L’economia dei respingimenti


Ogni anno sono milioni i rifugiati e i migranti. Lasciano i loro paesi per guerre, persecuzioni, disastri naturali, fame. Cercano rifugio e ospitalità nei paesi ricchi, i quali – oggi ancora più che nel passato – mettono in atto politiche di respingimento. Proviamo a spiegare i termini di una questione planetaria.

Secondo l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di rifugiati, nel 2023 almeno 117 milioni di persone (secondo le prime stime) in tutto il mondo hanno lasciato le loro case per sfuggire a guerre e persecuzioni. A questi occorre aggiungere – stando ai dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) – circa 281 milioni di migranti (e ancora non c’è unanimità giuridica sugli spostamenti dovuti ai cambiamenti climatici: sono rifugiati ambientali o migranti ambientali?). La sola guerra in Ucraina ha provocato lo spostamento di circa 7 milioni di individui. Persone che scappano senza una meta ben precisa con il solo intento di mettersi in salvo. Molti terminano il loro viaggio non appena trovano un accampamento della Croce Rossa o delle Nazioni Unite pronti ad accoglierli. Altri, invece, proseguono con l’intento di trovare riparo in un paese ricco, dove pensano di potersi garantire un futuro diverso. I paesi ricchi, però, non li vogliono e il loro viaggio si trasforma spesso in tragedia. Il naufragio di Cutro (26 febbraio 2023), con il suo centinaio di vittime, ne è una triste testimonianza.

Le strategie dei governi

Per impedire ai migranti di entrare e stabilizzarsi dentro i loro confini, i paesi ricchi si avvalgono di un piano strategico articolato su più livelli.

Il primo livello di sbarramento è rappresentato da accordi con i paesi di transito affinché impediscano ai migranti di proseguire il loro viaggio.

In Europa, le grandi ondate migratorie sono iniziate nel 2011 dopo l’intervento armato in Libia da parte dell’Occidente che destabilizzò il paese mettendo in fuga centinaia di migliaia di libici e di stranieri immigrati che si trovavano nel paese per lavorare.

Nel 2013 un barcone si rovesciò nei pressi di Lampedusa e affogarono quasi 400 persone. Il fatto provocò grande sconcerto nell’opinione pubblica e l’allora governo Letta decise di avviare l’operazione Mare Nostrum, il pattugliamento del Mar Mediterraneo da parte della Marina militare  italiana per salvare i migranti in pericolo. Ma l’operazione non durò più di un anno.

Nel frattempo, anche il Medioriente era entrato in piena crisi umanitaria per il protrarsi della  guerra in Iraq e in Afghanistan e il divampare della guerra in Siria. Quell’anno all’incirca quattro milioni di siriani si trovavano in Libano e Turchia. Tuttavia, c’era anche chi cercava di raggiungere l’Unione europea. Nel 2015 ben 900mila persone approdarono sulle coste greche, in un paese impreparato ad affrontare un’emergenza umanitaria di tali proporzioni dopo anni di austerità che lo avevano messo in ginocchio.

Così l’Unione europea chiese aiuto alla Turchia, che si impegnò a pattugliare le proprie coste per impedire ai migranti di imbarcarsi verso la Grecia. In più, qualora qualcuno fosse riuscito a raggiungere i paesi europei, la Turchia se lo sarebbe ripreso. In cambio, l’Unione europea ha versato (a rate) sei miliardi di euro per il mantenimento dei rifugiati in Turchia. Oltre che con i soldi, l’Ue ha pagato Erdogan anche con il silenzio sulla violazione dei diritti umani e altri abusi commessi dal governo turco verso i Curdi. Ma questo non poteva essere messo nero su bianco.

Il patto è scaduto nel 2021 e non è dato sapere se e come verrà rinnovato. Ma ha fatto scuola e negli anni seguenti altri accordi sono stati stipulati sia dall’Ue che dal governo italiano con vari paesi del Nord Africa.

Migranti su un barchino. Foto Geralt – Pixabay.

L’accordo con la Libia

Nel caso dell’Italia, uno dei più imponenti è stato quello firmato nel 2017 con la Libia. In cambio di mezzi e denaro elargiti dall’Italia alla Guardia costiera libica, il governo del paese si impegnava a bloccare i flussi migratori tramite la chiusura del confine sud, il blocco delle partenze via mare verso l’Europa, il respingimento a terra dei migranti intercettati al largo delle coste libiche.

Il memorandum, rinnovato già due volte, prima nel 2020 poi nel 2023, dovrebbe aver comportato una spesa complessiva di 124 milioni di euro. Il condizionale è d’obbligo perché la trasparenza scarseggia.

Lorenzo Figoni, esponente di Action Aid, sottolinea come il Parlamento svolga un ruolo marginale sull’argomento: vota i finanziamenti di massima indicati in legge di bilancio, ma poi non chiede una rendicontazione dettagliata della spesa. Di certo comunque c’è che la Libia è un inferno per i migranti.

In varie occasioni Ong e Nazioni Unite hanno documentato come rifugiati e migranti vengano arbitrariamente arrestati e imprigionati in centri di detenzione dove rimangono per lunghi periodi in condizioni disumane. Senza cibo, senza acqua, senza servizi igienici, sono spesso sottoposti a percosse e torture con bastoni, spranghe, plastica fusa, scariche elettriche, prolungati periodi di sete. Le donne, comprese ragazze giovanissime, subiscono ripetute violenze sessuali.

Crimini commessi da parte di personale governativo libico sovvenzionato dal governo italiano. Come se non bastasse, vari rapporti delle Nazioni Unite denunciano forti collusioni fra trafficanti di esseri umani e vertici della polizia, nonché della Guardia costiera libica.

Lo sostiene, ad esempio, il rapporto d’indagine pubblicato il 3 marzo 2023 da Human rights council quando scrive di «avere ragionevoli motivi per ritenere che il personale di alto livello della Guardia costiera libica  e della Direzione per la lotta alle migrazioni illegali sia colluso con trafficanti e contrabbandieri che assieme ai gruppi di miliziani catturano i migranti e li privano della loro libertà». E aggiunge: «La Missione ha anche ragione di credere che le guardie abbiano chiesto e ottenuto pagamenti per il rilascio dei migranti.

In Libia, la tratta, la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato, la detenzione, l’estorsione e il contrabbando di esseri umani generano entrate significative a individui singoli, a gruppi criminali organizzati, a personale delle istituzioni statali».

L’accordo con la Tunisia

Secondo Action Aid, tra il 2015 e il 2020, l’Italia ha speso oltre un miliardo di euro a favore di Libia, Niger, Tunisia, Sudan e altri governi africani che non garantiscono il rispetto dei diritti umani, come contropartita della loro attività di respingimento o trattenimento dei migranti. Una politica che il governo Meloni intende rafforzare coinvolgendo un’Unione europea con la quale la contrapposizione è continua. Richiesta che la Commissione europea sembra intenzionata ad accogliere a giudicare dal protocollo di intesa firmato con il governo tunisino il 16 luglio 2023. Fra i molteplici punti toccati, è compresa anche la lotta alle migrazioni illegali con un sostegno finanziario ipotizzato in 105 milioni di euro da parte dell’Ue.

Il memorandum è però controverso: il presidente tunisino Saied parla di carità, mentre i governi europei non vedono alcuna diminuzione dei flussi migratori. Inoltre, al tempo stesso in cui avveniva la firma del protocollo, i quotidiani di tutto il mondo riportavano le foto di migranti ricacciati nel deserto dalla polizia tunisina, morti per mancanza d’acqua.

L’Ue è impegnata nella lotta contro i migranti anche su un altro fronte. Quello di protezione e controllo dei confini nazionali, anche se i protagonisti principali di questa attività rimangono i singoli governi che arrivano a costruire muri e recinzioni, pur di impedire l’ingresso ai migranti.

Soldati indiani lungo la barriera che divide il confine tra India e Bangladesh. Foto IANS.

Stati Uniti (ma anche India)

Una strategia che non riguarda solo l’Europa, ma il mondo intero. Basti dire che lungo il confine con il Bangladesh, l’India ha costruito una fortificazione metallica lunga 3.200 chilometri, la più lunga degli oltre 15mila chilometri di sbarramenti costruiti a livello mondiale. Nelle Americhe, gli Stati Uniti sono separati dal Messico da mille chilometri di muro alto dieci metri, parte in cemento, parte in metallo. E poiché in alcuni tratti è il Rio Grande a fare da confine, nel luglio 2023 il governatore repubblicano del Texas ha pensato di sbarrare l’attraversamento ai migranti con una serie di boe tenute insieme da filo spinato. E pensare che gli attuali Stati Uniti sono nati per iniziativa di immigrati che si fecero spazio trucidando gli abitanti originari.

Venendo all’Europa, i primi sbarramenti ai confini vennero costruiti negli anni Novanta del secolo scorso attorno a Ceuta e Melilla, due possedimenti spagnoli incastonati sulle coste marocchine che si affacciano sul Mar Mediterraneo.

In seguito altre fortificazioni sono state costruite lungo i confini europei per un totale di duemila chilometri, non solo sulle frontiere esterne, ma addirittura fra nazioni aderenti all’Unione europea. Lo testimoniano i 350 chilometri di rete metallica stesa fra Austria e Slovenia, Ungheria e Croazia, Slovenia e Croazia.

Intanto, in Europa

A partire dal 2015 con l’aggravarsi della situazione in Medioriente, un numero crescente di fuggiaschi ha cercato di raggiungere l’Unione europea via terra, lungo la cosiddetta «rotta balcanica». Ma stati come Bulgaria, Romania, Ungheria, perfino Grecia, venivano temuti perché tristemente famosi per i loro respingimenti.

Ancora oggi migliaia di migranti cercano di entrare in Croazia, ma sono ripetutamente respinti, spesso in maniera brutale.

Le testimonianze raccolte da Amnesty international, e molte altre associazioni umanitarie, parlano di migranti che non appena attraversano il confine croato in mezzo ai boschi, sono catturati da persone armate e incappucciate ma con divise della polizia. Quindi, sono picchiati, derubati, sottoposti a sevizie e poi consegnati alle guardie di frontiera che li respingono in Bosnia.

Fra il gennaio 2020 e il dicembre 2022, l’organizzazione danese Drc ha registrato quasi 30mila respingimenti dalla Croazia, molti dei quali accompagnati da trattamenti violenti e degradanti.

A rendere ancora più drammatica la situazione c’è che il rischio di essere respinti in Bosnia può riguardare anche chi è riuscito a raggiungere l’Italia.

In nome di un accordo bilaterale stipulato nel 1996 con la Slovenia, nel 2020 l’Italia ha respinto in quel paese 1.300 migranti che verosimilmente sono poi stati respinti in Croazia e quindi in Bosnia, secondo il fenomeno del cosiddetto respingimento a catena.

Fortunatamente, nel 2021, una sentenza del tribunale di Roma ha dichiarato l’inapplicabilità dell’accordo del 1996 e i respingimenti verso la Slovenia si sono arrestati. Con l’avvento del governo Meloni si rischia, però, di tornare al passato perché, nel dicembre del 2022, il ministero dell’Interno ha emanato una circolare rivolta ai prefetti di Trieste, Udine e Gorizia nonché al Commissario di governo per la provincia di Bolzano, per sollecitarli «ad adottare iniziative volte a dare ulteriore impulso all’attività di vigilanza sulla fascia di confine, al fine di assicurare la più efficace attuazione degli accordi stipulati con la Slovenia e l’Austria».

Parole in burocratese con effetti reali sui migranti anche perché, come vedremo nella prossima puntata, l’Europa intera, al di là delle parole, si sta organizzando per destinare sempre più risorse alle politiche di respingimento.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)




L’avidità si paga


Nel 1987, il «giorno del sorpasso» (overshoot day) arrivò il 19 dicembre. Nel 2023 è stato lo scorso 2 agosto. Da tempo sappiamo che, con gli attuali livelli di consumo, una Terra non basta. Oggi la scelta non è soltanto tra sviluppo «sostenibile» e «insostenibile», ma anche tra sviluppo «egoistico» e «altruistico».

Se non bastassero la siccità in pieno inverno e le alluvioni, gli allagamenti e le bombe d’acqua dell’estate, ci sono i calcoli matematici a confermarci la gravità degli squilibri ambientali che l’uomo ha creato.

Un metodo di calcolo utilizzato è l’overshoot day, alla lettera il «giorno del sorpasso», che ci indica il giorno dell’anno in cui la nostra avidità supera la capacità di rigenerazione del pianeta. È la data in cui i nostri consumi smettono di basarsi sulla capacità riproduttiva della terra e avvengono a spese del capitale naturale. Come chi avendo finito la legna da ardere decide di scaldarsi buttando nel caminetto pezzi di travicelli tolti dal tetto. Lì per lì ha la sensazione che tutto tenga, ma alla fine si ritrova senza legna e senza tetto.

L’impronta sul calendario

L’overshoot day prende spunto dall’«impronta ecologica», l’indicatore che misura la quantità di terra fertile di cui abbiamo bisogno per sostenere i nostri consumi. E se, d’istinto, siamo portati a pensare che la terra fertile ci serve solo per il cibo, in realtà i consumi che affondano le loro radici in essa sono molto più ampi.

Basti pensare all’abbigliamento che utilizza cotone, alla mobilia fatta di legno, agli edifici e le strade che occupano suolo, ai medicinali che usano piante officinali. Ma l’aspetto (in apparenza) più sorprendente è che ci serve terra fertile anche per andare in automobile o per accendere una lampadina.

Troppo spesso dimentichiamo che quando infiliamo la chiave nel cruscotto, insieme al rombo del motore, emettiamo anidride carbonica (CO2), un veleno di cui non ci diamo pensiero solo perché madre natura è così generosa da togliercelo di mezzo grazie all’attività delle piante. Ma non in maniera infinita. Sicuramente non abbastanza da poter assorbire tutta l’anidride carbonica prodotta dalla combustione dei 16 miliardi di litri di petrolio che consumiamo giornalmente a livello mondiale. Basti dire che per sbarazzarci della CO2 che produciamo bruciando un solo litro servono cinque metri quadrati di foresta.

A livello planetario la terra fertile disponibile sotto forma di pascoli, foreste, terre arabili, ammonta a poco più di 12 miliardi di ettari, ma i consumi raggiunti dall’umanità ne richiedono all’incirca 22. Un deficit di dieci miliardi di ettari che l’overshoot day rappresenta per mezzo del calendario.

