Insegnaci a pregare 9: Pregare, un collirio per la vista del cuore


Prima della riforma liturgica del Concilio ecumenico Vaticano II, valeva su tutto la «forma rituale»: non si parlava di «liturgia», ma di «sacre cerimonie», istituzionalizzate al punto da essere una materia obbligatoria di studio nella formazione dei preti, che dovevano studiare le «Rubriche» che contenevano le norme esatte per eseguire scrupolosamente i gesti, i movimenti e i tempi del rito (vedi «Rubrica»), e, come un galateo, regolamentavano tutto. Un’altra materia di studio era la «Sacra eloquenza» con cui s’insegnava al futuro predicatore l’arte dell’oratoria, mentre l’esegesi era relegata tra le materie minori. Nel messale tridentino (ultima edizione del 1962) all’inizio dell’offertorio vi era una pagina con un disegno dell’altare con le parti numerate e due schemi (a forma di croce e di cerchio) che insegnavano come incensare l’altare.

Dal rito alla Liturgia

Si giunse persino all’assurdo di considerare la validità della Messa a partire «dall’offertorio» in poi. Si poteva andare comodi in chiesa, «tanto la Messa è valida dall’offertorio», dispensandosi quindi completamente dalla già ridotta liturgia della Parola, dall’atto penitenziale e dal salmo d’introito, considerati accessori. La stessa Parola di Dio era pleonastica. Ciò che importava era la misteriosità della formula della consacrazione, l’atto magico per eccellenza di un rito anonimo cui era sufficiente «assistere» come ad un teatro per altro incomprensibile (v. 2a puntata). Al momento della consacrazione, il prete prendeva l’ostia, si chinava su di essa coprendola con tutto se stesso e sussurrava le parole latine sil-la-ban-do-le scrupolosamente e soffiandole (letteralmente) sul pane e poi sul calice. Durante la grande «preghiera» della Chiesa ognuno poteva fare quello che voleva: pregare per conto suo, sgranare il rosario, dormire e annoiarsi, oppure confessarsi. La Messa, che era affare privato del prete, era valida lo stesso perché era importante «soddisfare il precetto», cioè essere fisicamente presenti.

Rubrica e Precetto

a. Il termine «rubrica» deriva dall’aggettivo latino «rúber, rúbra, rúbrum» che significa «rosso». Ciò è dovuto al fatto che nei codici antichi di Messali e Corali (e anche oggi nelle edizioni ufficiali), le indicazioni delle modalità di preghiera (seduti, in piedi, braccia elevate, in ginocchio, voce alta, sottovoce, ecc.) erano scritte più piccole e in rosso per distinguerle dal testo scritto di norma in nero.

b. In ogni chiesa e parrocchia, la domenica, si celebravano le messe a ogni ora, al fine di dare a tutti la possibilità di «soddisfare il precetto», e per semplificare le cose si predisponevano le confessioni «durante la Messa», finendo per non fare bene né l’una né l’altra. In questo modo si privilegiava solo la comunione cui si poteva accostare «purché confessati», finendo così per ridurre il «sacramento della Confessione» a mera preparazione al ricevere la comunione nella Messa.

Aneddoto

Negli anni del pre-concilio, la questione della validità della Messa era diventata un’ossessione: bisognava essere in chiesa esattamente da quel momento «preciso», non un pelo di più non uno di meno, segno che ormai il legalismo aveva raggiunto le fibre profonde, corrompendo il cuore. A Genova, in una parrocchia della città alta, forse perché stanco di dovere richiamare «all’obbligo», vi fu un parroco che ebbe la stravagante idea di sistemare due semafori – sì, due semafori! – alla porta della chiesa, uno verde e uno rosso, comandati dall’altare. Quando iniziava la Messa, il celebrante pigiava il pulsante verde per avvertire che la Messa era iniziata e si poteva ancora entrare. Al momento dell’«offertorio», un attimo prima dello svelamento del calice, attendeva ancora qualche secondo e poi «zac!», pigiava il pulsante rosso. Da quel momento la Messa non era più valida. Eventuali ritardatari, erano fuori tempo massimo e dovevano andare a cercarsi un’altra messa per «soddisfare il precetto». Si poteva fare a meno della Parola di Dio, ma non del rituale, centrato tutto sul concetto di sacrificio.


In questo contesto pregare non era più rapporto di vita, ma una sudditanza di paura, un pedaggio da assolvere, un obbligo dovuto: si offrivano a Dio una serie di gesti rituali (e formali), nemmeno «ben fatti», in cambio della sua benevolenza. Il campanello suonato due volte dal chierichetto aveva la funzione pedagogica di ricordare alla massa anonima presente passivamente che il prete era giunto a metà Messa (1° campanello) o alla comunione, cioè quasi alla fine (2° campanello). Del tutto assente la preghiera corale della Chiesa. Come meravigliarsi della secolarizzazione dei decenni successivi che spazzò questa parvenza di religiosità in un batter d’occhi come pula dispersa dal vento? Eppure oggi sono in crescita gli adoratori di quel tempo che fu. Ciò che importava era la presenza «fisica» per il tempo necessario dell’obbligo o, come si diceva, del precetto, in attesa… che tutto finisse al più presto per riprendere la vita profana, lontano da Dio e… dai preti.

Dio è un idolo?

Spesso, nella concezione della preghiera ridotta esclusivamente a richiesta, riduciamo Dio a un «tappabuchi», per usare una magistrale definizione del grande teologo luterano Dietrich Bonhöffer (Resistenza e resa: lettere e appunti dal carcere, Bompiani, Milano 1969, 264). In altre parole ci attendiamo da Dio che compia quanto noi non siamo in grado di realizzare, per cui domandiamo tutto: dalla pace alla salute, dalla riuscita di un esame o di un concorso ai numeri del lotto. Il Dio che preghiamo è un idolo-giocattolo nelle nostre mani, un distributore automatico che risponde a gettone, secondo le necessità e le urgenze, ogni qualvolta lo vogliamo noi. Eppure il salmista ci aveva messo in guardia da confondere il Dio dell’alleanza con gli idoli alienanti:

«“Dov’è il loro Dio?”. 3Il nostro Dio è nei cieli, tutto ciò che vuole, egli lo compie. 4Gli idoli sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. 5Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, 6hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. 7Le loro mani non palpano, i loro piedi non camminano; dalla loro gola non escono suoni» (Sal 115/114, 2-7; v. anche Sal 135/134, 15-17).

Eppure non dovremmo essere impreparati, se avessimo ascoltato i profeti che Dio, nella sua bontà aveva inviato alla sua Chiesa. Ne citiamo due soli nella marea di voci e di stili che hanno risuonato tra la fine del II e l’inizio del III millennio: don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani, la cui profezia fu riconosciuta da un Papa in maniera formale e pubblica, ammettendo così la responsabilità, se non la colpa, di chi li perseguitò in modo miope e sconsiderato. Con loro si potrebbero citare p. Davide Maria Turoldo e p. Camillo De Piaz, don Zeno Saltini di Nomadelfia, p. Ernesto Balducci, p. Aldo Bergamaschi, p. Giovanni Semeria e mille altri ancora, tutti colpiti o esiliati o ridotti al silenzio perché indicavano la via del vangelo.


Nota estemporanea a latere

Nel 2017, ricorrendo il 50° anniversario della morte di don Lorenzo Milani, vi fu un pullulare di celebrazioni, specialmente dopo il duplice viaggio di papa Francesco a Bozzolo di Mantova e a Barbiana di Firenze (26 giugno 2017) per restituire la patente di ortodossia cattolica a due preti perseguitati dalla gerarchia del tempo: don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani. La retorica celebrativa, ieri come oggi, è una costante sia nella società civile sia ecclesiale: si celebrano entusiasticamente i «profeti morti», perché non possono dare più fastidio, mentre li si perseguita da vivi (cf Lc 11,47). Nelle celebrazioni retoriche del 2017, nessuno badò al fatto che i due preti, già negli anni ’50-’60 del secolo scorso avessero posto in evidenza il vuoto delle celebrazioni rituali che producevano solo disaffezione, allontanamento, disinteresse. Specialmente don Lorenzo Milani con l’opera «Esperienze pastorali», analisi spietata della realtà sacramentale del suo popolo che rispecchiava l’andazzo costante di tutta Italia e del mondo cattolico. Fu messo all’indice, non perché eretico, ma perché «inopportuno». Oggi quell’opera è un documento profetico ancora valido.


Per un approfondimento:

Don Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, in Tutte le opere, a cura di Federico Ruozzi et alii, tomo I, Mondadori, Milano, 477-80;
Don Primo Mazzolari, La parrocchia, La Locusta, Vicenza, 1957; ora in Per una Chiesa in stato di missione, Editrice Esperienze, Fossano 1999;
Tempo di credere, Vittorio Gatti, Brescia 1941.


Preghiera: estraniamento o passione di vita?

San Paolo, come abbiamo già visto, conferma il nostro timore e cioè che noi non sappiamo pregare: «Non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente» (Rm 8,26). Pensiamo che la preghiera sia prevalentemente una recita vocale di formule, che con l’uso diventano meccaniche: le parole fluiscono per conto loro e il cuore naviga per conto proprio. Non è un caso che nella confessione, un «peccato» ricorrente, quasi un canovaccio, era: «Non ho detto le preghiere al mattino e alla sera», oppure, «Mi distraggo durante le preghiere». È facile confondere la preghiera con un bisogno psicologico di protezione o forse di alienazione: la vita è tanto dura e cattiva che ogni tanto fa bene ritirarsi in disparte e non pensare a niente. È la preghiera come estraniazione, ma spesso non sappiamo nemmeno che, mentre crediamo di pregare, stiamo solo parlando con noi stessi.

Ribadiamo, ancora una volta e con forza che prima di essere un momento o un atteggiamento, la preghiera è uno stato dell’essere, esattamente come l’amore che non è una caratteristica di qualcuno, ma la dimensione intima e univoca della vita, come sperimentò – lo abbiamo già sottolineato più volte – Francesco d’Assisi che diventò preghiera lui stesso perché amò Gesù e il suo messaggio «sine glossa» cioè alla follia e senza condizioni (cfr. Fonti Francescane, Movimento Francescano, Assisi 1978, 630). Non imparò prima a pregare per diventare discepolo di Gesù. Egli amò senza condizione, a fondo perduto, e la conseguenza fu la preghiera come identità di vita. Insieme a Francesco, una donna, anzi una ragazza, è stata capace di capire l’equazione della vita: pregare è amare. Alla sorella Céline che le chiedeva cosa dicesse quando pregava, Teresina rispondeva: «Io non gli dico niente, io lo amo». In altre parole, solo gli innamorati sanno pregare perché conoscono la dimensione della parola che diventa silenzio e conoscono il silenzio come pienezza della parola. Pregare è una relazione d’amore, e come tale esige un linguaggio d’amore con tempi e spazi d’amore.

Se amare è «perdere» tempo per la persona amata, allo stesso modo, pregare è perdere tempo per sé e Dio, perché la preghiera è lo spazio e il tempo riservati all’intimità d’amore. Più profondo è l’amore, più tempo è necessario, e spazio e tempo non possono essere gli scarti, ma devono essere scelte di prima qualità. Un tempo e uno spazio che non si esauriscono nello svuotamento di sé, ma nella pienezza che l’altro porta con sé. La pienezza di Dio è la Parola, il Lògos come progetto/proposta d’amore di Dio al mondo attraverso di me, orante/amante. La Parola di Dio diventa così il fondamento della preghiera, ma anche la dimensione e il nutrimento dell’orante. Come gli innamorati si educano a vedere il mondo e la vita con gli occhi dell’amato o dell’amata, arrivando addirittura a prevenirne i desideri, così l’orante è colui che sta «sulla Parola» (Gv 8,31) per imparare a vedere la vita, la storia e le proprie scelte con gli occhi di Dio.

Collirio per la vista

La preghiera è «il collirio per ungerti gli occhi e recuperare la vista» di cui parla l’Apocalisse (cf Ap 3,18): illimpidirsi lo sguardo da ogni strato di sovrapposizione per essere in grado di vedere con lo sguardo dello Spirito. In questo senso la preghiera è alimento costante del dubbio perché toglie ogni sicurezza esteriore ed effimera: non è la garanzia della certezza, ma l’alimento della ricerca che esige l’umiltà come condizione. Purificarsi lo sguardo significa liberarsi dalle idee che si hanno di Dio e domandarsi sempre se quella che abbiamo conseguito è quella vera e definitiva. Finché vi sarà storia la preghiera cristiana amerà il dubbio non come sistema, ma come condizione di purificazione e di fedeltà. Paradossalmente il dubbio protegge Dio dal rischio di trasformarlo in «idolo».

Nel nostro modo di pregare siamo talmente presi dalle «cose da dire» che non ci rendiamo conto di non lasciare alcuno spazio all’eco della Parola di Dio: siamo talmente occupati ad ascoltare quello che diciamo che non lasciamo tempo all’ascolto di Dio, il quale tace, rintanato in un cantuccio perché il nostro pregare è solo un cuore in un vuoto di cui forse abbiamo paura. Quando abbiamo la sensazione che Dio taccia, è segno che noi parliamo troppo. Nella celebrazione dell’Eucaristia sono molto importanti i momenti di silenzio, perché costituiscono la cassa di risonanza della Parola. Se le parole si accavallano, si inseguono con la fretta di giungere alla fine, abbiamo compiuto un rito, ma non abbiamo celebrato. La Parola senza il silenzio è un suono senza senso, perché il silenzio è la mèta della parola.

La preghiera è comunicazione d’amore con una Persona che è il perno della vita: per questo deve essere centrata sulla stessa persona di Dio, come suggerisce l’inno trinitario all’inizio dell’Eucaristia, il Gloria a Dio. L’inno, databile sec. IV d.C., ha un andamento tripartito perché si rivolge a Dio Padre, a Gesù Cristo, allo Spirito Santo: tutto in questa preghiera, una delle più belle della liturgia di tutti i tempi, è centrato sulla Persona di Dio e costituisce così la preghiera «teo-logica» per eccellenza: «Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente».

Cinque azioni espresse dai verbi per una sola ragione: «Per la tua gloria immensa». Quante volte siamo passati sopra a questo vertice/vortice da capogiro e non ci siamo accorti di lambire il cuore stesso di Dio, mentre ci siamo affrettati a rotolare le parole senza nemmeno renderci conto del senso? Nella nostra chiesa, noi osserviamo, al modo monastico, una pausa di tre secondi ad ogni frase per permettere al cervello di assaporare l’irruzione della gratuità di Dio, spezzando la fretta e costringendo la superficialità a gustare ogni parola / evento perché gli occhi che leggono abbiano il tempo di accorgersi di essere penetrati nella «teo-loghìa», divenuta afflato di preghiera e d’intimità senza tornaconto. «Per la tua gloria immensa», cioè per te stesso, perché meriti di essere il fine del desiderio dell’Assemblea, perché tu sei Dio e noi carne e sangue della tua divinità. La ragione del vivere e del pregare è «dare gloria» a Dio, che non significa cantare un canto, ma riconoscere la sua «gloria» nel senso ebraico del termine.

Kabòd/Dòxa

La «Kabòd» ebraica, che il greco traduce con «Dòxa», indica il «peso/la consistenza/la stabilità» di Dio. In altre parole «per la tua gloria immensa» significa prendere coscienza che Dio è il «valore/il peso» più importante della vita del credente. Non è un caso che al tempo di Gesù il termine «Kabòd» fosse uno dei Nomi santi con cui si indicava Dio, in sostituzione del «santo tetragramma» Yhwh. Ne consegue che «per la tua gloria immensa» significa che preghiamo per lui, perché merita di essere il fine del desiderio dell’Assemblea, perché è Dio e noi carne e sangue della sua divinità.

Non siamo «in» Chiesa per adempiere un dovere o ottemperare a un obbligo, ma «siamo Chiesa» per partecipare al banchetto dell’amore e lasciarci immergere nel pozzo della misericordia di Dio che è la sua Gloria, la sua Kabòd/Dòxa. Quando preghiamo, infatti, se preghiamo nello Spirito, noi siamo abitati da Dio che ci accoglie nella tenda del suo amore per svelarci il suo nome, il suo volto e il suo cuore. Pregare è vedere Dio che contempla noi. Questa preghiera trasforma la nostra esistenza in Kabòd/Gloria di Dio. Come? Offrendo al Signore «presente, ma invisibile» tutto, istante dopo istante, ogni gesto, ogni scelta, ogni alito dell’esistenza, anche le cose più banali della nostra quotidianità (come fare la spesa, prendere un autobus, fare le pulizie in casa, studiare, preparare da mangiare o una lezione) e tutte le mille azioni «inutili» che spesso buttiamo perché non vi prestiamo abbastanza attenzione, affinché tutto lui trasformi in benedizione sul mondo che egli ama alla follia (Gv 3,16), attraverso di noi.

Paolo Farinella, prete
[9 – continua]




Insegnaci a pregare 8:

Pregare nel cuore della lotta


Nella puntata precedente avevamo citato due esempi di preghiera, Mosè, il patriarca e profeta che con le mani alzate sconfigge Amalèk (cf Es 17,9-13) e la vedova del Vangelo di Luca che pretende giustizia da un giudice «che non temeva Dio» (Lc 18,1-8). Abbiamo esaminato per sommi capi la preghiera del gigante dell’AT, ora ci apprestiamo a considerare la vedova protagonista della «parabola sulla necessità di pregare sempre, senza mai stancarsi» (Lc 18,1). Due figure, un uomo e una donna, il più grande profeta della storia della salvezza, e una popolana, per giunta anonima, ma qualificata come «vedova», cioè un’emarginata della società.

Preghiera innocente o colpevole

La parabola della vedova e del «giudice che non temeva Dio» si trova in Lc 18,1-8 ed è esclusiva del terzo Vangelo dal momento che è assente negli altri. Il capitolo precedente, Lc 17, si chiude con la descrizione della fine del mondo e l’irruzione di Dio Giudice: la vedova e l’invito alla preghiera, quindi, devono essere letti in questo orizzonte escatologico che ruota attorno al tema della «Giustizia». Non si tratta di giustizia giuridica, da tribunale, ma di quell’attitudine radicale, interiore che, sola, può provocare lo svelamento delle ragioni e delle motivazioni che stanno al fondo delle scelte di ciascuno.

Nelle parole di Gesù si staglia potente la figura di una povera vedova che, forte del suo diritto, sta ritta davanti al giudice, forse corrotto. Nel rileggere la parabola, occorre superare un equivoco generato dalla traduzione italiana. L’ultima versione della Bibbia Cei-2008 parla di «parabola…sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1). Nella precedente edizione del 1974, la stessa Bibbia-Cei ometteva l’avverbio di tempo «mai». Il testo greco dice «to dêin pàntote prosèuchesthai autoùs kài mê enkakêin», che tradotto alla lettera può essere reso così, sapendo che ogni traduttore è sempre un po’ traditore: «Sull’essere necessario sempre che essi preghino e non disertino/vengano meno/depongano le armi». L’espressione «non vengano meno» ha quindi il senso di «non si ritirino», cioè «non si rassegnino». Il verbo «enkakè? / ekka kè?» ha il significato di «agire male / stancarsi / venire meno / scoraggiarsi / perdersi d’animo». L’espressione si riferisce al militare che abbandona la lotta perché non gli importa più nulla di niente, quasi che, di fronte al pericolo, dicesse: ma chi me lo fa fare? A quale scopo? A riguardo scrive il biblista Giovanni Vannucci:

«“Senza stancarsi” è la debole e vaga traduzione di un’espressione greca che significa l’abbandono delle armi fatto da un soldato ignavo durante il combattimento; potremmo rendere meglio il testo originale traducendo “senza abbandonare le armi”, “senza disertare”; l’esaudimento della preghiera dipende dalla difficoltà inerente al cammino della preghiera» (Giovanni Vannucci, La vita senza fine; Servitium editrice, Milano 2012, 205).

In questo senso l’espressione evangelica di Luca dice che bisogna pregare «mentre» si lotta. Durante la lotta bisogna intensificare la preghiera per avere la forza di continuare a lottare e non lasciarsi prendere dallo scoraggiamento depressivo fino al punto di disertare dalla vita, dall’impegno, dalla fatica di affrontare le difficoltà. Pregare, allora, significa immergersi nella vita con tutte le sue contraddizioni, sapendo che non siamo soli. Ci è vietata solo la diserzione, che può essere proprio il rifugiarsi nella preghiera parolaia, una macina a vuoto di vuote parole che ci illudono. In questo senso Lc è in sintonia con Mt quando nel «Padre nostro», invoca «non abbandonarci alla tentazione» (Mt 6,13), cioè nel cuore della lotta.

