Insegnaci a pregare 3:

«Dal deserto al cosmo per la storia»


Non si può amare e non si può pregare nella confusione, nel frastuono e nella dispersione. L’intimità che non sia prostituzione esige riservatezza perché l’amore custodisce la persona amata e l’amore, come la preghiera, esigono la condizione preliminare del «silenzio», anzi dell’«ascolto del silenzio». Per questo occorre non solo «fare silenzio» dentro e attorno a noi, ma «essere silenzio», cioè abitarlo come luogo d’intimità (cfr Sap 18,14-15).

Lo sa il salmista che prega: «Per te il silenzio è lode, o Dio, in Sion, a te si sciolgono i voti» (Sal 65/64,2). È probabile che questo salmo sia stato formulato in terra d’esilio, lontano dal tempio di Gerusalemme, e che l’autore, privo dei sacrifici, dei riti e delle liturgie, si limiti a immaginare, in silenzio, il tempo del tempio, quando nulla ne faceva temere la distruzione. Il silenzio stesso è sacrificio, cioè offerta di lode, da qui si deduce che la preghiera sostituisce i sacrifici e non si esaurisce nelle formule, ma nel desiderio, nell’anelito di essere e stare con Dio. Come conciliare tutto questo con le condizioni di vita di oggi, in cui rumore, chiasso, frettolosità e superficialità sono onnipresenti?

Seduzione e deserto

Anche Dio, quando deve recuperare l’amore tradito e sporcato, non trova altra soluzione che condurre la donna/Israele nel deserto, nel cuore del silenzio, al riparo da sguardi indiscreti: «Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò sul suo cuore» (Os 2,16). Nemmeno Dio si può sottrarre alla pedagogia e alle dinamiche dell’innamoramento, se vuole che la sua relazione con l’amata sia vera e profonda. Per il profeta Osea, il «deserto» non è solo il luogo geografico dell’esperienza della liberazione dall’Egitto, ma è anche il luogo della solitudine e della riservatezza, il «dove» che custodisce da occhi estranei la persona amata perché l’amore totale non può avere come proscenio la piazza, ma solo lo spazio che unisce i due cuori.

Anche Gesù va nel «deserto» fisico, simbolo del deserto intenso della sua anima. In greco «deserto – èr?mos», da cui èremo, è luogo isolato, pur non assente dal mondo perché è nel mondo, ma non del mondo; luogo dove la dimensione della vita scorre non sulle onde agitate dei cavalloni del mare in tempesta, ma sugli alisei sottotraccia, dove il tempo ritma l’eterno e l’eternità scandisce l’essenziale dell’esistenza, purificando dalle scorie del superfluo. Nel deserto non si porta l’abito da sera o il vestito della festa: solo l’essenziale è consentito, ciò che non ingombra e non appesantisce. Il deserto è il luogo della purità del cuore e della limpidezza dello sguardo, dove per sentire anche il sussurro dell’amore e per vederlo basta «chiudere gli occhi».

Nel deserto non ci si può distrarre perché come custodisce, così uccide, pieno com’è di pericoli e insidie che impongono vigilanza e attenzione. Il deserto non ispira la preghiera per occupare il tempo, perché nel deserto non c’è tempo, ma soltanto il sole che brucia il giorno e impone il buio, allungando le paure come ombre e le tensioni come desideri. Nel deserto tutto è sospeso, anche la vita. In questo contesto la preghiera diventa la misura dell’essere, nell’aspetto del desiderio e dell’agire, del progettare e del realizzare. La verifica della vicinanza con Dio si trova solo se c’è il clima dell’ascolto nel silenzio che diventa attenzione assoluta all’altro/Altro. A questo livello non occorrono parole, perché basta «esserci».

La preghiera è – e non può non essere – relazione tra due innamorati. Da questo punto di vista pregare significa, lo abbiamo già detto, perdere tempo per la persona amata. Gesù, infatti, non sottrae tempo agli altri, ma solo a sé, al suo riposo, per dedicarlo al Padre, la Persona che ama più di ogni altro. «Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava» (Mc 1,35). L’evangelista ci tiene a precisare che questo stile di Gesù è abituale, che cioè la sua vita è ritmata dalla preghiera non come un sistema di formule o obblighi da adempiere, ma come necessità interiore. Mentre tutti dormono, all’aurora, prima dell’alba, egli veglia sul mondo in comunione col Padre, facendosi carico delle fatiche e delle assenze dell’umanità. L’incontro col Padre per lui è la vita, la sua vita, e senza di esso non può vivere. Per Gesù pregare è illimpidirsi lo sguardo per adeguare sempre più la propria vita a quella del Padre e crescere in intimità con lui: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30). Pregare non è dire formule, ma imparare a «stare con…».

Due innamorati stanno insieme per uniformare pensieri, desideri, tenerezza, aspirazioni, progetti, sentimenti, volontà, decisioni, ecc. Gesù prega per mantenere la sua vita in conformità con a quella del Padre perché egli «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). In questo senso la preghiera diventa anche purificazione da eventuali tracce di egoismo narcisista e di tornaconto.

Fratel Arturo Paoli, profeta di oggi, fino alla sua morte, anche da centenario, si alzava ogni notte verso le quattro del mattino e trascorreva ore a dialogare con l’Amico, come fanno gli amanti. Qui stava la sorgente segreta della sua profezia visibile.

L’Eucaristia della testimonianza

La preghiera è un crogiolo che brucia le reste e lascia integro il frumento (cfr Lc 3,17) perché è un principio di trasformazione radicale. Se uno prega e non parla soltanto con se stesso, entra in intimità d’amore con il Signore e quando finisce di pregare non è più lo stesso perché passa dalla preghiera d’intimità alla vita di preghiera: egli prega vivendo, come prima viveva pregando; la vita diventa preghiera e la preghiera è vita, come dovrebbe essere in modo particolare il vivere l’Eucaristia.

Quando termina la celebrazione dell’Eucaristia, di solito si pensa che sia finito tutto: «La Messa è finita. Andate in pace». Ma non è così, perché finisce solo l’aspetto rituale della celebrazione, che è premessa indispensabile per l’Eucaristia della testimonianza che inizia da quel momento in poi, varcando la soglia della chiesa per entrare nel tempio del mondo. Si entra nella dinamica della vita ordinaria che è l’altare su cui celebriamo la lode, il pane, il vino, la condivisione, la fraternità delle nostre scelte, azioni e parole. Finisce la Messa del rito e inizia l’Eucaristia della vita nella liturgia della testimonianza che è il martirio quotidiano (cfr Sal 54/53,8; 116/115,17; Ger 17,26; Eb 13,15).

San Bonaventura, biografo di San Francesco d’Assisi, diceva di lui, come abbiamo più volte accennato, che «non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso era trasformato in preghiera vivente – non tam orans quam oratio» per dire della sua orante testimonianza.

Sul silenzio, il suo valore e la sua necessità per la vita, suggeriamo: H.J.M. Nouwen, Ho ascoltato il silenzio, Queriniana, Brescia 201215; F. Battiato, Il silenzio e l’ascolto. Conversazioni con Panikkar, Jodorowsky, Mandel e Rocchi, a cura di Giuseppe Pollicelli, Castelvecchi-Lit Edizioni, Roma 2014. Su Francesco di Assisi, cfr Tommaso da Celano, Vita Seconda, LXI,95, in Fonti Francescane. Scritti e biografie di San Francesco d’Assisi. Cronache e altre testimonianze del primo secolo francescano. Scritti e biografie di santa Chiara d’Assisi, Movimento Francescano, Assisi 1977, 630 n. 682.

La preghiera non fa ripiegare mai su se stessi, non fa attorcigliare sull’io ma apre a prospettive nuove: invita ad andare sempre «oltre», ad altri villaggi, ad altri bisogni, ad altre incarnazioni, ad altri rischi di novità. Allarga l’orizzonte della vita ristretta per adeguarlo all’immensità della visione di Dio. Ecco perché bisogna imparare a pregare non per se stessi, ma per e con gli altri, per l’«ekklesìa» dentro la quale stanno anche i nostri bisogni e le nostre necessità, se è vero che Dio si prende cura degli uccelli e dei gigli del campo (cfr Mt 6,26-30). Se gli altri pregano per me, la loro preghiera è più grande e più forte perché sono in tanti (coralità ecclesiale) a pregare per me e perché è preghiera disinteressata e gratuita. Di questo metodo parleremo più avanti.

Imparare a pregare significa imparare a essere semplicemente se stessi nella consapevolezza di essere figli amati e stimati di Dio. Nel vangelo di Marco, pregare è lasciarsi scegliere da Gesù per tre obiettivi: «Stare con lui», «essere mandati a predicare» e «avere il potere di scacciare i demòni» (cfr Mc 3,13-15).

  • Stare con lui significa avere consuetudine di frequentazione diuturna e di vita.
  • Essere mandati esprime la coscienza della responsabilità della credibilità di Dio nel mondo.
  • Scacciare demòni vuol dire condividere con gli uomini e le donne di buona volontà le lotte della vita contro la fame, la sete e la povertà, la disoccupazione, la mancanza di casa e di dignità, che costringono la maggioranza dell’umanità a vivere prigioniera della febbre dell’ingiustizia, schiava di un sistema economico e umano che si nutre delle differenze e delle disparità e beve il sangue dei deboli crocifiggendoli sull’altare delle migrazioni.

Pregare è imparare a essere il «sacramento» della Shekinàh/Dimora/Presenza di Dio nel mondo per cominciare a costruire il regno della libertà secondo il Vangelo che è il cuore di Cristo. L’Eucaristia è la preghiera corale di tutta la Chiesa che misticamente, cioè realmente, ci rende partecipi a tutte le Eucaristie che si celebrano nel mondo, di cui ciascuno di noi è un frammento, un segno, una speranza, una promessa proiettate sul futuro. Ogni comunità eucaristica è la «Chiesa universale», rappresentata «sacramentalmente» che c’impedisce di chiuderci in noi, obbligandoci ad aprirci all’universo perché l’orizzonte dell’Eucaristia o è universale o semplicemente non è.

Pierre Teilhard de Chardin, il gesuita teologo e paleoantropologo, perseguitato dal Sant’Uffizio e poi parzialmente riabilitato, parlava di «Cristo Cosmico» e la sua «Messa sul mondo» era la visione di Cristo risorto, contemplata dalla prospettiva dell’evoluzione universale (Pierre Teilhard de Chardin, Inno dell’universo-La messa sul mondo-Il Cristo nella materia-La potenza spirituale della materia-Pensieri scelti, Queriniana, Brescia 2011). L’Eucaristia non può soddisfare un precetto individuale per tranquillizzare il dovere religioso «per non fare peccato»: sarebbe prostituzione di tornaconto. L’Eucaristia annuncia, proclama e condivide con l’umanità la Benedizione del Padre, Gesù il Signore, il «Vangelo» dato a noi. Il mondo si salverà da se stesso, se sapremo trasformare la nostra vita in preghiera e la nostra preghiera in vita.

Paràclito e Chiesa

Scendiamo in profondità e vediamo cosa accade nel «giorno del Signore». La domenica, un grappolo di fedeli si affretta alla spicciolata per «andare a Messa» – i più spiritosi dicono: «prender Messa» -, guardando l’orologio, in attesa che finisca presto. Quando tutto «è compiuto», si esce in fretta e si corre via a riprendere quello che si era interrotto, con la coscienza di aver perduto del tempo prezioso. Il vangelo di Giovanni col termine «Paràclito» indica lo Spirito Santo, inviato da Gesù Risorto: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. Il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (cfr Gv 14,16.26). Strettamente connesso a «Paràclito» è il termine «Chiesa – ek-klesìa», ma nessuno vi fa caso.

Il termine «ek-klesìa – chiesa» non appartiene alla tradizione evangelica, essendo molto tardivo. Esso ricorre solo 2 volte in Mt; 23 in At; 33 nelle lettere maggiori di Paolo [Rm, 1-2Cor e Gal]; 22 nelle lettere pastorali, attribuite a Paolo [Ef; Fil; Col; 1-2Tm; Ti e Filem]; 2 in Ebrei; 1 in Giacomo, nessuna in 1-2Pt; 22 nella letteratura giovannea [lettere e Ap] per un totale circa 105 occorrenze.

Possiamo dire che è un termine che non appartiene a Gesù, che non l’ha mai usato, ma alla tradizione successiva. Paràclito e Chiesa, dal punto di vista semantico, dunque, sono connessi. Ambedue i vocaboli derivano dal verbo base greco «kalè? – io parlo/chiamo».

  • Paràclito è composto con la preposizione «parà» che indica «vicinanza/accostamento», per cui «para-kalè?» significa «chiamo/invito/nomino in favore di… o a nome di…», e quindi anche «prego/invito/esorto/consolo». In italiano acquista il senso esteso e logico di «avvocato».
  • Chiesa si compone con la preposizione «ek-» che indica origine/provenienza, per cui «ek-klesìa» significa radunata/convocata/ riunita da Dio che ne costituisce il fondamento.

L’affinità semantica tra «ek-klesìa» e «parà-clito» non è solo linguistica, ma funzionale, di una reciprocità che bisogna mettere in luce; i due termini, infatti, non possono essere separati, pena la dissoluzione di senso di ambedue.

Alla luce di tutto questo, ecco cosa accade nel «giorno del Signore». I credenti sono chiamati, convocati, radunati dallo Spirito-Paràclito per costituire l’Ek-klesìa di Dio. Partendo dalla propria individualità e diaspora, ciascuno converge verso l’Altare, il nuovo monte del Signore, divenuto «fisicamente» segno del «raduno universale dei popoli per ascoltare la Parola del Signore» di cui parla Is 2. Nessuno di noi partecipa all’Eucaristia di sua iniziativa o per sua volontà, ma ciascuno risponde a una chiamata, per cui l’Eucaristia non è un «dovere», ma una vocazione dello Spirito cui si risponde non con una parola, ma con un gesto, un atto, «andando», come Abramo: «E Abramo partì» (Gen 12,4).

Se siamo figli e opera dello Spirito, in rappresentanza del mondo intero, del cosmo universale (Teilhard de Chardin), anche noi convergiamo dalle diaspore in un unico «luogo» per prendere coscienza di essere «popolo», santa Assemblea orante che, esercitando le funzioni sacerdotali dell’alleanza, prende atto della «Signoria» di Dio, ne accoglie il Lògos annunciato sul mondo, ricevendolo come benedizione e consolazione per riportarlo nel mondo come dono di Dio, spargendolo attraverso le parole, le azioni, le relazioni della vita di ogni giorno.

Altro che preghiere tisicucce e malferme in salute, altro che formule stantie e monotone! Altro che «messe a ore» o per togliersi il pensiero. L’Eucaristia è la preghiera per eccellenza, la sola che la Chiesa può elevare davanti alla Maestà del Lògos che risuona nel silenzio per essere a sua volta ridonato a Dio in una reciprocità di scambio, in cui il dare e l’avere è solo e soltanto il Lògos, la Parola di Dio fatta carne. È necessario uscire dall’isolamento egoistico dell’individualismo, scoprire il senso «ecclesiale» della preghiera che non è stare fisicamente insieme a recitare salmi o rosari, ma coscienza di espletare una «missione» in risposta a una chiamata che si consuma nel desiderio di essere «sacramento visibile» dello Spirito che ci convoca in «chiesa» per riconoscere lo Spirito attivo nella storia e in ogni singola persona.

Ci assumiamo così il compito di andare alla ricerca della sua Presenza, disseminata ovunque, portarla alla luce, adorarla e amarla. Con la morte e risurrezione di Gesù, la croce si frantumò in un’infinità di minuscoli pezzi che si sono dispersi in tutto il mondo e in «ogni carne» come scheggia di sofferenza e di dolore, come sigillo di risurrezione.

San Giustino (100-162/168), uno dei primi padri della Chiesa sub-apostolica, parla di «hòi lògoi spermatikòi – i semi del Verbo», (2 Apologia 8, 1-2; 10, 1-3; 13, 3-6), come se il Lògos, dopo avere ingravidato l’intera umanità attraverso lo Spirito suo, ora mandasse i suoi discepoli a raccogliere i diversi semi dispersi per radunarli in un unico popolo rinnovato e risorto.

«La riflessione non può prescindere dal riflettere sull’opera che nei singoli e nelle comunità svolge lo Spirito Santo che sparge i “semi del Verbo” in ogni costume e cultura, disponendoli ad accogliere l’annuncio evangelico. Questa consapevolezza non può non suscitare nel discepolo di Cristo un atteggiamento di dialogo nei confronti di chi ha convinzioni religiose diverse. È doveroso, infatti, mettersi in ascolto di quanto lo Spirito può suggerire anche agli “altri”». (Giovanni Paolo II, Omelia della Vigilia di Pentecoste, 10 giugno 2000, anno giubilare; sui «semi del Verbo» cf Conc. Vaticano II, Decr. Ad gentes, n. 11; Dich. Nostra aetate, n. 2).
Compito del cristiano è, quindi, immergersi negli eventi e nella storia per ricomporre il Cristo, riunendo i frammenti disseminati in ogni persona, in ogni cultura, in ogni tempo, in ogni religione, in ogni peccato, in ciascuno di noi. La vita è preghiera vivente.

Paolo Farinella, prete
(3 – continua).




Insegnaci a pregare 2: Non sappiamo pregare


Separare lo spirito dalla carne, l’anima dal corpo è un’operazione antistorica e contraria alla fede. Essa impedisce di sperimentare la presenza di Dio con cui instaurare un dialogo d’amore. Sant’Agostino, che pure è responsabile di quella separazione in occidente, così dialogava con il Signore: «Tu sei a me più intimo del mio [stesso] intimo e più profondo della mia [stessa] profondità – interior intimo meo et superior summo meo» (Confessioni, III, 6, 11). Non basta scegliere una chiesa vuota, magari buia o in penombra per illudersi di pregare. È solo un psicologismo riparatorio per consolarci e assolverci per la nostra sistematica assenza dalla vita di Dio. La preghiera non è «una» dimensione della spiritualità – in tal caso sarebbe un accessorio -; essa è uno «stato» permanente dell’essere credente, come l’aria che si respira lo è della vita.

Pregare è innamorarsi

Pregare! Parola magica e tragica insieme, piena di evocazione, parola difficile che spesso non sappiamo riempire, perché scomoda e di cui abbiamo smarrito il senso. Pregare! Che cosa significa? San Paolo, che ne ha vissuto dramma e consolazione, spina e tenerezza, ci avverte nella lettera ai Romani: «Noi non sappiamo pregare/chiedere» (cf Rm 8,26). La stessa Parola di Dio, quindi, ci mette sull’avviso che la preghiera si apprende, s’impara andando a scuola da Gesù, l’unico esegeta del Padre (cf Gv 1,18), il solo Maestro (cf Gv 13,13). San Paolo, ai Corinzi che s’inebriavano d’intelligenza e di «mente», scrive:

«11I segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio… noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato… 14Ma l’uomo lasciato alle sue forze non comprende le cose dello Spirito di Dio: esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché di esse si può giudicare per mezzo dello Spirito… 16Infatti chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo consigliare? [cf. Is 40,13] Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1Cor. 2,11-12.14.16).