Attestato che ogni giorno ci servono 58 milioni di ettari di terra fertile, l’overshoot day ci indica il giorno dell’anno in cui entriamo in zona negativa perché abbiamo esaurito tutta la terra fertile di cui madre terra dispone. Un limite che ogni anno raggiungiamo qualche giorno prima. Nel 1987 l’overshoot day arrivò il 19 dicembre, nel 2009 il 25 settembre, nel 2023 il 2 agosto. Ormai i giorni dell’anno in cui viviamo senza corrispettivo di terra fertile sono 150, il 40% dell’intera annata. Parola dell’istituto ambientalista americano Global footprint network.

La terra disponibile e quella consumata

Come si possa consumare oltre la capacità produttiva della terra sembra un enigma inspiegabile, tanto più che non abbiamo mai la percezione di trovarci a corto di prodotti naturali. Ma, paradossalmente, lo squilibrio non si manifesta sotto forma di penuria bensì di eccesso. Il problema riguarda l’anidride carbonica che, da vari decenni, emettiamo oltre la capacità di assorbimento del sistema naturale con conseguente accumulo in atmosfera. Più precisamente ne produciamo ogni anno 37 miliardi di tonnellate, mentre il sistema delle foreste e degli oceani è in grado di assorbirne solo 20, un bilancio negativo annuale di 17 miliardi di tonnellate che, accumulandosi in atmosfera, fa aumentare la temperatura terrestre con gravi conseguenze sul clima.

Se prendiamo la terra fertile totale e la dividiamo per gli abitanti del pianeta, ormai 8 miliardi, scopriamo che ognuno di noi ha diritto a 1,6 ettari di terra fertile.

Questa è l’impronta ecologica sostenibile, ossia la quantità di terra fertile che ognuno di noi può utilizzare senza provocare squilibri al pianeta. In realtà, i consumi dell’umanità sono tali da richiederne 2,8 ettari a testa: quasi il doppio della quantità disponibile.

Ma, se possibile, la realtà è ancora peggiore, perché le medie non danno mai il vero quadro della situazione.

Analizzando le elaborazioni effettuate dalla Footprint data foundation nel 2022, scopriamo che il mondo è praticamente diviso a metà: un 50% ha un’impronta pro capite al di sopra di quella sostenibile, l’altro 50% al di sotto. Quelli perfettamente in linea con la sostenibilità non fanno numero, rappresentando appena lo 0,5% della popolazione mondiale.

Peso e colpe dei paesi

Fra le nazioni con l’impronta più bassa troviamo l’Afghanistan (0,5 ettari a testa), Haiti (0,6), Malawi (0,9) e India (1,2). Al lato opposto, l’impronta dei qatarini è di 14,3 ettari, mentre quella dei lussemburghesi è 13, degli statunitensi 8,1, degli australiani 7,9. Per l’Italia l’impronta è pari a 4,3: questo significa che, nel 2023, abbiamo raggiunto la data di esaurimento delle risorse con oltre due mesi d’anticipo rispetto a quella mondiale, il 15 maggio.

Invocando la responsabilità collettiva, i paesi ricchi sostengono che è compito di tutti risolvere la crisi ambientale che abbiamo provocato. I numeri ci dicono però che il problema non è stato creato da tutti, ma solo dalla parte più ricca, per cui tocca a lei porvi rimedio, accettando di ridurre la propria impronta ecologica. Non solo per una questione di sostenibilità, ma anche di equità. Perché i poveri potranno salire solo se i ricchi accettano di scendere. È la legge dei vasi comunicanti.

Come italiani, ad esempio, dobbiamo ridurre la nostra impronta di quasi due terzi per riportarla nel perimetro della sostenibilità. Per capire dove intervenire, dobbiamo analizzare come è composta, ossia per quali ragioni utilizziamo terra fertile. Se togliamo le esigenze legate al legname (11%) e all’edificazione (1%), rimangono l’alimentazione, che contribuisce per il 28%, e l’assorbimento di anidride carbonica che contribuisce per il 60%. Dunque, è principalmente su questi due ultimi fronti che dobbiamo intervenire.

Il peso del cibo (e quello della carne)

Rispetto al cibo, la sfida è l’eliminazione degli sprechi intesi sotto due profili: ciò che buttiamo per le nostre negligenze e ciò che buttiamo per i nostri cattivi stili di vita.

Secondo la Fao, ogni anno, a livello mondiale si perde il 31% della produzione agricola: per il 14% a causa delle inefficienze e il 17% a causa delle nostre disattenzioni. Le inefficienze riguardano le perdite che avvengono nelle fasi di raccolta, di stoccaggio, di trasporto e di lavorazione delle derrate agricole: prodotti perduti perché mal conservati, mal trasportati, mal lavorati. Secondo il Wwf, in Italia le inefficienze, comprendenti anche ciò che è buttato dai supermercati, provocano la perdita di 4 milioni di tonnellate di cibo all’anno. A cui va aggiunto ciò che buttiamo nelle nostre case. Dalle indagini condotte dal gruppo di ricerca Waste watcher, risulta che, ogni anno, fra le mura domestiche vengono gettati 27 chili e mezzo di cibo a testa. Dato che, riportato a livello nazionale, da qualcosa come 1,6 milioni di tonnellate di cibo gettato nella pattumiera.

In parte perché scaduto a causa del fatto che gestiamo male i nostri acquisti; in parte perché non mangiato a causa del fatto che non gradiamo consumare gli avanzi dei pasti precedenti. La conclusione è che, in Italia, il solo spreco domestico corrisponde ogni anno a un milione e mezzo di ettari di terra agricola. Ettari che potrebbero essere risparmiati con una gestione più accorta della nostra spesa, del nostro frigo, della nostra cucina. Molto altro terreno potrebbe essere risparmiato scegliendo di mangiare sobrio. Soprattutto riducendo il consumo di carne, in modo da recuperare cereali e leguminose per l’alimentazione umana diretta. Oggi, a livello mondiale, il 40% dei cereali e l’80% della soia sono dati in pasto agli animali. Se ci aggiungiamo i pascoli, scopriamo che l’allevamento animale utilizza quasi l’80% delle terre agricole mentre fornisce solo il 20% delle calorie consumate dall’intera umanità. In conclusione, secondo i calcoli effettuati da Our World in data, se l’umanità adottasse una dieta solo a base di vegetali, potrebbe utilizzare il 75% di terra agricola in meno rispetto a oggi.

Il peso della CO2

Veniamo ora all’aspetto più ingombrante dell’impronta ecologica, l’eccessiva produzione di anidride carbonica. Tutti concordano che la soluzione è la transizione energetica. Ossia il passaggio dai combustibili fossili alle energie rinnovabili. Ma sulle politiche da seguire ci sono due linee di pensiero. Quella del potere costituito secondo il quale il problema è solo tecnologico e quella dei critici secondo i quali il problema è anche di misura. La parola d’ordine del pensiero dominante è cambiare tecnologia e continuare a vivere nel consumismo. La parola d’ordine dei critici è cambiare tecnologia e, al tempo stesso, ridurre i consumi. Una posizione, quest’ultima, derivante da una constatazione e una convinzione.

La constatazione che i limiti del pianeta non riguardano solo la terra fertile, ma anche l’acqua e i minerali. La convinzione che a questo mondo non esistiamo solo noi opulenti ma anche una sterminata umanità che ha diritto a vivere meglio e una vasta progenie che ha diritto a ereditare una terra vivibile.

Due diritti che possono essere garantiti solo se gli opulenti smettono di dedicarsi al saccheggio in un pianeta dai contorni molto fragili.

Le strade da intraprendere

Di qui la necessità di passare non solo dai fossili alle rinnovabili, ma anche dallo spreco alla sobrietà. Obiettivo che si raggiunge in parte convertendosi al riciclo e al recupero, ma anche limitando i nostri consumi e cambiando modo di soddisfare i bisogni.

Parlando di mobilità, ad esempio, se da una parte dovremo accettare di muoverci di meno con andatura più lenta, dall’altra dovremo rinunciare al mezzo privato, anche se elettrico, e sviluppare al contrario una forte rete di mezzi pubblici.

Fino ad ora la discussione è stata fra sviluppo sostenibile e insostenibile e ne abbiamo fatto solo una questione di tecnologia. Ma la vera scelta è fra sviluppo egoistico e sviluppo altruistico ed è anche una questione di quantità.

Francesco Gesualdi

 




Non tutti i debitori sono eguali


Tutti i paesi sono indebitati. Al Nord come al Sud del mondo. Eppure, le conseguenze del debito sono molto diverse. Per pagare i creditori i paesi poveri non forniscono ai propri cittadini neppure i servizi minimi di salute e istruzione.  Oppure, semplicemente, falliscono. Come sta accadendo.

Tutti i governi del mondo sono indebitati, quelli ricchi più di quelli poveri, ma i primi se ne preoccupano di meno perché sono capaci di farcela meglio. Secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), a fine 2021, il debito pubblico complessivo ammontava a 90mila miliardi di dollari. Una somma enorme, che non dovrebbe far dormire la notte se pensiamo che tocca a noi cittadini restituirla. Eppure, impallidisce se la mettiamo a confronto con l’intero debito che grava sul mondo. Questo perché, oltre agli stati, anche le famiglie e le imprese hanno i loro debiti che, messi assieme a quelli pubblici, a fine 2021 ammontavano a 235mila miliardi di dollari. Di questi quelli riconducibili ai governi rappresentano solo il 38%.

Il debito pubblico dei paesi ricchi

Il Fondo monetario internazionale suddivide il debito pubblico mondiale in due gruppi: quello dei paesi avanzati e quello dei paesi emergenti e in via di sviluppo. I paesi avanzati comprendono una quarantina di stati, che complessivamente ospitano un miliardo di persone (12,5% della popolazione mondiale), a cui è garantito un reddito medio pro capite di 55mila dollari l’anno. I paesi emergenti e in via di sviluppo rappresentano gli altri 160 stati che, complessivamente, ospitano sette miliardi di persone (87,5% della popolazione mondiale), che vive con un reddito medio pro capite di 7mila dollari l’anno. Il 68% del debito pubblico mondiale è a carico dei paesi avanzati. Fra essi il più indebitato in termini assoluti sono gli Stati Uniti che, a fine 2022, avevano un debito pubblico pari a 31mila miliardi di dollari. Ma in termini relativi, ossia in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil), il debito pubblico più alto del mondo è quello giapponese pari al 227% del Pil, mentre quello statunitense è al 124%. Quanto all’Italia, il suo debito pubblico al 31 dicembre 2022 era attestato a 2.764 miliardi di euro pari al 145% del Pil. Fra i paesi emergenti, quello col debito pubblico più alto è la Cina, con 10mila miliardi di dollari, all’incirca un terzo di tutto il debito di questa parte di mondo.

In media, i paesi avanzati hanno un debito pubblico pari al 111% del proprio Pil. Quelli in via di sviluppo solo il 67% del loro Pil. Una diversità di carico che emerge anche dal debito pro capite. Su ogni abitante della parte ricca del mondo grava una quota di debito pubblico media pari a 67mila dollari. Sugli abitanti del resto del mondo, invece, gravano solo 4.400 dollari. Eppure la condizione di questi ultimi è assai peggiore dei primi perché le conseguenze del debito non dipendono solo dal suo ammontare, ma da varie altre variabili sintetizzabili in tre punti: verso chi è stato contratto il debito, con quale valuta, con quale capacità fiscale.

La questione del debito. Foto rupixen.com – Unsplash.

Le banche centrali e la creazione di moneta

Partendo dal primo punto, «verso chi», le possibilità sono due: verso soggetti interni o verso soggetti esteri. Nel primo caso la situazione è molto più gestibile e leggera che nel secondo. Si veda, come esempio, il Giappone che, pur avendo il debito pubblico più alto del mondo, non crea eccessivi allarmismi perché esso è essenzialmente verso i propri cittadini e verso la propria banca centrale. Quest’ultima, per statuto, deve collaborare in maniera stretta con il governo e deve assisterlo nelle sue esigenze finanziarie se necessario concedendogli anche prestiti tramite emissione di nuova moneta. Ad oggi il 43% del debito pubblico giapponese figura come debito verso la Banca centrale del Giappone e ha la caratteristica di poter essere definito un «debito non debito» perché, pur esistendo da un punto di vista contabile, non sortisce alcun effetto da un punto di vista pratico.

Tutti i paesi del Sud del mondo dispongono di una banca centrale, che magari ha anche il compito di colmare i deficit di bilancio creati dal proprio governo. Ma va precisato che l’intervento della banca centrale può andare a segno senza contraccolpi soltanto se attuato in paesi economicamente forti. Se si immette nuovo denaro in paesi con una struttura produttiva fragile, l’effetto più probabile è l’inflazione, ossia la crescita dei prezzi. Semplicemente perché l’apparato produttivo non riesce a rispondere alla nuova ondata di domanda provocata dall’emissione di nuova moneta. Un esempio è l’Argentina. Nel 2020 il governo di Fernandez decise di effettuare spese a debito con emissione di nuova moneta, ma nell’agosto 2022 dovette cambiare politica per un’inflazione che aveva raggiunto il 100%.

 

Tra prestiti interni e prestiti esteri

L’alternativa è il ricorso ai prestiti di origine interna o di provenienza estera. Quelli di origine interna sono in valuta locale e possono venire dai risparmi dei cittadini o dal sistema bancario locale.

Il Fondo monetario internazionale stima che il 30% del debito pubblico dei paesi emergenti è detenuto dalle banche locali. Con differenze che possono essere molto ampie fra paese e paese. Ad esempio, in Uruguay le banche private detengono appena il 10% del debito pubblico, in Cina l’80%. Dati altrettanto particolareggiati sugli altri creditori locali, purtroppo, non circolano, per cui non è possibile tracciare un quadro preciso sulla composizione dei creditori interni dei governi del Sud.

Invece, esistono statistiche molto accurate sul debito verso soggetti esteri, evidentemente perché ci riguarda. Infatti, si tratta di debito contratto verso le nostre banche, i nostri governi, i nostri investitori e verso i guardiani dell’ordine economico internazionale, ossia il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Una quota controllata a vista dalle nostre istituzioni timorose di perdite, ma mai persa di vista neanche dai governi del Sud considerato che deve essere restituita in dollari, euro e altre valute estere che non possiedono, o possiedono in maniera molto limitata.

