale isolato è in grado di assicurare il bene comune della propria popolazione».

Un’enciclica dedicata alla fratellanza non poteva certo ignorare il tema delle migrazioni a cui dedica un intero capitolo. E dopo avere sottolineato come i migranti contribuiscano all’arricchimento umano e culturale della società, papa Francesco sente il bisogno di sgomberare il campo dal rischio che il tema sia valutato solo in termini di convenienza. Per cui afferma senza mezzi termini che la stella polare deve essere la gratuità: «Tuttavia, non vorrei ridurre questa impostazione a una qualche forma di utilitarismo. Esiste la gratuità. È la capacità di fare alcune cose per il solo fatto che di per sé sono buone, senza sperare di ricavarne alcun risultato, senza aspettarsi immediatamente qualcosa in cambio. Ciò permette di accogliere lo straniero, anche se al momento non porta un beneficio tangibile».

La nuova politica

La sintesi del pensiero di papa Francesco è che «dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno». Ma «per rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, è necessaria la migliore politica, posta al servizio del vero bene comune». Una politica, cioè, che non sia sottomessa all’economia. E una delle vie intraviste da papa Francesco per ottenere una nuova politica è la nascita di una nuova cultura che si può ottenere solo attraverso il dialogo. «Il dialogo tra le generazioni, il dialogo nel popolo, perché tutti siamo popolo, la capacità di dare e ricevere, rimanendo aperti alla verità. Un paese cresce quando dialogano in modo costruttivo le sue diverse ricchezze culturali: la cultura popolare, la cultura universitaria, la cultura giovanile, la cultura artistica e la cultura tecnologica, la cultura economica e la cultura della famiglia, e la cultura dei media». E in particolare, dialogo con i movimenti popolari, definiti da papa Francesco come «poeti sociali, che a modo loro lavorano, propongono, promuovono e liberano. Con essi sarà possibile uno sviluppo umano integrale, che richiede di superare «quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli. Benché diano fastidio, benché alcuni “pensatori” non sappiano come classificarli, bisogna avere il coraggio di riconoscere che senza di loro la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino».

Dialogo e lotta

Il dialogo sollecitato da papa Francesco è verso tutti e in forma gentile. «La pratica della gentilezza non è un particolare secondario né un atteggiamento superficiale o borghese. Dal momento che presuppone stima e rispetto, quando si fa cultura in una società, trasforma profondamente lo stile di vita, i rapporti sociali, il modo di dibattere e di confrontare le idee. Facilita la ricerca di consensi e apre strade là dove l’esasperazione distrugge tutti i ponti».  Nel contempo papa Francesco ci tiene a precisare che dialogo non significa rinuncia al conflitto se serve a fare trionfare i diritti: «Non si tratta di proporre un perdono rinunciando ai propri diritti davanti a un potente corrotto, a un criminale o a qualcuno che degrada la nostra dignità. Siamo chiamati ad amare tutti, senza eccezioni, però amare un oppressore non significa consentire che continui ad essere tale; e neppure fargli pensare che ciò che fa è accettabile. Al contrario, il modo buono di amarlo è cercare in vari modi di farlo smettere di opprimere, è togliergli quel potere che non sa usare e che lo deforma come essere umano. Perdonare non vuol dire permettere che continuino a calpestare la dignità propria e altrui, o lasciare che un criminale continui a delinquere. Chi patisce ingiustizia deve difendere con forza i diritti suoi e della sua famiglia, proprio perché deve custodire la dignità che gli è stata data, una dignità che Dio ama».

Francesco Gesualdi




Brevetti farmaceutici:

soldi pubblici, profitti privati

testo di Francesco Gesualdi |


Nati per proteggere i diritti degli inventori, i brevetti sono particolarmente odiosi quando riguardano i farmaci. La ricerca costa, ma è anche vero che spesso essa viene finanziata con denaro pubblico, come sta avvenendo per i vaccini contro il Covid-19.

La pandemia da Covid ha riacceso la discussione attorno ai brevetti farmaceutici, cosa che succede ogni volta che scoppia un’emergenza sanitaria. Successe nel 1997 quando ci fu l’emergenza Aids, nel 2013 quando scoppiò l’infezione da Ebola e succede oggi che siamo assediati dal Coronavirus.

Il brevetto è una protezione accordata dall’autorità pubblica agli inventori, per impedire che altri possano usare le loro invenzioni senza permesso e senza aver pagato un prezzo per il loro uso.

Si narra che il primo brevetto sia stato rilasciato in Inghilterra nel 1449 dal re Enrico IV a favore di tale John of Utynam, un produttore di vetro di origine fiamminga. L’attestato reale gli assicurava il diritto di produrre in esclusiva, per la durata di venti anni, il vetro speciale di sua invenzione. In quello stesso periodo, in tutta Europa la scienza muoveva i primi passi e le richieste di protezione si moltiplicarono. Fra il 1561 e il 1590 la regina Elisabetta I rilasciò una cinquantina di brevetti permettendo ai beneficiari di detenere il monopolio produttivo di prodotti come sapone, pellame, tessuti, metalli, carta. Ma la protezione non era gratuita e, pur di incassare, la Corona rilasciava brevetti anche a impostori che non avevano inventato proprio nulla di nuovo. Ne venne fuori un mezzo scandalo che, nel 1624, spinse il Parlamento inglese a mettere ordine nella materia emanando un’apposita legge sui brevetti. Nel 1790 fu la volta degli Stati Uniti e in breve di tutti gli altri paesi industrializzati che, a loro volta, si dotarono di una legislazione a tutela delle invenzioni. Ma le protezioni accordate avevano validità solo all’interno dei confini nazionali, per cui non scongiuravano il rischio che le invenzioni potessero essere copiate da soggetti esteri. Nel 1873 questa paura divenne così dilagante da mandare deserta la più importante fiera internazionale delle invenzioni che si teneva a Vienna. Tanto che nel 1883 i governi degli undici paesi più industrializzati si ritrovarono a Parigi con l’intento di formare un’area di protezione comune, all’interno della quale i brevetti rilasciati in un qualsiasi paese firmatario valessero anche negli altri. L’accordo, che prese il nome di Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale, prevedeva anche l’istituzione di un organismo di vigilanza denominato Birpi, Ufficio internazionale per la protezione intellettuale. Nel 1967 il Birpi venne soppresso e sostituito con la Wipo, Organizzazione mondiale per la protezione intellettuale, elevata addirittura al rango di Agenzia speciale delle Nazioni unite.

L’istituzione della Wipo fu il primo passo per estendere la protezione della proprietà intellettuale, ossia delle invenzioni e delle scoperte scientifiche, a livello mondiale. Fino ad allora tale problema non era sentito perché il mondo industrializzato era circoscritto a una manciata di paesi, collettivamente definiti Nord del mondo, che già avevano adottato regole comuni.

I brevetti ai tempi della globalizzazione

Col passare degli anni, altri paesi del cosiddetto Sud del mondo, in particolare Brasile, Argentina, India, Cina, Sudafrica, cominciarono a sviluppare il proprio apparato produttivo e fra le imprese del vecchio mondo industrializzato tornò la paura di essere derubate delle proprie invenzioni. Così sorse il problema di come obbligare anche i paesi del Sud ad adottare le stesse regole di protezione di proprietà intellettuale che il Nord applicava già da decenni. L’occasione si presentò a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, quando lo sviluppo dei trasporti e delle nuove tecnologie di comunicazione avevano intensificato gli interscambi planetari a tal punto che tutti i paesi si erano convinti della necessità di facilitare ulteriormente l’integrazione economica mondiale. Insomma tutti pensavano che fosse conveniente per ognuno aprirsi ai rapporti con gli altri, ma per riuscirci bisognava rendere i confini più porosi. Nasceva la globalizzazione che fondamentalmente chiedeva alle nazioni di tutto il mondo di ridurre al minimo i dazi doganali e di abbassare il più possibile le regole di carattere ambientale, sanitario, sociale, in modo da creare meno ostacoli possibile al fluire di merci, capitali e processi produttivi. In tutti gli ambiti fuorché uno: quello dei brevetti per i quali si chiedeva l’innalzamento di barriere protettive.

La costruzione di un mondo pensato più per merci, capitali e interessi industriali che per le persone, esigeva l’adozione di una serie di nuove regole che richiese un intero decennio di trattative internazionali sui temi più disparati. Fra essi quello relativo alla protezione della proprietà intellettuale per il quale venne costituito un apposito tavolo che, alla fine, partorì un accordo denominato Trips, Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale, richiamato come fonte giuridica. Detto accordo comparve in bella mostra fra i sei trattati posti a fondamento   della nuova architettura commerciale internazionale, supervisionata da un nuovo organismo che debuttò nel 1994, sotto il nome di Organizzazione mondiale del commercio (Omc, Wto per dirla all’inglese).

«La ricerca costa»

Nel Sud del mondo, uno degli ambiti dove più si sentirono gli effetti negativi del giro di vite operato sui brevetti, fu quello farmaceutico. Fino ad allora vi erano stati paesi, fra cui India, Brasile, perfino Thailandia, dove l’assenza di obblighi di licenza verso i soggetti esteri proprietari delle formule aveva permesso il fiorire di un’industria farmaceutica locale che produceva farmaci a prezzi molto più bassi di quelli commercializzati dalle imprese proprietarie dei brevetti. La spiegazione fornita dalle grandi case farmaceutiche a giustificazione degli alti prezzi di vendita applicati sui propri prodotti è che la ricerca costa, a volte anche molto, mentre il tempo a  disposizione per recuperare i soldi investiti non va oltre i venti anni. Periodo dopo il quale ogni formula può essere usata liberamente dando luogo ai così detti farmaci generici. Considerato l’alto tasso di segretezza che avvolge le imprese, i conti nelle loro tasche non si possono fare, ma un aspetto che le case farmaceutiche evitano sempre di raccontare è quanto vale la compartecipazione dei soggetti pubblici sotto forma di contributi in denaro o di pezzi di ricerca eseguiti nelle università pubbliche. A tale proposito ci viene in aiuto un’indagine Ocse, secondo la quale  la spesa complessiva per ricerca farmaceutica e sanitaria nei trenta paesi più industrializzati nel 2014 ammontava a 151 miliardi di euro, di cui 100 sostenuti dalle imprese e 51 dai governi. Venendo al presente, il solo governo degli Stati Uniti ha erogato circa 10 miliardi di dollari a fondo perduto a favore di sette imprese farmaceutiche impegnate nella messa a punto di vaccini anti-Covid. Ricevere soldi pubblici e poi imporre prezzi salati è però cosa indecente. Meglio sarebbe che la ricerca per la cura delle malattie fosse sostenuta interamente dagli istituti pubblici e messa a disposizione gratuitamente a tutti, salvo coprire le spese con l’innalzamento delle imposte sui redditi d’impresa. La trasformazione del sapere in bene comune è l’unico modo per sbarazzarsi dei brevetti che creano disuguaglianza e gettano nella disperazione i più poveri.

La battaglia del Sudafrica di Mandela

Il primo paese a portare l’attenzione su quanto i brevetti possano essere devastanti per le popolazioni dei paesi più poveri, fu il Sudafrica che nel 1997 si trovò a fronteggiare una grave crisi da Aids. Gli unici farmaci antiretrovirali contro l’Hiv circolanti nel paese erano quelli prodotti dalle grandi multinazionali detentrici delle formule, che sperimentavano quanto fosse più lucroso essere padroni del mercato piuttosto che concedere licenze. A rimetterci erano i malati che avrebbero dovuto lavorare un anno di fila per poter sostenere la cura di un solo mese. A quei prezzi, neppure il governo era in grado di procurarsi tutte le dosi che servivano per curare le centinaia di migliaia di malati presenti nel paese. Eppure, c’erano nazioni che non avendo ancora applicato il trattato sulla protezione della proprietà intellettuale producevano quegli stessi farmaci a costi molto più bassi.

Perciò Mandela, che all’epoca guidava il Sudafrica, autorizzò l’importazione parallela dei farmaci anti Hiv da paesi come l’India e il Brasile. La reazione delle case farmaceutiche fu immediata e, invocando la violazione di tutte le regole a protezione dei brevetti, dichiararono di voler dare battaglia in tutte le sedi possibili: dai tribunali locali al gran giurì dell’Organizzazione mondiale del commercio. Fortunatamente ci fu una grande sollevazione della società civile che provocò una tale indignazione a livello mondiale da indurre le multinazionali a ritirarsi da tutte le iniziative giudiziarie da loro avviate. Tuttavia, il caso aveva fatto scuola e vari paesi del Sud del mondo pretesero che l’Organizzazione mondiale del commercio dichiarasse nero su bianco che le emergenze sanitarie sono motivazioni sufficienti per sospendere le regole a protezione dei brevetti.

Emergenza Covid-19

Nel 2003 una nota del Consiglio generale dell’Omc precisava tre punti fondamentali. Primo: le regole sulla proprietà intellettuale non possono e non devono essere di impedimento alla tutela della salute pubblica. Secondo: in caso di bisogno, i paesi in emergenza possono autorizzare al proprio interno la produzione dei farmaci necessari a fronteggiare la crisi, pur in assenza di licenza da parte dei detentori dei brevetti, purché venga pagato un indennizzo. Terzo: se nel paese in emergenza non esistono le condizioni industriali per produrre i farmaci che servono, essi possono essere importati dai paesi che, per le ragioni più varie, producono i farmaci senza licenza e, quindi, a basso prezzo.