Solo lo Spirito conosce Dio e, quindi, solo coloro che hanno ricevuto lo Spirito. Per entrare in relazione con Dio, bisogna avere un rapporto stabile con lo Spirito che ci mette in contatto con il pensiero di Cristo, superando la tentazione di Àdam, sempre in agguato, che cerca di sostituire lo Spirito con le sue forze che si rivelano «follia» e presunzione. Occorre abbandonarsi alla tenerezza dello Spirito se non vogliamo precluderci «i segreti di Dio», cioè la sua intimità. Diversamente ci attorcigliamo nella follia del nostro narcisismo volontaristico per apparire chi non siamo, moltiplicando parole su parole, perdendo tempo senza raggiungere alcun frutto. Sapendo che ci saremmo impantanati nella preghiera di contrattazione mercantile, lo stesso Gesù, l’uomo spirituale per eccellenza, ci aveva già messo in guardia, prima di regalarci il «Padre nostro», avvertendoci: «Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,7-8). Segue il «Padre nostro», composto da sette domande: tre sono centrate sulla persona di Dio e quattro sulle relazioni fondamentali tra le persone. Il numero sette in ebraico indica totalità, a dire che nel «Padre nostro» c’è tutto e il resto è superfluo. Il commento supplementare di Gesù al «Padre nostro» è la parabola degli «uccelli del cielo» e «dei gigli del campo» per confermarci che è tempo perso chiedere a Dio «ciò di cui abbiamo bisogno», perché lui conosce già le nostre necessità. Quando vogliamo pregare di solito entriamo in una chiesa o una cappella, o magari ci ritiriamo in un angolo quieto della casa, e subito cominciano a parlare e a chiedere. Ci siamo mai fermati a «perdere tempo» con Dio che pure diciamo di amare «sopra ogni cosa»? Ci siamo mai interessati a lui, indipendentemente dai nostri bisogni? Dio, come stai? Come è andata oggi? Sei stressato anche tu, in questo mondo frettoloso che si uccide da solo? Molto spesso trattiamo Dio non come un «Padre», né come un Amico, ma come un distributore automatico: entriamo, mettiamo la moneta e pigiamo il pulsante per avere quello che c’interessa. Buon giorno, buona sera e alla prossima puntata.

Abitudine e passione

Il problema, forse, è che non ci fidiamo abbastanza né di noi né di Dio e quando parliamo di Provvidenza, il nostro cuore pensa alla previdenza. Altro che Spirito! C’è uno scollamento tra la vita feriale e le parole che diciamo e per questo il mondo non può credere, perché noi non siamo credibili e non abbiamo mai pensato che dirsi credenti non significa «andare a Messa» o in processione, o «confessarsi e comunicarsi almeno a Pasqua»; ma soltanto assumersi la responsabilità della credibilità di Dio che passa attraverso la nostra credibilità. Parliamo di amore fraterno, di amore gratuito, di accoglienza, di poveri, di perseguitati, di crocifissi e poi nutriamo sentimenti razzisti davanti agli immigrati, guardandoci bene dal dirlo apertamente, ma pensandolo nel profondo della nostra paura. Dio, l’Eucaristia, la Parola sono un’abitudine che abbiamo ricevuto per tradizione e non sono mai entrati a circolare come sangue nelle vene della nostra esistenza di credenti in Dio. L’unico e il solo che ha preso sul serio questa pagina «sine glossa» è stato Francesco di Assisi, il solo di cui, come abbiamo accennato, si poté dire che «non era uno che pregava, ma era preghiera egli stesso».

La preghiera, infatti, non è un’attività, ma uno «stato» interiore di comunione/intimità tra Gesù e suo Padre, tra noi, Gesù e il «Padre nostro». È una consuetudine di dialogo affettivo e reale che si snoda lungo la vita, nella giornata, giorno dopo giorno, ora dopo ora. Non è un processo psicologico emotivo, anche se questi aspetti sono presenti, ma è una dinamica di relazione tra due persone che si conoscono, si stimano, si accolgono, si desiderano. Pregare è essere presente, non per educazione, ma esclusivamente perché l’altro è importante: la persona più importante, senza della quale non si può vivere. Spesso confondiamo la preghiera con la recita di formule più o meno complesse che esprimono solamente il nostro bisogno psicologico di «sentirci» protetti e al sicuro, col rischio che si possa confondere la preghiera con il parlare con se stessi. Ci affidiamo alle parole perché abbiamo paura del silenzio che è la condizione dell’ascolto.

La persona narcisista che si parla addosso, non è capace di ascoltarsi e di ascoltare, per cui di norma resta estranea non solo agli altri, ma anche a se stessa. Anche se utilizziamo i salmi e ci serviamo della Liturgia delle Ore, non è detto che stiamo pregando. Se non sappiamo pregare, occorre imparare a capire chi si è, a quale livello di profondità e per quale scopo si vive e conoscere il perno attorno a cui ruota tutta la nostra esistenza. Essenzialità e priorità: abbiamo mai pensato a individuarle? Il primo passo della preghiera è «sapere cosa vogliamo» da noi stessi, «dove» siamo nel cammino della nostra vita e nella storia della salvezza. Da questa prospettiva la preghiera è la costante verifica di questo percorso, illimpidirsi lo sguardo per vedere «dove» si è e «dove» si va, per non correre invano o, peggio, a vuoto. La preghiera non è una routine che si consuma ogni giorno con le stesse modalità: Lodi al mattino, Ora media durante la giornata, Vespro la sera e Compieta prima di andare a dormire. Possibilmente trafelati. Molti religiosi e cristiani che pregano con il «Breviario» spesso s’illudono di pregare solo perché «recitano» la preghiera ufficiale della Chiesa, perché «obbligatoria» e quindi «per non fare peccato», limitandosi inevitabilmente alla materialità delle formule, in fretta e senz’anima. Non si rendono conto che hanno ingannato se stessi, illudendo gli altri che eventualmente li osservano.

Se pregare è un rapporto d’amore, occorre essere innamorati (è un concetto che ritornerà spesso in questa nostra riflessione) e, in ogni rapporto d’amore, i due innamorati devono sapere chi sono per se stessi e l’uno per l’altra, scoprendosi reciprocamente come l’uno sia la parte migliore dell’altra. Non si può essere innamorati a orario, allo stesso modo non si può pregare con lo scadenziario alla mano, come se pregare fosse una tassa da pagare. Un esempio chiarirà questo aspetto importante. Tutti dovrebbero sapere che l’Eucaristia è la preghiera per eccellenza della Chiesa, l’atto centrale della vita di Dio che si manifesta nella vita dell’ekklesìa perché è l’azione con cui il popolo di Dio offre al Padre il Figlio che si dona all’umanità e allo stesso tempo lo riceve come benedizione da spargere nel mondo con il sacramento della testimonianza della vita.

Altri tempi, altra preghiera

I martiri di Abitène (vedi Box) nel 304 non esitarono a morire per celebrare l’Eucaristia domenicale e, al procuratore romano che voleva costringerli a desistere, risposero senza tentennamenti: «Sine dominico, non possumus», cioè «Senza la Messa domenicale, non possiamo vivere» (Atti dei Martiri di Abitène, XII), perché qui è la Parola, il Pane, il Vino, il Perdono, la Fraternità, l’Universalità. In un soffio: qui è il Cristo condiviso.

L’Eucaristia è non solo «un sacramento», ma la vita stessa della Chiesa perché è l’annuncio al mondo che Cristo è risorto e «se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede» (1Cor 15,14). Come può, dunque, l’Eucaristia diventare un’abitudine, un atto di devozione, un dovere/obbligo/precetto «per non fare peccato»? Si può amare per dovere? Se l’amore fosse un dovere, nessuno amerebbe e nessuno si sposerebbe e nessuno avrebbe figli e figlie. Si ama e si può amare solo per amore, e per amore a perdere, non per averne una contropartita. Certo, l’amore ha dei doveri, che però ne sono conseguenza, mai la ragione. La maggior parte dei credenti, fa tranquillamente a meno dell’Eucaristia domenicale e se va a confessarsi, mette tutto a posto con «ho perso qualche Messa». Nelle stesse comunità religiose, la Messa è «una pratica di pietà» banale da sistemare alla meno peggio. Se nell’Eucaristia cerchiamo una consolazione sentimentale o vi «andiamo» per compiere un dovere necessario, perché vi siamo obbligati dalla «legge», siamo ancora nel vecchio mondo, anzi restiamo morti e incapaci di cogliere la novità della storia, cioè che «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù» (At 3,13). Partecipare all’Eucaristia è vivere esistenzialmente la preghiera piantati nel cuore di Dio perché il popolo convocato innalza sul mondo colui che è stato trafitto affinché tutti possano alzare lo sguardo su di lui e ricevere il dono dello Spirito: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37; Zc 12,10).

Di fronte a questo evento che sconvolge la vita di Dio e quella della Chiesa, l’atteggiamento corrente è tragico: l’Eucaristia – la Messa – è trasformata in un «atto di devozione» privato e banale, «Dico Messa la mattina, così mi tolgo il pensiero per la giornata». Dire Messa! Una recita e null’altro. Nelle parrocchie le «Messe» sono misurate sulla persona del prete o delle intenzioni: Messe ripetute a ogni ora, anche se vi partecipano poche persone oppure tante Messe quanti sono i preti perché a ogni Messa corrisponde un’offerta. È un dramma avere legato l’Eucaristia a «un’offerta sinodale», mercificando anche il corpo di Dio. Quanti preti celebrerebbero la Messa se non fosse legata a una offerta? Non sta qui la ragione prima della secolarizzazione e dell’incredulità del mondo di oggi? I preti sono professionisti, non «sacramento» della gratuità di Dio. Non era questa l’intenzione, ma a forza di agire così si è arrivati a commercializzare anche l’atto supremo della preghiera e della gratuità fino a ridurlo a una pia pratica di devozione come tante.

Amare esige tempo

In molte parrocchie e chiese, per esempio, mezz’ora prima dell’Eucaristia, si recita il Rosario o si fa l’esposizione del Sacramento eucaristico che è o dovrebbe essere la conseguenza dell’Eucaristia celebrata. In questo modo «si riempie» il tempo con altri «momenti» perché non si è abituati né al silenzio né a essere silenzio di ascolto e di amore. Bisogna «fare», con l’esito finale che si finisce per fare male ogni cosa. In certi luoghi poi – molto di più nel passato, quando era un’abitudine – le parrocchie affittavano un confessore che stava fisso in confessionale durante tutta la Messa. Si «andava a Messa» per prendere due piccioni con una fava: «prendere Messa» e «mettersi a posto», finendo per non fare bene né l’una né l’altra cosa. Ciò che era importante era la presenza fisica, l’adempimento giuridico e formale, non l’atteggiamento spirituale del cuore. Determinante era arrivare alla Comunione «confessati». Pazienza se si era sacrificata la Parola di Dio, cioè la prospettiva vitale per cui Dio stesso si è scomodato per annunciarci il suo progetto di amore e si tornava a casa consci di aver compiuto il proprio dovere quantitativo… fino alla prossima volta. Le stesse Messe «a tutte le ore» erano finalizzate a facilitare la frequenza, senza alcun riferimento all’elemento comunitario, all’assemblea come «luogo» supremo dell’incontro d’amore tra Dio e il suo popolo. Tutte le Messe, tranne quella dei «bambini», erano deserte, con uno sparuto numero di presenti, sparpagliati nell’immensa chiesa, uno qua, l’altro là e il prete laggiù in fondo, quasi invisibile che recitava formule astruse per un dio sconosciuto. Ognuno per sé e Dio per tutti.

Raramente si sente dire: celebro l’Eucaristia nell’ora per me più importante della giornata. Gli Ebrei insegnano che ci vuole almeno un’ora di tempo per predisporsi all’incontro con Dio. Attenzione alle parole: non per incontrare Dio, ma solo per predisporsi all’incontro. Quando due innamorati si preparano per incontrarsi tra di loro, sono così contaminati dalla presenza, ancora assente, dell’altro che l’attesa è già più passionale dell’incontro perché la preparazione minuziosa e intensa si prende il tempo necessario, coinvolgendo tutta la gamma dei sentimenti umanamente possibili, dall’ansia al desiderio, dalla frenesia all’immaginazione. Tutto è finalizzato alla persona attesa che è potentemente presente prima ancora di averla incontrata. Se avviene questo nei rapporti umani perché a Dio consacriamo gli scarti di tempo e di energie? Pregare è come l’amore: perdere tempo per la persona amata. Lo sa bene il profeta Geremia che, dopo essersi lasciato sedurre, si abbandona, pur sapendo che soffrirà molto: «Mi hai sedotto e io mi sono lasciato sedurre» (Ger 20,7). Quando saremo in grado di pregare con queste parole, e queste parole avranno il sapore della carne e del sangue della vita, allora e solo allora, avremo finito il noviziato di apprendimento e potremo cominciare a entrare nella dinamica della vita di preghiera.

Paolo Farirella, prete
[2. – continua]


Abitène o Abitina

(in latino Abitinae) era una città della provincia romana, detta Africa proconsolaris, oggi Tunisia, a Sud Ovest dell’antica Mambressa, oggi Medjez el-Bab, sul fiume Medjerda secondo una indicazione di Sant’Agostino, vescovo d’Ippona (cf. Contra epist. Parmeniani, III, 6, 2 = CSEL 51,141; cf anche J. Schmidt, in Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie der klassischen Altertumwissenschaft, I, 1, 101, s.v. Abitinae). Ad Abitène viveva una comunità cristiana. Il 24 febbraio dell’anno 303, l’imperatore romano Diocleziano aveva emanato l’editto contro i Cristiani, ordinando di distruggere i libri sacri, i luoghi di culto in tutto l’impero e proibendo, pena la morte, ogni assemblea per celebrazioni religiose. Il vescovo del luogo, Fundano, si adeguò immediatamente all’ordine imperiale, mentre 49 Cristiani, tra i quali vi era anche Dativo, senatore, e Restituta, continuarono a radunarsi illegalmente con il presbitero Saturnino, celebrando l’Eucaristia. Arrestati, furono tradotti a Cartagine, la capitale della provincia romana per essere processati, il 12 febbraio del 304, davanti al proconsole Anulino. Nessuno abiurò, ma tutti fieramente affermarono il loro diritto di essere cristiani e molti subirono la tortura, morendo. Uno di loro, Emerito, interrogato sul perché avesse disobbedito all’ordine dell’imperatore, rispose la frase ormai celebre: «Sine dominico non possumus – Non possiamo [vivere] senza [il giorno del] Signore», cioè senza la celebrazione dell’eucaristia domenicale (cf. Martyrologium Romanum, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001; «Passio SS. Dativi, Saturnini Presb. et aliorum», in Pio Franchi Dei Cavalieri, Note agiografiche. Studi e testi, n. 65, fsc. 8, Città del Vaticano 1935).




Insegnaci a pregare 1: Un cambiamento di prospettiva


Conclusa la storia del Giubileo (e dei Giubilei), vorrei riflettere per i lettori di Missioni Consolata su un argomento che mi è caro ed è centrale nella vita cristiana: la preghiera. Di essa non abbiamo una consapevolezza piena, ma subiamo le conseguenze di un’usanza che si tramanda per forza d’inerzia, senza entusiasmo. Relegata ad alcuni momenti (mattina e sera) e luoghi specifici (chiesa), la preghiera non innerva la vita perché è momento separato, chiuso in sé, quasi mai sinonimo di vita. Rito e vita, in questa visione, sono divisi e distanti. Pregare ha sempre significato adempiere un atto o dedicare un tempo, dire formule imparate a memoria, corrispondere a un dovere giuridico (vedi l’obbligo del breviario per preti). Raramente è stato insegnato che pregare è vivere e respirare la vita.

Di Francesco di Assisi, come vedremo meglio in seguito, il suo biografo diceva che non era uno che pregava, ma era preghiera egli stesso. Com’è possibile? Come si può essere preghiera? Quale è la distanza tra la natura cristiana della preghiera e il nostro modo di pregare? Per rispondere a queste domande che interrogano la nostra esperienza di vita, è necessario partire la lontano con una parentesi un po’ lunga (questa 1a puntata) sulla formazione catechistica e solo dopo potremo cominciare a riflettere, aprendoci a prospettive che, forse, non abbiamo mai preso in considerazione e che potrebbero aiutarci a verificare il nostro modo di essere oranti. Interrogheremo la Bibbia e la Tradizione giudaica.

Catechisti per caso

Chi scrive, e quasi certamente chi legge, proviene da una formazione catechistica deformante che ci ha educati più all’ateismo pratico che allo spirito del Vangelo. I catechisti della nostra infanzia, infatti, erano (in buona misura lo sono ancora oggi) brave persone di buona volontà, laici, più donne che uomini, mamme, a volte suore, raramente preti. Persone adorabili, impegnate in parrocchia, ma senza alcuna formazione pedagogica, e tanto meno biblica e/o teologica. Che strano paradosso! Per insegnare materie scolastiche bisogna essere laureati, per trasmettere la vita di Dio, basta improvvisare! Con una infarinatura superficiale, fatta dal parroco che forse ne sapeva meno di loro in fatto di Bibbia e di teologia, essi davano ieri, e danno oggi, quello che a loro volta avevano ricevuto da altre brave persone, anch’esse carenti in formazione. La conoscenza superficiale della Scrittura era conseguenza di un approccio «per sentito dire» e appresa e trasmessa come «storia sacra» (racconto), senza distinzione tra libri storici o profetici, poetici o sapienziali. Spiegando i Vangeli, per esempio, quasi sempre i racconti della vita di Gesù erano confusi con i quelli apocrifi e miracolistici, creando enormi confusioni. Inevitabile che catechismo e omelia avessero un’impronta moralistica: pretendevano d’insegnare «cosa fare», non di educare a «chi essere». Se si facesse un’indagine seria si scoprirebbe che chi ha frequentato il catechismo, probabilmente non ricorda le Beatitudini nella versione di Matteo o di Luca, confonde Bibbia e Vangeli, ma facilmente rammenta «i capricci» di Gesù bambino che rompe le brocche per poi riaggiustarle o crea uccellini di creta, facendoli volare o, da vera peste, fa morire i compagni per il piacere di risuscitarli, dopo i rimbrotti di sua madre.

La via facile

D’altra parte il catechismo, almeno dal sec. XVI (Concilio di Trento) e ancora oggi, non è mai stato finalizzato alla crescita nella fede della persona e dell’ekklesìa, ma solo alla «sacramentalizzazione», cioè alla preparazione della «Prima Comunione» o della «Cresima» o «del Matrimonio». Per quest’ultimo, poi, tutto si risolve in cinque o sei striminziti incontri per supplire il vuoto di una vita! La sofferenza e la morte sono altra cosa, perché fuori dell’orizzonte cristiano, cui si accede se non all’ultimo momento, quello della sepoltura, come fatto esclusivamente sociale. Finiti questi appuntamenti «occasionali», termina anche la fede perché i ragazzi non partecipavano più – né partecipano oggi – all’Eucaristia, che fino ad allora avevano vissuto come «obbligo» o peggio come «ricatto»: se non vai al catechismo e se non «vai a Messa», niente gioco o premio o gita. Chi ha frequentato le scuole cattoliche ricorda ancora oggi, spero con orrore, «l’obbligo della Messa quasi quotidiana», e se ne è ritenuto dispensato per il resto della vita, una volta finita la tortura.

