Paolo il romano (At 22,22-26,32)

Testo di Angelo Fracchia |


Ogni scrittore vuole intrattenerci ma soprattutto comunicarci qualcosa. Un saggista lo farà con argomenti, un romanziere, se è bravo, lo farà con suggestioni.

Luca è un bravo scrittore. Solo che nel Vangelo e nei primi due capitoli degli Atti aveva tenuto quasi sempre un po’ imbrigliato il suo genio, rinchiudendosi in formule e in uno stile narrativo che alle orecchie dei lettori non poteva che ricordare il mondo ebraico. Aveva infatti copiato lo stile con cui era stata tradotta in greco la Bibbia. Dal terzo capitolo degli Atti in poi, però, la sua lingua ha iniziato a essere più elegante, raffinata, e il racconto a farsi più articolato, avvincente. Più greco. Poco alla volta, Gerusalemme, che era diventata centrale alla fine del Vangelo e lo era rimasta all’inizio degli Atti, è diventata sempre più marginale, è stata citata sempre meno.

Luca, infatti, voleva comunicarci soprattutto due idee, peraltro collegate tra loro: che il movimento cristiano si era aperto ai non ebrei su stimolo dello Spirito Santo (e non per invenzione di Paolo), e che, pur nascendo da un mondo biblico che non avrebbe mai rinnegato, era però slanciato per raggiungere i confini del mondo (Lc 24,47; At 7,8). La prima parte della tesi Luca l’ha chiarita nei primi 14 capitoli degli Atti. Dal capitolo 15 in poi, quello che sembrava semplicemente una conseguenza (l’annuncio di Paolo ai non ebrei), ha preso sempre più il centro della scena. E ormai, al capitolo 22, è chiaro che Paolo resterà il protagonista fino alla fine.

 

Colpo di scena (At 22,22-30)

Siccome Luca sa scrivere bene, e ha una cultura greco latina che ci assomiglia più di quanto ci assomigli quella semita, alcuni dei suoi «allestimenti scenici» non sfigurerebbero nel nostro stile narrativo cinematografico.

Avevamo lasciato Paolo nel tempio, accusato ingiustamente di blasfemia e salvato dalla guarnigione romana, il cui centurione aveva già deciso di trattarlo come un qualunque agitatore di popolo, interrogandolo sotto tortura per sapere che cosa avesse combinato (At 22,24). La flagellazione era pena pesante, ma usata normalmente negli interrogatori dei potenziali «terroristi». Paolo ha però un asso nella manica. A sorpresa, svela di essere cittadino romano.

Durante il primo secolo d.C., la cittadinanza romana era appannaggio non solo degli italici (dall’89 a.C.) ma anche degli abitanti di alcune città privilegiate, di chi aveva prestato per vent’anni il servizio militare, o aveva aiutato lo stato romano in qualche modo. La cittadinanza, ereditaria, permetteva di essere trattati molto meglio di altri. La flagellazione, ad esempio, come la crocifissione, era una punizione che non si poteva infliggere a cittadini romani. E chi avesse imposto una punizione ingiusta, avrebbe subito la medesima punizione.

Si capisce, quindi, la paura del centurione e del comandante, quando Paolo svela di essere cittadino romano, e fin dalla nascita (22,25-28).

Paolo, d’un tratto, guadagna importanza e attenzione, che spiegano i privilegi di questo prigioniero speciale.

Il colpo di scena cambia anche la nostra attenzione su Paolo. Lo avevamo conosciuto ebreo persecutore di cristiani (8,1), abbiamo assistito alla trasformazione del suo nome (13,7: «Saulo, detto anche Paolo»), ora scopriamo che quel nome latino non era un soprannome casuale. Senza accorgercene, voltiamo le spalle a Gerusalemme e guardiamo al Tevere.

Cesarea Marittima. Resti della zono commerciale e amministrativa del periodo romano e bizantino, con iscrizioni in mosaico.

Drammatica sfida giudiziaria (At 23,1-11)

Ciò che Luca racconta sulla vicenda di Paolo suona a volte imprevisto ma sempre verosimile. La prima mossa di un comandante romano di fronte a un possibile agitatore politico, in effetti, sarebbe stata di interrogarlo (con tortura, era normale). Paolo si svela cittadino romano, e questo complica il quadro, anche perché le accuse sono di tipo religioso. Tendenzialmente i romani si disinteressavano di religione, a meno che avesse ricadute politiche. Ma per capire se in questo caso ce ne sono, devono sentire i capi del tempio. Ed è ciò che il comandante fa: interroga Paolo (senza tortura, il prigioniero è speciale) davanti al sinedrio.

E qui Paolo compie un gesto di rottura che, prima di lui, con la stessa gravità, era stato osato soltanto da Stefano con il suo discorso contro il tempio (At 7). Rimprovera infatti il sommo sacerdote (23,2-3), scusandosi per il fatto di non sapere chi sia (sarcasmo aggravante). Paolo infatti ammette che secondo la legge non bisogna insultare il capo del popolo (23,5), ma è chiaro che in questo contesto a guidare il popolo è Anania, anche qualora Paolo non lo conosca (il che pare improbabile). Questa risposta che sembra di scuse, in verità, sottintende che Paolo non riconoce Anania come guida, rompendo quindi nettamente con quella tradizione giudaica con cui fino al giorno prima Paolo sembrava voler scendere a patti. Ormai l’apostolo è difeso dai soldati romani, e, dopo aver tentato per anni di accordarsi con l’autorità religiosa ebraica, se ne distacca.

Complotti e fuga (At 23,12-33)

La reazione ebraica, cioè il complotto per uccidere a tradimento Paolo, ci può sembrare eccessiva, ma probabilmente non lo è. Un uomo di grande carisma, con un’ottima preparazione teologica, ha appena contestato in modo radicale l’autorità del sinedrio. Dal punto di vista ebraico, merita la morte, ma sono i romani a detenerlo, e il sinedrio non può quindi fare niente, se non cercare di ucciderlo a tradimento durante un trasferimento. Se morissero anche dei romani, dimostrandosi tra l’altro inaffidabili, tanto meglio.

A questo punto Luca inserisce un altro colpo di scena. Scopriamo infatti che Paolo a Gerusalemme ha una sorella, il cui figlio viene a sapere della congiura. Non è raro che Luca inserisca le informazioni solo quando servono. I bravi narratori riescono a farlo senza che sembri una forzatura (i narratori meno abili ci offrono tutte le informazioni all’inizio, e quando servono non ce le ricordiamo più). È sicuramente a motivo della cittadinanza romana che Paolo può ricevere in carcere dei familiari, mandarli dal centurione ed essere immediatamente trasferito a Cesarea Marittima, insieme a metà della forza armata disponibile ai romani. Il comandante ha capito che per questo personaggio il sinedrio è disposto a rischiare, ma non ha ancora capito perché, e quindi decide di proteggerlo. Inoltre, i soldati inviati a Cesarea possono essere di ritorno in due giorni.

A margine e implicitamente, Luca può suggerirci un sorriso e una lacrima. Quaranta ebrei giurano di non mangiare né bere finché non avranno ucciso Paolo… che però a sorpresa è fornito di una scorta insuperabile: non si saranno per caso condannati a morire per non aver saputo infliggere una morte? L’altra annotazione è un silenzio abbastanza sorprendente. Paolo gode di condizioni di detenzione evidentemente morbide, eppure non si dice mai che sia visitato da qualche fratello cristiano, come invece accadrà a Roma (At 28,30-31). Luca non calca la mano sulle mancanze dei credenti, ma è pronto a lasciarle intuire. Offre il quadro ideale di una chiesa, ma sa bene che imperfezioni e difetti restano sempre presenti. Sembra quasi dire anche a noi di puntare a una chiesa perfetta, ma senza pretenderla: neppure quella degli apostoli lo era!

A corte a Cesarea (At 23,34-24,27)

Non stupisca che si parli di corte. Certo, i governatori romani non erano re, rendevano conto all’imperatore e potevano essere deposti da un momento all’altro. Ma intanto, vivevano una vita quotidiana non molto diversa da quella di un re orientale, come Luca ci fa intuire tratteggiando i vari personaggi in tinte coerenti con ciò che ne dicono gli scrittori antichi.

Si parte dal governatore Felice, che abbozza non tanto un processo, quanto un’audizione informale per capire se avviare un procedimento vero e proprio. Ad accusare Paolo arriva un tale Tertullo (il nome è latino: cosa si diceva sull’intento di far dimenticare Gerusalemme?), apparentemente avvocato di mestiere, che inizia lodando Felice, per poi tentare un’accusa abbastanza mal concepita; la replica di Paolo procede liscia finché il suo discorso, da storico e filosofico, arriva a chiedere impegno da parte di chi ascolta (24,25). A quel punto Felice lo ferma. È un governatore che anche le altre fonti antiche ritengono inaffidabile: infatti, secondo Luca, il processo a Paolo non viene avviato né l’apostolo viene liberato perché Felice spera in qualche mazzetta per lasciarlo andare (24,26). Sappiamo che al termine del suo mandato, verrà poi chiamato a Roma per spiegare diversi difetti della sua gestione, ma alcuni giudei intercederanno per lui e non verrà punito. Forse l’annotazione perfida di Luca (24,27) non è campata in aria.

Cesarea Marittima.
Promontorio con colonne del palazzo inferiore, risalente al periodo romano

L’ultimo re giudeo (25-26)

A Felice succede il nuovo governatore, Festo, il quale cerca innanzi tutto di sciogliere i casi che si sono accumulati, e per questo ascolta Paolo. Evidentemente non trova nessun fondamento per le accuse politiche (altrimenti i romani non avrebbero avuto scrupoli a punirlo) e, sentendo che le dispute sono religiose, vorrebbe rimandarlo a Gerusalemme (25,9), anche come gesto di lusinga nei confronti degli ebrei che è appena arrivato a gestire. Di fronte al pericolo del viaggio e di un nuovo processo a Gerusalemme, Paolo taglia definitivamente i ponti e si appella al tribunale di Cesare. È un privilegio degli ebrei, quello di poter essere giudicati da tribunali ebrei, ma per Paolo sarebbe un rischio; i cittadini romani, a loro volta, possono in ogni momento appellarsi a Cesare, così da essere processati a Roma, dove i giochi di potere delle province non contano nulla. Non ci si può ritirare da un appello del genere: i romani sono particolarmente severi nei confronti di chi muove accuse e poi le lascia cadere. A Roma, quindi, Paolo andrà.

Non prima, però, di incontrare Agrippa e Berenice. Erode Agrippa II è un nipote di Erode il Grande, cresciuto a Roma e tenuto dai romani in un’alta considerazione che pare si sia abbondantemente meritata. C’è chi dice che se non fosse nato troppo tardi avrebbe potuto riprendere in mano lui la provincia di Giudea, evitando la rivolta del 66. Luca ce ne offre un ritratto altrettanto lusinghiero (26,3, ad esempio). Benché anche lui abbia sposato sua sorella, dopo che lei era già stata moglie di un altro (e più tardi avrebbe avuto un terzo marito), e sebbene il loro arrivo (25,23) ricordi per sfarzo e contesto il banchetto nel quale si decise la sorte di Giovanni Battista (Mc 6,21-22), Agrippa e Berenice ascoltano con attenzione l’ultima delle grandi autodifese di Paolo. Se Festo, digiuno di cose ebraiche, alla fine del discorso esplode in un «Sei pazzo, Paolo: la troppa scienza ti ha dato al cervello!» (At 26,24), Agrippa non si espone, come si conviene a un politico, ed è molto più rispettoso. Paolo, in realtà, tenta di coinvolgerlo con una domanda volta a fargli prendere posizione, dal momento che Agrippa conosce bene i profeti e può valutare la bontà del suo discorso (26,25-27). La risposta del re è una battuta diplomatica: «Ancora un poco e mi convinci a diventare cristiano!» (anche se l’interpretazione di questa frase abbastanza difficile potrebbe essere un po’ diversa). Così dicendo però ammette implicitamente che il discorso di Paolo ha senso, coerenza e correttezza.

E l’ultima parola registrata negli Atti da parte di un governante in Palestina è chiara: «Quest’uomo poteva essere rimesso in libertà, se non si fosse appellato a Cesare» (26,32). Con una narrazione avvincente e facilmente leggibile, Luca ribadisce che Paolo non è colpevole, e chiarisce che ormai la prossima tappa sarà Roma.

Angelo Fracchia
(19-continua)




Verso la fine (At 20,1-22,21)

testo di Angelo Fracchia |


Luca, negli Atti degli Apostoli, ci ha portati a scoprire che cosa è accaduto nei primi tempi della Chiesa, ma ci ha indicato anche che cosa, dentro quel cammino, era da preferire, e soprattutto ci ha indicato che la guida di quei passi era lo Spirito Santo.

Luca ha poi progressivamente messo al centro della scena Saulo di Tarso, un fariseo che, dopo aver perseguitato i cristiani, era diventato uno di loro e, più tardi, aveva iniziato a farsi chiamare Paolo, insistendo per aprire la porta della Chiesa ai non ebrei.

Ci sono state persecuzioni e intoppi, ma dentro a un cammino globale di crescita.

Da lettori potremmo esserci anche dimenticati che il progetto di testimoniare Gesù fino ai confini della terra (At 1,8) non è ancora realizzato. Ma ci aspetteremmo di essere condotti verso un lieto fine. E invece Luca ha ancora sorprese in serbo.

Non ce lo aveva detto

Il percorso della Chiesa dei primi decenni non è stato trionfale. Certo, un lettore distratto potrebbe vedervi soltanto successi, ma Luca ha lasciato intuire che, nonostante le persecuzioni risolte con liberazioni inattese (At 5,17-40), ci sono anche state vittime (Stefano: At 7,57-60; Giacomo: At 12,2) e profughi (At 8,1). Lo stesso lettore potrebbe vantarsi della condivisione di tutti i beni (At 4,32-35), ma non tutti la rispettavano (At 5,1-10), e alcuni cristiani venivano discriminati persino da altri credenti (At 6,1). In quanto a Paolo, egli è il grande campione dell’annuncio ai non ebrei, ma oltre alle molte persecuzioni da parte di giudei, ha dovuto anche affrontare tensioni importanti all’interno della comunità (At 15,1-2). Su queste ultime, peraltro, Luca glissa.

Nel punto in cui racconta del ritorno di Paolo dal terzo viaggio, però, Luca fa intuire che sta per accadere qualcosa di pesante. Senza le lettere di Paolo, forse non capiremmo fino in fondo che cosa è davvero successo, ma grazie soprattutto alla lettera ai Galati (in particolare Gal 1,6-8; 5,1-14), riusciamo a ricostruire un quadro meno ideale di quello che Luca ci mostra.

 

La questione dei «Gentili»

In ogni grande società esistono inevitabilmente più anime, che a volte faticano a dialogare e ad andare al nucleo che le ha fondate. È capitato persino nella prima comunità cristiana. Il mondo in cui il cristianesimo è nato, separava nettamente gli ebrei dai «gentili», ossia da tutti gli altri, «le genti». Gli ebrei si distinguevano per il rispetto della legge di Mosè, sintetizzata simbolicamente nella circoncisione.