Nonostante l’esistenza di tali salvaguardie, il 2 ottobre 2020 India e Sudafrica* si sono rivolti agli organi di governo dell’Omc per richiedere la momentanea sospensione del trattato sulla protezione della proprietà intellettuale sostenendo che è di ostacolo alla possibilità di procurarsi, con rapidità ed economicità, tutto ciò che serve per far fronte alla pandemia da Covid-19: dalle mascherine ai ventilatori, dai kit diagnostici ai farmaci antivirali, dai disinfettanti ai vaccini. Il 16 ottobre la richiesta è stata discussa all’interno del Consiglio di vigilanza del trattato, ma nessuna decisione è stata presa. Si è semplicemente preso atto che i paesi presenti erano divisi in tre gruppi: i più poveri favorevoli alla richiesta, quelli a reddito medio con richieste di chiarimenti e i più ricchi contrari. Segno di quanto sia ancora forte la sudditanza della politica nei confronti delle imprese. Una situazione che pone non solo problemi di etica, ma anche di democrazia.

 Francesco Gesualdi

Farmaci e vaccini: come ci si regolerà per il Covid-19? Foto Myriams Fotos – Pixabay.




Se è vendibile, appartiene al mercato

testo di Francesco Gesuladi |


Ci sono due logiche: una liberista e una solidaristica. La prima guarda al profitto, la seconda alla dignità delle persone. Per quest’ultima sono nati i diritti umani e lo stato sociale. Uno stato, però, che diventa sempre più ristretto. Come dimostrato, in Italia, dalla vicenda dell’acqua.

Nella logica liberista la separazione dei compiti fra mercato ed economia pubblica è determinata da un criterio molto semplice: tutto ciò che è vendibile appartiene al mercato, tutto ciò che è indivisibile è assegnato al comparto pubblico. Che si tratti di cioccolatini o cure mediche, di cravatte o di acqua, di servizi alberghieri o  istruzione, non fa differenza:  nella misura in cui si tratta di beni e servizi parcellizzabili, e quindi vendibili a singoli soggetti, il mercato li rivendica come suoi. Col solo obiettivo di permettere alle imprese che li commercializzano di realizzare un profitto. Se invece si tratta di cura del territorio, di difesa dei confini, di mantenimento dell’ordine pubblico, ossia di servizi  non acquistabili da individui singoli, ma godibili obbligatoriamente in forma collettiva, allora sono lasciati alla dimensione pubblica.

Al contrario, nella logica solidaristica il criterio usato per stabilire cosa competa all’ambito pubblico e cosa al mercato non è economico, ma etico: tutto ciò che condiziona la dignità della persona appartiene alla comunità, tutto il resto può appartenere al mercato. La dignità è un concetto ampio che può essere espresso come l’insieme delle condizioni necessarie per permettere a chiunque di condurre una vita che possa definirsi umana. Condizioni che spaziano dalla politica (il godimento della libertà e della possibilità di partecipare alla vita democratica) alla fede religiosa (la libertà di professare il proprio credo); dall’ecologia (la possibilità di vivere in un ambiente sano) all’economia (la possibilità di soddisfare i bisogni di base). Aspetti che vanno garantiti a chiunque e per questo sono definiti diritti. Da un punto di vista etimologico, diritto viene da dirigere, verbo molto vicino a stabilire. Se ne può dedurre che diritto può essere tradotto «ciò che è stabilito dalla legge universale». E ciò che è stabilito è la possibilità per ogni individuo di godere di una serie benefici, tutele, garanzie, indipendentemente da ricchezza, razza, età, sesso. L’esistenza come unico criterio di ammissibilità.

L’incompatibilità tra diritti e mercato

Nel 1215, Giovanni Senzaterra, re d’Inghilterra, pone la prima pietra dei diritti politici con l’emanazione della Magna Charta, ma bisogna aspettare il 1948 quando i diritti sociali sono riconosciuti e inseriti nella Dichiarazione dei diritti umani adottata dalle Nazioni Unite. L’articolo 25 recita: «Ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute, il benessere proprio e della propria famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari. Ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà».

I diritti non si garantiscono però con i proclami: essi esigono un’organizzazione adeguata. Per parte sua, il mercato è una grande macchina, capace di garantire di tutto: beni fondamentali e beni di lusso, oggetti comuni e oggetti rari, prodotti leciti e prodotti illegali, mezzi di pace e mezzi di guerra. Con le sue migliaia, milioni di imprese di ogni dimensione e settore, da un punto di vista dell’offerta è ineguagliabile. Ma ovunque ci sono regole, e anche il mercato ha le sue. La regola principale è che si può chiedere di tutto, ma per ottenerlo bisogna pagare. Scopriamo così che il mercato non è per tutti. Il mercato è solo per chi ha soldi: chi ha denaro da spendere è accolto, corteggiato, riverito; chi non ne ha è  rifiutato, escluso, disprezzato.

Per definizione, i diritti sono universali e inalienabili. Appartengono a tutti per il fatto stesso di esistere. Per questo non sono appannaggio di una macchina selettiva come il mercato. Non dipendono neanche dalla benevolenza, perché ciò che spetta di diritto non può essere affidato al buon cuore. I diritti non si mendicano. I diritti nascono con la persona, e il loro rispetto si pretende dalla comunità che deve farsene carico attraverso un patto di solidarietà collettiva. Ed ecco la sostituzione del meccanismo del prezzo con il meccanismo della fiscalità che rompe qualsiasi relazione diretta fra ciò che si dà e ciò che si riceve. Sul fronte del dare chi più guadagna più versa. Sul fronte del ricevere, chi più ha bisogno più riceve. Per questo il meccanismo della solidarietà esige anche un altro principio che è quello della gratuità.

Lo stato sociale

Principi ripresi dalla nostra Costituzione che, all’articolo 2, definisce la solidarietà «dovere inderogabile», mentre all’articolo 53 sancisce che «il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Del resto dopo la seconda guerra mondiale in tutta Europa si fa strada la formula socialdemocratica che vuole il capitalismo addomesticato alle esigenze sociali. La sua espressione più alta si manifesta nei paesi scandinavi negli anni Settanta: salari alti, forme di assunzione stabili, ma soprattutto scuola, sanità e previdenza per tutti. Agli imprenditori è riconosciuta libertà di investimento e accesso al profitto, ma la priorità ce l’hanno i diritti. Di qui uno stato forte che organizza una solida rete di previdenza sociale contro disoccupazione, invalidità, vecchiaia. Uno stato forte che avoca a sé la gestione dei servizi fondamentali, non solo scuola e sanità, ma anche acqua, energia, trasporti, telefonia. Uno stato che all’occorrenza non si fa scrupolo a nazionalizzare le imprese private di pubblica utilità.

Contro lo stato sociale

Nel 1962, in Italia si procede alla nazionalizzazione del servizio elettrico e nasce l’Enel. Negli anni Ottanta il vento cambia. Mantenere lo stato sociale costa. Richiede una tassazione elevata. Fra i ceti ricchi cresce il malumore, c’è insofferenza per la pressione fiscale e c’è rabbia per l’impossibilità di mettere le mani su settori appetibili di esclusiva competenza pubblica. Decidono di passare al contrattacco. Hanno i soldi, posseggono quotidiani e riviste, addirittura televisioni, possono organizzare un’offensiva in grande stile contro il modello socialdemocratico. Denigrano lo stato, lo accusano di inefficienza, parassitismo. Attaccano i diritti, si scagliano contro l’ugualitarismo che indurrebbe a scarso impegno lavorativo. Rilanciano le vecchie parole d’ordine: mercato, concorrenza, privato. L’opinione pubblica sbanda, ha qualche esitazione, poi si lascia convincere. Il primo sfondamento avviene in Inghilterra. Nel 1979 i conservatori vincono le elezioni, Margaret Thatcher, la «Lady di ferro», diviene Primo ministro (incarico che rivestirà fino al 1990). Un decennio durante il quale taglia le tasse sui redditi più alti, inasprisce le tasse sui consumi, notoriamente pagate dai più poveri, e soprattutto privatizza: telefoni, acqua, gas, energia. Blair, che le succede, benché laburista, completa l’opera privatizzando le ferrovie. Destra e sinistra unite dalla medesima fede neoliberista.

Storia della privatizzazione dell’acqua

In Italia l’ondata delle privatizzazioni coinvolge anche l’acqua, non quella in bottiglia che già  era nelle mani dei mercanti, ma quella degli acquedotti. Neanche Mussolini aveva osato tanto. Lui, anzi, aveva fatto costruire vari acquedotti fra cui il completamento di quello pugliese. Dal 1903 gli acquedotti, e molti altri servizi di pubblica utilità, erano gestiti dai comuni secondo la formula delle aziende municipalizzate, entità a metà strada fra l’azienda e l’ufficio tecnico, in ogni caso strutture senza fini di lucro. Una formula introdotta dal governo di Giovanni Giolitti, che pur essendo un liberale convinto, sosteneva che certi servizi non potessero essere delegati ai privati. Una convinzione che avrebbero conservato anche i governanti moderni se non avessero ceduto alla pressione di cui le imprese sono state capaci.

L’offensiva sull’acqua è partita in sordina a inizio anni Novanta, con modifiche di legge su questioni tecniche, di quelle barbose che capiscono solo gli avvocati e i ragionieri. È proprio di quei cambiamenti che bisogna avere paura. Fondamentalmente la strategia per fare passare gli acquedotti da una gestione pubblica a una privata è stata pensata in due tempi: prima la fase di preparazione del campo, poi l’attacco finale. Il primo obiettivo era fare cambiare mentalità, scardinare l’idea del Comune-comunità che si fa carico dei bisogni fondamentali secondo logiche di solidarietà, per rimpiazzarla con quella del Comune-bottegaio che vende servizi secondo logiche di mercato. E, per farlo, si è cominciato a cambiare la struttura giuridica degli strumenti economici a disposizione dei comuni. È stata l’aziendalizzazione, la privatizzazione ombra, citata nella precedente puntata. I bracci operativi fino ad allora utilizzati dai comuni per gestire i loro servizi erano le aziende municipalizzate, strutture autonome da un punto di vista tecnico operativo, ma un tutt’uno col Comune da un punto di vista economico e politico. L’azienda municipalizzata faceva pagare un prezzo per i servizi che forniva, ma l’ammontare era deciso dal consiglio comunale in base a criteri sociali e se l’incasso non bastava per fare fronte a tutte le spese o agli investimenti da effettuare, provvedeva il Comune con integrazioni di altra natura.

Nel 1990 s’incrina questa logica istituendo le aziende speciali. Da un punto di vista linguistico la differenza è impercettibile, ma da un punto di vista giuridico è abissale. L’azienda speciale, pur essendo di proprietà del Comune diventa un corpo a se stante, una sorta di figlio maggiorenne che deve arrangiarsi da solo. D’ora in avanti non può più ricorrere alla mamma Comune: deve coprire tutte le spese da sola con i proventi delle sue vendite. I prezzi li decide lei stessa non più secondo logiche di equità sociale, ma secondo logiche di contabilità di bilancio. Per di più è una Spa, società per azioni. Per legge il suo compito è garantire profitti agli azionisti. Un cambiamento totale di prospettiva: la municipalizzata guardava alla gente, la Spa guarda agli azionisti. Potremmo dire «all’azionista» visto che il capitale è del Comune, ma la Spa ha la caratteristica che le quote si possono vendere, e altri soci possono aggiungersi. Le leggi che seguirono aprirono l’ingresso ai privati con le multinazionali dell’acqua che calarono come cavallette per entrare nelle società pubbliche costituite per gestire gli acquedotti. Così oggi abbiamo mostri come Acea, Hera, A2A, aziende quotate in borsa a partecipazione mista pubblico privato che si comportano come delle multinazionali qualsiasi. E a nulla è valso la schiacciante vittoria del sì ai referendum del 2011 che, di fatto, ha bocciato la gestione privatistica dell’acqua e soprattutto la possibilità di fare profitti sull’acqua. Alla volontà popolare sono stati contrapposti cavilli giuridici che hanno avuto la meglio. Non per la forza dei loro argomenti, ma per la debolezza della nostra resistenza.

Francesco Gesualdi
(seconda parte – fine)

In quanto diritto umano, l’acqua non può essere privatizzata. Foto: Manuel Darío Fuentes Hernández-Pixabay.

 




Le perdite allo stato, i profitti ai privati

Testo di Francesco Gesualdi |


Nelle privatizzazioni, la lotta è tra statalisti e liberisti. Nella realtà, il ragionamento dei liberisti è più opportunista: «no» all’intervento dello stato quando le cose vanno bene, «sì» quando le cose vanno male. La vicenda Autostrade-Benetton.

La vicenda del Ponte Morandi ha riacceso i riflettori sulle privatizzazioni, anche se alla fine tutto si è trasformato in un processo alla famiglia Benetton, piuttosto che in una riflessione sul principio in sé delle privatizzazioni. Privatizzare, la parola stessa lo dice, significa «rendere privato ciò che è pubblico». Un concetto di per sé semplice, ma complicato dal fatto che le modalità di passaggio ai privati sono molteplici e che la stessa privatizzazione si presta a molteplici interpretazioni. Volendo schematizzare, il termine può riferirsi a tre diversi scenari: la privatizzazione totale, la privatizzazione parziale, la privatizzazione ombra, di cui, però, parleremo meglio nella prossima puntata.