Quando ero bambino, bisognava timbrare il cartellino e raccogliere punti, come in un moderno supermarket. Come aggravante, il catechismo è stato strutturato sul calendario e sul metodo della scuola: identici tavoli, stessi quadei, stesso astuccio di colori, identico registro delle presenze, stessi tempi e stesse vacanze. Fino agli anni ’70 del secolo scorso, il testo del catechismo in uso, «da imparare a memoria», era quello di Pio X, divenuto la base della formazione religiosa per oltre mezzo secolo, fino al concilio ecumenico Vaticano II che pose le basi nuove per il «rinnovamento della catechesi» in chiave biblico-esperienziale e non più dogmatico-nozionistica


   Il catechismo di Pio X

Il Catechismo di San Pio X, dal titolo Catechismo Maggiore, fu edito per la prima volta nel 1905; era composto da 993 domande e relative risposte. Successivamente fu semplificato nel Compendio della dottrina cristiana, testo ufficiale e obbligatorio per la formazione cattolica. Nel 1912 fu redatta una sintesi detta Catechismo della dottrina cristiana con 433 domande e risposte. Al fine di predisporre un sussidio «sicuro» per la preparazione alla prima comunione che lo stesso papa estese anche ai bambini che avessero compiuto i sei anni di età, fu stampata un’edizione ridotta con il titolo Primi Elementi della Dottrina Cristiana che conteneva l’essenziale minimo del precedente Catechismo della dottrina cristiana. Alcune ristampe furono corredate da illustrazioni e figure. Domande e risposte dovevano essere imparate a memoria. Si facevano anche i «campionati di Dottrina» con premi per chi imparava più domande e relative risposte. Il catechismo di Pio X restò in auge fino al concilio Vaticano II. Oggi è ripreso, ristampato e usato dai tradizionalisti, nostalgici del ritorno al passato e in modo particolare dalla Frateità «San Pio X», che fa capo all’oppositore del concilio, mons. Marcel Lefebvre e ai suoi discendenti, comunemente conosciuti come «lefebvriani».


Tappe del catechismo

Nello spirito del dopo concilio, in Italia nacque il laboratorio catechistico, cui posero mano pedagogisti, biblisti e catechisti di eccezionale valore e competenza che prepararono gli strumenti adatti per rinnovare dalle fondamenta la catechesi, non più «settoriale», ma finalizzata alla formazione costante, dalla nascita fino alla morte. La riforma conciliare vide il catechismo come «vademecum» di accompagnamento della lettura e della preghiera della Bibbia per «tutta la vita», un commento perenne alla Parola di Dio, non finalizzato a questo o a quel sacramento, tappe occasionali, ma alla vita nella pienezza della fede. Fu una scommessa di grande respiro, forse il frutto più bello del concilio Vaticano II in Italia.

Nel 1970 fu pubblicato il testo base «Il rinnovamento della Catechesi» con le indicazioni su come dovesse essere compilato il catechismo, diviso per età di crescita, dal momento del concepimento alla morte. La formazione cristiana, infatti, inizia durante la gestazione con la preparazione di papà e mamma che, mentre pensano alla culla e ai pannolini, possono prepararsi col volumetto «Il catechismo dei bambini – Lasciate che i bambini vengano a me» (da 0 a 6 anni), cui seguono altri otto volumi che accompagnano le varie fasi della vita, fino all’età adulta. Se credere è vivere, il catechismo è lo strumento della vita credente. Il catechismo per età nacque «ad experimentum» e si concluse nel 1995 con i testi definitivi. Venticinque anni di lavoro che il vento della restaurazione fece arenare attestandosi su posizioni «contenutistiche e nozionistiche», finalizzate ancora alla «prima comunione, alla prima confessione, alla cresima, ecc.». Un quarto di secolo perduto perché non c’è nulla di più tragico che offrire testi, formalmente avanzati, ma usati con mentalità rivolta al passato, incapace di cogliere il comandamento di Dio negli eventi e nella storia. Si preferisce rifugiarsi nel calduccio delle certezze effimere che emergono dalle formule e dai riti, piuttosto che faticare nella ricerca di senso che è sempre una gestazione. La tradizione diventa così la scusa della propria pigrizia.

Chiunque può fare l’esperimento, in qualsiasi momento: le chiese oggi sono vuote e i pochi presenti sono tutti anziani; bambini e giovani sono diminuiti nel numero per vari motivi, anche demografici. Quelli che restano, finito il «dovere prescritto» come amara medicina, si sciolgono come neve al sole. I matrimoni civili in Italia hanno superato i matrimoni religiosi e sempre più morti rifiutano i funerali religiosi.

I più sprovveduti superficiali attribuiscono queste conseguenze al concilio Vaticano II che avrebbe distrutto la fede e la tradizione, perché, poveretti, senza catechismo a domande e risposte, non sono in grado di formulare un pensiero. Hanno bisogno del ricettario per giustificare la loro insipiente incapacità e povertà di spirito.

I più sapienti, invece, pensano che tutto ciò, ancora oggi, sia dovuto a mancanza di coraggio e di fede nello Spirito, memori delle parole dure di Gesù ai farisei del suo e di tutti i tempi: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione» (Mc 7,9). La situazione di oggi non è colpa della secolarizzazione, ma responsabilità di un clero incapace che ha dato vita a una catechesi inadeguata, guardando più al numero (quantità) che alla qualità della formazione.

Il principio del discernimento

Questa lunga premessa sulla formazione è necessaria per potere riflettere sulla situazione in cui ci troviamo, per capirla e anche per poter parlare della preghiera. Sono passati cinquant’anni dal Vaticano II e facciamo ancora fatica ad accettarlo, segno che le incrostazioni derivate da mentalità, cultura e tradizioni «consolanti» sono dure a morire e, segno ancora più grave, che siamo istintivamente portati alla conservazione più che al discernimento dei «segni dei tempi» imposto dalla «Parola di Dio». Non possiamo parlare della preghiera senza fare riferimento al mondo da cui proveniamo, un mondo che non è da rigettare, ma da soppesare per quello che ha significato e per le conseguenze che ha generato. Il concilio ha chiesto che la preghiera ufficiale della Chiesa e quella individuale dei singoli credenti fosse centrata, animata e nutrita dalla Parola di Dio, che non è un raccontino edificante, ma «la parola di Dio viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discee i sentimenti e i pensieri del cuore» (Ebr 4,12).

Il verbo disceere significa valutare/separare/giudicare/distinguere; il «doppio taglio» della spada dice plasticamente che nessuno può fuggire, perché non c’è alcuno che possa presumere di restare illeso. La spada affilata da ambo i lati assicura che «ferisca» in un modo o nell’altro, lasciando il segno, penetrando anche fin nell’intimo più profondo, dove forse neppure noi siamo mai scesi a vedere come stanno le cose; fino al punto di sutura dell’anima e dello spirito, coinvolgendo giunture, midolla, sentimenti e pensieri del cuore, cioè la totalità della persona nella complessità del suo essere: corpo, sentimenti, passioni, intuizioni, immaginazione, sofferenza, gioia, disperazione, anelito, ansia, progettualità e desiderio.

Nulla è estraneo alla Parola per chi accetta l’avventura di Gesù Cristo che non si accontenta di una parte, ma coinvolge tutto di noi, centro e periferia, esterno e interno, alto e basso. Se questo è il compito della Parola e se la preghiera deve essere nutrita dalla Parola, comprendiamo bene che non possiamo limitarci alle formulette del catechismo di un secolo fa. Forse allora andava bene così – ma ne siamo sicuri? – certamente non va più bene oggi e lo sperimentiamo ogni giorno.

Siamo figli del nostro tempo e nessuno può vivere fuori di esso. Possiamo anticiparlo, se viviamo docilmente all’ombra dello Spirito, ma non possiamo mai tornare indietro perché non ne abbiamo il potere né l’autorità. Rimpiangere «i tempi andati» è solo perdere tempo, tarpando le nostre potenzialità. Siamo nati per vivere e la vita è progresso, cioè maturazione, crescita in avanti e in alto, secondo il processo del bambino che diventa adolescente, giovane, adulto, vecchio. La vita non va mai indietro e chi rimpiange il passato è già morto di suo perché ha bloccato il germe vitale per paura e per poca fede nello Spirito di Dio che ha impresso nelle cose e nelle persone il Dna della risurrezione: come credenti, siamo chiamati a cercarlo, trovarlo e testimoniarlo. Nella gioia. Il vangelo è letteralmente notizia che dà gioia, ma se non siamo in grado di coglierla e di comunicarla, non abbiamo, forse, fallito la nostra stessa esistenza?

Il Catechismo Maggiore di Pio X alla domanda n. 254 «Che cosa è l’orazione», risponde: «L’orazione è una elevazione della mente a Dio per adorarlo, per ringraziarlo, e per domandargli quello che ci abbisogna». La definizione è la conclusione di un lungo percorso, iniziato nel sec. XVI tra fautori della preghiera vocale e fautori della preghiera mentale. Tra i primi c’era l’Inquisizione e l’autorità ufficiale della Chiesa, perché pensavano che la preghiera vocale fosse strumento più adatto a controllare l’ortodossia e quindi la disciplina dei fedeli. Tra i secondi vi erano mistici come Giovanni della Croce e Teresa d’Avila che per questo furono inquisiti e condannati dall’Inquisizione spagnola: Giovanni della Croce fu imprigionato e torturato e Teresa d’Avila, cui fu sequestrato il manoscritto sulla sua «Vita», dovette usare un linguaggio cifrato e scrivere per allusioni per non farsi scoprire, perché sospettata in quanto nipote di un giudeo.

* Per un approfondimento su questi temi, è molto interessante la biografia critica e documentata della riformatrice del Carmelo: Rosa Rossi, Teresa d’Avila. Introduzione a cura di Loretta Frattale, Editori Riuniti University press, Roma 2015.

Pregare è vivere

La definizione della preghiera di Pio X è ancora esteriore, perché si preoccupa più dell’ortodossia che dell’incontro dell’orante con Dio. Dietro c’è la nozione di un dio «filosofico», esterno, onnipotente, imperiale, non il «Dio Padre» del Vangelo predicato da Gesù. È un Dio temuto e da temere, non un Dio affettuoso e da amare, un padre con cui giocare e vivere. La preghiera è «elevazione» a Dio, non nel senso dei mistici di identificazione con Dio, ma quasi un’estraneazione di sé in senso platonico perché si dà una valutazione negativa di ciò che è umano, corporale e materiale. Lo spirituale è contrapposto al materiale visto come sorgente di ogni male. Non è la persona – tutta – che si relaziona con Dio, ma «la mente», la parte nobile, lasciando quella «ignobile», abbandonata a se stessa e sopportandola quanto basta come sostegno dello spirituale.

Questa scissione è assente nella Scrittura. In ebraico la parola «cuore» si dice «lebàb» (pronuncia: levàv); insegnano i rabbini che le due «b» stanno a significare le due tendenze del cuore umano: quella verso il bene e quella verso il male; esse non possono essere estirpate, per cui – concludono – bisogna amare Dio con tutt’e due le tendenze, anche con quella verso il male. Per questo nello Shemà Israèl si dice «amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze (= tutti i tuoi averi)» (Dt 4,5). La Mishnàh nel trattato Berakòt-Benedizioni 9,5 così spiega: «Bisogna benedire Dio per il male e per il bene, perché egli ha detto: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutti i tuoi mezzi. Con tutto il cuore, cioè con le due tendenze: il bene e il male». Nulla di noi è estraneo a Dio, nemmeno l’eventuale nostro peccato. È questo l’orizzonte di riferimento per riflettere sulla preghiera cristiana, relazione che si consuma nella sperimentazione e nella visione.

Paolo Farinella, prete
(1 – continua).




Storia del giubileo 13: due concili vaticani


Pio IX, papa Mastai Ferretti, suo malgrado esautorato da ogni forma di potere civile e politico, si chiuse in Vaticano, dichiarandosi prigioniero in casa propria, ma circonfuso della gloria della dichiarazione conciliare dell’«infallibilità», che seppur circoscritta nella forma, fu diffusa come una prerogativa assoluta e indiscutibile della persona del papa. Paradossalmente, la perdita del potere temporale contribuì non poco a incrementae l’autorità, trasformandolo, spiritualmente, in un monarca assoluto e indiscutibile quasi sinonimo esclusivo di «Chiesa».

Dal Giubileo del lutto del 1875 a quelli spirituali del sec. XX

Il papa, per non darla vinta alla masnada massonica di Casa Savoia, scomunicò Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, insieme all’artefice del Risorgimento, Camillo Benso conte di Cavour, e non si affacciò più al balcone esterno di San Pietro, dirottando tutte le manifestazioni religiose all’interno della basilica. Per il giubileo del 1875, in segno di lutto, ordinò di non eseguire il rito dell’apertura della porta santa, in compenso escogitò ogni casistica possibile per universalizzare l’evento e dare in tal modo uno schiaffo morale agli «invasori». Nonostante fosse prigioniero, il papa era sempre il vescovo universale della Chiesa cattolica che, in tutto il mondo, ne venerava l’autorità indiscussa.

Nel 1900 Leone XIII, il papa che per primo si rese conto di una «questione sociale» ben più grave della «questione romana», celebrò il giubileo secolare che apriva il XX secolo nel segno dell’attenzione alla spiritualità piuttosto che al risultato numerico ed esteriore. Le nazioni che per definizione erano «cattoliche», di fatto cominciavano a non esserlo più nell’era dell’industrializzazione e della grande sperequazione causata dallo sfruttamento del mondo operaio che spopolò le campagne per ammassare folle senz’anima in città impreparate. Paesi come la Francia e l’Italia, per ragioni diverse, diventarono «paesi di missione» e in quest’ottica Leone XIII consacrò il mondo al Sacro Cuore, nel tentativo di dare una chiave spirituale ai movimenti cattolici che si opponevano a qualsiasi rinnovamento sociale e religioso e allo stesso giubileo, dal momento che «il maggior bisogno dei tempi modei è il ritorno della società allo spirito cristiano» (Encicl. De Jesu Cristo Redemptore, 1900).

Il giubileo del 1900 fu usato da parte cattolica e combattuto da parte laica in chiave politica, per accentuare il prestigio del papa da un lato, o per dimostrare che solo lo stato poteva essere garante di libertà dall’altro. La stampa cattolica arrivò a parlare di «plebiscito giubilare» in contrapposizione al «plebiscito civile» del 1870 quando il popolo romano non mosse un dito per difendere il papa dagli invasori di Porta Pia. Lo scopo era evidente: si voleva arrivare a un accordo e ciascuno cercava di portare a casa propria più vantaggi possibili. Le questioni e gli eventi di questo giubileo di inizio secolo furono così tanti e così complessi che lo spazio a nostra disposizione non ci consente di affrontarli nemmeno superficialmente, per cui rimandiamo a qualche resoconto specifico, oggi reperibile facilmente.

Il giubileo del 1900 mutò lo statuto del pellegrino, il romeo che compiva il viaggio a piedi, trasformandolo in turista religioso, attraverso l’estensione delle ferrovie che, in quell’anno, a livello mondiale, raggiungeva ben 700 mila km. I treni viaggiavano anche a 50 km all’ora, accorciando notevolmente le distanze, abbassando i costi e limitando la perdita di giornate lavorative al minimo indispensabile. Non si spostarono più solo piccoli gruppi, ma comitive organizzate di migliaia di persone, il che favorì un turismo religioso di masse popolari, altrimenti escluse, e che mai si erano allontanate dai luoghi di nascita. Tutto questo non poteva non avere conseguenze «spirituali» perché, se il viaggio a piedi era simbolo sacramentale del pellegrinaggio verso la Gerusalemme celeste, ora la maggior parte del tragitto si consumava comodamente in treno. Cambiò anche lo statuto e il significato stesso di giubileo che divenne un percorso spirituale più intimistico, guidato e sostenuto da sussidi fatti appositamente, come opuscoli-guida, catechismi, foglietti per inculcare la necessità della confessione e le disposizioni per la comunione, a determinate condizioni, e definitivamente superò l’obbligatorietà della visita «a piedi» delle basiliche prescritte.

Mons. Giacomo Radini Tedeschi, futuro vescovo di Bergamo, di cui sarà segretario Angelo Giuseppe Roncalli, futuro Giovanni XXIII, fu responsabile dell’organizzazione religiosa dei pellegrinaggi popolari del 1900 e l’ideatore dei «congressi», in parte anche scientifici, durante l’anno giubilare, che diventeranno norma anche per i giubilei del sec. XX. Per citae alcuni: il congresso internazionale dell’archeologia cristiana; il XVII congresso dei cattolici italiani e anche degli Studenti Cattolici Universitari, della Gioventù Cattolica, dei Terziari Francescani. L’elenco potrebbe continuare.

I giubilei tra le due guerre, tra fascismi e concordati

Il sec. XX, «secolo breve»», il più secolarizzato e scristianizzato della storia, annovera il più gran numero di giubilei della storia, segno che questo istituto era diventato strumento ordinario di governo della Chiesa. A seconda di come si considerano alcuni giubilei, se ne contano quattro «normali» (1900, 1925, 1950 e 1975), cui bisogna aggiungee altri di vario genere: uno formalmente per il 50° anniversario di ordinazione sacerdotale del papa stesso (1929), di fatto per celebrare la firma dei Patti Lateranensi con cui si pose fine alla «questione romana», aperta con l’unità d’Italia che tolse al Papa il potere temporale del regno pontificio; due della Redenzione (1933 e 1983) e addirittura due «mariani» (1954 e 1988), più uno per la gioventù (14-15 aprile 1984).

Il giubileo del 1925 si svolse dopo la fine della 1ª guerra mondiale, «l’inutile strage», come ebbe a definirla il papa genovese, Benedetto XIV, mentre la rivoluzione russa di Lenin (1918) scalzava lo zar e instaurava il comunismo, ateo per ideologia. In Italia Mussolini si assunse la pateità dell’omicidio di Giacomo Matteotti e concentrò su di sé il potere dittatoriale d’Italia (3 gennaio). In Germania iniziava l’ascesa di Hitler. Pio XI, per contrastare l’illusione di un’antropologia politica finalizzata a istaurare una religione civile, istituì la festa di Cristo Re che ebbe grande successo in Europa, dando impulso a uno spirito missionario non solo in terra di missione, ma anche a Roma, in Italia, in Europa e in Occidente. L’emblema di questo spirito fu la canonizzazione di Teresina di Lisieux, proclamata patrona delle missioni perché, pur senza mai spostarsi dal suo Carmelo, visse col desiderio di dare la propria vita alle missioni, e quella del Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, proclamato patrono del clero. La manifestazione più simbolica fu la Mostra Missionaria Mondiale, quasi una «Expo della fede» (A. Melloni), cui collaborò anche il giovane prete Angelo Giuseppe Roncalli, futuro Giovanni XXIII, al tempo responsabile dell’Opera Missionaria Italiana. Durante il giubileo, la casa regnante dei Savoia sospese tutte le feste e i ricevimenti, lo stesso fecero gli uffici diplomatici e la nobiltà romana. Il carnevale fu rimandato, la logistica e l’accoglienza dei pellegrini che giungevano da tutto il mondo furono facilitati e favoriti, quasi a tendere una mano al Vaticano. Segni, come in un linguaggio cifrato, d’intese segrete che porteranno alla firma sia del Trattato sia del Concordato del 1929, con cui il papa cessava di rivendicare il potere temporale, ormai inutile, e si accontentava di quello morale e spirituale che avevano accresciuto la sua statura anche politica non solo in Italia. Tutto con un risarcimento in obbligazioni della stato italiano e la nascita del nuovo stato «Città del Vaticano». Il papa usciva purificato dall’avere perduto un regno di questo mondo che non gli apparteneva, e risultava ancora più forte e potente perché, libero da qualsiasi condizionamento, diventò figura sempre più simbolica e per questo potentemente condizionante anche sul piano politico, come la storia dell’ultimo secolo ha ampiamente dimostrato fino all’avvento del papa argentino, Francesco.

