Mangiare e bere (Es 15,22-17,16)

testo di Angelo Fracchia


Il popolo oppresso è stato liberato, ed è fuori dall’Egitto, vivo, mentre il faraone e il suo esercito sono stati coperti dal mare. L’impresa eroica è stata compiuta (da Dio), la storia può chiudersi sulla sigla finale. O almeno, è ciò che vedremmo in un film.

Gli autori del libro dell’Esodo, però, non volevano raccontarci una bella avventura di cui inorgoglirsi. Il loro obiettivo ultimo era di indicare ai lettori un percorso di fede nel quale avventurarsi: un percorso che cresce sempre, di fiducia in fiducia, di affidamento in affidamento, fino a un passaggio che può essere lancinante, che sembra minacciare la promessa stessa di vita che sta dietro e dentro alla relazione con Dio. Eppure quel passaggio, attraverso ciò che pare indicare la morte, conduce alla libertà.

E poi? La vita è finita? «Vissero tutti felici e contenti»? No, e chi ha scritto il libro sa che la vita è poi fatta di quotidianità banale e insieme faticosa, anche svilente rispetto a quei grandi sogni simboleggiati dal passaggio del mare. Una vita in cui ci si può persino chiedere se quello che abbiamo vissuto non ce lo siamo inventato, o se non abbiamo sbagliato tutto. E in cui ci sembra che a prometterci gioia e vita sia la nostalgia, il passato e il voltarci indietro a guardare ai tempi nei quali (ci sembra) non stavamo poi così male.

Le fatiche e le mormorazioni

E davvero questo libro antico si mostra più intelligente, profondo e acuto di tante nostre produzioni moderne. All’entusiasmo del «cavallo e cavaliere gettati nel mare!» (Es 15,21) segue il racconto di tre giorni di cammino nel deserto, senza acqua. Quando poi la si trova, è imbevibile (15,22-24). Quando poi, dissetati da acque risanate e rifocillati da una nuova oasi finalmente ricca, il popolo si rimette in cammino, arriva il rimpianto per la schiavitù: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra

d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà!» (16,3).

È la fragilità umana che tende ad abbellire i ricordi e a far sedere nel rimpianto, anziché camminare in avanti. In questa prospettiva, le pagine dell’Esodo parlano anche a noi e alle situazioni che viviamo, quelle nelle quali ci succede qualcosa di straordinario (la decisione di intraprendere un percorso di formazione, una vita diversa, una relazione profonda), ma il nostro entusiasmo iniziale lascia un po’ per volta spazio alla fatica del quotidiano, alla noia del lavoro arido e pesante, alle sofferenze del cammino di tutti i giorni. E subentra la nostalgia del passato, di quando ci sembrava di essere più liberi, con più possibilità davanti.

Ogni episodio del cammino di Israele nel deserto, quindi, è anche un suggerimento e un’istruzione per noi e per il nostro cammino di fede (fede in Dio, ma anche fiducia nelle persone che abbiamo accanto e persino in noi e nelle nostre scelte).

La «Amara» (Es 15,22-27)

Dopo tre giorni di cammino nel deserto, ad accompagnare il popolo è la sete. Quando finalmente si giunge a un’oasi, la sua acqua è però amara, non bevibile. Il testo insiste talmente tanto sull’amarezza del posto (chiamato proprio così: «Mara», che in ebraico significa «Amara») che non può trattarsi di un caso.

Abbiamo faticato per prendere la decisione di fidarci, ci siamo buttati, ci aspettavamo di essere trascinati solo dall’entusiasmo e siamo invece presi dalla sete, dalla fatica, e vediamo che i nostri sforzi non sembrano portare frutto. Subentra lo sconforto di chi sta male e pensa di essersi ingannato. L’acqua è imbevibile.