Cumulativamente i governi del Sud del mondo sono indebitati verso il resto del mondo per 5.200 miliardi di dollari, all’incirca il 15% del proprio debito complessivo. Ma, oltre ai governi, anche imprese, banche e altri soggetti privati del Sud del mondo sono indebitati con soggetti esteri, per cui il debito complessivo dei paesi emergenti verso l’estero ammonta a 9mila miliardi di dollari secondo la Banca mondiale, a 11mila, secondo la conferenza su commercio e sviluppo delle Nazioni Unite (l’Unctad).

foto-Frantisek Krejci-Pixabay

Le conseguenze della esportazione di capitali

In ogni caso, tutti concordano nel riconoscere che è difficile tracciare una linea di demarcazione netta fra debito estero di tipo pubblico e debito estero di tipo privato, perché qualsiasi pagamento da effettuare in valuta estera, presuppone riserve in dollari o in euro che tocca ai governi garantire. Per questo assumono grande importanza eventuali squilibri che si vengono a creare con l’estero in ambito commerciale.

Un esempio è il Malawi, che nel 2022 ha visto balzare la quota di entrate pubbliche destinate al servizio del debito estero dal 5% al 44%, come conseguenza dell’enorme quantità di debito in dollari contratto dalle banche locali per coprire i costi di importazione di prodotti vitali.

Oltre che dai maggiori costi per le importazioni, le riserve di valuta estera possono essere corrose anche da altre operazioni come i prestiti richiesti da banche e imprese locali per il perseguimento dei propri fini. Senza dimenticare i capitali trafugati all’estero non sempre sottobanco, ma a volte legalmente, come mostra il caso argentino. Nel 2018-2019 in Argentina il governo Macrì legiferò a favore della libertà di esportazione di capitali che provocò al paese uno squilibrio nei conti con l’estero per decine di miliardi di dollari. Un deficit a cui venne posto rimedio tramite un prestito di 40 miliardi di dollari ottenuto dal Fondo monetario internazionale.

Un’operazione a favore delle classi più ricche fatta sulle spalle di tutta la comunità, perché ora tocca al popolo argentino ripagare il debito verso il Fondo.

Oltre che dalle scelte compiute da governi e soggetti economici, il debito verso l’estero risente molto di tutto ciò che si muove  sullo scacchiere internazionale. Basta un’inversione di marcia nell’andamento economico, l’alterazione di prezzo di beni strategici, la variazione dei tassi di interesse da parte delle grandi economie, e il debito verso l’estero si può fare più leggero o più pesante.

Secondo la Banca mondiale, dal 2010 al 2021 il debito estero complessivo dei paesi emergenti è più che raddoppiato, passando da 4mila a 9mila miliardi di dollari. E se, nei primi anni, l’aumento era imputabile al maggiore dinamismo degli operatori economici del Sud, che si affacciavano sulla scena internazionale per ottenere maggiori prestiti a scopi produttivi, dal 2019 l’aumento è imputabile a fenomeni mondiali che si sono mossi per conto proprio. Primo fra tutto la recessione mondiale da Covid che ha provocato una riduzione delle esportazioni del Sud con conseguente riduzione degli introiti in valuta estera. E se nel 2021 c’era stata una ripresa, nel 2022, due fatti nuovi hanno riportato i paesi del Sud del mondo nella tormenta.

Per primo, l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari e dei prodotti energetici, come conseguenza della guerra in Ucraina. Per secondo, l’aumento dei tassi di interesse a seguito di un cambio di politica delle banche centrali occidentali che ormai avevano come principale obiettivo il contenimento dell’inflazione.

È stato per il convergere di questi due fenomeni che la situazione debitoria del Sud del mondo verso l’estero si è fatta particolarmente critica soprattutto per i paesi più fragili e più dipendenti dall’estero.

L’Egitto, ad esempio, nel corso del 2022 ha bussato sia alle porte degli Emirati arabi uniti che del Fondo monetario internazionale per ottenere in prestito alcuni miliardi di dollari utili a fronteggiare l’aumento dei prezzi dei cereali acquistati sul mercato mondiale. Un nuovo debito ottenuto a condizioni più svantaggiose per effetto dell’aumento dei tassi di interesse a livello internazionale.

I creditori del Nord e il servizio del debito

Nel 2021, la somma inviata dai governi del Sud del mondo ai vari creditori del Nord per interessi sul debito è ammontata a 115 miliardi di dollari. Nel 2010 ammontava a 47 miliardi di dollari. Quindi, in dieci anni, l’aumento è stato del 144%. Se poi agli interessi aggiungiamo la quota restituita come capitale, troviamo che la somma complessiva inviata dai governi del Sud ai creditori del Nord, ammonta, nel 2021, a 400 miliardi di dollari.

Come dire che, in quest’anno, il Sud del mondo ha destinato al servizio del debito il 14,3% delle proprie entrate pubbliche, mentre nel 2010 ne destinava solo il 6,8%. Il calcolo è dell’organizzazione britannica Jubilee Campaign, che però avverte come esistano ampie differenze tra paese e paese.

In Sri Lanka, ad esempio, il servizio del debito estero assorbe il 60% delle entrate pubbliche, nello Zambia il 45%, in Angola il 33%, in Mozambico il 25%. Tutti paesi incapaci di garantire ai propri cittadini i servizi minimi di tipo sanitario ed educativo. E, tuttavia, ormai incapaci di onorare i propri impegni anche nei confronti dei creditori, considerato che Sri Lanka, Ghana e Zambia hanno già dichiarato fallimento.

Vari altri paesi rischiano di seguire la stessa sorte, per cui lo stesso Fondo monetario internazionale chiede di intervenire per alleggerire la situazione debitoria del Sud del mondo. Che tradotto significa disponibilità dei creditori ad annullare almeno parte del debito. Ma l’impresa non si presenta facile considerato che il 63% del debito estero dei governi del Sud è verso banche e altri soggetti privati a cui nessuno vuole porre regole.

Francesco Gesualdi

foto-QuinceCreative-Pixabay

 




Le banche e la lezione dimenticata


Non si è verificato un crollo come quello del 2008, ma la paura c’è stata. Oggi come allora, il terremoto è partito dal fallimento di alcune banche Usa, arrivando fino al cuore della «mitica» Svizzera. Ed è facile prevedere che non sarà  l’ultima volta, a meno che…

Nel marzo 2023, il sistema bancario è tornato a fare parlare di sé mettendo tutti in fibrillazione. Il pensiero è andato immediatamente alla crisi che, nel 2008, fu causata dallo stesso comparto e che rapidamente si propagò al mondo intero. Come allora, anche questa volta lo scossone è partito dagli Stati Uniti e, di nuovo, è stato generato da errori bancari amplificati dalle logiche di mercato e dalle speculazioni finanziarie.

Se una piccola banca

Nel 2008, la bufera era partita da un intero comparto: quello specializzato nei mutui sulla casa. Questa volta l’epicentro è stato una banca di dimensioni modeste dedicata alle imprese ad alta tecnologia. Non a caso il suo nome è Silicon Valley Bank (in sigla Svb), ricordando che Silicon Valley è il nome dell’area industriale della California che ospita tutte le principali imprese specializzate nell’economia digitale.

Fondata nel 1983 per iniziativa di un paio di esperti bancari, Svb era nata con lo scopo di concedere prestiti alle start-up, ossia alle aziende di nuova formazione dedite alla produzione di tecnologie e servizi innovativi. Una delle regole imposte dalla banca alle imprese a cui concedeva prestiti, era l’obbligo di aprire un conto corrente. Questa regola, associata alle politiche perseguite dalla Banca centrale statunitense, aveva favorito una crescita importante dei depositi di Sbv, che però, in seguito, come vedremo, si sarebbero trasformati in un boomerang.

Il punto da cui partire è che il ricorso al debito da parte delle imprese non segue le stesse logiche di quello delle famiglie. Nelle famiglie il debito è sempre finalizzato a una spesa specifica: l’acquisto di una casa, di un’automobile, di mobili o elettrodomestici. Nelle imprese, invece, l’indebitamento segue anche logiche finanziarie come l’obiettivo di assicurarsi della liquidità da mettere da parte o la tentazione di speculare sull’esistenza di tassi di interesse diversificati.

Il dollaro rimane la valuta mondiale di riferimento. Foto SK-Pixabay.

La speculazione sui tassi d’interesse

Fatto sta che, dopo il 2008, quando le banche centrali di tutti i più importanti paesi industrializzati abbassarono i tassi di interesse e aumentarono la massa di denaro in circolazione, molte imprese ne approfittarono per accumulare riserve monetarie. In altre parole, si indebitavano, approfittando delle condizioni favorevoli, non per affrontare spese specifiche, ma per incamerare denaro da mettere da parte o per effettuare investimenti finanziari che garantissero un tasso di interesse più alto di quello pagato. E, per assicurarsi lunghi tempi di restituzione, non rastrellavano i prestiti tramite il sistema bancario, ma quello finanziario, ossia il sistema delle borse che permette di ottenere prestiti dalla vendita di obbligazioni che generalmente prevedono tempi lunghi di restituzione. Così si sono avuti anni in cui le imprese prendevano soldi dai soggetti che operavano nelle borse e ne depositavano una buona parte nelle banche. Il che spiega perché, fra il 2010 e il 2020, il sistema bancario ha conosciuto un boom di depositi, come conferma il caso Svb che li ha visti passare da 4 miliardi di dollari nel 2006, a 189 miliardi nel 2021. Come tutte le banche, anche Svb ha usato parte dei soldi ricevuti per concedere prestiti alle imprese. Ma un’altra parte la investiva, ossia la dava in prestito a grandi entità, ad esempio lo stato, tramite l’acquisto di obbligazioni. Una forma di investimento molto praticata dal sistema bancario, non solo perché ritenuta sicura in quanto i colossi, specie gli stati, difficilmente falliscono, ma anche perché, in caso di bisogno, permette di rientrare facilmente in possesso del proprio denaro. Le obbligazioni, infatti, hanno la caratteristica di poter essere cedute ad altri in qualsiasi momento, secondo il prezzo corrente. Per di più quelle emesse da entità particolarmente forti come gli stati, hanno il vantaggio di poter essere utilizzate come collaterale, ossia come garanzia, nel caso in cui si abbia bisogno di ottenere un prestito. Evenienza, questa, che ricorre di continuo nel caso delle banche, che si fanno costantemente prestiti fra loro per esigenze di cassa. Ma solo dietro fornitura di garanzie ossia depositando obbligazioni o altri titoli che la banca creditrice può vendere nel caso in cui quella debitrice non restituisca le somme nei tempi pattuiti.

Anche Svb aveva fatto il pieno di titoli emessi dal governo statunitense e tutto è andato bene finché le banche centrali hanno continuato con la loro politica di bassi tassi e alta quantità di moneta in circolazione. Nel corso del 2022 il vento è, però, mutato a causa dell’inflazione tornata a fare capolino. Per arginarla, le banche centrali, prima fra tutte quella statunitense, hanno deciso di frenare l’emissione di denaro e, soprattutto, di innalzare i tassi di interesse. È stata proprio questa nuova politica a provocare la frana che ha travolto Svb, tramite una serie di effetti paradosso.

Quando una banca fallisce

In via di principio l’aumento dei tassi di interesse è conveniente per le banche perché permette di concedere prestiti a tassi più elevati. Ma il rovescio della medaglia è che, contemporaneamente, si attivano fenomeni che possono ledere la loro stabilità. Nel caso della Svb i fatti avversi sono stati due: l’aumento dei prelievi da parte dei correntisti e la svalutazione dei titoli detenuti. Il primo fenomeno è stato provocato dal fatto che l’aumento dei tassi di interesse non stimolava più i correntisti di Svb a indebitarsi in borsa per ottenere liquidità. Ora preferivano affrontare le proprie esigenze prelevando i soldi che avevano accumulato in banca sui propri conti correnti. In effetti, già nel 2022 Svb aveva subito un calo dei depositi del 5%. Contemporaneamente, la banca californiana cadeva vittima del secondo fenomeno: l’aumento dei tassi di interesse aveva, infatti, costretto il governo degli Stati Uniti ad applicare rendimenti più alti sui titoli di nuova emissione. Il che faceva perdere valore ai titoli in circolazione che garantivano tassi di interesse più bassi. Un po’ come succede nel mercato dell’auto: quando compaiono modelli nuovi, quelli vecchi perdono immediatamente valore perché più nessuno li vuole. Lo stesso è successo a Svb che si è ritrovata nel cassetto una montagna di titoli svalutati. Tant’è che l’8 marzo 2023, nel tentativo di fare cassa, ha venduto titoli di stato precedentemente acquistati per 21 miliardi di dollari incassandone però solo 19. È stato l’inizio della fine perché i titoli rappresentano il capitale di una banca: se si svalutano questi, l’intera banca perde valore. Una situazione che mette in moto un meccanismo fallimentare che si autoalimenta. Sentendo che la propria banca non se la passa bene, i correntisti si affrettano a ritirare i propri depositi temendo di perderli. Ma così facendo accelerano il rischio di fallimento, perché nessuna banca è in grado di rifondere i propri correntisti se si presentano in massa. Così, il 9 marzo, quando è stata presa d’assalto dai suoi correntisti, intenzionati, in una sola mattina, a prelevare qualcosa come 42 miliardi di dollari, Svb è stata costretta ad abbassare la saracinesca. Il 10 marzo le autorità finanziarie hanno decretato il suo fallimento e l’hanno messa in vendita.

Il 27 marzo è stata acquistata da First Citizens Bank e il caso si è chiuso. Anche se, nel frattempo, anche Signature Bank, un’altra banca regionale statunitense, è fallita.

Franchi svizzeri: anche la Svizzera – nella primavera 2023 – ha avuto problemi con le proprie banche. Foto Claudio Schwarz-Unsplash.

Intanto, in Svizzera…

Il problema, però, era che anche al di qua dell’Atlantico si stavano accumulando nubi sul sistema bancario. Di scena era niente po’ po’ di meno che Credit Suisse, un colosso da 50mila dipendenti che gestiva una ricchezza valutata attorno ai 1.300 miliardi di dollari. Purtroppo per questa, stavano venendo al pettine una serie di scandali e notizie di mala gestione che minavano la sua reputazione fino ad indurre un numero importante di clienti a ritirare i propri depositi. Già negli ultimi mesi del 2022 le ricchezze affidate alla banca si erano assottigliate di 119 miliardi, tant’è che attorno al 10 marzo 2023, al fine di tamponare le perdite, il colosso era stato costretto a rivolgersi alla Swiss National Bank per ottenere un prestito da 54 miliardi di dollari. Se dagli Stati Uniti non fossero arrivati segnali inquietanti riguardanti il sistema bancario, forse le autorità svizzere avrebbero preso altro tempo per vedere se Credit Suisse ce l’avesse fatta da sola a superare le proprie difficoltà. Ma il fallimento delle due banche americane aveva creato nervosismo nel mondo finanziario e c’era il timore che si potessero verificare iniziative di rappresaglia capaci di far traballare l’intero sistema bancario. È risaputo, infatti, che il mondo della speculazione dispone di mezzi per guadagnare anche sul crollo dei prezzi e quando decide di farlo mette in atto una serie di operazioni che creano sfiducia attorno alla preda designata, condizione per ottenere il crollo dei prezzi su cui è stato scommesso. Più tardi si sarebbe saputo che manovre del genere erano avvenute perfino attorno a Deutsche Bank, ed è stato così che, per evitare il divampare di un fuoco indomabile in un settore chiave della propria economia, il 19 marzo le autorità svizzere hanno preferito agire d’anticipo facendo acquistare Credit Suisse dal colosso Usb, la più grande banca del paese. Poche settimane dopo, nel mese di aprile, negli Stati Uniti un’altra banca regionale, la First Republic, ha alzato bandiera bianca, ma senza effetti di sistema perché nel giro di poco è stata acquistata da JP Morgan, una delle più grandi banche al mondo. E poiché non sono seguiti altri fallimenti, si è considerato concluso il mini terremoto bancario della primavera 2023.