Il giubileo dell’onnipotenza senza regno

Il 1950 fu il giubileo della fine della seconda guerra mondiale, dell’inizio della «guerra fredda» con la conseguente divisione del mondo in due zone – Occidente/Usa e Oriente/comunismo – e della ricostruzione dell’Italia del dopo guerra. Al governo vi erano uomini cattolici indiscussi, come Alcide De Gasperi, e Roma ebbe un nuovo imperatore, papa Pio XII, che si offrì come unica autorità morale e politica che di fatto condizionò il parlamento italiano, il governo, l’economia e il paese, attraverso il cosiddetto «partito cattolico» della Democrazia Cristiana, erede del più laico e sano «Partito Popolare» di don Luigi Sturzo. Sul piano religioso, Pio XII fu un faraone che, dall’alto della sua sedia gestatoria imperiale, dominava non una Chiesa, ma una cristianità rigorosamente separata in clero e laicato, con quest’ultimo sottomesso al primo. Con l’escamotage della formazione delle coscienze, il clero sottomise i laici che erano sempre e solo «chiesa obbediente e ossequiente». Pio XII non fu scevro da una componente psicologica narcisistica, sfociata nel culto della personalità che lo portò a isolarsi e a diventare diffidente tanto da assommare in sé anche le funzioni subaltee, fino al punto di non nominare neppure il Segretario di stato, ruolo delicato e importante che riservò per sé, limitandosi ad avere due «sostituti» nelle persone di Domenico Tardini e Giovanni Battista Montini, il primo Segretario di stato di Giovanni XXIII e il secondo futuro Paolo VI.

Durante il corso del giubileo ci furono tre eventi, attentamente studiati e programmati da Pio XII nel contesto della sua politica.

  1. La beatificazione di Maria Goretti (24 giugno), una ragazzina che lottò contro il suo assassino per difendere la propria verginità, proclamata modello della gioventù del nuovo secolo, contro il rilassamento generale dei costumi che il dopo-guerra e la cultura statunitense avevano diffuso.
  2. L’enciclica «Humani Generis» (12 agosto) con cui il papa condannò gli «errori» che, secondo lui, minacciavano le fondamenta della religione cattolica, come lassismo, relativismo teologico, alcune interpretazioni della Scrittura e anche la teoria dell’evoluzionismo. Senza mai nominarli condannò l’insegnamento di giganti della teologia come Chenu, Congar, De Lubac e tanti altri che nemmeno dodici anni dopo sarebbero stati gli artefici del concilio Vaticano II che sancirà il loro insegnamento e le loro ricerche non solo come «cattoliche», ma come essenziali nel cammino di fede dell’intera Chiesa.
  3. La proclamazione del dogma dell’Assunzione di Maria al cielo (1 novembre) che vide un’enorme partecipazione di vescovi, popoli e autorità da tutto il mondo. Per la prima volta da ogni parte della terra si poté «partecipare» agli eventi sfavillanti del giubileo attraverso la radio e la tv che moltiplicherà l’impatto emotivo dei riti e della figura del Papa.

Quando tutto stava per concludersi secondo la norma e la prassi, Pio XII tirò fuori un colpo di scena, inatteso e travolgente: la vigilia di Natale del 1950, dopo avere sigillato la porta e pochi istanti prima di concludere il giubileo, annunciò personalmente al mondo il ritrovamento della tomba di Pietro che gli scavi archeologici nei sotterranei della basilica vaticana avevano confermato e certificato. La notizia si diffuse come un baleno in tutto il mondo, eccitò gli animi dei credenti e maggiormente dei non credenti, scienziati, storici e studiosi. A completare la notizia e quasi a prolungare la soddisfazione di avere posto ancora una volta il papato al centro del mondo, nonostante il mondo, Pio XII estese a tutto il 1951 le prerogative e le indulgenze dell’anno santo in corso. Ormai anche la Chiesa entrava nell’era della mondialità e ne approfittò. Se nel vangelo di Giovanni (12,20) i Greci aspiravano di «vedere Gesù», ora i pellegrini veri e anche quelli a domicilio, mediante radio e tv, anelavano solo a «vedere il papa» e questo gli bastava.

Il giubileo dubbioso e l’ingresso nel III Millennio

Nel 1975, dieci anni dopo la fine del Vaticano II, toccò a Paolo VI, il papa dubbioso per natura, celebrare il giubileo più controverso dell’età modea. Egli s’interrogò sulla necessità stessa di indire un giubileo e vi oppose obiezioni sostanziali: il concilio aveva indirizzato a una religiosità comunitaria piuttosto che di massa; la società era pluralistica e non più maggioritariamente cattolica; uno spirito secolare attestato era fonte di un sentire diffuso anticristiano per cui il giubileo avrebbe potuto essere controproducente; parlare di «indulgenze» sarebbe potuto apparire fuori luogo nel contesto di un cammino ecumenico ormai irreversibile; la «nuova teologia» andava crescendo e gli studi biblici avevano ricevuto un grande impulso dal superamento della paura di una condanna; vi era stato il referendum sul divorzio (1974), battaglia persa amaramente, in modo personale dal papa che si lasciò coinvolgere in una crociata senza senso da Amintore Fanfani, creando un evento traumatico per il cattolicesimo italiano tradizionalista e ancora sognante il ritorno alla «cristianità» medievale.

Il 9 maggio 1973, nell’indirlo, durante un’udienza pubblica, Paolo VI disse: «Ci siamo domandati se una simile tradizione [del giubileo] meriti di essere mantenuta nel nostro tempo…». Poi prevalse il rispetto della tradizione da attuare nei tempi nuovi, con spirito nuovo e più spiritualizzato. Il giubileo diventò non più espressione di fede, ma appello alla purificazione della religiosità per una ripresa più consapevole e genuina della fede in Gesù Cristo.

Il giubileo spartiacque tra il 1° e 2° millennio cristiano fu quello indetto dal papa polacco, Giovanni Paolo II, che stabilì sette anni di preparazione, quasi con un atteggiamento apocalittico. Il giubileo ebbe due epicentri: Roma e Gerusalemme, dove, per la prima volta, un papa ritoò «ufficialmente» dopo 2000 anni dalla partenza di Pietro per Roma, luogo che l’apostolo consacrò dando la vita per il suo Signore (la visita di Paolo VI nel 1965 a Gerusalemme fu una visita in terra di Giordania e non un ritorno in Palestina).

Chi scrive viveva stabilmente a Gerusalemme e fu testimone del ritorno di Pietro, quasi un bisogno di essenzialità e povertà che rimase come desiderio e tensione, ripresi oggi da papa Francesco che proclama il giubileo della Misericordia, offrendo ai credenti e al mondo il progetto di Chiesa delineata da Giovanni XXIII, nel discorso di apertura del concilio Vaticano II, l’unico progetto, valido secondo il vangelo e in tutti i tempi:

«La Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odiee, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando» (Gaudet Mater Ecclesia, 7,2).

Il giubileo del 2000, comunque, è ancora contemporaneo a chi scrive e a chi legge non è necessario raccontae anche solo i fatti più rilevanti. Per questo, quindi, rimandiamo alla memoria di chi l’ha vissuto, consapevoli che l’ultimo, quello di papa Francesco, è un giubileo che ha aperto le porte della Misericordia e non le chiuderà mai più perché «il Santo, sia benedetto, non respinge alcuna creatura. Al contrario, tutte gli sono care e le porte sono sempre aperte per coloro che vogliono entrare» (Midràsh Esodo Rabbàh 19,4).

Paolo Farinella, prete
(13, fine)

 




Storia del giubileo 12: dal mercato delle indulgenze

Nel 1510, appena dieci anni dopo il giubileo del ‘500, un monaco tedesco di nome Martin Luther, un uomo religioso senza alcuna velleità rivoluzionaria, fece un pellegrinaggio a Roma, desideroso di arrivare per la prima volta nella città santa, il cuore della cristianità, la sede del successore di Pietro. Entrando in città, non fu particolarmente scandalizzato dall’immoralità del clero romano, né dalla vitalità espressa da una città trasformata in un immenso cantiere. Al contrario rimase colpito dallo splendore e dall’arte, lo stesso stupore che coglie, anche oggi, chiunque ammiri la bellezza di Roma, di San Pietro e delle grandi basiliche, costruite nei secoli con grande magnificenza e dovizia, anche se, quasi nessuno si ferma a considerae i costi umani in corruzione, versamento di sangue dei poveri, sfruttamento.

Luther in quei giorni celebrò la messa in San Pietro e non poté fare a meno di riflettere sul fatto che, mentre lui celebrava la sua, nella cappella accanto non meno di dieci preti si erano avvicendati per altrettante messe, unicamente perché ogni celebrazione veniva «retribuita».

Ritornando in Germania, si dedicò all’insegnamento, maturando sul piano teologico la sua coscienza di cristianesimo. Ridurre Luther a esempi esteriori o motivare la sua predicazione con fatti episodici, significherebbe sminuie la portata. La questione delle indulgenze è occasionale, ma la sua teologia va ben oltre il mercato che pure ci fu e fu indegno, corrotto, simoniaco e peccaminoso.

Le indulgenze

Il sistema delle indulgenze si era consolidato nel corso degli otto giubilei celebrati fino al 1500 e costituiva una fonte economica di grande portata perché il popolo vi ricorreva con l’ansia e il desiderio di commutare le pene post mortem per sé e per i propri defunti. L’amministrazione vaticana e anche locale se ne serviva come uno scrigno sempre aperto per finanziare opere pubbliche, guerre e interessi privati. Giulio II (1503-1513) nel 1507 e Leone X (1513-1521) nel 1514 avevano concesso l’indulgenza plenaria a chi, confessato e comunicato, avesse donato una somma di denaro per la costruzione della nuova basilica di San Pietro. In Germania, il commissario papale, Alberto di Brandeburgo, usò la metà del denaro raccolto con le indulgenze per sanare un debito personale con i banchieri Fugger di Augusta. Gli aneddoti potrebbero moltiplicarsi all’infinito, ma resterebbero comunque solo una piccola parte delle conseguenze che si potrebbero elencare dell’idea di salvezza presente nella teologia del tempo. Le indulgenze non possono trasformarsi in una trattativa a buon mercato per «comprare» la gratuità con cui Dio dona se stesso all’umanità. Con la «scoperta» del nuovo mondo, non può non nascere anche una «nuova Chiesa» che transita dal Medio Evo monolitico alla modeità pluralista.

Le famose tesi di Wittemberg (31 ottobre 1517) formulate da Luther altro non sono che la formalizzazione di questi interrogativi. Se Roma avesse avuto papi che, invece di dedicarsi alla caccia al cinghiale, avessero ascoltato il grido di dolore che saliva da tutta la Chiesa per una purificazione e riforma generali, lo scisma d’Occidente, forse, non si sarebbe consumato. Lo prova la stessa convocazione del concilio di Trento da parte di papa Paolo III (1534-1549) nel 1545. Il concilio, proprio con la condanna di Luther, di fatto gli dà ragione, perché risponde con la riforma della dottrina delle indulgenze e, sul piano strettamente teologico, s’interroga sulla «giustificazione», contrapponendosi a Luther più per motivi circostanziali ed estei che per contenuto dottrinale, come dimostreranno gli eventi di quattro secoli dopo, quando, rasserenati gli spiriti e fatto discernimento con intelligenza e sapienza storica, il 31 ottobre 1999 ad Augsburg in Germania, dalla Federazione Luterana Mondiale e dalla Chiesa cattolica romana sarà firmata una «Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione1».

Dal concilio di Trento una lenta ripresa

Cinque anni dopo l’inizio del concilio di Trento, che durò diciotto anni fra altee vicende, nel 1550 ci fu il decimo giubileo della storia della Chiesa indetto da Paolo III. Papa rinascimentale, padre di molti figli naturali e nepotista non meno osceno di Alessandro VI, egli aveva capito la necessità di una riforma della Chiesa, ormai slabbrata da ogni parte, e a questo scopo nel 1542 aveva riorganizzato l’Inquisizione a difesa della purezza della fede che invece sarebbe riuscita solo a macchiarla ancora di più con le sue nefandezze e i suoi soprusi. Contemporaneamente aveva sostenuto i nuovi ordini religiosi: Teatini, Cappuccini, Baabiti, Somaschi, Orsoline e approvato l’ordine di Ignazio di Loyola, la Compagnia di Gesù, che avrebbe assunto il compito non facile di traghettare la religiosità dal livello della devozione emotiva a quello dell’intelligenza e del «discernimento spirituale». Durante questo giubileo, Filippo Neri inaugurò a Roma l’Ospizio di Trinità dei pellegrini. Intanto in Spagna, Teresa d’Avila fondava monasteri di clausura, femminili e maschili per riformare il monachesimo, ormai moralmente degenerato. Lei e Giovanni della Croce sarebbero stati vittime dell’Inquisizione che non avrebbe più distinto il grano dal loglio perché, accecata dall’ossessione dell’eresia e dal fatto di essere diventata strumento di epurazione nelle mani del potere politico di re e regine, vedeva fantasmi ed eretici in ogni dove.

Il fiammifero acceso da Luther dilagò in incendio in tutta Europa, dalla Germania, alla Svizzera, all’Inghilterra, ai paesi Scandinavi e fino al cuore del Regno pontificio, in città come Lucca, Viterbo, Modena e Ferrara, dove i libri dei «Riformati» circolavano ampiamente, nonostante l’ordine papale di consegnarli pena la morte. Nell’anno del giubileo del 1550, il 3 giugno, Roma visse per la prima volta il rogo di opere considerate eretiche. Se si arriva a bruciare un libro, pensando di eliminare un’idea o estirpare un sentimento, si può arrivare senza problemi di coscienza a bruciare le persone che quelle idee e quei sentimenti custodiscono nel loro cuore. Fece così l’Inquisizione. Faranno allo stesso modo tutti i totalitarismi seguenti fino al comunismo, al nazismo e al fascismo recenti. In questo giubileo, il papa Giulio III (1550-1555) si diede anche a manifestazioni goderecce, che amava particolarmente, come combattimenti di tori, carnevale sguaiato, banchetti, giochi, compreso quello d’azzardo. Nel mese di novembre del 1550, quasi alla chiusura del giubileo, il papa volle assistere a Castel Sant’Angelo alla rappresentazione di «Cassaria» di Ludovico Ariosto. Michelangelo Buonarroti, ormai ultrasettantenne, partecipò al giubileo, insieme al Vasari, con un’intensa spiritualità, visitando le basiliche prescritte con grande raccoglimento e devozione.

Gregorio XIII: il nuovo calendario

Il primo giubileo che possiamo definire, in qualche modo, «moderno», fu quello del 1575, aperto e chiuso dal papa bolognese e riformatore Gregorio XIII (1572-1585), il papa che introdusse il calendario «gregoriano» in sostituzione di quello «giuliano» in uso fino ad allora. A questo giubileo prese parte anche Carlo Borromeo, vescovo di Milano, forse il più grande fautore ed esecutore della riforma del concilio di Trento. Papa Gregorio diede una svolta al giubileo e alla vita della curia. Fu esempio non solo di austerità, ma specialmente di coerenza, cornordinando di persona il giubileo che volle «spirituale», senza distrazioni: proibì carnevale, feste e giochi pagani, volle che anche cardinali e preti fossero modello di vita per i fedeli, si curò dell’accoglienza dei pellegrini, preoccupandosi che avessero cibo e alloggio, vietando speculazione e aumento di prezzi.

La fine del concilio di Trento dodici anni prima (1563) e la nascita del Protestantesimo costrinsero la gerarchia cattolica più avveduta a mettere in atto una profonda riforma, ormai non più dilazionabile, che portasse i cuori e le strutture dal paganesimo cristianeggiante alla spiritualità evangelica. Avvenimenti come quelli accaduti nella notte tra il 23 e 24 agosto del 1572 – passata alla storia come la notte o il macello di San Bartolomeo -, quando a Parigi i cattolici, in nome di Dio e a sua gloria, macellarono gli Ugonotti protestanti, non sarebbero dovuti mai più accadere. Dal macello si salvò solo chi aveva al collo o sulla berretta una piccola croce d’argento, usata in passato dai pellegrini romei. Ciò dimostra come i simboli giubilari fossero diventati di uso comune nella vita quotidiana.

Se iniziava la riforma, questa non poteva che essere restaurazione sistematica del cattolicesimo latino che in quel momento storico si contrapponeva al Protestantesimo. Si misero in atto i decreti e la volontà del concilio di Trento, con strumenti pratici ed efficaci come l’obbligo del Breviario e del Messale per il clero, il Catechismo come testo di catechesi per sacerdoti diffusamente impreparati e incolti, l’istituzione dei seminari per la formazione dei futuri preti. Nel 1600 Clemente VIII (1592-1605), protagonista della pace di Versailles fra il re di Spagna, Filippo II, ed Enrico IV, re di Francia, indisse il giubileo senza arretrare minimamente nell’azione repressiva di cui fu prova la condanna di Giordano Bruno il 17 febbraio del 1600, quasi una inaugurazione dell’apertura della porta santa. Con il sec. XVII si entrò in una visione e cultura nuove, segnate dallo spirito del barocco con il senso del solenne, del maestoso e delle manifestazioni pompose come processioni e rappresentazioni teatrali tratte da esperienze di vita. Contro il Protestantesimo «comunitario», Roma diventò il centro sempre più «accentrato» della cristianità, esaltando la figura del papa fino a una sorta di culto della personalità. Se nel secolo dell’umanesimo, il XV, il papa era stato prevalentemente l’«Uomo Nuovo», attorniato da cortigiani e cortigiane di ogni specie, nel secolo della modeità egli diventò il successore di Pietro, il Vicario di Cristo, il «fondamento» dell’unità della Chiesa cattolica. S’intensificarono le «opere» anche per contrastare il «quietismo» che si era diffuso specialmente in Spagna come disposizione passiva dell’anima davanti a Dio, disposta a lasciarsi possedere dallo Spirito; s’incentivò la preghiera vocale per la «conquista» della grazia, e si contrastò l’orazione mentale e la mistica per paura di non poterle controllare. Miguel Molinos, esponente di una spiritualità in cui la grazia è vista come dono gratuito, dopo essere stato messo all’indice, sarebbe morto nelle carceri dell’Inquisizione nel 1696.

Una lenta e ordinaria decadenza

I successivi otto giubilei, dal 1625 (Urbano VIII, 1623-1644) al 1825 (Leone XII, 1823-1829), rientrarono in una routine ormai consolidata che vide l’affinarsi dell’aspetto spirituale e la diminuzione di quello politico, anche perché il papato entrò in una fase di lunga transizione che si sarebbe perfezionato con la perdita del potere temporale pontificio nel 1870, regnante Pio IX (1846-1878). La breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870 segnò la data ideale e ufficiale di annessione di Roma al Regno di Sardegna e di Piemonte, realizzando il sogno dell’unità d’Italia del Risorgimento. L’ultimo giubileo regolamentare fu quello del 1775 convocato da Clemente XIV (1769-1774) ma celebrato da Pio VI (1775-1799) con grande spreco di giochi pirotecnici e «macchine abbruciate davanti immenso pubblico», un carnevale più che un anno santo. Nel 1800, in pieno impero napoleonico, il giubileo non fu celebrato, a causa della sede vacante: il conclave riunito a Venezia, infatti, fu lungo e faticoso. Una volta eletto, Pio VII (1800-1823) rientrò in una Roma deserta di prelati e, per il 1801, concesse l’indulgenza giubilare senza l’obbligo di recarsi a Roma. Il 9 aprile del 1802 la concesse ai Francesi per commemorare il concordato tra Francia e Santa Sede, siglato dall’imperatore Bonaparte e dal cardinale Consalvi.