Mosè si rivolge a Dio, il quale gli fa gettare nell’acqua un legno. Questa scena fa ricordare il bastone steso sulle acque del mare per dividerle. Questa volta viene divisa l’acqua sana, che fa vivere, dall’amaro che conteneva. Potrebbe quasi sembrare un gesto con echi magici. Dobbiamo però ricordarci che le realtà più profonde e autentiche che viviamo, più spirituali, hanno bisogno di segni materiali per essere espresse: l’amore che lega due persone si incarna in regole di vita insieme ed è simboleggiato da un anello, la dedizione agli altri, magari, si incasella dentro norme protocollari e si esprime in una divisa da inferniere, da vigile del fuoco, e così via. Anche la religione non sfugge a questa dinamica: l’intento è di dirsi e pensarsi in comunione con Dio, e per farlo passiamo attraverso formule, gesti e riti che, a prima vista, parrebbero la negazione di una vita spontanea.

E il rischio c’è. Il bacio, che univa una coppia all’inizio del loro percorso in una promessa quotidiana, può diventare semplice routine, come quella di prendere chiavi di casa e portafogli prima di uscire. Il rischio esiste anche nella religione, e non è un caso che il gesto di Mosè sia preceduto dall’appello a Dio, dalla richiesta e risposta divina, che si fa gesto rituale (il legno sulle acque) e norme («il Signore impose al popolo una legge e un diritto»: 15,25).

Viviamo dentro a riti e regole, che restano autentici e vitali finché si mantengono collegati a ciò che esprimono, a una relazione vitalizzante con colui che ci libera sempre, non solo all’inizio. Il senso del rito, in fondo, è questo: rimandarci a un’esperienza di relazione che si è dimostrata affidabile, per trovare la forza di fidarci ancora.

E può essere confortante, per quanto marginale, l’annotazione di Esodo che, dopo la Amara (divenuta però dolce), ci sarà ad accogliere il popolo un’altra oasi, con ben dodici sorgenti (15,27): il cammino è faticoso e duro, ma non privo di sorprese anche positive, di inattesi (e non promessi) squarci di respiro.

Quaglie e manna (Es 16)

Dall’oasi paradisiaca bisogna però ripartire, e presto si fanno sentire di nuovo la fame e la sete, insieme alla paura di soffrirne, che forse è persino peggio. E allora, di nuovo, spunta la nostalgia per le «cipolle d’Egitto».

La risposta divina è particolare. Dio si lamenta della sua durezza di cuore e della poca fiducia del suo popolo, ma intanto si prende cura di lui, fa cadere a terra, nell’accampamento, quaglie da mangiare (16,13). In più, al mattino, è presente una «cosa fine e granulosa» che lascia perplessi gli Israeliti (secondo l’autore biblico la domanda «che cos’è? – man hu?», avrebbe portato al nome di «manna»). Sarà il loro cibo per quaranta anni, un cibo dalle caratteristiche molto speciali.

Si forma intorno all’accampamento ogni mattina. Chi si fa prendere dall’ansia e dall’accaparramento e ne raccoglie più di quanto gli serve, ne riempie comunque solo un omer, una misura prestabilita (non ci è neppure chiaro a quanto equivalga), mentre chi non riesce a raccoglierne tanta, ne avrà comunque un omer (16,16-18). Chi poi, preoccupandosi che forse il giorno dopo non ne avrebbe trovata, ha deciso di tenerne un po’ da parte, la trova marcita (16,20). Solo al sabato la manna non si presenta, ma quella del venerdì, raccolta in quantità doppia, non marcisce il giorno dopo (16,22-27). Infine, quella che non era raccolta al mattino presto, con il crescere della temperatura svanisce (16,21).

Da sempre i commentatori ebrei hanno pensato che una descrizione così particolareggiata intendesse parlare anche d’altro, del nutrimento che gli esseri umani possono cercare e ottenere in Dio, quello che potremmo definire la forza di affrontare il quotidiano, la prospettiva di speranza, le riserve di serenità e gioia.

Niente di tutto ciò può essere accumulato: non mi è possibile oggi raccogliere il doppio di amore allo scopo di averne anche per domani. Non mi basta la fiducia e la serenità che avevo ieri per vivere oggi. Ogni giorno ha bisogno del suo nutrimento, occorre sempre pensare al momento presente, rimandando al futuro ciò che accadrà.