Liberisti e interventisti

La privatizzazione totale si ha quando lo stato vende definitivamente una sua proprietà o una sua attività a un soggetto privato totalmente indipendente. Se lo stato debba gestire o meno servizi e attività produttive ha sempre rappresentato un tema di grande contesa che ha diviso economisti e forze politiche in schieramenti contrapposti: di qua i liberisti, che vogliono limitare la presenza dello stato ai soli ambiti che tutti hanno interesse a mantenere collettivo (magistratura, polizia, difesa dei confini, anagrafe); di là gli interventisti, che pretendono di estendere la presenza dello stato a tutti quegli ambiti che condizionano la dignità dei cittadini: sanità, istruzione, alloggio, acqua, rifiuti, trasporti e molti altri. Così in teoria. Di fatto i liberisti hanno sempre avuto un atteggiamento oscillante (e opportunista): di assoluta opposizione all’intervento dello stato quando le cose per loro vanno bene, ma di richiesta di protezione in caso di mala parata. Della serie: «privatizziamo i profitti, socializziamo le perdite».

Nascita e morte dell’Iri

Quando nel 1929 le economie di tutto il mondo entrarono in crisi con fallimenti a catena di banche e imprese produttive, tutti invocarono l’intervento dei governi per salvare il salvabile. Richiesta accolta anche da Mussolini che, nel 1933, istituì l’«Istituto per la ricostruzione industriale», in sigla Iri, incaricato di sottrarre al fallimento i principali gruppi bancari e industriali che spaziavano dalla siderurgia alla produzione energetica, dalle costruzioni navali a quelle automobilistiche. Quando lo stato italiano si ritrovò proprietario dei maggiori stabilimenti industriali, pensava di detenerli in maniera transitoria, tanto quanto sarebbe bastato per superare la burrasca. Invece, la situazione si stabilizzò e nel dopoguerra il fondo venne rafforzato attribuendogli l’incarico di pilotare lo sviluppo economico del paese. In particolare, avrebbe dovuto sostenere lo sviluppo del Mezzogiorno e potenziare la viabilità ritenuta fondamentale per la crescita dell’economia italiana. Non a caso, nel 1950, venne costituita la Società autostrade che, partendo dall’autostrada del Sole, costruì l’intelaiatura autostradale italiana. Negli anni Settanta, l’Iri fu chiamato nuovamente a svolgere funzioni di salvataggio di imprese in crisi e si indebitò in maniera pesante. Il che fu poi usato come pretesto per avviare un processo di smantellamento dell’ente che si concluse nel 2000 con la sua liquidazione. Così tornarono in mani private aziende che, oltre a svolgere servizi importanti come la telefonia e la gestione autostradale, garantivano rendite sicure dal momento che erano in una posizione di monopolio, ossia di operatori senza concorrenti che, oltre ad avere un mercato sicuro, potevano fare i prezzi che volevano. Tesi confermata dalla Corte dei Conti che, in un rapporto del febbraio 2010, segnala come, nel caso delle utilities (energia, trasporti, telecomunicazioni), «l’aumento della profittabilità delle imprese regolate sia attribuibile in larga parte all’aumento delle tariffe» piuttosto che a investimenti migliorativi.

Il caso autostrade

Complessivamente, dal 1991 al 2001, la vendita delle proprietà pubbliche ha fruttato allo stato 97 miliardi di euro. Sarà stato davvero un affare per il popolo italiano? I sostenitori del «sì» ritengono che sia stato conveniente perché ci siamo sbarazzati di aziende in perdita che procuravano soltanto debiti e perché abbiamo raggranellato qualche soldo per ripagare il nostro debito pubblico. Ma non tutte le aziende dismesse erano in perdita, mentre l’effetto sul debito pubblico è stato solo del 7%. Purtroppo, non si può fare a meno di constatare che, dietro al fenomeno delle privatizzazioni, c’è stata anche una buona dose di scelta ideologica. In effetti a partire da fine anni Settanta del secolo scorso, l’idea statalista cominciò a retrocedere per fare posto a quella liberista che vuole il mercato protagonista assoluto del sistema economico e perfino sociale. Prova ne sia che il processo di privatizzazione coinvolse l’intero mondo industrializzato con il suo apice nel 1999, anno in cui gli introiti da vendite delle proprietà pubbliche, raggiunsero i 140 miliardi di dollari a livello mondiale. Purtroppo, anche l’Unione europea spinse in questa direzione pretendendo dai paesi membri l’applicazione di trattati europei fondati su regole che antepongono i meccanismi di mercato all’interesse collettivo.

In Italia, l’ubriacatura liberista risucchiò nel tritacarne delle privatizzazioni molti beni e molti servizi. Fra i pochi sfuggiti, le infrastrutture stradali che sono rimaste di proprietà pubblica: le autostrade, infatti, appartengono al governo centrale per il tramite del ministero dei Trasporti. In effetti, la Società autostrade, che l’Iri mise in vendita nel 1999, ormai era solo una società di gestione, la quale, per esercitare la propria attività, doveva ottenere una concessione da parte del governo che continuava a possedere il bene autostradale. E fu così che, contestualmente alla privatizzazione totale della società, avvenne la privatizzazione parziale del bene, per la possibilità concessa alla società privatizzata di gestire gran parte della rete autostradale. In seguito, la concessione venne rinnovata più volte secondo modalità fortemente criticate dalla Corte dei Conti che, in un suo rapporto dell’ottobre 2019, parla di scarsa trasparenza, scarsa correttezza giuridica, scarsa correttezza economica. Il risultato è che, su un totale di 6.700 km di rete autostradale, oltre l’85% sono stati affidati a società private e solo il 15% sono rimasti in carico ad Anas, la società di proprietà pubblica adibita alla cura delle strade. Le società concessionarie private che gestiscono circa 5.700 km, oggi sono 25, ma la parte del leone la fa «Autostrade per l’Italia», che da sola controlla oltre il 50% della rete in concessione, fra cui l’Autostrada del Sole, l’Autostrada Adriatica, la Firenze-Mare.

Oltre a precisare l’ambito delle autorizzazioni, le concessioni definiscono i diritti e i doveri dei concessionari compresi gli investimenti che devono realizzare ai fini migliorativi e gli innalzamenti tariffari che possono operare per recuperare il capitale investito e garantirsi un guadagno. Come segnala la stessa Corte dei Conti, i rendimenti inseriti nelle concessioni autostradali sono stati fissati a livelli molto alti, in certi casi addirittura oltre il 10%, provocando una costante lievitazione delle tariffe e quindi dei profitti delle società concessionarie. E si vede. Nel 2017, l’anno prima che il Ponte Morandi crollasse, Autostrade per l’Italia aveva realizzato ricavi per quasi 4 miliardi di euro, di cui 2,5 utilizzati per spese di gestione, 465 milioni versati allo stato per il canone di concessione e più di un miliardo distribuito agli azionisti come profitti. Ed è qui che entrano in scena i Benetton che, per il tramite di Atlantia, detengono l’88% di Autostrade.

Le autostrade sono un simbolo del fallimento delle privatizzazioni in Italia. Foto: Schwoaze-Pixabay.

Lo stato e i Benetton

Nel 1999, quando la società venne messa in vendita, i Benetton si limitarono a comprarne il 30%, non avendo altri soldi da spendere. La quota restante la comprarono nel 2003 a debito, dopo che una riforma del diritto societario aveva introdotto un meccanismo che permette di comprare le aziende a debito potendosi sbarazzare del debito stesso. Il meccanismo si chiama leverage buyout, in tutto e per tutto un gioco di prestigio finanziario. L’imprenditore che intende effettuare l’acquisto lo fa attraverso una società creata ad hoc che, oltre a rappresentare lo strumento giuridico della compra-vendita, ha anche il compito di raccogliere prestiti presso terzi. Poi, ad acquisto avvenuto, la società acquirente viene fusa con la società acquistata, per cui il debito passa a quest’ultima con tutti gli obblighi che ne derivano. Nel caso specifico la famiglia Benetton creò la società NewCo28 per raccogliere prestiti pari a 6,5 miliardi di euro necessari a completare l’acquisto di Autostrade per l’Italia. Ad acquisto effettuato, NewCo28 venne incorporata in Autostrade e il debito lo stanno ancora pagando gli automobilisti attraverso i pedaggi.

Dopo la caduta del Ponte Morandi molti hanno capito che andava processato non solo chi si era reso colpevole di negligenze, ma l’intero sistema delle concessioni decisamente troppo a favore delle società di gestione. Invece di riconoscere questa necessità e proporre una riforma complessiva sul modo di gestire le autostrade, il governo ne ha fatto una questione di mala gestione da parte dei Benetton e ha annunciato di voler revocare la concessione rilasciata a loro favore, forse con l’intento di correggere almeno le storture più eclatanti. Se si fosse riusciti a togliere la concessione ai Benetton, così era il ragionamento, il governo avrebbe potuto indire una nuova gara e stipulare una nuova concessione su basi totalmente diverse con il nuovo concessionario.

Fin da subito si è però capito che la revoca era una strada impraticabile per le enormi penali che lo stato avrebbe dovuto pagare. Così, per due anni non è successo nulla, almeno in apparenza. In realtà, dietro le quinte governo e impresa hanno continuato a interloquire per trovare un’altra soluzione: il ridimensionamento dei Benetton in Autostrade, in modo da fare passare il potere decisionale a nuovi soggetti disposti a rivedere i termini della concessione. A luglio 2020 è arrivato l’annuncio: i Benetton hanno accettato di vendere una parte cospicua delle loro quote in Autostrade a una cordata diretta da Cassa depositi e prestiti, banca controllata dal ministero del Tesoro e finanziata dal risparmio postale. Tuttavia, i particolari dell’accordo, compreso il prezzo di vendita, non sono stati annunciati: saranno pattuiti in privato fra le parti. Dunque, ci sarà ancora da attendere per capire se l’operazione si tradurrà in una bacchettata ai Benetton o in un ennesimo regalo a loro favore. Visti i trascorsi, è meglio non farsi troppe illusioni.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)

 




Cassa integrazione, un’àncora di salvezza

testo di Francesco Gesualdi |

Il coronavirus ha travolto l’economia. Mai come in questo caso l’intervento della Cassa integrazione è stato ed è essenziale. Vediamo come funziona e cosa andrebbe fatto per migliorare lo strumento.

Riavvolgiamo il nastro della memoria. L’Italia scopre di essere stata raggiunta dal coronavirus lo scorso 21 febbraio. Quel giorno, un trentottenne di nome Mattia si presenta al pronto soccorso dell’ospedale di Codogno con febbre e sintomi respiratori. Di professione ricercatore, fino a pochi giorni prima valido maratoneta, ha cominciato con i classici disturbi influenzali che però si sono complicati con difficoltà respiratorie costringendolo al ricovero ospedaliero. Mattia è definito il paziente coronavirus numero uno, ma ulteriori ricerche appureranno poi che, in Lombardia, il virus circolava già dal dicembre 2019. Da uno, i casi diventano quattro, dieci, cento. Soltanto un mese dopo se ne contano già sessantamila, ma a rimarcare la gravità dell’epidemia sono i tremila ricoverati in terapia intensiva e i cinquemila morti che non hanno resistito all’infezione. Intanto l’11 marzo, l’Organizzazione mondiale della sanità dichiara lo stato di pandemia a livello mondiale e il governo italiano si convince che la priorità del paese è fermare il contagio con una chiusura totale. Con un decreto del 22 marzo, il presidente del Consiglio proibisce gli spostamenti fuori dal proprio comune, decreta la chiusura di tutte le scuole, ordina la sospensione di tutte le attività produttive industriali e commerciali non essenziali. Provvedimenti validi per tutto il territorio nazionale. È l’inizio del cosiddetto lockdown.

Le misure si dimostrano appropriate: pur con grande lentezza e dopo migliaia di morti, il contagio frena, ma i contraccolpi per le famiglie sono gravissimi. Su tutti i piani: relazionale, scolastico, economico.

In altri tempi, probabilmente, sarebbe stata la catastrofe sociale, ma dopo l’insoddisfazione popolare per l’austerità, questa volta la classe politica non pare avere dubbi sul da farsi. In particolare, pare aver chiaro che non può assumere come criterio guida il rigore finanziario: davanti a una simile emergenza fare nuovo debito è indispensabile. Tra il marzo e il luglio 2020, il governo Conte stanzia una cinquantina di miliardi di euro per misure d’emergenza a favore di famiglie ed imprese. Fra essi, 20 miliardi per potenziare il sistema della cassa integrazione. Con tale termine si intende l’insieme dei fondi attraverso i quali l’Inps, l’Istituto nazionale della previdenza sociale, garantisce la copertura salariale a tutti quei lavoratori occupati in imprese che navigano in cattive acque.

Nascita della cassa

La prima pietra della cassa integrazione venne posta in epoca fascista e non per iniziativa del legislatore, ma delle corporazioni sindacali. Del resto al tempo del fascismo potevano esistere solo i sindacati ammessi dal regime e a conferma di come essi operassero in nome e per conto del governo, era stato stabilito che i contratti stipulati con le controparti padronali avessero valore erga omnes, ossia nei confronti di tutti, come se fossero leggi. Nel 1940 l’Italia entrò in guerra e molti stabilimenti industriali si trovarono in grave difficoltà a causa del crollo del mercato e della scarsa reperibilità delle materie prime. Molti di loro funzionavano a singhiozzo riducendo drasticamente gli orari e quindi le paghe dei lavoratori. Per porvi rimedio, nel 1941 venne inserita una nuova tutela previdenziale nei contratti di lavoro dell’industria: la cassa integrazione guadagni finalizzata a compensare la paga dei lavoratori occupati nelle aziende incapaci di lavorare a pieno regime. E anche se lo scopo principale del nuovo istituto era quello di attenuare gli effetti negativi degli eventi bellici sui lavoratori, l’associazione degli industriali aveva accettato di buon grado la proposta per evitare l’esodo delle maestranze dalle industrie civili in crisi, verso quelle belliche ben più prospere. Con la caduta del fascismo, crollò anche l’impalcatura corporativa e, assieme a essa, i contratti di lavoro aventi valore di legge. Perciò nell’immediato dopoguerra vennero emanati vari provvedimenti legislativi tesi a non disperdere le più importanti tutele  dei lavoratori incluse nei contratti di lavoro. Fra esse, anche la Cassa integrazione guadagni che venne recepita dalla legislazione con un decreto luogotenenziale del 9 novembre 1945.