Una delle prime scelte di fondo che i cristiani si sono trovati a dover prendere, ha proprio riguardato la sorte dei non ebrei: potevano essere inseriti nella comunità cristiana? E a che condizioni? Solo dopo essersi fatti circoncidere?

È il problema affrontato da Luca in Atti 15, quando racconta la decisione presa a Gerusalemme di ammettere nella comunità anche i non circoncisi; salvo che, a quanto pare, quella soluzione non aveva accontentato tutti. E alcuni avevano iniziato a tallonare Paolo nei suoi viaggi apostolici, quasi a correggerne le scelte, spiegando che Gesù era un ebreo, e che per vivere come Gesù bisognava diventare ebrei, rispettando tutta la legge di Mosè.

Paolo aveva intuito che se la decisione divina, accolta dall’uomo, non fosse stata sufficiente in mancanza di un gesto esteriore (come la circoncisione), allora nulla sarebbe mai bastato. Per dirlo con le parole di Paolo, la circoncisione è inutile (Gal 5,2), altrimenti Cristo è morto invano e la sua esistenza è inefficace (Gal 2,21). È chiaro che non si è trattato di piccole dispute di regolamento interno.

Ma è chiaro anche che gli avversari di Paolo non hanno lasciato perdere, e hanno iniziato a denigrarlo, affermando che volesse abbattere la legge di Mosè (At 21,20).

La colletta

Forse per questo Paolo (e qui siamo al punto dove ci siamo lasciati lo scorso numero) torna a Gerusalemme portando una imponente elemosina per i poveri (cristiani) di quella città. Luca, in realtà, ci ha parlato della colletta già prima (At 11,29-30), ma sembra un modo per confonderci. Una delegazione imponente come quella che parte per Gerusalemme (At 20,4: sette persone elencate, più Paolo e probabilmente Luca, che si include nel viaggio dal versetto 5), era costosa, e aveva senso se si doveva portare qualcosa di pesante, come una grande somma di monete, dal momento che gli assegni e i bonifici bancari non esistevano. Più persone garantivano una migliore protezione della somma e solo una somma importante poteva giustificare (e mantenere) una delegazione così numerosa.

Una prova

Luca, peraltro, spiega che a Gerusalemme chiedono a Paolo di finanziare il rito di scioglimento di un voto per quattro persone (At 21,21-24), per (di)mostrarsi un buon ebreo. Perché Luca ci racconta la vicenda in questi termini?

Un buon narratore ha come obiettivo di far capire ai lettori gli avvenimenti e di muovere alle emozioni che ritiene giuste, non necessariamente di riferire solo i particolari storici precisi. Oggi ci è chiaro che non tutte le parabole riportate nei Vangeli sono state dette originariamente da Gesù: se però ci aiutano a capire meglio quello che Gesù diceva, non importa che, materialmente, siano «invenzione» degli evangelisti. Anche un romanzo storico scritto bene può non essere accurato in tutti i particolari, ma farci intuire un contesto e delle vicende storiche persino meglio di opere più precise.

Luca vuole presentarci il quadro ideale di una Chiesa senza tensioni, se non magari occasionali (perché non può certo negarle tutte). Ma se dicesse esplicitamente che Paolo aveva coordinato una colletta così grande, quindi gestita durante lunghi mesi, farebbe intuire che le tensioni andavano avanti da tanto tempo, il che è storicamente molto probabile, rischiando di spaventare o scoraggiare i credenti.

Meglio allora parlare della colletta collocandola in un altro momento della storia e poi inserire Paolo nel rito tradizionale del voto, anche se, in realtà, vi era stato coinvolto per caso solo all’ultimo momento.

Luca, però, sa bene che la situazione è pericolosa e ce lo fa capire chiaramente quando riferisce gli ammonimenti di discepoli e profeti che predicano per Paolo un tempo difficile (At 20,23; 21,4.10-13), e scrivendo uno dei brani più toccanti degli Atti degli Apostoli.

Agli anziani di Efeso (At 20,17-38)

A Efeso, Paolo aveva lavorato per almeno due anni (At 19,10), ma forse di più. Passando per Mileto, diretto a Gerusalemme, l’apostolo convoca gli «anziani» di Efeso, città distante circa 80 km. Sono due particolari curiosi, difficili da inventare. Paolo – nelle sue lettere – non chiama mai «anziani» i responsabili delle sue comunità (è un modo molto ebraico di esprimersi); viene da pensare che, in fondo, anche le sue chiese avessero un consiglio di persone più sagge ed esperte che fungeva da organo di dirigenza, come sarebbe accaduto in seguito e altrove, e come quindi poteva già essere vero anche al tempo di Paolo. Lui convoca solo costoro e li fa venire a Mileto. Evidentemente la nave di Paolo non faceva scalo a Efeso, o forse (o in più) lui temeva che fermarsi in quella città, dove aveva così tante conoscenze, lo avrebbe fatto tardare troppo. Meglio incontrarsi in un luogo neutro.

A questi anziani Paolo rivolge un vero e proprio discorso d’addio, incentrato soprattutto su tre temi.

 Intanto, rivendica di aver predicato Gesù in modo trasparente e generoso. È il punto di partenza essenziale e cruciale. Non si mette a fare l’elenco delle proprie imprese o di ciò che ha patito (come fa invece in 2 Cor 11,22-29), ma si concentra sull’essenziale.

 Poi, ribadisce di averlo fatto gratuitamente, senza farsi mantenere, senza chiedere nulla. Anche l’evangelizzazione, allora, diventa più chiaramente un dono generoso fatto ad altri, un «soccorrere i deboli» (At 20,33-35).

 In mezzo, avvisa che sarebbero arrivate persone (chiamate «lupi rapaci») che avrebbero provato a inquinare l’annuncio del vangelo. Non sarebbero stati, evidentemente, degli estranei, ma dei cristiani. Luca si mostra ancora una volta consapevole che nella chiesa non tutto è bello e buono. Ma le parole di Paolo sono edificanti: di fronte ai «lupi rapaci», c’è semplicemente da stare in guardia, continuando a vivere generosamente per gli altri, perché «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Paolo, qui, non invoca maledizioni o punizioni sugli avversari (come fa invece in Gal 5,12), ma affida semplicemente i credenti allo Spirito.

Per chi vuole capire, Luca, a partire dall’esperienza di Paolo, ci ricorda che fallimenti e persecuzioni ci saranno, nell’esperienza dei cristiani, e che potrebbero partire addirittura da dentro. Ma l’unico modo cristiano di reagire è quello di Gesù, ossia confidando nell’opera di Dio e cancellando in sé qualunque desiderio di vendetta. Dio non abbandonerà i suoi, nonostante il quadro non sia senza nubi fosche.

Incompreso

Paolo, quindi, arriva a Gerusalemme. Luca non può nascondere che l’accoglienza degli altri credenti è piuttosto fredda (At 21,20-25). La comunità consiglia a Paolo di mostrarsi osservante della legge per non irritare i fratelli povenienti dal giudaismo, e lo invitano a pagare le spese per lo scioglimento del voto di nazireato di quattro uomini. Il voto consisteva nel non tagliarsi i capelli per un certo tempo per offrirli poi al tempio insieme a un sacrificio. C’erano persone di buona volontà (e portafogli) che pagavano ad altri le spese per questo rito, schierandosi in qualche modo a fianco di chi lo aveva celebrato. Si tratta di una consuetudine antica, molto «ebraica», più tipica degli ambienti tradizionalisti. Paolo si adegua. Evidentemente il suo scopo non è quello di cancellare la tradizione ebraica, ma di contestarla solo quando mettesse in questione la centralità di Gesù. Se si salva l’essenziale, che Gesù è l’unico mediatore per la nostra comunione con Dio, il resto si può accettare.

Una parola per oggi

Ancora una volta, quasi senza averne l’aria, Luca ci offre criteri per vivere la dimensione ecclesiale della fede ancora oggi. Siamo anche noi, infatti, a non sapere ancora bene dove mettere i confini di ciò che «non si può accettare», e continuiamo ad accusarci reciprocamente di essere tradizionalisti o modernisti. Negli Atti degli apostoli non troviamo un’indicazione precisa di ciò che dobbiamo fare o evitare, ma un criterio di fondo: la salvezza, ossia la comunione con Dio, passa da Gesù. Questo è indiscutibile, e siccome ci sono pratiche religiose che implicitamente lo contestano, tali pratiche sono da evitare. Ma su tutto il resto, «mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).

Questa attenzione e questo sforzo, però, non sono una garanzia di successo. O meglio, non garantiscono il successo se lo misuriamo con i nostri criteri consueti, di vittorie, conquiste e numeri consolanti.

Da Gerusalemme a Roma

Di fatto Paolo, che ha accettato di scendere a patti con le frange più conservatrici della chiesa ebraico-cristiana, viene accusato ingiustamente di aver profanato il tempio. Come Gesù, anche Paolo viene incolpato di blasfemia sulla base di tradizioni secondarie e discutibili, proprio perché intende invece rendere a Dio la sua piena gloria.

Anche questa accusa e arresto diventano però l’occasione per ampliare la platea degli ascoltatori: stupendo l’uno e gli altri, Paolo parla in greco al centurione (At 21,37-39) e in «ebraico» (in realtà doveva essere aramaico, ma i greci del tempo di Luca, di solito, non coglievano la differenza tra le due lingue) al popolo radunato nel tempio (At 21,40). Di nuovo, Paolo si fa «tutto a tutti», condividendo una volta ancora la propria vicenda (At 22,3-21).

Il punto d’arrivo, su cui, come per Gesù, si invoca la sua morte (22,22) è l’annuncio alle nazioni lontane. Luca ci porterà fin là, anche lungo un percorso più accidentato, faticoso e tormentato di quanto non sia stato fino a questo momento.

Angelo Fracchia
(18 – continua)

Panorama di Gerusalemme vista dal Gallicantu, vista su mura e spianata del tempio (foto Benedetto Bellesi)




Paolo a Corinto ed Efeso (At 18-19)

testo di Angelo Fracchia |


Alla fine del capitolo 17 degli Atti degli Apostoli, Paolo si allontana deluso e schernito da Atene e si rifugia a Corinto, dove si fermerà per circa un anno e mezzo. Poco dopo si fermerà altri due anni a Efeso. Non erano città semplici.
Corinto, a cavallo tra due porti, era città di commercianti, di gente magari grezza ma astuta. La città evocava una vita dissoluta, costosa, dove gli ingenui venivano facilmente depredati. Efeso era la capitale di una delle regioni più ricche dell’impero, nessun tempio riceveva più offerte del suo, dedicato ad Artemide, considerata una divinità potentissima, affascinante e terribile.

In queste due città, Paolo predica per più tempo, perché lo Spirito gli garantisce che lì un popolo numeroso è chiamato a incontrare Gesù (At 18,10). Evidentemente il cristianesimo accetta le sfide impegnative.

Siccome Luca sceglie di raccontarci solo alcuni episodi sparsi di questi anni, anche noi non procediamo in ordine cronologico ma riprendiamo alcuni dei temi da lui sollevati.

Uno storico accurato

Partiamo da un aspetto che potrebbe sembrare marginale.

Luca definisce «proconsoli» sia Gallione per l’Acaia (18,12) che il governatore di Efeso. Proconsoli, non procuratori, come ci si poteva attendere (cfr. At 23,24; 26,30), e a Efeso cita correttamente gli «asiarchi» (19,31), pur avendo parlato di «politarchi» per Tessalonica (17,6: nella traduzione italiana sono «capi della città»). Questi usati da Luca, sono i titoli corretti, confermati da iscrizioni o testi antichi. L’evangelista è inoltre informato dell’editto di espulsione da Roma dei giudei (18,2), che, al di là dei proclami, aveva in realtà coinvolto ben poche persone.

Noi abbiamo in mente una realtà imperiale molto compatta e omogenea, sul modello degli imperi del xvii secolo. I romani però distinguevano, separavano, privilegiavano gli uni a detrimento dei vicini, utilizzando titoli diversi per rendere ancora più difficile l’omologazione. L’unico modo per utilizzare i titoli corretti era avere una grande cultura o una precisa conoscenza derivata dall’esperienza.

Certo, si potrebbero imputare a Luca alcuni silenzi: come è possibile che non parli (quasi) mai della chiesa di Alessandria, che meno di un secolo dopo sarebbe emersa come una delle più grandi, strutturate e colte? Già in At 6, sulla vicenda degli ellenisti e dei diaconi, aveva glissato su problemi che pure lascia intuire. Non è una critica: gli storici contemporanei di Luca erano enormemente più disinvolti nel manipolare la storia. Lui non lo fa, anche se, narrando solo qualcosa, ci presenta l’ideale. Pur lasciandoci intuire una realtà non così perfetta. Prestiamo quindi ancora più attenzione a ciò che ci racconta. Con un occhio a ciò che tace.

Aquila e Priscilla

I collaboratori

Gli Atti si muovono ormai intorno a Paolo, che però non viaggia da solo. Il cristianesimo non sopporta gli attori solisti, è sempre comunità. Paolo, quindi, è sempre circondato da altre persone: che siano collaboratori stretti (Gaio e Aristarco, di cui non sappiamo altro: 19,29; e i ben più noti Sila e Timoteo: 18,5) o supporti quasi casuali, come Tizio Giusto (18,7) e Tiranno (19,9) che ospitano a lungo Paolo, o Alessandro (19,33), che è un ebreo ma intende parlare a difesa anche dei cristiani. Oppure vere e proprie colonne, come Apollo e la coppia Aquila e Priscilla.

Questi ultimi sono ebrei di Roma, dai nomi latini, anche se grecizzati, e vengono sempre citati insieme. Marito e moglie, fabbricanti di tende, non si fanno deprimere dall’espulsione da Roma (probabilmente motivata già dalle discussioni su Gesù), ma ne approfittano per farsi evangelizzatori anche altrove. Priscilla (la «piccola Prisca», suo vero nome) sembra la vera guida di una coppia che si muove con coraggio («Essi per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa»: Rom 16,4) e acume. Infatti, quando ascoltano Apollo e colgono l’imperfezione della sua predicazione, non pensano di tarpargli le ali, ma gli spiegano meglio come stanno le cose e poi lo raccomandano, inviandolo là dove può fare bene, a Corinto. A volte tendiamo a rendere astratto l’amore cui sono chiamati i cristiani, ma ciò che questa coppia fa è esattamente amare il prossimo, fare il suo bene; e, insieme, anche quello della chiesa.

Apollo è un’altra figura estremamente affascinante. Ebreo dalla profonda cultura biblica ma dal nome greco e di lingua greca, viene da Alessandria d’Egitto e annuncia il vangelo con generosità, anche se con una preparazione imperfetta. A Corinto ci sarà chi vorrà contrapporlo a Paolo (cfr. 1 Cor 3,4-7), che però mostra di apprezzarlo.