«Alla» o «nella» tentazione?
In greco c’è la preposizione «eis» che non indica solo direzione (verso la – alla) ma con-penetrazione/con-toccamento (dentro – nella) che esige un contatto. Forse non esiste una traduzione corretta in assoluto: non abbandonarci «alla tentazione» può significare ogni volta che si presenta la tentazione; «nella tentazione» può indicare una forma permanente di tentazione (vedi l’esigenza di «pregare per non cadere in tentazione» – Mt 26.41). Che si usi una traduzione o l’altra, il significato potrebbe essere parafrasato con «non abbandonarci “mai” perché viviamo in uno stato permanente di tentazione».

Qui trova anche fondamento cristiano la tradizione rabbinica che esige l’amore di Dio «anche con la tendenza al male» (v. puntata 6a commento allo Shemà’ Israel), invocando il dono della fortezza per reggere gli assalti del male che come grossi «tori di Basan [ci] circondano… ci accerchiano» (Sal 22/21,13) per farci venire meno e disertare dall’impegno dell’alleanza.

A Giovanni Vannucci (1913-1984), biblista profeta dell’Ordine dei Servi di Maria del secolo XX, fa eco un grande teologo e filosofo suo contemporaneo, padre Ernesto Balducci (1922-1992) dell’Ordine degli Scolopi, che commentando il brano lucano afferma lucidamente:

«A chi vive, come noi viviamo, ad un certo livello di cultura, non è più lecito pregare con innocenza. Che voglio dire? Voglio dire che la preghiera, come invocazione a Dio, come appello a Dio, e di questo ci parla la Scrittura di oggi, per essere autentica, presuppone che si sia messo in opera tutto quello che è nelle nostre possibilità per realizzare l’obiettivo che riteniamo buono e necessario. Se noi preghiamo invece che operare, se noi preghiamo invece che cercare l’efficacia del nostro operare, non c’è dubbio che la preghiera va incontro alle nostre accidie e alle nostre inadempienze, presume di riempire i vuoti della nostra umanità. E siccome in un mondo qual è il nostro, generalmente colto, la consapevolezza delle ragioni delle ingiustizie, dei soggetti storici che ne portano la responsabilità, è viva e presente, pregare perché avvenga la giustizia nel mondo è atto ambiguo o, a volte, addirittura iniquo se si accompagna al disimpegno. Ecco perché è difficile che la nostra preghiera sia innocente. Essa porta su di sé i riflessi oscuri delle nostre complicità con le cause di quel male che vorremmo eliminato da questo mondo. È come quando, in certe comunità che io ho frequentato, si faceva la preghiera per i poveri. Si trattava di comunità strutturalmente solidali con il mondo dei ricchi e quindi impegnate a mantenere le condizioni che favoriscono la divisione del mondo fra ricchi e poveri e che poi si costruivano per l’occasione una buona coscienza con la preghiera periodica per i poveri» (Ernesto Balducci, Il Mandorlo e il Fuoco, Borla, Roma 1979, 344).

Nel cuore della lotta

Pregare nel cuore della lotta, dunque, senza diserzione! Quanta distanza dalle preghiere meccaniche macina-vuote-parole, ripetitive e distratte, staccate dal corpo, dall’anima e dalla stessa realtà. Dice padre Balducci che è difficile che la «nostra preghiera sia innocente» perché per essere tale deve essere la coscienza della «sapienza» della nostra identità: chi sono io che in questo momento «presumo» di pregare? «Dove» sto per essere certo di pregare? Qual è il mio rapporto con il dramma della fame, della morte di gran parte dell’umanità, cioè di carne di Dio perché suoi figli e mia perché fratelli e sorelle? Qual è il grado di complicità mio nel sostenere la struttura dell’ingiustizia di questo mondo che trangugia i deboli e osanna i potenti? Quale consapevolezza ne ho, mentre dico di pregare? Sono sicuro che quel Dio che io penso di pregare non sia lo stesso che parlò agli Ebrei del secolo VIII a.C. per mezzo del profeta Isaia? Che disse:

«11Perché mi offrite i vostri sacrifici senza numero? – dice il Signore. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli. Il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. 12Quando venite a presentarvi a me, chi richiede a voi questo: che veniate a calpestare i miei atri? 13Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità. 14Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. 15Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue. 16Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, 17imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Is 1,11-17).

C’è, dunque, fin dai tempi remoti, una preghiera che può non essere esaudita e non lo dice solo il profeta Isaia, ma lo conferma anche Gesù: «Dai loro frutti dunque li riconoscerete. Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,20-21). Da ciò è chiaro che pregare è direttamente proporzionale alla volontà di Dio. Quando mai, pregando, ci siamo chiesti in che rapporto fossimo con la volontà di Dio su di noi o in che modo la nostra vita esprimesse il rapporto con essa? La preghiera ha regole serie che non possono essere espunte o disattese, come lo stesso Gesù afferma nel discorso della montagna, cioè nel programma costituzionale del suo regno:

«5E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 6Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. 7Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. 8Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,5-8).

Per il Vangelo, la preghiera non ama l’ostentazione, la finzione e lo spreco di parole, tre tentazioni che oggi abbondano e circondano peggio dei «grossi tori di Basan». Il modello mediatico impone di portare sempre e comunque una maschera per esporsi al pubblico nelle vesti di qualcuno che non si è, in quanto vale solo ciò che appare, come in certi candelieri di legno liguri che, per risparmiare, erano dipinti in oro solo dalla metà che era esposta al pubblico – la parte in vista – mentre la parte rivolta all’altare era lasciata grezza.

Il modello scandaloso

Il modello di preghiera che presenta Gesù è scandaloso e irritante per la cultura e la religione del suo tempo: una donna, per giunta vedova, quanto di più insignificante e inconsistente si potesse immaginare. Essa è l’emblema della emarginazione assoluta, insieme agli orfani e ai menomati (ciechi, zoppi, storpi, lebbrosi), in una parola «poveri». Eppure la fortezza della «nullità» della vedova è la consapevolezza del suo diritto. Ella non si rassegna e non fugge, deve lottare e quindi non depone le armi, perché, decisa, si attesta nel cuore della battaglia, alle falde della verità e inchioda il giudice a compiere il suo dovere. È qui l’attuazione concreta del principio paolino:

«Quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono» (1Cor 1,27-28).

Alla luce di questo contesto, pregare vuol dire entrare nella logica del regno di Dio e capovolgere le prospettive del mondo perché tutto e ogni singola persona o avvenimento abbia un senso e lo abbia pieno. Se ognuno di noi è parte essenziale del regno di Dio, vuol dire che ne è anche responsabile e co-artefice. Nella prospettiva del regno, il nuovo modo di vivere le relazioni umane, instaurato da Gesù, pregare è riconoscere la signoria di Dio sulla propria vita e quindi affermare la propria dignità di liberi figli del Creatore e riconoscere a tutti gli altri la stessa dignità.

La preghiera, perciò, diventa un processo di crescita, un percorso di armonia che conduce alla maturità e quindi a una relazione affettiva con Dio, dove non conta più la modalità tecnica, ma unicamente la qualità del rapporto che si esprime in tutta l’ampiezza della gamma di una relazione d’amore, perché coinvolge i sensi, l’immaginazione, i sentimenti, la paura, i dubbi, la fatica, la tensione, la stanchezza, il bisogno di solitudine, la parola, il silenzio, il grido, l’angoscia, la gioia, l’abbandono, l’evasione e tutti gli sbalzi umorali a cui può essere assoggettato l’animo di una persona normale.

Pregare: imparare a sposare la mentalità di Dio

Se prendiamo il libro dei Salmi, che racchiude la preghiera secolare d’Israele e della Chiesa, vi scorgiamo tutta la gamma della dimensione psicologica della persona umana: dolore e gioia, angoscia e speranza, terrore e lode, richiesta di aiuto e ringraziamento, malattia e gioia di vivere, richiesta e abbandono, estasi e disperazione. Nulla di ciò che forma la vita umana vi è estraneo, perché pregare è vivere con Dio. La stessa Eucaristia, che è la preghiera per eccellenza della Chiesa, contiene i medesimi elementi: la richiesta di perdono, la parola, l’ascolto, l’anelito, la lode, la richiesta di aiuto, la professione di fede, la memoria storica, l’abbraccio, il silenzio, i sentimenti di fraternità e di gratuità, il dono, la pace e la missione come testimonianza.

Infine, pregare è l’urlo di disperazione e di amore con cui «pretendiamo» da Dio che sia al nostro fianco, cireneo perenne, nella nostra lotta, vero combattimento con il quale c’impegniamo a:

  • Non alimentare la guerra che impedisce alla pace di avere cittadinanza sulla terra.
  • Non tollerare la povertà ignobile che rende schiava la maggioranza dell’umanità.
  • Non partecipare al gioco di una società che vive di parole morte.
  • Non essere mai complici di manipolazioni di qualsiasi genere.
  • Non inquinare il mondo, causa del sovvertimento dell’ecosistema (pioggia e clima).
  • Condannare la ricchezza di pochi come atto fondativo di ingiustizia.
  • Contestare la struttura di un mondo che affoga nell’idolatria del superfluo e dello «scarto».
  • Creare ponti di congiunzione e non abissi di separazione e rifiuti.
  • Essere pazienti con chi sbaglia non una, ma «fino a settanta volte sette».
  • Esporre nella propria vita la misericordia che ciascuno di noi sperimenta per sé.
  • Usare sempre la parola per creare la comunicazione e non per la finzione esteriore.
  • Essere sempre noi stessi «immagine e somiglianza di Dio, tempio dello Spirito del Risorto.

La preghiera cristiana c’immerge nello sposalizio con la mentalità di Dio, perché più preghiamo più ci avviciniamo al modo di pensare di Dio e ne acquisiamo il metodo, che è sempre un metodo di misericordia e di pazienza, di possibilità e di riserva d’amore. La perseveranza nella preghiera ha solo questo obiettivo primario: educarci attraverso gli esercizi oranti ad imparare a vivere, ad agire e a pensare come vive, pensa e agisce Dio.

Paolo Farinella, prete
[8 – continua].


Segnaliamo alcuni dei libri su argomento biblico e liturgico pubblicati da Paolo Farinella con Gabrielli Editori (www.gabriellieditori.it).

? Il padre che fu madre. Rilettura moderna della parabola del “figliol prodigo” (2010)

? Bibbia, Parole Segreti Misteri (2008), [Pagine di esegesi di passi o termini difficili]

? Ritorno all’antica Messa. Nuovi problemi e interrogativi (2007) con prefazione di Padre Rinaldo Falsini, segretario della commissione conciliare per la Liturgia.
Il giorno 14 settembre 2007 entrò in vigore il motu proprio papale «Summorum Pontificum» con cui papa Benedetto XVI autorizzò tutti i preti che lo vogliono a celebrare senza alcuna riserva la Messa preconciliare, dando così forza e vigore ai traditori del concilio Vaticano II, i lefebvriani & C. che giudicavano e giudicano eretici non solo il concilio che è il magistero più alto nella Chiesa cattolica, ma anche i Papi Giovanni XXIII e Paolo VI.

? Crocifisso tra potere e grazia. Dio e la civiltà occidentale (2006), sull’orrendo tentativo di trasformare il Crocifisso, Gesù l’ebreo-palestinese-semita, in «valore occidentale», cioè religione civile.

? Nel sito dell’autore, www.paolofarinella.eu, si trovano la liturgia di ogni domenica nel ciclo degli anni A-B-C sia come testo stampabile che audio.




Insegnaci a pregare 7.

«Dio amico e Padre, non compagnone»


In ogni sinagoga antica vi era una stanza cieca, senza porte e finestre che fungeva da «ripostiglio», in ebraico «ghenizàh». Essa era dotata di una piccola finestrella, attraverso la quale venivano introdotti i rotoli e gli scritti liturgici non più utilizzabili. Questi testi non potevano essere gettati via tra gli oggetti comuni o peggio nella spazzatura, perché in essi vi era scritto il «Nome» santo di Dio, «YHWH». Gli Ebrei, spinti dal supremo rispetto per il Nome di Dio, hanno perciò inventato questa specie di cimitero dei libri sacri. Tale usanza ha permesso di trovare centinaia di testi, oggi a noi utili per la comprensione dei tempi passati, specialmente per la natura e le modalità della preghiera.

Sintesi tra tu ed egli

Nella ghenizàh-ripostiglio del Cairo sono state trovate preghiere costruite su una doppia valenza: iniziano con il vocativo «tu» della 2a persona singolare e si concludono con la 3a persona singolare «egli». Ecco un esempio tratto dal Siddùr (Rituale) di Rab Amram Gaon del sec. IX d.C., segno che i testi recenti possono contenere tradizioni antiche: «Benedetto sei tu, Adonài, tu che scegli il suo popolo Israele». Da un punto di vista morfologico, le due proposizioni «sei tu» e «scegli il suo popolo» sono stridenti perché istintivamente verrebbe da dire: «Benedetto sei tu, Adonài che scegli il tuo popolo». Questo gioco di onda tra la 2a e la 3a persona singolare è una costante della preghiera ebraica che, da una parte, intende mettere in evidenza la familiarità affettiva di Dio, espressa dal «tu sei», e dall’altra, il «rispetto» della Gloria divina perché, allo stesso tempo, Dio è vicino, ma anche lontano, Padre e Creatore: Dio è Padre, ma è anche il «Signore», non è un amicone da pacca sulla spalla.

Molte traduzioni fanno piazza pulita di questa distinzione, eliminandola e traducendo tutto con la 2a persona, mentre invece bisogna mantenere l’andamento originario: la 2a persona singolare esprime la confidenza affettuosa con Dio, mentre la 3a persona esprime la «singolarità» di Dio e la sua «grandezza» nel senso che egli non può essere Padre e compagno di gioco, compagnone di strada. Riportiamo un altro esempio tratto dal Siddùr della ghenizàh del Cairo, nella preghiera in forma breve: «Benedetto sei tu YHWH nostro Dio, Re dell’universo, lodato dal suo popolo, cantato dalla lingua dei suoi Chassidìm e dai canti di David tuo servo».


Ghenizàh-Ripostiglio del Cairo

È annessa alla sinagoga di Ezra di Fustat (antica Cairo), costruita nel sec. IX d.C., in Egitto, sopra una preesistente chiesa dedicata a San Michele. Durante gli scavi del 1864, Jacob Saphir rinvenne circa 280 mila frammenti cartacei, in pergamena e papiro che furono attentamente studiati da Solomon Schechter e successivamente dall’orientalista olandese Shlomo Dov Goiteen. Il materiale rinvenuto ricopre circa due secoli di tempo, dal 1025 al 1266. Nei trent’anni successivi alla scoperta, circa metà del materiale fu disperso in diverse biblioteche (San Pietroburgo, Parigi, Londra, Oxford, New York, ecc.), i restanti 140 mila frammenti furono da Schechter trasferiti all’università di Cambridge in Inghilterra. I testi sono scritti in ebraico, arabo, aramaico e altre lingue locali e contengono traduzioni della Bibbia, grammatiche ebraiche e commenti e testimonianze importanti sull’attività mercantile degli Ebrei durante la dinastia fatimide del sec. IX d.C. discendente da Fatima bint Muhammad, figlia del profeta Maometto. Nella ghenizàh si trovano le prove della esistenza pacifica di società miste ebraico-islamico-cristiane, che hanno obbligato a riscrivere la storia economica e sociale dei secoli IX, X e XI. Molti libri di preghiera ci sono utilissimi per capire e conoscere il modo orante di chi ha frequentato la sinagoga.

Per un riferimento più puntuale e per l’approfondimento di questo aspetto cfr. Frédédic Manns, La preghiera d’Israele al tempo di Gesù, Edizioni Dehoniane, Bologna 1996.


Da questi rilievi, emerge con grande evidenza che la preghiera non è, né può essere, una pratica abitudinaria, ma una costante attenzione da prestare perché è in gioco il rapporto tra due: tra noi e Dio. Pretendere di parlare della preghiera è come pretendere di conoscere l’intimità di Dio: una realtà inesauribile. Della preghiera si possono dare mille definizioni e ciascuna sarebbe pure giusta, perché espone «un solo» aspetto di essa, senza esaurirla, ma nessuna sarebbe adeguata perché non si può definire la vita con una formula di poche parole. Essa, come la vita, ha moltissimi aspetti e deve essere vissuta: solo chi vive sperimenta e conosce; pregare, infatti, è sperimentare Dio, conoscendone il cuore. In ebraico il verbo «yadà‘ – conoscere» non esprime mai una conoscenza astratta, concettuale, ma una conoscenza che nasce da una «sperimentazione». La sua radice fa riferimento al rapporto sessuale che è la «conoscenza» più radicale esistente in natura perché mentre sperimenta trasforma, in quanto diviene l’altro fino alla trasformazione suprema che è il «generare» (cf Gen 4,1). La versione greca della LXX traduce con il verbo «ghnôsk? – io conosco», la cui radice (ghn?-) è molto vicina a quella del verbo «ghennà? – io genero» (radice ghèn[na]-) che si riferisce all’atto procreativo maschile; per la donna, infatti, si usa «tìkt? – io partorisco», da cui «tèkna – prole/figlioli». Da queste interferenze lessicali possiamo dedurre, da un lato, che la conoscenza è atto generativo che coinvolge l’intimità della propria profondità feconda: si dice anche popolarmente «concepire un’idea»; dall’altro lato, che l’atto sessuale, l’atto cioè più profondamente umano, è il grado più alto di conoscenza che si possa sperimentare in vita perché è attraverso di esso che l’umanità «somiglia» al Creatore: la propria identità profonda, il proprio Lògos diventa carne. Può essere definibile tutto ciò? Per la preghiera, penso che possa valere quello che Sant’Agostino dice del tempo: «Cos’è il tempo?… Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so» (Sant’Agostino, Confessioni, XI,14,17). Come abbiamo illustrato nelle puntate precedenti, specialmente nell’ultima, l’unica spiegazione possibile della preghiera è «stare» nel silenzio, come pienezza della parola, come ambiente naturale della preghiera e ascoltarlo come eco del «Lògos [che] carne fu fatto» (Gv 1,14), entrando così nel cuore della comunità orante.

La Scrittura paradigma della «mia» storia

In 2Tm 3,14-4,2 l’autore insegna a Timòteo che tutta la Scrittura è Parola di Dio e non può esserci preghiera al di fuori della Parola di Dio che dà forma e contenuto alle parole umane. La Parola di Dio è la persona stessa del Lògos e quindi pregare è lasciarsi possedere dalla Shekinàh/Dimora per essere alla Presenza di Dio che è «già» nell’intimo di ciascuno, prima ancora di noi stessi. La Bibbia non è solo la lettera che Dio ha inviato all’umanità attraverso i profeti e il suo stesso Figlio (cf Eb 1,1-2), ma è anche il diario di bordo essenziale dell’intervento di Dio nella storia sia universale che personale. Essa è il paradigma della storia di ciascuno che tutti noi dobbiamo declinare in modo personale. Pregare quindi significa prendere coscienza dello stadio della storia di salvezza personale e rispondere alla domanda: a che punto sono della «mia» storia della salvezza? La Bibbia è il paradigma del «viaggio» personale di fede, ed è lecito che il lettore, all’interno di questo paradigma, si domandi dove si trova «adesso».

Pregare è la risposta alla prima domanda che Dio rivolge ad Àdam che si nasconde e fugge dalla sua presenza: «Àdam, dove sei?» (Gen 3,9). Non è una richiesta d’identità di un luogo, ma il fondamento della coscienza della consapevolezza. «Dove» significa prospettiva, dimensione, profondità, angolo di visione, orizzonte, utopia. Il «dove» è il punto focale della consistenza e dell’identità di ciascuno perché indica il cuore interiore da cui noi prendiamo posizione per la conoscenza di noi stessi, degli altri, dell’Altro. «Dove?» indica la visione strategica della vita, ma anche la profondità e lo spessore della nostra identità nel contesto della comunità e ancora prima in quello della storia della salvezza. Molti uomini e donne, religiosi per tradizione, per il fatto di essere battezzati e di «andare» qualche volta in chiesa, pensano e s’illudono di credere in Dio, di conoscere Gesù Cristo e magari pretendono di «essere con la coscienza a posto».

«Dove siamo?». Non è affatto detto e non è scontato che nel nostro cammino di vita ci troviamo nel NT. Nonostante oltre duemila anni di Cristianesimo, il battesimo e l’impegno in parrocchia, potremmo trovarci molto lontani da Cristo, in un qualunque momento descritto dall’AT: potremmo ancora essere con Àdam ed Eva, vittime complici del serpente; solidali con il fratricida Caino; schiavi in Egitto; vaganti nel deserto senza Legge e senza coscienza; attenti ascoltatori della Parola dei profeti o in fila con i peccatori per ricevere il battesimo di penitenza di Giovanni il Battezzante. Potremmo essere ai piedi della croce o ai bordi del sepolcro vuoto. Pregare significa «sapere chi si è e dove si è».