Quanto dura

Inizialmente la tutela era accordata solo agli operai dipendenti da imprese industriali e prevedeva un’integrazione fino al 75% della retribuzione. A finanziarla sarebbero state le imprese con un contributo pari al 5% delle retribuzioni lorde corrisposte agli operai. Lo stato sarebbe intervenuto con un contributo di pari importo a quello versato dai datori di lavoro. Il fondo sarebbe stato istituito presso l’Inps e si sarebbe chiamato «Cassa per l’integrazione dei guadagni degli operai dell’industria». Inoltre era previsto che il pagamento dell’integrazione fosse effettuato dal datore di lavoro che in seguito sarebbe stato rimborsato dall’Inps tramite conguaglio fra prestazioni corrisposte e contributi complessivi dovuti.

Nel corso degli anni, la legge è tornata varie volte sull’argomento, ma sostanzialmente l’impostazione è rimasta la stessa. Di diverso oggi c’è che i settori coperti non sono solo quelli dell’industria, ma anche dell’edilizia e delle attività estrattive. Inoltre, è stata estesa anche agli impiegati. Quanto all’ammontare, copre fino all’80% del salario ed è fruibile per un massimo di 13 settimane continuative e in ogni caso non più di 52 settimane nello stesso biennio. Il tutto è finanziato con contributi delle aziende che, a seconda del settore, versano dall’1,7 al 4,7% delle retribuzioni lorde. Lo stato interviene con una sua parte.

Chi dentro, chi fuori

Uno dei limiti più seri della cassa integrazione, imbastita in epoca fascista e tramandata ai nostri giorni, è che copre una platea di lavoratori piuttosto ristretta: circa 4 milioni di salariati su un totale di 17 milioni. Ad esempio, esclude tutti gli addetti ai servizi e al commercio che oggi rappresentano la parte più ampia degli occupati.

La cosa più saggia per porre fine a questa anomalia sarebbe la creazione di una nuova cassa integrazione estesa a tutti i lavoratori. Ma invece di imboccare la strada della riforma, si è preferito procedere per aggiunte, e oggi il sistema della cassa integrazione è diventata una giungla di sigle e casse, nella quale è difficile districarsi.

Ad esempio, nel 1972 venne istituita la cassa integrazione per i dipendenti agricoli, ma solo quelli a tempo indeterminato. Inoltre, a partire dal 1996, la legge ha come riesumato l’esperienza fascista del 1941 consentendo a sindacati e associazioni padronali di creare, tramite contrattazione collettiva, dei fondi specifici con funzione di integrazione salariale.

Oggi di tali fondi ne esistono una decina. Fra i più importanti quello a favore dei lavoratori postali, del credito, del trasporto aereo. Sono denominati Fondi di solidarietà, sono costituiti presso l’Inps, hanno gestione autonoma e sono finanziati con contributi aziendali.

Ma esiste un altro fondo ancora, denominato Fis (Fondo di integrazione salariale), istituito dalla legge stessa nel 2015, a cui debbono partecipare, in forma praticamente obbligatoria, tutti i datori di lavoro che occupano mediamente più di cinque dipendenti, che non partecipano ad alcun fondo di solidarietà e che non rientrano nel campo di applicazione della cassa integrazione guadagni. Il Fondo è finanziato con contributi aziendali pari allo 0,65% delle retribuzioni lorde, ha obbligo di bilancio in pareggio e non può erogare prestazioni in carenza di disponibilità.

Purtroppo, le complicazioni non finiscono qui. Ne vanno citate almeno altre due.

Tipologie di cassa

La prima è collegata alle crisi e alle ristrutturazioni aziendali che negli ultimi decenni si sono fatte sempre più numerose a causa della tecnologia e della globalizzazione. Basti dire che solo negli anni della crisi, 2008 e 2009, il numero di imprese cessate ha sfiorato le 630 mila unità. Al novembre 2019, presso il ministero dello Sviluppo, erano ancora aperti 150 tavoli di trattative per trovare la soluzione alla crisi di altrettante aziende che avevano annunciato di voler chiudere.

Fin dai primi anni successivi alla Seconda guerra mondiale si è cominciato ad avvertire il problema di imprese costrette a ridimensionare il proprio personale a causa delle innovazioni tecnologiche e, già nel 1968, venne emanata una legge per garantire la continuità del salario, almeno per qualche tempo, ai lavoratori colpiti dalle ristrutturazioni. A tale scopo venne introdotta una nuova erogazione da parte dell’Inps, denominata Cassa integrazione guadagni straordinaria (Cigs). Erogazione che purtroppo nasceva con le stesse anomalie della sorella maggiore che, nel frattempo, era stata battezzata Cassa integrazione guadagni ordinaria (Cigo), tanto per tenerla distinta.

Ancora una volta l’anomalia principale era la copertura di un numero limitato di settori. Per cui tutte le casse istituite successivamente per garantire l’integrazione salariale anche ai lavoratori dei settori non industriali, sono nate con un doppio incarico. Da una parte, quello così detto ordinario, teso ad integrare il salario nei casi di riduzione di orario di lavoro dovuto a momentanee difficoltà di mercato. Dall’altra, quello così detto straordinario, finalizzato a garantire il salario nei casi di sospensione del lavoro per ristrutturazioni, ridimensionamenti o addirittura chiusure aziendali indotte da calcoli di mercato.

Per una cassa universale

La legge stabilisce limiti ben precisi ai tempi di assistenza, sia quelli forniti dalla Cassa integrazione ordinaria che da quella straordinaria. Ma talvolta tali tempi non sono sufficienti a risolvere le crisi. Perciò è data la possibilità alle regioni o al ministero del Lavoro, a seconda delle dimensioni dell’azienda in questione, di decretare un prolungamento del sostegno, in deroga a ciò che prevede la legge. La stessa procedura può essere utilizzata anche per permettere ad aziende normalmente escluse da qualsiasi tipo di sostegno, di richiedere assistenza. Tali trattamenti eccezionali assumono il nome di cassa integrazione guadagni in deroga e rappresentano il secondo elemento di complicazione.

Sotto questo titolo è andato anche il decreto legge del 17 marzo 2020 che ha stanziato cinque miliardi di euro per garantire nove settimane di cassa integrazione a tutti i lavoratori occupati in aziende che hanno dovuto chiudere a causa del coronavirus. E non è stato che il primo dei provvedimenti assunti. Il decreto legge di agosto 2020 è intervenuto ancora per prorogare la cassa.

Nei primi sette mesi del 2020, le ore autorizzate di cassa sono state 2,7 miliardi con un aumento dell’881% sull’intero anno precedente (dati Inps).

Ora che abbiamo capito quanto sia importante dare sicurezza a tutti i lavoratori, sarebbe bene approfittare dell’occasione per varare una riforma radicale del sistema, in modo da rendere la cassa più lineare, più razionale e soprattutto universale.

Francesco Gesualdi

Assunzioni-licenziamenti. Foto di Gerd Altmann-Pixabay.




Tanti profitti, zero tasse (senza la «digital tax»)

testo di Francesco Gesualdi |


È un fatto che Google, Apple, Facebook, Amazon («Gafa») incamerino profitti senza pagare il dovuto. Un’elusione fiscale enorme e intollerabile a cui da tempo alcuni governi cercano di porre rimedio. Inutilmente, viste le minacce di ritorsioni (e l’arroganza) di Donald Trump.

In tempi di pandemia e di elezioni statunitensi (a novembre), è difficile trovare un accordo con Donald Trump sulla tassazione («digital tax» o «web tax», con sottili differenze tra l’una e l’altra) delle multinazionali del digitale.

Lo scorso 20 giugno è stata pubblicata una lettera datata 12 giugno nella quale il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Steven Mnuchin, minaccia di ritorsioni commerciali (dazi) Italia, Francia, Spagna e Gran Bretagna se non rinunceranno alla «web tax» a carico dei colossi del digitale.

Anche a livello globale i negoziati in seno all’Ocse – chiamati «Inclusive Framework on Beps» (Piano d’azione sull’erosione della base imponibile e lo spostamento dei profitti) – sono in stallo a causa degli Stati Uniti. Trump considera qualsiasi tassazione un atto di ostilità verso gli Stati Uniti perché colpirebbe in particolar modo Google, Apple, Facebook, Amazon e altre multinazionali del web con casa madre statunitense. In realtà, la web tax è solo un timido tentativo di recupero fiscale verso imprese esperte, oltre che in tecnologie digitali, anche in tecniche di elusione fiscale.

Nell’agosto 2016 la Commissione europea decretò che, dal 2003 al 2014, Apple aveva evitato il pagamento di 13 miliardi di imposte, grazie alla legislazione compiacente dell’Irlanda. L’aspetto interessante è che, a mettere la pulce nell’orecchio, era stata una Commissione d’indagine del Senato americano che, nella seduta del 13 maggio 2013, aveva ricostruito per filo e per segno le strategie utilizzate da Apple per evitare di pagare le tasse. Un sistema che le aveva permesso di accumulare più di 100 miliardi di dollari nei paradisi fiscali, con un danno per l’erario statunitense calcolato in 12 miliardi di dollari per il solo 2012.

Lotta tra Sistemi fiscali

Secondo uno studio del Fondo monetario internazionale (Fmi) del 2015, ogni anno l’elusione fiscale sottrae agli stati 650 miliardi di dollari. Un vero crimine contro l’umanità considerato che 200 di essi sono sottratti a paesi molto poveri che, per mancanza di soldi, non riescono a fornire neanche i banchi di scuola. Il punto è che le imprese sono riuscite a globalizzarsi, mentre le nazioni continuano a gestire i sistemi fiscali in maniera separata, ciascuna per conto proprio, a volte addirittura in concorrenza fra loro per attrarre investimenti e capitali. Per cui abbiamo paesi come le Isole Cayman e un’altra decina di paradisi fiscali, senza alcun tipo di imposta sui profitti, fino agli Emirati Arabi con una tassazione del 55%, passando per l’Ungheria che applica un’imposta del 9%, l’Irlanda del 12,5%, gli Usa del 21%, l’Italia del 24%, la Germania del 30-33%.

In uno scenario tanto variegato, molte imprese sono tentate di mettere in atto strategie, formalmente legali, di fatto fraudolente, per contabilizzare i loro profitti in paesi a bassa fiscalità. Una di queste si basa sulla creazione di società fantasma che fanno da cerniera fra imprese dello stesso gruppo. Tipico il caso di una multinazionale calzaturiera con stabilimenti produttivi in Indonesia e negozi di vendita in Europa. La logica vorrebbe che le scarpe fossero vendute direttamente dagli stabilimenti indonesiani alle filiali europee che poi, una per una, dovrebbero dichiarare al fisco del proprio paese quanto hanno guadagnato. In una logica di elusione, invece, può essere utilizzato come intermediario una società fantasma domiciliata in Ungheria che finge di comprare e vendere con metodi di fatturazione che puntano a trattenere il massimo del valore in Ungheria dove vige uno dei sistemi più bassi di tassazione dei profitti. È stato accertato che un meccanismo del genere è stato utilizzato dal gruppo Kering, proprietario fra gli altri del marchio Gucci, che nel maggio 2019 ha patteggiato col fisco italiano il pagamento di oltre un miliardo di euro a sanatoria di ricavi non dichiarati per un valore di 14,5 miliardi di euro. Secondo gli investigatori, il gruppo utilizzava la Svizzera come cerniera di intermediazione fra Gucci, che produce in Italia, e i negozi del gruppo che vendono nei vari paesi europei. Verosimilmente la società svizzera acquistava fittiziamente beni sottocosto dalla società italiana e li rifatturava a prezzi gonfiati ai negozi europei per accrescere artificiosamente i profitti dichiarati in Svizzera, che nel caso specifico erano sottomessi a un regime fiscale inferiore al 9%. E, a conferma del meccanismo occulto, le Fiamme gialle avevano accertato che la maggior parte delle funzioni di commercializzazione dei prodotti non avveniva in Svizzera, ma a Milano, dove ha sede l’unità locale di Gucci. Meccanismo riconosciuto da Kering che, a conclusione del patteggiamento, ha diffuso una nota in cui ammette «la sussistenza di una stabile organizzazione in Italia nel periodo 2011-2017», come sostenuto dalla Procura di Milano.

Foto William Iven – Pixabay.

L’utilizzo del marchio

Un altro metodo di elusione si basa sul trasferimento di prezzo tramite licenze d’uso. Si prenda come esempio Ikea. Nessun punto vendita può esporre l’insegna se prima non ha stipulato un contratto di licenza con la società che risulta formalmente proprietaria del marchio. E annualmente tutti i punti vendita Ikea versano una parte dei loro ricavi alla società proprietaria del logo, anch’essa facente parte del gruppo, che però è domiciliata in Liechtenstein dove i redditi da capitale sono tassati al 12,5%. Più alto il compenso pattuito per l’uso del marchio, più alti i profitti trasferiti in Liechtenstein. E se giochetti del genere sono possibili a imprese commerciali vecchio stile, ancora di più lo sono per imprese che gestiscono servizi informatici.