A margine, possiamo addirittura fantasticare un poco. Nel canone del Nuovo Testamento è compreso un testo, la cosiddetta Lettera agli Ebrei, che è una specie di trattato teologico composto da qualcuno che conosce molto bene il greco e l’Antico Testamento. Ma lo stile dell’intera lettera non è paolino, anche se si chiude con una specie di firma autografa di Paolo (Eb 13,22-25), la cui posizione è però strana perché sembra più un’aggiunta che parte della lettera stessa, un biglietto d’accompagnamento scritto da Paolo e inserito alla fine. Alcuni ipotizzano che l’autore possa essere Apollo, ottimo retore e approfondito conoscitore della scrittura ebraica. Paolo, lungi dal sentirsi sfidato, potrebbe aver aiutato questo testo a girare nelle proprie chiese.

Formazioni incomplete

Proprio Apollo ci può servire per cogliere un altro aspetto di ciò che Luca, probabilmente, vuole insegnarci. Priscilla e Aquila lo sentono predicare, si accorgono delle lacune, gliele colmano, e poi lo raccomandano a Corinto (At 18,26-27). Paolo, all’inizio della sua missione a Efeso, trova altri fratelli che annunciano il Vangelo, senza neanche conoscere lo Spirito Santo (19,1-7). Anche in questo caso, la loro formazione viene completata, e Paolo vede scendere su di loro lo Spirito, e li inserisce nella chiesa.

In un caso e nell’altro abbiamo persone con una formazione incompleta, segno, evidentemente, di una chiesa vivissima, creativa, originale e non ancora imbrigliata da tradizioni intoccabili e normative codificate. Per certi aspetti, il contrario di quello che spesso è la chiesa nostra. Ma in alcune dimensioni e scelte di fondo ci ritroviamo. Luca sembra suggerire tre atteggiamenti, nel rapportarsi con le differenze dentro la chiesa.

Intanto la correzione degli errori e l’approfondimento della conoscenza. Probabilmente è l’aspetto meno importante, ma pure rimane. Non ci si limita ad apprezzare e lodare la buona volontà di Apollo o dei fratelli che non conoscono lo Spirito Santo: li si istruisce, li si corregge, li si migliora.

Poi, più importante, l’apertura di fondo alla fiducia. Abbiamo già detto che forse, nel nostro contesto ecclesiale, una coppia di commercianti/imprenditori come Aquila e Priscilla non avrebbe trovato modo di incidere così tanto nell’annuncio, perché probabilmente ritenuta poco affidabile. E sicuramente una figura come Apollo susciterebbe sospetti e invidie (pensiamo a quante cattiverie leggiamo nei nostri social, soprattutto verso chi prova a impegnarsi, sia pure senza tutte le carte in regola!). La prima chiesa cristiana, che, come abbiamo visto, non è senza difetti, su questo sa restare aperta, convinta che solo lasciando spazio all’iniziativa umana si dà spazio allo Spirito Santo.

Il terzo aspetto è il più significativo: la relazione personale con Dio. Questa è fondamentale e ineliminabile, e si ottiene (al tempo degli Atti, ma anche nel nostro xxi secolo) solo con l’apertura allo Spirito. Se con Apollo basta integrare la sua formazione, con gli altri fratelli occorre battezzarli perché conoscano e ricevano lo Spirito, perché senza quello non si è cristiani. E chiunque sia nato dallo Spirito, che non si sa da dove venga o dove vada (Gv 3,8), è una continua scoperta e sorpresa. Perché lo Spirito dà il dono della vita, la quale è arricchente e appagante se solo si accetta di non ingabbiarla.

Una forma di ingabbiamento, ad esempio, è quella di ridurre il Vangelo a formule e magia. Senza relazione con Dio, con lo Spirito, si è fuori strada. È quello che, pur con un tono un po’ favolistico, si racconta dei figli di un certo Sceva, esorcisti itineranti (At 19,13-17). Dio è per la vita, e per la vita piena, ma solo in una relazione con lui che sia autentica e sincera, personale e quindi senza usare Dio come un amuleto.

Rapporto con i poteri

L’Artemide di Efeso (© AfMC)

Il Vangelo non è astratto, atemporale. La vita della chiesa è incarnata. Paolo e la chiesa tutta devono fare i conti con i poteri che, storicamente, si trovano davanti.

In particolare, devono rapportarsi con il potere civile, che è costituito dai rappresentanti dell’Impero Romano, e con quello religioso, che ancora passa da una chiesa centrale in Gerusalemme che vorrebbe esercitare un certo dominio sulle altre chiese e che non guarda con enorme favore l’impostazione teologica di Paolo.

Probabilmente anche con la chiesa di Antiochia il rapporto non è più idilliaco come in passato. Luca, pur cercando di smussare la realtà, infatti, deve ammettere che la missione paolina verso i non ebrei, con la messa in discussione della legge mosaica, ha inquietato diversi cristiani della prima ora, che si sentono ancora innanzitutto «ebrei» (come abbiamo visto leggendo At 15).

Come dicevamo sopra, anche ciò che non si dice è significativo. Paolo, già guida di Antiochia (At 13,1) e capofila della missione ai non ebrei, torna da un viaggio che lo ha tenuto impegnato per almeno due anni, e tutto quello che Luca ha da dire è che: «Salì a Gerusalemme a salutare la Chiesa e poi scese ad Antiochia. Trascorso là un po’ di tempo, partì» (At 18,22-23). Luca dice troppo poco, e noi non possiamo fare a meno d’insospettirci. Paolo sente freddezza intorno a sé. Forse per questo motivo, prima di arrivare a Gerusalemme trova il tempo di «sciogliere un voto» (18,18), adempiendo una consuetudine ebraica che «sapeva di vecchio»: consisteva nell’astenersi dal radersi (almeno i capelli) e dal bere vino per un certo tempo, come invocazione o ringraziamento a Dio. Si direbbe quasi che Paolo si impegni in questa devozione come gesto di buona volontà verso i cristiani più conservatori. Forse inutilmente.

E intanto deve continuare ad affrontare le sfide di coloro che si sentono infastiditi dal suo modo di fare. Anche a Corinto ed Efeso, infatti, c’è chi cerca di bloccare «dall’esterno» la sua predicazione. A Corinto, come era già successo in tanti luoghi, sono gli ebrei a cercare di denunciarlo, con dei risultati tragicomici e non del tutto comprensibili (18,12-17). A Efeso è invece un orafo a sobillare la folla (19,23-40): la predicazione cristiana inizia a dare fastidio anche al paganesimo, e in uno dei suoi centri più rinomati e ricchi! In entrambi i casi non riescono a fermare l’annuncio: a Efeso è il cancelliere della città a invitare gli agitatori a calmarsi, a Corinto è lo stesso governatore a sancire che in ballo c’è solo una questione religiosa, interna agli ebrei.

Se questo da una parte dice, soprattutto a noi, che almeno per gli osservatori esterni cristianesimo ed ebraismo non erano ancora ben distinti, dall’altra indica, soprattutto ai lettori del tempo di Luca, che le autorità romane sono state più volte chiamate a prestare attenzione al nuovo movimento, e ad analizzarlo sono stati i loro rappresentanti più alti, senza che questi trovassero nulla di legalmente inquietante. Il cristianesimo disturba, agita, tocca interessi economici, ma non è contro l’ordine costituito. Per chi cresceva nell’Impero Romano, imparando ad apprezzarne l’ordine, era un particolare significativo.

Angelo Fracchia
(17-continua)




Il grande discorso di Atene (At 17,16-34)

testo di Angelo Fracchia |


Nel nostro percorso di lettura degli Atti degli Apostoli avevamo lasciato Paolo nel bel mezzo del suo secondo viaggio apostolico. Dopo aver attraversato l’odierna Turchia, era approdato in quella che anche oggi chiamiamo Grecia, dove aveva aperto strade nuove al Vangelo. Dovendo però fuggire da Filippi e da Tessalonica, era giunto, da solo, ad Atene, dove aveva atteso di essere raggiunto da Sila e Timoteo (At 17,15).

Atene era stata il grande faro della filosofia, dell’arte, dell’economia, del potere politico della Grecia nei secoli precedenti. Si trattava di una «nobile decaduta», ormai tagliata fuori dal potere politico (da due secoli passato a Roma, che l’aveva strappato non ad Atene ma ai macedoni), economico (le grandi vie commerciali passavano via terra dal Nord, ossia da Tessalonica e Filippi, oppure via mare dal Aud, da Corinto) e persino culturale. I centri di riferimento importanti erano ormai molti e, con la lingua greca diffusa in tutto il Mediterraneo orientale, il fulcro della cultura greca era ormai diventata Alessandria d’Egitto. Con tutto ciò, la fama antica continuava a illuminare la città, e l’Acropoli era sempre lì a dominarla, con la sua imponenza che colpisce ancora oggi.

È lì che Paolo tiene il suo discorso più completo ai «greci», ossia a coloro che non appartenevano all’ebraismo e che anzi si riconoscevano in un’impostazione religiosa «pagana». Non staremo a chiederci quanto davvero sia credibile che Paolo abbia tenuto quel discorso e se lo abbia fatto proprio come lo leggiamo. Per capire, lasciamoci accompagnare da Luca, da quanto dice, da ciò che tace… e, ancora una volta, anche da quanto ci dicono le lettere di Paolo.

Il contesto (At 17,16-21)

Paolo ad Atene si vede circondato da segni pagani, e questo lo irrita profondamente (At 17,16). In realtà avrebbe dovuto esserci abituato, perché il mondo in cui viveva era dominato da religioni politeiste che spesso si influenzavano a vicenda. Ma in effetti Atene esibiva una quantità eccessiva di questi segni, eredità dei secoli precedenti; una ricchezza che era espressa in un’abbondanza di edifici, statue e probabilmente dipinti e mosaici a tema religioso in ogni angolo.

Paolo sale sulla collina dell’Areopago, situata tra l’Acropoli e l’agorà della città, luogo di incontro e di liberi dibattiti, e lì parla del Vangelo, ma i passanti immaginano che intenda presentare una nuova coppia divina, «Dio e la Risurrezione», come se fossero Zeus ed Era. E gli danno anche appuntamento perché ne parli ancora con maggiori particolari.

Questo è il primo passo sbagliato. Chi si accinge ad ascoltare Paolo, infatti, non lo fa perché prova dentro di sé la sete di interpretare in modo profondo e proficuo la propria vita, di trovarvi il senso (come diremmo noi) o di essere salvati (come dicevano gli ebrei di quel tempo). «Tutti gli ateniesi, infatti, e gli stranieri là residenti non avevano passatempo più gradito che parlare o ascoltare le ultime novità» (At 17,21). La motivazione è semplicemente la curiosità, il passatempo.

Come il pane e l’acqua possono sembrare insipidi a chi non ha fame e sete, il Vangelo fatica a lasciarsi ridurre a passatempo.

Ciononostante, Paolo ritiene che valga in ogni caso la pena di provare.

Sintonizzarsi con l’ascoltatore (At 17,22-28)

Che cosa intenderà trasmetterci Luca nello scrivere il discorso di Paolo? Finora i discorsi di evangelizzazione che ci ha restituito negli Atti degli Apostoli partivano dai profeti, per mostrare la coerenza dell’azione di Dio fino a Gesù, definitiva offerta di comunione tra il divino e l’umano. Ma come avrebbe potuto partire dai profeti con persone che evidentemente non potevano conoscerli? Chissà, forse questo discorso di Paolo potrebbe costituire un modello di annuncio in contesti religiosi che non hanno nulla a che fare con la tradizione biblica. Ossia, in contesti che assomigliano di più a quello in cui viviamo spesso anche noi.

La prima cosa che si può notare è che Paolo segue le convenzioni retoriche del suo tempo. Queste prevedevano di iniziare rivolgendosi in modo piacevole e convincente all’uditorio, per guadagnarsene l’approvazione, così da giungere poi al tema centrale a piccoli passi, seguendo percorsi familiari per chi ascoltava. E Paolo si adatta a chi ha davanti: se non può partire dai profeti, prende l’avvio da quella retorica che ad Atene si insegnava.

E inizia proprio dimostrando
di apprezzare le persone che ha davanti: le definisce religiosissime, in quanto ha trovato, lungo la strada che porta all’Acropoli, anche un altare dedicato «al dio ignoto». Proprio il dio che egli intende svelare agli ateniesi. Paolo dimostra insomma di essersi guardato intorno con attenzione, di aver dominato la sua irritazione e di non voler iniziare mortificando gli ascoltatori, che anzi loda.

Se volessimo estrapolare dal discorso di Paolo delle indicazioni per il nostro annuncio di oggi, potremmo dire che occorre partire dall’analisi della realtà, valorizzandone i punti buoni.

L’apostolo passa poi a spiegare che non possiamo pensare a un dio che abbia bisogno dell’uomo per le proprie necessità. Dio ha fatto il mondo e non si aspetta certo che siamo noi a fargli una casa in cui stare. Piuttosto, il Dio che ha dato a tutti la vita, ha concesso a tutti i popoli uno spazio e un luogo affinché possano, in effetti, rintracciarlo guardando come è strutturato il mondo, anche se si tratta di una ricerca fatta a tentoni, come se ci aggirassimo al buio in una casa che non è nostra. Non impossibile, ma certo abbastanza faticoso e incerto.

In questa fase Paolo riprende in realtà la polemica ebraica contro gli idoli e allude a tanti brani dell’Antico Testamento, in un modo però da non renderli riconoscibili a chi non li conosca già, ma senza renderne necessaria la conoscenza per capire il messaggio. Il discorso scorre, ha una sua logica e, alla fine, risulterà particolarmente affascinante soprattutto per chi ammette che ciò che vediamo non è l’unica realtà autentica. Molti tra gli ascoltatori platonici o stoici probabilmente si sono trovati, per così dire, «a casa propria». Se poi qualcuno degli ascoltatori avesse conosciuto un po’ di Antico Testamento, avrebbe sorriso tra sé e sé riconoscendo le citazioni e potendo confermare che funzionavano bene.

Ciliegina sulla torta, Paolo riesce a concludere questa tappa del suo ragionamento («Non siamo noi a dare qualcosa a Dio, ma lui a farci vivere») citando un poeta greco. Questa volta può permettersi di richiamare l’attenzione sulla citazione (che in realtà è abbastanza breve e forse non così significativa) proprio per ribadire che in fondo non stava annunciando nulla di inaudito o inverosimile. Una lisciatina di pelo agli ascoltatori, con la quale Paolo dimostra di conoscere e apprezzare la letteratura che si insegnava nelle scuole di retorica.

Ciò che ha fatto Paolo fino a questo punto è stato di condurre gli ascoltatori ad ammettere che la realtà autentica di Dio è spirituale. Verità su cui molti di coloro che sono di fronte a lui probabilmente erano già d’accordo.

Lo snodo decisivo (At 17,30-32)

Non è un caso che non siamo ancora arrivati a sentire nulla di autenticamente cristiano. Paolo vuole arrivare lì. Forse però, stavolta ci arriva un po’ di corsa.

Fa notare che Dio ha deciso che non si cerchi più di incontrarlo come cercandolo al buio in una casa sconosciuta, ma si è svelato. Ha stabilito anzi un criterio tramite il quale «giudicare» il mondo. È probabile che gli ascoltatori pensino non tanto a un giudizio quanto a un vaglio (un setaccio, uno screening diremmo oggi), fatto da qualcuno che faccia comprendere che cosa nell’umanità è valido e che cosa no.