I motivi delle crisi bancarie

Gli analisti si stanno ancora confrontando sulle cause delle crisi bancarie, riconducibili, schematicamente, a tre grandi ambiti. Il primo riguarda le lacune legislative. Secondo molti esperti, i controlli sulle banche non sono abbastanza stringenti, mentre sono ammesse forme di gestione azzardate che amplificano il rischio di bancarotta. Il secondo  aspetto è l’eccessiva libertà lasciata alla speculazione di fare il bello e il cattivo tempo, attraverso manovre che, a seconda delle convenienze, fanno oscillare artificiosamente il valore delle banche ora verso l’alto, ora verso il basso, condizionando il clima di fiducia nei loro confronti. Il terzo aspetto riguarda le politiche delle banche centrali. Secondo molti analisti, le banche centrali non avevano motivo di alzare i tassi di interesse in maniera così repentina ed elevata. L’intento dichiarato è stato la lotta all’inflazione, ma secondo il pensiero di molti si è trattato di una misura sbagliata. L’aumento dei tassi di interesse trova giustificazione quando i prezzi sono spinti verso l’alto da un eccesso di domanda di beni. In tal caso la manovra può funzionare perché l’aumento del costo del denaro riduce gli acquisti a debito. Ma l’inflazione di oggi è dovuta all’aumento di prezzo dei prodotti energetici, per cui non serve a niente frenare la domanda. L’effetto che ne può derivare è la stagflazione, un male addirittura peggiore di quello che si intende combattere perché la stagflazione è la persistenza dell’inflazione con l’aggiunta della recessione.

Sedi bancarie. Foto Miquel Parera – Unsplash.

La funzione delle banche

Verosimilmente si può concludere che l’aumento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali è stato l’aspetto contingente che ha fatto da detonatore a una situazione perennemente a rischio di esplosione. Oggi le banche non sono più pensate come soggetti che fanno da tramite fra chi risparmia e chi ha bisogno di soldi, ma come macchine congegnate per permettere ai loro azionisti e agli speculatori di potersi arricchire con qualsiasi mezzo. La soluzione sarebbe il ritorno alla funzione sociale delle banche, ma a quel punto dovremmo rimettere in discussione tutto: compiti, vigilanza e proprietà.

Francesco Gesualdi

 




La fine dell’acqua


Consumi eccessivi, inquinamento, cambiamenti climatici. L’acqua è una risorsa sempre più scarsa. Già oggi, oltre due miliardi di persone non ne dispongono a sufficienza. Senza immediati cambi di direzione la situazione è destinata ad aggravarsi.

Fino a ieri ci preoccupavamo per la fine del petrolio, oggi ci preoccupiamo per la fine dell’acqua. Con una differenza: i servizi resi dal petrolio possono essere sostituiti da altre risorse, quelli forniti dall’acqua sono unici.

Secondo il World resources institut (wri.org),17 nazioni, ospitanti un quarto della popolazione mondiale, si trovano in una condizione di altissimo livello di stress idrico, in quanto agricoltura, industria e abitazioni assorbono ogni anno più dell’80% dell’acqua disponibile. Fra essi la Tunisia, la Turchia, perfino la Spagna. Altri 40 paesi, che ospitano un altro terzo della popolazione mondiale, sono ad alto livello di stress idrico, in quanto consumano più del 40% delle loro disponibilità di acqua. Fra essi anche l’Italia, gli Stati Uniti, l’Australia, la Cina, l’India. In conclusione, metà della popolazione mondiale vive una severa scarsità d’acqua per almeno una parte dell’anno.

Visibile o nascosta

Di per sé l’acqua è una risorsa rinnovabile che, in teoria, non dovrebbe scarseggiare. Ma, come ogni altra risorsa, ha anch’essa i suoi ritmi e le sue regole che, se violate, mandano in crisi l’intero equilibrio. Quando parliamo di acqua dolce il nostro immaginario corre ai fiumi e ai laghi, ma il 99% dell’acqua dolce presente sul nostro pianeta è nascosta: per il 69% si trova nelle calotte polari e nei ghiacciai di montagna, ed è praticamente inutilizzabile. Un altro 30% si trova nel sottosuolo, ed è da lì che estraiamo gran parte dell’acqua che consumiamo. Ad esempio, le acque sotterranee forniscono il 49% di tutta l’acqua impiegata a livello mondiale per usi domestici e il 25% di quella utilizzata per l’irrigazione dei campi. Anche in Italia le acque del sottosuolo giocano un ruolo fondamentale, dal momento che forniscono l’85% dell’acqua potabile.

Anche sotto il Sahara esistono vaste riserve di acqua fino a ora inutilizzate perché poste a grande profondità. La loro formazione risale a migliaia di anni fa quando, per varie ragioni, rimasero intrappolate in mezzo a strati di materiali impermeabili. Per questo sono dette falde fossili che né crescono né diminuiscono di livello in quanto prive di comunicazione con la superficie terrestre. Quelle che invece utilizziamo per i nostri consumi, oltre a trovarsi a minori profondità, hanno una conformazione geologica che permette il loro continuo ricarico con acque di superficie, siano esse piogge o acque percolanti da fiumi e laghi. Ma i tempi di ricarica solitamente sono piuttosto lenti, per cui bisogna fare molta attenzione a quanta acqua si preleva. Quanto ai fiumi e ai laghi, i tempi di ricarica sono più veloci ma, in caso di fenomeni meteorologici avversi, la loro situazione può farsi critica da un mese all’altro perché il loro livello è direttamente dipendente dalla quantità di piogge che cadono e da come si comportano le nevi.

Oggi la sete di acqua da parte dell’umanità è più che raddoppiata rispetto agli anni Sessanta come conseguenza dell’aumento della popolazione e del desiderio di crescita economica. E mentre l’agricoltura assorbe il 70% di tutta l’acqua prelevata, e l’industria il 19%, anche l’acqua consumata in ambito domestico sta crescendo considerevolmente.

Secondo il World resources institut dal 1960 al 2014 l’aumento sarebbe stato del 600%, pur registrando ancora due miliardi di persone senza accesso ad acqua sicura e quattro miliardi di individui senza adeguati servizi igienici. Foto di un mondo attraversato da disuguaglianze a ogni livello. Tant’è che, mentre in America il consumo medio di acqua in ambito domestico è di 370 litri pro capite al giorno e in Europa di 124 litri, in Africa subsahariana arriva a malapena a 15 litri.

La siccità si espande e aggrava. Foto Jody Davis-Pixabay.

Inquinamento e clima

Il consumo è solo uno degli aspetti che incidono sulla disponibilità di acqua. Un altro è l’avvelenamento di fiumi, laghi e falde. Al primo posto sul banco degli imputati c’è il nostro assetto produttivo, sia di tipo industriale che agricolo. Un dossier pubblicato nel 2020 da Legambiente, dal titolo «H2O la chimica che inquina l’acqua», rivela che, dal 2007 al 2017, in Italia è stato immesso nei corpi idrici un totale di ben 5.622 tonnellate di sostanze chimiche riconducibili a metalli pesanti, sostanze organiche clorurate e pesticidi. Non c’è regione d’Italia che non abbia da raccontare la propria storia di avvelenamento. Il rapporto di Legambiente ne cita 46 relative agli ultimi 30 anni. Di particolare peso l’inquinamento da pesticidi (erbicidi e antiparassitari) che, essendo cosparsi direttamente sui suoli e nell’aria, finiscono più facilmente nei corsi d’acqua e nelle falde, grazie alla percolazione e all’effetto dei venti.

L’indagine condotta dall’Ispra nel 2020 su 4.388 punti di campionamento, ha trovato la presenza di pesticidi nel 55,1% delle acque superficiali monitorate e nel 23,3% delle acque sotterranee. Le sostanze rinvenute sono 183, rappresentate per la maggior parte da erbicidi. Fra essi anche l’atrazina, proibita già dal 1992, a dimostrazione di come gli inquinanti persistano a lungo nell’ambiente.

Intanto nuove minacce si affacciano all’orizzonte. In particolare la contaminazione da microplastiche che non riguarda solo i mari, ma anche i fiumi e le falde sotterranee. A questo riguardo la legge non ha ancora assunto iniziative significative forse perché non sa cosa fare.

Tuttavia, la minaccia di ultima generazione che più preoccupa si chiama cambiamenti climatici. Com’è noto, a causa dell’accumulo di anidride carbonica in atmosfera provocato dal nostro consumo eccessivo di combustibili fossili e dal numero spropositato di allevamenti animali che rilasciano enormi quantità di metano, negli ultimi 100 anni si è avuto l’aumento della temperatura terrestre di 1,1 gradi centigradi con ripercussioni sui venti, sugli spostamenti di aria fredda e aria calda e quindi sulle piogge. Nel 2015 tutti i paesi del mondo firmarono lo storico accordo di Parigi per impegnarsi ad agire per non fare crescere la temperatura terrestre oltre il grado e mezzo centigrado. Ma, a distanza di sette anni, non si vedono ancora passi significativi ed è alta la paura che il limite venga oltrepassato facendo avverare ciò che i climatologi hanno sempre pronosticato. Ossia il verificarsi di eventi estremi con zone del mondo che andranno incontro a inondazioni per eccesso di piogge e zone che invece andranno incontro a processi di desertificazione per assenza di precipitazioni. La zona del Mediterraneo, assieme all’Africa subsahariana e a vaste aree delle Americhe, sono le aree in cui le piogge si diraderanno sempre di più, come del resto l’Italia sta già sperimentando.

Senza pioggia, senza neve

L’Istat certifica che, nel 2020, la precipitazione totale annua nei capoluoghi di provincia è stata pari a 769 mm, in media 94 mm in meno sul valore medio 2006-2015. Differenze negative si registrano in 79 città con in testa Napoli (meno 423,5 mm), Catanzaro (meno 416), Pordenone (meno 401,3).

Sull’arco alpino, sopra il nord est e sulla pianura Padana, non cade seriamente acqua da oltre due anni. Nell’inverno appena trascorso la neve si è ridotta del 75% rispetto alla media degli ultimi dieci anni. Le temperature medie si sono alzate di oltre tre gradi e i ghiacciai si stanno squagliando.
Secondo il Comitato glaciologico italiano, negli ultimi 50 anni la superficie dei ghiacciai del nostro paese ha registrato una perdita del 30% con gravi conseguenze per la ricarica dei fiumi, soprattutto durante la stagione estiva. In questo 2023, già a febbraio, il Po ha registrato un calo della portata del 70% a causa della riduzione massiccia di piogge.

Di fronte ai problemi di difficile soluzione, la politica ha la tendenza a mettere la testa sotto la sabbia e, quando proprio deve fare qualcosa, si limita ad aspetti contingenti. Ad esempio, nell’aprile 2023, di fronte a una crisi idrica che aveva già procurato milioni di euro di danni all’agricoltura, il governo italiano ha deciso di intervenire nominando un commissario straordinario fondamentalmente incaricato di aumentare le riserve ripulendo dighe e invasi di acqua. E volendosi spingere un po’ più in là, attivando altri desalinizzatori oltre quelli già esistenti. Ma basterà? E soprattutto: funzionerà? La ripulitura degli invasi non aumenta la disponibilità di acqua, piuttosto cerca di evitare carenze catastrofiche durante i mesi più siccitosi. Quanto ai desalinizzatori, essi aumentano senz’altro la disponibilità d’acqua, ma a quale costo? Per togliere il sale dall’acqua marina ci vuole energia elettrica, una risorsa energetica a cui si fa sempre più riferimento per qualsiasi tipo di attività: non solo l’illuminazione, l’alimentazione di elettrodomestici e delle attività industriali, ma anche il funzionamento dei computer, il riscaldamento, la mobilità. Un’energia elettrica che dovremo ottenere esclusivamente da fonti rinnovabili, ossia sole e vento, se non vorremo finire travolti dai cambiamenti climatici o vivere nell’incubo degli incidenti nucleari. Ma riusciremo a produrne abbastanza per un fabbisogno che cresce?

In Europa l’energia elettrica da sole e vento rappresenta appena il 22% del totale, dunque c’è ancora molta strada da fare anche solo per sostituire i consumi attuali. E quanti pannelli e quante pale eoliche serviranno quando l’energia elettrica dovrà sostituire anche il gas e la benzina che utilizziamo per il riscaldamento domestico e per i motori delle nostre auto? Nel caso dei desalinizzatori, poi, c’è anche il problema dei sali che accumulano dietro di sé. Dove buttarli? In mare è la prima risposta. Ma per quanto tempo vorremo continuare a fare scelte di cui non conosciamo gli effetti nel lungo periodo? Evidentemente, la lezione dei cambiamenti climatici non ci ha ancora insegnato nulla.

Il ghiacciaio del Denali in Alaska. Anche qui i ghiacciai sono in ritirata. Foto Joris Beugels-Unspash.

L’acqua persa per strada

In ogni caso, prima di scomodare il mare, faremmo bene a recuperare l’acqua che perdiamo. Quella delle tubature idriche, prima di tutto. L’Istat certifica che, a causa di tubature fatiscenti, in Italia perdiamo il 42,2% di tutta l’acqua immessa in rete. Il volume di acqua disperso nel 2020 soddisferebbe le esigenze idriche di oltre 43 milioni di persone per un intero anno. Secondo studi citati dall’Istituto Ambrosetti, l’ammodernamento del sistema idrico italiano richiede investimenti per 65 miliardi di euro, ma il Pnrr ne ha stanziati solo 2,9.

Fra le acque che perdiamo non dobbiamo dimenticare quelle piovane che scivolano sui nostri tetti e finiscono nelle fogne. Si tratta di enormi masse di acqua che potremmo recuperare dotando le case di cisterne. Una pratica che sta tornando in uso in vari paesi europei come mostrano i casi di Germania, Francia, Austria. Acqua utilizzata per annaffiare i giardini, per lavare le auto, ma anche per gli scarichi dei Wc.