Un tipico servizio informatico è la creazione di piattaforme commerciali, luoghi virtuali concepiti come punti di incontro fra imprese che offrono beni e consumatori (ne abbiamo parlato su MC di luglio). Alcuni esempi sono Amazon Marketplace, Ebay, Leboncoin, Alibaba, Apple Appstore. Altre piattaforme, invece, sono organizzate per permettere l’incontro fra chi offre un servizio e chi lo richiede. Alcuni esempi sono Uber per il servizio taxi, Booking per le prenotazioni alberghiere, Deliveroo per la consegna di pasti a domicilio. In cambio del servizio di visibilità e connessione le piattaforme pretendono delle commissioni dai loro inserzionisti, magari il 15% sull’intero volume di transazioni che effettuano sulla piattaforma.

Algoritmi e pubblicità

Un’attività che si è sviluppata enormemente in internet è quella delle inserzioni pubblicitarie che, a differenza della vendita di beni e servizi, non viaggiano solo su piattaforme dedicate, ma su ogni pagina web. Per esperienza, tutti sappiamo che, se consultiamo un qualsiasi sito on line, prima dobbiamo sorbirci un video pubblicitario. E lo stesso accade sia che si entri in una pagina Facebook, che si guardi un film o che si ascolti della musica. Per cui i veri re delle riscossioni pubblicitarie sono i gestori dei grandi motori di ricerca, come Google, o i gestori di social network come Facebook, che oltretutto utilizzano sofisticati algoritmi per spiare i nostri interessi e propinarci la pubblicità su tutto ciò che ruota attorno ad essi: libri piuttosto che utensili, cibo piuttosto che viaggi. Non a caso la vendita di dati è diventata un’altra attività fiorente delle imprese del web, spesso condotta in maniera totalmente occulta, e quindi totalmente estranea al fisco, come insegna il caso di Cambridge Analytica.

Ad oggi la pubblicità rappresenta la maggiore fonte di incasso per molti operatori internet. Per Google rappresenta l’85% del suo giro d’affari: 116 miliardi di dollari su 136 miliardi nel 2018. Nel caso di Facebook, la pubblicità rappresenta addirittura il 98,6% degli introiti: 55 miliardi di dollari su 55,8 nel 2018. Dedotte le spese, Facebook nel 2018 ha ottenuto profitti lordi per 25 miliardi di dollari su cui ha pagato solo 3 miliardi di tasse, un’aliquota media del 12%. Idem per Google che, detratte le spese, ha avuto un profitto lordo di 35 miliardi di dollari su cui ha pagato solo 4 miliardi di tasse. Eppure negli Stati Uniti, l’imposta sui redditi di impresa è del 21%. Però, sia Facebook che Google hanno eletto domicilio fiscale nel Delaware, paradiso fiscale statunitense dove l’imposta sui redditi da capitale è dell’8,7%. Inoltre, approfittano della diversità fiscale fra stati, della loro mancanza di collaborazione e della virtualità di internet per convogliare gli incassi verso i paesi a più bassa fiscalità. Talvolta, tramite strategie talmente creative da essersi guadagnate appellativi fantasiosi come «doppio sandwich irlandese imbottito all’olandese», una metodica che permette di trasferire i profitti alle Bermuda passando per l’Irlanda e l’Olanda. E se, alla fine, i paradisi fiscali qualche briciola la intascano, a rimetterci in maniera pesante sono i paesi in cui i profitti si realizzano, ma non compaiono per i trucchi contabili attuati dalle imprese. Lo dimostra il fatto che, per il 2018, Google ha dichiarato introiti in Irlanda pari a 38 miliardi di euro, pur disponendo solo di 3,6 milioni di utenti, in Italia solo per 106 milioni di euro, pur disponendo di 30 milioni di navigatori.

Uno studio di Mediobanca rivela che, fra il 2014 e il 2018, le prime 10 imprese digitali del mondo hanno risparmiato 49 miliardi di dollari, a livello globale, grazie al ricorso massiccio ai paesi a fiscalità agevolata. Lo studio ci dice anche che, in Italia, le prime 25 multinazionali del web (non solo statunitensi, ma anche cinesi) hanno dichiarato un fatturato 2,4 miliardi di euro, ma hanno versato al fisco solo 64 milioni, il 2,7% del fatturato. Il rapporto non indica quanto sarebbe dovuto essere il gettito dovuto, ma specifica che, a seguito di accordi con le autorità fiscali italiane, le imprese del web hanno pagato sanzioni per 39 milioni nel 2018 e 73 milioni nel 2017. Ed è sempre del 2017 il patteggiamento di Google col fisco italiano che ha accettato di versare 306 milioni di euro a sanatoria di mancati pagamenti relativi al periodo 2002-2015.

L’arroganza di Trump

Il rapporto di Mediobanca insiste anche sul fatto che, in una maniera o nell’altra, le imprese del web riescono a travasare gli incassi verso altre filiali estere facendoli passare come spese per servizi, commissioni su licenze o brevetti e altre fantasie contabili. In gergo la distribuzione degli incassi fra filiali del gruppo è definita «cash pooling» e, nel caso delle imprese del web, è gigantesca. Mediobanca stima che, in Italia, rimane solo il 14% della liquidità totale realizzata, l’altro 86% finisce come cash pooling nei paesi a fiscalità agevolata. E non va certo meglio in Francia, dove solo le «Gafa», le quattro grandi multinazionali Usa (Google, Apple, Facebook, Amazon), nel 2017 hanno avuto un giro d’affari di un miliardo e mezzo di euro, ma hanno versato al fisco solo 43 milioni. È così che, in Europa, si è cominciato a chiedere come fare per arginare questa mostruosa perdita.

Tuttavia, stentando ad arrivare una soluzione condivisa, alcuni paesi hanno deciso di muoversi autonomamente con provvedimenti fiscali propri. Fra questi Francia e Italia, con provvedimenti che, accogliendo le indicazioni della Commissione europea, hanno introdotto una tassa del 3% sui ricavi generati da alcune attività digitali prodotte da imprese con un fatturato mondiale superiore ai 750 milioni di euro.

Tutto sommato una misura piuttosto modesta, ma sufficiente a innervosire Trump che, tacciando l’iniziativa francese e italiana come provvedimenti discriminatori verso le imprese del web statunitensi, ha minacciato ritorsioni sui vini francesi e i prosciutti italiani se le misure non saranno ritirate. Ancora una volta si scrive protezionismo, ma si pronuncia arroganza.

Francesco Gesualdi




Il capitalismo delle piattaforme digitali

Testo di Francesco Gesualdi |


L’intermediazione è sempre esistita, ma è cambiata con l’avvento di internet. Oggi dominano e-Bay, Airbnb, Uber e le varie piattaforme per la consegna del cibo a domicilio. Avvantaggiate anche dalla pandemia.

Gli inglesi, che in fatto di lingua sono piuttosto fantasiosi, l’hanno battezzata «gig economy», l’economia dei lavoretti. Si riferisce a tutte quelle attività che, un tempo, erano svolte da studenti desiderosi di procurarsi qualche soldo per le proprie spese personali, ma che, in tempi di disoccupazione, sono effettuate anche da chi deve mantenere una famiglia.

Fino a una ventina di anni fa, poteva essere il servizio occasionale reso come baby sitter o come manovale nei traslochi, ma oggi è un’attività strutturata che ruota attorno alle cosiddette «piattaforme».

Prima di internet, la parola piattaforma evocava una struttura da utilizzare come base d’appoggio di un carico o di una costruzione. È piattaforma la pedana di legno allestita per la realizzazione di uno spettacolo, come è piattaforma il carrello elevatore su cui salgono i vigili del fuoco per raggiungere i piani alti da soccorrere. E ancora sono piattaforme le imponenti strutture costruite in mare per ospitare le trivelle deputate alla perforazione del fondale marino alla ricerca di petrolio. In epoca digitale, la parola piattaforma ci porta invece in ambito virtuale, nei luoghi evanescenti di internet creati per mettere in comunicazione chi richiede qualcosa e chi lo offre.  In fondo si tratta di mercati che invece di svolgersi di persona nelle piazze o nelle borse, avvengono per via telematica tramite luoghi virtuali: le piattaforme online.

I mercati virtuali

La prima piattaforma online venne allestita nel 1995 da un iraniano naturalizzato statunitense, tale Pierre Omidyar, che fondò e-Bay. Laureato in scienze informatiche, si era reso conto che internet era diventato un formidabile canale di comunicazione che la gente utilizzava non solo per scambiarsi foto, saluti e opinioni, ma anche per darsi appuntamenti, concordare iniziative e aiutarsi a risolvere piccoli problemi  quotidiani tramite lo scambio di oggetti o la condivisione dell’auto e altre apparecchiature domestiche. Insomma, internet aveva fatto emergere il lato collaborativo delle persone e qualcuno azzardò la nascita di una nuova economia che il mondo anglosassone battezzò «share economy», l’economia dell’amicizia e della condivisione. Però, come era già successo a molte altre iniziative solidali nate dal basso, anche la share economy attirò l’attenzione del mondo degli affari che aveva fiutato odore di soldi. L’attività intravista come via di guadagno era quella di intermediazione, un mestiere fra i più antichi dell’umanità. Anche nel vecchio mondo contadino esisteva il sensale, un personaggio che girava per le campagne in cerca di chi aveva bestie da vendere e di chi voleva comprarne. E, dopo avere fatto incontrare le due parti interessate, le aiutava a condurre le trattative con l’obiettivo di intascare una percentuale sul prezzo di vendita. Un’attività simile è tutt’oggi svolta dalle agenzie immobiliari che fungono da intermediari nella compravendita di case. Nella stessa categoria si collocano le borse valori, i luoghi in cui si contrattano titoli e materie prime e che devono il proprio nome al palazzo Ter Buerse, la prima sede commerciale costruita a Bruges a fine 1300 dalla famiglia veneta Della Borsa. Per certi versi perfino le banche possono essere catalogate fra le agenzie di intermediazione, per il ruolo di cerniera che svolgono fra chi risparmia e chi è in cerca di prestiti. Per cui le attività di intermediazione sono tante, sempre uguali per finalità, sempre diverse per substrato e modalità di svolgimento.

Uber e gli altri

Una caratteristica del capitalismo è la capacità di adattamento. Grazie ad essa, il sistema è riuscito non solo a garantirsi lunga vita, ma perfino a   trasformare le catastrofi in opportunità. Tipiche le guerre e i terremoti che dopo la distruzione hanno bisogno di ricostruzione. La stessa crisi climatica è vissuta come occasione di rilancio economico perché per passare dai combustibili fossili  alle energie rinnovabili serve una tale quantità di investimenti da rimettere in moto una massiccia attività produttiva. Ma il principale spirito di adattamento il capitalismo l’ha dovuto sviluppare verso la tecnologia. Angosciato dalla necessità di aumentare la produttività, ossia la quantità di produzione in rapporto al tempo e alla spesa, la tecnologia è sempre stata la sua alleata principale. Tuttavia, non senza contraccolpi, considerato che talvolta i cambiamenti sono così profondi da costringere le imprese non solo a rinnovarsi, ma addirittura a reinventarsi. Chi ci riesce sopravvive, chi non ce la fa soccombe. Ciò spiega perché nell’era del computer si siano affermate imprese create dal niente da parte di giovani con grande inventiva. Il riferimento è  a personaggi come Larry Page e Sergey Brin, fondatori di Google, Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, Jeff Bezos, fondatore di Amazon, ormai appartenenti tutti all’olimpo dei miliardari. Ma oltre a loro ce ne sono molti altri, non meno ricchi anche se meno appariscenti, che hanno costruito il loro  impero economico sulle opportunità offerte da internet. Fra essi gli opportunisti delle intermediazioni. Cominciò la già citata e-Bay, pensata per facilitare il commercio di beni usati fra privati. Una sorta di bacheca online dove chiunque può esporre ciò che desidera vendere, delegando alla piattaforma le funzioni di pagamento e di trasferimento del prezzo, ben inteso lasciandole una percentuale sull’incasso. Nel 2019 il valore complessivo dei beni transitati per e-Bay è stato di 22 miliardi di dollari, due dei quali trattenuti dalla piattaforma come corrispettivo del servizio reso. Più tardi, tale Brian Chesky e altri amici applicarono lo stesso modello all’affitto di camere, crearono Airbnb, un portale online che mette in contatto persone in cerca di camere per brevi periodi, con persone che dispongono di spazi extra da affittare. Ma benché rivoluzionarie sul piano commerciale, tali iniziative non hanno però avuto effetti di rilievo rispetto al lavoro. Queste piattaforme dispongono senz’altro di dipendenti, ma presumibilmente tutti assunti secondo i canoni classici del lavoro salariato.

Le novità arrivarono nel 2009, quando alcuni informatici, fra cui Travis Kalanick, si concentrarono sui trasporti. Avendo notato che in internet si stavano sviluppando contatti fra chi chiedeva passaggi e chi era disposta a darli, Kalanick, assieme ad altri amici, creò una piattaforma dedicata ai trasporti, che battezzò Uber. Quanto alla sua gestione avrebbe potuto seguire il modello e-Bay, ma si rese conto che lasciato allo spontaneismo le possibilità di guadagno erano piuttosto ridotte perché il passaggio era concepito più come servizio che come attività commerciale. I passaggi, infatti, venivano dati da chi avrebbe comunque effettuato il viaggio, chiedendo tutt’al più un contributo alle spese da riscuotere in forma diretta durante il passaggio. Perciò Kalanick capì che, se voleva guadagnarci, doveva industrializzare l’iniziativa.