In ogni caso, Paolo deve arrivare a Gesù, peraltro non citandolo per nome. Di Gesù identifica soprattutto due cose. Quel «vaglio», quel setaccio che fa emergere quello che nella vita umana è degno di attenzione e rispetto e quello che non lo è, è un uomo. Non è per niente scontato. Si poteva pensare a una visione divina, al dono di un mistero svelato per scritto, a qualche miracolo. Invece no, è una vita umana, sicuramente particolare e straordinaria, ma pur sempre umana, soggetta a tutti i condizionamenti umani, dal nascere da una donna (Gal 4,4), al dover imparare a vivere, al sottostare a norme e convenzioni. È la sorpresa dell’incarnazione, dello scoprire che per Dio l’uomo è tanto importante che l’unico «metro» adeguato per dire quale possa essere una vita umana dignitosa è esattamente mostrarla in un uomo. Perché solo un Dio che non si vergogna dell’umanità può spiegare all’uomo come vivere bene.

Il secondo dato identificante è la risurrezione. Il che, a pensarci, è davvero coerente, perché se questa vita è il meglio che Dio possa pensare per l’uomo, non può darcela solo per pochi anni. Ma ciò andava contro i pregiudizi filosofici per cui nell’essere umano a contare è lo spirito, la mente, mentre il corpo è, nel migliore dei casi, insignificante e, nei peggiori, un ostacolo.

E quegli ascoltatori che avevano colto il messaggio di Paolo come un semplice passatempo, non sono disposti a lasciarsi mettere in discussione. Il discorso va contro i loro pregiudizi, per questo lo scherniscono e aggiornano la seduta a data da destinare. Un ascolto superficiale, disinteressato, per ammazzare il tempo, non cambierà mai la vita, e non farà mai andare in profondità. Non aiuterà certo a rendersi conto di aver perso un’occasione unica.

Esiti e bilancio (At 17,33-34)

Onestamente, non si può dire che sia andata bene. Ce lo fa capire Luca, che fa ripartire Paolo immediatamente da Atene, e stavolta senza che sia stato neppure perseguitato. Non ce n’è bisogno. Pare che questa superba sghignazzata degli ateniesi sia persino peggio dell’opposizione violenta che Paolo aveva già riscontrato tante volte.

Paolo ha dato sfoggio di un discorso sicuramente ben preparato e sapiente. Ma ha ottenuto solo una presa in giro. Da Atene se ne va a Corinto, ai cui abitanti, qualche anno dopo, scriverà che i greci cercano dei bei discorsi intelligenti, ma Gesù non si piega neppure a questi. Ecco perché nella comunità dei cristiani non ci sono tanti dotti o umanamente sapienti (1 Cor 1,20-31). «Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1 Cor 2,2), stupido per coloro che cercano una divinità alla moda e fragile per chi cerca un Dio potente (1 Cor 1,22-23). Verrebbe da dire che Paolo ha imparato la lezione, e non ripeterà più un discorso come quello dell’Areopago.

Se vogliamo, anche questo è un frutto positivo: l’evangelizzatore ha imparato che conviene andare al cuore delle cose. Inoltre, nonostante il discutibile approccio di Paolo, le sue parole hanno fatto breccia in alcuni ascoltatori che hanno accolto il Vangelo: tra di essi una persona influente nell’Areopago, Dionigi, e una donna, Damaris (At 17,34). D’altronde, se Luca avesse pensato che questo discorso fosse stato completamente fuori luogo, non lo avrebbe riportato.

Sembra invece che l’autore degli Atti voglia suggerirci che è giusto e buono provare a sintonizzarsi con lo stile e i temi cari all’uditorio, ma senza aspettarsi troppo, cercando di non allontanarsi mai da quello che è comunque il cuore del Vangelo. E sapendo che, comunque, anche nei contesti meno adeguati ad accoglierlo, il Vangelo continua a parlare al cuore delle persone, e che alcune risponderanno.

Angelo Fracchia
(16-continua)




Il secondo viaggio di Paolo (At 16,1 – 17,15)

testo di Angelo Fracchia |


Con il capitolo 16 degli Atti degli Apostoli, Luca, che si è preparato il terreno finora con grande attenzione, sembra sentirsi più libero di narrare secondo il gusto dei suoi ascoltatori. Aumenta il respiro del racconto, solleva il tono della lingua, peraltro piena di termini tecnici e precisi, soprattutto marinari e politici. Se teniamo conto che i titoli dei governanti cambiavano di città in città e di tempo in tempo, è ammirabile la correttezza con cui Luca li utilizza. Al centro della scena c’è Paolo, attorniato da tanti comprimari umani ma soprattutto spalleggiato dal vero protagonista, lo Spirito Santo.

Dopo aver sistemato le coordinate di fondo nei capitoli precedenti, Luca ci permette di guardare come crescono le nuove comunità, con quali attenzioni, interessi e conseguenze.

Nuovi collaboratori (At 16,1-5)

A colpirci è innanzitutto il fatto che persino Paolo non si muove mai da solo. Nonostante le tensioni con Barnaba sulla composizione della squadra (At 15,38-39), Paolo non parte da solo, ma con Sila, importante membro della comunità di Antiochia (At 15,22), per informare delle decisioni prese a Gerusalemme circa la circoncisione le chiese già fondate, per vagliarne lo stato di salute, e per procedere oltre. Attraversano la Siria, la cui capitale era Antiochia, poi la Cilicia, ossia la regione di Tarso, e da lì raggiungono Derbe e Listra. Nel primo viaggio (At 14,6-20) queste città sono state evangelizzate in ordine inverso, ma stavolta si decide di affrontare il più frequentato ma impegnativo passo delle Porte di Cilicia, alle spalle di Tarso.

Sembra essere a Listra che Paolo incontra Timoteo, suo fondamentale collaboratore da adesso in poi (cfr. At 18,5; 19,22; 20,4; e, nelle lettere, Rom 16,21; 1 Cor 4,17; 2 Cor 1,19; Fil 2,19, e altri passi ancora; non è un caso che due delle tre lettere «pastorali» siano indirizzate a lui).

Il caso di Timoteo è interessante. È figlio di una ebrea e di un «greco» (ossia, non ebreo) e, secondo la legge ebraica di allora, nel caso di matrimoni misti il figlio di una madre ebrea è ebreo e deve essere circonciso all’ottavo giorno, mentre nel caso inverso, di madre «gentile», si consiglia di attendere l’età adulta del figlio, perché sia lui a scegliere. Se deciderà di essere circonciso, dovrà rispettare la legge mosaica. Per Timoteo però questa norma non era rispettata: egli infatti era un ebreo, ma non circonciso. A sorpresa, è Paolo a decidere di farlo circoncidere.

Sembrerebbe paradossale: Paolo si era scontrato con la chiesa di Gerusalemme che pretendeva che i «greci» per diventare cristiani dovessero prima diventare ebrei (At 15,2), ma, nel caso di Timoteo, sembra quasi smentire se stesso. La ragione è spiegata da Luca stesso: «A motivo dei giudei che si trovavano in quelle regioni» (At 16,2). A muovere l’agire di Paolo, evidentemente, non sono i diritti o le leggi, come dirà in modo esplicito anche ai Corinzi, anni dopo (cfr. 1 Cor 8,13). Sa bene che la circoncisione non è indispensabile, ma sa anche che sull’incirconcisione di Timoteo si potrebbe concentrare una polemica che distoglierebbe l’attenzione dal Vangelo di Gesù. «Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,19-22).  Al centro, per lui, ci sono comunque le persone e il Vangelo.

Un viaggio tormentato (At 16,6-10)

Dove stanno andando i quattro evangelizzatori (Paolo, Sila, Timoteo e Luca, che si è unito al gruppo, come si capisce dal fatto che nel racconto passa dal «loro» a «noi»)? L’impressione è che non lo sappiano.

Dopo aver toccato anche Iconio, ultima delle comunità fondate nel primo viaggio (At 13,51-14,6), il gruppo attraversa la Frigia e la Galazia con l’intento di scendere verso la regione dell’Asia, zona ricchissima di gente e di collegamenti, ma non ci riescono (anche più avanti Luca dirà che non riusciranno ad andare in un’altra zona dove avrebbero voluto, la Bitinia, meno popolata ma altrettanto strategica).

Perché non ci riescono ad andare nella regione dell’Asia dove c’è Efeso? Non lo sappiamo: può darsi che trovino le strade bloccate, o che si siano uniti a carovane che non sono dirette là, o che Paolo si ammali (è di questo che scrive in Gal 4,13-14? Non sappiamo), o che qualcuno abbia mosso obiezioni. Quello che Luca ci suggerisce è che il gruppo ha un progetto, e che è costretto a modificarlo. Anziché prendersela con la sorte, accolgono l’impedimento come suggerimento dello Spirito.

Il suggerimento dello Spirito a un certo punto arriva anche in una «visione», strumento che a noi non sembra affidabile o credibile, ma che per gli uomini di quel tempo evidentemente era un modo con cui Dio poteva parlare. È comunque significativo che anche questo suggerimento, che parrebbe abbastanza deciso, debba essere accolto e ragionato: «Ritenendo che Dio ci avesse chiamati…».

Non c’è mai, negli Atti, uno Spirito Santo che tratti i credenti come burattini. Impedisce e suggerisce, ma gli uomini sono collaboratori a tutti gli effetti, e devono acconsentire o muovere obiezioni. Infatti, più avanti quando verranno scacciati da Tessalonica, non proseguiranno lungo la via Egnazia, verso la Macedonia, dove parevano indirizzati (At 16,9-10), ma scenderanno a Sud.

In ogni caso, i discepoli interagiscono sempre da adulti con lo Spirito.

Filippi (At 16,12-40)

Il passaggio di Paolo e compagni a Filippi è fondamentale, per tante ragioni.

Intanto, sarà la comunità che darà a Paolo più soddisfazioni: tra le lettere paoline, l’unica scritta non per rispondere a problemi ma nel pieno del sollievo per le belle notizie che gli sono arrivate, è quella ai Filippesi (Fil 1,3-6), che tra l’altro lo avevano aiutato anche economicamente (Fil 4,15-16).

Poi, è la prima città in cui sappiamo che venga predicato il Vangelo al di fuori dell’Asia, e per di più si tratta di una colonia romana. Decisamente Cristo ha passato anche questa frontiera culturale.

Inoltre, la missione si apre sotto splendidi auspici. Al primo sabato passato in città, infatti, i quattro evangelizzatori cercano il luogo dove potrebbe essersi radunata la comunità ebraica. Come al solito, Paolo vuole annunciare innanzitutto agli Ebrei (At 13,46). A Filippi gli Ebrei però sono pochi e non hanno una sinagoga, quindi si radunano sulle rive di un fiume, per poter procedere alle abluzioni prima e dopo la preghiera. In luoghi del genere era ancora più facile che arrivassero non solo gli Ebrei veri e propri, ma anche dei simpatizzanti che potevano così sentir parlare della Bibbia.

Lidia e le altre donne

Tra questi c’è Lidia (At 16,14). Si tratta di una commerciante di prodotti di pregio, come la porpora che era un colorante preziosissimo. Anche se in realtà può darsi che non si trattasse della porpora ma di tessuti colorati con la porpora, e magari non quella più costosa della Fenicia ma il tipo più economico dell’Asia (prodotta intorno a Tiatira, di cui si dice che Lidia è originaria). Colorante o tessuti, era comunque un commercio di lusso. Lidia non solo si converte e viene battezzata seduta stante, ma «costringe» i missionari a lasciarsi ospitare in casa sua. Potrebbe stupirci tanta autonomia e libertà in una donna dell’antichità, e a ragione. Ma Lidia è una commerciante. Le figlie di commercianti di successo erano tra le poche donne che, se non avevano fratelli e magari non si sposavano (o restavano vedove presto), potevano aspirare a una certa autonomia di movimento ed economica, perché si sarebbero trovate a gestire la ditta di famiglia.

Non erano figure diffusissime, ma neppure troppo rare. Nelle prime comunità paoline troviamo diverse donne del genere, molto indipendenti: Cloe citata in 1 Cor 1,11 doveva probabilmente essere una commerciante come Lidia, e altrettanta importanza avrà Priscilla, moglie di Aquila (la conosceremo al capitolo 18 di Atti). E sarà una donna, Febe, a portare nella capitale dell’impero la delicatissima e complessa lettera di Paolo ai Romani (Rom 16,1-2: in quel tempo, chi portava delle missive doveva anche leggerle e spiegarle: evidentemente Febe non era una sprovveduta e l’autore se ne fidava). Anche se Paolo viene accusato di misoginia per un paio di passi delle sue lettere sicuramente mal riusciti, nelle sue comunità le donne godevano di importanza e rispetto. Poteva essere anche questo uno dei motivi dell’attrazione che il cristianesimo esercitava su persone che sapevano di valere molto, ma non erano valorizzate dalla società in cui vivevano.

Frustati per Cristo

A Filippi, poi, succede un episodio significativo. In tutte le città attraversate da Paolo accade qualcosa che respinge altrove gli evangelizzatori. A Filippi il problema è una serva che si riteneva fosse posseduta dallo spirito di Apollo, tanto da pronunciare oracoli che i suoi padroni vendevano. Paolo, mostrando poca pazienza (gli accadrà ancora… la Bibbia sa riconoscere i difetti dei suoi eroi), si stufa di sentirsela profetizzare dietro… e la guarisce. O meglio, per i lettori di Atti si tratta di una guarigione, ma per i padroni della donna è un disastro che pone fine a una fonte di guadagno. Ancora una volta il messaggio cristiano interviene, magari anche solo per noia, a valorizzare l’umano contro l’economico, e a essere perseguitato per questo.

I missionari vengono frustati (non flagellati, la frusta è una pena meno severa) e incarcerati. A liberarli interviene un misterioso terremoto, abbastanza forte da rompere le catene ma non da far crollare la prigione o da essere percepito dai capi della città. Il carceriere, vedendo le celle aperte, se ne dispera, ma poi si accorge che le persone a lui affidate sono ancora lì: l’esito è il battesimo tanto suo quanto della sua famiglia (ancora vita e dignità donate dal messaggio di Cristo).

Al mattino i capi della città, probabilmente convinti di aver dato una lezione sufficiente a vagabondi non pericolosi, vogliono lasciare liberi i discepoli, limitandosi a scacciarli dalla città.

Era una misura abbastanza diffusa per chi era ritenuto inoffensivo ma era stato accusato di qualche disordine ed era forestiero. Paolo ha però quello che sembra uno scatto d’orgoglio: «Sono cittadino romano, non me ne andrò senza le scuse». È la prima volta che sentiamo parlare negli Atti della sua cittadinanza, che gli concedeva molti privilegi, tra cui una protezione giuridica particolare. Coloro che lo hanno fatto frustare iniziano a sudare freddo: era lecito affibbiare una punizione senza processo, ma non a un cittadino romano. E chi avesse inflitto una pena ingiusta doveva subirla uguale. Eccoli allora arrivare al carcere a liberare personalmente, con molte scuse, i quattro discepoli. È davvero solo orgoglio, da parte di Paolo? Probabilmente no. È possibile che la sua scenata riabilitasse pubblicamente anche coloro che avevano creduto al suo annuncio, che non potranno quindi essere perseguitati alla leggera.