Va comunque tenuto conto che nessun rimedio rispetto all’acqua può prescindere da un altro imperativo che è quello di ridurre, ricordandoci che consumiamo acqua non solo quando ci laviamo o cuciniamo, ma anche quando ci nutriamo, ci vestiamo, ci illuminiamo. Ci vogliono 1.500 litri di acqua per ottenere un etto di carne di manzo, 2mila litri per una maglietta di cotone, 14mila litri per un paio di stivali in cuoio. Se mettiamo insieme tutta l’acqua che sta dietro a ciò che consumiamo viene fuori una media giornaliera di 5mila litri al giorno pro capite per noi abitanti dell’emisfero benestante.

Il dopante della tecnologia

Dunque, l’acqua si salva anche accettando di produrre e consumare di meno in ogni ambito del nostro vivere civile. Ma da quest’orecchio non ci sentiamo, non solo perché siamo attaccati a un’idea di benessere che si misura solo in termini di consumi, ma anche perché la crescita è il motore di questo sistema, non solo da un punto di vista economico, ma anche sociale come mostra il tema dell’occupazione.

Non volendo affrontare il vero nocciolo della questione, ci arrampichiamo sugli specchi della tecnologia ormai elevata a livello di idolo: desalinizzare l’acqua marina, sequestrare l’anidride carbonica, riprodurre il sole in laboratorio.

Ma la tecnologia da sola non ci salverà. Al contrario, rischia di diventare il dopante che ci conduce alla morte. Meglio accettare il senso del limite e cominciare a chiederci come riorganizzarci in modo da garantire una vita dignitosa a tutti utilizzando meno risorse possibile, producendo meno rifiuti possibile e lavorando quanto basta. Dobbiamo affrettarci, il tempo stringe.

Francesco Gesualdi

In Italia, le tubature idriche sono un anello debole della distribuzione dell’acqua: troppo perdite. Foto Daniel Kirsch-Pixabay.

 




Popolazione e ambiente


In questa seconda puntata dedicata al tema demografico, affrontiamo le relazioni tra crescita della popolazione e impatti sull’ambiente. Con una evidenza: i poveri hanno molti più figli, ma la loro responsabilità sulla crisi ecologica è inferiore a quella dei ricchi.

Inumeri non sempre sono veritieri e niente lo dimostra meglio dell’argomento popolazione. Ad esempio, stando alle rilevazioni, la nazione più popolata del pianeta risulta essere la Cina che ospita 1 miliardo e 450 milioni di persone. Ma se mettiamo la popolazione a confronto con il territorio disponibile, scopriamo che lo stato a più alta densità, ossia con più alta concentrazione di popolazione, è il Principato di Monaco con 18mila persone per chilometro quadrato. La Cina arriva 84ª con 151 persone per chilometro quadrato. Un numero che la colloca dopo Malta (8ª), l’Olanda (27ª), la Gran Bretagna (52ª), la stessa Italia che si trova al 75° posto.

In conclusione, la popolazione la si può guardare sotto varie angolature, con graduatorie che cambiano di continuo.

 

L’equilibrio perduto

Con il passare dei decenni, un problema si è fatto sempre più acuto, quello che riguarda l’impatto della crescita demografica sull’ambiente. Salvo casi straordinari, come quello dell’isola di Pasqua che, attorno al 1400, fu deforestata per fare spazio alle statue note come moai, l’umanità ha sempre vissuto in equilibrio con il pianeta.

In altre parole, il prelievo di risorse e la produzione di rifiuti avveniva in maniera tale da rispettare la capacità della natura di rigenerare le risorse rinnovabili ed assorbire le sostanze di scarto. Un equilibrio che però ha cominciato a rompersi nel corso del secolo scorso, come conseguenza di un sistema economico che, in maniera ossessiva, aveva come unico obiettivo la crescita di produzione e consumo noncurante dei limiti del pianeta. Un’ossessione che ci ha portato a tutti i disastri ambientali che conosciamo oggi. In particolare, all’esaurimento di risorse, sia di tipo rinnovabile che non rinnovabile, e all’eccesso di rifiuti, primo fra tutti l’anidride carbonica il cui accumulo in atmosfera sta provocando i cambiamenti climatici.

Lentamente, stiamo capendo che questi ultimi sono un problema serio, ma quello che ancora ignoriamo è che le conseguenze non saranno uguali per tutti. Qualche assaggio, è vero, lo abbiamo anche in Europa con perdita dei ghiacciai, lunghi periodi di siccità, straripamento di fiumi, ma i veri drammi stanno avvenendo e, sempre di più, avverranno altrove.

Geografi e climatologi ci avvertono che le aree più esposte ai danni derivanti dai cambiamenti climatici saranno quelle del Sud del mondo con effetti diversificati: in alcune regioni il problema maggiore sarà l’aridità, in altre l’eccesso di acqua.

Fra le aree destinate ai danni da aridità c’è l’Africa mediterranea e subsahariana che sta già registrando una riduzione di piogge con inevitabili conseguenze sull’agricoltura e quindi sulla sicurezza alimentare.

Mentre metà della popolazione africana già vive in condizione di insicurezza alimentare, si teme che i cambiamenti climatici ridurranno le rese agricole del 30% entro il 2050. E, tuttavia, l’aumento di popolazione farà crescere la richiesta di cibo del continente del 50%.

L’Asia meridionale è l’altra grande area dove i cambiamenti climatici produrranno gravi conseguenze sia in ambito agricolo che sociale, ma per ragioni opposte a quelle dell’Africa.

In questa zona si assisterà a monsoni caotici e violenti che provocheranno vaste inondazioni e distruzione di tutto ciò che i venti troveranno lungo il proprio percorso. Fenomeni che paradossalmente produrranno anche scarsità di acqua potabile, perché le inondazioni dreneranno nei fiumi fertilizzanti e altre sostanze chimiche che avveleneranno le loro acque. Contaminazione aggravata dall’innalzamento del livello del mare che allagherà i campi con acqua salata compromettendo irrimediabilmente la loro fertilità. Le zone più a rischio sono le coste solcate dai delta. In particolare, si teme per il Bangladesh, paese piatto e densamente popolato con una grande quantità di famiglie ancora dipendenti dall’agricoltura. Se il livello del mare dovesse innalzarsi di 45 centimetri, come potrebbe succedere se non si riuscisse ad arrestare la crescita della temperatura terrestre, l’11% del territorio bengalese potrebbe essere invaso dal mare, con gravissime conseguenze umane, sociali ed economiche. Secondo alcune previsioni, da qui al 2050, in Bangladesh i cambiamenti climatici potrebbero costringere una persona su sette ad abbandonare la propria casa, per un totale di 18 milioni di sfollati.

Ciò che stiamo imparando dai cambiamenti climatici, se mai ce ne fosse bisogno, è che i processi naturali trascendono i confini politici creati dagli umani. Effetto serra, venti, correnti marine, sono fenomeni di tipo planetario che possono avere la propria origine in un punto del globo e provocare i propri effetti in un altro.

Le emissioni di CO2

Dal 1850 al 2011 l’umanità ha prodotto qualcosa come 1.500 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (CO2) attribuibili per il 27% agli Stati Uniti, mentre l’Unione europea se ne intesta un altro 24%. In termini di popolazione, gli Usa rappresentano solo il 4,2% della popolazione mondiale, mentre l’Unione europea il 5,6%. Da un punto di vista storico la Cina ha contribuito solo per il 13% delle emissioni globali, mentre la sua popolazione rappresenta il 18% della popolazione complessiva.

Quanto all’Africa, la sua partecipazione alle emissioni di CO2 è stata appena del 2%, ma la sua popolazione rappresenta oltre il 16% di quella mondiale.

La dimostrazione pratica di come i ricchi abbiano inquinato e i poveri ne paghino le conseguenze.

Oggi il maggiore emettitore di anidride carbonica in termini assoluti è la Cina che si intesta

il 27% delle emissioni annuali globali. Per correttezza dovremmo precisare che buona parte delle sue emissioni
andrebbero ascritte a consumatori di altre nazioni perché nella nuova geografia internazionale del lavoro, la Cina è stata ormai eletta a fabbrica mondiale.

Ma, pur sorvolando su questo aspetto, se distribuiamo le tonnellate di anidride carbonica emesse dalla Cina per i suoi abitanti, otteniamo un’emissione pro capite annuale di 7,3 tonnellate. Gli statunitensi, invece, ne producono mediamente 14,5 a testa, mentre gli europei 6.

Si calcola che, per rimanere in equilibrio con il pianeta, nessuno dovrebbe emettere più di 2,2 tonnellate di anidride carbonica pro capite all’anno, per cui la Cina è come se avesse una popolazione 3,3 volte superiore a quella che di fatto ospita. La popolazione degli Stati Uniti, invece, è come se fosse 6,5 volte più alta mentre quella dell’Unione europea 2,7 volte più elevata.

In altre parole, prendendo come riferimento le emissioni ammissibili, è come se la Cina ospitasse 4,7 miliardi di individui invece di 1,4, gli Stati Uniti 2,1 miliardi invece di 332 milioni e l’Unione europea 1,2 miliardi invece di 447 milioni.

La conclusione è che, contando le teste, oggi la Cina risulta avere una popolazione quattro volte più alta degli Stati Uniti. Contando le emissioni pro capite di anidride carbonica è come se ne avesse solo il doppio. Quanto all’Africa, che emette anidride carbonica corrispondente a una sola tonnellata a testa, è come se avesse 650 milioni di abitanti invece di 1,4 miliardi.

L’impronta ecologica

Molti altri aspetti potrebbero essere presi in considerazione per valutare la dimensione reale di ogni nazione: il consumo di acqua, il consumo di risorse e di cibo, i rifiuti prodotti. Ma ce n’è uno che in qualche modo li ricomprende tutti ed è la così detta impronta ecologica. Un concetto elaborato da alcuni ricercatori americani per valutare l’impatto dei nostri consumi sulla natura.

Più precisamente, l’impronta ecologica misura la quantità di terra fertile utilizzata da ogni individuo per sostenere i propri consumi. Purtroppo, noi abbiamo perso il contatto con la natura e abbiamo dimenticato che gran parte dei nostri consumi proviene dalla terra. L’esempio più evidente è il cibo. Ma anche la carta affonda le sue radici nella terra perché proviene dagli alberi. Perfino l’anidride carbonica che esce dalle nostre marmitte può essere espressa in metri quadrati di terra, perché è riciclata dalle piante. Ad esempio ogni volta che bruciamo un litro di benzina abbiamo bisogno dell’intervento di 5 metri quadrati di foresta.

Facendo tutti i conti, si scopre che ogni americano utilizza ogni anno 8 ettari di terra fertile, mentre un bengalese 0,8. Gli italiani stanno nel mezzo con 4,7 ettari.

Se prendiamo l’insieme delle terre fertili del mondo e le dividiamo per la popolazione terrestre, troviamo che ogni abitante può avere un’impronta di 1,5 ettari. All’incirca un terzo della popolazione terrestre sta sotto, ma poiché i benestanti sono largamente al di sopra, nel complesso l’impronta media mondiale è di 2,7 ettari che è l’80% più grande di quella ammissibile. Come dire che un pianeta terra non ci basta più. Già ora ce ne servirebbero quasi due. Non a caso l’anidride carbonica si sta accumulando nell’atmosfera per l’insufficiente presenza di organismi vegetali capaci di assorbirla.

In conclusione, se valutiamo la popolazione delle singole nazioni in base alla loro impronta ecologica, cambia tutto.

La popolazione cinese si rivaluta dell’80% passando da 1,4 miliardi a 2,6 miliardi. Quella statunitense si rivaluta del 433%, passando da 332 milioni a 1,7 miliardi. Quella italiana si rivaluta del 146% passando da 59 milioni a 145 milioni. Al contrario, quella indiana si riduce del 20% passando da 1,4 miliardi a 1,1.

Fertilità versus eccessi

Troppo spesso attribuiamo la responsabilità degli squilibri naturali a chi fa molti figli. Ma dimentichiamo che le popolazioni ad alta fertilità sono anche quelle con tassi di consumo e di inquinamento al di sotto della soglia di sostenibilità.

Per risolvere i problemi dell’umanità, piuttosto che puntare il dito contro di loro faremmo bene a mettere in discussione i nostri eccessi.

Francesco Gesualdi
(seconda puntata – fine)




Otto miliardi


Questa è la soglia superata dalla popolazione mondiale lo scorso novembre. Un dato che va interpretato visto che nei paesi occidentali il numero si sta contraendo, mentre in quelli africani sta aumentando. Con importanti ricadute a tutti i livelli.

Non si conosce se si sia trattato di un nastro rosa o celeste, né su quale porta sia stato appeso, ma le Nazioni Unite sostengono che il 18 novembre 2022, da qualche parte nel mondo, c’è stata una nuova nascita che ha portato la popolazione globale oltre la soglia degli otto miliardi.

La popolazione cresce quando le nascite superano le morti, ma questo risultato può essere ottenuto attraverso una varietà di combinazioni che condizionano fortemente l’età media dei cittadini. Ad esempio, dove l’alto tasso di natalità convive con un alto tasso di mortalità degli adulti, la crescita della popolazione è caratterizzata da un’età media bassa: la popolazione è più giovane (come accade in gran parte dei paesi africani). Se, al contrario, la crescita è caratterizzata da una bassa natalità che si accompagna a una mortalità altrettanto bassa degli adulti, è probabile una prevalenza di popolazione adulta e anziana (come accade, ad esempio, in Italia).

Queste differenze si fanno sentire sul piano economico perché l’età condiziona la capacità di lavoro e, quindi, di produzione.

Storia della popolazione

Nel mondo, la popolazione ha cominciato a crescere in maniera significativa nel 1800 a partire dall’Europa.

Oltre a un’alta natalità (una media di 4 figli per donna feconda), varie altre ragioni hanno contribuito al fenomeno: una migliore alimentazione, città più pulite grazie alla costruzione di sistemi fognari più moderni, scoperte mediche e farmaceutiche che hanno iniziato a limitare la mortalità infantile e adulta. Si calcola che, fra il 1800 e il 1850, la popolazione europea sia passata da 187 a 266 milioni di abitanti, un aumento del 42% che ha fatto parlare di rivoluzione demografica. La crescita demografica, però, non è stata accompagnata da un’uguale crescita di posti di lavoro. Di conseguenza, sono stati tantissimi coloro che hanno scelto di cercare miglior fortuna all’estero. In totale, si stima che, fra il 1800 e il 1930, i migranti europei siano stati 60 milioni, soprattutto verso le Americhe e l’Oceania.