E questo è anche il senso della preghiera di Gesù, che nell’invitare i discepoli a chiedere al Padre il proprio pane quotidiano (Mt 6,11; Lc 11,3) sembra ricollegarsi alla manna invitando a invocare il nutrimento per l’adesso, per il giorno presente, confidando che Dio ne donerà ancora per i giorni a venire.

Scoprire che il nutrimento fondamentale per la nostra vita non può essere accumulato, ci predispone di nuovo all’atteggiamento ideale da tenere non solo verso Dio, ma in fondo anche verso tutto ciò che ci fa vivere e sorridere: tenersi lontani dall’accaparramento ci spinge alla fiducia, al confidare nel fatto che verra anche domani quello che ci è stato garantito oggi. Ciò che nella vita più conta, e che non è certo il cibo, non può essere chiuso in una dispensa: bisogna sperare e confidare che ci verrà donato giorno dopo giorno.

I nemici in battaglia (Es 17)

Il senso profondo di questi episodi è richiamato dall’ultimo in elenco, la battaglia contro Amalék, che potrebbe sembrare il meno prodigioso e miracoloso. Capita che nel Sinai le quaglie in transito cadano al suolo. Il fatto che passino così vicine e ne cadano così tante da sfamare un popolo proprio quando questo chiede da mangiare, sembra una coincidenza miracolosa. La descrizione della manna fa pensare alla resina della tamerice o a una secrezione di alcuni insetti che vi vivono sopra, ma la sua quantità e regolarità possono stupire.

Meno miracolosa appare la vittoria sui nemici. Che nel deserto vivano tribù di seminomadi, combattive ma poco numerose, infatti, non è mai stata una novità, e un popolo così numeroso come quello ebraico poteva immaginare di batterle senza problemi.

Ma proprio qui si svela che a fare sopravvivere il popolo non è la sua stessa forza, il suo numero o la sua capacità, bensì la presenza di Dio. Lo si ribadisce in un modo che potremmo definire quasi ingenuo e «magico», perché Israele, nella battaglia contro Amalék, ha la meglio solo fino a quando Mosè riesce a impetrare da Dio la salvezza tenendo le braccia sollevate al cielo, e perde quando Mosè, stanco, abbassa le braccia. Finché non arrivano Aronne e Cur a tenergliele sollevate, fino alla vittoria (17,12).

La nostra sensibilità resta infastidita da tali scene di battaglia, spesso condite dallo sterminio dei sopravvissuti (17,13), ma dobbiamo ricordarci che qui è ampia la nostra distanza culturale da chi ha scritto e leggeva queste pagine. Quel mondo era abituato a vedere e subire crudeltà e violenza, e probabilmente percepiva che nello sterminio finale c’era più cliché e narrazione stereotipata che descrizione storica di un massacro realmente avvenuto.

A essere significativo e centrale, nel racconto non è tanto la vittoria del popolo, ma come essa avvenga, cioè grazie all’intervento di Dio. In fondo questa scena chiarisce, in modo molto visivo e apparentemente un po’ ingenuo, quello che nel corso del libro si dice regolarmente, ossia che a far vivere gli ebrei non è l’intelligenza o la forza umana, ma la relazione con un Signore che li ha liberati e, in più, non cessa mai di prendersene cura, offrendo acqua, cibo, sopravvivenza e sicurezza.

E che in cambio chiede solo di fidarsi di lui.

Angelo Fracchia
(Esodo 9 – continua)




Il mare (Es 14,1-15,21)

testo di Angelo Fracchia |


All’inizio del quattordicesimo capitolo del libro dell’Esodo troviamo il popolo ebraico in una situazione scomodissima: durante la tragica notte in cui sono morti i primogeniti egiziani e si è celebrata la prima pasqua, tutti sono partiti per fuggire dalla «terra di schiavitù». Tutti: uomini, donne, bambini, anziani, bestiame… non può certo trattarsi di una carovana veloce. Sappiamo soltanto che, dopo quella che potrebbe sembrare una peregrinazione senza meta (Es 14,2-3), il popolo si trova stretto tra due minacce: davanti il mare, alle spalle il faraone, che si è pentito di averli lasciati partire e ha deciso di inseguirli per ricondurli in schiavitù o sterminarli.