Altre tribolazioni

Le persecuzioni, in realtà, non finiscono. A Tessalonica sono alcuni ebrei a sobillare la città, prendendosela con colui che ospita Paolo e compagni (At 17,1-8), i quali sono costretti a ripartire, per Berea, dove fanno altri discepoli pronti anche, opportunamente, a controllare che le prove bibliche portate siano corrette (At 17,11). Quindi Paolo approda ad Atene (At 17,15), la grande capitale della cultura greca, anche se ormai decaduta.

Angelo Fracchia
(15-continua)




La grande decisione (At 15): diversi nella continuità

testo di Angelo Fracchia |


Luca ha preparato il terreno fin dall’inizio degli Atti degli Apostoli: Gesù si era mosso quasi solo all’interno dell’ebraismo, ma il cristianesimo è diventato ben presto qualcosa di diverso.

Di fronte alle accuse che sia stato Paolo a stravolgere la Chiesa, Luca s’impegna a dimostrare che fin da subito si sono oltrepassate le barriere religiose: eunuchi (At 8,27-38), samaritani (At 8,5-13), un centurione romano per opera di Pietro (At 10), fino ad arrivare ad Antiochia, dove l’annuncio del Vangelo era tanto indiscriminato da rendere evidente che quello cristiano era un movimento nuovo (At 11). I primi episodi narrati, erano casi eccezionali, quella di Antiochia era, invece, una situazione ordinaria, ma fino ad allora non ci si era ancora detti in modo esplicito quale strada prendere: se rimanere nell’ambito dell’ebraismo, oppure aprire la Chiesa a fedeli provenienti dal paganesimo.

L’occasione

Come spesso accade, la questione era già chiara da tempo, ma non si è affrontata finché non si è arrivati a litigare. C’erano, infatti, ad Antiochia, alcune persone provenienti da Gerusalemme (ossia dalla chiesa «madre»), che insegnavano che «se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati» (At 15,1). Non si trattava, ovviamente, solo di un «segno nella carne» che, per quanto fastidioso, si sarebbe comunque potuto anche sopportare, ma di un’adesione piena alla legge di Mosè, tradotta in quei 613 precetti che toccavano la morale, l’alimentazione, la preghiera e la vita sociale dei buoni ebrei (è possibile che al tempo non fossero ancora pienamente codificati in questo modo e in questo numero, ma l’approccio di fondo era già questo).

Il ragionamento di queste persone era comprensibile: Gesù era ebreo (circonciso), ha sostanzialmente rispettato la legge ebraica, soprattutto non ha mai detto di volerla abrogare (cfr. Mt 5,17), e se quella legge ora non restasse valida, significherebbe che tante generazioni di credenti ebrei avrebbero vissuto invano la propria fede. Se Gesù si è innestato nella tradizione dell’Antico Testamento, se non ha sconfessato la tradizione, quella era Parola di Dio e restava valida.

In fondo, altri gruppi ebrei pensavano che nessun pagano potesse entrare a far parte del popolo eletto, per cui la posizione di questi cristiani provenienti dall’ebraismo era già più aperta, in quanto ammettevano che, con la circoncisione e rispettando per intero la Legge, quei confini fossero porosi.

Chiarezza e novità

Paolo e Barnaba però hanno reagito violentemente (At 15,2): non si poteva chiedere la circoncisione a chi diventava cristiano. Le motivazioni sarebbero state espresse più chiaramente dalle lettere di Paolo, soprattutto ai Galati e ai Romani. Possiamo riassumerle così: in Gesù, Dio si è mostrato intenzionato a cercare la comunione con l’essere umano a qualunque costo, fosse anche a costo della propria vita e della propria rispettabilità (normalmente i crocifissi erano considerati maledetti da Dio). Le singole persone potranno rifiutare l’offerta di Dio, che rimane però definitiva. Affermare che sia necessario qualcos’altro perché quella comunione sia efficace, significa sostenere che l’intenzione di Dio, accolta dagli uomini, non è sufficiente. Ma se non basta quella, non c’è niente che basti! Dio invece ha donato gratuitamente questa salvezza all’essere umano, e l’unica reazione possibile da parte dell’uomo è fidarsi e accoglierla (Rom 3,20-24, ad esempio).

È chiaro che lo scontro emerso ad Antiochia era radicale, e non toccava soltanto l’organizzazione della Chiesa, come era accaduto a Gerusalemme con le vedove degli ellenisti (At 6,1-6), ma la sua stessa essenza teologica. La Chiesa doveva decidere che cosa essere: se uno dei tanti movimenti ebrei, o qualcosa di radicalmente nuovo, nato dal darsi di Dio in Gesù.

Sicuramente Paolo aveva presente la gravità del momento, ma con tutta probabilità questo valeva anche per i suoi «avversari».

Esterno del Cenacolo – foto AfMC

Discernimento nello Spirito

Luca non si limita a dirci che cosa è accaduto in quel momento storico così centrale per l’identità della Chiesa, quando Paolo e Barnaba sono andati a Gerusalemme per discutere della questione con i Dodici, ma probabilmente vuole anche suggerirci come si dovrebbe fare il discernimento nello Spirito.

Nella discussione, i protagonisti sono partiti dall’osservazione di ciò che lo Spirito aveva suscitato tra i non ebrei (At 15,4). Di fronte alla contestazione di «alcuni della setta dei farisei» (At 15,5: scopriamo così che si può continuare a essere innanzitutto farisei, prima che cristiani), la discussione, come prevedibile, si è fatta rovente, finché non è intervenuto Pietro.

A Gerusalemme, dove Pietro viveva, la guida della chiesa era Giacomo, «fratello del Signore» (cfr. At 12,17; Gal 1,19), ma Pietro era pur sempre la guida dei Dodici. Sembra proprio che Pietro sia intervenuto come «autorità morale», quasi come chi, senza detenere un grande potere, ha però un’autorevolezza rafforzata proprio dall’essere fuori dalle stanze che contano.

Il suo discorso è stato essenziale ed è andato dritto al punto: Dio ha dato lo Spirito Santo a tutti, in più, noi per primi non siamo stati capaci di rispettare la legge, quindi perché imporla agli altri, visto che non è indispensabile (At 15,7-11)?

A quel punto si è tornati a osservare le imprese compiute da Dio tra i «greci».

Infine Giacomo, il verosimile capo dell’ala «conservatrice», ha avanzato la proposta concreta di chiedere ai nuovi cristiani provenienti dal paganesimo non la circoncisione, ma il rispetto di quattro astensioni: dagli idoli, dall’impudicizia, dagli animali soffocati e dal sangue.

Una decisione difficile

In realtà, se il cuore della decisione è chiaro, i dettagli lo sono molto meno, cosa dimostrata dal fatto che questo medesimo episodio è narrato anche da Paolo in Gal 2,1-10, ma con particolari diversi.

Paolo racconta che «da parte delle persone più autorevoli – quali fossero allora non mi interessa, perché Dio non guarda in faccia a nessuno [sbagliamo a cogliere un po’ di astio? nda] – non mi fu imposto nulla. […] Ci pregarono solo di ricordarci dei poveri» (Gal 2,6.10). Sappiamo, e lo vedremo nella lettura di Atti, che le relazioni di Paolo con la chiesa di Gerusalemme, chiaramente guidata da Giacomo, non sarebbero state idilliache neppure in seguito. Forse Paolo si aspettava che la guida della chiesa, e quindi anche di quell’incontro, spettasse a Pietro e non al «fratello del Signore», ma può essere più onesto dire che il tono irritato di Paolo si coglie pur non essendone esplicitamente chiaro il motivo.

È più interessante notare che quanto raccontato da Luca in Atti 15 non coincide con ciò che dice Paolo in Galati 2. La proposta di Giacomo riportata in Atti 15, infatti, non cita i poveri e parla però delle quattro condizioni negative, dei quattro «non si deve» che abbiamo citato sopra (cfr. At 15,20).

Le quattro condizioni

Per analizzare le quattro condizioni imposte da Giacomo ai nuovi cristiani, partiamo dalla quarta. Secondo l’Antico Testamento, il sangue è la sede della vita. Anche dopo che il creatore aveva concesso agli uomini e ad alcuni animali di cibarsi di carne per nutrirsi (Gen 9,1-4), aveva vietato però d’ingerire sangue, per mantenere la consapevolezza che ci si alimenta, sì, con carne di animali, ma non si diventa padroni della loro vita, che continua ad appartenere a Dio. Per questo motivo la modalità pura di uccisione di un animale era (e rimane per ebrei e islamici) di versare il sangue a terra, la quale appartiene a Dio: ciò che è di Dio, torna a Dio.

Possiamo forse spiegarlo così: ai cristiani non provenienti dall’ebraismo Giacomo chiede di tenersi lontano almeno da ciò che era particolarmente fastidioso per gli ebrei e che era facile da rispettare. Vivere da fratelli cristiani insieme, infatti, voleva anche dire condividere la mensa (eucaristica, che comprendeva anche un vero pasto).

L’astensione dagli animali soffocati si può spiegare con il fatto che essi, evidentemente, avevano ancora il sangue al loro interno, quindi ricadiamo nel primo caso dell’astensione dal sangue, anche se potremmo già obiettare che non era necessariamente e sempre semplice capire come era stato ucciso un animale.

Che cosa sia l’«impudicizia» (porneia, vedi Mt 19,9) non è chiaro: c’è chi spiega che erano alcuni comportamenti sessuali, oppure particolari legami matrimoniali (cfr. 1Cor 5,1), o forse altro ancora. Accontentiamoci di riconoscere che c’era un vincolo in più.

Conosciamo invece gli idolotiti (la carne rimasta dai sacrifici agli idoli, ndr). La grandissima maggioranza delle forme religiose del mondo antico (compreso l’ebraismo) prevedevano di sacrificare animali agli dei. Di solito la carne sacrificata veniva in parte bruciata sull’altare, in parte mangiata da chi la offriva (come banchetto di comunione con la divinità), in parte lasciata ai sacerdoti. Questi ne consumavano un po’, ma ovviamente ne avanzavano, e non aveva senso conservarla, dal momento che il giorno dopo altri avrebbero offerto sacrifici. Di solito, quindi, la rivendevano: il ricavato veniva utilizzato per le necessità del tempio pagano, in più, essendo carne arrivata in dono, poteva essere rivenduta anche a prezzi bassi. Ecco che chi viveva o passava da quelle parti poteva comprare questa carne, di buona qualità, a basso prezzo e, in più, in qualche modo «santificata» dal passaggio nel tempio. Paolo, nella Prima lettera ai Corinti, nota che quella era solo carne (gustosa ed economica), ma che alcuni «deboli nella fede» potevano pensare che i cristiani più istruiti, comprando quella carne, volessero «tenersi buoni» anche gli dèi che pure dicevano non esistere. Se c’è il rischio che alcuni cristiani più consapevoli, i quali sanno che non c’è differenza tra la carne sacrificata a dèi che non esistono e carne normale, provochino confusione nei cristiani più semplici mangiando carni sacrificate, afferma l’apostolo, piuttosto si astengano del tutto da tale carne (1 Cor 8).

Una volta approfonditi i quattro divieti, capiamo che il cuore della decisione presa dalla Chiesa a Gerusalemme non sono essi, ma il fatto che chiunque può diventare cristiano senza prima diventare ebreo, senza la circoncisione, senza rispettare la legge di Mosè. Restano dei vincoli, più che altro formali, ma l’ostacolo principale è rimosso.

La decisione e le sue ragioni (teologiche e no)

Luca è talmente sicuro della centralità di questa decisione che ne fa il punto di svolta degli Atti, a metà circa della sua opera: da qui in poi, infatti, sembra dimenticarsi della chiesa di Gerusalemme. Citerà Giacomo ancora in Atti 21,18, ma senza parlare più di Pietro né dei Dodici. A questa svolta tendeva tutta la costruzione della narrazione fin qui, da qui si riparte. D’altronde, se la chiesa non avesse intrapreso questa strada, sarebbe rimasta uno dei tanti gruppi, più o meno aperti, numerosi e significativi, che facevano parte del mondo ebraico. E si era trattato di una decisione che Gesù non sembrava aver suggerito, perlomeno non esplicitamente. Si era davvero mosso lo Spirito Santo.

In questa decisione centrale per la vita della chiesa, peraltro, lo Spirito non ha violato la libertà degli uomini. I capi della chiesa, Paolo, Barnaba, gli anziani, sono stati chiamati a collaborare, ad aprire gli occhi, a capire (persino nella fatica e nei litigi…). Senza l’azione dell’uomo, Dio non può agire. Tanto che il «decreto» firmato da Giacomo afferma, non per orgoglio, ma in verità, «È parso bene, allo Spirito Santo e a noi…» (At 15,28): lo Spirito non decide senza l’uomo.

Ma proprio perché si tratta di uomini che pensano, e poiché gli uomini sono condizionati dalla propria storia, cultura e caratteri, Giacomo fa una mossa finissima: non si limita a dire che i frutti dello Spirito hanno già mostrato che Dio vuole questa apertura, ma aggiunge una citazione di Am 9,11-12 (in At 15,15-18), in cui si lega la ricostituzione della tenda d’Israele con l’omaggio a Dio da parte dei non ebrei. Non è un caso che gli ebrei solitamente dicessero che gli «altri» dovessero rispettare solo i comandamenti «di Noè», che sostanzialmente si incentravano sul rispetto della vita. I quattro precetti imposti ai cristiani «greci» ricordano quelli che si chiedeva di rispettare ai «forestieri», a coloro che, in tempi antichi, risiedevano nel territorio d’Israele. Giacomo, insomma, strizza l’occhio anche ai suoi di Gerusalemme, ai cristiani provenienti dall’ebraismo, suggerendo che l’apertura nei confronti dei convertiti dal paganesimo mantiene al centro il mondo ebraico rendendolo soltanto più ampio e ricco.

Noi intanto scopriamo che tensioni, persino scontri, e addirittura limiti e trucchi, fanno parte della Chiesa fin dagli inizi, e non impediscono allo Spirito Santo di agire.

Angelo Fracchia
 (14-continua)




Dio apre ai pagani la porta della fede

testo di Angelo Fracchia |


«Ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (At 11,26). Non si tratta però soltanto di un appellativo. A seguire Luca, potremmo dire che per la prima volta ad Antiochia i cristiani diventano consapevoli di essere un gruppo nuovo e di avere anche responsabilità nuove.