Intorno al 1910 la popolazione europea o di origine europea (includendo Stati Uniti, Canada, Oceania e anche paesi latino-americani di forte immigrazione, come l’Argentina) rappresentava più di un terzo di quella mondiale (contro il 20 per cento di un secolo prima), e cresceva più rapidamente di quella del resto del mondo. Ma poi la corsa è rallentata e, pur con un breve sussulto negli anni Sessanta (conosciuto come «baby boom»), il numero di nascite per donne feconde (tasso di fertilità) è sceso sotto il due: un livello cioè che porta la popolazione a contrarsi.

Nel frattempo, la popolazione stava cominciando a crescere nei cosiddetti paesi del Terzo Mondo: pratiche come la bollitura dell’acqua, le vaccinazioni e le disinfestazioni con il Ddt nelle regioni malariche, riducevano la mortalità, mentre la natalità rimaneva a livelli sostenuti. Basti dire che nel 1950, in Rwanda, Kenya, Filippine, la media di figli per donna fertile era superiore a sette, mentre in Cina e India era attorno a sei. Fatto sta che, fra il 1950 e il 1987, la popolazione mondiale è raddoppiata passando da 2,5 a 5 miliardi di individui. Un raddoppio in 37 anni non si era mai visto nella storia dell’umanità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Eberhard Grossgasteiger – Unsplash.

Il caso Cina

Dopo il 1987 la popolazione mondiale ha continuato a crescere, ma non allo stesso ritmo perché il tasso di natalità si è ridotto quasi ovunque. A ogni latitudine, ma per ragioni diverse: dove per il diverso ruolo sociale conquistato dalle donne; dove per la maggiore istruzione che ha permesso a esse di avere un maggiore controllo del proprio corpo; dove per la promozione massiccia di anticoncezionali; dove, ad esempio in India, per l’istituzione di premi per tutti coloro che accettavano di sottoporsi a sterilizzazione; dove per il divieto alle coppie di oltrepassare un determinato numero di figli.

Quest’ultima pratica è stata assunta in particolare in Cina nel 1980 quando Deng Xiaoping ha proibito alle coppie di avere più di un figlio. Chi trasgrediva la regola rischiava di perdere il posto di lavoro e di pagare multe esorbitanti. Si poteva addirittura arrivare all’assurdo che il secondo o il terzo figlio non potesse essere registrato all’anagrafe condannando i malcapitati a non avere nessun riconoscimento sociale.

Nel 2015 la regola del figlio unico è stata tolta tornando a quella di due figli che era in vigore durante gli anni Settanta. Poi, nel maggio 2021, è stato addirittura introdotto il permesso di avere fino a tre figli. Troppo tardi. Nel 2022 la popolazione cinese è calata di circa 850mila persone. Secondo le Nazioni Unite, se dovesse persistere la tendenza alla perdita di popolazione, la Cina passerebbe dagli attuali 1,4 miliardi di abitanti a 1,2 nel 2050 e scenderebbe sotto il miliardo entro il 2075. Stando così le cose, già nel corso di questo 2023, l’India dovrebbe sorpassare Pechino come nazione più popolosa del pianeta. Nel frattempo, la Cina è diventato il paese con il più alto numero di anziani: nel 2019 le persone oltre sessanta anni erano 254 milioni; nel 2040  si prevede che saranno 402, il 28% dell’intera popolazione. Con gravi ripercussioni per il sistema economico: la riduzione del numero di persone in età lavorativa potrebbe provocare un calo della produzione, un aumento del costo del lavoro e una crescita vertiginosa della spesa sanitaria e sociale per l’assistenza ai più anziani.

Il caso africano

A livello mondiale il tasso medio di fertilità è di 2,4 figli per donna fertile, appena sopra il 2,1, detto «tasso di conservazione», perché considerato il livello minimo utile a impedire alla popolazione di contrarsi. Ma moltissime nazioni sono ormai sotto questa soglia. In Italia, ad esempio, siamo a 1,24, in Spagna a 1,23, in Corea del Sud addirittura a 0,85. Le Nazioni Unite prevedono che la popolazione di 61 nazioni si ridurrà di almeno l’1% fra il 2022 e il 2050.

Gli unici paesi in controtendenza sono quelli più poveri, soprattutto dell’Africa, continente con un tasso medio di fertilità di 4,3, lo stesso che avevamo in Europa nel 1800.

Secondo i dati della Banca mondiale, relativi al 2020, il primato spetta al Niger con 6,9 nascite per donna fertile. Seguono la Somalia con 6,4, la Repubblica Democratica del Congo con 6,2, il Mali con 6, l’Angola con 5,4, la Nigeria con 5,3. In conclusione, l’Africa subsahariana è l’area del mondo con il più alto tasso di crescita demografica, tanto da aspettarsi un raddoppio entro il 2040, passando da 1,1 a 2,1 miliardi di persone.

Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, la popolazione mondiale continuerà a crescere fino a raggiungere 10,4 miliardi nel 2100, poi dovrebbe stabilizzarsi o addirittura diminuire. Ma continuare a trattare il tema della popolazione mondiale come un tutt’uno non ci dà il vero quadro della situazione. In effetti in tema di popolazione il mondo va diviso in tre fasce: quella a rapida crescita demografica, quella a modesta crescita, quella a crescita zero o negativa. Ognuna di esse presenta i propri problemi e le proprie specificità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Sam Chen – Pixabay.

Paesi in denatalità

Nel 2021 si sono contati una quarantina di paesi con crescita negativa, guidati dalla Lituania che ha subito una riduzione demografica dell’1,19%. Fra essi compare anche l’Italia che nel 2021 ha avuto un calo complessivo di residenti dello 0,3% rispetto al 2020. Già nel 2008 il Parlamento europeo aveva lanciato grida di allarme precisando che la denatalità avrebbe voluto dire invecchiamento della popolazione, meno persone al lavoro e quindi meno soldi per sanità e previdenza sociale a causa delle minori entrate fiscali.

Nel 2021 gli over 65 in Italia erano 13,9 milioni e rappresentavano il 23,5% della popolazione totale. Nel 2050 la loro quota è attesa al 34,9%, e c’è chi trema pensando alle difficoltà che ci attendono. Una popolazione di vecchi non può badare a se stessa: senza un’adeguata base di giovani disposta a farsene carico è destinata a soccombere sotto il peso degli enormi bisogni economici, sociali, sanitari, assistenziali.

Nella situazione opposta si trova l’Africa con tre quarti della popolazione al di sotto dei 35 anni, 900 milioni di individui. Quasi metà di loro, 35% dei residenti, è in età da lavoro collocandosi fra i 15 e i 35 anni. E, tuttavia, un terzo dei giovani africani è disoccupato e un altro terzo sottoccupato. Solo il 17% ha un lavoro salariato regolare, ed è lontana la prospettiva che questa quota possa crescere. Ogni anno in Africa il mercato del lavoro vede l’ingresso di 10-12 milioni di nuovi giovani, ma l’offerta di nuovi posti non supera i 3 milioni. Di questo passo, avverte la Banca per lo sviluppo africano, nel 2025 i giovani africani senza alcuna prospettiva di lavoro saranno 263 milioni. Situazione destinata ad aggravarsi considerato che, nel 2050, le persone fra i 15 e i 35 anni in Africa sono attese a 850 milioni. In conclusione, l’unica prospettiva di vita per molti giovani africani è la migrazione, principalmente dalle campagne verso le città e dai paesi africani a più bassa capacità produttiva verso quelli a maggiore capacità produttiva. Già oggi 19 milioni di africani si trovano in un paese del continente diverso da quello di nascita. Ma altri 17 milioni si trovano in continenti diversi dall’Africa.

Il ruolo delle migrazioni

Considerato che il mondo è formato da aree con una penuria di giovani e altre con un eccesso,  sarebbe interesse di tutti un riequilibrio attraverso una maggiore libertà di movimento delle persone. I paesi che stanno invecchiando potrebbero ringiovanirsi e i paesi con molti giovani potrebbero migliorare la propria economia tramite le rimesse degli emigranti. Ma in Europa, e in particolare in Italia, solo pochi hanno messo a fuoco che questa è la strada da battere. Fra essi Tito Boeri che, da presidente dell’Inps, non ha perso occasione per ricordarci il ruolo insostituibile dei migranti: senza i due milioni e mezzo di lavoratori stranieri che pagano le tasse e versano i contributi, il sistema previdenziale italiano non ce la farebbe. Chi invece sembra non averlo capito è la politica che pure avrebbe il compito di individuare i problemi e trovare le soluzioni. Il fatto è che i fenomeni si mettono in moto da soli, e quando la politica li intercetta, spesso succede che invece di gestirli in un’ottica di bene comune li cavalca per fini elettorali. Paradossi della democrazia.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)

Siamo in otto miliardi. Foto di Humberto Chavez – Unsplash.

 

 




La società-supermercato: lavora, guadagna, spendi


Nelle società attuali, il baratro della povertà è sempre incombente. Per tutti. Una possibile soluzione sarebbe il reddito universale. Tuttavia…

Nella società del supermercato, la possibilità di sprofondare nella povertà è sempre in agguato. Per tutti. Basta una ristrutturazione, una delocalizzazione, una recessione mondiale e tutto vacilla. In particolare vacillano i posti di lavoro che rappresentano la base della sopravvivenza per la maggior parte della popolazione.

Il discorso è vecchio: da quando l’economia è finita sotto il dominio dei mercanti, che hanno assunto anche il ruolo di produttori, è stato fatto ogni sforzo per espropriare le persone di qualsiasi modo di provvedere a se stesse, in modo da costringerle a non avere altra soluzione se non quella di vendere il proprio lavoro in cambio di un salario. Così è stata costruita la società del supermercato che funziona secondo l’imperativo: «lavora, guadagna, spendi».

Profitti e guerra tra poveri

Le imprese hanno un rapporto di odio con il lavoro perché esso è un diretto antagonista dei profitti. Per questo, fin dal sorgere della rivoluzione industriale le imprese si sono organizzate per abbattere il costo del lavoro, attraverso la doppia strategia dell’eliminazione e della riduzione: l’eliminazione del lavoro umano; la riduzione dei salari. La politica dell’eliminazione passa dallo sviluppo tecnologico con l’obiettivo di avere una predominanza della macchina sull’umano fino a creare linee produttive totalmente gestite da robot. La politica della riduzione salariale è più articolata e arriva fino a comprendere truffe, angherie, eversione contributiva. In questo, l’Italia è maestra: il 10,5% della ricchezza prodotta annualmente è ottenuta in nero.

L’arma prediletta per vincere la partita della riduzione salariale è però l’innesco della guerra tra poveri. Considerandolo una merce al pari di un cavolo o di un cappotto, il sistema pretende che anche il lavoro umano sia sottomesso alla legge della domanda e dell’offerta. Di qui l’interesse affinché il numero di persone che chiede lavoro sia sempre più alto dei posti disponibili. In altre parole, il mercato ha interesse a mantenere cronicamente un alto tasso di disoccupazione. I sindacati lo sanno: quando fuori dalle fabbriche c’è una lunga fila di persone che chiedono di essere assunte, non c’è nessuna speranza di far crescere i salari che anzi scenderanno. E se, fino a ieri, la strategia per creare disoccupazione era l’automazione, con la globalizzazione si è aggiunto

il trasferimento della produzione in altri paesi. Approfittando di un mondo terribilmente disuguale a causa di iniquità secolari, le imprese hanno cominciato a trasferire le produzioni meno qualificate e a più alta intensità di mano d’opera in paesi dove i salari sono dieci, venti, addirittura trenta volte più bassi che nei vecchi paesi industriali. E mentre in Europa, America del Nord, Giappone, si andavano perdendo milioni di posti di lavoro, un nuovo tipo di concorrenza si è impadronita del mondo. È la concorrenza fra lavoratori: i cinesi contro gli indonesiani, i bengalesi contro i cambogiani, gli italiani contro i polacchi, tutti contro tutti in un’assurda corsa al ribasso per accaparrarsi i pochi posti disponibili. Con grande soddisfazione della classe padronale che ora ha buon gioco a ricattare i lavoratori più pretenziosi, tacciandoli addirittura per privilegiati.

L’incubo della povertà. Foto Alĕs Kartal – Pixabay.

Da diritto a privilegio

La trasformazione dei diritti in privilegi è forse la forma più raffinata di manipolazione lessicale attuata dall’1% dell’umanità per soggiogare il restante 99%.

I risultati li conosciamo. Mentre in Italia la disoccupazione è attestata all’8% e quella giovanile attorno al 24%, la stabilità del lavoro non esiste più. Il contratto a tempo indeterminato è diventato un sogno irraggiungibile che in ogni caso deve prima passare per le forche caudine di innumerevoli contratti temporanei che permettono alle imprese di sbarazzarsi di chiunque provi a rivendicare i propri diritti. È tornato il lavoro a cottimo, il lavoro a chiamata, il subappalto, il falso lavoro autonomo che libera le imprese committenti dall’obbligo dei versamenti assicurativi e contributivi. In conclusione, se un tempo i poveri erano essenzialmente i senza lavoro, oggi se ne trovano tanti che, statisticamente parlando, sono classificati come occupati. Sono i cosiddetti «working poors», persone povere nonostante lavorino. Una definizione coniata dall’Organizzazione internazionale del lavoro negli anni Novanta per denunciare il lavoro malpagato nel Sud del mondo, che oggi, però, coinvolge anche il mondo ricco, con tassi preoccupanti.

I criteri di misurazione della povertà tengono conto di vari aspetti, fra cui il salario orario, le ore di lavoro, il carico familiare, per cui fornire un indicatore semplificato di livello di povertà è praticamente impossibile. Tuttavia, un rapporto del ministero del Lavoro, pubblicato nel novembre 2021, informa che, in Italia, un quarto dei lavoratori ha una retribuzione individuale bassa e più di un lavoratore su dieci si trova in situazione di povertà (cioè, vive in un nucleo con reddito netto equivalente inferiore al 60% della mediana). A questo va aggiunto che, secondo l’Istat, in Italia 8,8 milioni di individui (14,8% della popolazione) sono classificati come «poveri relativi», cioè hanno un livello di consumo inferiore al 50% della media nazionale. Di questi, oltre la metà (5,6 milioni di individui) sono addirittura «poveri assoluti», ossia non riescono a soddisfare neanche i bisogni fondamentali.

Contro la povertà

Questi dati ci dicono che urgono interventi contro la povertà che, a mio avviso, debbono muoversi su tre piani.