La soluzione che si inventò fu quella di trasformare i normali conducenti proprietari di un’auto in tassisti. Detto fatto, sperimentò il suo piano a San Francisco agendo su due livelli. Da una parte lanciò un appello per chiedere a chiunque volesse effettuare trasporti a pagamento di iscriversi a una lista di disponibilità. Dall’altra creò Uberpop, un’applicazione a disposizione del grande pubblico per permettere a chiunque volesse un passaggio di poterlo richiedere.  Un’apparecchiatura retrostante avrebbe passato la richiesta a un conducente che avrebbe provveduto al servizio. Quanto al pagamento della corsa, il cliente avrebbe pagato direttamente a Uber tramite carta di credito, mentre il conducente avrebbe ricevuto da Uber un compenso stabilito da un tariffario interno, previa decurtazione di una percentuale a titolo di commissione d’ingaggio. A San Francisco l’esperimento funzionò e oggi Uber è presente in 700 città sparse in 80 diverse nazioni, con una  isponibilità complessiva di tre milioni di conducenti. Per un certo periodo è stato presente anche in alcune città italiane, ma nel maggio 2015 il tribunale di Milano dichiarò l’attività illegale perché in contrasto con le leggi nazionali che regolano il servizio taxi.

Sul piano finanziario, nel 2018 Uber ha incassato 50 miliardi di dollari, ma i conducenti lamentano coralmente compensi ridotti all’osso a fronte di alti costi  a loro carico.

I fattorini del cibo

Il modello ha fatto scuola e qualcuno l’ha applicato alla consegna di cibo a domicilio (anche Uber stessa con Uber Eats). Il primo a pensarci fu Will Shu, un analista bancario che, nel 2013, fondò Deliveroo, un’applicazione che permette di ordinare cibo a una serie di ristoranti inseriti nella sua lista. Il cliente ordina, Deliveroo incassa tramite carta di credito e paga il corrispettivo al ristorante decurtato di una commissione. Il prezzo complessivo richiesto al cliente comprende anche una quota per pagare il fattorino che esegue la consegna. Fattorino attinto da una lista interna formata da persone che si sono dichiarate disponibili a effettuare le consegne con mezzo proprio, solitamente la bici o la moto, per questo detti riders. Per cui, quando il cliente chiama, scattano due richieste contemporaneamente: una al ristorante affinché prepari il piatto, l’altra a un fattorino affinché effettui la consegna.

Oggi in tutto il mondo si contano decine di società che fanno consegna di cibo a domicilio tramite ordinazioni online (in aumento anche a causa della pandemia). In Italia, le principali sono le britanniche Deliveroo e Just Eat, la spagnola Glovo, l’italiana Foodys. Secondo una stima della Fondazione De Benedetti del 2018, tutte assieme ingaggiano 10mila fattorini. Milena Gabbanelli – Corriere della Sera, 18 giugno 2018 – descrive così la loro condizione: «Il lavoro è organizzato da un algoritmo, e punta su un continuo turn over. Le condizioni e i compensi cambiano continuamente e variano anche da città a città. Non sono previste maggiorazioni per lavoro festivo, notturno, pioggia o neve. Mediamente le piattaforme “ingaggiano” il 20% di lavoratori più del necessario per tutelarsi rispetto alle defezioni dell’ultimo minuto. Foodora (non più presente, ndr) assume Co.co.co., li paga 4 euro lordi a consegna che vuol dire 3,60 netti. Deliveroo ingaggia collaboratori occasionali, li paga 4 euro netti a consegna. Glovo ha collaboratori occasionali pagati 2,00 euro netti a consegna più 60 centesimi per chilometro percorso più 5 centesimi per ogni minuto di attesa al ristorante o in negozio oltre i primi cinque minuti».

I nuovi lavoratori

I riders sono solo la punta dell’iceberg dei cosiddetti gig workers. Oltre a chi pedala in bicicletta, c’è chi fa babysitteraggio, chi effettua pulizie per camere in affitto, chi svolge lavoro informatico occasionale. Complessivamente si stima che in Italia il pianeta gig economy occupi fra 700mila e un milione di persone, prevalentemente giovani. Eppure di loro non c’è quasi traccia nell’anagrafe dell’Inps, segno che non godono né di versamenti pensionistici, né di copertura assicurativa. Da un’indagine condotta dall’Inps nel 2018 su 50 imprese di servizi on line, si apprende che 22 di esse non hanno posizione contributiva, 17 risultano avere solo lavoratori dipendenti, 11 sia lavoratori dipendenti che collaboratori iscritti alla gestione separata. In conclusione, poco più di 2.700 lavoratori. Tutti gli altri sono considerati lavoratori autonomi, a cui non è pagato nient’altro che il servizio reso secondo un tariffario stabilito dalla piattaforma. Questo significa: niente ferie, niente indennità di malattia, niente assicurazione contro gli infortuni, niente versamenti pensionistici. Per mettere fine a questa totale mancanza di tutele, nel 2017 alcuni fattorini al servizio di Foodora, si appellarono al Tribunale di Torino per essere riconosciuti lavoratori dipendenti. Il tribunale rigettò la richiesta, facendo propria la tesi di Foodora che voleva i rider lavoratori autonomi in quanto proprietari dei  mezzi di produzione: bicicletta e smartphone non sono dell’azienda, ma dei fattorini stessi. I lavoratori ricorsero in appello e ottennero una vittoria parziale: i giudici non li riconobbero lavoratori subordinati ma neppure lavoratori totalmente autonomi, bensì una via di mezzo, lavoratori «etero-organizzati», ossia organizzati da altri e in quanto tali aventi diritto ad alcune garanzie tipiche dei lavoratori dipendenti: «sicurezza e igiene, retribuzione diretta e differita, limiti di orario, ferie e previdenza». Sentenza confermata in Cassazione e quindi pienamente esecutiva. Un buon passo avanti per la dignità del lavoro, anche se la politica deve fare la sua parte per colmare le lacune legislative che permettono ai profittatori del terzo millennio di spadroneggiare.

Francesco Gesualdi

Rider a Tokyo. Foto di Yuya Tamai.




La sanità pubblica ai tempi del coronavirus

testo di Francesco Gesualdi |


Forse adesso abbiamo imparato che la sanità pubblica non è uno spreco come politici ed economisti volevano farci credere. Per capirlo meglio, confrontiamo i sistemi sanitari degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dell’Italia (con un occhio critico sulla Lombardia).

Più pubblico, meno privato

Nella puntata di maggio di questa rubrica, abbiamo iniziato a descrivere le conseguenze economiche dell’arrivo del nuovo coronavirus sulla vita delle persone. Abbiamo parlato del nuovo ruolo che lo stato dovrebbe avere (o riavere) nell’economia. In questa puntata, vedremo quanto un efficiente sistema sanitario pubblico (di tutti e per tutti) sia indispensabile. (F.G.)

L’aggressività del coronavirus e il numero di persone che ha  avuto bisogno di cure ospedaliere fino ai limiti più estremi, dove il confine fra la vita e la morte si fa incerto, ci hanno fatto riscoprire il valore della sanità. L’importanza cioè di quell’insieme di persone e strutture che ci permettono di riparare i danni provocati da agenti infettivi (come i virus) e da malattie in genere, per tornare alla pienezza della nostra vita. In una parola ci hanno fatto riscoprire il valore di quella sanità pubblica (cioè di tutti i cittadini) che, in tempi normali, non teniamo nella dovuta considerazione. Anzi, tendiamo a vedere come uno spreco da ridimensionare.

Interpretare i parametri

È successo anche in Italia dove la spesa sanitaria da parte delle strutture pubbliche è passata dal 7,1% del Pil nel 2009 al 6,5% nel 2018. Il dato è fornito dall’Osservatorio conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano, ed è stato calcolato in termini reali, ossia mantenendo fermo il livello dei prezzi.

Stando alle statistiche internazionali, l’Italia non si trova ai primissimi posti per spesa sanitaria, ma la statistica è una materia sofisticata che, a seconda dei dati prescelti, può darci informazioni molto diverse fra loro, talvolta fino a confonderci. Gli indicatori riguardanti la sanità sono un caso di scuola. Uno dei parametri abitualmente utilizzati per capire quanta importanza si dà alla sanità è la spesa sanitaria totale in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil). Da questo punto di vista all’avanguardia troviamo gli Stati Uniti, che nel 2018 hanno registrato una spesa sanitaria totale pari al 16,9% del Pil. Otto punti percentuale in più dell’Italia la cui spesa sanitaria complessiva è stata pari all’8,8% del Pil. Un dato che, a prima vista, potrebbe indurci a credere che gli Stati Uniti siano il paese con la maggiore attenzione per la salute al mondo. La spesa sanitaria indica però quanti soldi sono stati spesi per le cure mediche senza precisare né la destinazione, né i beneficiari. Ad esempio, sappiamo che gli Stati Uniti sono un paese altamente disuguale, poco propenso alla solidarietà collettiva. Per cui quel 17% potrebbe nascondere un alto numero di interventi di chirurgia plastica comprati dai più ricchi, mentre i più poveri non riescono a curarsi neanche un’appendicite. Il dato che ci dice quanto un paese sia attento alla salute di tutti è la spesa pubblica dedicata alla sanità, ed ecco che se concentriamo l’attenzione solo su questa voce, gli Stati Uniti scendono al 5,3%. E, tuttavia, anche rispetto all’idea di sanità pubblica ci sono idee molto diverse.

Mascherine anche per le statue di Sheffield, in Inghilterra. Foto: Tim Dennell.

Costi e profittI

Il problema della sanità è il suo costo che, con l’andare del tempo, si è fatto sempre più alto, non tanto per le medicine e gli onorari dei professionisti, quanto per le attrezzature che giocano un ruolo sempre più decisivo con l’evolversi della tecnologia. Per cui è sempre stato chiaro nella testa di tutti che la sanità è una spesa che non conviene affrontare da soli, ma assieme agli altri. L’alleanza è però un concetto che non trova spazio nelle logiche di mercato, per definizione individualista e competitivo. Tuttavia, il capitalismo non fa mai troppo lo schizzinoso e non esita a passare sopra ai propri fondamenti culturali se questi sono di ostacolo agli affari. È stato proprio osservando le soluzioni adottate dal movimento operaio che il mondo degli affari ha capito come trasformarsi in imprenditore dell’alleanza. Ai primordi della rivoluzione industriale, i salari erano così bassi da non permettere ai lavoratori nemmeno di dare sepoltura ai propri cari. Il che indusse a individuare nella mutualità la soluzione per affrontare i gravi problemi della vita. Operai di una stessa città, di una stessa categoria, versavano un tanto al mese in un fondo comune, acquisendo così il diritto di essere soccorsi in caso di necessità. Nascevano le società di mutuo soccorso, talune orientate anche al sostegno scolastico, ma principalmente create per dare assistenza in caso di malattia, invalidità, infortunio, disoccupazione e anche vecchiaia. Esperienze basate sul principio assicurativo che diedero luogo a due importanti sviluppi: l’uno in ambito privato, l’altro in ambito pubblico. In ambito privato diedero impulso alle assicurazioni previdenziali, società per azioni che, al pari delle società di mutuo soccorso assicurano contro malattia, infortuni, morte, vecchiaia, con la differenza che il vero obiettivo è garantire profitto agli azionisti. Quindi, premi e indennizzi sono calcolati in modo da lasciare sempre un margine di guadagno per i proprietari.

Le Assicurazioni sanitarie

A questo filone di attività appartengono le assicurazioni sulla vita, i fondi pensione e anche le assicurazioni sanitarie che, pur essendosi sviluppate ovunque, hanno trovato terreno particolarmente fertile oltre Atlantico dove la mentalità mercantile è più radicata. Negli Stati Uniti, il sistema sanitario si regge di fatto sul sistema assicurativo per il 50% pubblico e il 50% privato, laddove la parte pubblica è ulteriormente suddivisibile in due porzioni: 36% finanziata dal sistema fiscale per prestazioni a favore di anziani e incapienti, 14% finanziata dai prelievi sugli stipendi dei dipendenti pubblici per prestazioni sanitarie a loro favore. Ogni forma assicurativa garantisce prestazioni diversificate. Nel caso di chi gode dell’assicurazione sociale, i limiti sono fissati dalla legge. Per tutti gli altri sono fissati dall’ammontare dei premi pagati. In definitiva, in caso di necessità di cure, la probabilità di dover compartecipare alla spesa farmaceutica o ospedaliera è molto alta per ogni tipo di assicurato: sia esso iscritto all’assicurazione pubblica o cliente dell’assicurazione privata.

Questa intricata rete assistenziale rende l’impalcatura sanitaria statunitense molto complicata con la contemporanea presenza di enti pubblici, come Medicare e Medicaid, e di società assicurative dai più vari connotati. Analoga complicazione si trova anche nell’ambito degli ospedali e di tutte le altre strutture che forniscono servizi sanitari. Pochi ospedali statali al servizio degli assistiti dagli enti pubblici convivono con una pletora di ospedali privati, alcuni posseduti da enti caritatevoli,   la maggior parte da società per azioni. In ambito assicurativo, dieci società, fra cui United Health Group, Kaiser Foundation, Anthem, Humana, si aggiudicano il 50% dei premi assicurativi di tipo sanitario. In ambito ospedaliero, l’operatore più grande è Hospital Corporation of America, che possiede 185 ospedali e 2mila cliniche con un fatturato annuo di 28 miliardi di dollari e 190mila dipendenti. Gli ospedali ricevono i loro compensi dalle assicurazioni e dai diretti interessati se la prestazione fornita va oltre la copertura assicurativa. Secondo l’organizzazione non profit Fair Health, il coronavirus potrebbe fare arrivare a migliaia di ospedalizzati conti salatissimi in base alla loro posizione assicurativa: da 40 a 75mila dollari se totalmente scoperti e da 20 a 38mila dollari se coperti da polizze di bassa entità.