Leone XII (1823-1829) convocò il giubileo del 1825, iniziando una lotta impari contro «l’indifferentismo» religioso e le nuove idee, socialiste e liberali, che si assestavano in tutta Europa e ponevano il papa tra gli ultimi epigoni reazionari della storia, incapaci di leggere i «segni dei tempi» e di interpretarli alla luce del Vangelo. Nel corso dell’anno furono giustiziati Angelo Targhini e Leonida Montanari accusati di «carboneria». Di fronte al volgere della storia che travolgeva qualsiasi resistenza, i papi furono in grado solo di frenare il cammino della Chiesa per paura di perdere autorità e controllo sulle masse. Pio IX proseguì l’opera miope e oscurantista del suo predecessore, Gregorio XVI (1831-1846), che nell’enciclica Mirari Vos del 15 agosto 1832 aveva scritto:

«Da questa corrottissima sorgente dell’indifferentismo scaturisce quell’assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza: errore velenosissimo, a cui apre il sentirnero quella piena e smodata libertà di opinione che va sempre aumentando a danno della Chiesa e dello Stato, non mancando chi osa vantare con impudenza sfrontata provenire da siffatta licenza qualche vantaggio alla Religione».

Povero papa, come poteva immaginare che appena 133 dopo, addirittura un concilio, il Vaticano II, lo avrebbe solennemente smentito, elogiando la libertà di coscienza dichiarata «incoercibile» da parte di qualsiasi potere? Il Vaticano II, con le firme dell’episcopato di tutto il mondo insieme al Papa, Paolo VI (1963-1976), il 7 dicembre 1965, con 2308 voti favorevoli e 70 contrari, approvando il decreto Dignitatis Humanae, solennemente avrebbe proclamato:

«Il Concilio Vaticano II dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Questa libertà comporta che tutti gli uomini devono essere immuni da ogni costrizione da parte di individui, o gruppi sociali o di qualsiasi altro potere umano, di modo che nessuno sia costretto ad agire contro la propria coscienza» (Dignitatis Humanae, 2).

Pio IX, l’ultimo papa re

Ne è passata di acqua sotto i ponti del Tevere dal giorno che vide anche Pio IX fuggire da Roma verso Gaeta, nel 1850, anno in cui avrebbe dovuto indire il giubileo regolare. Il Papa aveva altro cui pensare e ripiegò concedendo l’indulgenza all’Italia e alla cattolicità, rinnovate in vari modi e tempi fino al 1869, quando con una solenne celebrazione, corredata da indulgenza plenaria, avrebbe voluto concludere il concilio Vaticano I che, su sua imposizione, doveva dichiarare il dogma dell’infallibilità pontificia. La scelta di non celebrare un giubileo specifico fu motivata dal fatto che Roma era occupata e non voleva ratificare, attraverso l’afflusso di eventuali pellegrini, l’atto di «usurpazione» da parte di Vittorio Emanuele e Cavour che egli scomunicò.

Nel 1875, Pio IX indisse il giubileo alla scadenza dei 25 anni, ma non aprì la porta santa in segno di lutto per la presa di Roma. Si limitò a concedere indulgenze e concessioni varie, espressioni più del terrore di sentirsi prigioniero in Vaticano che dell’evento giubilare. Impotente, dovette assistere alla demolizione della cappella del Colosseo da parte degli anticlericali risorgimentali. Se papa Lambertini (Benedetto XIV, 1740-1758) aveva incluso il Colosseo nel circuito giubilare come luogo dei martiri, ora lo stesso luogo era diventato il simbolo dell’insignificanza del papato che aveva intorno a sé solo nemici. Sarebbe stato un papa non italiano, il polacco Giovanni Paolo II (1978-2005), che nell’anno giubilare millenario del 2000, avrebbe preso di nuovo possesso del Colosseo, per fae il luogo della richiesta di perdono da parte della Chiesa davanti alla Storia per tutte le ingiustizie che nel corso dei secoli ella, per mezzo dei suoi figli e figlie, aveva compiuto. Questo però è un altro millennio e un’altra storia.

Paolo Farinella, prete
12, continua.

Note:

1- Per una informativa esauriente, cf. A. Maffeis, Dossier sulla giustificazione. La dichiarazione congiunta cattolicoluterana, commento e dibattito teologico, Queriniana, Brescia 2000; A. Birmelé, Uniti sulla giustificazione, in Regno–Documenti 45 [2000] 127-136.




Storia del giubileo 11: santi putridume


Papa Sisto IV determinò una svolta nel papato e nella Chiesa per diversi motivi. Per la cronaca fu uno dei papi più nepotisti che la storia conosca, perché si circondò della numerosa sua famiglia alla quale concesse privilegi e cariche senza ritegno e misura. La sua elezione avvenne in odore di simonia a opera principalmente del nipote, Pietro Riario, figlio della sorella, che si prodigò con ogni mezzo affinché i voti dei cardinali si convogliassero sullo zio che, riconoscente, lo gratificò con il cardinalato, già nel primo concistoro, subito dopo l’elezione, insieme a diversi altri nipoti che ne condizionarono la vita e le scelte. Il giorno dell’incoronazione, fu assistito e intronizzato dal protodiacono Rodrigo Borgia, futuro Alessandro VI, che l’avrebbe superato non solo in fatto di nepotismo, ma in ogni forma d’immoralità e indecenza.

Attese disattese

Sisto IV confermò il giubileo del 1475 con la cadenza dei 25 anni, in vista del quale intraprese grandi opere di ristrutturazione della città di Roma, trasformando in cantiere l’intero colle Vaticano. Fece costruire la Cappella più famosa del mondo, che, anni dopo, sarebbe stata affrescata da Botticelli e da Michelangelo, detta in suo onore «Cappella Sistina». Ripristinò il vecchio ponte romano, detto «ponte rotto» sul Tevere che da allora fu chiamato «Ponte Sisto»; rase al suolo e ricostruì più grande ed efficiente l’ospedale di Santo Spirito, fece costruire innumerevoli chiese e riorganizzò il sistema viario, anche per governare meglio i tumulti. Era diffidente di tutti e si narra che, non fidandosi di coloro che lo circondavano, per rendersi conto di quello che il popolo pensava realmente di lui, non poche notti si travestiva «da prete» per recarsi nelle tavee ad ascoltare dicerie e giudizi.

Il giubileo fu un completo fiasco perché, per le troppe guerre che infestavano l’Europa del Nord, non era affatto agevole muoversi e i pellegrini affollarono Roma solo in occasione della Pasqua. Tutte le derrate alimentari e i servizi approntati rimasero inutilizzati e furono una manna per il popolo romano perché i prezzi si abbassarono e la logica del «compri uno e porti (via) tre» divenne obbligatoria per potere almeno recuperare parte del denaro. Per ovviare a queste difficoltà il papa protrasse di un anno il giubileo, ma le condizioni di Roma si aggravarono a causa di piogge torrenziali che fecero straripare il Tevere. Roma fu così gravemente allagata e impraticabile da costringere il papa a trasferire alla città di Bologna le prerogative giubilari di Roma, dando un ulteriore colpo all’economia della città eterna. Concesse, inoltre, ai principi che erano in guerra la possibilità di lucrare le indulgenze del giubileo standosene a casa loro, ma a condizione che le offerte raccolte in quella occasione fossero tutte impiegate per finanziare la guerra contro i Turchi.

Alla fine, come ciliegia sulla torta, quasi a sancire una sfortuna senza fine, scoppiò ancora una volta la peste. Il papa, per paura del contagio, scappò con tutta la sua corte di nipoti e familiari da Roma che rimase con grandi opere in parte finite, in parte incompiute, ma senza giubileo di fatto, senza pellegrini e per giunta allagata e con la peste.

Ponte Sisto a Roma
Ponte Sisto a Roma

Dall’Immacolata all’Inquisizione

Sul piano religioso, Sisto IV fu il papa che con la bolla «Cum prœexcelsa» del 27 Febbraio 1477, istituì la festa dell’Immacolata Concezione, fissandola all’8 Dicembre; promosse la recita del Rosario e consacrò la Cappella Sistina a Maria Assunta. Sul piano storico, fu l’iniziatore, sebbene a malincuore, dell’Inquisizione spagnola, voluta a tutti i costi da Ferdinando II di Aragona che, avendo le casse vuote, cercava un modo indolore (per sé) per depredare il denaro degli Ebrei. La condanna, infatti, dell’Inquisizione per motivi di eresia, comportava anche la requisizione di tutti gli averi.

Uccidere in nome di Dio
Quando oggi si accusano i Musulmani di «usare il nome di Dio» per fare le guerre o utilizzare la religione per alimentare il terrorismo, sarebbe bene che ci fermassimo un poco e facessimo un esame di coscienza «storico» perché questo uso peccaminoso e blasfemo lo abbiamo praticato anche noi cattolici. Diciassette anni dopo il giubileo di Sisto IV, nel nuovo mondo scoperto da Cristoforo Colombo si sarebbe imposto il battesimo con la spada: o l’acqua o la morte, sistema che dal 1507, anno della sua ordinazione e fino alla morte nel 1566, vide l’opposizione ferma del vescovo spagnolo Bartolomé de Las Casas, uno dei pochi che difese strenuamente, in nome del vangelo, i nativi delle colonie. I cattolicissimi regnanti di Spagna, Ferdinando e Isabella (costei si confessava ogni giorno), usarono la religione per ammazzare, trucidare e depredare gli Ebrei dichiarando guerra al popolo di Abramo solo per avidità di denaro. La Spagna per tutto il 1500 e 1600 – e successivamente anche l’Europa – sarebbe stata segnata da quella piaga purulenta che fu l’Inquisizione, la quale agì, condannò e uccise in nome di Dio, ma senza Dio e contro Dio. Non basta dire che bisogna leggere i fatti nel contesto del loro tempo perché ciò vale per le valutazioni ordinarie, ma di fronte all’uso del nome di Dio e della religione per giustificare la decisione di rubare le ricchezze altrui, c’è una scelta chiara, lucida e determinata di volere compiere un delitto immorale. Anche costoro nel 1500 leggevano il vangelo che è limpido e chiaro, come acqua di sorgente, allora come oggi.

Vittima di questa malvagità cattolica, macchia peccaminosa approvata da papi e vescovi che resterà indelebile fino alla fine della storia, furono anche san Giovanni della Croce e santa Teresa d’Avila, nipote di un ebreo, costretto a convertirsi per salvare la vita della propria famiglia. Teresa d’Avila disprezzerà l’Inquisizione, da cui per altro fu sfiorata, e difenderà il suo compagno di fede e padre spirituale, Giovanni della Croce, usando un linguaggio cifrato, come si evince dai suoi scritti, per esprimere tutto il suo disprezzo e la sua amarezza. Alcuni suoi manoscritti furono bruciati.

Sisto IV, sostenuto dal suo vice cancelliere, Rodrigo Borgia (futuro Alessandro VI), non voleva l’Inquisizione, ma cedette al ricatto del re «cattolicissimo» di Spagna, e il 1 Novembre 1478 emanò una bolla con cui istituiva un inquisitore non in tutta la Spagna, ma solo nella regione di Siviglia, cioè la regione che interessava i cattolicissimi sovrani. Una volta aperto, il vaso di Pandora non può più essere richiuso. Forti di questa licenza, Re Ferdinando e Isabella di Castiglia, ottennero l’autorizzazione di nominare inquisitori di loro fiducia. Il temibile Torquemada fu da loro nominato inquisitore generale e Sisto IV dovette pure lui riconoscerlo e approvarlo.

Papa Borgia e l’invenzione delle «Porte Sante»

sala_dei_misteri_resurrezione_con_alessandro_vi_02Frattanto, sulla scena della chiesa si affacciavano due tragiche figure che avrebbero condizionato la Chiesa in modo che l’eco arriva fino a noi. Da una parte la figura triste e nevrotica di Girolamo Savonarola (1452-1498), che, ubriaco di un modello teocratico di città, predicava solo sventure e distruzione in chiave apocalittica; dall’altra quella comica e immorale di Rodrigo Borgia, catalano trapiantato a Roma ed eletto papa nel 1492, l’anno che con l’avventura di Cristoforo Colombo avrebbe cambiato non solo il volto ma anche il modo di pensarsi del mondo intero.

Egli assunse il nome di Alessandro VI (1431-1503), passato alla storia come uno dei papi più lascivi e corrotti, a cominciare dalla sua elezione al soglio di Pietro che fu contrattata dai suoi scherani, manovrati dal figlio Cesare, con emissari di cardinali greci e francesi «apud latrinas». Il conclave che lo elesse fu il primo ad essere celebrato nella Cappella Sistina, già affrescata da Botticelli, Perugino e Ghirlandaio. Papa Alessandro VI, tra i suoi innumerevoli figli, ne riconobbe ufficialmente almeno due, Cesare e Lucrezia, avuti da Vannozza Cattanei, locandiera romana, sua amante per quasi venti anni. Stanco di lei, l’abbandonò sostituendola con Giulia Faese, sorella del futuro papa Paolo III. Poiché era disdicevole dire pubblicamente che il papa avesse dei figli, la curia romana che ne sa sempre una più del diavolo, escogitò il sistema di presentare Cesare o Lucrezia Borgia ai diplomatici e nelle udienze pubbliche come «nipoti di un fratello del papa»: il papa aveva veramente un fratello e così salvata la capra della verità, si potevano tranquillamente salvare anche i cavoli della formalità, mandando in malora ogni residua moralità.

Il Giubileo del 1500, che apriva un nuovo secolo e si apriva anche sul nuovo mondo (scoperto solo otto anni prima da Cristoforo Colombo, «raddoppiando» il mondo esistente), fu carico di grande significato simbolico e Alessandro VI, da fine diplomatico e oculato amministratore qual era, vi prestò la massima attenzione e lo curò con particolare dedizione. Intanto per la prima volta il papa approvò un rituale scritto che prevedeva l’apertura di quattro porte sante nelle quattro Basiliche papali: San Pietro (che era ancora un cantiere), San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore e San Paolo fuori le Mura. Ancora oggi, mutatis mutandis, è il rituale in uso. Il mondano Papa Borgia non poteva non pensare il giubileo come un teatro, in cui l’elemento spirituale passava in seconda linea per diventare una rappresentazione «visiva» del papato e del suo splendore. Il punto centrale dell’inaugurazione giubilare fu l’apertura della porta, accompagnata da fuochi di artificio, da giochi, da feste e da ogni forma di divertimento perfino dentro il palazzo apostolico, avendo bandito ogni forma di austerità e penitenza.

Il Giubileo del sollazzo

Papa Borgia inventò anche il recupero del Colosseo che da allora divenne letteralmente teatro di manifestazioni spettacolari. Per il 1500 egli incaricò l’arciconfrateita del Gonfalone di rappresentarvi la passione del Signore e le passioni dei martiri, permettendo contemporaneamente al figlio Cesare di organizzare una spettacolare festa di carnevale, in pieno anno santo, arricchita da una grandiosa parata militare. Nella quaresima del 1500, papa Alessandro VI dovette recarsi a Piombino e per l’occasione radunò tutte le donne e le ragazze più belle della cittadina toscana per fare baldoria e mangiare carne, con disprezzo delle regole liturgiche che regolavano in modo rigoroso il digiuno quaresimale, verso il quale il popolo era molto sensibile. Lo scandalo fu grande.

Probabilmente nello stesso anno santo del 1500, presente il papa e quindi questi consenziente, Cesare Borgia diede uno spettacolo che sarebbe rimasto come un marchio indelebile sull’abisso di abiezione che distinse non solo il papa catalano, ma anche tutta la sua disonorevole famiglia, anche per la data scelta.

«… A saggio della profonda sua immoralità e del suo cinismo, basti dire che una volta (era il dì di Ognissanti) Cesare Borgia convittò nel palazzo pontificio cinquanta meretrices honestae, cortigianae nuncupatae [prostittute oneste (in possesso di permesso di esercizio), dette cortigiane], come dice monsignor Burcardo; poi le fece danzare ignude co’ servitori e con altre persone; poi altri osceni spettacoli, che furono rappresentati alla presenza del papa e della Lucrezia sua figlia … E si può conchiudere che la corte del vicario di Dio non era meno laida di quella di Nerone» (Bianchi-Giovini, 1860, 32-33.42).

Le innovazioni giubilari introdotte da Alessandro VI non ebbero nulla di spirituale, ma furono tutte esteriori, superficiali e immorali come i suoi comportamenti e in quelli della sua corte. Forse queste mondanità avevano lo scopo di distrarre le popolazioni dalla guerra con i Turchi che, in lotta con Venezia, scorrazzavano in Friuli, giungendo a lambire Vicenza, anticamera della Repubblica veneta. Tra il 1415 e il 1500 vi furono non meno di nove incursioni che diffusero il panico non solo in quelle regioni, ma in tutta l’Italia del Nord. Nel 1503 Papa Borgia morì. Il suo cerimoniere annota che «morì con i sacramenti». La sua salma gonfiò così tanto che la bara non riusciva a contenerlo: i necrofori furono costretti a chiuderlo dentro a forza.

Lutero alle porte

Se, da una parte, il sec. XVI è il secolo del Rinascimento che nella letteratura, nelle arti, nella scoperta degli autori greci e nella scienza appena agli esordi (medicina, astronomia, architettura, navigazione, ecc.) trova il massimo del suo splendore, dando inizio veramente «a un nuovo mondo» anche in Europa, dall’altra parte per la Chiesa fu una catastrofe perché fu il secolo delle maggiori nefandezze, con Papi che avevano sostituito il senso del vangelo con lo spirito del mondo, incarnando «quel mondo» per cui Cristo stesso non aveva voluto pregare (cf Gv 17,9).

Cosa era successo? La Chiesa di Cristo, la sposa senza macchia, fu oscenamente mostrata agli occhi lubrichi del mondo immersa nella corruzione di ogni livello, nelle trame più oscure finalizzate al mantenimento del potere. I papi furono solo mecenati per la loro vanagloria e l’interesse delle loro famiglie, crocifiggendo  il Cristo non una, ma dieci, cento, mille volte. I rappresentanti di colui che, scalzo, portò la croce per essere scannato come agnello per i peccati del mondo, scelsero la mondanità, incuranti del popolo e della fede. Essi furono papi miscredenti perché di tutto si curavano tranne che di essere fedeli al loro mandato.

I giubilei persero il loro senso spirituale e divennero occasione per «grandi affari», funzionali al papa di tuo che li usò come arma di potere e sollazzo della corte. Non a caso la Chiesa e il mondo si trovavano alla vigilia della reazione di Martìn Lutero, che, fattosi voce della necessità di una «rifondazione» della Chiesa, avrebbe acceso la miccia di una deflagrazione senza pari: nel 2017 ricorrono i 500 anni dell’affissione delle «95 tesi sulle indulgenze» di Lutero, avvenuta il 31 Ottobre 1517 alla porta della Chiesa del castello di Wittemberg. Fu l’inizio della Riforma Luterana (Protestantesimo) e il principio del fallimento del papato.

Paolo Farinella, prete
(11, continua)

 




Storia del Giubileo 10. Reliquie e corruzione


Nella puntata precedente abbiamo descritto come l’istituto del giubileo da evento eccezionale, pensato a cadenza secolare da Bonifacio VIII, fosse diventato una tradizione elastica che ogni papa decideva di cadenzare secondo la sua personale esigenza o visione teologica.

La giostra dei Papi

Dopo la morte di Bonifacio IX (1404) e il breve ma turbolento pontificato di Innocenzo VII (Cosimo de’ Migliorati), durato appena due anni (1404-06), fu eletto papa di Roma Gregorio XII (Angelo Correr, 1335-1417). Per risolvere lo scisma che era fonte di confusione (basti pensare che Santa Caterina da Siena era fedele a Roma, mentre San Vincenzo Ferrer riconosceva il papa di Avignone), molti cardinali sia fedeli a Roma, sia fedeli ad Avignone, si riunirono a Pisa nel 1409, deposero il papa Gregorio XII e l’antipapa Benedetto XIII con l’accusa di scisma ed elessero un nuovo papa che assunse il nome di Alessandro V (Pietro Filargo, 1339-1410), che, come prima mossa papale, promise un nuovo giubileo per l’anno 1413, ma non visse abbastanza per realizzarlo.