A pensarci, il mondo nel quale si muovevano i primi cristiani sembra molto simile al nostro. Intanto anche loro sperimentavano una nuova interconnessione tra i popoli del Mediterraneo: i romani avevano portato in oriente strade, sicurezza, commercio, ricchezza e il fascino per un mondo che non guardava in faccia a tradizioni, rispetto, pudore. Anche loro, come noi oggi, avevano una lingua di riferimento internazionale più o meno conosciuta da tutti: ovviamente non era l’inglese, ma il greco. Così molti, pur mantenendo le proprie lingue e culture locali, parlavano anche questa lingua che era capita quasi ovunque e portava con sé un modo nuovo di vivere, pochissimo attento allo spirituale ma estremamente affascinante.

In questo contesto, si poteva incontrare un miscuglio molto disordinato di superstizioni e culture, di nuovi movimenti spirituali e antiche organizzazioni religiose, il tutto subordinato all’interesse primario per il laicissimo denaro che, globalmente, sembrava avere la meglio su tutto, ma nello stesso tempo lasciava un forte desiderio, soffocato ma diffuso, di valori e spiritualità autentici.

Insomma, si direbbe che la comunità di Antiochia possa costituire, nonostante la lontananza, un modello ancora valido per noi oggi.

La prima comunità «cristiana»

Quella comunità viveva a cavallo tra due culture linguistiche (greca ed aramaica) e ancor più tra molte tradizioni religiose: il mondo ebraico, fortemente rappresentato e affascinante, quello semita tradizionale che finiva per identificarsi soprattutto con l’astrologia, quello romano ufficiale che però non sembrava molto profondo, oltre a diversi altri movimenti, a volte dalla vita abbastanza breve. Sarà per questo che ad Antiochia i cristiani si scelgono come capi un miscuglio altrettanto variegato di persone (cfr. At 13,1): Barnaba è un ebreo originario di Cipro (At 4,36), Simeone porta un nome ebraico e un soprannome latino (Niger), Lucio ha un nome latino e viene da Cirene, Saulo è un ebreo di Tarso, e in quanto a Manaèn (nome ebraico ma in forma greca) si dice che abbia conoscenze altolocate, essendo stato compagno d’infanzia di Erode Antipa. Evidentemente è una comunità che non ha paura di mescolarsi e di prendere anche dall’estero il meglio che trova.

Questa chiesa, aperta in entrata, si mostra altrettanto aperta in uscita, perché dall’ascolto della preghiera ricava la percezione (ispirazione dello Spirito: At 13,2) di dover inviare per la prima volta qualcuno in una missione di evangelizzazione, e come responsabili scelgono non quelli di cui vogliono liberarsi, ma proprio due dei cinque capi, più un aiutante (At 13,5). E i due capi scelti (Barnaba e Saulo) sono proprio quelli che hanno avuto un ruolo fondamentale nell’inizio della comunità.

A Cipro, alcune sorprese

L’idea di una missione evangelizzatrice è tutt’altro che scontata. L’ebraismo, da cui i cristiani vengono, discute addirittura se sia possibile o no per i pagani diventare ebrei, e di solito si preferisce scoraggiare la conversione, invitando invece al semplice rispetto di una forma di legge ridotta per i simpatizzanti.

I cristiani ritengono invece di dover annunciare Gesù, di aver scoperto un tesoro che non possono chiudere sottochiave. Nello stesso tempo, non sembra che partano ciecamente all’avventura: Cipro è subito di fronte ad Antiochia, a una distanza che in giornate di bel tempo si può coprire in un solo giorno, inoltre è la patria di Barnaba, il capo spedizione, che sull’isola probabilmente può contare su più d’un contatto.

Questa ipotesi viene facilmente confermata dalla notizia che è addirittura il proconsole di Cipro, Sergio Paolo, a invitare e ospitare i tre missionari (At 13,7).

A palazzo i tre trovano anche un mago, che sembra quasi il contraltare degli evangelizzatori. Si tratta di un ebreo che si dedica alla magia ed è conosciuto con un nome (Bar-Iesus, figlio di Gesù) che ricorda tanto quello dello stesso Gesù. Ma si rivela poi per quello che è veramente: Elimas (il mago) che cerca di tenere il proconsole lontano dalla fede (At 13,8). A questo punto Paolo lo attacca, punendolo con una cecità temporanea che sembrerebbe addirittura frutto di un atto magico (At 13,11).

Tre conseguenze

Quello che Luca gestisce quasi come un veloce incidente ci lascia con tre conseguenze e un’annotazione.

Tra le conseguenze, si nota che il proconsole crede al Vangelo. La notizia, buttata lì, è straordinaria, perché si tratterebbe della seconda conversione di un romano, e per di più capo di una provincia. Certo, non si dice che viene battezzato, e questo potrebbe essere il motivo per cui Luca non rimarca tanto la notizia, ma è rilevante che fosse simpatetico. C’è da dire poi che forse un romano in quella posizione non poteva ancora permettersi di sbilanciarsi troppo ufficialmente.

La seconda conseguenza è sulla composizione della squadra missionaria. Quando arriva a Cipro è composta, in ordine, da Barnaba, Saulo e Giovanni Marco, ma quando riparte i membri sono «Paolo e i suoi compagni». A Cipro, cioè, Paolo decide di farsi chiamare con la forma latina del proprio nome, quasi a rendersi più facilmente accettabile e accoglibile anche da ambienti amministrativi latini e culturali greci, e prende la guida della missione.

Chissà se è questo cambiamento a suscitare la terza conseguenza del passaggio cipriota, ossia l’abbandono della missione da parte di Giovanni Marco (At 13,13), un abbandono che avrà conseguenze più tardi (At 15,37-39).

La considerazione è che Luca rende consapevoli i suoi lettori che il Vangelo continua a farsi strada, speditamente, benché tra opposizioni e ostacoli sia esterni (il sinedrio, un mago…) che interni (i litigi nella squadra missionaria). Entrambi, e forse soprattutto i secondi, sarebbe meglio che non esistessero, ma in ogni caso non fermeranno l’opera dello Spirito.

Predicazione ad Antiochia di Pisidia

Dopo Cipro, la missione prende una strada non del tutto prevedibile: anziché arrivare a Tarso, come avremmo potuto immaginare, o dirigersi verso Ovest, in direzione della popolatissima valle del Lico (dove c’è Laodicea), i missionari, rimasti in due, decidono di avviarsi verso l’entroterra, attraversando quasi tutte le città abitate in larga misura da ebrei e servendosi di un’importante via lastricata romana, che porta in Galazia.

Qui troviamo una delle rarissime imprecisioni geografiche di Luca, che parla, come leggiamo nelle nostre traduzioni, di «Antiochia di Pisidia». Probabilmente non cambia nulla per la quasi totalità dei lettori moderni, ma il nome più preciso di quella città era «Antiochia verso la/davanti alla Pisidia» (in pratica era la prima città della Galazia per quelli che vi arrivavano dalla Pisidia), anche se i contemporanei di Paolo e di Luca si sbagliavano molto spesso. Oggi il sito archeologico di quell’antica città dei Galati si trova vicino a una cittadina chiamata Yalvaç, che in turco significa «profeta», in ricordo di Paolo.

Il discorso di Paolo

Qui Paolo tiene un ampio discorso che sembra riecheggiare quello di Pietro nel secondo capitolo degli Atti. Dopo un saluto iniziale, si annuncia il cuore del Vangelo, ossia la morte di Gesù seguita dalla risurrezione che ne conferma le pretese e la missione (At 13,26-31, come in 2,22-24.32). Poi sottolinea che tutto questo è conferma di ciò che era già stato annunciato dalle profezie (At 13,32-37, in parallelo con 2,25-36, citando addirittura in parte gli stessi testi dell’AT), e conclude con un finale appello alla fede e offerta di perdono (13,38-41; cfr. 2,38-39).

Sembra quasi che Luca voglia confermarci che Paolo non si è messo in testa di predicare qualcosa di nuovo o personale, ma ripercorre completamente il cammino della chiesa dall’inizio in poi.

A essere tipico di Paolo, semmai, è proprio il saluto iniziale (13,16-25), rivolto a ebrei e non ebrei, con l’annotazione che molti di questi ultimi accolgono con favore la notizia del Vangelo. Ciò che finora era accaduto, quasi di nascosto e per eccezione, con l’annuncio ai samaritani (At 8,5-25), all’eunuco (8,26-39) e a un centurione romano (At 10), ma che già ad Antiochia di Siria era diventato più generalizzato, qui si fa ora ricorrente e consueto, e l’annuncio ai pagani presto dovrà essere affrontato esplicitamente (At 15).

Anche perché, di fronte al successo di Paolo, ci sono giudei che iniziano a ostacolarlo «furiosamente» (At 13,45), al punto da fargli proclamare che, di fronte al rifiuto ebraico, si rivolgerà ai pagani (At 13,46-47).

L’opposizione alla predicazione del Vangelo costringerà Paolo e Barnaba ad abbandonare la città, ma i semi del Verbo sono già stati gettati.

Predicazione in Licaonia

Da Antiochia di Pisidia, Paolo e Barnaba raggiungono Iconio, ad almeno tre giorni di cammino sempre su una strada ben lastricata. Anche da qui l’opposizione ebraica li costringe a fuggire.

A un’ulteriore giornata di cammino, ecco Listra, dove la guarigione miracolosa di uno storpio spinge gli abitanti del posto a portare in trionfo Paolo e Barnaba, salutandoli come dèi.

Siccome il greco può servire ottimamente per capirsi tra forestieri, ma gli abitanti di Listra parlano tra loro in licaonio, i due evangelizzatori non capiscono di essere portati in processione al tempio per offrire loro un sacrificio (At 14,11-13).

Quando finalmente se ne accorgono, si ritraggono scandalizzati e spiegano l’unicità del Dio che ha fatto l’universo e continua a custodirlo (At 14,15-17). Il brevissimo discorso è interessante perché questa volta Paolo non parte dalle profezie antiche e sembra addirittura dimenticare Gesù, per concentrarsi sul Dio creatore di tutto.

Da qui potremmo ricavare un insegnamento importante (e forse più che mai attuale dopo i dibattiti feroci in occasione del Sinodo sull’Amazzonia). Paolo non ha ovviamente dimenticato Gesù, ma si trova in un contesto in cui è più urgente e centrale richiamare all’unicità di un Dio trascendente. Quante volte anche oggi le diverse comunità cristiane si trovano in contesti che richiedono di concentrarsi non su tutta la teologia, ma solo su alcuni aspetti che si rivelano essere i più urgenti e significativi in quel contesto. Non significa rinnegare il quadro globale e l’integrità dell’annuncio della fede, ma lasciare che il Vangelo interagisca con situazioni che sono particolari. Paolo lo ha fatto prima di noi.

Persecuzioni e ritorno

Le opposizioni agli evangelizzatori non si interrompono. Anzi, Paolo viene addirittura lapidato (At 14,19), ma sembra che lui e Luca vogliano evitare qualunque tipo di vittimismo. Viene creduto morto, ma si rialza e il giorno dopo lascia la città.

La meta, questa volta, è la casa madre, quell’Antiochia sull’Oronte che li aveva spediti in missione. Paolo e Barnaba ne approfittano per ripercorrere tutta la strada fatta all’andata, evitando scorciatoie, evidentemente per visitare e confortare le comunità appena fondate. Tornati alla partenza, poi, non si soffermano su tutte le avventure che pure Luca ci ha narrato, ma vanno direttamente al cuore della questione: «Dio ha aperto ai pagani la porta della fede» (At 14,27).

Angelo Fracchia
(13 – continua)




Sempre più al largo

testo di  Angelo Fracchia |


Gli Atti degli Apostoli crescono: la comunità dei fratelli, o dei credenti, o dei discepoli, ha iniziato ad affacciarsi fuori dalla Giudea, ha avuto il primo martire, Stefano, un ellenista, ossia un ebreo di lingua greca (At 6-7), ma questo, lungi dallo spegnerne l’entusiasmo, ha significato l’inizio della predicazione ai samaritani (At 8,5-25), a un eunuco etiope (At 8,26-39), addirittura a un centurione romano (At 10). Nulla sembra fermare la progressione di una comunità che pare però per ora procedere quasi a caso.

Dal male, il bene

Sembra comunque che anche ciò che potrebbe essere di danno per la nuova comunità, si volga invece a suo vantaggio. La persecuzione contro i credenti (At 4-5) ha significato la possibilità di predicare Gesù anche davanti al sinedrio; un episodio di discriminazione tra i discepoli (il trascurare le vedove ellenistiche: At 6,1) ha regalato alla neonata comunità sette nuovi servitori che hanno inteso in modo molto generoso la loro chiamata; l’affacciarsi di un persecutore particolarmente accanito (Saulo, At 9) diventa l’occasione per uno dei pochi episodi degli Atti in cui Dio si mostra esplicitamente in tutta la sua forza.

Ma il cammino è soltanto all’inizio. Luca sembra quasi suggerirci che ciò che accade potrebbe anche essere interpretato in modi diversi, molto umani, anche se ci mostra in modo chiaro che in quegli snodi a muoversi e manifestarsi è lo Spirito di Dio.

Capita infatti che, in seguito all’uccisione di Stefano, sorga una persecuzione «contro la Chiesa di Gerusalemme» (At 8,1). In realtà, notiamo che gli apostoli non ne sono toccati, benché non facciano nulla per nascondersi, e che questa persecuzione si scatena subito dopo la morte di Stefano: viene da pensare che il suo bersaglio non fossero i cristiani in genere, ma proprio gli ellenisti, quegli ebrei convertiti di lingua greca che probabilmente erano guardati abbastanza male dagli antichi residenti di Gerusalemme. Sembra addirittura che chi li perseguita non abbia neppure di mira i fratelli, i credenti, ma la gente forestiera che si era trasferita a Gerusalemme portando con sé i propri (tanti) soldi, le mogli (giovani e presto vedove) e i (riottosi) figli di età minore. Costoro, quasi certamente poco legati a Gerusalemme, davanti alla persecuzione, hanno la scusa buona per ritornare in quegli ambienti di origine che erano multiculturali, variegati e ricchi di vita e in cui probabilmente preferivano vivere.

Ciò che si può dedurre sul clima ecclesiale, nonostante Luca tenti di non evidenziarlo troppo, non è simpatico. Come abbiamo già in parte ricordato, l’autore di Atti dice che «scoppiò una violenta persecuzione contro la chiesa di Gerusalemme» tanto che «tutti, ad eccezione degli apostoli, si dispersero nelle regioni della Giudea e della Samaria» (At 8,1). È un passaggio quanto meno strano: se voglio colpire un gruppo, la prima delle misure da prendere è punirne i capi che, tra l’altro, sono ben noti al sinedrio, che li ha già convocati due volte (At 4,1-21; 5,17-42). Perché questa volta li lascia stare?

Come dicevamo, viene il sospetto che la persecuzione non tocchi poi davvero tutti i credenti in Cristo ma solo quelli di lingua greca, i forestieri. E a questo punto si insinua anche una domanda triste e perfida: perché i dodici non sembrano muovere un dito per difendere i cristiani ellenisti o per condividerne la sorte?