 


Per un approfondimento spirituale e teologico del «dove», cf P. Farinella, Bibbia. Parole segreti misteri, Il Segno dei Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano (VR), 2009, pp. 77-82, capitolo intitolato «Dove sei? Chi sei?».


Pregare è essere nudi davanti alla nudità di Dio: creatura e Creatore, mediati dalla Parola, fondamento sia della creazione che della redenzione. Prendiamo due esempi di preghiera della Scrittura e osserviamoli da vicino. Si tratta di un uomo, Mosè, e una donna anonima del NT, una vedova. Mosè e la vedova, il profeta e la povertà assoluta: il mediatore che «sta ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio» (Es 17,9) e la vedova molesta e importuna (cf Lc 18,4-5), che è vittima del sopruso e della prevaricazione. Tutti e due pregano, tutti e due ottengono risultati perché tutti e due non si sono stancati, ma sono stati perseveranti e insistenti, ciascuno fedele alla propria condizione e alla propria natura, perché ambedue coscienti del proprio «dove», cioè del proprio ministero (Mosè) e della propria dignità (la vedova). Il profeta induce addirittura Dio a cambiare pensiero, cioè lo obbliga a «convertirsi» alla sua natura di Dio di salvezza (metànoia/conversione), costringendolo alla fedeltà alla sua natura e quindi al suo popolo (cf Es 32,1-14), così come la vedova che non ha paura di chi «non temeva Dio» (Lc 18,2) perché forte del proprio diritto. Qui di seguito ci occupiamo solo di Mosè, della preghiera della vedova tratteremo nella prossima puntata.

Mosè con le mani alzate

Nel libro dell’Esodo leggiamo l’esperienza di Mosè che intercede per la vittoria d’Israele:

«9Mosè disse a Giosuè: “Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio”… 11Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. 12Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Arònne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. 13Giosuè sconfisse Amalèk» (Es 17,9-13).

Il testo potrebbe essere molto antico perché è evidente una traccia di forma magica di preghiera legata alla gestualità. Esso non dice nulla sul contenuto dell’intercessione di Mosè, che anzi pare sia assente: è sufficiente la presenza fisica, là «ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio» (Es 17,9). Tutti i riti di tutte le religioni hanno necessariamente una dimensione di «teatralità» perché esigono vesti proprie, gesti, danze, canti: una rappresentazione mimica che coinvolga sia lo spirito che il corpo.

Ancora una volta il popolo ebraico ci viene in aiuto per capire il senso profondo che si ricava dal testo. Sottolineiamo alcuni testi del Targùm che commentano il brano, considerato dalla tradizione giudaica esemplare per la preghiera di intercessione. Il testo biblico dice: «Mosè disse a Giosuè: “Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio”» (Es 17,9).

Il Targùm dello pseudo Giònata (sigla: TJ I) così parafrasa nella traduzione verbale:

«Scegli per noi uomini validi e forti nell’[osservanza] dei precetti e vittoriosi in battaglia… Domani io starò ritto, in digiuno, appoggiato sui meriti dei padri, i capi del popolo, e sui meriti delle madri, che sono paragonabili alle colline, e terrò in mano il bastone col quale sono stati operati prodigi davanti al Signore».

L’altro Targùm, il Neòfiti (sigla: N), invece, così commenta il gesto delle mani alzate:

«Le mani di Mosè rimasero alzate in preghiera, ricordando la fede dei padri giusti, Abramo, Isacco e Giacobbe, e ricordando la fede delle madri giuste: Sara, Rebècca, Rachèle e Lìa, fino al tramonto del sole» (Ibidem, 144).

Il ms. ebraico n.100, conservato nella Biblioteca nazionale di Parigi, così commenta:

«Ricordando la fede dei tre padri giusti che sono paragonabili ai monti: Abramo, Isacco e Giacobbe, e la fede delle quattro madri giuste, che sono paragonabili alle colline: Sara, Rebècca, Rachèle e Lìa, e le sue mani rimasero alzate in preghiera fino al tramonto del sole» (Ibidem, 144 nota o).


Targùm (plurale targumìm)

È parola aramaica e letteralmente significa «traduzione». Dal 539 a.C., dopo il ritorno dall’esilio in Babilonia, in Palestina l’ebraico cadde in disuso, rimanendo però la «lingua sacra» riservata alla Bibbia nella liturgia ufficiale. Per far capire al popolo, che parlava la lingua comune, l’aramaico, era invalso l’uso di tradurre la Parola proclamata. Per questo, con il lettore, che leggeva in ebraico, vi era anche un «targumìsta – traduttore» che spiegava in aramaico. Egli però doveva stare non accanto al lettore, ma dalla parte opposta con il divieto di leggere la Parola e l’obbligo di commentare «a senso», proprio per sottolineare la distanza tra Parola di Dio e commento. Dal sec. I a.C. al sec. II d.C., per non perdere un immenso patrimonio liturgico e culturale, tutto il materiale orale fu raccolto per iscritto. I più antichi Targumìm sono: Targum Ònkelos, detto anche Babilonese, perché nato a Babilonia, databile tra il 60 a.C. e il sec. II d.C.; il Targum Yonatham ben Uzziel, contemporaneo del primo e come questo originario di Babilonia; Targum Yerushalmì (Gerusalemme), che si divide in tre parti, e datato sec. VII d.C. Tra i più recenti c’è lo Pseudo Gionata e Targum Neofiti del sec. XVI-XVII d.C.


I Targumìm aprono una prospettiva affascinante: la preghiera poggia sui meriti dei padri e delle madri, cioè degli antenati, paragonati ai monti e alle colline di Israele. Chi prega non prega mai da solo, ma porta con sé tutta la storia che lo ha preceduto perché prepara quella che segue: nella preghiera il futuro è dietro di noi perché uarda avanti con la forza dello Spirito che assume il nostro presente come pietra su cui è assisa la nostra intercessione al Signore della Storia. Pregare è entrare in una salvezza che si fa storia di Nomi e di Volti, diventandone parte attiva e sostegno sicuro.

In questo senso, la preghiera è una prospettiva di vita, un progetto esistenziale che avvolge e coinvolge ogni atto e respiro, ogni scelta e ogni gesto: tutto ciò che ci appartiene è già appartenuto ai nostri padri e alle nostre madri che sono diventati, con i loro meriti, i colli e le colline su cui poggia solida e stabile la preghiera dell’assemblea santa, oggi radunata dallo Spirito attorno al Monte Santo del Padre che è Figlio suo Gesù, Lògos, Pane e Vita, anima e corpo del nostro desiderio orante. Tutti preghiamo per i nostri morti, ma quanti pregano «con» i genitori, antenati, maestri, amici che sono stati e continuano a essere l’alimento e il sostegno del nostro pregare incessante?

Paolo Farinella, prete
 [7 – continua].




Insegnaci a pregare 6. Dio ci prega


Nella puntata precedente abbiamo preso in esame, seppure velocemente, la preghiera sotto due profili. Dal punto di vista dell’uomo che ha il desiderio di Dio, come magistralmente dice Sant’Agostino: «Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te – Ci hai creati per te e inquieto sta il nostro cuore finché non riposi in te» (Sant’Agostino, Le Confessioni, I,1), e dal punto di vista di Dio che con la stessa intensità e la stessa passione di un innamorato, nella perifrasi del Cantico dei Cantici, fatta dal Targùm, anela e desidera di «ascoltare la voce dell’Assemblea riunita». Abbiamo desunto da quel testo della tradizione ebraica la prospettiva della preghiera come bisogno di Dio di stare con noi. Ci eravamo lasciati con l’impegno di riprendere questo aspetto nello «Shemà’ Israel», superficialmente definita, come vedremo subito, la preghiera più importante di Israele.

«Shemà’ Israel»

Il testo completo si trova nel libro del Deuteronomio (vedi qui sotto) che riportiamo per esteso. In esso formalmente parla Mosè, ma il mandatario è Dio, in nome del quale, il grande profeta e servo, Mosè, riassume tutti gli interventi di Dio. Possiamo dire che è Dio a parlare a Israele per mezzo di Mosé. Le parole pronunciate da quest’ultimo sono «Parole di Dio»:

«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. 5Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. 6Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. 7Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. 8Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi 9e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte» (Dt 6,4-9).


Deuteronomio

Nella Bibbia ebraica, il 5° libro si chiama «Devarìm – parole», plurale del sostantivo singolare «Davàr – parola/fatto». Il termine Deuteronomio è preso dalla Bibbia greca cosiddetta LXX, scritta per gli Ebrei di Alessandria di Egitto che non conoscevano più l’ebraico. Poiché il suo contenuto è legislativo, il libro ha ricevuto in lingua greca il titolo di «Seconda legge – Dèuteros nòmos». L’immagine della seconda legge fa riferimento a un testo ritrovato durante lavori di restauro del tempio, sotto il regno di Giosìa, il quale, motivato da questa scoperta, diede impulso a una grande riforma religiosa nell’anno 622 a.C. Si chiama «seconda» in riferimento alla «prima» che è e resta quella del Sinai. Il Deuteronomio riporta tre grandi discorsi di Mosè al popolo prima dell’ingresso nella terra promessa:

1° discorso (Dt 1,1-4,43): è il riassunto di tutti gli interventi di Dio in favore di Israele dall’Egitto alle soglie della terra promessa: premessa storica dell’alleanza.

2° discorso (Dt 4,44-26,19): è un’omelia, una riflessione sull’alleanza e, infatti, comprende il codice dell’alleanza rinnovata nel segno della «Seconda Legge». Seguono una serie di benedizioni e maledizioni con il rinnovo ufficiale degli impegni e la conclusione dell’Alleanza (27,1-28,68).

3° discorso (Dt 28,69-30,20): è una ripresa degli eventi accaduti e un invito pressante alla fedeltà al Signore della Storia e della terra. Seguono ultime disposizioni e la morte di Mosè (31,1-34,12).
Il testo finale, come lo possediamo oggi, è databile nei sec. V-IV a.C., ma contiene testi molto più antichi del tempo della riforma del re Giosìa del sec. VII a.C. (anno 622) e altri più antichi ancora. Si può quindi considerare questo libro come il frutto della riflessione di una «scuola» che, dopo l’esilio di Babilonia, ha rielaborato materiale antico unendolo alle riflessioni teologiche del momento attuale, richiamandosi allo spirito profetico e in modo particolare a Geremia.


Lo «Shemà’ Israel» si trova nell’ambito del 2° discorso che Mosè fa a nome di Dio. Appartiene quindi alla riflessione sull’Alleanza. Alle soglie della terra promessa, nelle «Parole» che Dio rivolge al popolo d’Israele per bocca del profeta Mosè, per sette volte si ripete l’espressione: «Shemà’ Israel – Ascolta, Israele (Dt 4,1; 5,1; 6,4; 9,1; 20,3; 27,9) che è quasi un legame letterario di tutti e tre i discorsi. È strano che in un testo legislativo si trovino parole come «amore – ahavàh», espressive di sentimenti di reciproco affetto. Eppure questo accade e ha il suo senso nel fatto che non può esistere alcuna legge che possa avere forza obbligante se la si teme e non la si ama in quanto segno e strumento di una relazione vitale. La legge esige amore e non schiavitù.

Comunemente, con l’incipit «Shemà’ Israel» – come solitamente si dice – si indica la preghiera ufficiale che ogni pio israelita deve recitare due volte al giorno. In realtà lo «Shemà’ Israel» non è una preghiera di Israele a Dio, ma la richiesta da parte di Dio di una professione di fede, di una dichiarazione di amore esclusivo come pegno per il futuro. Nemmeno questo però è sufficiente, perché se guardiamo in profondità, scopriamo che l’atto di fede più esclusivo del popolo d’Israele è una invocazione di Dio al suo popolo perché presti attenzione alle parole che egli pronuncia attraverso il suo profeta e non defletta dalla sua fede nell’unicità di Dio.

Amare e pregare sono sinonimi

Nello «Shemà’ Israel», è Dio che s’inginocchia davanti a Israele e lo supplica di «ascoltarlo». In altre parole, è Dio che prega il suo popolo, quasi avesse paura di perderlo. Inaudito! L’ingresso nella terra promessa coincide con la preghiera di Dio al popolo, non il contrario: Dio supplica il suo popolo di non abbandonarlo, perché egli non può essere Dio senza il suo popolo Israele, come lo sposo non può essere sposo senza la sposa, come il padre non può essere padre senza il figlio. Ogni volta, pertanto, che ascoltiamo o leggiamo o preghiamo con queste parole, dobbiamo avere coscienza di vedere Dio inginocchiato davanti a noi che ci supplica di ascoltare il suo «Davàr», la sua «parola/fatto» che per noi cristiani, testimone Giovanni evangelista, è il Lògos-sarx, Gesù di Nàzaret in cui Parola e carne, divinità e fragilità diventano un corpo solo, una unità sponsale (cf Gv 1,14).

In questa supplica di Dio al suo popolo, egli esige l’esclusività perché per natura l’amore è esclusivo: «Il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore – Yhwh ’elohènu Yhwh ’echad». Come un innamorato o innamorata che prima di innamorarsi ha la possibilità di scegliere tra tutte le donne e tutti gli uomini, ma una volta che s’innamora esclude tutte e tutti tranne una o uno, così anche Dio supplica Israele di sceglierlo come «unico» e di restargli fedele. Non solo, in un testo giuridico che stabilisce norme per ogni aspetto della vita, si stagliano parole d’amore che sono tra i vertici della letteratura e della spiritualità di tutti i tempi: «Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,5). In ebraico si usa il verbo «’ahavàh – amare» che abbiamo già esaminato (Il Tallìt di Dio, MC 6/2017, p. 32), affermando che numericamente ha un valore di «13», cioè la metà di «Yhwh» che vale invece «26». A suo tempo abbiamo detto anche che Dio è un amore al quadrato e solo mettendo insieme ciascuno il proprio pezzo d’amore con i frammenti di amore degli altri si può raggiungere la pienezza di Dio che «è Amore – Agàp?» (1Gv 4,8). La Bibbia LXX, infatti, nel brano in questione, traduce «’ahavàh – amare» col il verbo «agapà? – io amo senza pretendere in cambio nulla» che nella Scrittura è un verbo riservato quasi esclusivamente a Dio.

Cuore, anima e beni materiali

«Tutto il cuore» riguarda la totalità della persona perché il cuore, per i semiti, è la sede dell’intelligenza e della coscienza, il profondo dove si forma e abita l’identità. Ancora di più. In ebraico la parola «cuore» si dice in due modi: «leb» e «lebàb» (pronuncia: levav): il primo con una «b» e il secondo con due «b». Il testo dello «Shemà’ Israel» riporta la versione con «due b: lebàb». I rabbini si domandano perché questa differenza e danno una risposta sorprendente. Essi insegnano che le due «b» stanno a significare le due tendenze che animano il cuore umano: quella verso il bene e quella verso il male; esse non possono essere estirpate, per cui bisogna amare Dio con tutt’e due le tendenze. Per questo nello Shemà Israel si dice «amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore» (Dt 4,5). La Mishnàh, Berakòt – Benedizioni 9,5, infatti così spiega: «Bisogna benedire Dio per il male e per il bene, perché egli ha detto: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutti i tuoi mezzi. Con tutto il cuore, con le due tendenze: il bene e il male». Coloro che separano lo spirito dalla carne, l’anima dal corpo fanno un’operazione antistorica e contraria alla fede perché immaginano un puritanesimo che non esiste e Dio stesso ne è consapevole fino a farne un comando d’amore.

«Tutta l’anima» si riferisce alla capacità di relazione sia in senso orizzontale (con gli altri diversi da sé) sia in senso verticale (con l’Altro che è il fondamento della relazione con sé e con gli altri). In altre parole si tratta della vita in tutta la sua espressione umana che si esprime e si consuma nella fecondità del rapporto con gli altri che sono sempre, per chi crede, la parte migliore perché sacramenti della presenza di Dio.

«Con tutte le forze» ha un significato preciso e significa «con tutti i tuoi averi» per evitare che s’illuda di chiudersi dentro uno spiritualismo di comodo, come avverte San Giacomo (cfr. Gc 2,2) che a sua volta richiama il Vangelo di Luca e la requisitoria di Gesù contro i ricchi (cfr. Lc 6,24-26). È facile amare Dio con i sentimenti e senza alcun impegno di vita, ma se occorre mettere in gioco il portafogli e i beni materiali, allora la questione si fa seria e tocca l’etica dell’economia, l’etica della politica, l’etica del guadagno, l’etica della tassazione, l’etica della condivisione, l’etica della distribuzione secondo giustizia dei beni della terra, che sono di Dio ma affidati a noi per custodirli e condividerli.

Queste tre condizioni e stati di essere, cuore, anima e beni materiali devono stare radicati nell’io (nel cuore) perché la preghiera non sia un atteggiamento evanescente e sulfureo, un mero obbligo materiale come «recitare» Lodi, Vespro e il resto o «dire» Messa, tutto logicamente in fretta e furia perché «maiora praemunt – cose più importanti urgono». Dio prega il suo popolo di «ascoltare», che non significa stare a sentire, ma immergersi nella persona che parla e diventare la parola che dice. Oggi, troppo spesso, la superficialità e la fretta fanno perdere anche la dimensione della buona educazione, cui non facciamo più caso.

Quando si riceve una persona per un colloquio bisognerebbe essere totalmente alle sue dipendenze e «ascoltare» con cuore, anima e beni materiali: disponibilità senza riserve. Troppo spesso, invece, capita, durante un colloquio, che uno risponda al cellulare o guardi l’orologio o si estranei rispondendo a un sms o consultando il web. È un costume tanto diffuso che non ci rendiamo più conto che in tal modo mettiamo il valore della persona sotto i piedi. Nessuno pensa che quello potrebbe essere l’ultimo colloquio della sua vita e che potrebbe presentarsi a Dio adducendo come scusa che «stavo rispondendo al telefono». Siamo diventati schiavi del cellulare e non ce ne accorgiamo nemmeno. Pregare è «ascoltare» Dio che prega e poiché Dio è relazione non può farlo da solo, ma ha necessità di pregare in compagnia. Pregare è perdere tempo senza chiedere nulla in cambio e dire all’altro quanto sia importante per me e anche porlo al centro della propria attenzione, del proprio cuore, della propria anima e dei beni materiali. Ascoltare gli altri è pregare vivendo.

«Voce di silenzio sottile»

Per il Targùm pregare è rispondere all’anelito di Dio di vedere il volto del suo figlio/figlia. Pregare è non solo regalare il proprio tempo a Dio per permettergli di contemplare l’assemblea orante, ma illuminarsi lo sguardo per vedere la vita e gli eventi e le persone con gli occhi di Dio. Sì, pregare è esercitarsi a somigliare a Dio, imparando da lui come si agisce nella storia, come si accolgono le persone, come si progetta il futuro, come si legge il presente e come si cammina con gli altri nei propri tempi che sono sempre «tempi di Dio». Nessun tempo può essere privilegiato, perché «io sarò con voi fino alla fine del mondo» (Mt 28,28) e se lui è con noi sempre, giorno dopo giorno, abbiamo l’obbligo di «stare con lui» per imparare come lui sta con noi e fondere in un unico modo i due versanti fino a diventare uno perché uno è il Signore nostro.

Per vedere Dio, è sufficiente lasciarsi contemplare dall’Invisibile mentre si prega. «Ascoltare» non significa dire parole e formule, ma essere «silenzio», cassa di risonanza che fa rimbombare la Parola «sottile» di Dio, che, sebbene Parola creatrice, è sempre un «silenzio sottile», flebile, gracile, un soffio appena sussurrato che deve essere custodito. È l’esperienza di Elia che non vide Dio nelle manifestazioni rumorose del vento, del terremoto e del fuoco, ma nella «voce di silenzio sottile» (1Re 19,12). Due ossimori potenti: «voce-silenzio» e «silenzio-sottile». Veramente Dio è un grande umorista che sa cogliere con brio il senso e il nesso delle cose. Se la parola non si fa silenzio non può mai divenire Parola; se il silenzio che è già pieno senza necessità di nulla non diventa ancora più sottile, cioè più profondo, affilato come spada (cfr. Eb 12,4), perde il contatto con la Parola: Parola e silenzio mantengono la propria identità se scompaiono l’uno nell’altra. Quando diciamo di pregare, anche molto, e che nonostante ciò Dio non ci ascolta, ammettiamo solo che teniamo separati Parola e silenzio, presenza e assenza.