Morto Alessandro, elessero Giovanni XXIII (Baldassarre Cossa, 1370-1419) che a tutti gli effetti fu considerato antipapa, perché eletto essendo ancora vivo il papa legittimo, Gregorio XII, che era stato deposto in modo illegittimo. Si creò una situazione paradossale: i papi eletti da quella che passò alla storia come «l’obbedienza di Pisa», invece di risolvere lo scisma, lo aggravarono così tanto da sprofondare la Chiesa per sei anni dalla padella della sventurata «dualità» alla brace della «maledetta triplicità». Non più due, ma tre papi si contendevano la successione di Pietro. Gregorio XII rinunciò al pontificato nel 1415, sperando che anche l’antipapa Benedetto XIII di Avignone facesse lo stesso, ma questi si rifiutò, anzi sul letto di morte costrinse i pochi cardinali a eleggere il successore, Clemente VIII. Questi accortosi di essere diventato ormai ridicolo, rassegnò le dimissioni, riconoscendo il papa di Roma. Nel frattempo non un conclave, ma direttamente il concilio di Costanza, nel 1417 all’unanimità scelse Martino V (Oddone Colonna 1368-1431), il quale toò a Roma e in omaggio alla norma della memoria dei 33 anni di Cristo, indisse il giubileo per l’anno 1423.

Giubilei della redenzione ballerini.
Il giubileo di Martino V sarà l’ultimo della serie dei «33 anni», perché Niccolò V (Tommaso Perentucelli,1347-1455, nato a Sarzana, Genova), il suo secondo successore, riportò l’anno santo alla scadenza del cinquantesimo anno, abolendo quella dei 33 anni. Il giubileo di Martino V sarà così l’ultimo della serie della «redenzione», fino al 1933, quando un nuovo anno santo sarà indetto da Pio XI (Achille Ratti, 1857-1939) per celebrare la ricorrenza centenaria della redenzione; questo evento, con la stessa motivazione, si ripeterà ancora una volta, nel 1983, anno giubilare indetto da Giovanni Paolo II (Karol Wojty?a, 1920-2005) in omaggio al 1950° anniversario della redenzione di Cristo.

Curiosità e dimissioni.
Dopo l’antipapa Giovanni XXIII, per cinque secoli, nessun nuovo papa assunse quel nome, come se fosse un nome maledetto. Fu il patriarca di Venezia, Angelo Giuseppe Roncalli, che, eletto papa (28 ottobre 1958), da fine storico, non si lasciò impressionare, ma decise di assumere il nome di Giovanni XXIII, ponendo fine definitivamente alla discussione sugli antipapi. Eletto come papa di transizione per fare decantare il lungo e ingombrante pontificato di Pio XII, Roncalli smentì le attese di tutti e, volando alto sulle ali dello Spirito, diede inizio al concilio Vaticano II che cambiò il volto e il cuore della Chiesa.
Nella serie dei papi, Gregorio XII (Angelo Correr), fu il settimo papa ad avere rinunciato o ad essere stato costretto a rinunciare. Prima di lui rinunciarono Clemente I, Ponziano, Silverio, Benedetto IX, Gregorio VI e, ultimo e più famoso tra tutti, Celestino V, predecessore di Bonifacio VIII. Dopo di lui, si ebbe solo la linea ufficiale e legittima dei papi di Roma e occorrerà aspettare 598 anni per vedere un papa rassegnare le dimissioni, questa volta non costretto da altri, ma liberamente per sua scelta, come fece Benedetto XVI, al secolo Joseph Ratzinger.

Clero alla berlina

Il giubileo del 1423, il primo di una chiesa riunita dopo lo scisma, porta un flusso straordinario di pellegrini a Roma da fare dire ai cronisti dell’epoca che Roma viene invasa «da sterco, sporcizia e pidocchi», conditi da una forte speculazione, se è vero che il papa emana un editto con cui vieta di far pagare più di 25 fiorini per la pigione nel quartiere di Parione «in occasione del giubileo oppure di un concilio celebrato a Roma o in occasione dell’arrivo dell’imperatore». In questo giubileo per la prima volta si apre «una porta santa» al Laterano (per la cronaca questa porta non è mai stata identificata), come varco apposito per il passaggio dei pellegrini. Finito l’anno santo, esso viene murato con dentro un bricco d’oro (a futura memoria).

La mancata riforma della Chiesa, voluta dal concilio di Costanza e non riuscita, specialmente quella attinente il clero che aveva una vita morale indecente, oltre alla sporcizia e ai pidocchi, alimentò un sentimento anticlericale e uno scollamento profondo tra popolo e clero. Della decadenza del clero si occupò anche la letteratura: le «Trecento novelle» di Franco Sacchetti (+ 1400ca.) portano al parossismo l’immoralità del clero e del mondo religioso. In forma più contenuta, questa feroce satira era stata iniziata una cinquantina di anni prima da Boccaccio con il «Decameron».

Se per i pellegrini del popolo, per lo più sentimentali e analfabeti, i giubilei erano l’occasione per fare incetta d’indulgenze allo scopo di evitare l’inferno dopo la morte, per il clero e le istituzioni, essi erano anche un grande fattore economico perché portavano a Roma un grande flusso di denaro e si sa bene che dove c’è la carogna i corvi abbondano. Il popolo di Dio, in ogni tempo, sarà pure ignorante, ma ha fiuto e giudica quello che vede e valuta comportamenti e atteggiamenti, e quasi sempre non sbaglia. Facendo le debite proporzioni, si può applicare qui il principio teologico tanto caro a Papa Francesco: «L’insieme dei fedeli è infallibile nel credere, e manifesta questa sua infallibilitas in credendo mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo che cammina» (Antonio Spadaro, S.I., a cura di, «Intervista a Papa Francesco», in La Civiltà Cattolica, n. 3918 [15 settembre 2013], 459). Il popolo dei giubilei, è un popolo caricato dai preti con mille paure, ma anche un popolo semplice, di una elementare religiosità, capace di distinguere il messaggio dagli strumenti inadeguati.

Una testimonianza agghiacciante.
«L’umanista Poggio Bracciolini, inorridito delle devianze morali del clero romano, scrisse al cardinale Giuliano Cesarini (+1444) che lo esortava a prendere gli ordini sacri: “Non voglio divenire sacerdote, non voglio benefici; ne vidi già moltissimi, che ritenevo uomini buoni… divenire, dopo aver assunto il sacerdozio, avari, non più dediti alla virtù, ma all’inerzia, all’ozio, al piacere. Timoroso che qualcosa del genere accada anche a me, ho deciso di concludere lontano dal vostro ordine ciò che mi rimane di vita terrena; vedo chiaro infatti, dalla tonsura dei sacerdoti che non sono solo i capelli a venir loro rasi ma anche la coscienza e la virtù”. Poggio Bracciolini era un intellettuale laico» (Mezzadri, 79).

Reliquie a gogò e fanatismo

Papa Martino V favorì il culto delle reliquie che fece esporre in tutte le chiese come mezzo per alimentare il desiderio del popolo per una chiesa più spirituale, scavalcando così il clero che, forse, lo stesso papa considerava un impedimento e quasi mettendosi direttamente in contatto con la chiesa dei semplici. Questo processo di spiritualizzazione culminò nel 1430, sette anni dopo il giubileo, quando la pietà popolare trovò una grande spinta nella traslazione a Roma delle reliquie di santa Monica, madre di sant’Agostino, durante la quale il papa tenne un sermone commovente. Purtroppo però, quando il desiderio di purificazione è abbandonato solo alla pietà popolare, è inevitabile che si creino mostri e si dia inizio a un irrigidimento moralistico che porta anche i santi a commettere delitti in nome della purezza della religione. Chiuso il giubileo della redenzione, che avrebbe dovuto imporre pensieri di misericordia e di perdono, sorse un movimento spontaneo assetato di «segni» visibili come armi per combattere il male che deve essere estirpato alla radice, senza più la logica della parabola del grano e della zizzania che mette a fuoco la pazienza come intrinseca caratteristica di Dio (cf Mt 13,24-30). Per istigazione di san Beardino prese vita e struttura «il rogo delle vanità» sulla piazza del Campidoglio, dove non si esitò nemmeno a bruciare viva una certa Finicella, accusata di essere strega:

«In quell’anno [1424] frate Beardino (di Siena, ch’era un buon frate) fece ardere tavolieri, canti, brevi, sorti, capelli che fucavano le donne, et fu fatto uno talamo di legname in Campituoglio, et tutte queste cose ce foro appiccate, et fu a 21 di iuglio.
Et dopo fu arsa Finicella strega, a di 8 del ditto mese di iuglio, perché essa diabolicamente occise de molte criature et affattucchiava di molte persone, et tutta Roma ce andò a vedere. Et fece frate Beardino in Roma de molte paci, et de molti abbracciamenti; et benchè ce fusse stato homicidio… et fece fare altre opere buone, sicchè da tutti era tenuto per sant’uomo». (Istituto storico Italiano, Fonti per la storia d’Italia, a cura di  Oreste Tommasini, Diario della città di Roma di Stefano Infessura scribasenato, Forzani e C. tipografi del Senato, Roma 1890).

Il papa mecenate

Dopo Martino V, papa della potente famiglia Colonna, venne eletto il veneziano Eugenio IV (Gabriele Condulmer, 1383-1447) che fu costretto a fuggire a Firenze, perché scacciato dai romani aizzati dalla famiglia Colonna. Dopo di lui salì al soglio pontificio Niccolò V (Tommaso Perentucelli,1347-1455) che fu il vero primo papa mecenate, immerso, corpo e anima, nei nuovi tempi, diventando egli stesso non solo un protagonista, ma addirittura promotore di quell’umanesimo che Martino V di fatto detestava. Con il suo temperamento condiscendente e mai pungente, seppe guadagnarsi la stima e la simpatia di tutte le nazioni europee che gli riconobbero un’autorità morale e politica che prima di lui nessun papa ebbe in così alto grado.

Di fatto, il pontificato di Niccolò V risultò il collo d’imbuto del passaggio definitivo nel «nuovo mondo», chiudendo per sempre il Medio Evo ed entrando nel Rinascimento. Come ogni periodo di transizione, questo passaggio fu attraversato da una serie di problemi gravi e profondi come la corruzione, l’ipocrisia elevata a sistema di governo. Il clero ignorante e avaro, era inadatto alla propria missione, con una simonia diffusa in modo nauseante oltre ogni misura. Pullulavano eresie in ogni dove, come espressione di libertà e occasione d’inganno; era anche un modo per affermare la propria indipendenza non solo dal clero, ma anche dal concetto stesso di società teocratica che si dissolveva di fronte all’ideale «homo novus» che tutti sentivano e percepivano sia psicologicamente sia culturalmente e chi ne pagava le spese inevitabili fu il senso religioso che apparve come ostacolo al nuovo perché rappresentativo del vecchio.

Signori, le corti…

Le alte gerarchie come i cardinali si circondavano di corti personali pullulanti di letterati, filosofi, pittori in cerca di protettori paganti, ma anche come portatori dello spirito del nuovo mondo che era già iniziato. Nel 1449 il papa emanò una bolla con cui indisse per il Natale dello stesso anno l’inizio del giubileo del 1450. Si mise in moto un vero cantiere in tutta Roma per abbellire palazzi, chiese e ristrutturare quartieri, dando impulso a un entusiasmo collettivo contagioso. L’afflusso di pellegrini fu immenso, da ogni parte d’Europa e anche di fuori, convenivano a Roma pellegrini e ciascuno cantava e pregava nella propria lingua, dando l’impressione plastica di rivivere la Pentecoste narrata nel libro degli Atti al capitolo 2. Questa folla era ansiosa di partecipare all’apertura della porta santa di quello che fu definito «l’anno d’oro», anche perché in tutto il mondo cristiano Niccolò V era l’unico papa riconosciuto universalmente e non solo perché era rimasto senza più antipapi (l’ultimo fu Felice V, morto nel 1449), ma perché la sua autorevolezza morale era di dominio pubblico.

Poiché la folla era tanta da non potere essere gestita, il Papa concesse che la reliquia del Volto Santo della Veronica fosse esposta ogni domenica, le teste dei santi apostoli Pietro e Paolo, ogni sabato e, per permettere ai pellegrini di andarsene prima da Roma, perché veniva a mancare il pane, ridusse a soli tre giorni le visite alle chiese giubilari così che, lucrata l’indulgenza plenaria, molti potessero ripartire, avendo soddisfatte le esigenze del giubileo e alleggerendo i problemi di Roma.

Era inevitabile che nelle condizioni igieniche impossibili e senza controllo, scoppiasse la peste che fece molte vittime, anche tra i parenti del papa, il quale, terrorizzato, scappò da Roma per stabilirsi a Fabriano. Riferisce Vespasiano da Bisticci, un umanista e bibliofilo fiorentino, che «La corte di Roma è miseramente sparita e dispersa… Cardinali, vescovi, abati, monaci, ogni sesso, niuno eccettuato, tutti fuggono da Roma come Apostoli da nostro Signore durante la sua passione» (Mezzadri, 94-95).

Il successivo giubileo si celebrò nel 1475 perché il veneziano Pietro Barbo eletto papa col nome di Paolo II (1417-1471) portò la cadenza giubilare a venticinque anni, senza poterlo nemmeno inaugurare: a causa di una scorpacciata di meloni morì di apoplessia e il giubileo restò solo annunciato. Gli succedette il Francesco della Rovere, francescano dell’ordine dei Minori, che assunse il nome di Sisto IV (1414-1484) che determinò una svolta nella vita del papato e nella geografia della città di Roma, divenuta un cantiere a cielo aperto che ne trasformerà definitivamente la struttura e l’impianto.

Paolo Farinella, prete
(10, continua)

 

 




Storia del Giubileo 9. Il giubileo dei papi di Avignone


Se consideriamo complessivamente il suo pontificato nel contesto reale del suo tempo e liberi dai condizionamenti danteschi e dalle esemplificazioni superficiali, Bonifacio VIII (1235-1303, pontefice dal 1294, ndr) fu un papa di grande spessore politico e, dal suo punto di vista, anche religioso. Affrontò la modeità, che ormai si apriva inesorabile, con una visione della propria funzione molto teocratica, e questo, probabilmente, gl’impedì di essere l’anello di passaggio tra il Medio Evo e l’era modea. Ci vorranno quasi due secoli di transizione e di assestamento fragile e complesso prima di entrare nel vortice del secolo d’oro che darà sfogo e splendore all’umanesimo come oscuramento della teocrazia. Il papato, dopo Bonifacio, ridusse sempre di più la propria autorità e la propria sfera d’influenza, con altee vicende, ma inesorabilmente.


Chi volesse approfondire la conoscenza di Bonifacio VIII, anche in rapporto a Dante e Petrarca, al di là delle valutazioni stereotipe e scontate imparate sui banchi di scuola, basate sul giudizio superficiale di Francesco De Sanctis, può ascoltare in mp3 le due conferenze del prof. Enrico Fenzi, tenute, appositamente in vista di questa ricerca, nella chiesa di San Torpete in Genova, con i seguenti titoli e date: 1. «Petrarca alle origini dell’Europa» (08-03-2016) e 2. «Dante e Bonifacio VIII, Religione e potere, ieri e oggi» (22-03-2016), reperibili nel sito www.paolofarinella.eu, cliccando su Blog e poi su Audio, scorrendo la pagina fino al titolo interessato.


L’esilio dei papi: Avignone

A Bonifacio VIII, succedette Benedetto XI che campò solo nove mesi da papa, per cui non lasciò traccia. Alla sua morte il conclave si riunì a Perugia e, dopo undici mesi di trattative serrate (quando si dice che è lo Spirito Santo a eleggere i Papi!), fu eletto il francese Bertrand de Got, col nome di Clemente V. Questi, succube del re di Francia, Filippo IV (detto il Bello), nel 1313 trasferì la sede del papato in Francia, nella cittadina di Carpentras, da cui nel 1316 il suo successore, Giovanni XXII, la trasferì definitivamente ad Avignone. Ebbe inizio così quella che Francesco Petrarca, fine diplomatico e per questo ambasciatore di Firenze ad Avignone, definì «la cattività avignonese», durata 70 anni e contro la quale si schierò, in modo particolare, Santa Caterina da Siena.

Per la cronaca, se Bonifacio VIII aveva trasformato il copricapo papale in «tiara», oandola con due corone regali, simbolo del potere spirituale e terreno, ambedue nelle mani del successore di Pietro per volontà divina. Clemente V, da parte sua, aggiunse le due infule posteriori, cioè le due strisce di stoffa pregiata poste dietro la nuca, cadenti dalla tiara sulle spalle, con l’effetto plastico di trasformare il papa in un faraone fuori tempo massimo.

Dal 1348 al 1353 in Europa imperversò la peste, dovuta al trasferimento della pulce da topo a uomo (Yersinia pistis), che fece in tutto il mondo 100 milioni di morti su un totale di 450. L’Europa si spopolò passando da un totale di 70 milioni di abitanti a 45 (ne morirono il 35,71%). Una delegazione romana, guidata da due delle più importanti famiglie, Colonna e Orsini, si recò ad Avignone per consegnare al papa l’omaggio della città eterna e le insegne cittadine. Nel comitato era presente anche un giovane romano, Cola di Rienzo, che fece impressione al pontefice per il modo formale di trattare, da vero diplomatico, ma anche per i contenuti e le ragioni addotte a favore di Roma.

Tra le richieste al papa vi era anche l’indizione di un Giubileo per il 1350. Clemente VI, che prese tutte le precauzioni del caso riguardo alla peste, si guardò bene dal mettersi in viaggio per ritornare a Roma, ma benevolmente concesse il Giubileo con la bolla «Unigenitus Dei Filius», accompagnandola con una lettera in cui spiegava perché avesse deciso di accorciare l’intervallo tra un giubileo e il successivo, portandone la scadenza da 100 anni a 50 e dilungandosi nella spiegazione del significato delle indulgenze, nel tentativo di giustificarle dal punto di vista teologico.

Nasce la devozione del Volto Santo della Veronica

Il Sacro Volto di Manoppello.
Il Sacro Volto di Manoppello.

Il 2° giubileo della Chiesa, svoltosi nel 1350, non fu inaugurato dal papa, ma da un suo delegato che non attraversò porte sante, ma impose di aprire, nel giorno stabilito, le porte delle chiese di Roma. Dicono le cronache dell’epoca che tra il popolo e i vari quartieri girassero «bolle papali false» per accreditare questa o quella chiesa, come Santa Maria Maggiore o San Lorenzo fuori le mura, che non erano nel circuito delle chiese giubilari. Nel 1349, quasi come un presagio nefasto sulla Chiesa, Roma fu colpita da un terremoto che però non impedì un afflusso di pellegrini tale da far dire a un testimone, il giullare Duccio (Jacobuccio da Ranallo), che vi era ressa «sanza romori o zuffe», quindi devota e ordinata. Come in ogni evento di massa, anche in occasione del giubileo, si mise in moto l’astuzia truffaldina dei romani che ne approfittarono spennando i pellegrini incauti, cui vendevano posti per dormire che avevano già venduto ad altri e gonfiavano i prezzi.