Uno degli aspetti della chiesa delle origini, che Luca dissimula ma ci lascia intravedere, è che non si tratta di una chiesa perfetta. È una chiesa i cui responsabili in fondo condividono i pregiudizi del loro contesto religioso e culturale, o almeno non riescono a ribellarvisi. Verrebbe da dire che questa chiesa, lungi dall’essere ideale, assomiglia molto anche alla nostra. Oggi come allora l’adesione a Cristo non trasforma il nostro sguardo come dovrebbe. Ebbene, Luca fa notare che persino in questa situazione discutibile, lo Spirito è all’opera, e può scrivere dritto su righe storte. Anzi, è proprio ciò che fa.

Annuncio scandaloso

Da Gerusalemme, quindi, parte un certo numero di ebrei cristiani di lingua greca, che tornano verosimilmente nei luoghi da cui sono venuti. E una volta tornati là ovviamente raccontano a chi incontrano la grande novità che ha cambiato la loro vita. Luca, in verità, si premura di dire che gli espulsi annunciano Gesù solo ad altri ebrei (At 11,19). A noi può sembrare una preoccupazione eccessiva, ma per quel mondo certe divisioni erano barriere insuperabili. In Cristo «non c’è giudeo né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio e femmina» (Gal 3,28), scrive Paolo, e lo evidenzia in quanto si tratta di una novità inaudita, perché normalmente quelle divisioni erano nettissime. Una preghiera che forse già gli ebrei della fine del II secolo (ma probabilmente anche prima) recitavano al risveglio, diceva: «Benedetto tu, Signore, perché non mi hai fatto goi (cioè «non ebreo»), non mi hai fatto schiavo, non mi hai fatto donna». Gesù si era mostrato molto disinvolto nel valorizzare le donne e incontrarsi con loro, e dai vangeli non ci sono indizi per farci pensare che non abbia mai incontrato persone che chiaramente fossero schiave… ma non aveva quasi mai oltrepassato la barriera che lo divideva dai non ebrei. È uno dei grandi problemi, forse il più grande, che Luca negli Atti deve presentare e giustificare. E si sta impegnando ad arrivarci poco alla volta.

Ha già citato i primi casi (Filippo che battezza samaritani e poi un eunuco etiope) e ha colto Pietro in una situazione estrema (il battesimo di un centurione romano: At 10). Nel capitolo 11 sembra quasi che Luca voglia scaricare la responsabilità di un passaggio ulteriore su gente che era forestiera e, nella mentalità del tempo, forse un po’ più grezza. «Alcuni, gente di Cipro e di Cirene, cominciarono a parlare anche ai greci…» (At 11,20). Succede semplicemente che ad Antiochia semiti e greci vivano gli uni accanto agli altri. E che alcuni, non del posto, non sapendo bene chi sia ebreo e chi no, cominciano ingenuamente a parlare di Gesù ai loro vicini di casa, che ne sono affascinati. E il vangelo inizia a diffondersi ampiamente anche tra i non ebrei.

Si corre ai ripari

A Gerusalemme vengono a sapere che ad Antiochia sta succedendo qualcosa di strano e, come avevano già fatto per l’annuncio del vangelo tra i samaritani (Atti 8,14), mandano qualcuno a controllare (e chissà, forse, nel caso, a castigare). Per questo, incaricano quello stesso Barnaba che era già stato inviato in Samaria.

Dobbiamo fermarci un attimo per capire la preoccupazione del gruppo dirigente di Gerusalemme. Gesù, lo abbiamo già detto, non aveva lasciato intendere di dover ampliare l’annuncio anche ai non ebrei. In più, il momento più importante di celebrazione della fede cristiana è la «frazione del pane» (quella che oggi chiamiamo messa), che è proprio un banchetto.

Ebbene, il mondo ebraico si compattava soprattutto intorno alle norme religiose che toccavano il cibo. Mangiare era un atto religioso. E l’atto religioso privilegiato dai cristiani era un pasto. I doveri religiosi si concentravano, per il cibo, soprattutto su un’alimentazione kasher, «pura», che richiedeva, tra l’altro, il non mescolarsi con i non ebrei. Come tollerare, quindi, dei non ebrei alla «frazione del pane»? Inoltre, se anche si fosse potuto chiudere un occhio, magari ospitando i non ebrei a casa di ebrei (almeno il cibo sarebbe stato kasher, anche se in compagnia di persone non accettabili), come fare a spiegare loro che non avrebbero mai potuto ricambiare l’ospitalità? È probabile che sembrasse più semplice ribadire che si poteva essere cristiani solo se ebrei.

È con questo dilemma che Barnaba si presenta ad Antiochia. E, come era già accaduto in Samaria, Barnaba arriva, guarda, ascolta, discerne e attesta che vede i frutti dello Spirito e non può fare altro che applaudire a ciò che sta succedendo. Quanto è prezioso lo sguardo di chi sa vedere anche il nuovo con gli occhi di Dio!

Non solo. Immediatamente (Atti 11,25), Barnaba si ricorda che per quel contesto particolare, di mescolanza di due culture, lui conosce la guida giusta, un uomo che lui stesso aveva già introdotto a Gerusalemme, dove però non si era integrato bene, troppo avanti e grintoso per una chiesa forse più tranquilla e ancora legata al tempio… E di nuovo Barnaba si fa strumento dello Spirito su strade nuove: parte, va a Tarso, cerca Saulo, e lo porta ad Antiochia. Finalmente al posto suo, in una comunità mista che traccia strade nuove e, restando fedele al tracciato sicuro, ha bisogno di camminare con coraggio!

La «Porta di Cleopatra» nelle mura di Tarso

Sorvegliati dai servizi segreti

Il brano si chiude con un’affermazione che può sembrare una semplice curiosità, ma ha numerosissimi sottintesi: «Ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (Atti 11,26). Anche chi la consideri solo una curiosità, sa bene che alla fine quel nome si sarebbe imposto e quindi questo è un passaggio importante. Ma c’è di più. «-iano» è un suffisso latino, che di solito indica l’appartenente a un partito raccolto intorno a una persona-guida. Al tempo di Gesù si conoscono bene gli erodiani (cfr. Mt 22,16; Mc 3,6; 12,13), i pompeiani, i cesariani, e così via. Il greco non usa questo suffisso se non in prestiti dal latino. E gli Atti degli Apostoli sono scritti in greco, e il greco (insieme all’aramaico) è la lingua parlata per le strade ad Antiochia. Perché allora una parola latina per definirsi?

Perché probabilmente non furono i cristiani a trovare per sé questo nome (come d’altronde dice Luca: «Furono chiamati»). Proprio l’origine latina lascia invece intendere che si sia trattato dei romani. Questi, tra gli strumenti che utilizzavano per mantenere l’ordine pubblico, avevano anche un’importante rete di informatori, di infiltrati. Noi oggi li chiameremmo i servizi segreti. Sono questi informatori i primi ad accorgersi che sta crescendo un gruppo nuovo, originale, per il quale non si può più dire che siano semplicemente ebrei. Anzi, non lo sono perché hanno dentro anche tanti altri. E capiscono anche che a caratterizzare questo gruppo è Cristo (che lo scambino per un capo politico si può capire: gli informatori, e molto di più chi li usa, sono ossessionati dalla politica). Questo vuol dire anche che ormai «Cristo» non era più sentito come un attributo (la traduzione di «messia») ma quasi come un secondo nome proprio, come lo usa anche Paolo.

Potremmo aggiungere un’ultima considerazione. Siccome non c’è alcuna notizia di una persecuzione contro i cristiani ad Antiochia, gli informatori romani, i primi ad accorgersi in modo chiaro che i cristiani sono davvero una cosa nuova, dovevano aver deciso anche che questo nuovo gruppo non era pericoloso.

Intorno alla chiesa, fuori dal mondo ebraico, qualcuno ha cominciato a notare i cristiani. E l’esito della persecuzione contro una parte sola della comunità cristiana, che sembra quasi venire abbandonata dall’altra, è un’apertura nuova, una sfida nuova, un’opera nuova dello Spirito.

Con tutti i difetti della Chiesa d’allora o d’oggi, dobbiamo confidare che non c’è limite o cattiveria che riesca a legare lo Spirito, pronto ad agire comunque, e ad agire per il bene.

Angelo Fracchia
(12 – continua)




Primo degli apostoli, primo dei romani

testo di Angelo Fracchia |


Ci è già ben chiaro che uno degli obiettivi di Luca nello scrivere gli Atti degli Apostoli è di spiegare che l’ampliamento della schiera dei «fratelli in Cristo» in numero ma anche in schieramento di campo, fuori dal mondo ebraico, è stato voluto dallo Spirito Santo e infatti non è stato causato da colui che molti accusavano di tradimento dell’ebraismo, ossia Saulo di Tarso. A un terzo del racconto degli Atti i cristiani si sono già fatti notare per delle frontiere molto porose: hanno già annunciato il vangelo, e battezzato, fuori dai confini più rigidi e stretti del popolo ebraico, vale a dire a samaritani (At 8,5-25) ed eunuchi (At 8,26-39). Alcuni tra i fratelli continuano a frequentare religiosamente il tempio (At 2,46; 3,1; 5,21) anche se altri contro quel tempio pronunciano parole di fuoco (Stefano: At 7). Finora, tuttavia, il movimento cristiano sembra uno tra i tanti gruppi ebrei, sicuramente tra i più aperti ed elastici, ma sempre all’interno di una varietà che era comunque ampia.

I lettori degli Atti sapevano però già che il cristianesimo si era espanso ben oltre i confini ebrei, e voci calunniose sostenevano che a operare quel cambiamento, forzando la mano alla comunità, fosse stato uno che non aveva neppure conosciuto Gesù, un rabbino originario di Tarso.

Con il capitolo 10 degli Atti degli Apostoli, Luca prende decisamente posizione contro queste voci: il movimento di Gesù si apre a chi viene dal paganesimo, ma lo fa nella sua guida più ufficiale e autorevole, Pietro (anche se di certo non dobbiamo pensarlo come un papa odierno), con il pieno avallo dello Spirito Santo (che anzi deve anche spingere un po’…) e nell’approvazione consapevole di tutta la chiesa.

Un poco di contesto

Per apprezzare fino in fondo il peso della storia, dobbiamo ricordare che i romani non erano soltanto degli «invasori» stranieri. Roma porta nel Mediterraneo orientale ordine, ricchezza, commerci e un modello ideologico potente. Roma si ritiene la garanzia della vita ordinata e felice del mondo. Quando gli imperatori si faranno venerare come dèi, daranno in fondo visibilità a una dimensione che, in forma implicita, era già presente. Per i romani la vita e la storia avevano solo una garanzia sicura: il loro potere, che garantiva a tutti di vivere bene. Appoggiandosi e innestandosi sulla cultura greca, già diffusa nel Mediterraneo, i romani si pensano come coloro che insegnano a vivere a tutti e risolvono tutte le tensioni. Dovremmo pensare al modo con cui, nella seconda metà del XX secolo, si è proposta da noi l’egemonia statunitense, non solo e non tanto con la forza degli eserciti, ma con il fascino della sua ricchezza, della sua sicurezza, della sua moda. Non è un nemico più forte che mortifica, ma un fratello maggiore che punta a convincere e a sedurre, a offrire un modello di vita.

Per questo il mondo ebraico – che pensava di non avere nel proprio Dio semplicemente un aiuto per uscire indenne dai rischi della vita, ma davvero un punto di riferimento definitivo per il quale si poteva addirittura mettere in pericolo la stessa vita – coglie nel potere romano qualcosa di affascinante (molti ebrei, commercianti, sfrutteranno la pace e il benessere romani) ma anche di sottilmente pericoloso.

Dentro a questo impero, poi, i centurioni non sono dei «romani» come gli altri. Intanto sono soldati, cioè rappresentano il volto più antipatico e violento di quella forza seducente. Poi, in quanto centurioni, non sono neanche soldati come gli altri, ma capi, che hanno voluto diventare tali e che possono fungere da funzionari dello stato. Nessuno diventava o restava centurione per caso o perché costretto dalle circostanze.

Cornelio, peraltro, sembra essere il ponte più verosimile verso il mondo ebraico: è un centurione, sì, ma «religioso e timorato di Dio» (At 10,2), generoso in elemosine e pronto a pregare Dio. È uno di quei non pochi che vedevano nell’ebraismo un movimento profondo, spirituale, attraente e convincente.

Protagonista è lo Spirito

Scorcio panoramico di Giaffa e Tel Aviv

Non è Cornelio ad avvicinarsi di propria iniziativa al cristianesimo, è invece Dio stesso, sotto forma di un angelo, a offrirgli di perfezionare il proprio avvicinamento al Dio vero. Neppure gli spiega chi sia Gesù o gli fa direttamente dono dello Spirito Santo, perché il Dio cristiano, che ha creato il mondo come autonomo, non sopporta di violentare la libertà umana, e si dà sempre attraverso gli uomini. Le voci divine, l’intervento diretto di Dio nella storia, è ben previsto negli Atti degli Apostoli, ma solo come anticipo o conferma di iniziative umane, non al loro posto. Nel mondo cristiano, Dio e l’uomo operano soltanto insieme.

La visione spiega a Cornelio chi dovrà chiamare.

Ma l’opera dello Spirito non è finita qui. Se infatti il romano poteva non sapere di chi avesse bisogno, colui che è chiamato dai suoi servi deve a sua volta convertirsi.

Pietro era il primo degli apostoli, il primo dei Dodici, ma nei fatti non era il capo del movimento cristiano che non aveva un vero centro. Se davvero i cristiani avessero voluto un tale centro, l’avrebbero cercato a Gerusalemme, dove la chiesa sembrava essere già guidata da «Giacomo, il fratello del Signore» (At 12,17; 15,13; cfr. 1 Cor 15,7; Gal 1,19).

Non a caso, Pietro non si trova a Gerusalemme, a gestire la chiesa, ma a Giaffa, sul mare Mediterraneo, in casa di un altro Simone, conciatore.

Il particolare del lavoro del Simone che ospita Pietro non pare essere secondario. Sembrerebbe quasi che Luca intenda portarci per mano, passo dopo passo, a scoprire che cosa Dio abbia in serbo per i suoi. Pietro, infatti, mentre è in preghiera, si trova davanti a una visione strana (At 10,10-16). Ha fame, e dal cielo scende una tovaglia con tanti animali di ogni tipo, compresi quelli che per la tradizione ebraica sono impuri. Sempre dal cielo viene una voce che invita Pietro a uccidere e cibarsi, ma lui si rifiuta, facendo notare che fin da quando era bambino aveva solo mangiato cibi puri. La voce, però, lo invita a ripensarci: «Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo profano». L’invito è chiaro, spinge il primo degli apostoli a non rispettare più le regole di purità rituale. L’obiezione può essere che si tratta di una regola religiosa, e violarla significa andare contro Dio.

Ma è qui che ci accorgiamo che Pietro già sta violando quella legge, in quanto i conciatori erano considerati impuri (erano costretti infatti a maneggiare cadaveri, che rendono impuri). Pietro supera già la legge quando entra in rapporto con le persone, proprio come aveva fatto anche Gesù, mangiando con peccatori e lebbrosi (Mt 26,6), senza farsi scrupoli (Gv 8,3-11, ma gli esempi sarebbero tanti). Al centro della proposta cristiana c’è l’incontro, con Dio e con gli altri, e non c’è legge religiosa che possa venire invocata per contestare questa intenzione divina di fondo.