L’anelito di Mosè e quello del Cantico dove Dio smania per vedere il volto della sposa orante, si prolunga anche nel NT, nei Greci giunti a Gerusalemme come cervi assetati alla sorgente. Essi rivolgono a Filippo e ad Andrea il loro anelito di desiderio: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21). Il Signore risponde rinviandoli alla morte in Croce: per vedere Dio bisogna salire il Calvario e sostare ai piedi della Croce per contemplare l’uomo crocefisso che incarna il volto dell’Invisibile. «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore…» (Gv 12,23-24). La Croce esprime una doppia prospettiva: dal basso, dove stanno il discepolo e la madre che guardano il volto di Dio crocifisso, e dall’alto dove il Dio morente guarda l’uomo e la donna, novelli Àdam ed Eva (cf Gv 19,25-27), segno sacramentale dell’intera umanità immersa nella visione del Dio invisibile che i cieli dei cieli non possono contenere (2Cr 2,5). È la croce il punto di congiunzione tra la morte e la risurrezione.

Pregare è solo perdersi in un afflato d’amore in cui si confondono e si fondono insieme due desideri fino a diventare uno solo, fino a sperimentare una sola vita. L’Eucaristia è tutta qui: lo spazio della visione sperimentata. L’Assemblea si raduna non per adempiere un precetto, pena il peccato, ma per permettere a Dio di contemplarla nello stesso momento in cui si pone davanti a Dio per vederne la Gloria, toccarne il lembo del mantello e mangiare il «Lògos della vita» (1Gv 1,1)

Paolo Farinella (6 – continua)




Insegnaci a pregare 5. «La preghiera è un bisogno di Dio»


Tralasciando il livello delle ovvietà superficiali, dopo avere scoperto l’importanza della preghiera nella vita di Gesù il quale, come ciascuno di noi, in essa ha cercato la direzione della propria vita – perché anche lui «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini» (Lc 2,52) -, proviamo ad approfondire, andando più in alto fino a toccare il lembo del mantello di Dio. Finora abbiamo visto alcuni atteggiamenti, peraltro appena abbozzati, riguardo alla preghiera dal nostro punto di vista, cioè dal punto di vista umano, che comprende anche quello di Gesù. Ci possiamo chiedere: pregare che senso ha dal punto di vista di Dio? È una domanda pericolosa perché mette in evidenza che noi pensiamo Dio come «oggetto» della nostra preghiera: «terminus ad quem», cioè destinatario. Siamo sicuri che sia sufficiente? Se Dio è «Padre», deve esserci necessariamente una reciprocità affettiva tra noi e lui. Se così è, bisogna considerare la preghiera anche dal punto di vista di Dio.

Anche Dio prega

Confesso che questi interrogativi, in un primo momento, mi sono parsi un’assurdità, pur restando indiscutibile la prassi di Gesù che prega «sempre». L’idea che Dio prega crea un problema enorme per noi, anche dalla prospettiva teologica. Un giorno scoprii un testo della tradizione ebraica, un Targùm, che mi tolse ogni dubbio, modificando radicalmente il mio approccio alla preghiera, il mio pensiero su di essa e anche la mia prassi che oggi cerco di vivere e spiegare nei limiti delle mie capacità. Cosa significa pregare dal punto di vista di Dio? In che cosa consiste la sua preghiera? Forse questo è un aspetto che non abbiamo mai valutato.

Gesù vive la sua vita all’insegna della preghiera, specialmente nel Vangelo di Lc (cfr. Lc 3,21; 5,16; 6,12; 9,18.29; 11,1; cfr. Mt 26,26.36). La preghiera è una pietra miliare che segna il percorso e la distanza tra lui e il Padre (cfr. Lc 3,21; 9,29; 22,42), e lo aiuta a capire e verificare se la direzione della sua esistenza è davvero in sintonia con la volontà del Padre.

L’AT contiene anche riferimenti all’attitudine di Dio alla preghiera. Esaminiamone due aspetti: la preghiera come desiderio umano di vedere Dio e la preghiera come «bisogno» di Dio di vedere l’Assemblea orante.

A – «Fammi vedere il tuo volto»

Mosè è il punto di partenza per capire il senso della preghiera come aspirazione che si consuma nella visione e non nella contrattazione. Il desiderio espresso da Mosè – che è l’anelito universale di conoscere Dio – è descritto come esperienza di vita che raggiunge il suo vertice nella visione del volto di Dio. Mosè sa che il Dio dell’Esodo non può essere imprigionato nelle categorie della religione perché di lui non si può possedere nemmeno il «Nome» (cf Es 1,14). Può essere desiderato, ma non visto, gli si può parlare, ma senza vederne il volto. È un «Dio vicino» (Dt 4,7), ma anche un «Dio terribile» (Dt 10,17; Sal 68/67,36). Nessun Ebreo può aspirare a «vedere» Yhwh senza sperimentare la morte: chiunque vede Dio muore; «tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20).

In Es 3 si racconta la visione del roveto ardente. Appena Mosè si rende conto di essere in una terra consacrata al Dio della montagna «El–Elohìm», è preso dal terrore e deve togliersi i sandali fatti con pelli di animali morti e quindi sorgente d’impurità (cf Es 3,5). Appena la voce si manifesta come «Dio», Mosè si butta faccia a terra perché ha paura di morire. «Disse: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio» (Es 3,6; 19,12.31; Lv 16,1-2; Nm 4,2; Is 6,3; Gdc 13,22). Il timore di «vedere Dio» e di morire persiste anche nell’Apocalisse, perché l’autore cade «come morto» (cfr. Ap 1,17) appena vede il «Figlio d’uomo» (Ap 1,13), ma, come nell’AT, riceve la garanzia della sopravvivenza.

Il tema della paura di Dio si sviluppa e si evolve lentamente perché in Dt 5,24 che riflette la teologia del sec. VII a.C. si legge: «Oggi abbiamo visto che Dio può parlare con l’uomo e l’uomo restare vivo» (cfr. anche Gdc 6,22-23). Il desiderio di Dio, comunque, è più forte della paura della morte, perché Mosè, – a cui «il Signore parlava […] faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (Es 33,11), senza però potere essere visto -, esprime l’anelito del profeta che porta in sé il bisogno dell’umanità intera:

«13Ora, se davvero ho trovato grazia ai tuoi occhi, indicami la tua via, così che io ti conosca e trovi grazia ai tuoi occhi; considera che questa nazione è il tuo popolo”. 14Rispose: “Il mio volto camminerà con voi e ti darò riposo”. 15Riprese: “Se il tuo volto non camminerà con noi, non farci salire di qui. 16Come si saprà dunque che ho trovato grazia ai tuoi occhi, io e il tuo popolo, se non nel fatto che tu cammini con noi? Così saremo distinti, io e il tuo popolo, da tutti i popoli che sono sulla faccia della terra”. 17Disse il Signore a Mosè: “Anche quanto hai detto io farò, perché hai trovato grazia ai miei occhi e ti ho conosciuto per nome”. 18Gli disse: “Mostrami la tua gloria!”. 19Rispose: “Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te. A chi vorrò far grazia farò grazia e di chi vorrò aver misericordia avrò misericordia”. 20Soggiunse: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”. 21Aggiunse il Signore: “Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: 22quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. 23Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere”» (Es 33,13-23).

Il dialogo tra Dio e Mosè è un continuo rincorrersi, un tentativo di sfuggirsi: Mosè chiede di conoscere la via e Dio risponde promettendo che il volto suo camminerà con lui; Mosè implora di «vedere la Gloria-Kabòd» e Dio promette di fare passare davanti a lui «tutta la mia bontà», mentre proclama il «Nome». Questa ambivalenza di «vicinanza/lontananza» permane nella preghiera in sinagoga, ancora al tempo di Gesù.

La versione greca della LXX di Es 33,13 esprime una richiesta indicibile, alla lettera: «manifesta te stesso a me, emphànison-moi seautòn», laddove il testo ebraico ne smorza l’audacia: «hod‘ènì-na’ ’et derakèka, fammi conoscere la tua via», oppure la «tua Gloria – ’et kebodèka» (Es 33,18). In Es 33,19 Dio promette a Mosè di far passare davanti a lui tutto lo splendore del suo «bene, tòb», mentre proclamerà il proprio Nome. Il grande esegeta ebraico medievale Rashì commenta che Dio consegna a Mosè la visione di sé nella preghiera fondata sul merito dei Padri, cioè sulla preghiera corale, espressione del senso dell’Assemblea che comprende anche gli antenati. Quasi a dire che quando noi preghiamo, anche in solitudine, non siamo mai soli, perché sempre la nostra preghiera è corale, ecclesiale. Ecco il testo di Rashì:

[Corsivo nostro] «“Farò passare innanzi a te…”. È giunto il momento in cui tu puoi vedere della Mia gloria quello che ti consentirò di vedere, perché Io voglio e debbo insegnarti un formulario di preghiera. Quando tu hai bisogno di implorare la Mia misericordia per Israele, ricorda a Me i meriti dei loro Padri, perché, come ben sai, se sono esauriti i meriti dei Patriarchi, non c’è più speranza. Io, dunque, farò passare tutta la Mia bontà dinnanzi a te, mentre tu ti trovi nella grotta» (Rashi di Troyes [1040-1105], Commento all’Esodo ad Es 33,19, pp. 320-321).

B – «Fammi sentire la tua voce»

In Es 33,22 Mosè è nascosto da Dio nella «cavità della rupe», coperto dalla mano di Dio che si mostra di spalle. Il richiamo della «cavità della rupe» rimanda espressamente al Cantico dei Cantici, dove il giovane amante appassionato e frenetico cerca disperatamente di vedere il volto dell’innamorata: «O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è incantevole» (Ct 2,14). Nel testo biblico è l’innamorato che sospira la visione dell’amata, mentre il Targùm (traduzione in aramaico durante la preghiera in sinagoga del testo letto in ebraico), trasforma l’innamorato in Dio-sposo che arde di passione per la sua sposa-Israele. Il testo che segue era letto in sinagoga al tempo di Gesù:

[Corsivo nostro] «E quando l’empio Faraone inseguiva il popolo d’Israele (Es 14,8ss), l’Assemblea d’Israele fu come una colomba chiusa nelle spaccature di una roccia: e il serpente cerca di colpirla dal di dentro, e l’avvoltornio di colpirla dal di fuori. Così l’Assemblea d’Israele: essa era chiusa dai quattro lati del mondo: davanti a loro il mare, dietro a loro inseguiva il nemico, e ai lati, deserti pieni di serpenti infuocati, che colpiscono e uccidono con il loro veleno i figli dell’uomo. Subito, allora, essa aprì la sua bocca in preghiera davanti al Signore (Es 14,10); e uscì una voce dai cieli dell’alto, che disse così: Tu, Assemblea d’Israele, che sei come colomba pura, nascosta nella chiusura di una spaccatura di roccia e nei nascondigli dei dirupi, fammi udire la tua voce (cfr. Esodo Rabba XXI, 5 e Cantico Rabba II, 30). Perché la tua voce è soave quando preghi nel santuario, e bello è il tuo volto nelle opere buone» (cfr. Mekilta Es 14,13).

La tradizione giudaica (Targùm a Ct e Rashi a Es 33) apre una prospettiva davvero interessante: al desiderio del profeta Mosè di vedere Dio e al desiderio dell’innamorato del Cantico di vedere il volto della sposa, il Signore risponde non solo insegnando le regole della preghiera (v. il tallìt più sotto), ma supplicando la santa Assemblea di dare a lui stesso, a Dio, la possibilità di contemplare il volto di Israele quando prega.

Si ribaltano i ruoli: non è più solo l’uomo che desidera vedere Dio, ora è Dio che vuole contemplare il volto dell’assemblea/sposa nell’atto della preghiera, perché nella preghiera si consuma la conoscenza che diventa estasi e contemplazione: l’amore. Quando noi preghiamo è Dio che contempla noi e arde dal desiderio di vedere il nostro volto. Pregare non vuol dire solo invocare Dio, nemmeno compiere uffici o proclamare lodi e neppure ringraziare Dio: tutto ciò è parte ancora di un rapporto esteriore. Pregare nella sua essenza più mistica e assoluta è rispondere al bisogno di Dio di ascoltare la voce amabile della sua sposa-Assemblea e di contemplarne il volto splendente di opere buone.

A tutto questo bisogna prepararsi perché un evento di tale portata non s’inventa e non s’improvvisa. La «preghiera» è un lavoro, un impegno – sì, un pondus/fatica – perché ci permette di esercitare il ministero dell’amore che si mette a disposizione di Dio che non può vivere senza «vedere» l’Assemblea orante. Qui è il fondamento ecclesiale della preghiera. Ci si riunisce in Assemblea liturgica perché essa è il volto che Dio anela contemplare, e solo in essa riceviamo la grande opera buona della Parola-Carne che noi restituiamo a Dio che la ridona a noi in benedizione e forza di vita. Altro che accendere una candela o recitare uno stiracchiato «Pater» o dire un miserevole e distratto «Rosario», doveri devozionali più che esigenze di vita.

L’esperienza di Mosè e il Targùm a Ct ci dicono che se, come i Greci di Gv 12,20-21, «vogliamo vedere Gesù», dobbiamo uscire dal mondo materialista della religione in cui siamo impigliati e di cui forse siamo schiavi, per salire in alto sulla montagna di Dio, dove trovare la fenditura nella rupe da cui ascoltare Dio che chiede di sentire la voce nella nostra preghiera. La prima missione con e per il Risorto, in un mondo distratto e frastornato, è la preghiera: non preoccupiamoci tanto di «vedere» Dio o di chiedere soluzioni ai problemi della vita perché «il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno» (Mt 6,32), quanto piuttosto di lasciarci vedere da Dio, dandogli la gioia di poterci contemplare mentre preghiamo, mentre dichiariamo il nostro amore e condividiamo la nostra passione nella Santa Assemblea.

In un contesto come quello del mondo odierno, dove l’efficienza è il mòloch della modernità, i testimoni diventano l’uomo e la donna che pregano, cioè coloro che sanno e vogliono perdere tempo in una duplice direzione: davanti a Dio e davanti agli uomini e alle donne di oggi. Pregare è perdere tempo per Dio e per l’umanità, esperienza che solo gli innamorati sanno comprendere perché sono gli unici che sanno perdere tempo per amore, con amore e nell’amore, ben sapendo che non è mai «tempo perso». C’è una differenza abissale tra «perdere tempo» e «tempo perso». Il primo è atteggiamento attivo, scelta motivata dalla presenza di un altro che è il senso e la pienezza della propria esistenza; il secondo è passivo e quindi subito, spesso senza coscienza e con distrazione. Chi ama perde tempo, ma non si perde mai.

Nella prossima puntata, approfondiremo lo «Shemà’ Israel» come preghiera di Dio al suo popolo e la forma della preghiera ebraica che riesce a sintetizzare lontananza e vicinanza di Dio anche nelle formule oranti, così come sono state scoperte negli scavi vicino a una sinagoga del Cairo, in Egitto.

Paolo Farinella, prete
 [5 – continua]


Il tallìt di Dio

Il midràsh Ròsh Hashanàh – Capodanno 17b, con una trasposizione retrospettiva, attribuisce a Dio stesso l’invenzione del tallìt, lo scialle bianco con strisce blu che copre il capo e le spalle degli uomini durante la preghiera quotidiana. Il midràsh narra che Dio in persona si manifestò a Mosè avvolto nel tallìt allo scopo d’insegnargli come avrebbe dovuto pregare ogni Israelita orante in futuro, e mentre si manifestava proclamava i tredici attributi di Dio elencati in Es 34,6-7: 1. Signore; 2. Eterno; 3. Dio; 4. Pietoso; 5. Misericordioso; 6. Longanime; 7. Ricco di benevolenza; 8. Ricco di verità; 9. Conserva il suo favore per mille generazioni; 10. Perdona il peccato; 11. Perdona la colpa; 12. Perdona la ribellione; 13. Colui che assolve.

Perché «13»? La risposta è rivelazione di un mistero grande e straordinario. Secondo la Ghematrìa o Scienza dei numeri che applica una regola esegetica ebraica, a ogni consonante dell’alfabeto (nell’ebraico biblico scritto le vocali non esistono, ma sono solo pronunciate) corrisponde un numero. Poiché il nome di Dio, «Yhwh» ha valore di 26, il numero 13 è esattamente la sua metà; anche la parola «’ehàd – uno» ha valore di 26. Non solo, ma il termine «amore – ’ahavàh» ha il valore di 13, esattamente quanti sono gli attributi di Dio. Parafrasando ironicamente potremmo dire che per fare «Dio – Yhwh» (= 26) occorre un «amore» (= 13) più le qualifiche/attributi di Dio stesso (=13) perché «Dio è Amore – ho theòs Agàp? estìn» (1Gv 4,8). Allo stesso modo, quando un uomo e una donna si uniscono per formare una «sola carne», fondono l’amore maschile che vale 13 e l’amore femminile che vale 13 e solo insieme esprimono «immagine e la somiglianza di Dio» (cf Gen 1,27), partecipando alla vita divina che è uguale a 26. Celiando, dal punto di vista umano, si può dire che per fare un Dio occorrono due amori fusi in uno. Chi ama porta in sé la metà di Dio e le sue qualifiche, e unendosi all’altra metà che è la persona amata forma un’unità sola, come uno è Dio.

Questa misteriosa unione mistica avviene nella preghiera, che è il «luogo» dove l’amore si fa carne e Dio si rende visibile perché lo Sposo può finalmente «vedere» la voce della Sposa e toccare il «Lògos/Verbo della vita» (1Gv 1,1). Qui è il fondamento della sacralità del rapporto sessuale che, se visto in questa chiave, è la preghiera suprema che manifesta alla «coppia-uno» il volto e la gloria di Dio-unico. Quando si parla di «chiesa domestica» è questo che s’intende: l’amore coniugale è la preghiera più alta perché è l’altare dove il volto di Dio/Yhwh (= 26) che è Uno (= 26) si esprime e si fonde nell’unità della coppia (= 13+13) che così diventa la manifestazione orante del volto di Dio.


Applicazione ecclesiale: Eucaristia dal Mistero alla banalità

Nella Chiesa cattolica ogni domenica si celebra l’Eucaristia, cui partecipa una parte non rilevante del popolo dei battezzati, nella stragrande maggioranza formata da persone anziane. In alcune chiese si trovano «messe a ogni ora» o quasi e tutte sono identiche, parte di una routine abitudinaria che si snoda nel tempo, nei mesi, negli anni, nei secoli. Eterno ritorno di un dovere da compiere, senza alcun anelito e aspettativa. Più un obbligo giuridico, da codice canonico che un’esigenza esistenziale di vita, un bisogno insopprimibile dello Spirito. «Finita la Messa», quasi un pedaggio da pagare, si ritorna agli affari della vita, come prima. Nulla è cambiato, tutto si ripete. L’Eucaristia, il «mistero» di Dio e della Chiesa, è ridotto a pratica di devozione e precetto obbligatorio. Pochi si rendono conto di cosa accade «prima, durante e dopo» l’Eucaristia. Proviamo a capire cosa dovrebbe essere per un credente.

L’Eucaristia è una convocazione dello Spirito che raduna l’Assemblea al monte della Parola (cf Is 2,1-5), simboleggiato dall’altare, a sua volta segno di Cristo risorto. La convocazione esige un’adesione, una risposta perché siamo nel contesto vocazionale: l’Eucaristia è la risposta alla chiamata, alla vocazione profetica di rispondere al Dio che convoca. Nessuno prende l’iniziativa da sé, ma, rispondendo all’anelito di Dio che ha bisogno di «vederci e sentirci», ognuno parte dalla propria diaspora, dalla propria individualità e s’incammina verso «il raduno storico ed escatologico» che si realizza attorno alla mensa imbandita, dove sono pronti la Parola, il Pane, il Vino, la Fraternità, la Profezia, la Storia. Rispondendo alla chiamata di Dio che convoca all’Eucaristia, diventiamo compimento della profezia di Ezechiele, perché a noi sono rivolte le parole del disegno di Dio:

«24Vi prenderò dalle nazioni, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. 25Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, 26vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ez 36,24-26).

Non si partecipa all’Eucaristia per adempiere un precetto o peggio ancora «per non fare peccato», ma per essere simbolo e segno del raduno delle genti e del desiderio di Dio di santificare il suo Nome, annunziando davanti al mondo la santità di Dio, cioè la sua natura di Dio amante:

«23Santificherò il mio nome grande, profanato fra le nazioni, profanato da voi in mezzo a loro. Allora le nazioni sapranno che io sono il Signore – oracolo del Signore Dio -, quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi» (Ez 36,23).