Non sembra esserci via di scampo.

Senza scampo?

Conosciamo bene questa pagina, che si risolverà con l’apertura delle acque del mare da parte di Mosè, con il popolo che attraversa i suoi fondali all’asciutto e con l’esercito egizio che, mentre insegue, viene travolto dalle acque che tornano al loro posto.

È una scena grandiosa, epica, anche crudele, che non a caso conclude quasi sempre le presentazioni «cinematografiche» della vicenda di Mosè.

Il fatto però che, giunti a questo punto della vicenda, il libro dell’Esodo non sia ancora arrivato a metà, suggerisce che il ragionamento biblico è probabilmente più complesso e meno superficiale, e prende in considerazione che la libertà miracolosamente donata non è e non può essere l’ultima parola.

Ma su questo torneremo più avanti. Intanto leggiamo come avviene l’evento poderoso.

Che cosa accadde davvero?

Tanto poderoso e solenne che non può che far sorgere la domanda su che cosa sia davvero, storicamente, accaduto.

Davvero possono essere fuggite dall’Egitto e aver peregrinato nel deserto per quaranta anni seicentomila persone (Es 12,37: e senza contare i bambini)?

Facile per gli archeologi far notare che avrebbero dovuto lasciare qualche traccia in una terra che, con la poca pioggia che riceve, cancella solo molto lentamente i segni di ciò che subisce.

Davvero possono essersi aperte le acque di un mare profondo, per far passare un intero, numeroso (e lento) popolo, mentre l’esercito che lo inseguiva vi moriva? C’è chi giustamente segnala che quello che noi traduciamo come «Mar Rosso» è in ebraico «Mare delle canne», il che farebbe pensare piuttosto a qualche acquitrino poco profondo.

Non sarebbe impossibile immaginare, a quel punto, che il «forte vento da oriente» (Es 14,21) possa essere lo khamsin, una specie di scirocco caldo e secco che in Egitto si alza tra marzo e giugno. In questo caso, però, a essere poco probabile è l’annegamento dell’esercito egiziano.

Come succede per il percorso esatto seguito dagli ebrei nel deserto e nel Sinai, o per la localizzazione precisa del Sinai stesso, dobbiamo accontentarci di ipotesi, alcune delle quali più convincenti, ma che devono essere tutte subordinate alla convinzione che, per chi ha scritto il libro, non era importante cosa era accaduto storicamente e come, ma il senso della vicenda.

A questo punto, possiamo anche continuare a leggere ipotesi e argomentazioni (alcune molto interessanti), ma sapendo che, per interpretare correttamente il libro, dobbiamo fare attenzione a ben altro.

L’ora decisiva

Il libro dell’Esodo racconta questa vicenda come centrale per il popolo d’Israele, ma non la narra al solo scopo di far conoscere a Israele il suo passato, piuttosto per mostrare che la dinamica di quello che avvenne nell’uscita dall’Egitto è vera sempre, nella vita di ogni credente. Verrebbe da pensare, addirittura, che sia una dinamica vera non solo per i credenti nel Dio biblico, ma per chiunque si fidi di qualcuno o qualcosa.

Il popolo ebreo ha assistito, dapprima quasi da spettatore, alle vicende di Mosè. Certo, era dalla sua parte, non era un pubblico neutrale, però sostanzialmente non aveva neppure offerto a Mosè un grande sostegno.

Nella notte di pasqua aveva, invece, dovuto prendere una decisione. Dapprima più «leggera», radunandosi a celebrare la pasqua spargendo il sangue dell’agnello sugli stipiti delle porte, denunciandosi così come quegli schiavi che si stavano preparando ad abbandonare il paese. E poi una più «pesante», con la scelta di partire, di abbandonare la «casa di schiavitù».