Dio alla guida

Pietro, dunque, segue i servi inviati da Cornelio a chiamarlo. Non è senza significato la scena che si svolge quando entra in casa del centurione (At 10,25-26), con lo stesso che si china davanti a Pietro che lo rimprovera spiegando: «Anche io sono un uomo!». Luca fa di tutto per ricordarci che anche quando è Dio a prendere in mano il volante della storia (e qui lo fa!), non si muove senza la presenza collaborante degli uomini. Senza di noi, non vuole agire, non vuole forzarci ad andare dove non vogliamo: può spingerci, esortarci, invitarci, ma mai contro la nostra volontà e collaborazione.

Potremmo pensare che Pietro vada da Cornelio per predicare, evangelizzare e battezzare, cosa che farà. Ma intanto i due dialogano, si parlano, si chiariscono le intenzioni e condividono le esperienze (At 10,27-33). Il vangelo, innanzi tutto, mette in contatto le persone. Quindi Pietro spiega, in breve, la vicenda di Gesù (At 10,36-43), sottolineando che «Dio non fa preferenza di persone», quale che sia l’origine, il popolo o la storia personale, e di questo Pietro appena adesso sta rendendosi conto (At 10,34).

Quando ha finito di parlare non ha bisogno di attendere la reazione di chi è radunato in quella casa, perché, come è già successo altre volte ma soprattutto nella grande Pentecoste di Atti 2, lo Spirito Santo scende sui presenti senza aspettare il battesimo, che arriva quasi a conferma formale di ciò che già Dio ha operato (At 10,44-48).

Verifica ecclesiale

Il racconto non finisce qui. Persino Pietro, il primo degli apostoli, deve rendere conto ad altri di che cosa è successo. Benché la notizia che giunge a Gerusalemme sia che «i pagani avevano accolto la parola di Dio», che sembrerebbe essere presentata come una notizia positiva, quando Pietro arriva nella città santa viene rimproverato, perché si è mescolato con dei pagani, trascurando le norme di purità (At 11,1-3).

Deve quindi nuovamente riprendere l’intero racconto (che così Luca ci richiama ancora, perché non ce ne scordiamo: come i migliori professori, ci ripete più volte gli aspetti essenziali), al termine del quale i presenti si calmano e cominciano a lodare Dio (At 11,18).

È chiaro che cosa Luca vuole spiegare di questo passaggio delicato e fondamentale. Dio ama gli uomini, vuole entrare in rapporto e relazione con ognuno di loro, senza che alcun aspetto secondario e superficiale possa impedirlo. Si può essere addirittura dei pagani romani e centurioni, ma se si cerca autenticamente Dio, lo si potrà incontrare, e non c’è legge ecclesiale che lo possa impedire. Nello stesso tempo, Dio non si muove fuori dalla chiesa, fuori dai suoi credenti, che devono mettersi a disposizione, lasciarsi scomodare, uscire e andare là dove la legge religiosa sembrerebbe non volerli lasciar entrare, e poi ancora devono cercare di capire quello che è successo e accettare di dover cambiare la propria idea su Dio.

Il Dio cristiano ha le idee chiare sulla propria intenzione di incontrare tutti gli uomini. Ma non agirà nonostante i suoi fedeli, bensì puntando a coinvolgerli e convincerli. Con la consapevolezza che, senza la loro collaborazione, anche l’azione di Dio sarà tarpata. Se Pietro non fosse uscito per seguire gli uomini che erano venuti a chiamarlo, Cornelio non avrebbe ricevuto lo Spirito. Ecco che il compito della Chiesa si riempie anche di responsabilità.

Angelo Fracchia
(11 – continua)




Da Saulo di Tarso a Paolo apostolo


Nel nostro cammino di rilettura degli Atti degli Apostoli siamo giunti al colpo di scena che imprimerà agli Atti un percorso nuovo. Entra in scena Saulo di Tarso, incontrato solo di sfuggita in At 7,58; 8,1, prima della sua conversione.

Ci si potrebbe aspettare che con lui finalmente l’azione si allontani da Gerusalemme, si apra al mondo intorno. In effetti sarà così, ma con un percorso meno lineare di quanto potremmo immaginare. Da una parte, l’apertura al mondo non ebraico è già iniziata, sia pure in modo sfumato, con il battesimo di samaritani ed eunuchi (At 8), che non facevano parte del popolo ebraico e anzi erano spesso visti come persone da evitare a qualunque costo (i samaritani), ma che, agli occhi di un non ebreo, erano probabilmente difficili da distinguere. Dall’altra, il primo a battezzare un pagano sarà Pietro (At 10,48). Ma anche il racconto della conversione di Paolo non è un semplice colpo di scena: aggiunge ricchezza, profondità e raffinatezza al discorso.

Tre racconti

Per questo brano ci troviamo davanti a tre versioni del medesimo avvenimento. Sono dei «doppioni» secondo uno stile che talora si trova già nell’Antico Testamento e, più diffusamente, nei vangeli sinottici. È ben raro, però, che si trovino all’interno dello stesso libro, e quando succede è per ragioni ben precise. Saranno queste ragioni, quindi, che indagheremo, anche perché il procedere di Luca è tanto preciso e puntuale che fa sembrare strane queste ripetizioni.

  • Il primo racconto in cui si narra del cambiamento di Saulo è l’unico che è narrato dall’esterno, come da un osservatore, e che è posto al momento cronologico esatto in cui è accaduto (At 9). Saulo sta andando a Damasco per perseguitare i cristiani quando splende una luce, parrebbe soltanto per lui, e si sente una voce che però i compagni di viaggio di Saulo non riescono a comprendere. Diventato cieco, Paolo è accompagnato in città, dove incontra Anania, un cristiano affidabile la cui resistenza è vinta a fatica da Dio, che lo guida a guarire e lo battezza.
  • Il secondo racconto è al capitolo 22. Paolo (non più Saulo) è giunto a Gerusalemme per portare la colletta raccolta nelle chiese del Mediterraneo orientale, ma viene attaccato nel tempio e accusato di blasfemia, creando un tale subbuglio che la pattuglia romana interviene e lo porta via, probabilmente con l’intenzione di flagellarlo e interrogarlo. Paolo, a questo punto, si svela come personaggio cosmopolita e importante, che parla in greco al centurione e poi racconta la propria vicenda alla folla «in lingua ebraica» (At 21,40: in realtà doveva trattarsi di aramaico, ma la confusione tra le lingue era comunissima). In questa versione – narrata dallo stesso Paolo – coloro che camminano con lui vedono la luce ma non sentono la voce, e Anania sembra decisissimo nella propria missione, lo guarisce senza toccarlo e gli spiega nei dettagli ciò che compirà nella chiesa.
  • Il terzo racconto è al capitolo 26. Paolo, arrestato e in attesa di essere inviato a Roma, perché si è appellato alla possibilità di essere giudicato da un tribunale per cittadini romani, viene convocato quasi per svago dal procuratore Festo e parla anche davanti a Erode Agrippa II, esperto di questioni ebraiche. A lui Paolo presenta la propria vicenda con tanta passione da spingere il re alla battuta: «Ancora un poco e mi convinci a farmi cristiano!» (At 26,28). In questo racconto pare che tutti vedano la luce, la voce che gli parla cita la scrittura (a differenza che negli altri due testi) e non c’è traccia di Anania, ma è la voce udita sulla strada per Damasco a spiegargli anche la sua missione futura.

Perché queste differenze?

Un brano ripetuto più volte serve normalmente a ribadirne l’importanza. Inoltre ripeterlo più volte può anche aiutare a suggerire al lettore quali dati siano davvero centrali. Se in un passo Paolo vede una luce e gli altri no e in un altro tutti la vedono, se in uno sentono la voce e nell’altro no, significa che questi particolari non sono decisivi. Se Anania compare in due versioni, se ne ricava che è importante ma non essenziale.

A tornare in tutti e tre i brani sono soltanto tre elementi (non sempre nella stessa forma): l’intenzione bellicosa di Paolo nell’andare verso Damasco, l’apparizione di Gesù e soprattutto la sua parola con la quale si identifica con la Chiesa, e la missione futura di Paolo.

Il primo di questi elementi può essere più immediatamente intuito anche da noi. Paolo rivendica il fatto di non essersi inventato tutto, perché, anzi, era tanto lontano dal diventare cristiano che piuttosto stava perseguitando i credenti.

Incontrare Gesù nella Chiesa

Sulla strada, però, gli accade qualcosa di straordinario. Un inciampo nel percorso, che lo costringe a fermarsi e a ripartire con un’altra consapevolezza. Al centro dell’inciampo uno sconosciuto che gli parla con voce severa: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4; 22,7; 26,14). La domanda sembra richiamare quella con cui Dio aveva chiamato un giovanissimo Samuele, ignorante di Dio ma destinato a essere un sacerdote e profeta importantissimo, che avrebbe unto re prima Saul e poi Davide (1 Sam 3,10). E il verbo «perseguitare», ripetuto anche al versetto dopo, con insistenza, potrebbe anche significare «inseguire, perseguire». Sembra quasi che Luca si diverta a dire che colui che sembrava voler cancellare dalla faccia della terra il nome cristiano, in realtà stesse faticosamente e insistentemente cercando l’incontro con Gesù.

L’antichità non indulge facilmente alle ricostruzioni psicologiche, ma pare veramente che qui Luca sia in piena sintonia con sant’Agostino che, tre secoli più tardi, scriverà la prima vera autobiografia spirituale di un cristiano spiegando in questo modo il suo tentativo di tenersi lontano da Dio: «Tu eri dentro di me, e io fuori. E là ti cercavo. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi hai chiamato, e il tuo grido ha squarciato la mia sordità. Hai mandato un baleno, e il tuo splendore ha dissipato la mia cecità» (Confessioni, 10,27.38).

Per la prima volta insicuro e spiazzato, Paolo chiede alla voce di identificarsi: «Io sono Gesù, che tu perseguiti». Si potrebbe obiettare che Paolo non perseguitava Gesù: lo considerava anzi già morto. Ma il cuore dell’incontro è proprio lì: in qualche modo (in quale modo non ci importa, Luca ci invita a non fermarci sui particolari) Paolo intuisce, su quella strada, che Gesù si identifica appieno con i suoi fedeli, che è presente in mezzo a loro, in loro, e che perseguitare loro significa perseguitare lui. Ma se Gesù, dopo la morte, è presente in mezzo a loro, è dunque Signore della morte, l’ha vinta. E solo Dio può vincere la morte, non evitandola (come gli antichi immaginavano che facessero gli dèi greci) ma attraversandola.

E a questo punto il Signore che si è identificato con la sua Chiesa si ritira nuovamente, o per meglio dire, ritorna alla sua presenza più nascosta. È intervenuto in modo grandioso, «da Dio», per bloccare Saulo, ma non completa la sua opera. Dovrà essere un cristiano, vincendo anche la propria paura (At 9,13-15), ad andare da Saulo, a decidere di fidarsi di questa conversione, ad annunciargli ciò che dovrà patire e fare per Gesù, a guarirlo. E dovrà essere la comunità cristiana di Damasco, a sua volta, a dover decidere di fidarsi e poi a salvarlo facendolo scappare di nascosto dalla città e dalle insidie dei nemici che Saulo si è di nuovo suscitato (At 9,19-25). E dovrà poi essere la comunità cristiana di Gerusalemme a decidere di fidarsi di quello che un tempo la perseguitava, e un cristiano, Barnaba, a fare discernimento decidendo di introdurlo nelle riunioni dei fratelli (At 9,26-28).

Luca pare dirci che Gesù è presente nella sua comunità, si identifica con essa. E può persino decidere di assisterla in modo prodigioso, intervenendo con un miracolo stravolgente. Ma è un’eccezione, non la norma: subito dopo torna a «nascondersi», a offrirsi nella comunità, che a volte agisce in modo compatto e quasi anonimo, a volte tramite alcuni rappresentanti individuali (Anania, Barnaba), ma sempre porta avanti l’opera di Gesù, che può dire: «Io sono loro, loro sono me».

Debolezza e continuità

Forse c’è anche altro che Luca intende suggerirci con i tre, insistiti, racconti del cambiamento di mentalità di Paolo (è questo il significato più autenticamente biblico del vocabolo «conversione»).

Nel primo racconto, al cap. 9, freme strage, è incaricato dal sinedrio con lettere ufficiali ed è accompagnato da una scorta, è insomma un uomo nel pieno possesso delle proprie forze. Negli altri due, ai capitoli 22 e 26, Paolo è imprigionato ma si difende con sicurezza e orgoglio. Eppure l’incontro con Gesù lo svuota di ogni pretesa, lo lascia ammutolito e cieco, costretto a farsi prendere per mano per lasciarsi accompagnare alla meta. E poi, ancora, l’incontro con Gesù lo risanerà e gli darà la forza di riprendere a parlare e a predicare con grinta.

Ma la sua fragilità non è dimenticata per sempre: da Damasco deve scappare di nascosto, a Gerusalemme di nuovo la sua attività gli attira ostilità tali che i fratelli decidono di rispedirlo a Tarso (At 9,30). E siccome Luca ci ha già fatto intuire che la comunità cristiana non è immune da divisioni interne (At 6,1 e tutto ciò che segue), non sembra impossibile qui vedere un’attività paolina che suscita fastidio anche in alcuni cristiani, perché troppo lontana da quella politica di appianamento delle tensioni che sembra valere per i cristiani galilei che si sono fermati nella capitale, che stanno vicino al tempio, che lo frequentano ogni giorno (At 2,46; 3,3; 5,42).

Questa avversione che Paolo suscita la ritroveremo anche più avanti, quando diventerà il grande missionario delle genti. Perché Paolo è persona decisa, travolgente, che di solito non si ferma a mediare ma va diritto verso la meta che intuisce. E l’incontro con Gesù non lo cambia, semplicemente gli dà una nuova direzione.

Mentre parla della Chiesa, Luca sembra aggiungere informazioni riguardo alla vita cristiana, che è incontro personale con Gesù ma sempre comunque mediato e perfezionato dalla Chiesa, anche se le modalità sono diverse per ognuno. Un incontro nel quale la nostra identità non viene stravolta, ma semmai compiuta, perfezionata e orientata verso l’obiettivo che non rende i nostri sforzi vani. E in questo ri-orientamento siamo perfezionati e accolti come siamo veramente, nella nostra autenticità e fragilità, con le nostre doti e difetti. Fa parte di questa chiamata la capacità di sopportare anche tempi che umanamente dovremmo definire di fallimento. Saulo, ad esempio, partito per Gerusalemme a studiare per diventare un grande rabbino, dopo aver acquisito potere e autorevolezza davanti al sinedrio, era entrato nella comunità che perseguitava, ma non è riuscito a mantenere il proprio ruolo, e se ne è tornato, mortificato, nella propria patria. Sarà chiamato a grandi cose che già sono state promesse, perché Dio guarda lontano, ma nulla di tutto ciò si vede ancora. La promessa di Dio, però, non cade invano.

Angelo Fracchia
(10 – continua)