Ogni credente consapevole, nel giorno del Signore, rispondendo al Dio che convoca, come Abramo, lascia la propria casa, la propria solitudine e le cose; e «parte» (Gen 12,1-4) verso il luogo del raduno, nuova terra promessa, dove si compie l’evento sponsale tra Dio/Sposo fremente di desiderio di «vedere e ascoltare» l’Assemblea/Sposa, ardente di essere amata. La Parola di Dio proclamata diventa così la Profezia rinnovata e annunziata al mondo, il Pane e il Vino diventano i segni della fragilità e della comunione, la fraternità assume la caratteristica di un «testamento» dichiarato e firmato davanti all’umanità distratta da altri interessi e nella quale siamo chiamati a ritornare per essere lievito, sale, luce, in una parola testimoni.

 

 




Insegnaci a pregare 4.

Solitudine, solitarietà e comunità


Leggiamo nel Vangelo di Luca: «Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui» (Lc 9,18). Non è un’annotazione di transizione, ma una prospettiva teologica: Gesù è in un luogo «solitario» ma non è isolato, perché «i discepoli erano con lui». È solo ed è in compagnia.

Una medaglia a due facce

Non è un indizio da poco, perché quando nella preghiera pensiamo di «isolarci», fuggiamo dalla nostra vocazione. Al contrario, se la nostra è vera preghiera, non siamo mai solitari, anche se fisicamente siamo soli, perché siamo abitati dalla missione battesimale che ci apre all’ecclesialità universale. O la preghiera nostra è cristologica, nel senso che possiede il respiro di Gesù, o è solo un parlarsi addosso o un volare sulle nubi dei sogni anche a occhi aperti. Gesù prende coscienza della sua missione e delle scelte della sua vita nella preghiera, che diventa così «il luogo fisico» del suo rapporto col Padre che si esprime con i suoi discepoli. È questa l’ecclesialità, perché pregare è capire quale deve essere la direzione della vita alla luce della Parola e dentro la comunità orante.

Alla chiesa di Laodicèa, l’Angelo dice: «Ti consiglio di comperare da me… collirio per ungerti gli occhi e recuperare la vista» (Ap 3,18). Dal comportamento di Gesù, impariamo la differenza tra «solitudine» e «solitarietà o essere solitari». La prima è uno stato dell’essere, perché la solitudine è la profondità del nostro io, la capacità di stare con se stessi, abitando il pozzo profondo di sé. Essere solitari, invece, significa stare isolati, anche in mezzo agli altri: si può essere, infatti, in mezzo a una folla, ma stare soli e senza alcuna relazione. Si può, al contrario essere soli fisicamente, in carcere, in cella d’isolamento ed essere in comunione profonda con una moltitudine di persone. La solitudine ci dà la comprensione della nostra dimensione comunitaria, la solitarietà ci esclude da ogni relazione per rinchiuderci nella prigione del «non ho bisogno di nessuno, basto a me stesso». La solitudine è una dimensione dello spirito, la solitarietà un limite dell’egoismo.

Non sa stare in comunità chi non è capace di vivere la propria solitudine come espressione del proprio esistere, così come non sa pregare da solo chi non è in grado di pregare in comunità, e viceversa. Solitudine e comunità sono due facce della stessa medaglia e vale sia per le comunità religiose, sia per le coppie sposate, sia per gli amici. Soli e insieme, come Gesù che sta solo, ma in compagnia. La vita comunitaria in questa dimensione diventa lo spazio vitale dove la solitudine della persona si esprime e si realizza. La vita di comunione non è la somma di tante solitudini, ma la sinfonia di note singole che solo insieme, se armonizzate, riescono e possono dare come risultato un senso compiuto musicale.

Pregare è vivere

La preghiera non è un atteggiamento o un mezzo per scandire le ore del giorno, ma «uno stato» esistenziale indirizzato al senso della vita. Si prega per vivere e poiché si vive insieme agli altri, si prega con gli altri, anche quando si è soli. Tutta la vita di Gesù è segnata dalla preghiera. Si può dire che la sua giornata è scandita dalla preghiera che ne diventa l’attività è principale. Il Vangelo di Luca riporta, più degli altri, molti riferimenti alla preghiera di Gesù, tanto che, estrapolando i singoli passi e mettendoli insieme, si potrebbe ricavarne un autentico «vangelo della preghiera». Ad es.: Lc 3,21 (battesimo di Gesù); Lc 5,16; 9,18; 11,1 (luoghi isolati); Lc 6,12 (notte in preghiera); Lc 9,28.29 (trasfigurazione di Gesù); Lc 22,31.32 (Gesù prega su Pietro); Lc 22,41.44.45 (Gesù prega nel Getsèmani). Prima di prendere una decisione importante o nei momenti che precedono le svolte decisive della sua vita, Gesù è sempre in preghiera. Nessun momento né ordinario né drammatico della vita di Gesù è fuori da un contesto di preghiera. Si direbbe che egli è in «stato permanente di preghiera». E questo Francesco di Assisi lo ha capito perfettamente.

Gesù ha un obiettivo: compiere la volontà del Padre ed egli sa che questa volontà non è la sua morte in croce, come se Dio fosse assetato di sangue innocente. Al contrario, la volontà del Padre è un progetto di alleanza per tutta l’umanità e per ciascun individuo: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17).

Spesso si pensa che Gesù, essendo Dio, abbia sempre saputo quello che doveva essere e fare: se era Dio – si dice – sapeva tutto e quindi, prevedendo tutto, andava sul sicuro: una sorta di superman con poteri extraumani. Questa è la caricatura di Gesù. Egli era profondamente e realmente «uomo» e come ogni persona umana ha scoperto il senso della vita vivendo la fatica della ricerca di senso. Se avesse saputo tutto «prima», il suo essere uomo sarebbe stato una finzione e la sua incarnazione un inganno: un dio-barzelletta. Se così non fosse e avessero ragione i fautori della «divinità a oltranza», non avrebbe avuto senso che Gesù pregasse, perché, essendo Dio, sarebbe stato inutile e anche una perdita di tempo «pregare se stesso»: il massimo del narcisismo. Peggio: la preghiera di Gesù sarebbe stata una finzione. Al contrario è stata una costante della sua vita perché, come ciascuno di noi, egli «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). Non ha avuto rivelazioni particolari, ma ha dovuto faticare come tutti, scoprendo il destino della sua vita lentamente, passo dopo passo, attraversando il percorso umano, senza sconti: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). L’invocazione «Dio mio», ripetuta, esprime il rifiuto della morte che Gesù sta vivendo. Egli non accetta di morire e forse non capisce perché sta morendo.

Mentre Luca trasforma la morte di Gesù in «uno spettacolo – theorìa» (Lc 23,48) di gloria, senza sangue, senza violenza, quasi una liturgia, Marco e Matteo invece evidenziano il dramma della sua preghiera che è quasi un «chiedere ragione» al Padre ed esige una risposta. In Giovanni la morte di Gesù è la nuova creazione in cui la madre e il discepolo svolgono la funzione di Àdam ed Eva, i (nuovi) progenitori che non si accusano a vicenda, ma si accolgono reciprocamente davanti al mondo intero, rappresentato da quattro donne credenti (le donne ebree) e da quattro soldati pagani che, indifferenti, si spartiscono le vesti. È il nuovo mondo che nasce nello stesso istante in cui Gesù prega il Padre di accogliere il suo spirito. Non è un caso che per Giovanni il momento supremo dell’offerta della vita di Gesù coincida con il dono dello Spirito all’umanità nuova che sta sotto la croce: «E reclinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30). È la nuova Pentecoste. Le vesti divise tra i soldati sono simboliche delle capanne che gli Ebrei costruivano alla festa del Sukkôt per rivivere l’esperienza del deserto nelle capanne. Ora la capanna è la preghiera di Gesù che assume su di sé non solo «il peccato del mondo», ma l’intera umanità sperimentata, istante dopo istante, come un uomo vero nella pienezza e nella debolezza, nella fatica e nella speranza, nella gioia e nel dolore. Gesù prega perché ha bisogno di sapere chi è, di conoscere la via che deve percorrere, di sperimentare il desiderio del Padre che è la sua vita.

Luce e forza

Luca è un autore attento perché ogni volta che Gesù deve prendere una decisione importante o si trova a una svolta della sua vita, lo descrive in preghiera. Scegliendo spesso luoghi solitari, egli pone in evidenza il bisogno di creare condizioni adeguate per saper scendere nel profondo pozzo della propria coscienza, cosa che non può avvenire nel cicaleccio, nella dissipazione e nella confusione. Le cose importanti accadono sempre nel silenzio, condizione previa per non ingannarsi e non essere ingannati. Il silenzio denuda il cuore e svela le ragioni delle scelte. In questa ricerca di senso della propria vita, Gesù prega per la realizzazione di sé come «inviato» per una missione che ha bisogno di chiarire a se stesso giorno dopo giorno. Egli associa nella sua preghiera anche i discepoli, affinché condividano e illimpidiscano anch’essi lo sguardo della loro fede per capire «dove» si trovano e «dove» vanno.

La preghiera di Gesù non ha lo scopo morale d’insegnare agli apostoli a pregare, anche se Gesù mostra loro lo stile e le condizioni della preghiera. Gesù dice di più: egli prega per chiarire a sé ciò che deve fare e quali scelte deve compiere, quindi invita anche gli apostoli a fare lo stesso perché la loro Chiesa dovrà pregare «ininterrottamente» (cf 1Ts 5,18; cf Ef 6,18; Lc 22,46) se vorrà verificare il proprio cammino e la propria coerenza nella fedeltà al Vangelo. La Chiesa, che deve testimoniare al mondo quali sono le ragioni che reggono le scelte di Gesù, deve prima sperimentare e solo dopo comunicare con parole e atti ciò che ha vissuto. Nessun profeta può annunciare ciò che non ha sperimentato. Ognuno, infatti, può testimoniare solo ed esclusivamente ciò che ha vissuto, dopo essere stato purificato dai carboni ardenti per poter mangiare il rotolo della Parola (cf Is 6,6-7; Ez 3,1-5).

Nota magico-teologica

Si pone un problema di ordine teologico per quella porzione di teologia che, ancora, pensa Gesù come un mago che conosce tutto e anticipa anche il proprio futuro. Il ragionamento è il solito: se Gesù è Dio, la sua divinità domina la sua umanità e quindi è anche «onnisciente», egli conosce tutto, anche l’avvenire suo e degli altri. Da qui la domanda: se è Dio e conosce tutto, perché non interviene a impedire il male? Questa è la caricatura della divinità di Gesù e la negazione della sua incarnazione: «Pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,6-7). Più in generale è la posizione di coloro che di fronte alla malattia e/o alla morte di un bambino, a un cataclisma che provoca centinaia di vittime reagiscono con frasi tipo: «Come può Dio, che sa tutto e vede tutto, permettere queste cose?». È il bisogno della divinità «a disposizione», il «Dio-tappabuchi» (Lückenbüsser), di cui parla il grande teologo luterano Dietrich Bonhöffer (1906-1945), invenzione dell’uomo per dare una risposta alle proprie insicurezze e paure: «Dio come ipotesi di lavoro, come tappabuchi, è diventato superfluo per i nostri imbarazzi» (Bonhöffer D., Resistenza e resa: lettere e appunti dal carcere, Bompiani, Milano 1969, 264).

Gesù che si pone in preghiera ci dice che è «simile agli uomini» e, come per tutti gli uomini, anche per lui «vero uomo», il futuro non è in suo potere e la sua coscienza si forma attraverso gli incontri che vive e gli avvenimenti che sperimenta. Anche Gesù deve cercare la volontà di Dio e il senso della sua vita. Esattamente come tutti. Poiché non è in grado di vedere cosa succederà, prega e chiede al Padre aiuto e chiarezza, invocando la disponibilità ad accogliere la vita, anche se non è come vorrebbe: la preghiera diventa forza per affrontare l’incertezza e luce per illuminare i suoi passi, come dice il salmista: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 119/118,105).

Gesù conosce le aspettative del suo popolo che attende un Messia della forza e della impietosa violenza, oppositore del potere di occupazione dei Romani. Egli avrebbe dovuto radunare Israele per andare alla riscossa della libertà e all’instaurazione del regno di Davide, lasciando dietro di sé una scìa di sangue e di morte. Gesù non sa cosa deve fare e prende le distanze da sé stesso, dagli eventi, da Dio andando in un luogo solitario a pregare. Fa spazio per fare decantare o esplodere le contraddizioni, diventa lui stesso campo di battaglia per fare evaporare le contrapposizioni, lascia che le indecisioni si sistemino e si confrontino, non fugge e non divaga: «Entrato nella lotta, pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadono a terra. Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza» (Lc 22,44-45). Non solo «si ritira in un luogo deserto», ma nel Getsèmani lotta fino a sudare sangue. È il senso della solitudine piena e profonda. Il testo non dice che Gesù pregasse «con» i discepoli, ma che i discepoli «erano con» lui. Vi sono momenti in cui è necessario non tanto restare soli, ma essere immersi nella «solitudine» esistenziale da cui nessuna compagnia ci può estraniare, perché certe dimensioni possono essere condivise solo nell’immensità dello Spirito di Dio.

Come Isacco

Gli altri possono intuire, assistere, partecipare, ma restano ai margini perché i destini della propria missione possono essere vissuti solo nel cuore di Dio. In questo senso pregare è fare chiarezza, imparare la morfologia della fede per leggere la propria esistenza e la storia con gli occhi e la prospettiva di Dio. Gesù non vuole essere un Messia di violenza e non vuole esaurire la sua azione in una dimensione politica, perché non è venuto per prendersi una rivincita sugli uomini, come dimostra il suo atteggiamento nei confronti del centurione romano (cfr. Mt 8,4-10) che accoglie come accoglie gli Ebrei. Egli vive la sua messianicità nella prospettiva della nonviolenza e della dolcezza espresse nella misura del perdono come dimensione della nuova giustizia (cfr. Mt 5,20; 6,1), che deve inaugurare il Regno che viene (cfr. Mc 11,10; Lc 17,20). Non è facile per lui scegliere questa via, perché significa mettersi in opposizione alla mentalità corrente che porrà fine alla sua missione «prima del tempo». Per evitare la violenza, infatti, egli dovrà subirla e per non uccidere dovrà essere ucciso prima di avere compiuto la sua missione messianica. «Rimetti la spada nel fodero» (Gv 18,11). Gesù si interroga sul senso della sua vita: se deve morire prima ancora di arrivare al compimento della sua missione, che Messia è? Non solo, ma la volontà di salvezza del Padre come può realizzarsi se egli non sarà in grado di portarla a termine? Come deve portarla a termine? È proprio necessario che egli debba morire? «E diceva: “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!”» (Mc 14,36).

Gesù agisce come Isacco che, non vedendo l’agnello del sacrificio, non riesce a capire, si abbandona alla volontà del Padre nella certezza che nulla accade per caso: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Se egli intraprenderà la via messianica della dolcezza e della tenerezza, scatenerà, come si dice abitualmente, «l’ira di Dio» e le forze del male si abbatteranno contro di lui, uccidendolo (cfr. Sal 17,11; 22/21,13; 27/26,6; 40/39,13; 88/87,18; 109/108,3; 140/139,10), ma la morte subìta non può essere l’ultima parola, anche se così sembra. Senza la preghiera tutto si sarebbe fermato alla superfice, con la preghiera tutto viene vissuto in profondità. In Gesù comincia a balenare l’idea della risurrezione: se Dio non può non realizzare il suo disegno di amore e se il Messia/Cristo è ucciso, il Padre saprà superare la morte e farà compiere oltre la morte stessa la missione al suo Cristo e Figlio. Come Isacco che si abbandona, affidandosi e fidandosi senza capire, al Dio del padre suo, Abramo, cui era stata promessa una posterità tratta dalla sua carne, perché se Dio è Dio, semplicemente non può venire meno alla sua Parola (Gen 22,1-18).

Narra un racconto ebraico che Isacco, vedendo Abramo titubante nell’impugnare il coltello, lo incita con ardore a compiere il sacrificio richiesto da Dio secondo il rituale. Il figlio unigenito incoraggia il padre a legarlo per ubbidire al Signore che sa quello che fa. Isacco legato alla legna del sacrificio sull’altare di pietra, sul monte Mòria, dove secoli dopo sorgerà il tempio di Gerusalemme, è simbolo di Cristo, il Figlio Unigenito, legato al legno della croce e sacrificato sull’altare per regalare la sua vita all’età di 36 anni. Abramo disse a Dio: «Quando in futuro i figli di Isacco ti pregheranno e ti chiederanno qualunque cosa, tu li ascolterai, ricordandoti dell’Aqedàh/legatura di Isacco» (L. Ginzberg, Le leggende degli Ebrei. II. Da Abramo a Giacobbe, Adelphi Edizioni, Milano 1997, 98-102).

Per i meriti del figlio Isacco, Abramo ricevette l’alleanza da Dio. Per i meriti di Cristo legato alla croce, l’umanità ha accesso a Dio.

Paolo Farinella (4 – continua)

 




Insegnaci a pregare 3:

«Dal deserto al cosmo per la storia»


Non si può amare e non si può pregare nella confusione, nel frastuono e nella dispersione. L’intimità che non sia prostituzione esige riservatezza perché l’amore custodisce la persona amata e l’amore, come la preghiera, esigono la condizione preliminare del «silenzio», anzi dell’«ascolto del silenzio». Per questo occorre non solo «fare silenzio» dentro e attorno a noi, ma «essere silenzio», cioè abitarlo come luogo d’intimità (cfr Sap 18,14-15).

Lo sa il salmista che prega: «Per te il silenzio è lode, o Dio, in Sion, a te si sciolgono i voti» (Sal 65/64,2). È probabile che questo salmo sia stato formulato in terra d’esilio, lontano dal tempio di Gerusalemme, e che l’autore, privo dei sacrifici, dei riti e delle liturgie, si limiti a immaginare, in silenzio, il tempo del tempio, quando nulla ne faceva temere la distruzione. Il silenzio stesso è sacrificio, cioè offerta di lode, da qui si deduce che la preghiera sostituisce i sacrifici e non si esaurisce nelle formule, ma nel desiderio, nell’anelito di essere e stare con Dio. Come conciliare tutto questo con le condizioni di vita di oggi, in cui rumore, chiasso, frettolosità e superficialità sono onnipresenti?

Seduzione e deserto

Anche Dio, quando deve recuperare l’amore tradito e sporcato, non trova altra soluzione che condurre la donna/Israele nel deserto, nel cuore del silenzio, al riparo da sguardi indiscreti: «Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò sul suo cuore» (Os 2,16). Nemmeno Dio si può sottrarre alla pedagogia e alle dinamiche dell’innamoramento, se vuole che la sua relazione con l’amata sia vera e profonda. Per il profeta Osea, il «deserto» non è solo il luogo geografico dell’esperienza della liberazione dall’Egitto, ma è anche il luogo della solitudine e della riservatezza, il «dove» che custodisce da occhi estranei la persona amata perché l’amore totale non può avere come proscenio la piazza, ma solo lo spazio che unisce i due cuori.

Anche Gesù va nel «deserto» fisico, simbolo del deserto intenso della sua anima. In greco «deserto – èr?mos», da cui èremo, è luogo isolato, pur non assente dal mondo perché è nel mondo, ma non del mondo; luogo dove la dimensione della vita scorre non sulle onde agitate dei cavalloni del mare in tempesta, ma sugli alisei sottotraccia, dove il tempo ritma l’eterno e l’eternità scandisce l’essenziale dell’esistenza, purificando dalle scorie del superfluo. Nel deserto non si porta l’abito da sera o il vestito della festa: solo l’essenziale è consentito, ciò che non ingombra e non appesantisce. Il deserto è il luogo della purità del cuore e della limpidezza dello sguardo, dove per sentire anche il sussurro dell’amore e per vederlo basta «chiudere gli occhi».

Nel deserto non ci si può distrarre perché come custodisce, così uccide, pieno com’è di pericoli e insidie che impongono vigilanza e attenzione. Il deserto non ispira la preghiera per occupare il tempo, perché nel deserto non c’è tempo, ma soltanto il sole che brucia il giorno e impone il buio, allungando le paure come ombre e le tensioni come desideri. Nel deserto tutto è sospeso, anche la vita. In questo contesto la preghiera diventa la misura dell’essere, nell’aspetto del desiderio e dell’agire, del progettare e del realizzare. La verifica della vicinanza con Dio si trova solo se c’è il clima dell’ascolto nel silenzio che diventa attenzione assoluta all’altro/Altro. A questo livello non occorrono parole, perché basta «esserci».