Ognuna di queste scelte richiede fiducia, non alla cieca, ma sulla base dell’affidabilità divina, «dimostrata» dalle decisioni precedenti. Ogni scelta, però, non diventa materiale di «prova», ma solo conferma di un’affidabilità. Non si esce mai dalla fiducia, fino alla fine. Anzi, pare che ogni scelta di fidarsi rilanci verso un’altra ancora più grande.

Fino a quella definitiva, decisiva. Perché quella parola che invitava a fidarsi chiede di entrare nel mare. Che si è aperto, è vero, ma quanto può essere affidabile o pericoloso?

Mare, mondo del caos

Aggiungiamoci ancora che, per il mondo semita in genere, il mare è il mondo del caos, del disordine, del male, della morte. Secondo la tradizione ebraica Dio, nella creazione, mette ordine, divide le acque tra di loro, e poi dalla terra (Gen 1,6-10).

Nella struttura ideale ebraica, riprendendo antiche costruzioni mentali sumere, chi divide garantisce la vita. Anche nell’organizzazione del popolo ebraico, Israele è separato dalle genti, e al suo interno una tribù, quella di Levi, è distinta dalle altre (non possiede terra) e una delle sue famiglie (quella dei discendenti di Aronne) è ulteriormente separata allo scopo di servire con il sacerdozio.

Ma il mare è il luogo in cui non si possono tracciare confini, righe, divisioni. Ecco perché è sempre stato ritenuto il luogo più minaccioso tra tutti quelli naturali.

E Dio chiede di entrarvi, di addentrarsi in ciò che più si teme, nella paura anche irrazionale. Non offre garanzie, assicurazioni. C’è solo una parola a chiamare alla libertà al di là del mare.

 Fidarsi

Arriva un momento in cui la chiamata al bene, alla vita, sembra assumere la forma di ciò che la nega: sarà il matrimonio per due innamorati, la consacrazione per altri, ma anche la scelta definitiva e irrevocabile in una professione, e altro ancora, saranno tutte quelle sfide e scelte che ognuno di noi conosce e che a volte sfuggono persino a chi ci è vicino.

Su tutto ciò, Esodo ribadisce in modo netto che ci sarà bisogno di dare fiducia a ciò che (e a chi) ci promette vita. Non abbiamo garanzie o assicurazioni. E questa certezza, che già non sarebbe poco, si accompagna al chiarimento di altre coordinate che parlano di che cosa succede al credente di ogni tempo quando si avventura nella relazione con Dio, ma in fondo spiegano anche che cosa accade a chiunque si fidi.

Fidarsi resta l’avventura più straordinaria e umanizzante delle vicende di tutti.

Il senso della pasqua

Proviamo a mettere un po’ in ordine queste coordinate, così come scaturiscono dal racconto.