La nascita del Sistema  sanitario nazionale

Fino al 1978 anche in Italia l’assistenza sanitaria era gestita su base assicurativa, ma da parte dello stato. In pratica, ogni lavoratore era obbligato a versare una percentuale del proprio stipendio a una specifica cassa statale che assicurava la sanità ai partecipanti. La più importante era l’Inam – Istituto nazionale assistenza malattie – a favore dei lavoratori dipendenti. Il limite del sistema era che forniva assistenza solo a chi partecipava ai versamenti, mentre escludeva tutti gli altri. Il che contrastava con il dettato dell’articolo 32 della Costituzione secondo il quale la Repubblica deve tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo. Per definizione, i diritti appartengono a tutti e sono indipendenti dalle condizioni personali di ricchezza, sesso, età. Lo spirito della Costituzione venne attuato nel 1978 tramite l’introduzione del Servizio sanitario nazionale concepito come servizio universale e gratuito, finanziato attraverso la fiscalità generale. Dotato di tutti i servizi, dagli ospedali agli ambulatori territoriali, il servizio sanitario italiano è ritenuto uno dei migliori al mondo, ma alcuni segnali fanno temere per la sua integrità. Fra essi il restringimento dei farmaci a carico del servizio sanitario nazionale, l’introduzione dei ticket sulle prestazioni diagnostiche, le lunghe liste di attesa per visite, esami ed interventi che spingono le famiglie più abbienti a rivolgersi alle strutture private, che non sono scomparse.

La Lombardia  e la sanità di mercato

In alcune regioni, ad esempio la Lombardia, c’è (o c’è stata) la tendenza ad accrescere il numero di convenzioni che abilitano le strutture private ad erogare servizi per conto del Servizio sanitario nazionale. Nel 2017, ad esempio, le strutture private lombarde hanno assorbito il 35% dei ricoveri ordinari e il 40% del denaro messo a bilancio per questo scopo dal servizio sanitario della regione.

Segnali preoccupanti che denotano una graduale demolizione del servizio pubblico a favore della sanità di mercato, anche perché è un fenomeno che sta avvenendo anche in altri paesi. Tipico il caso della Gran Bretagna dove il servizio sanitario universale esiste dal 1948 e subito venne amato dagli inglesi. Negli anni Ottanta del secolo scorso subì però una prima incrinatura quando Margaret
Thatcher decretò la possibilità di esternalizzare a imprese private servizi specifici come pulizie, mense, lavanderie, sterilizzazione. Nel 2000 la crepa si approfondì ulteriormente con la decisione, questa volta da parte del  governo laburista di Blair, di poter appaltare a società private anche mansioni di più diretta pertinenza sanitaria come indagini di laboratorio e piccoli interventi chirurgici. Ma la definitiva apertura ai privati è stata decretata dalla riforma approvata nel 2012 che spinge ulteriormente il Servizio sanitario nazionale verso il mercato attraverso due meccanismi principali: la possibilità per ogni cittadino di scegliere lui a quale struttura rivolgersi, sia essa privata o pubblica, per ottenere la prestazione specialistica pagata dal Servizio sanitario nazionale e la possibilità per quest’ultimo di appaltare l’assistenza ospedaliera alle strutture private in base al criterio monetario. Uno dei settori a maggior coinvolgimento privato è quello psichiatrico. Secondo un’indagine condotta dal Financial Times, a Bristol il 95% dei posti letto dedicati ai pazienti psichiatrici sono in strutture private, prevalentemente società statunitensi quotate in borsa quali Acadia Healthcare e Universal Health Service. Nel novembre scorso, durante la campagna elettorale, il Partito laburista sosteneva di avere documenti comprovanti l’intenzione dei conservatori di uscire dall’Unione europea anche per consentire alle imprese sanitarie statunitensi di penetrare ulteriormente sul suolo inglese.

In Italia, gli ospedali hanno fatto il massimo per curare i malati da coronavirus, ma i momenti di difficoltà che hanno vissuto debbono indurci a impegnarci sempre di più per rafforzare la nostra sanità pubblica al servizio di tutti.

Francesco Gesualdi




Economia e vita ai tempi del coronavirus

testo di Francesco Gesualdi |


Siamo dovuti arrivare con l’acqua alla gola per iniziare a cambiare. Tra la vita e la ricchezza abbiamo scelto la prima. Ora dobbiamo rivedere profondamente stili di vita e forme economiche. Una sfida inevitabile e non indolore, ma affrontabile.

Sembrava che niente potesse fermarci. Né gli uragani, né lo scongelamento delle calotte polari, né gli appelli disperati di Greta Thunberg. Insensibili a tutto, abbiamo continuato a spostarci freneticamente, a consumare oltre ogni logica di buon senso, a invocare la crescita come il nostro massimo bene. Ma poi è arrivata una minuscola forma di vita, neanche una cellula, addirittura un frammento di Rna, e ci ha fermati. Semplicemente perché ci ha fatto vedere la morte in faccia, come invece non sono capaci di farci vedere i cambiamenti climatici, troppo lenti per metterci paura.

La legge del rospo

È la legge del rospo. Se lo metti in una pentola di acqua bollente, avverte di essere in pericolo di vita e, raccogliendo tutte le sue forze, con un balzo salta fuori dalla pentola. Ustionato, ma vivo. Se invece lo metti in una pentola di acqua fredda e vi accendete sotto il fuoco, il rospo si adatterà alla temperatura crescente e vi morirà dentro, bollito. Il coronavirus (e Covid-19, la patologia che genera) è stato avvertito come un pericolo mortale e abbiamo reagito: se dobbiamo scegliere fra la vita e la ricchezza scegliamo la vita. Per questo abbiamo accettato di rinunciare a viaggi e vacanze, abbiamo disertato le autostrade, abbiamo evitato ristoranti, stadi e sale cinematografiche, non ci siamo lamentati dei tagli ai voli aerei e alle corse ferroviarie. Abbiamo accettato di fare le code ai supermercati, di lavorare da casa quando era possibile, di non presentarci al lavoro in assenza di mascherine.

Pur nella sua drammaticità, la capacità che abbiamo avuto di reagire di fronte al coronavirus è di buon auspicio: significa che siamo ancora capaci di scegliere. Ma scegliere solo perché si ha l’acqua alla gola non è la miglior strategia di cambiamento. I drammi ambientali e sociali che abbiamo accumulato, ci impongono di rivedere in profondità stili di vita e forme economiche, ma la sfida è farlo in maniera indolore. In fondo la scelta che dobbiamo compiere è proprio questa: proseguire la nostra corsa frenetica finché non ci schianteremo contro il muro o frenare e deviare finché siamo in tempo? Se fossimo intelligenti sceglieremmo la seconda strada: prenderemmo atto della necessità di ridurre e programmeremmo la transizione introducendo gradualmente tutte le riforme che servono in ambito produttivo, sociale, politico, in modo da attuare la sostenibilità senza che nessuno abbia a rimanere senza lavoro e, quindi, senza mezzi di sostentamento.

«Covid-19 ci ha costretto a fermarci e, speriamo, anche a riflettere. Da un lato ha messo in ginocchio il nostro modello industriale, mettendo in crisi il lavoro e la vita di milioni di persone, ma dall’altro, paradossalmente, ha ridotto massicciamente le emissioni di gas serra nel mondo (oltre il 25% solo in Cina) e ha ripulito l’aria della Pianura Padana dalle polveri sottili. Non facciamo sì che un ritorno alla normalità significhi rimpiazzare le mascherine antivirali con quelle antismog». Così scriveva un gruppo di parlamentari in una lettera ad Avvenire il 18 marzo 2020. E forse è proprio dalle contraddizioni che il coronavirus ha messo in evidenza che potremmo cominciare per riformare la nostra economia. Mi limiterò solo a due aspetti.

Per un’economia locale

Il primo si riferisce alla carenza di mascherine: in Italia non se ne trovano semplicemente perché non esiste più un’impresa che le produca. Conseguenza di una globalizzazione totalizzante che, portando alle estreme conseguenze la teoria dei vantaggi comparati, ha trasferito in Cina e altri paesi a basso costo produttivo qualsiasi tipo di produzione. Tutte le scelte a senso unico, prima o poi, presentano il conto, perché la vita non è mai fatta di un solo elemento, ma di tanti aspetti che devono stare in equilibrio fra loro. L’impostazione mercantile pretende di imporci come unica legge la convenienza monetaria. Di conseguenza ci ha catapultati in una globalizzazione incondizionata, che però ci ha fatto prima subire contraccolpi sul piano ambientale e poi anche su quello della sicurezza sanitaria. Già venti anni fa Wolfgang Sachs ci aveva avvertito della necessità di ritrovare il senso di casa che non vuol dire rinchiudersi nell’autarchica, tanto meno avventurarsi in guerre commerciali, ma valorizzare l’economia locale. Ogni paese dovrebbe produrre tutto il possibile per la propria popolazione in modo da evitare trasporti inutili, salvaguardare l’occupazione, tutelare la propria autonomia. Quando l’emergenza sarà finita dovremo impegnarci per fare cambiare le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) affinché l’obiettivo non sia più l’espansione del commercio fine a se stesso, ma la salvaguardia delle economie locali, la tutela dei diritti dei lavoratori, la riduzione dell’anidride carbonica.

Lo stato e la UE

Il secondo spunto di riflessione offerto dalla situazione creata dal coronavirus riguarda lo stato: il suo ruolo e le sue vie di finanziamento. Di fronte alle difficoltà in cui sono venuti a trovarsi cittadini, ospedali, interi comparti produttivi, giustamente lo stato ha deciso di intervenire con stanziamenti eccezionali, non solo per rafforzare gli interventi di prevenzione e cura contro l’infezione, ma anche per sostenere i redditi, salvaguardare l’occupazione e potenziare gli ammortizzatori sociali di quanti stavano subendo un danno economico dall’epidemia. In gioco c’erano migliaia di posti di lavoro e quindi il pane di migliaia di famiglie: intervenire era un obbligo morale e sociale prima ancora che un’esigenza economica.

Chiarita l’assoluta necessità di intervenire, non si può fare a meno di considerare che l’operazione è stata fatta a debito peggiorando un quadro già molto critico. Non tanto per le maggiori somme che dovremo restituire a titolo di capitale, quanto per la maggiore quantità di denaro che dovremo sborsare a copertura degli interessi. Soldi dei cittadini che in misura crescente saranno distolti da servizi e investimenti collettivi per finire nelle tasche dei nostri creditori. È il solito vecchio gioco del sollievo di oggi che prepara la pena del domani.

Ma davvero non abbiamo altro destino?

Diciamocelo: l’economia non è come la fisica che è governata da regole naturali immodificabili come la forza di gravità. L’economia è frutto di regole umane che possiamo cambiare in ogni momento. E se oggi ci troviamo nella condizione di non avere altro modo di affrontare le emergenze se non indebitandoci, è perché abbiamo fatto scelte assurde nella gestione della moneta. C’è una certa ritrosia a criticare l’euro perché non si vuole mettere in discussione l’appartenenza all’Unione europea. Ma l’attaccamento all’Europa non si dimostra accettando tutto ciò che fa, bensì sapendo criticare ciò che non va. Chi critica e propone modifiche dimostra di amare l’Europa più di chi l’accetta così com’è. I sentimenti antieuropei sempre più diffusi da un capo all’altro dell’Unione non hanno matrice ideologica, ma pratica. Sono frutto dell’esperienza di chi ha constatato che le regole europee hanno esacerbato la concorrenza fra lavoratori, hanno aggravato l’austerità, hanno accelerato le delocalizzazioni produttive all’interno dell’Unione, hanno lasciato soli i paesi di prima linea nell’accoglienza dei migranti. E la conclusione di molti è il ritorno ai nazionalismi. Giustamente ce la prendiamo con certi politici che cavalcano le paure e il malcontento per consolidare la propria posizione di potere, ma l’unico modo per sbarrare la strada all’avanzata dell’onda nazionalpopulista è la correzione dell’Europa in un’ottica di maggiore sensibilità sociale. Che non si fa a parole, ma con riforme radicali a cominciare dalla gestione dell’euro.

foto Nickolay Romensky

Senza fare nuovo debito

L’euro è stato concepito in piena era neoliberista, quando i governi non erano più visti come attori indispensabili per l’economia, ma come nemici da esautorare se non da combattere. Per cui si è deciso di gestire la moneta unica in una logica puramente mercantilistica con un accanimento particolare verso i governi a cui la Banca centrale europea non poteva, e tutt’ora non può, prestare neanche un centesimo. Dell’assurdità di questa misura ci siamo resi conto nel 2011 quando i paesi più deboli e più indebitati sono diventati preda della speculazione internazionale. La situazione è stata ripresa per i capelli da Mario Draghi (al quale ora è subentrata Christine Lagarde) che, tramite alcune forzature, è riuscito a trasformare la Bce nel più potente acquirente di titoli di stato sul mercato secondario. Il che non solo ha fermato gli speculatori, ma ha anche indotto una notevole riduzione dei tassi di interesse applicati ai debiti sovrani. Il nostro paese è stato fra quelli che più hanno risentito dell’effetto benefico di questa politica perché ha visto passare la spesa per interessi da 83 miliardi nel 2012 a 64 miliardi nel 2018 nonostante una crescita del debito complessivo.