La preghiera è – e non può non essere – relazione tra due innamorati. Da questo punto di vista pregare significa, lo abbiamo già detto, perdere tempo per la persona amata. Gesù, infatti, non sottrae tempo agli altri, ma solo a sé, al suo riposo, per dedicarlo al Padre, la Persona che ama più di ogni altro. «Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava» (Mc 1,35). L’evangelista ci tiene a precisare che questo stile di Gesù è abituale, che cioè la sua vita è ritmata dalla preghiera non come un sistema di formule o obblighi da adempiere, ma come necessità interiore. Mentre tutti dormono, all’aurora, prima dell’alba, egli veglia sul mondo in comunione col Padre, facendosi carico delle fatiche e delle assenze dell’umanità. L’incontro col Padre per lui è la vita, la sua vita, e senza di esso non può vivere. Per Gesù pregare è illimpidirsi lo sguardo per adeguare sempre più la propria vita a quella del Padre e crescere in intimità con lui: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30). Pregare non è dire formule, ma imparare a «stare con…».

Due innamorati stanno insieme per uniformare pensieri, desideri, tenerezza, aspirazioni, progetti, sentimenti, volontà, decisioni, ecc. Gesù prega per mantenere la sua vita in conformità con a quella del Padre perché egli «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). In questo senso la preghiera diventa anche purificazione da eventuali tracce di egoismo narcisista e di tornaconto.

Fratel Arturo Paoli, profeta di oggi, fino alla sua morte, anche da centenario, si alzava ogni notte verso le quattro del mattino e trascorreva ore a dialogare con l’Amico, come fanno gli amanti. Qui stava la sorgente segreta della sua profezia visibile.

L’Eucaristia della testimonianza

La preghiera è un crogiolo che brucia le reste e lascia integro il frumento (cfr Lc 3,17) perché è un principio di trasformazione radicale. Se uno prega e non parla soltanto con se stesso, entra in intimità d’amore con il Signore e quando finisce di pregare non è più lo stesso perché passa dalla preghiera d’intimità alla vita di preghiera: egli prega vivendo, come prima viveva pregando; la vita diventa preghiera e la preghiera è vita, come dovrebbe essere in modo particolare il vivere l’Eucaristia.

Quando termina la celebrazione dell’Eucaristia, di solito si pensa che sia finito tutto: «La Messa è finita. Andate in pace». Ma non è così, perché finisce solo l’aspetto rituale della celebrazione, che è premessa indispensabile per l’Eucaristia della testimonianza che inizia da quel momento in poi, varcando la soglia della chiesa per entrare nel tempio del mondo. Si entra nella dinamica della vita ordinaria che è l’altare su cui celebriamo la lode, il pane, il vino, la condivisione, la fraternità delle nostre scelte, azioni e parole. Finisce la Messa del rito e inizia l’Eucaristia della vita nella liturgia della testimonianza che è il martirio quotidiano (cfr Sal 54/53,8; 116/115,17; Ger 17,26; Eb 13,15).

San Bonaventura, biografo di San Francesco d’Assisi, diceva di lui, come abbiamo più volte accennato, che «non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso era trasformato in preghiera vivente – non tam orans quam oratio» per dire della sua orante testimonianza.

Sul silenzio, il suo valore e la sua necessità per la vita, suggeriamo: H.J.M. Nouwen, Ho ascoltato il silenzio, Queriniana, Brescia 201215; F. Battiato, Il silenzio e l’ascolto. Conversazioni con Panikkar, Jodorowsky, Mandel e Rocchi, a cura di Giuseppe Pollicelli, Castelvecchi-Lit Edizioni, Roma 2014. Su Francesco di Assisi, cfr Tommaso da Celano, Vita Seconda, LXI,95, in Fonti Francescane. Scritti e biografie di San Francesco d’Assisi. Cronache e altre testimonianze del primo secolo francescano. Scritti e biografie di santa Chiara d’Assisi, Movimento Francescano, Assisi 1977, 630 n. 682.

La preghiera non fa ripiegare mai su se stessi, non fa attorcigliare sull’io ma apre a prospettive nuove: invita ad andare sempre «oltre», ad altri villaggi, ad altri bisogni, ad altre incarnazioni, ad altri rischi di novità. Allarga l’orizzonte della vita ristretta per adeguarlo all’immensità della visione di Dio. Ecco perché bisogna imparare a pregare non per se stessi, ma per e con gli altri, per l’«ekklesìa» dentro la quale stanno anche i nostri bisogni e le nostre necessità, se è vero che Dio si prende cura degli uccelli e dei gigli del campo (cfr Mt 6,26-30). Se gli altri pregano per me, la loro preghiera è più grande e più forte perché sono in tanti (coralità ecclesiale) a pregare per me e perché è preghiera disinteressata e gratuita. Di questo metodo parleremo più avanti.

Imparare a pregare significa imparare a essere semplicemente se stessi nella consapevolezza di essere figli amati e stimati di Dio. Nel vangelo di Marco, pregare è lasciarsi scegliere da Gesù per tre obiettivi: «Stare con lui», «essere mandati a predicare» e «avere il potere di scacciare i demòni» (cfr Mc 3,13-15).

  • Stare con lui significa avere consuetudine di frequentazione diuturna e di vita.
  • Essere mandati esprime la coscienza della responsabilità della credibilità di Dio nel mondo.
  • Scacciare demòni vuol dire condividere con gli uomini e le donne di buona volontà le lotte della vita contro la fame, la sete e la povertà, la disoccupazione, la mancanza di casa e di dignità, che costringono la maggioranza dell’umanità a vivere prigioniera della febbre dell’ingiustizia, schiava di un sistema economico e umano che si nutre delle differenze e delle disparità e beve il sangue dei deboli crocifiggendoli sull’altare delle migrazioni.

Pregare è imparare a essere il «sacramento» della Shekinàh/Dimora/Presenza di Dio nel mondo per cominciare a costruire il regno della libertà secondo il Vangelo che è il cuore di Cristo. L’Eucaristia è la preghiera corale di tutta la Chiesa che misticamente, cioè realmente, ci rende partecipi a tutte le Eucaristie che si celebrano nel mondo, di cui ciascuno di noi è un frammento, un segno, una speranza, una promessa proiettate sul futuro. Ogni comunità eucaristica è la «Chiesa universale», rappresentata «sacramentalmente» che c’impedisce di chiuderci in noi, obbligandoci ad aprirci all’universo perché l’orizzonte dell’Eucaristia o è universale o semplicemente non è.

Pierre Teilhard de Chardin, il gesuita teologo e paleoantropologo, perseguitato dal Sant’Uffizio e poi parzialmente riabilitato, parlava di «Cristo Cosmico» e la sua «Messa sul mondo» era la visione di Cristo risorto, contemplata dalla prospettiva dell’evoluzione universale (Pierre Teilhard de Chardin, Inno dell’universo-La messa sul mondo-Il Cristo nella materia-La potenza spirituale della materia-Pensieri scelti, Queriniana, Brescia 2011). L’Eucaristia non può soddisfare un precetto individuale per tranquillizzare il dovere religioso «per non fare peccato»: sarebbe prostituzione di tornaconto. L’Eucaristia annuncia, proclama e condivide con l’umanità la Benedizione del Padre, Gesù il Signore, il «Vangelo» dato a noi. Il mondo si salverà da se stesso, se sapremo trasformare la nostra vita in preghiera e la nostra preghiera in vita.

Paràclito e Chiesa

Scendiamo in profondità e vediamo cosa accade nel «giorno del Signore». La domenica, un grappolo di fedeli si affretta alla spicciolata per «andare a Messa» – i più spiritosi dicono: «prender Messa» -, guardando l’orologio, in attesa che finisca presto. Quando tutto «è compiuto», si esce in fretta e si corre via a riprendere quello che si era interrotto, con la coscienza di aver perduto del tempo prezioso. Il vangelo di Giovanni col termine «Paràclito» indica lo Spirito Santo, inviato da Gesù Risorto: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. Il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (cfr Gv 14,16.26). Strettamente connesso a «Paràclito» è il termine «Chiesa – ek-klesìa», ma nessuno vi fa caso.

Il termine «ek-klesìa – chiesa» non appartiene alla tradizione evangelica, essendo molto tardivo. Esso ricorre solo 2 volte in Mt; 23 in At; 33 nelle lettere maggiori di Paolo [Rm, 1-2Cor e Gal]; 22 nelle lettere pastorali, attribuite a Paolo [Ef; Fil; Col; 1-2Tm; Ti e Filem]; 2 in Ebrei; 1 in Giacomo, nessuna in 1-2Pt; 22 nella letteratura giovannea [lettere e Ap] per un totale circa 105 occorrenze.

Possiamo dire che è un termine che non appartiene a Gesù, che non l’ha mai usato, ma alla tradizione successiva. Paràclito e Chiesa, dal punto di vista semantico, dunque, sono connessi. Ambedue i vocaboli derivano dal verbo base greco «kalè? – io parlo/chiamo».

  • Paràclito è composto con la preposizione «parà» che indica «vicinanza/accostamento», per cui «para-kalè?» significa «chiamo/invito/nomino in favore di… o a nome di…», e quindi anche «prego/invito/esorto/consolo». In italiano acquista il senso esteso e logico di «avvocato».
  • Chiesa si compone con la preposizione «ek-» che indica origine/provenienza, per cui «ek-klesìa» significa radunata/convocata/ riunita da Dio che ne costituisce il fondamento.

L’affinità semantica tra «ek-klesìa» e «parà-clito» non è solo linguistica, ma funzionale, di una reciprocità che bisogna mettere in luce; i due termini, infatti, non possono essere separati, pena la dissoluzione di senso di ambedue.

Alla luce di tutto questo, ecco cosa accade nel «giorno del Signore». I credenti sono chiamati, convocati, radunati dallo Spirito-Paràclito per costituire l’Ek-klesìa di Dio. Partendo dalla propria individualità e diaspora, ciascuno converge verso l’Altare, il nuovo monte del Signore, divenuto «fisicamente» segno del «raduno universale dei popoli per ascoltare la Parola del Signore» di cui parla Is 2. Nessuno di noi partecipa all’Eucaristia di sua iniziativa o per sua volontà, ma ciascuno risponde a una chiamata, per cui l’Eucaristia non è un «dovere», ma una vocazione dello Spirito cui si risponde non con una parola, ma con un gesto, un atto, «andando», come Abramo: «E Abramo partì» (Gen 12,4).

Se siamo figli e opera dello Spirito, in rappresentanza del mondo intero, del cosmo universale (Teilhard de Chardin), anche noi convergiamo dalle diaspore in un unico «luogo» per prendere coscienza di essere «popolo», santa Assemblea orante che, esercitando le funzioni sacerdotali dell’alleanza, prende atto della «Signoria» di Dio, ne accoglie il Lògos annunciato sul mondo, ricevendolo come benedizione e consolazione per riportarlo nel mondo come dono di Dio, spargendolo attraverso le parole, le azioni, le relazioni della vita di ogni giorno.

Altro che preghiere tisicucce e malferme in salute, altro che formule stantie e monotone! Altro che «messe a ore» o per togliersi il pensiero. L’Eucaristia è la preghiera per eccellenza, la sola che la Chiesa può elevare davanti alla Maestà del Lògos che risuona nel silenzio per essere a sua volta ridonato a Dio in una reciprocità di scambio, in cui il dare e l’avere è solo e soltanto il Lògos, la Parola di Dio fatta carne. È necessario uscire dall’isolamento egoistico dell’individualismo, scoprire il senso «ecclesiale» della preghiera che non è stare fisicamente insieme a recitare salmi o rosari, ma coscienza di espletare una «missione» in risposta a una chiamata che si consuma nel desiderio di essere «sacramento visibile» dello Spirito che ci convoca in «chiesa» per riconoscere lo Spirito attivo nella storia e in ogni singola persona.

Ci assumiamo così il compito di andare alla ricerca della sua Presenza, disseminata ovunque, portarla alla luce, adorarla e amarla. Con la morte e risurrezione di Gesù, la croce si frantumò in un’infinità di minuscoli pezzi che si sono dispersi in tutto il mondo e in «ogni carne» come scheggia di sofferenza e di dolore, come sigillo di risurrezione.

San Giustino (100-162/168), uno dei primi padri della Chiesa sub-apostolica, parla di «hòi lògoi spermatikòi – i semi del Verbo», (2 Apologia 8, 1-2; 10, 1-3; 13, 3-6), come se il Lògos, dopo avere ingravidato l’intera umanità attraverso lo Spirito suo, ora mandasse i suoi discepoli a raccogliere i diversi semi dispersi per radunarli in un unico popolo rinnovato e risorto.

«La riflessione non può prescindere dal riflettere sull’opera che nei singoli e nelle comunità svolge lo Spirito Santo che sparge i “semi del Verbo” in ogni costume e cultura, disponendoli ad accogliere l’annuncio evangelico. Questa consapevolezza non può non suscitare nel discepolo di Cristo un atteggiamento di dialogo nei confronti di chi ha convinzioni religiose diverse. È doveroso, infatti, mettersi in ascolto di quanto lo Spirito può suggerire anche agli “altri”». (Giovanni Paolo II, Omelia della Vigilia di Pentecoste, 10 giugno 2000, anno giubilare; sui «semi del Verbo» cf Conc. Vaticano II, Decr. Ad gentes, n. 11; Dich. Nostra aetate, n. 2).
Compito del cristiano è, quindi, immergersi negli eventi e nella storia per ricomporre il Cristo, riunendo i frammenti disseminati in ogni persona, in ogni cultura, in ogni tempo, in ogni religione, in ogni peccato, in ciascuno di noi. La vita è preghiera vivente.

Paolo Farinella, prete
(3 – continua).




Insegnaci a pregare 2: Non sappiamo pregare


Separare lo spirito dalla carne, l’anima dal corpo è un’operazione antistorica e contraria alla fede. Essa impedisce di sperimentare la presenza di Dio con cui instaurare un dialogo d’amore. Sant’Agostino, che pure è responsabile di quella separazione in occidente, così dialogava con il Signore: «Tu sei a me più intimo del mio [stesso] intimo e più profondo della mia [stessa] profondità – interior intimo meo et superior summo meo» (Confessioni, III, 6, 11). Non basta scegliere una chiesa vuota, magari buia o in penombra per illudersi di pregare. È solo un psicologismo riparatorio per consolarci e assolverci per la nostra sistematica assenza dalla vita di Dio. La preghiera non è «una» dimensione della spiritualità – in tal caso sarebbe un accessorio -; essa è uno «stato» permanente dell’essere credente, come l’aria che si respira lo è della vita.

Pregare è innamorarsi

Pregare! Parola magica e tragica insieme, piena di evocazione, parola difficile che spesso non sappiamo riempire, perché scomoda e di cui abbiamo smarrito il senso. Pregare! Che cosa significa? San Paolo, che ne ha vissuto dramma e consolazione, spina e tenerezza, ci avverte nella lettera ai Romani: «Noi non sappiamo pregare/chiedere» (cf Rm 8,26). La stessa Parola di Dio, quindi, ci mette sull’avviso che la preghiera si apprende, s’impara andando a scuola da Gesù, l’unico esegeta del Padre (cf Gv 1,18), il solo Maestro (cf Gv 13,13). San Paolo, ai Corinzi che s’inebriavano d’intelligenza e di «mente», scrive:

«11I segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio… noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato… 14Ma l’uomo lasciato alle sue forze non comprende le cose dello Spirito di Dio: esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché di esse si può giudicare per mezzo dello Spirito… 16Infatti chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo consigliare? [cf. Is 40,13] Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo» (1Cor. 2,11-12.14.16).

Solo lo Spirito conosce Dio e, quindi, solo coloro che hanno ricevuto lo Spirito. Per entrare in relazione con Dio, bisogna avere un rapporto stabile con lo Spirito che ci mette in contatto con il pensiero di Cristo, superando la tentazione di Àdam, sempre in agguato, che cerca di sostituire lo Spirito con le sue forze che si rivelano «follia» e presunzione. Occorre abbandonarsi alla tenerezza dello Spirito se non vogliamo precluderci «i segreti di Dio», cioè la sua intimità. Diversamente ci attorcigliamo nella follia del nostro narcisismo volontaristico per apparire chi non siamo, moltiplicando parole su parole, perdendo tempo senza raggiungere alcun frutto. Sapendo che ci saremmo impantanati nella preghiera di contrattazione mercantile, lo stesso Gesù, l’uomo spirituale per eccellenza, ci aveva già messo in guardia, prima di regalarci il «Padre nostro», avvertendoci: «Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,7-8). Segue il «Padre nostro», composto da sette domande: tre sono centrate sulla persona di Dio e quattro sulle relazioni fondamentali tra le persone. Il numero sette in ebraico indica totalità, a dire che nel «Padre nostro» c’è tutto e il resto è superfluo. Il commento supplementare di Gesù al «Padre nostro» è la parabola degli «uccelli del cielo» e «dei gigli del campo» per confermarci che è tempo perso chiedere a Dio «ciò di cui abbiamo bisogno», perché lui conosce già le nostre necessità. Quando vogliamo pregare di solito entriamo in una chiesa o una cappella, o magari ci ritiriamo in un angolo quieto della casa, e subito cominciano a parlare e a chiedere. Ci siamo mai fermati a «perdere tempo» con Dio che pure diciamo di amare «sopra ogni cosa»? Ci siamo mai interessati a lui, indipendentemente dai nostri bisogni? Dio, come stai? Come è andata oggi? Sei stressato anche tu, in questo mondo frettoloso che si uccide da solo? Molto spesso trattiamo Dio non come un «Padre», né come un Amico, ma come un distributore automatico: entriamo, mettiamo la moneta e pigiamo il pulsante per avere quello che c’interessa. Buon giorno, buona sera e alla prossima puntata.

Abitudine e passione

Il problema, forse, è che non ci fidiamo abbastanza né di noi né di Dio e quando parliamo di Provvidenza, il nostro cuore pensa alla previdenza. Altro che Spirito! C’è uno scollamento tra la vita feriale e le parole che diciamo e per questo il mondo non può credere, perché noi non siamo credibili e non abbiamo mai pensato che dirsi credenti non significa «andare a Messa» o in processione, o «confessarsi e comunicarsi almeno a Pasqua»; ma soltanto assumersi la responsabilità della credibilità di Dio che passa attraverso la nostra credibilità. Parliamo di amore fraterno, di amore gratuito, di accoglienza, di poveri, di perseguitati, di crocifissi e poi nutriamo sentimenti razzisti davanti agli immigrati, guardandoci bene dal dirlo apertamente, ma pensandolo nel profondo della nostra paura. Dio, l’Eucaristia, la Parola sono un’abitudine che abbiamo ricevuto per tradizione e non sono mai entrati a circolare come sangue nelle vene della nostra esistenza di credenti in Dio. L’unico e il solo che ha preso sul serio questa pagina «sine glossa» è stato Francesco di Assisi, il solo di cui, come abbiamo accennato, si poté dire che «non era uno che pregava, ma era preghiera egli stesso».

La preghiera, infatti, non è un’attività, ma uno «stato» interiore di comunione/intimità tra Gesù e suo Padre, tra noi, Gesù e il «Padre nostro». È una consuetudine di dialogo affettivo e reale che si snoda lungo la vita, nella giornata, giorno dopo giorno, ora dopo ora. Non è un processo psicologico emotivo, anche se questi aspetti sono presenti, ma è una dinamica di relazione tra due persone che si conoscono, si stimano, si accolgono, si desiderano. Pregare è essere presente, non per educazione, ma esclusivamente perché l’altro è importante: la persona più importante, senza della quale non si può vivere. Spesso confondiamo la preghiera con la recita di formule più o meno complesse che esprimono solamente il nostro bisogno psicologico di «sentirci» protetti e al sicuro, col rischio che si possa confondere la preghiera con il parlare con se stessi. Ci affidiamo alle parole perché abbiamo paura del silenzio che è la condizione dell’ascolto.

La persona narcisista che si parla addosso, non è capace di ascoltarsi e di ascoltare, per cui di norma resta estranea non solo agli altri, ma anche a se stessa. Anche se utilizziamo i salmi e ci serviamo della Liturgia delle Ore, non è detto che stiamo pregando. Se non sappiamo pregare, occorre imparare a capire chi si è, a quale livello di profondità e per quale scopo si vive e conoscere il perno attorno a cui ruota tutta la nostra esistenza. Essenzialità e priorità: abbiamo mai pensato a individuarle? Il primo passo della preghiera è «sapere cosa vogliamo» da noi stessi, «dove» siamo nel cammino della nostra vita e nella storia della salvezza. Da questa prospettiva la preghiera è la costante verifica di questo percorso, illimpidirsi lo sguardo per vedere «dove» si è e «dove» si va, per non correre invano o, peggio, a vuoto. La preghiera non è una routine che si consuma ogni giorno con le stesse modalità: Lodi al mattino, Ora media durante la giornata, Vespro la sera e Compieta prima di andare a dormire. Possibilmente trafelati. Molti religiosi e cristiani che pregano con il «Breviario» spesso s’illudono di pregare solo perché «recitano» la preghiera ufficiale della Chiesa, perché «obbligatoria» e quindi «per non fare peccato», limitandosi inevitabilmente alla materialità delle formule, in fretta e senz’anima. Non si rendono conto che hanno ingannato se stessi, illudendo gli altri che eventualmente li osservano.