Vi furono pure tentativi di speculazione, anche simoniaca (vendere cose spirituali, sacramenti o assoluzioni in cambio di denaro), tanto che il papa arrivò a fare «assoluto divieto di esigere, chiedere o ricevere, per sé o per un altro, a motivo della confessione, dell’assoluzione o di qualsiasi altro officio, del denaro, anche se offerto spontaneamente, o sotto forma di elemosina o in qualsiasi altro modo» (Mezzadri, 52). Logicamente vi furono contrasti e resistenze che portarono a una dura repressione, con la revoca delle nomine anche a personaggi di rilievo e in alcuni casi arrivando all’arresto. Lo stesso capitolo dei canonici di San Pietro che avevano bisogno di denaro per riparare i danni del terremoto, si opposero al papa fino al punto di assaltare fisicamente «l’altarario» (tesoriere delle offerte lasciate all’altare dai fedeli) della Basilica, Giovanni Castellani, ferendolo gravemente. Da quel momento, per impedire altri episodi di questo genere, il papa emanò un decreto con cui riformò minuziosamente tutta la pratica delle offerte lasciate dai pellegrini e dai fedeli.

Durante giubileo del 1350 iniziò una «tradizione giubilare» che proseguì con enorme successo nei giubilei successivi: l’esposizione del sudario del Santo Volto della Veronica, con l’effige del Signore durante la via crucis. Questa esposizione diventò quasi un «sigillo» giubilare, perché invitò i pellegrini a rispecchiarsi nel volto sofferente di Cristo (cf Dante, Par. 31,108), come magistralmente illustrò Petrarca nel celebre sonetto sedicesimo del Canzoniere dal titolo «Movesi il vecchierel canuto et bianco», dedicato al pellegrino tipo che «viene a Roma, seguendo ‘l desio, / per mirar la sembianza di Colui / ch’ancor lassù nel ciel vedere spera». Una testimone d’eccezione di questo giubileo fu Brigida di Svezia (canonizzata nel 1391, ndr) che giunse a Roma nel 1349 con un numeroso seguito, ricevendo un’immagine negativa della città, e in modo particolare del clero romano. Ella fondò una congregazione religiosa, detta delle Brigidine, con l’obbiettivo di accogliere e dare ospitalità ai pellegrini svedesi giunti a Roma.

Come in ogni evento importante, anche in questo giubileo si crearono le condizioni per fare «figli e figliastri», e, infatti, il papa concesse a sovrani, politici e ordini religiosi il privilegio di lucrare le indulgenze senza doversi mettere in viaggio per Roma, e quindi senza fatica e, cosa più importante, senza rischi di viaggi pericolosi nelle condizioni del tempo. Per tacitare le proteste contrarie, il papa escogitò il sistema dell’indulgenza «ex post»: coloro che non avevano potuto partecipare al pellegrinaggio, potevano averla «a posteriori» con gli stessi effetti di quella ricevuta nella città di Pietro.

Il ritorno del Papa a Roma con papi e antipapi

Tra il 2° e il 3° giubileo, avvenne un fatto determinante per la vita della Chiesa, dietro impulso non solo della popolazione romana, ma particolarmente di Caterina da Siena. Il 13 settembre 1376 papa Gregorio XI attraversò il ponte sul Rodano per tornare a Roma ponendo fine definitivamente alla «cattività avignonese». Da Marsiglia fece scalo a Genova, dove per poco non si pentì, tentato e istigato dai cardinali del sacro collegio che non avevano alcuna intenzione di tornare a Roma, anche a causa delle notizie di disordini che giungevano da quella città e della notizia della sconfitta delle truppe pontificie da parte dei fiorentini. Caterina seppe convincere il papa, rassicurandolo che ritornare nelle sede di Pietro fosse la volontà di Dio che lo avrebbe assistito con certezza e preservato da ogni pericolo.

Alla morte di Gregorio XI, il conclave del 27 marzo del 1378 fu assediato dal popolo romano che gridava: «Romano lo volemo, o almanco italiano». Il collegio dei cardinali, temendo per la propria incolumità, elesse il cardinale Bartolomeo Prignano che prese il nome di Urbano VI. I cardinali francesi, però, il 20 settembre dello stesso anno, ci ripensarono e dichiararono non legittima l’elezione di Urbano. Riunitisi a Fondi, presso Latina, elessero un altro papa col nome di Clemente VII che però, con i cardinali suoi elettori, fu costretto a fuggire ad Avignone, dando origine allo «scisma d’occidente» con due papi. Caterina da Siena si schierò con Urbano VI.

In questo clima giunse il giubileo del 1390 che nell’intenzione di papa Urbano avrebbe dovuto favorire la fine dello scisma e l’unità della Chiesa. Egli introdusse una novità di rilievo: ridusse ancora gli anni che intercorrevano tra un giubileo e l’altro. Con la bolla «Salvator noster unigenitus» (aprile 1389), in memoria degli anni di Cristo Signore, portò il tempo a 33 anni. Partendo, però, dal 2° giubileo del 1350, l’anno computato con il nuovo sistema sarebbe stato il già passato 1383. Il papa, in via eccezionale, concesse che si celebrasse nel 1390, confermando l’inclusione della Basilica di S. Maria Maggiore tra le Basiliche giubilari. Urbano VI non fece in tempo a celebrare il suo giubileo perché morì il 15 ottobre 1389.

Gli succedette Pietro Tomacelli che, assumendo il nome di Bonifacio IX, volle proseguire nella stessa linea del papa del 1° giubileo per affermare l’autorità della Chiesa e la sua totale indipendenza dal regno di Francia. Bonifacio fu l’unico papa che celebrò ben due giubilei: quello indetto dal suo predecessore, nel quale introdusse un’innovazione che avrà successivamente molto successo: la canonizzazione di santa Brigida, la pellegrina del giubileo del 1350, e il «suo», perché egli, smentendo la bolla di Urbano VI che cadenzava i giubilei ogni 33 anni, non volle rinunciare a celebrare quello secolare del 1400.

Questo gesto fu fortemente «politico» perché con esso il papa intese mostrare al mondo intero la pienezza della sua potestà in contrapposizione con l’antipapa avignonese che però non desistette e non intense rinunciare alla sua nomina, per altro discussa. Bonifacio IX, che pure fu accusato di simonia e nepotismo, favorì la nascita e lo sviluppo di molte opere di assistenza per i pellegrini, come l’Ospizio Boemo e quello tedesco di Santa Maria dell’Anima, approvata personalmente dal papa.

Avanti, si entra nella modeità

Con il sec. XIV, come abbiamo già accennato, ci si avviò velocemente all’uscita dal Medio Evo per entrare nell’età modea, il cui apice fu l’umanesimo del sec. XV, detto per questo «secolo d’oro». Dopo meno di cento anni, nel 1492, Colombo sarebbe salpato da Palos in Portogallo, e la scia delle sue tre piccole navi avrebbe formato uno spartiacque straordinario tra «il prima» (medio Evo) e «il dopo» (la modeità) oltrepassando per la prima volta e per sempre i confini dell’Europa che già era entrata in un lungo processo di transizione e di secolarizzazione. Quasi a fare da contraltare, come avviene sempre nei tempi di passaggio e d’instabilità, in genere tra un secolo e un altro e, a maggior ragione, tra un millennio e un altro, si realizzarono due eventi: da una parte la Chiesa assunse una struttura «statale» nel tentativo di gestire il nuovo che avanzava con velocità impressionante, e dall’altra si formarono gruppi devozionali e penitenziali spontanei, non rassegnati a cedere il passato, la cui fine veniva interpretata, in chiave millenaristica, come fine del mondo.

Nacquero «i penitenti flagellanti» che si diffusero come il vento per l’esigenza di una profonda purificazione presente tra il popolo cristiano e avvertita anche da qualche membro della gerarchia. Nel 1399, alla vigilia del nuovo giubileo secolare del 1400, un gruppo di flagellanti partì da Genova col nome di «Bianchi», perché vestivano una tunica di quel colore, pellegrinando verso Roma per il perdono dei peccati. Si diffusero in Toscana, in Umbria e nel Lazio, riscuotendo enorme successo.

Il giubileo del 1400, segnando il passaggio tra due secoli e la transizione tra due mondi, dal Medio Evo all’Età Modea con tutto quello che comportava d’insicurezza e di trapasso culturale, assunse i contorni del «millenarismo» che esprime sempre connotazioni apocalittiche, accettati dalle nuove confrateite come caratteristiche proprie. La corsa alla penitenza e alle indulgenze era assicurata. Lo stesso Bonifacio IX fu molto impressionato dalla devozione dei flagellanti e – si dice – anche dai miracoli che accompagnavano il loro passaggio, tanto da partecipare personalmente ad alcune loro manifestazioni.

Come si evince da queste notizie molto approssimative e frammentarie, con il 1400 il giubileo diventò «un’altra cosa» da quelli descritti nella Bibbia. Si perse del tutto lo spirito e la prospettiva biblica, mai per altro realizzati anche presso gli Ebrei, e prese forma una celebrazione nemmeno evocativa di qualche evento, ma divenne una celebrazione programmatica funzionale al momento storico o all’ideologia, non tanto del papato in sé, quanto di ciascun papa che si serviva dell’evento per rafforzare se stesso e la propria visione di «potestas».

Paolo Farinella, prete
[Storia del Giubileo-9, continua].




Storia del Giubileo 8. Il giubileo snaturato

Messaggio giubilare per oggi

È chiaro che il Giubileo, com’è descritto nella Bibbia, non ha più senso se preso alla lettera, ma diventa un eccezionale strumento di fede e di vita se si cala nella condizione del tempo di oggi, sia nella dimensione dello spazio (terra) sia in quella del tempo (relazioni). Esso, infatti, non è l’occasione per una conversione morale intimistica, basata sull’accumulo di qualche «chilogrammo d’indulgenze» da riscuotere alla cassa della fine-vita, ma il «kairòs – occasione propizia» per prendere coscienza definitiva della responsabilità che abbiamo sia sul versante della distruzione annunciata della terra sia sul versante delle relazioni umane con l’estensione della povertà a livello planetario per colpa di processi economici e sociali perversi, cioè senza Dio, perciò disumani.

Non è un caso che a ridosso del Giubileo della Misericordia, papa Francesco abbia voluto pubblicare l’enciclica «Laudato si’» sull’urgenza di salvare la Madre Terra, la «casa comune», mai come adesso in pericolo per le scelte scellerate di progresso aggressivo e omicida che il capitalismo di mercato o di stato ha sviluppato perseguendo solo il profitto di pochi a danno del benessere di molti.

Il Giubileo esige in primo luogo un esame di coscienza profondo e radicale, poi una conoscenza di tutte le responsabilità individuali e collettive degli stili di vita che generano morte o distruzione, infine il proposito di convertirsi con azioni operative di segno opposto. Non basta recitare qualche preghiera per tranquillizzarsi la coscienza, è necessario sentire e scegliere di stare dalla parte di Dio che, per conto suo, sta sempre dalla parte di chi è più fragile ed emarginato.

Oggi sarebbe più che mai opportuno che almeno la Chiesa proponesse il condono dei debiti dei paesi poveri da parte dei paesi ricchi che continuano a dilapidare ciò che non producono, ciò che non hanno. Occorrerebbe dichiarare forte la necessità di restituire la libertà a tutti i prigionieri per idee, religione, politica. Nessuno dovrebbe essere imprigionato per le proprie idee. Entrare dalla porta della Misericordia comporta un cammino da un modo di essere a un altro, passare da uno stato di autosufficienza (peccato di Àdam ed Eva) e di potere, a una volontà di scegliere «il bene comune» come orizzonte per le scelte in economia, in politica, nel sociale, nella vita di tutti i giorni, nelle piccole scelte come fare la spesa, usare l’automobile, evadere le tasse che sono condivisione della vita della comunità civile e così via.

Celebrare il Giubileo è la ripresa dell’invito di Gesù alla «conversione», in Mc 1,15 espresso con il verbo «metanoèite» che ha il significato profondo di «metànoia – cambiamento-di-pensiero». Graficamente si raffigura come un’inversione a U. Chi accetta di lasciarsi «convertire» mette in discussione il proprio «modo di pensare», cioè il nucleo più intimo di sé che presiede la coscienza e il comportamento. La conversione, infatti, non riguarda gli atteggiamenti o i comportamenti esteriori, ma il centro vitale e decisionale della persona, che la Bibbia chiama cuore, e noi coscienza: il fulcro da cui nascono le scelte di vita e i comportamenti

Convertirsi vuol dire modificare i criteri del pensiero per mettere in movimento un processo di relazione, descritto, sempre in Mc 1,15, con il termine: «pistèuete en t? euanghelì? – credete nel vangelo», dove «Vangelo» è sinonimo della persona di Cristo Gesù (cf Mc 1,1). Convertirsi e credere sono i due momenti dello stesso dono che sperimentiamo nella vita: entrare in comunione con Dio insieme a tutti i fratelli e le sorelle. Sia la conversione sia la fede non provengono dalla carne e dal sangue (cf Gv 1,13), ma dallo Spirito Santo che suscita in noi il desiderio di Dio e il modo di arrivarci. In questo senso, il Giubileo è non più il ristabilimento della proprietà della terra, ma del «principio» fondatore del nostro essere figli di Dio, sua immagine e somiglianza; ritornare al progetto iniziale di Dio che ha come mèta il suo regno, cioè un nuovo modo di relazionarsi lungo la storia per rigenerare una nuova umanità di uguali che viva in armonia con tutti e con Dio, specialmente con i poveri che sono i «beati» della nuova storia.

8. Il Giubileo snaturato

La prova di forza di Bonifacio VIII

Dedichiamo le terzultima e penultima puntata ad alcune pennellate sulla storia dei Giubilei «cristiani-cattolici» che non hanno niente in comune con l’idea del Giubileo biblico. Riserveremo l’ultima all’attualità cui ci richiama papa Francesco che ha indetto un anno straordinario nella cifra della «Misericordia» per celebrare i cinquant’anni della chiusura del concilio ecumenico Vaticano II. In questo modo il papa ha modificato la natura stessa del Giubileo, ma pochi se ne sono accorti.

Dalle crociate

Con l’avvento del Cristianesimo, cala il sipario sul Giubileo, non solo come cadenza periodica, ma anche come ideale. Dalla diaspora degli Ebrei dalla Palestina verso il mondo e dalla dispersione dei Cristiani nel mondo allora conosciuto, fino a Roma, divenuta il nuovo centro della nuova religione, bisogna aspettare il 1300 per sentire di nuovo la parola «Giubileo». Dodici secoli di silenzio non sono innocui e, infatti, quando Bonifacio VIII (Papa Benedetto Caetani) indice il primo Giubileo del II millennio cristiano, non c’è più alcun rapporto né con la Bibbia né con la tradizione giudaica.

Prima del giubileo del 1300 che apre la serie degli «Anni Santi», vi erano state alcune premesse significative, che accenniamo in poche battute. Nell’anno 1033, primo millennio della redenzione, si diffuse nel mondo cristiano la convinzione che, una volta completata la ricostruzione del Santo Sepolcro di Gerusalemme, verso cui si indirizzavano sempre più folle di pellegrini certe che la vicinanza al luogo supremo della cristianità avrebbe accordato la salvezza eterna, ci sarebbe stata la fine del mondo.

Papa Urbano II, da Avignone, nel 1095 bandì il primo pellegrinaggio armato, la «crociata», sia per proteggere i pellegrini verso Gerusalemme, sia per la riconquista del Sepolcro di Cristo, da circa venti anni caduto nelle mani dei Musulmani. La prima crociata, detta anche «dei Pezzenti» (1096), fu un totale fallimento. Già da quarant’anni (1054) si era consumato lo scisma d’Oriente con la scomunica di Papa Gregorio VII contro l’imperatore Bizantino Niceforo III e il Patriarca di Costantinopoli, Cerulario.

Il viaggio in «terra santa» diventò il pellegrinaggio per antonomasia per cui si misero per strada orde di delinquenti, assassini, ladri e falliti con il miraggio del «perdono totale», una volta giunti a toccare il Santo Sepolcro. Tutti furono invitati a partecipare «spontaneamente» alle crociate, liberando per un verso l’occidente della loro presenza, ma ponendo le premesse della violenza, del saccheggio, degli stupri e di ogni malefatta di cui le crociate furono portatrici. Il riformatore del monachesimo occidentale, Beardo di Chiaravalle (1090-1153), riteneva tranquillamente che la seconda crociata (1147-1149) fosse un «annus remissionis» e addirittura «annus vere jubilaeus», espressioni che lo stesso Papa Onorio III avrebbe poi fatte sue per la V e la VI crociata che sarebbero restate solo un pio desiderio.

… alla «Perdonanza»

Nel 1216 Papa Onorio III concesse un’indulgenza plenaria a Francesco di Assisi per tutti i fedeli che si fossero recati alla Porziuncola di Assisi il 2 agosto, equiparandola così a un pellegrinaggio capace di «lucrare» lo stesso beneficio (indulgenza plenaria) di chi partiva per la crociata, quasi a identificare la Porziuncola come una nuova Gerusalemme: «ad instar Sancti Sepulchri – a somiglianza del Santo Sepolcro». Lo stesso Onorio III nel 1220, nel cinquantesimo anniversario del martirio di Tommaso Becket (+ 29 dicembre 1170 a Canterbury), concesse l’indulgenza plenaria a quanti si recavano alla tomba del santo.

Circa settant’anni più tardi, Papa Celestino V (Pietro da Morrone), uomo spirituale e non avvezzo alle trame di palazzo e al mercato delle cose religiose, aveva avuto l’intuizione della «Perdonanza» con cui accordava la remissione dei peccati a tutti coloro che tra la sera del 28 e quella del 29 agosto di ogni anno (anniversario della sua elezione a papa) fossero entrati nella basilica di Santa Maria di Collemaggio a L’Aquila, dove il Papa era stato incoronato e dove aveva fissato la propria residenza per essere lontano dalla curia di Roma, che egli giudicava luogo di perdizione.

Celestino, eletto nel 1294 dai cardinali che non riuscivano a trovare un compromesso tra le varie fazioni del patriziato romano, dopo appena quattro mesi, rassegnò le dimissioni, fuggendo verso Napoli e la Grecia, ma fu intercettato e fatto prigioniero dal suo successore (Caetani – Bonifacio VIII) che ne temeva i contraccolpi. Nel 1296 fu trovato morto nella sua cella, con grande sollievo di papa Caetani che così si liberò di una presenza ingombrante.

La novità della «Perdonanza» celestina consisteva nel fatto che fu concessa a tutti senza alcuna distinzione, purché fossero «veramente pentiti e confessati». In un tempo in cui spesso anche il perdono dei peccati e i riti religiosi erano oggetto di mercimonio e di tassazione in denaro, il gesto di Celestino fu rivoluzionario sul piano spirituale e il popolo, che comprese immediatamente, rispose. La «Perdonanza» celestina, ancora oggi, si pone al di fuori dei Giubilei «storici» sia per metodo che per contenuto, ma non può essere taciuta perché forse tra tutti, fino al Giubileo di Papa Paolo VI del 1975 (dopo ben sette secoli), fu l’unica che si pose un obiettivo esclusivamente spirituale e religioso senza altri fini di qualsiasi natura, specialmente di lucro.

Trenta Giubilei

Nella storia della Chiesa, dal 1300, giubileo di Papa Bonifacio VIII, fino al 2016, «Anno Santo della Misericordia» di Papa Francesco, si sono svolti trenta Giubilei, divisi in ordinari e straordinari. Papa Bonifacio VIII stabilì che il Giubileo fosse celebrato ogni 100 anni. Poi ci si accorse che un secolo era troppo e lo si portò a 50 anni, infine lo si ridusse a 25. Ecccone l’elenco cronologico come presentato da Alberto Melloni, Il Giubileo, una storia,
Editori Laterza, Roma-Bari 2015, 137-138.