Il primo è quello del «tamponamento»: chi non dispone dei mezzi per vivere deve essere soccorso in maniera appropriata dalla struttura pubblica che deve organizzare l’aiuto in una logica di redistribuzione. Paolo Acciari e altri ricercatori hanno appurato che, in Italia, la quota di ricchezza privata posseduta dal 50% più povero (circa 25 milioni di individui) è retrocessa  dall’11,7%  nel 1995 al 3,5% nel 2016. Nello stesso periodo la quota dell’1% più ricco è salita dal 16% al 22% con beneficio soprattutto per lo 0,01% posto all’apice della piramide, appena 5mila individui, che hanno visto la propria quota crescere dall’1,8% al 5% del patrimonio totale. Tradotto in termini monetari, ciascuno di loro è titolare di un patrimonio medio pari a 83 milioni di euro, un valore 473 volte più alto della media nazionale.

Uno stato serio tiene l’attenzione costantemente puntata sul livello delle disuguaglianze e interviene tramite il fisco, il sostegno ai più poveri e il rafforzamento dei servizi, per riequilibrare le cose. In Italia le risorse per soccorrere i più poveri ci sono. Bisogna semplicemente avere il coraggio di andarle a prendere dove si trovano, ossia nelle tasche dei ricchi. Molto spesso, invece, si preferiscono fare operazioni stile capitalismo compassionevole che soccorre i poveri tramite l’apertura di nuovo debito pubblico. Esattamente come hanno fatto gli ultimi governi che hanno finanziato il reddito di cittadinanza a debito, ossia buttando il peso finanziario sulle spalle delle generazioni future. Scelta «vigliacca» di chi non vuole inimicarsi nessuno e governa alla giornata senza un progetto di società di lunga durata.  Dopo il soccorso, deve venire il sostegno all’autonomia e se decidiamo che la via dell’autosostentamento è quella del lavoro salariato, allora bisogna intervenire affinché il lavoro sia dignitoso. Non può essere, come succede oggi, che al senza reddito sia imposto l’accettazione di qualsiasi lavoro, qualcunque esso sia, sotto minaccia di sospensione di ogni forma di assistenza. Questa politica non fa altro che perpetuare la povertà. Al senza reddito bisogna offrire delle proposte di lavoro, ma deve trattarsi di lavoro dignitoso. Ecco perché il secondo piano di intervento di lotta alla povertà è l’imposizione alle imprese di nuove regole in materia di assunzione, di licenziamento, di tutela delle libertà sindacali e anche di salario minimo. In Italia abbiamo retribuzioni contrattuali, quindi legali, anche di cinque euro l’ora e chiunque le percepisca è condannato alla povertà, anche se lavora a tempo pieno. Dunque, va fissata per legge una soglia di salario minimo, sufficiente, come dice l’articolo 36 della Costituzione, ad «assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa».

Contemporaneamente, bisogna intervenire per ridurre, per legge, l’orario di lavoro, in modo da ripartire fra tutti il lavoro esistente. Le macchine stanno espellendo persone dai posti di lavoro e se di lavoro ne serve di meno dobbiamo ridurre la giornata lavorativa in modo da includere tutti. Keynes lo aveva già detto quasi cento anni fa. Tuttavia, sta crescendo anche il movimento di chi vorrebbe ripartire il reddito anziché il lavoro.

L’incubo della povertà. Foto Wilhan José Gomes – Pixabay.

Il reddito universale

È la proposta del reddito di base universale: un assegno dello stesso importo staccato a favore di tutti, vita natural durante, indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla situazione occupazionale e perfino dalla ricchezza. Una proposta che ha il merito di dichiarare tutti i cittadini uguali perché riconosce a tutti il diritto di ricevere un minimo vitale senza dover fornire nessuna altra giustificazione se non quella di esistere. Positiva anche perché porrebbe fine all’apartheid nei confronti dei lavori domestici e di cura della persona, che oggi non hanno alcuna considerazione sociale. Per di più potrebbe operare miracoli sul piano della qualità della vita, sia per la ritrovata sicurezza nei confronti della precarietà generata dal mercato, sia per la recuperata libertà di poter dedicare del tempo allo studio, al fai da te, alle relazioni affettive e sociali.

Il reddito di base potrebbe però essere letale per le casse pubbliche. È stato calcolato che, per garantire in Italia un reddito universale di 10mila euro all’anno, una cifra di poco superiore alla linea della povertà relativa, non a tutti, ma ai soli maggiorenni, ci vorrebbero 480 miliardi di euro, l’85% delle entrate tributarie. Che significherebbe la scomparsa dello stato come agente economico, col risultato di una società più insicura perché lascerebbe i cittadini soli di fronte ai bisogni fondamentali che non possono essere affrontati individualmente: alloggio, istruzione, sanità, infrastrutture. La conclusione sarebbe che chiederemmo allo stato di immolarsi sull’altare di un’azione redistributiva a esclusivo vantaggio del mercato, perché avremmo cittadini con più capacità di consumo individuale, ma totalmente sprovvisti di solidarietà collettiva, con grande gioia di banche e assicurazioni.

Servizi pubblici gratuiti

Personalmente, piuttosto che inseguire sogni impossibili, preferirei utilizzare le risorse disponibili per rafforzare i servizi pubblici da garantire gratuitamente a tutti. Non solo istruzione e sanità, ma anche acqua, energia, alloggio, trasporti. Una scelta che avrebbe un doppio vantaggio: per la sicurezza delle persone, e per l’occupazione. Per la sicurezza, perché quando si ha la garanzia dei bisogni fondamentali, non serve molto altro denaro per vivere. Per l’occupazione perché per produrre servizi serve personale. Il che smonta lo stereotipo secondo il quale solo le aziende private creano occupazione. In realtà, se la comunità si convincesse che è suo dovere garantire i bisogni fondamentali a tutti, diventerebbe il più importante motore di lavoro. La conclusione è che, se la comunità decidesse di diventare imprenditrice di se stessa per i bisogni fondamentali dei cittadini, libererebbe tutti dalla povertà e offrirebbe a tutti un’occupazione garantita.

Francesco Gesualdi




Etica e affari, un matrimonio difficile


Ben&Jerry’s, azienda Usa di successo, non vuole più vendere i propri gelati nei territori palestinesi occupati da Israele. Ne è nato un intricato conflitto politico e legale. È possibile tenere insieme ricerca del profitto e principi etici?

Nella storia del capitalismo, di dispute fra imprese se ne sono viste tante, ma che una filiale portasse in tribunale la propria capogruppo, questo no, non era mai capitato. È quanto è successo negli Stati Uniti per una vicenda che riguarda addirittura il conflitto israelo-palestinese. Il dilemma è se vendere o non vendere nei territori occupati da Israele. Non riuscendo a trovare un accordo sul piano politico, le due parti stanno cercando di spuntarla tramite sofisticate battaglie legali. Mentre scriviamo, il contenzioso è ancora in corso, ma qualunque sarà il suo esito vale la pena raccontarlo per i molteplici aspetti che solleva.

Dal vermont al mondo

Le due parti in gioco sono Unilever e Ben&Jerry’s. La prima è una potente multinazionale inserita nel settore dei prodotti igienici, cosmetici e alimentari. La seconda è un’impresa di gelati nota soprattutto al pubblico americano. In effetti, Ben& Jerry’s nacque negli Stati Uniti per iniziativa di due piccoli imprenditori, Bennet Cohen e Jerry Greenfield, che, nel 1978, decisero di aprire una gelateria in una località del Vermont, loro città natale. L’iniziativa ebbe successo e in breve Ben&Jerry’s divenne una catena di gelaterie con punti vendita in tutta la nazione. L’attività andava così bene che attirò l’attenzione dei giganti del settore, tanto che, nell’anno 2000, Unilever se la comprò. L’assorbimento fu totale, ma i vecchi proprietari riuscirono a porre come condizione che l’azienda continuasse a essere gestita da loro secondo i propri principi etici.

Nel panorama del mondo degli affari i due imprenditori rappresentavano senz’altro un’eccezione perché erano convinti che obiettivo dell’impresa debba essere non solo il perseguimento del profitto, ma anche il rispetto per l’ambiente, dei lavoratori e delle comunità in cui l’attività è svolta. Un filone di pensiero che più tardi diede origine a particolari imprese denominate «B Corporation» (vedi MC giugno 2022), dove «B» sta per «benefit», a indicare che sono organizzate per portare vantaggio a tutti. Dagli Stati Uniti, l’idea approdò anche in Europa, Italia compresa, dove la B Corporation ha trovato spazio nella legislazione, sotto il nome di «società benefit». Una denominazione che può essere utilizzata da tutte quelle realtà imprenditoriali che oltre ad avere «lo scopo di dividere gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse».

Un tratto del muro divisorio tra Israele e Palestina. Foto Olaf-Pixabay.

Una forza per il bene?

Nel mondo, le B Corporation sono qualche migliaio, tutte convinte di poter cambiare il mondo, come si legge in un pieghevole del loro movimento: «Insieme stiamo costruendo un movimento di persone che usano il mondo degli affari come una forza per il bene». Che sia un po’ esagerato? I toni da crociata religiosa sono sempre un po’ inquietanti.

Personalmente ritengo che eleggere le imprese a «forza per il bene» sia un tentativo (maldestro) per giustificare il capitalismo fondato su presupposti ideologici che conducono allo sfruttamento del lavoro, all’esaurimento delle risorse, all’accumulo di rifiuti, alle guerre per il controllo delle risorse e l’espansione dei mercati. In una parola a tutte le situazioni di crisi che oggi affliggono l’umanità. Tuttavia, fatta questa precisazione, sicuramente le società benefit rappresentano un passo avanti sulla strada della sostenibilità, della trasparenza, della dignità personale. Un risultato attribuibile a un mix di conversioni personali e di pressione decennale esercitata dalla società civile tramite azioni di investimento etico e di consumo critico.

Nel 2006 nacque anche un sistema di certificazione che dà la patente di società «per il bene» a tutte quelle imprese che dimostrano di rispettare regole stringenti in ambito sociale e ambientale. Certificazione che Ben&Jerry’s ottenne nel 2012 impegnandola a «essere economicamente sostenibile e nello stesso tempo capace di un cambio sociale positivo […] finalizzato a garantire il soddisfacimento dei bisogni umani ed eliminare ogni forma di ingiustizia». Per di più nella sua carta dei valori si legge: «Sosteniamo le vie nonviolente per l’ottenimento della pace e della giustizia. Crediamo che le risorse pubbliche siano utilizzate in maniera più produttiva quando sono messe al servizio dei bisogni umani piuttosto che spese in armamenti».

Nonostante queste precise prese di posizione, Ben&Jerry’s non aveva avuto problemi a catapultarsi in Israele dove approdò nel 1987, concedendo la licenza d’uso del proprio marchio all’impresa israeliana Avi Zinger. Così i gelati a marchio Ben&Jerry’s si vendevano in tutti i territori occupati da Israele, compresi quelli colonizzati dopo il 1967 in aperta violazione con le ripetute risoluzioni Onu secondo le quali «tali occupazioni sono illegali e rappresentano un ostacolo alla realizzazione dell’obiettivo dei due stati, l’unica soluzione che può garantire una pace duratura».

La presenza nei territori occupati non era vissuto da Ben&Jerry’s come un tradimento dei propri valori, ma l’incoerenza non era sfuggita a un gruppo del Vermont che agisce a sostegno del popolo palestinese in collaborazione con il movimento Bds («Boycott, divestment, sanctions», boicottaggio, disinvestimento, sanzioni).

La Puma, nota azienda produttrice di scarpe sportive, è oggetto di un boicottaggio internazionale per essere sponsor di squadre israeliane. Foto BDS Movement.

BDS e danno economico

Sorto nel 2005, il Bds è un movimento che intende costringere Israele al rispetto delle leggi e delle convenzioni internazionali attraverso il danno economico. La stessa strategia utilizzata negli anni Ottanta del secolo scorso nei confronti del regime del Sudafrica che fu costretto a capitolare di fronte alla fuga delle imprese straniere e alle sanzioni economiche messe in atto contro il paese. In effetti, il movimento Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni si propone l’obiettivo di fare pressione sul governo di Israele tramite l’isolamento economico. Una delle strategie consiste nel prendere di mira le imprese che conducono i propri affari nei territori occupati a vantaggio esclusivo o prevalente dei coloni occupanti.

Alcuni esempi sono Puma (vedi foto), Axa, Hewlett Packard su cui è esercitata ogni forma di pressione per convincerle a ritirarsi da Israele o quanto meno dai territori occupati dopo il 1967.

Nei confronti di Ben&Jerry’s la prima iniziativa di pressione venne assunta nel 2011 tramite una lettera inviata dal gruppo del Vermont che però non ricevette risposta. Per cui vennero assunte iniziative sempre più incisive, fino a dichiarare un vero e proprio boicottaggio nel 2015. Lo scrollone finale si ebbe nel maggio 2021 quando davanti alla sede centrale di Ben&Jerry’s, si presentò una folla concitata che con una sola voce gridava «Vergogna!». Erano lì per commemorare ciò che i palestinesi chiamano «Nakba», ossia l’evacuazione forzata di centinaia di migliaia di palestinesi avvenuta nel 1948, per fare spazio allo stato di Israele.

Questa volta, Ben&Jerry’s accusò il colpo e, dopo due mesi, il 19 luglio 2021, annunciò di avere deciso di rivedere la propria presenza in Israele, cominciando con il non rinnovare il contratto di licenza stipulato con Avi Zinger in scadenza a fine dicembre 2022.

Gelati antisemiti?

Un barattolo di gelato di Ben&Jerry, azienda Usa che, per problemi etici, non vuole vendere a Israele.

In un primo momento la capogruppo Unilever si era schierata a fianco della propria controllata appellandosi anch’essa a motivazioni etiche. Ma poi la ragione economica ebbe il sopravvento e madre e figlia finirono per vie legali. Il governo israeliano aveva bollato la scelta di Ben&Jerry’s come antisemita e subito le azioni di Unilever avevano cominciato a perdere valore. Sui social israeliani circolavano filmati di ministri nell’atto di gettare nella pattumiera i gelati di Ben&Jerry’s ancora integri. In America, invece, su alcuni quotidiani comparvero annunci a tutta pagina firmati dall’organizzazione ebraica Simon
Wiesenthal Center
, che invitavano negozi e supermercati a cessare la vendita dei gelati Ben&Jerry’s colpevoli di antisemitismo. Iniziative che ebbero il loro effetto sul piano finanziario: vari fondi pensione e altri investitori istituzionali annunciarono di voler vendere le quote che avevano in Unilever sostenendo che cedendo alle richieste di Bds la multinazionale aveva violato la legislazione americana. Sul versante opposto si diffuse la notizia che un pacchetto importante di azioni era stato comprato da Nelson Peltz, niente po’ po’ di meno che presidente del Simon Wiesenthal Center. Una scelta compiuta con lo scopo evidente di condizionare Unilever dall’interno.