Se pregare è un rapporto d’amore, occorre essere innamorati (è un concetto che ritornerà spesso in questa nostra riflessione) e, in ogni rapporto d’amore, i due innamorati devono sapere chi sono per se stessi e l’uno per l’altra, scoprendosi reciprocamente come l’uno sia la parte migliore dell’altra. Non si può essere innamorati a orario, allo stesso modo non si può pregare con lo scadenziario alla mano, come se pregare fosse una tassa da pagare. Un esempio chiarirà questo aspetto importante. Tutti dovrebbero sapere che l’Eucaristia è la preghiera per eccellenza della Chiesa, l’atto centrale della vita di Dio che si manifesta nella vita dell’ekklesìa perché è l’azione con cui il popolo di Dio offre al Padre il Figlio che si dona all’umanità e allo stesso tempo lo riceve come benedizione da spargere nel mondo con il sacramento della testimonianza della vita.

Altri tempi, altra preghiera

I martiri di Abitène (vedi Box) nel 304 non esitarono a morire per celebrare l’Eucaristia domenicale e, al procuratore romano che voleva costringerli a desistere, risposero senza tentennamenti: «Sine dominico, non possumus», cioè «Senza la Messa domenicale, non possiamo vivere» (Atti dei Martiri di Abitène, XII), perché qui è la Parola, il Pane, il Vino, il Perdono, la Fraternità, l’Universalità. In un soffio: qui è il Cristo condiviso.

L’Eucaristia è non solo «un sacramento», ma la vita stessa della Chiesa perché è l’annuncio al mondo che Cristo è risorto e «se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede» (1Cor 15,14). Come può, dunque, l’Eucaristia diventare un’abitudine, un atto di devozione, un dovere/obbligo/precetto «per non fare peccato»? Si può amare per dovere? Se l’amore fosse un dovere, nessuno amerebbe e nessuno si sposerebbe e nessuno avrebbe figli e figlie. Si ama e si può amare solo per amore, e per amore a perdere, non per averne una contropartita. Certo, l’amore ha dei doveri, che però ne sono conseguenza, mai la ragione. La maggior parte dei credenti, fa tranquillamente a meno dell’Eucaristia domenicale e se va a confessarsi, mette tutto a posto con «ho perso qualche Messa». Nelle stesse comunità religiose, la Messa è «una pratica di pietà» banale da sistemare alla meno peggio. Se nell’Eucaristia cerchiamo una consolazione sentimentale o vi «andiamo» per compiere un dovere necessario, perché vi siamo obbligati dalla «legge», siamo ancora nel vecchio mondo, anzi restiamo morti e incapaci di cogliere la novità della storia, cioè che «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù» (At 3,13). Partecipare all’Eucaristia è vivere esistenzialmente la preghiera piantati nel cuore di Dio perché il popolo convocato innalza sul mondo colui che è stato trafitto affinché tutti possano alzare lo sguardo su di lui e ricevere il dono dello Spirito: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37; Zc 12,10).

Di fronte a questo evento che sconvolge la vita di Dio e quella della Chiesa, l’atteggiamento corrente è tragico: l’Eucaristia – la Messa – è trasformata in un «atto di devozione» privato e banale, «Dico Messa la mattina, così mi tolgo il pensiero per la giornata». Dire Messa! Una recita e null’altro. Nelle parrocchie le «Messe» sono misurate sulla persona del prete o delle intenzioni: Messe ripetute a ogni ora, anche se vi partecipano poche persone oppure tante Messe quanti sono i preti perché a ogni Messa corrisponde un’offerta. È un dramma avere legato l’Eucaristia a «un’offerta sinodale», mercificando anche il corpo di Dio. Quanti preti celebrerebbero la Messa se non fosse legata a una offerta? Non sta qui la ragione prima della secolarizzazione e dell’incredulità del mondo di oggi? I preti sono professionisti, non «sacramento» della gratuità di Dio. Non era questa l’intenzione, ma a forza di agire così si è arrivati a commercializzare anche l’atto supremo della preghiera e della gratuità fino a ridurlo a una pia pratica di devozione come tante.

Amare esige tempo

In molte parrocchie e chiese, per esempio, mezz’ora prima dell’Eucaristia, si recita il Rosario o si fa l’esposizione del Sacramento eucaristico che è o dovrebbe essere la conseguenza dell’Eucaristia celebrata. In questo modo «si riempie» il tempo con altri «momenti» perché non si è abituati né al silenzio né a essere silenzio di ascolto e di amore. Bisogna «fare», con l’esito finale che si finisce per fare male ogni cosa. In certi luoghi poi – molto di più nel passato, quando era un’abitudine – le parrocchie affittavano un confessore che stava fisso in confessionale durante tutta la Messa. Si «andava a Messa» per prendere due piccioni con una fava: «prendere Messa» e «mettersi a posto», finendo per non fare bene né l’una né l’altra cosa. Ciò che era importante era la presenza fisica, l’adempimento giuridico e formale, non l’atteggiamento spirituale del cuore. Determinante era arrivare alla Comunione «confessati». Pazienza se si era sacrificata la Parola di Dio, cioè la prospettiva vitale per cui Dio stesso si è scomodato per annunciarci il suo progetto di amore e si tornava a casa consci di aver compiuto il proprio dovere quantitativo… fino alla prossima volta. Le stesse Messe «a tutte le ore» erano finalizzate a facilitare la frequenza, senza alcun riferimento all’elemento comunitario, all’assemblea come «luogo» supremo dell’incontro d’amore tra Dio e il suo popolo. Tutte le Messe, tranne quella dei «bambini», erano deserte, con uno sparuto numero di presenti, sparpagliati nell’immensa chiesa, uno qua, l’altro là e il prete laggiù in fondo, quasi invisibile che recitava formule astruse per un dio sconosciuto. Ognuno per sé e Dio per tutti.

Raramente si sente dire: celebro l’Eucaristia nell’ora per me più importante della giornata. Gli Ebrei insegnano che ci vuole almeno un’ora di tempo per predisporsi all’incontro con Dio. Attenzione alle parole: non per incontrare Dio, ma solo per predisporsi all’incontro. Quando due innamorati si preparano per incontrarsi tra di loro, sono così contaminati dalla presenza, ancora assente, dell’altro che l’attesa è già più passionale dell’incontro perché la preparazione minuziosa e intensa si prende il tempo necessario, coinvolgendo tutta la gamma dei sentimenti umanamente possibili, dall’ansia al desiderio, dalla frenesia all’immaginazione. Tutto è finalizzato alla persona attesa che è potentemente presente prima ancora di averla incontrata. Se avviene questo nei rapporti umani perché a Dio consacriamo gli scarti di tempo e di energie? Pregare è come l’amore: perdere tempo per la persona amata. Lo sa bene il profeta Geremia che, dopo essersi lasciato sedurre, si abbandona, pur sapendo che soffrirà molto: «Mi hai sedotto e io mi sono lasciato sedurre» (Ger 20,7). Quando saremo in grado di pregare con queste parole, e queste parole avranno il sapore della carne e del sangue della vita, allora e solo allora, avremo finito il noviziato di apprendimento e potremo cominciare a entrare nella dinamica della vita di preghiera.

Paolo Farirella, prete
[2. – continua]


Abitène o Abitina

(in latino Abitinae) era una città della provincia romana, detta Africa proconsolaris, oggi Tunisia, a Sud Ovest dell’antica Mambressa, oggi Medjez el-Bab, sul fiume Medjerda secondo una indicazione di Sant’Agostino, vescovo d’Ippona (cf. Contra epist. Parmeniani, III, 6, 2 = CSEL 51,141; cf anche J. Schmidt, in Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie der klassischen Altertumwissenschaft, I, 1, 101, s.v. Abitinae). Ad Abitène viveva una comunità cristiana. Il 24 febbraio dell’anno 303, l’imperatore romano Diocleziano aveva emanato l’editto contro i Cristiani, ordinando di distruggere i libri sacri, i luoghi di culto in tutto l’impero e proibendo, pena la morte, ogni assemblea per celebrazioni religiose. Il vescovo del luogo, Fundano, si adeguò immediatamente all’ordine imperiale, mentre 49 Cristiani, tra i quali vi era anche Dativo, senatore, e Restituta, continuarono a radunarsi illegalmente con il presbitero Saturnino, celebrando l’Eucaristia. Arrestati, furono tradotti a Cartagine, la capitale della provincia romana per essere processati, il 12 febbraio del 304, davanti al proconsole Anulino. Nessuno abiurò, ma tutti fieramente affermarono il loro diritto di essere cristiani e molti subirono la tortura, morendo. Uno di loro, Emerito, interrogato sul perché avesse disobbedito all’ordine dell’imperatore, rispose la frase ormai celebre: «Sine dominico non possumus – Non possiamo [vivere] senza [il giorno del] Signore», cioè senza la celebrazione dell’eucaristia domenicale (cf. Martyrologium Romanum, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001; «Passio SS. Dativi, Saturnini Presb. et aliorum», in Pio Franchi Dei Cavalieri, Note agiografiche. Studi e testi, n. 65, fsc. 8, Città del Vaticano 1935).




Insegnaci a pregare 1: Un cambiamento di prospettiva


Conclusa la storia del Giubileo (e dei Giubilei), vorrei riflettere per i lettori di Missioni Consolata su un argomento che mi è caro ed è centrale nella vita cristiana: la preghiera. Di essa non abbiamo una consapevolezza piena, ma subiamo le conseguenze di un’usanza che si tramanda per forza d’inerzia, senza entusiasmo. Relegata ad alcuni momenti (mattina e sera) e luoghi specifici (chiesa), la preghiera non innerva la vita perché è momento separato, chiuso in sé, quasi mai sinonimo di vita. Rito e vita, in questa visione, sono divisi e distanti. Pregare ha sempre significato adempiere un atto o dedicare un tempo, dire formule imparate a memoria, corrispondere a un dovere giuridico (vedi l’obbligo del breviario per preti). Raramente è stato insegnato che pregare è vivere e respirare la vita.

Di Francesco di Assisi, come vedremo meglio in seguito, il suo biografo diceva che non era uno che pregava, ma era preghiera egli stesso. Com’è possibile? Come si può essere preghiera? Quale è la distanza tra la natura cristiana della preghiera e il nostro modo di pregare? Per rispondere a queste domande che interrogano la nostra esperienza di vita, è necessario partire la lontano con una parentesi un po’ lunga (questa 1a puntata) sulla formazione catechistica e solo dopo potremo cominciare a riflettere, aprendoci a prospettive che, forse, non abbiamo mai preso in considerazione e che potrebbero aiutarci a verificare il nostro modo di essere oranti. Interrogheremo la Bibbia e la Tradizione giudaica.

Catechisti per caso

Chi scrive, e quasi certamente chi legge, proviene da una formazione catechistica deformante che ci ha educati più all’ateismo pratico che allo spirito del Vangelo. I catechisti della nostra infanzia, infatti, erano (in buona misura lo sono ancora oggi) brave persone di buona volontà, laici, più donne che uomini, mamme, a volte suore, raramente preti. Persone adorabili, impegnate in parrocchia, ma senza alcuna formazione pedagogica, e tanto meno biblica e/o teologica. Che strano paradosso! Per insegnare materie scolastiche bisogna essere laureati, per trasmettere la vita di Dio, basta improvvisare! Con una infarinatura superficiale, fatta dal parroco che forse ne sapeva meno di loro in fatto di Bibbia e di teologia, essi davano ieri, e danno oggi, quello che a loro volta avevano ricevuto da altre brave persone, anch’esse carenti in formazione. La conoscenza superficiale della Scrittura era conseguenza di un approccio «per sentito dire» e appresa e trasmessa come «storia sacra» (racconto), senza distinzione tra libri storici o profetici, poetici o sapienziali. Spiegando i Vangeli, per esempio, quasi sempre i racconti della vita di Gesù erano confusi con i quelli apocrifi e miracolistici, creando enormi confusioni. Inevitabile che catechismo e omelia avessero un’impronta moralistica: pretendevano d’insegnare «cosa fare», non di educare a «chi essere». Se si facesse un’indagine seria si scoprirebbe che chi ha frequentato il catechismo, probabilmente non ricorda le Beatitudini nella versione di Matteo o di Luca, confonde Bibbia e Vangeli, ma facilmente rammenta «i capricci» di Gesù bambino che rompe le brocche per poi riaggiustarle o crea uccellini di creta, facendoli volare o, da vera peste, fa morire i compagni per il piacere di risuscitarli, dopo i rimbrotti di sua madre.

La via facile

D’altra parte il catechismo, almeno dal sec. XVI (Concilio di Trento) e ancora oggi, non è mai stato finalizzato alla crescita nella fede della persona e dell’ekklesìa, ma solo alla «sacramentalizzazione», cioè alla preparazione della «Prima Comunione» o della «Cresima» o «del Matrimonio». Per quest’ultimo, poi, tutto si risolve in cinque o sei striminziti incontri per supplire il vuoto di una vita! La sofferenza e la morte sono altra cosa, perché fuori dell’orizzonte cristiano, cui si accede se non all’ultimo momento, quello della sepoltura, come fatto esclusivamente sociale. Finiti questi appuntamenti «occasionali», termina anche la fede perché i ragazzi non partecipavano più – né partecipano oggi – all’Eucaristia, che fino ad allora avevano vissuto come «obbligo» o peggio come «ricatto»: se non vai al catechismo e se non «vai a Messa», niente gioco o premio o gita. Chi ha frequentato le scuole cattoliche ricorda ancora oggi, spero con orrore, «l’obbligo della Messa quasi quotidiana», e se ne è ritenuto dispensato per il resto della vita, una volta finita la tortura.

Quando ero bambino, bisognava timbrare il cartellino e raccogliere punti, come in un moderno supermarket. Come aggravante, il catechismo è stato strutturato sul calendario e sul metodo della scuola: identici tavoli, stessi quadei, stesso astuccio di colori, identico registro delle presenze, stessi tempi e stesse vacanze. Fino agli anni ’70 del secolo scorso, il testo del catechismo in uso, «da imparare a memoria», era quello di Pio X, divenuto la base della formazione religiosa per oltre mezzo secolo, fino al concilio ecumenico Vaticano II che pose le basi nuove per il «rinnovamento della catechesi» in chiave biblico-esperienziale e non più dogmatico-nozionistica


   Il catechismo di Pio X

Il Catechismo di San Pio X, dal titolo Catechismo Maggiore, fu edito per la prima volta nel 1905; era composto da 993 domande e relative risposte. Successivamente fu semplificato nel Compendio della dottrina cristiana, testo ufficiale e obbligatorio per la formazione cattolica. Nel 1912 fu redatta una sintesi detta Catechismo della dottrina cristiana con 433 domande e risposte. Al fine di predisporre un sussidio «sicuro» per la preparazione alla prima comunione che lo stesso papa estese anche ai bambini che avessero compiuto i sei anni di età, fu stampata un’edizione ridotta con il titolo Primi Elementi della Dottrina Cristiana che conteneva l’essenziale minimo del precedente Catechismo della dottrina cristiana. Alcune ristampe furono corredate da illustrazioni e figure. Domande e risposte dovevano essere imparate a memoria. Si facevano anche i «campionati di Dottrina» con premi per chi imparava più domande e relative risposte. Il catechismo di Pio X restò in auge fino al concilio Vaticano II. Oggi è ripreso, ristampato e usato dai tradizionalisti, nostalgici del ritorno al passato e in modo particolare dalla Frateità «San Pio X», che fa capo all’oppositore del concilio, mons. Marcel Lefebvre e ai suoi discendenti, comunemente conosciuti come «lefebvriani».


Tappe del catechismo

Nello spirito del dopo concilio, in Italia nacque il laboratorio catechistico, cui posero mano pedagogisti, biblisti e catechisti di eccezionale valore e competenza che prepararono gli strumenti adatti per rinnovare dalle fondamenta la catechesi, non più «settoriale», ma finalizzata alla formazione costante, dalla nascita fino alla morte. La riforma conciliare vide il catechismo come «vademecum» di accompagnamento della lettura e della preghiera della Bibbia per «tutta la vita», un commento perenne alla Parola di Dio, non finalizzato a questo o a quel sacramento, tappe occasionali, ma alla vita nella pienezza della fede. Fu una scommessa di grande respiro, forse il frutto più bello del concilio Vaticano II in Italia.

Nel 1970 fu pubblicato il testo base «Il rinnovamento della Catechesi» con le indicazioni su come dovesse essere compilato il catechismo, diviso per età di crescita, dal momento del concepimento alla morte. La formazione cristiana, infatti, inizia durante la gestazione con la preparazione di papà e mamma che, mentre pensano alla culla e ai pannolini, possono prepararsi col volumetto «Il catechismo dei bambini – Lasciate che i bambini vengano a me» (da 0 a 6 anni), cui seguono altri otto volumi che accompagnano le varie fasi della vita, fino all’età adulta. Se credere è vivere, il catechismo è lo strumento della vita credente. Il catechismo per età nacque «ad experimentum» e si concluse nel 1995 con i testi definitivi. Venticinque anni di lavoro che il vento della restaurazione fece arenare attestandosi su posizioni «contenutistiche e nozionistiche», finalizzate ancora alla «prima comunione, alla prima confessione, alla cresima, ecc.». Un quarto di secolo perduto perché non c’è nulla di più tragico che offrire testi, formalmente avanzati, ma usati con mentalità rivolta al passato, incapace di cogliere il comandamento di Dio negli eventi e nella storia. Si preferisce rifugiarsi nel calduccio delle certezze effimere che emergono dalle formule e dai riti, piuttosto che faticare nella ricerca di senso che è sempre una gestazione. La tradizione diventa così la scusa della propria pigrizia.

Chiunque può fare l’esperimento, in qualsiasi momento: le chiese oggi sono vuote e i pochi presenti sono tutti anziani; bambini e giovani sono diminuiti nel numero per vari motivi, anche demografici. Quelli che restano, finito il «dovere prescritto» come amara medicina, si sciolgono come neve al sole. I matrimoni civili in Italia hanno superato i matrimoni religiosi e sempre più morti rifiutano i funerali religiosi.

I più sprovveduti superficiali attribuiscono queste conseguenze al concilio Vaticano II che avrebbe distrutto la fede e la tradizione, perché, poveretti, senza catechismo a domande e risposte, non sono in grado di formulare un pensiero. Hanno bisogno del ricettario per giustificare la loro insipiente incapacità e povertà di spirito.

I più sapienti, invece, pensano che tutto ciò, ancora oggi, sia dovuto a mancanza di coraggio e di fede nello Spirito, memori delle parole dure di Gesù ai farisei del suo e di tutti i tempi: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione» (Mc 7,9). La situazione di oggi non è colpa della secolarizzazione, ma responsabilità di un clero incapace che ha dato vita a una catechesi inadeguata, guardando più al numero (quantità) che alla qualità della formazione.

Il principio del discernimento

Questa lunga premessa sulla formazione è necessaria per potere riflettere sulla situazione in cui ci troviamo, per capirla e anche per poter parlare della preghiera. Sono passati cinquant’anni dal Vaticano II e facciamo ancora fatica ad accettarlo, segno che le incrostazioni derivate da mentalità, cultura e tradizioni «consolanti» sono dure a morire e, segno ancora più grave, che siamo istintivamente portati alla conservazione più che al discernimento dei «segni dei tempi» imposto dalla «Parola di Dio». Non possiamo parlare della preghiera senza fare riferimento al mondo da cui proveniamo, un mondo che non è da rigettare, ma da soppesare per quello che ha significato e per le conseguenze che ha generato. Il concilio ha chiesto che la preghiera ufficiale della Chiesa e quella individuale dei singoli credenti fosse centrata, animata e nutrita dalla Parola di Dio, che non è un raccontino edificante, ma «la parola di Dio viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discee i sentimenti e i pensieri del cuore» (Ebr 4,12).

Il verbo disceere significa valutare/separare/giudicare/distinguere; il «doppio taglio» della spada dice plasticamente che nessuno può fuggire, perché non c’è alcuno che possa presumere di restare illeso. La spada affilata da ambo i lati assicura che «ferisca» in un modo o nell’altro, lasciando il segno, penetrando anche fin nell’intimo più profondo, dove forse neppure noi siamo mai scesi a vedere come stanno le cose; fino al punto di sutura dell’anima e dello spirito, coinvolgendo giunture, midolla, sentimenti e pensieri del cuore, cioè la totalità della persona nella complessità del suo essere: corpo, sentimenti, passioni, intuizioni, immaginazione, sofferenza, gioia, disperazione, anelito, ansia, progettualità e desiderio.