  1. a) Attraversare, non aggirare. Il mare che ci sfida, che ci minaccia, che pare negare la promessa, può essere vinto soltanto attraversandolo. Non aggirandolo, evitandolo, venendo miracolosamente attratti da un’altra parte. L’abisso si vince guardandolo negli occhi. Gesù verrà liberato dalla morte morendo.
  2. b) Chiamata e relazione. Si può decidere di attraversare questo mare solo perché chiamati da una voce a passare all’altra sponda. Non è frutto di calcolo (nessuna delle questioni importanti della nostra vita può essere semplicemente calcolata, esigono tutte che ci fidiamo), ma neppure di solo senso del dovere. C’è una relazione personale alla base. Chi si sposa, non lo fa per difendere il matrimonio, ma per amare quella persona lì; il genitore che si sacrifica in un lavoro lontano da casa, non lo fa perché è doveroso mantenere i figli, ma perché quei figli hanno dei nomi e delle storie. Non è la mappa a portare al di là del mare, è il «Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe» a invitare a fidarsi e a passare di là.
  3. c) La salvezza, la libertà, la vita, non consistono nel tornare indietro. Tornare indietro è la tentazione del popolo nel deserto, ed è molto spesso la nostra tentazione: quella di voltare le spalle alla meta, di vivere di nostalgia e di rimpianti. La vita autentica non sta nel passato, ma può essere raggiunta solo andando avanti, procedendo. Il passato può essere conferma di affidabilità di chi chiama o consapevolezza di schiavitù, ma non può tornare.
  4. d) Davanti c’è una promessa. Non una garanzia, un progetto, ma una parola personale che chiama. Il futuro resta incerto e ambiguo, ma non lo vivremo da soli.
  5. e) Una bozza, non un progetto definitivo. Nulla è già inserito in un piano dettagliato. Anche nella storia religiosa spesso lo si è immaginato, sognato. Le apocalissi ritenevano che Dio avesse già deciso tutto il piano del suo intervento. Nel percorso di Esodo, però, tanti passaggi sembrano casuali, imprevisti e imprevedibili. Ma tutti si svolgono alla presenza di Dio, che non ha progettato tutto, eppure garantisce che non abbandonerà nessuno. Già all’inizio della storia, quando Mosè aveva chiesto a Dio di presentarsi, non aveva risposto con una definizione o un progetto, ma con l’assicurazione che non sarebbe sparito (Es 3,14).
  6. f) Un paradosso: scelta di amore e libertà. Questo pone il credente nel Dio della Bibbia in una posizione apparentemente paradossale. La storia non è già scritta, Dio non l’ha già in mano e non conosce il futuro. Se così fosse, l’uomo non sarebbe libero. Una delle caratteristiche costanti di tutta la Bibbia (e tantissimo di Esodo), invece, è che Dio ricerca la relazione con l’uomo, una relazione di affetto e libera. Quindi, una relazione che esige la piena libertà dell’altro. Non può esistere affetto senza libertà: anche chi vorrebbe legare l’amato per non farlo andar via, in realtà vorrebbe che l’amato, pur potendosene andare, non lo voglia fare. Dio è così, rispetta la libertà umana e quindi non sa che cosa risponderà l’uomo.

Un «senso» da scoprire

Dio ha tutto in mano e rende pieno di senso il percorso di ogni uomo; ma, nello stesso tempo, decide di ritrarsi, per lasciare piena libertà a ogni singolo essere umano. In tal modo, Dio perde la possibilità di indirizzare la storia su binari sensati. Questo, di cui spesso ci lamentiamo («Oh, se solo Dio punisse i malvagi! Ma perché permette tutto questo?»), è il segreto della piena libertà e dignità nostra. Dio non ci tratta da bambini piccoli, ma da adulti che possono responsabilmente e autonomamente decidere. Ciò restituisce alle vicende storiche tutta la loro incertezza.

No, non tutto è sensato, nella grande storia dell’umanità e nella nostra personale, ma Dio promette che tutto verrà raccolto, alla fine, in un grande quadro di senso e di vita piena.

Per una volta, lasciamo che a chiudere la riflessione sul passaggio del mare siano le parole di un bravo biblista, Paolo De Benedetti, parole pesate e precisissime, che già hanno ispirato molto di quello che c’è scritto in queste pagine: «Il senso dell’Esodo è che la terra promessa c’è, ed è avanti. Ciò non significa che la storia abbia senso, probabilmente non ce l’ha, ma (è questo il paradosso del credente) le verrà dato».

Angelo Fracchia
(Esodo 08 – continua)




Il Passaggio (Es 12-13)

testo di Angelo Fracchia – illustrazione di Marco Francescato |


Nelle narrazioni, così come nelle nostre vite, ci sono interi periodi che si possono riassumere in un pugno di frasi, e ci sono singoli eventi che richiedono ampi racconti. Si possono descrivere, ad esempio, quarant’anni in pochissime parole e, allo stesso tempo, essere costretti a narrare una sola notte in diversi capitoli. È ciò che succede con la narrazione della notte di Pasqua. Ci sono momenti che non hanno lo stesso peso degli altri, e meritano di essere affrontati con ampiezza.