Etica e affari

Intanto, nel marzo 2022, Zinger, il licenziatario israeliano, si era rivolto alla magistratura statunitense affinché impedisse a
Unilever di sospendere il contratto di licenza, come preannunciato dalla direzione di Ben&Jerry’s. Ma la contesa non venne mai discussa in tribunale perché, nel giugno 2022, Unilever annunciò di essersi accordata con Zinger per venderle la proprietà del marchio Ben&Jerry’s, e questa era valida per tutti i territori controllati da Israele. Una decisione che irritò la direzione di Ben&Jerry’s che reagì denunciando la capogruppo per abuso e violazione contrattuale.

Ora la parola è di nuovo agli avvocati, ma comunque vada a finire, crescono i dubbi che etica e affari possano davvero unirsi in matrimonio come sostiene il movimento delle B Corporation.

Francesco Gesualdi

 

I siti dei protagonisti:




I costi degli eserciti


La spesa militare continua a crescere. Nei paesi ricchi come in quelli poveri. I soldi vengono sottratti alla sanità, all’istruzione, alla sicurezza sociale. Un domani senza eserciti rimane un sogno lontano.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, oltre due miliardi di persone non dispongono di servizi idrici sicuri, mentre quattro miliardi non dispongono di servizi igienici adeguati. La Banca mondiale stima che, per garantire questi servizi minimi a tutti, basterebbero 450 miliardi di dollari. Ma non si trovano, e così gli obiettivi sanitari dichiarati dall’Agenda 2030 rischiano di rimanere lettera morta. In realtà, i soldi ci sono, ma si preferisce spenderli per altri scopi, per obiettivi di morte.

la spesa militare

Il Sipri, l’istituto di Stoccolma per la ricerca sulla pace, ci informa che, nel 2021, la spesa militare mondiale ha raggiunto 2.113 miliardi di dollari, lo 0,7% in più di quanto speso nel 2020 e il 12% in più di quanto speso nel 2012. In termini assoluti, il paese con la spesa militare più alta sono gli Stati Uniti che, nel 2021, hanno investito 801 miliardi di dollari, pari al 38% dell’intera spesa mondiale. Seguono Cina con 293 miliardi, India (76), Gran Bretagna (68), Russia (66). Vale la pena precisare che il 54% della spesa militare mondiale è sostenuta dalla Nato, l’alleanza di cui fanno parte ventisei paesi europei, oltre a Stati Uniti, Turchia e Canada. Non esistono sul pianeta altre alleanze così strutturate.

Oltre che in termini monetari, ci sono altri due modi per rappresentare la spesa militare: in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil), ossia alla ricchezza complessiva prodotta nel paese, e in rapporto alla spesa pubblica. A livello globale, nel 2021 la spesa complessiva in rapporto al Pil è stata del 2,2%. Ma con profonde differenze fra singoli paesi. Da questo punto di vista, il primato tocca all’Oman col 12%, seguito da Arabia Saudita (7,7%), Israele (5,6%), Usa (4,5%), Russia (3,7%).

La spesa militare si valuta anche in rapporto alla spesa pubblica, perché è sui bilanci pubblici che essa va a gravare. Ci sono paesi che, pur avendo una bassa spesa militare in termini assoluti, dimostrano di avere una grande propensione per gli armamenti perché vi dedicano una parte cospicua delle proprie entrate pubbliche, pur molto magre. Un esempio è l’Eritrea che, secondo la Banca mondiale, nel 2020 ha destinato all’esercito il 31% del bilancio statale. Ma si può citare anche l’Armenia che ha speso in armi il 16% delle entrate fiscali, o il Ciad che si attesta al 15,6%, e l’Uganda al 13%. Tutti paesi molto poveri con gravi problemi, perché è dimostrato che più si spende in armi, meno soldi rimangono per sanità, istruzione, sicurezza sociale.

Se abbandoniamo i paesi minori e veniamo alle vere grandi potenze militari, troviamo che il paese che dedica alle armi la percentuale più alta di risorse pubbliche è la Russia per una percentuale pari all’11,4%. Seguono l’India (9,1%), gli Stati Uniti (7,9%), la Cina (4,7%), la Gran Bretagna (4,2%).

Le spese militari in Italia

Quanto all’Italia, reperire dati completi sulla spesa militare non è semplice perché alcune voci di costo sono inserite nei bilanci di ministeri diversi da quello della Difesa (da ottobre guidato da Guido Crosetto, consulente e imprenditore del settore militare, ndr). Ad esempio, le spese per le missioni militari all’estero sono inserite nel bilancio del ministero dell’Economia e delle finanze (Mef), mentre alcune somme utili ad acquistare nuove navi o nuovi aerei, prodotti da imprese italiane, sono inserite nel bilancio del ministero per lo Sviluppo economico (Mise). Mettendo insieme tutte le voci, lo stesso ministero della Difesa conferma che, per il 2022, la spesa militare complessiva è fissata in 28,875 miliardi di euro, per il 61% a favore del personale, per il 27% destinati all’ottenimento di nuovi sistemi d’arma, per il 12% per l’acquisto di materiale d’uso corrente.

In termini percentuali, attualmente la spesa militare italiana   rappresenta il 3,5% della spesa pubblica complessiva e l’1,6% del Pil nazionale. Ma il 16 marzo 2022 la Camera dei deputati ha approvato un ordine del giorno che impegna il governo ad aumentare la spesa militare fino al 2% del Pil, presumibilmente entro il 2028. Tradotto in moneta suonante dovremo aspettarci una crescita stimabile in 10 miliardi di euro realizzata, con tutta probabilità, a scapito di altri comparti, magari la sanità, l’istruzione o le pensioni. La conclusione sarà che dedicheremo alla spesa militare il 4,5% dell’intero gettito fiscale solo perché «ce lo chiede la Nato».

Armi e inquinamento

Abbiamo l’abitudine di misurare il comparto militare solo in termini monetari, ma i soldi non danno la vera dimensione del danno che ci procura l’apparato militare. Lasciando da parte la perdita di vite umane e la distruzione di infrastrutture che si verificano quando le armi parlano, non dobbiamo dimenticare che produrre armi e anche solo limitarsi a compiere esercitazioni, comporta un grande consumo di risorse e rilascio di inquinanti. Uno studio della Commissione europea del 2016 sull’industria bellica, sostiene che la produzione di aerei, navi, mezzi meccanici, necessita dell’apporto di trentanove diverse materie prime, fra cui primeggiano alluminio, titanio, rame, cromo, berillio, litio. Tutti materiali con un pesante zaino ecologico, in quanto lasciano dietro di loro grandi quantità di detriti e inquinanti. Ad esempio, per ottenere una tonnellata di alluminio ci vogliono 4,8 tonnellate di bauxite, la quale, a sua volta, richiede l’estrazione di terra e rocce pari a una volta e mezzo il suo peso. E non è tutto perché il passaggio da bauxite ad alluminio richiede non solo una considerevole quantità di energia, ma anche l’apporto di numerosi materiali che però non rimangono nel prodotto finito. In conclusione, il Wuppertal Institute calcola che ogni tonnellata di alluminio lascia dietro di sé 8,6 tonnellate di materiale esausto. Se effettuassimo lo stesso tipo di calcolo per tutti i materiali utilizzati, scopriremmo che, dietro a ogni nave, ogni aereo, ogni carro armato, si celano montagne di scarti. Purtroppo, la produzione di armi è avvolta da una cortina di segretezza che rende difficile ogni tipo di indagine, per cui certe informazioni non le avremo mai. Ciò non di meno alcuni ricercatori hanno provato a valutare il contributo degli eserciti alle emissioni di anidride carbonica. Basandosi sui dati forniti dal Pentagono relativi ai consumi energetici, la professoressa Neta Crawford ha calcolato che l’esercito statunitense produce annualmente 59 milioni di tonnellate di anidride carbonica, una quantità pari a quella emessa da intere nazioni come Svezia o Svizzera. Ma l’ammontare si moltiplica per cinque se ci aggiungiamo le emissioni rilasciate dall’industria delle armi statunitense. La conclusione è che, a livello mondiale, eserciti e produttori di armi, messi assieme, contribuiscono al 6% delle emissioni globali di anidride carbonica.

Integrità e valori

Di fronte a un simile dispiegamento di mezzi, consumo di risorse e produzione di rifiuti, la domanda che sorge spontanea è: «Perché lo facciamo?». La risposta è che gli eserciti servono per difendere la nostra integrità territoriale e i nostri valori, in particolare democrazia e libertà, valori a cui terremmo così tanto da sentirci perfino autorizzati a guerre di aggressione pur di vederli trionfare. Ma tutti sanno che si tratta di motivazioni parziali, se non di paraventi per ragioni ben più venali. Il dato da cui partire è che il sistema economico in cui viviamo, il capitalismo, è aggressivo per costituzione. Il capitalismo è il sistema dei mercanti che hanno come fine l’accrescimento continuo dei profitti, possibile solo se c’è una crescita costante delle vendite. Ma queste possono crescere solo se si produce sempre di più. In altre parole, i mercanti hanno sempre avuto due esigenze: disporre di quantità crescenti di materie prime a basso costo e sbocchi di mercato sempre più vasti. Per queste due ragioni, il capitalismo ha sempre avuto una forte tendenza a virare verso il nazionalismo. Identificandosi con le imprese di casa propria, i governi hanno spesso utilizzato i propri eserciti per aggiudicarsi le risorse a buon mercato presenti nei territori altrui. L’Italia stessa fra le proprie missioni all’estero, ne annovera un paio che hanno come scopo la difesa delle attività estrattive di Eni: una in Libia, l’altra nel golfo di Guinea. E, mentre continuano le operazioni militari dal vecchio sapore colonialista, si è rafforzato il neocolonialismo che oggi si presenta con il volto dello scambio ineguale, del land grabbing, dello strangolamento finanziario. Fino a ieri, la lotta era per il carbone, il petrolio, i minerali ferrosi, oggi è per le terre agricole, i minerali rari, la biodiversità, l’acqua.

Globalizzazione e istinti nazionalistici

La storia coloniale ci ha insegnato che gli eserciti servono anche per spianare la strada alle imprese di casa propria affinché possano garantirsi nuovi sbocchi di mercato. Quando l’India venne conquistata dall’Inghilterra pullulava di artigiani che da tempo immemorabile producevano tessuti in cotone commercializzati in tutta l’area.  Con grave danno per l’industria tessile inglese che chiese al governo di adottare ogni misura doganale e fiscale utile a mettere fuori gioco i produttori indiani. E gli artigiani che continuavano a resistere venivano puniti con il taglio delle dita. La repressione fu così violenta che nel 1834 lo stesso governatore inglese dichiarò che «le ossa dei tessitori imbiancano le pianure indiane».

Ci avevano detto che con la globalizzazione i cannoni avrebbero taciuto per sempre. L’adagio era che, permettendo alle imprese di collocare i propri prodotti ovunque nel mondo, di spostare la produzione dove appariva più conveniente, di trasferire i capitali dove erano garantiti maggiori vantaggi, avremmo creato un mondo più interdipendente e quindi più interessato a mantenere la pace. Ma le crescenti tensioni fra Usa e Cina e, da febbraio 2022, la guerra in Ucraina, che si rivela sempre più un conflitto fra Russia e Occidente, mostrano che la maggior internazionalizzazione degli affari non è sufficiente a sopire gli istinti nazionalistici dei governi i quali mostrano di voler fare di tutto per aprire la strada commerciale alle multinazionali battenti bandiera di casa propria.

Vari analisti hanno dimostrato che l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti del contenzioso Russia-Ucraina è stato condizionato dall’obiettivo di rompere il rapporto privilegiato che l’Europa aveva con la Russia rispetto al gas, in modo da trasformare il nostro continente in un acquirente del gas liquefatto fornito dalle imprese statunitensi.

Industrie belliche e governi

Va da sé, in ogni caso, che le più interessate a spingere gli stati verso scelte militariste sono le imprese che producono armi. L’ammontare totale del loro giro d’affari è avvolto nel mistero, ma il Sipri valuta che, nel 2020, le prime cento imprese mondiali di armi abbiano avuto un fatturato complessivo di 531 miliardi di dollari, una cifra superiore al prodotto interno lordo del Belgio.

Fra le prime cento, compaiono anche le imprese italiane Leonardo e Fincantieri. Leonardo si colloca al 13esimo posto della graduatoria mondiale ed appartiene per il 30% al ministero dell’Economia. Fincantieri si colloca al 47esimo posto ed appartiene per il 71% alla Cassa depositi e prestiti.

Come tutte le imprese, anche quelle di armi hanno bisogno di uno sbocco di mercato che per loro è rappresentato dalle guerre e dalle scelte di riarmo da parte degli stati. Per cui fanno di tutto per ottenere questo doppio risultato.

Non a caso i produttori di armi mantengono rapporti continui con i ministeri della difesa e  spendono fiumi di denaro per ottenere dai governi scelte a vantaggio delle proprie attività. Secondo Open secrets, nei soli Stati Uniti, negli ultimi 20 anni, le industrie belliche hanno speso 285 milioni di dollari per contributi alle campagne elettorali e ben 2,5 miliardi per spingere le istituzioni statunitensi a compiere scelte politiche e finanziarie favorevoli ai propri interessi. Quanto all’Unione europea, i numeri ufficiali, risalenti al 2016, dicono che le prime dieci imprese di armi spendono oltre cinque milioni di euro all’anno e dispongono di trentatré lobbisti a libro paga per esercitare pressione sulle istituzioni di Bruxelles.

Per vivere senza eserciti

È possibile avere un mondo senza eserciti? Qualche stato lo sta facendo. Un esempio è il Costa Rica che, guarda caso, si trova ai primi posti nella graduatoria dell’indice di sviluppo umano. Segno che chi non spende in armi ha più soldi per migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Vivere senza esercito è possibile, ma servono almeno tre passaggi. Primo: bisogna mettere al bando le industrie di armamenti. Secondo: occorre perseguire un modello di economia basato sulle energie rinnovabili e sulla sobrietà in modo da ridurre la tentazione di sopraffare gli altri popoli per impossessarsi delle loro risorse. Terzo: bisogna ridurre il peso del mercato e ampliare quello dell’economia collettiva in modo da poter vivere anche senza dover conquistare i mercati altrui. La conclusione è che non può esserci pace senza un cambio di paradigma economico.

Francesco Gesualdi