1300  Bonifacio VIII (Benedetto Caetani)

1350  Clemente VI (Pierre Roger)

1390  indetto da Urbano VI (Bartolomeo Prignano),

aperto da Bonifacio IX (Pietro Tomacelli)

1400  Bonifacio IX (Pietro Tomacelli)

1423  Martino V (Oddone Colonna)

1450  Niccolò Quinto (Tommaso Parentucelli)

1475  indetto da Paolo II (Pietro Barbo), e aperto da Sisto IV (Francesco della Rovere)

1500  Alessandro VI (Rodrigo Borgia)

1525  Clemente VII (Giulio de’ Medici)

1550  indetto da Paolo III (Alessandro Faese, e aperto da Giulio III (Giovanni M. Ciocchi Dal Monte)

1575  Gregorio XIII (Ugo Boncompagni)

1600  Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini)

1625  Urbano VIII (Maffeo Barberini)

1650  Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphili)

1675  Clemente X (Emilio Altieri)

1700  aperto da Innocenzo XII (Antonio Pignatelli), e concluso da Clemente XI (Giovanni F. Albani)

1725  Benedetto XIII (Pietro Francesco Orsini)

1750  Benedetto XIV (Prospero Lambertini)

1775  indetto da Clemente XIV (Gian Vincenzo Antonio Ganganelli), e aperto da Pio VI (Giovanni Angelo Braschi)

1825  Leone XII (Annibale Clemente Sermattei della Genga)

1875  Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti)

1900  Leone XIII (Gioacchino Pecci)

1925  Pio XI (Achille Ratti)

1933  Pio XI (Achille Ratti): anno santo della redenzione

1950  Pio XII (Eugenio Pacelli)

1966  Paolo VI (Giovanni Battista Montini): anno santo per la chiusura del concilio

1975  Paolo VI (Giovanni Battista Montini)

1983  Giovanni Paolo II (Karol Wojty?a): anno santo della redenzione

2000  Giovanni Paolo II (Karol Wojty?a)

2015-16 Francesco (Jorge Mario Bergoglio): anno santo della misericordia nel 50° del concilio.

L’invenzione del giubileo

Il vero inventore del Giubileo nella storia della Chiesa fu Bonifacio VIII, anche se in un primo momento fu riluttante fino al punto di tentare di abolire le concessioni date dai predecessori Onorio a Francesco e Celestino V alla cattedrale di Collemaggio (L’Aquila), ma senza riuscirci. Egli si dovette rassegnare all’uso ormai invalso e, da fine politico, lo trasformò in strumento prezioso per affermare il suo potere sia sul piano interno della Chiesa, sia su quello prettamente politico internazionale.

Eletto il 24 dicembre 1294 e insediatosi il 23 gennaio del 1295 emanò subito una bolla pontificia con cui concesse l’indulgenza plenaria ai crociati che partivano, ai francescani che andavano in missione presso i Tartari, e a chiunque si fosse armato per combattere i Siciliani di Carlo d’Angiò e la famiglia dei Colonna che osavano mettere in discussione la legittimità della sua elezione. In cambio, si poteva commutare l’indulgenza con 300 libbre di toesi (moneta d’argento, ufficiale nella Francia di Filippo IV il Bello e nella Sicilia dei d’Angiò).

Con la pubblicazione della bolla «Unam Sanctam», il papa affermò in modo solenne la superiorità del suo potere su quello di qualsiasi principe e imperatore in base al principio che lo spirituale è superiore al materiale. Uno degli strumenti usati a questo scopo, fu appunto il giubileo del 1300.

Avendo visto che il popolo romano, al compimento del secolo, spontaneamente si ammassava in san Pietro e nelle altre basiliche perché convinto che nell’anno «centesimo» (il 1300) vi fosse automaticamente la remissione dei peccati, Bonifacio VIII il 16 febbraio 1300 (quasi due mesi dopo l’inizio del nuovo secolo) indisse un giubileo con valore retroattivo, a partire dal 25 dicembre del 1299 ed esteso fino alla Pasqua successiva. La remissione fu concessa a tutti coloro che, pur avendone avuta l’intenzione, non erano potuti arrivare a Roma o erano morti lungo il viaggio. Per dare più importanza al documento, fece modificare la data d’indizione, portandola al 22 febbraio, ricorrenza della memoria della «Cattedra di san Pietro», sottolineando così l’autorità papale assoluta e indiscussa.

Per l’occasione il papa fece organizzare una processione che attraversò Roma con una fila interminabile di preti, vescovi e cardinali che lo precedevano. Il papa, assiso su un cavallo bianco, le cui briglie erano tenute da due chierici. Davanti a loro, due palafrenieri portavano su cuscino rosso, una spada e una tiara bipartita, simboli dell’unione del potere temporale e di quello spirituale. In questo modo il papa intendeva dire al mondo e specialmente a Filippo IV di Francia chi era il capo indiscusso. Il successo del Giubileo fu così grande che lo stesso Bonifacio VIII stabilì che ogni cento anni se ne celebrasse uno.

La questione delle indulgenze fu affrontata dal punto di vista teologico, attraverso una ricerca storica, arrivando alla conclusione che esse sono fondate sui meriti di Gesù Cristo, morto e risorto; questo tesoro prezioso, affidato all’amministrazione della Chiesa, è concesso dal papa, la massima autorità in terra. Vedremo nell’ultima puntata come papa Francesco ribalta questa concezione, non solo non parlando mai d’indulgenze nel senso tradizionale del termine, ma sempre di «indulgenza di Dio», mai di «Giubileo», ma di «Anno della Misericordia», concetti apparentemente simili, ma profondamente differenti dal punto di vista teologico.

Se Bonifacio VIII, quando, spinto dalla pietà popolare, si rese conto della forza del Giubileo, se ne servi come strumento politico nella geografia mondiale del potere del suo tempo, papa Francesco oggi afferma solo il primato di Dio e la sua natura di «Padre a perdere» che non si dà pace finché anche uno solo dei suoi figli resta fuori dal suo affetto e dal suo amore. Non si tratta di riscuotere «buoni» per la salvezza a buon mercato, ma favorire l’incontro con Dio attraverso l’unica via possibile che è la persona fisica di Gesù, venuto non solo a «fare l’esegeta del Padre» (Gv 1,18), ma anche a «cercare ciò che era perduto» (Lc 19,10) perché «questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39).

 Paolo Farinella, prete,
(8, continua)




Storia del Giubileo 7. Il giubileo biblico incompiuto


Nel libro del Levitico si prescrive una contraddizione: da una parte il giubileo deve farsi ogni 49 anni e dall’altra, si dice di celebrarlo ogni 50.

«8Conterai sette settimane di anni, cioè sette volte sette anni; queste sette settimane di anni faranno un periodo di quarantanove anni. 10Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi toerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. 11Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. 12Poiché è un giubileo: esso sarà per voi santo; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi» (Lv 25,10-12).

Queste espressioni sono la spia non solo di tradizioni diverse confluite nella redazione finale del testo giunto fino a noi, ma anche la prova della praticità della religione ebraica. In tutte e due le versioni, comunque, si afferma l’idealità teorica, non la concretezza storica del Giubileo perché dal sec. V a.C. al tempo di Gesù, cioè durante tutto il periodo del secondo tempio, ricostruito da Esdra e Neemia, il giubileo non fu mai praticato, come abbiamo già visto. Lo stesso capitolo 25 del libro del Levitico, pochi versetti prima, imponeva il riposo sabbatico per la terra ogni sette anni:

«2Quando entrerete nella terra che io vi do, la terra farà il riposo del sabato in onore del Signore: 3per sei anni seminerai il tuo campo e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti; 4ma il settimo anno sarà come sabato, un riposo assoluto per la terra, un sabato in onore del Signore. Non seminerai il tuo campo, non poterai la tua vigna. 5Non mieterai quello che nascerà spontaneamente dopo la tua mietitura e non vendemmierai l’uva della vigna che non avrai potata; sarà un anno di completo riposo per la terra» (Lv 25,2-5).

Se questa è la dimensione in cui bisogna muoversi, bisogna convenire che ogni «sette settimane di anni», cioè ogni quarantanove anni venivano a coincidere sia il riposo sabbatico (settennale) sia il giubileo (cinquantesimo), per cui sarebbe stato obbligatorio che la terra restasse incolta per due anni di seguito. Questa realtà era talmente presente e preoccupante che Alessandro Magno prima e Giulio Cesare poi esentarono gli Ebrei dal pagare le tasse negli anni giubilari; l’esenzione fu abolita nel sec. II d.C. dall’imperatore Adriano (117-138 d.C.) che odiava il popolo ebraico.

Dopo la seconda rivolta palestinese capeggiata da «Bar Kokba – figlio della stella», che molti identificarono come il Messia, l’imperatore Adriano nel 135 comminò l’espulsione definitiva degli Ebrei non solo da Gerusalemme, ma da tutta la Palestina, dando inizio alla transumanza perenne che fu il marchio d’infamia del popolo eletto. Scelto per possedere una terra «promessa», divenne il popolo senza terra, in balia di chiunque, reietti da tutti, fino ad arrivare all’apice dell’abiezione che fu l’orrore della «Shoàh». La quale non arrivò all’improvviso come un fulmine estivo, ma fu la logica conseguenza, preparata da venti secoli di emarginazione, persecuzione e disprezzo, alimentati teologicamente dalla Chiesa che ne aveva fatto un punto nevralgico della propria catechesi ordinaria fino all’arrivo del papa profeta, Giovanni XXIII, che volle modificare il Messale della liturgia, facendo togliere dalla preghiera del Venerdì Santo l’intercessione «pro pèrfidis Iudèis».

Se la terra è di Dio, nessuno è proprietario

Lo scopo di tutte queste prescrizioni dettagliate, oseremmo dire pignole, non è quello di creare un «istituto giuridico periodico», ma di sviluppare una teologia per la formazione del popolo: il concetto affermato dal Giubileo è che la terra, tutta la terra, è di Dio e l’uomo non ne può mai essere il proprietario, ma solo l’usufruttuario. In questo modo si svuotava di senso l’idea di «proprietà privata». Un esempio chiarirà meglio: se una donna era sposata a un uomo di una tribù diversa, l’eventuale eredità di una terra non poteva passare nella disponibilità proprietaria del marito, perché la terra doveva restare nella tribù di appartenenza. Per questo motivo si tentava di sposarsi solo tra membri delle rispettive tribù, o addirittura all’interno della stessa cerchia parentale con enormi problemi sul piano delle malattie ereditarie. In questo modo si affermava che solo Dio è il creatore e l’uomo, a cominciare da Àdam ed Eva, è perennemente ospite provvisorio della terra:

«Mia infatti è tutta la terra … al Signore, tuo Dio, appartengono i cieli, i cieli dei cieli, la terra e quanto essa contiene … Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti» (Es 19,5; Dt 10,14; Lv 25,23).

Questa teologia è sviluppata nel libro di Giobbe, scritto nel dopo l’esilio, in cui si narra di un israelita cui Dio ha tolto tutto. Il pio Giobbe formula il principio dei riformatori e cioè che nessuno è proprietario di nulla in questo mondo: «Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritoerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!» (Gb 1,10). Si è fatto passare questo povero Giobbe come l’uomo della pazienza, svilendo così il senso del libro, di grande portata sociale e religiosa: la relativizzazione della proprietà privata.

Siamo forestieri e ospiti, non proprietari o, peggio, dominatori, ritornando così «al principio» di Genesi, quando Dio «pose Àdam nel giardino di Eden perché gli ubbidisse e lo ascoltasse» (Gen 1,15, testo ebraico): l’uomo è al servizio della terra, come se questa fosse sua figlia. Non ci troviamo davanti a una norma civile, ma di fronte a una professione di fede che deve stabilire il rapporto dell’uomo con il creato e la sudditanza del primo al secondo, non il contrario. È ciò che afferma Papa Francesco nell’enciclica «Laudato si’» con un grido di allerta all’umanità tutta, alla politica, all’economia perché tornino alla coscienza del «principio» e si aprano alla consapevolezza del limite che è il contrario del delirio di onnipotenza che sta devastando tutto il creato.

Dio creatore aveva dato consistenza al creato e all’umanità in sette giorni, simbolici della totalità della perfezione. Ora l’Ebreo deve contare il tempo di sette anni in sette anni, poi in sette settimane di anni «perché mia è la terra», simboleggiando così che lo scorrere della storia è guidato da Dio. In questo modo si stabilisce un rapporto molto stretto tra Dio e il tempo: se il tempo della vita che dipende dal nutrimento della terra è scandito da Dio, si afferma l’antropologia teologica che l’uomo non è Dio e quindi non può pretendere di essere «onnipotente» come fece Àdam che, infatti, trasformò il giardino di Eden in un inferno di spine e sofferenze.

Il Giubileo tutela i poveri senza riuscirvi

Come abbiamo visto nelle puntate 5a e 6a, la differenza tra Anno Sabbatico e Giubileo era questa: nel primo era prescritto il condono dei debiti di qualsiasi natura e la restituzione della libertà agli schiavi; col secondo si doveva, teoricamente, rientrare in possesso della terra data in pegno per qualsiasi motivo, affinché si potesse ricostituire il patrimonio preesistente e quindi ristabilire l’assetto proprietario tra le tribù: ciò valeva solo nelle campagne, ma non nelle città, dove il principio non poteva essere applicato alle abitazioni.

Comunque sia, la pratica ha fatto sì che gli ideali dell’Anno Sabbatico (condono) e del Giubileo (proprietà) fossero in un certo senso intercambiabili, considerata la loro natura di fondamento per una maggiore equità sociale e comunitaria che si attribuiva direttamente alla volontà di Dio. In altri termini più modei, si direbbe una più equa distribuzione della ricchezza e l’affermazione solenne dell’uguaglianza di tutti davanti a Dio.

Dal Giubileo è estranea ogni idea d’indulgenza, concetto assente nella Bibbia, e qualsiasi pratica di pellegrinaggio come spostamento verso un luogo privilegiato perché Giubileo e Anno Sabbatico si compiono dovunque vi sono due Ebrei in relazione tra loro. Il pellegrinaggio, invece, ha preso il sopravvento nel Cristianesimo, e successivamente nel Islam, con il viaggio a Gerusalemme per Cristiani e Musulmani, poi trasferito dal sultano alla Mecca per quest’ultimi. Gli Ebrei non hanno il senso del pellegrinaggio come visita, ma l’idea del ritorno annuale a Gerusalemme, come simbolo escatologico della ricostruzione del popolo d’Israele attorno al tempio del Signore ricostruito e quindi come fine dell’esilio e della diaspora. Ancora oggi, la sera di Pasqua, gli Ebrei, ovunque sono nel mondo, concludono la cena, con un sospiro di desiderio che si fa preghiera e anche augurio: «Hashanàh haba’à beYerushallàyim – l’anno prossimo a Gerusalemme», auspicando la ricostruzione del tempio e la ricomposizione di Israele come popolo di Dio nell’unica terra che è la terra d’Israele, terra di Dio.

Durante il Giubileo, dunque, si doveva fare riposare la terra: non si doveva seminare, né potare o vendemmiare la vigna; i frutti dovevano restare sugli alberi e sulla vite; chi aveva riserve in cantina, poteva usarle fino a che gli stessi frutti restavano naturalmente sull’albero, ma quando cessava la stagione, dovevano essere distrutte anche le riserve nei depositi, che di solito erano appannaggio dei ricchi. Con ciò si affermava la parità assoluta tra ricchi e poveri e si ristabiliva un criterio di giustizia che metteva un freno alle prevaricazioni.

Nell’anno del Giubileo, infine, non si doveva pretendere la restituzione del debito. Quest’ultima norma ha avuto effetti micidiali, perché, all’approssimarsi del Giubileo, nessuno faceva più prestiti ai poveri con la conseguenza di aumentare la povertà, vanificando così il dettato divino, anzi capovolgendolo. Alla luce di questa tragica situazione, alcuni anni prima di Gesù, il grande rabbì Hillèl, di cui fu discepolo l’apostolo Paolo di Tarso, stabilì la norma che i debiti fossero trasferiti al tribunale che ne garantiva il riscatto, venendo in aiuto ai poveri. Si potrebbe dire che, come in tutte le culture e in tutti i tempi, fatta la legge, si è trovato l’inganno.

Ritrovare il senso del tempo e dello spazio

Da un punto di vista teologico, poiché il Giubileo riguardava un determinato periodo di anni in relazione a un determinato territorio fisico, è coerente pensare che esso sia il primo germe di una Teologia della Storia perché pone al centro della riflessione due elementi costitutivi della fede cristiana: il tempo e lo spazio, cioè l’ambito «umano» in cui si svolge l’esperienza dell’alleanza e quindi si vive la salvezza  (in campo cattolico, indichiamo a modo di esempio solo due autori: H. Urs Von Balthasar, Teologia della storia. Abbozzo, Morcelliana, Brescia 1969; W. Kasper, Fede e storia, Queriniana, Brescia 1985).

Il tempo biblico non è la ruota ciclica (O) dei Greci che s’identifica con il destino, in quale si attua indipendentemente dalla volontà dell’individuo che soggiace al volere degli dèi. Non è nemmeno la linea retta (?) dei Romani che avanzano senza mai fermarsi come una legione a testuggine, verso un progresso senza limiti. Il tempo biblico è la sintesi del cerchio greco e della retta romana che si trasforma in una spirale, cioè non un semplice ritorno (Greci) né un inesorabile progresso lineare (Romani), ma una ripresa costante di ciò che precede, amalgamato con quello che segue, salendo di un gradino verso l’alto: la spirale appunto, un cerchio aperto che procede in avanti perché sale.

Questa immagine ridefinisce il concetto di tempo che non è più una dimensione cronologica (una cosa dopo l’altra), cioè una successione anonima di fatti che capitano per essere subìti in una rassegnazione sistematica. La spirale porta in sé l’idea di una circolarità arricchita da occasioni coscienti, messe in atto dagli eventi, ma specialmente dalle persone, capaci di dare una svolta all’anonimato, e quindi anche di cambiare il senso e la direzione della storia. È il concetto di «kairòs – occasione» che mette in evidenza l’aspetto di qualità del tempo. Vi sono fatti indifferenti e fatti che cambiano il corso della storia. È questo il caso dell’Anno santo della Misericordia di Papa Francesco.

In altre parole l’uomo biblico non subisce meccanicamente il susseguirsi della cronologia, ma con le sue scelte può influire, nel bene e nel male, inducendo la storia ad andare in una direzione o in un’altra. È il concetto di responsabilità che si richiama direttamente alla coscienza. In rapporto a Dio, il tempo dell’uomo diventa «liturgico», in quanto «regalato» al rapporto con il divino attraverso riti e atti stabiliti da un protocollo (rituale). Ciò esige per sua natura anche la riserva di uno spazio dove il tempo celebrato possa trovare espressione e dimensione: nascono il tempio, i santuari, le chiese, le moschee come simboli della sintesi tra tempo e spazio.

L’uomo tende a sacralizzare perché nel consacrare o nel separare ambiti (spazio) e dimensioni (tempo), definendoli «sacri» in quanto distinti dal «profano», trova una garanzia e una sicurezza garantita dalla ripetitività dei gesti, delle liturgie e delle parole (rubriche) che offrono un certo grado di inamovibilità e perennità, quasi a volere lambire così il mondo di Dio. Per questo, nella vita di ciascuno si individuano cinque tappe «storiche» da consacrare come appuntamenti quasi «giubilari»: la nascita (battesimo), la crescita (cresima), la fecondità (matrimonio), la sofferenza (unzione infermi), la morte (esequie).

Paolo Farinella, prete
(7, continua)