Poter pagare bassi tassi di interessi è già un sollievo, ma quando la spesa complessiva per il servizio del debito assorbe comunque il 10% delle entrate pubbliche, bisogna trovare dei modi per poter finanziare le emergenze sociali, sanitarie, ambientali, economiche senza ricorrere a nuovo debito. Il che è possibile a patto che si riformi la Banca centrale europea. Bisogna riaffermare il principio che la moneta deve essere gestita avendo come priorità la piena occupazione, l’espansione dei servizi pubblici, la tutela dei beni comuni, la difesa delle famiglie più bisognose. Obiettivi che hanno guidato il governo delle monete nei gloriosi trent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale, anni durante i quali i paesi europei hanno conosciuto il più alto tasso di crescita economica, di occupazione e di sviluppo della sicurezza sociale grazie all’azione guida dei governi e a un uso sociale della moneta. Il principio base è che, in condizioni di emergenza, i governi debbano poter finanziare le spese supplementari con denaro ottenuto direttamente dalla Banca centrale, a tasso zero sotto forma di debito irredimibile. La cosa può fare paura per la quantità di nuovo denaro di cui può essere inondato il sistema, ma non è senz’altro un problema di oggi. Dal 2015 al 2018 la Banca centrale europea ha iniettato nel sistema economico 2.650 miliardi di nuova liquidità, ma lo ha fatto acquistando titoli, privati e pubblici, dalle banche commerciali e da altri investitori privati. Se avesse usato lo stesso denaro per finanziare direttamente i governi, più che una crescita della finanza, avremmo avuto una crescita dell’occupazione, dei servizi pubblici, degli investimenti verdi. In conclusione, avremmo avuto un effetto benefico assicurato per l’economia reale e la realtà sociale, che invece continuano a dibattersi nei problemi di sempre. Dal 1992, anno in cui veniva firmato il Trattato di Maastricht che istituiva l’euro e questa Banca centrale europea, sono passati quasi trent’anni. È tempo di rivederlo, in modo da non essere più costretti a dover andare in Europa per chiedere più flessibilità, ossia possibilità di fare nuovo debito, ogni volta che si ha l’acqua alla gola, ma di poter ottenere nuova liquidità per gestire le emergenze senza fare nuovo debito. Si può fare, ma qualcuno deve avere il coraggio di gridare che il re è nudo.

Francesco Gesualdi

 




Lavoro o malattia: un dilemma inaccettabile

testo di Francesco Gesualdi |


Per anni dai camini e dai depositi dell’Ilva di Taranto sono uscite tonnellate di sostanze inquinanti e cancerogene: diossido di azoto, anidride solforosa, metalli pesanti, diossine. A parte le vicende economiche, politiche e giudiziarie attorno alla fabbrica, il vero conflitto è tra diritto al lavoro e diritto alla salute. Un conflitto che nelle acciaierie di Linz (Austria) a Duisburg (Germania) è stato risolto.

Il 7 novembre 2019, quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte andò a Taranto per approfondire il caso ex Ilva, si trovò difronte a due città: quella rappresentata dai lavoratori che chiedevano la difesa a oltranza dell’acciaieria e quello delle mamme che ne chiedevano la chiusura. Gli uni in nome del lavoro, le altre in nome della salute. Molte delle mamme venivano dal quartiere Tamburi, il rione sorto a ridosso della fabbrica Ilva in cui vivono 18mila persone. Il quartiere dove bisogna «pulire due tre volte al giorno se non vogliamo pattinare sulla polvere», spiega una di loro. «E nei giorni di vento la troviamo anche nel frigorifero». La polvere è quella del ferro e del carbone, in parte proveniente dai depositi, in parte dai camini, in ogni caso piena di sostanze che oltre a sporcare pavimenti e biancheria, fanno ammalare.

Emissioni e complicità

Negli anni prima che intervenisse la magistratura, le emissioni erano quantificate nell’ordine delle migliaia di tonnellate. I rilievi relativi al 2010 parlano di   oltre 4mila tonnellate di polveri, 11 mila tonnellate di diossido di azoto, 11.300 tonnellate di anidride solforosa oltre a quantità variabili di metalli pesanti e diossine. Polveri respirate da persone con i balconi a pochi metri dal muro di cinta della fabbrica che durante i pasti avevano come panorama i camini fumiganti degli altiforni. Polveri che si mescolavano con l’aria che respiravano e con i cibi che inghiottivano procurando tumori in ogni parte del corpo.

Nell’agosto 2016 il Centro ambiente e salute, finanziato dalla regione Puglia, ha pubblicato

il rapporto conclusivo sulla morbosità e mortalità della popolazione residente a Taranto. Lo studio, condotto dal 1998 al 2014 su un totale di 321mila persone residenti nei comuni di Taranto, Massafra e Statte, ha accertato 36.580 decessi collegabili alle emissioni dell’ex Ilva. Del resto già lo studio epidemiologico commissionato dall’Istituto nazionale di sanità e pubblicato nel 2012, aveva accertato che, nei territori circostanti lo stabilimento Ilva, c’era un eccesso di tumori femminili del 20%; un eccesso di tumori maschili del 30% e, quel che è peggio, un aumento dell’incidenza di tumori infantili del 54% e un aumento della mortalità infantile dell’11% rispetto alla media regionale.

Si poteva evitare? Sembrerebbe di sì a giudicare dalle buone prassi attuate da altre acciaierie. Un esempio in tal senso viene dall’acciaieria di Linz in Austria, per molti versi comparabile a quella di Taranto: entrambe con la stessa capacità produttiva, entrambe con le stesse fasi produttive, entrambe a ridosso della città, entrambe gestite da privati. Quella di Taranto è stata trascinata in tribunale per disastro ambientale, quella di Linz è portata come esempio di compatibilità ambientale. E, alla fine, si scopre che, nel caso specifico della produzione di acciaio, le vere minacce per la salute e per l’ambiente sono avidità e negligenza, quest’ultima non solo da parte dei proprietari delle imprese, ma anche di chi ricopre ruoli istituzionali. Di sicuro a Taranto lo scempio si è compiuto con la complicità di molti: c’è chi ha inquinato, chi ha chiuso gli occhi, chi ha provato a nascondere la polvere sotto un tappeto ormai ridotto a brandelli, chi non ha deciso, chi ha scelto di non decidere, chi ha guardato solo agli interessi economici di breve termine. Per molti, troppi anni.

Passaggi di proprietà

La prima pietra dell’acciaieria di Taranto venne posata il 9 luglio 1960 da parte dell’Iri, cassaforte dello stato italiano, e partì subito male: per far posto allo stabilimento si estirparono migliaia di piante di olivo. Nel 1964, prima ancora che lo stabilimento fosse completato, l’ufficiale sanitario di Taranto, il medico Alessandro Leccese, aveva messo in guardia contro il possibile inquinamento da benzo(a)pirene, berillio, e molto altro. Ma ottenne solo ingiurie, isolamento e denunce da cui dovette difendersi in tribunale. Nel luglio 1971 la rivista «Taranto oggi domani» denunciò l’alto grado d’inquinamento atmosferico e marino, e localizzò nel quartiere Tamburi la massima concentrazione di sostanze velenose. In quel quartiere si svolsero molte inchieste, sollecitate dalla popolazione e dalle donne in particolare, che non ne potevano più della polvere nera che si infilava dappertutto. Tanto più che, negli anni a seguire, venne deciso il raddoppio della capacità produttiva. Scelta sciagurata non solo per la salute dei tarantini, ma anche per la stabilità finanziaria dello stabilimento, considerato che di lì a poco il mercato dell’acciaio avrebbe registrato una certa saturazione. Fatto sta che nel 1995 lo stato vendette lo stabilimento alla famiglia Riva che diede il colpo di grazia alla salute dei tarantini. Fra il 1997 e il 2003 molti lavoratori anziani sindacalizzati andarono in pensione, la fabbrica rimase senza vigilanza interna e la famiglia Riva ne approfittò per trascurare gli investimenti necessari al miglioramento ambientale e della sicurezza. E a dimostrazione delle sue responsabilità, in quegli stessi anni un’altra acciaieria, quella di Duisburg in Germania, investiva pesantemente per rispettare la normativa europea in materia ambientale che, nel frattempo, aveva cominciato a muovere i primi passi. Venivano interamente sostituiti i forni a coke, mentre l’intera lavorazione del carbone veniva allontanata dal centro abitato. Un’operazione che alla ThyssenKrupp costò circa ottocento milioni di euro, ma che mise in sicurezza cittadini e lavoratori. Così, mentre a Duisburg il problema del benzo(a)pirene – uno dei cancerogeni più temibili – veniva sostanzialmente risolto, a Taranto continuava a rimanere al di sopra dei limiti sanciti dalla legislazione europea. Complice la politica: nel 2010 Stefania Prestigiacomo, ministro dell’ambiente del governo Berlusconi, con un decreto legge, spostò dal 1999 al 2013 l’entrata in vigore del valore obiettivo di 1 ng/m3 (nanogrammi per metro cubo) per il benzo(a)pirene. Quanto alla regione Puglia, vietò il pascolo nelle zone contaminate ma non fece nulla per imporre all’azienda di ridurre le emissioni. Il toro per le corna venne infine preso dalla magistratura di Taranto che il 26 luglio 2012 ordinò il blocco della produzione e l’arresto di otto vertici aziendali tra cui Emilio Riva e il figlio Nicola. Ma il governo si mise di traverso e nel dicembre dello stesso anno emanò un decreto legge che autorizzava la prosecuzione della produzione. Così si mise in moto un braccio di ferro fra giudici e governo, una sorta di Kramer contro Kramer, dove la magistratura imponeva divieti a difesa della salute e il governo li smontava a difesa della produzione. Quanto alla famiglia Riva, vista la montagna di guai giudiziari accumulati, optò per il basso profilo e se da un parte accettò di consegnare, a parziale indennizzo, una parte del tesoretto che aveva rifugiato in Svizzera (1,2 miliardi), dall’altra dichiarò fallimento. Così lo stabilimento di Taranto passò sotto gestione commissariale con l’intento di proseguire la produzione nonostante le problematicità esistenti. Il tutto in attesa di trovare una realtà industriale disposta a rilevarlo. Nel 2017 la gara di assegnazione venne vinta da Arcelor Mittal che però di lì a poco si accorse di avere fatto male i conti, e nel novembre 2019, accampando come pretesto il mutato contesto legislativo, annunciava di voler recedere dal contratto. Di nuovo senza proprietario, attorno allo stabilimento si è riaperta la vecchia contesa: approfittare della vacanza gestionale per fermare tutto e mettere finalmente la città in sicurezza o trovare in fretta un nuovo proprietario per mandare avanti la produzione? In altre parole, privilegiare la salute o il lavoro?

ILVA © Fabio Duma

Prevenire, vigilare, rimediare

Il dilemma è talmente assurdo e scandaloso che va rifiutato. Il lavoro è un diritto perché serve per vivere, ma se porta morte che lavoro è? In altri termini non può esistere lavoro, se non esiste salute. Per cui è compito della Repubblica creare le condizioni affinché non si ponga mai, nel paese, questo tipo di contrapposizione. E deve farlo attraverso tre strategie: prevenire, vigilare, rimediare.

Prevenire significa vietare la produzione di beni dannosi sia per chi li produce che per chi li usa. Tipico l’esempio dell’amianto che ha provocato migliaia di casi di tumore al polmone, sia nei lavoratori che nei cittadini. Molti altri prodotti andrebbero rimessi in discussione. Valgano come esempio i pesticidi e le sementi geneticamente modificate di cui non conosciamo tutte le ripercussioni sugli ecosistemi, né gli effetti nel lungo periodo. È responsabilità di ogni collettività fissare il limite di rischio accettabile e, nel dubbio, utilizzare come criterio il principio di precauzione.
Vigilare significa verificare che le aziende attuino tutte le misure che servono per portare le emissioni legate ai cicli produttivi al di sotto del limite di dannosità per la collettività e garantire ai lavoratori condizioni di sicurezza. E non importa se ciò comporta un aumento dei prezzi finali. La salute e la tutela ambientale vanno considerati costi  da includere nei prezzi finali al pari dell’energia o delle materie prime. Se lo avessimo fatto da sempre, forse avremmo evitato un consumismo sgangherato che ha portato a fenomeni di grave degrado del pianeta.
Rimediare significa correggere le situazioni malsane, tutelando al tempo stesso la salute e i posti di lavoro. Ogni volta con strategie appropriate alla situazione. Rispetto a Taranto, per esempio, la prima domanda da porsi è se la produzione di acciaio va mantenuta o abbandonata tenendo conto della sostenibilità economica e ambientale del paese.

Lo stato e i lavoratori

Ci serve produrre acciaio? E in che quantità? Per farne cosa? A quale prezzo rispetto ai cambiamenti climatici? E se la conclusione dovesse essere affermativa, dovremmo comunque accettare che prima di fare ripartire la produzione, lo stabilimento sia rimesso a norma. Con spese a carico di chiunque lo rilevi. E se dovesse succedere che nessun privato si fa avanti, lo dovrebbe fare lo stato, nazionalizzando lo stabilimento. Il tutto senza fare subire contraccolpi alle maestranze che, durante il periodo di chiusura, dovrebbero comunque ricevere uno stipendio. Che non significa automaticamente una cassa integrazione in cambio di niente, ma in cambio di lavori socialmente utili. Se invece dovessimo giungere alla conclusione che lo stabilimento di Taranto non ci serve più, allora deve essere creata occupazione alternativa per tutti i lavoratori coinvolti. Nell’immediato, tramite il soddisfacimento dei bisogni ambientali e sociali, primo fra tutti la bonifica del territorio e dei corsi d’acqua. Più in prospettiva, tramite la produzione di beni e servizi che possono generare reddito utilizzando correttamente ciò che il territorio è in grado di mettere a disposizione sotto il profilo naturale, culturale, professionale. Con un forte ruolo da parte dello stato, che solo per motivi ideologici lo si vuole escluso dall’attività produttiva ed economica. Però, quando si dice stato, si dice comunità. È tempo che la comunità torni protagonista della propria economia.

Francesco Gesualdi