Nulla è estraneo alla Parola per chi accetta l’avventura di Gesù Cristo che non si accontenta di una parte, ma coinvolge tutto di noi, centro e periferia, esterno e interno, alto e basso. Se questo è il compito della Parola e se la preghiera deve essere nutrita dalla Parola, comprendiamo bene che non possiamo limitarci alle formulette del catechismo di un secolo fa. Forse allora andava bene così – ma ne siamo sicuri? – certamente non va più bene oggi e lo sperimentiamo ogni giorno.

Siamo figli del nostro tempo e nessuno può vivere fuori di esso. Possiamo anticiparlo, se viviamo docilmente all’ombra dello Spirito, ma non possiamo mai tornare indietro perché non ne abbiamo il potere né l’autorità. Rimpiangere «i tempi andati» è solo perdere tempo, tarpando le nostre potenzialità. Siamo nati per vivere e la vita è progresso, cioè maturazione, crescita in avanti e in alto, secondo il processo del bambino che diventa adolescente, giovane, adulto, vecchio. La vita non va mai indietro e chi rimpiange il passato è già morto di suo perché ha bloccato il germe vitale per paura e per poca fede nello Spirito di Dio che ha impresso nelle cose e nelle persone il Dna della risurrezione: come credenti, siamo chiamati a cercarlo, trovarlo e testimoniarlo. Nella gioia. Il vangelo è letteralmente notizia che dà gioia, ma se non siamo in grado di coglierla e di comunicarla, non abbiamo, forse, fallito la nostra stessa esistenza?

Il Catechismo Maggiore di Pio X alla domanda n. 254 «Che cosa è l’orazione», risponde: «L’orazione è una elevazione della mente a Dio per adorarlo, per ringraziarlo, e per domandargli quello che ci abbisogna». La definizione è la conclusione di un lungo percorso, iniziato nel sec. XVI tra fautori della preghiera vocale e fautori della preghiera mentale. Tra i primi c’era l’Inquisizione e l’autorità ufficiale della Chiesa, perché pensavano che la preghiera vocale fosse strumento più adatto a controllare l’ortodossia e quindi la disciplina dei fedeli. Tra i secondi vi erano mistici come Giovanni della Croce e Teresa d’Avila che per questo furono inquisiti e condannati dall’Inquisizione spagnola: Giovanni della Croce fu imprigionato e torturato e Teresa d’Avila, cui fu sequestrato il manoscritto sulla sua «Vita», dovette usare un linguaggio cifrato e scrivere per allusioni per non farsi scoprire, perché sospettata in quanto nipote di un giudeo.

* Per un approfondimento su questi temi, è molto interessante la biografia critica e documentata della riformatrice del Carmelo: Rosa Rossi, Teresa d’Avila. Introduzione a cura di Loretta Frattale, Editori Riuniti University press, Roma 2015.

Pregare è vivere

La definizione della preghiera di Pio X è ancora esteriore, perché si preoccupa più dell’ortodossia che dell’incontro dell’orante con Dio. Dietro c’è la nozione di un dio «filosofico», esterno, onnipotente, imperiale, non il «Dio Padre» del Vangelo predicato da Gesù. È un Dio temuto e da temere, non un Dio affettuoso e da amare, un padre con cui giocare e vivere. La preghiera è «elevazione» a Dio, non nel senso dei mistici di identificazione con Dio, ma quasi un’estraneazione di sé in senso platonico perché si dà una valutazione negativa di ciò che è umano, corporale e materiale. Lo spirituale è contrapposto al materiale visto come sorgente di ogni male. Non è la persona – tutta – che si relaziona con Dio, ma «la mente», la parte nobile, lasciando quella «ignobile», abbandonata a se stessa e sopportandola quanto basta come sostegno dello spirituale.

Questa scissione è assente nella Scrittura. In ebraico la parola «cuore» si dice «lebàb» (pronuncia: levàv); insegnano i rabbini che le due «b» stanno a significare le due tendenze del cuore umano: quella verso il bene e quella verso il male; esse non possono essere estirpate, per cui – concludono – bisogna amare Dio con tutt’e due le tendenze, anche con quella verso il male. Per questo nello Shemà Israèl si dice «amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze (= tutti i tuoi averi)» (Dt 4,5). La Mishnàh nel trattato Berakòt-Benedizioni 9,5 così spiega: «Bisogna benedire Dio per il male e per il bene, perché egli ha detto: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutti i tuoi mezzi. Con tutto il cuore, cioè con le due tendenze: il bene e il male». Nulla di noi è estraneo a Dio, nemmeno l’eventuale nostro peccato. È questo l’orizzonte di riferimento per riflettere sulla preghiera cristiana, relazione che si consuma nella sperimentazione e nella visione.

Paolo Farinella, prete
(1 – continua).




Storia del giubileo 13: due concili vaticani


Pio IX, papa Mastai Ferretti, suo malgrado esautorato da ogni forma di potere civile e politico, si chiuse in Vaticano, dichiarandosi prigioniero in casa propria, ma circonfuso della gloria della dichiarazione conciliare dell’«infallibilità», che seppur circoscritta nella forma, fu diffusa come una prerogativa assoluta e indiscutibile della persona del papa. Paradossalmente, la perdita del potere temporale contribuì non poco a incrementae l’autorità, trasformandolo, spiritualmente, in un monarca assoluto e indiscutibile quasi sinonimo esclusivo di «Chiesa».

Dal Giubileo del lutto del 1875 a quelli spirituali del sec. XX

Il papa, per non darla vinta alla masnada massonica di Casa Savoia, scomunicò Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, insieme all’artefice del Risorgimento, Camillo Benso conte di Cavour, e non si affacciò più al balcone esterno di San Pietro, dirottando tutte le manifestazioni religiose all’interno della basilica. Per il giubileo del 1875, in segno di lutto, ordinò di non eseguire il rito dell’apertura della porta santa, in compenso escogitò ogni casistica possibile per universalizzare l’evento e dare in tal modo uno schiaffo morale agli «invasori». Nonostante fosse prigioniero, il papa era sempre il vescovo universale della Chiesa cattolica che, in tutto il mondo, ne venerava l’autorità indiscussa.

Nel 1900 Leone XIII, il papa che per primo si rese conto di una «questione sociale» ben più grave della «questione romana», celebrò il giubileo secolare che apriva il XX secolo nel segno dell’attenzione alla spiritualità piuttosto che al risultato numerico ed esteriore. Le nazioni che per definizione erano «cattoliche», di fatto cominciavano a non esserlo più nell’era dell’industrializzazione e della grande sperequazione causata dallo sfruttamento del mondo operaio che spopolò le campagne per ammassare folle senz’anima in città impreparate. Paesi come la Francia e l’Italia, per ragioni diverse, diventarono «paesi di missione» e in quest’ottica Leone XIII consacrò il mondo al Sacro Cuore, nel tentativo di dare una chiave spirituale ai movimenti cattolici che si opponevano a qualsiasi rinnovamento sociale e religioso e allo stesso giubileo, dal momento che «il maggior bisogno dei tempi modei è il ritorno della società allo spirito cristiano» (Encicl. De Jesu Cristo Redemptore, 1900).

Il giubileo del 1900 fu usato da parte cattolica e combattuto da parte laica in chiave politica, per accentuare il prestigio del papa da un lato, o per dimostrare che solo lo stato poteva essere garante di libertà dall’altro. La stampa cattolica arrivò a parlare di «plebiscito giubilare» in contrapposizione al «plebiscito civile» del 1870 quando il popolo romano non mosse un dito per difendere il papa dagli invasori di Porta Pia. Lo scopo era evidente: si voleva arrivare a un accordo e ciascuno cercava di portare a casa propria più vantaggi possibili. Le questioni e gli eventi di questo giubileo di inizio secolo furono così tanti e così complessi che lo spazio a nostra disposizione non ci consente di affrontarli nemmeno superficialmente, per cui rimandiamo a qualche resoconto specifico, oggi reperibile facilmente.

Il giubileo del 1900 mutò lo statuto del pellegrino, il romeo che compiva il viaggio a piedi, trasformandolo in turista religioso, attraverso l’estensione delle ferrovie che, in quell’anno, a livello mondiale, raggiungeva ben 700 mila km. I treni viaggiavano anche a 50 km all’ora, accorciando notevolmente le distanze, abbassando i costi e limitando la perdita di giornate lavorative al minimo indispensabile. Non si spostarono più solo piccoli gruppi, ma comitive organizzate di migliaia di persone, il che favorì un turismo religioso di masse popolari, altrimenti escluse, e che mai si erano allontanate dai luoghi di nascita. Tutto questo non poteva non avere conseguenze «spirituali» perché, se il viaggio a piedi era simbolo sacramentale del pellegrinaggio verso la Gerusalemme celeste, ora la maggior parte del tragitto si consumava comodamente in treno. Cambiò anche lo statuto e il significato stesso di giubileo che divenne un percorso spirituale più intimistico, guidato e sostenuto da sussidi fatti appositamente, come opuscoli-guida, catechismi, foglietti per inculcare la necessità della confessione e le disposizioni per la comunione, a determinate condizioni, e definitivamente superò l’obbligatorietà della visita «a piedi» delle basiliche prescritte.

Mons. Giacomo Radini Tedeschi, futuro vescovo di Bergamo, di cui sarà segretario Angelo Giuseppe Roncalli, futuro Giovanni XXIII, fu responsabile dell’organizzazione religiosa dei pellegrinaggi popolari del 1900 e l’ideatore dei «congressi», in parte anche scientifici, durante l’anno giubilare, che diventeranno norma anche per i giubilei del sec. XX. Per citae alcuni: il congresso internazionale dell’archeologia cristiana; il XVII congresso dei cattolici italiani e anche degli Studenti Cattolici Universitari, della Gioventù Cattolica, dei Terziari Francescani. L’elenco potrebbe continuare.

I giubilei tra le due guerre, tra fascismi e concordati

Il sec. XX, «secolo breve»», il più secolarizzato e scristianizzato della storia, annovera il più gran numero di giubilei della storia, segno che questo istituto era diventato strumento ordinario di governo della Chiesa. A seconda di come si considerano alcuni giubilei, se ne contano quattro «normali» (1900, 1925, 1950 e 1975), cui bisogna aggiungee altri di vario genere: uno formalmente per il 50° anniversario di ordinazione sacerdotale del papa stesso (1929), di fatto per celebrare la firma dei Patti Lateranensi con cui si pose fine alla «questione romana», aperta con l’unità d’Italia che tolse al Papa il potere temporale del regno pontificio; due della Redenzione (1933 e 1983) e addirittura due «mariani» (1954 e 1988), più uno per la gioventù (14-15 aprile 1984).

Il giubileo del 1925 si svolse dopo la fine della 1ª guerra mondiale, «l’inutile strage», come ebbe a definirla il papa genovese, Benedetto XIV, mentre la rivoluzione russa di Lenin (1918) scalzava lo zar e instaurava il comunismo, ateo per ideologia. In Italia Mussolini si assunse la pateità dell’omicidio di Giacomo Matteotti e concentrò su di sé il potere dittatoriale d’Italia (3 gennaio). In Germania iniziava l’ascesa di Hitler. Pio XI, per contrastare l’illusione di un’antropologia politica finalizzata a istaurare una religione civile, istituì la festa di Cristo Re che ebbe grande successo in Europa, dando impulso a uno spirito missionario non solo in terra di missione, ma anche a Roma, in Italia, in Europa e in Occidente. L’emblema di questo spirito fu la canonizzazione di Teresina di Lisieux, proclamata patrona delle missioni perché, pur senza mai spostarsi dal suo Carmelo, visse col desiderio di dare la propria vita alle missioni, e quella del Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, proclamato patrono del clero. La manifestazione più simbolica fu la Mostra Missionaria Mondiale, quasi una «Expo della fede» (A. Melloni), cui collaborò anche il giovane prete Angelo Giuseppe Roncalli, futuro Giovanni XXIII, al tempo responsabile dell’Opera Missionaria Italiana. Durante il giubileo, la casa regnante dei Savoia sospese tutte le feste e i ricevimenti, lo stesso fecero gli uffici diplomatici e la nobiltà romana. Il carnevale fu rimandato, la logistica e l’accoglienza dei pellegrini che giungevano da tutto il mondo furono facilitati e favoriti, quasi a tendere una mano al Vaticano. Segni, come in un linguaggio cifrato, d’intese segrete che porteranno alla firma sia del Trattato sia del Concordato del 1929, con cui il papa cessava di rivendicare il potere temporale, ormai inutile, e si accontentava di quello morale e spirituale che avevano accresciuto la sua statura anche politica non solo in Italia. Tutto con un risarcimento in obbligazioni della stato italiano e la nascita del nuovo stato «Città del Vaticano». Il papa usciva purificato dall’avere perduto un regno di questo mondo che non gli apparteneva, e risultava ancora più forte e potente perché, libero da qualsiasi condizionamento, diventò figura sempre più simbolica e per questo potentemente condizionante anche sul piano politico, come la storia dell’ultimo secolo ha ampiamente dimostrato fino all’avvento del papa argentino, Francesco.

Il giubileo dell’onnipotenza senza regno

Il 1950 fu il giubileo della fine della seconda guerra mondiale, dell’inizio della «guerra fredda» con la conseguente divisione del mondo in due zone – Occidente/Usa e Oriente/comunismo – e della ricostruzione dell’Italia del dopo guerra. Al governo vi erano uomini cattolici indiscussi, come Alcide De Gasperi, e Roma ebbe un nuovo imperatore, papa Pio XII, che si offrì come unica autorità morale e politica che di fatto condizionò il parlamento italiano, il governo, l’economia e il paese, attraverso il cosiddetto «partito cattolico» della Democrazia Cristiana, erede del più laico e sano «Partito Popolare» di don Luigi Sturzo. Sul piano religioso, Pio XII fu un faraone che, dall’alto della sua sedia gestatoria imperiale, dominava non una Chiesa, ma una cristianità rigorosamente separata in clero e laicato, con quest’ultimo sottomesso al primo. Con l’escamotage della formazione delle coscienze, il clero sottomise i laici che erano sempre e solo «chiesa obbediente e ossequiente». Pio XII non fu scevro da una componente psicologica narcisistica, sfociata nel culto della personalità che lo portò a isolarsi e a diventare diffidente tanto da assommare in sé anche le funzioni subaltee, fino al punto di non nominare neppure il Segretario di stato, ruolo delicato e importante che riservò per sé, limitandosi ad avere due «sostituti» nelle persone di Domenico Tardini e Giovanni Battista Montini, il primo Segretario di stato di Giovanni XXIII e il secondo futuro Paolo VI.

Durante il corso del giubileo ci furono tre eventi, attentamente studiati e programmati da Pio XII nel contesto della sua politica.

  1. La beatificazione di Maria Goretti (24 giugno), una ragazzina che lottò contro il suo assassino per difendere la propria verginità, proclamata modello della gioventù del nuovo secolo, contro il rilassamento generale dei costumi che il dopo-guerra e la cultura statunitense avevano diffuso.
  2. L’enciclica «Humani Generis» (12 agosto) con cui il papa condannò gli «errori» che, secondo lui, minacciavano le fondamenta della religione cattolica, come lassismo, relativismo teologico, alcune interpretazioni della Scrittura e anche la teoria dell’evoluzionismo. Senza mai nominarli condannò l’insegnamento di giganti della teologia come Chenu, Congar, De Lubac e tanti altri che nemmeno dodici anni dopo sarebbero stati gli artefici del concilio Vaticano II che sancirà il loro insegnamento e le loro ricerche non solo come «cattoliche», ma come essenziali nel cammino di fede dell’intera Chiesa.
  3. La proclamazione del dogma dell’Assunzione di Maria al cielo (1 novembre) che vide un’enorme partecipazione di vescovi, popoli e autorità da tutto il mondo. Per la prima volta da ogni parte della terra si poté «partecipare» agli eventi sfavillanti del giubileo attraverso la radio e la tv che moltiplicherà l’impatto emotivo dei riti e della figura del Papa.

Quando tutto stava per concludersi secondo la norma e la prassi, Pio XII tirò fuori un colpo di scena, inatteso e travolgente: la vigilia di Natale del 1950, dopo avere sigillato la porta e pochi istanti prima di concludere il giubileo, annunciò personalmente al mondo il ritrovamento della tomba di Pietro che gli scavi archeologici nei sotterranei della basilica vaticana avevano confermato e certificato. La notizia si diffuse come un baleno in tutto il mondo, eccitò gli animi dei credenti e maggiormente dei non credenti, scienziati, storici e studiosi. A completare la notizia e quasi a prolungare la soddisfazione di avere posto ancora una volta il papato al centro del mondo, nonostante il mondo, Pio XII estese a tutto il 1951 le prerogative e le indulgenze dell’anno santo in corso. Ormai anche la Chiesa entrava nell’era della mondialità e ne approfittò. Se nel vangelo di Giovanni (12,20) i Greci aspiravano di «vedere Gesù», ora i pellegrini veri e anche quelli a domicilio, mediante radio e tv, anelavano solo a «vedere il papa» e questo gli bastava.

Il giubileo dubbioso e l’ingresso nel III Millennio

Nel 1975, dieci anni dopo la fine del Vaticano II, toccò a Paolo VI, il papa dubbioso per natura, celebrare il giubileo più controverso dell’età modea. Egli s’interrogò sulla necessità stessa di indire un giubileo e vi oppose obiezioni sostanziali: il concilio aveva indirizzato a una religiosità comunitaria piuttosto che di massa; la società era pluralistica e non più maggioritariamente cattolica; uno spirito secolare attestato era fonte di un sentire diffuso anticristiano per cui il giubileo avrebbe potuto essere controproducente; parlare di «indulgenze» sarebbe potuto apparire fuori luogo nel contesto di un cammino ecumenico ormai irreversibile; la «nuova teologia» andava crescendo e gli studi biblici avevano ricevuto un grande impulso dal superamento della paura di una condanna; vi era stato il referendum sul divorzio (1974), battaglia persa amaramente, in modo personale dal papa che si lasciò coinvolgere in una crociata senza senso da Amintore Fanfani, creando un evento traumatico per il cattolicesimo italiano tradizionalista e ancora sognante il ritorno alla «cristianità» medievale.

Il 9 maggio 1973, nell’indirlo, durante un’udienza pubblica, Paolo VI disse: «Ci siamo domandati se una simile tradizione [del giubileo] meriti di essere mantenuta nel nostro tempo…». Poi prevalse il rispetto della tradizione da attuare nei tempi nuovi, con spirito nuovo e più spiritualizzato. Il giubileo diventò non più espressione di fede, ma appello alla purificazione della religiosità per una ripresa più consapevole e genuina della fede in Gesù Cristo.

Il giubileo spartiacque tra il 1° e 2° millennio cristiano fu quello indetto dal papa polacco, Giovanni Paolo II, che stabilì sette anni di preparazione, quasi con un atteggiamento apocalittico. Il giubileo ebbe due epicentri: Roma e Gerusalemme, dove, per la prima volta, un papa ritoò «ufficialmente» dopo 2000 anni dalla partenza di Pietro per Roma, luogo che l’apostolo consacrò dando la vita per il suo Signore (la visita di Paolo VI nel 1965 a Gerusalemme fu una visita in terra di Giordania e non un ritorno in Palestina).

Chi scrive viveva stabilmente a Gerusalemme e fu testimone del ritorno di Pietro, quasi un bisogno di essenzialità e povertà che rimase come desiderio e tensione, ripresi oggi da papa Francesco che proclama il giubileo della Misericordia, offrendo ai credenti e al mondo il progetto di Chiesa delineata da Giovanni XXIII, nel discorso di apertura del concilio Vaticano II, l’unico progetto, valido secondo il vangelo e in tutti i tempi:

«La Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odiee, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando» (Gaudet Mater Ecclesia, 7,2).

Il giubileo del 2000, comunque, è ancora contemporaneo a chi scrive e a chi legge non è necessario raccontae anche solo i fatti più rilevanti. Per questo, quindi, rimandiamo alla memoria di chi l’ha vissuto, consapevoli che l’ultimo, quello di papa Francesco, è un giubileo che ha aperto le porte della Misericordia e non le chiuderà mai più perché «il Santo, sia benedetto, non respinge alcuna creatura. Al contrario, tutte gli sono care e le porte sono sempre aperte per coloro che vogliono entrare» (Midràsh Esodo Rabbàh 19,4).

Paolo Farinella, prete
(13, fine)