Il mese scorso abbiamo già mostrato come confluiscano nella tradizione pasquale e nel suo racconto tre tipi di festa (una pastorale, una agricola e una storica), e abbiamo affrontato lo spinoso tema del male inflitto da Dio agli Egizi. Qui ci concentriamo su quello che il racconto dice, cercando di evidenziarne alcuni contenuti.

La prima pasqua

Le modalità che il Signore indica a Mosè per celebrare la festa di Pasqua sono una legge vera e propria, con suggerimenti precisi che indicano il senso di ciò che si dovrà celebrare. Il Signore affida questa legge a Mosè, ma non solo a lui, anche ad Aronne (12,1), e la offre loro «nella terra d’Egitto». Quasi tutte le leggi citate nell’Esodo vengono consegnate da Dio a Mosè sul Sinai. Tra le eccezioni c’è la circoncisione, che però era già stata praticata da Abramo, apparentemente dimenticata e poi recuperata (sembra) tramite il curioso e inquietante racconto di Es 4,24-26.

La circoncisione e la Pasqua sono norme radicali, fondamentali. La prima è un segno di alleanza che era stato affidato a uomini che non sapevano dove avrebbero dormito, chi li avrebbe tutelati, dove sarebbero stati sepolti. È un gesto di fiducia nella presenza di un Dio-persona che non abbandona.

La Pasqua nasce in un ambiente straniero, ostile, da cui si sta per fuggire. Non c’è più l’inquietudine di chi teme pericoli per sé e per i propri cari, ma la consapevolezza di chi sa che i pericoli esistono, li ha già subiti e ne vede di più grandi all’orizzonte. Non è la paura un po’ vaga dei bambini, è la consapevolezza degli adulti che decidono di fidarsi pur sapendo che in tal modo perderanno comunque qualcosa, che la scelta è rischiosa, che in palio c’è la libertà, ma anche il rischio della morte.

In entrambi i casi, la fiducia non dipende dalle proprie capacità o da un’assicurazione scritta, bensì da una parola di promessa, una relazione. Prima di tutte le leggi, nella Bibbia, c’è il rapporto con Dio. Fuori da questo, le leggi non hanno senso.

L’invito fatto dal Signore per celebrare la Pasqua è ad allestire una cena. I nostri pasti non servono mai soltanto a nutrirci.

Diverso è mangiare con tutta la famiglia riunita, nelle sue varie generazioni, magari cucinando piatti tradizionali, antichi, con calma, al modo con cui si facevano una volta, insegnandoli ai nipoti (dando un enorme rilievo alla continuità nella e della famiglia – e non a caso sono pochi i pasti di questo tipo -), oppure andare con gli amici nel locale più alla moda, o nel quale ci servono più in fretta oppure si possono gustare piatti nuovi (anche questa non è una scelta neutra: è decidere di concentrarsi nel presente, a volte rifiutando volutamente il passato).

Una cosa è lasciare che ognuno si prenda una scatola di biscotti e si rifugi nella propria camera, un’altra è cucinare insieme una grigliata in cui non ci sono posti fissi e tutti gli invitati portano qualcosa.

Ogni stile di pasto comunica qualcosa, sottintende qualcosa. Il problema dei sottintesi però è che possono essere fraintesi, e se fraintesi, possono far nascere sentimenti ancora più forti e violenti di quelli che nascerebbero dalle parole.

Non a caso, quando nelle famiglie si litiga, tutto il rituale che sottintende armonia (pensiamo al tempo di Natale) diventa faticoso e logorante, perché diventa falso, comunica ciò che non si vive.

Lo stile della festa

Agli ebrei Dio indica lo stile della festa: ognuno si troverà in una famiglia che sia autosufficiente, che riesca a mangiare uno o più agnelli per intero. Una famiglia, ossia un ambiente umano al cuore del quale ci sono le relazioni, non l’età o la professione o le idee. Ma non il nucleo ristretto fatto di padre, madre e figli: le indicazioni esplicitano che nei nuclei singoli si è troppo pochi, ci si deve unire ad altri. Un gruppo umano legato dalla parentela, ma abbastanza grande da consumare almeno un agnello intero, e non così piccolo da essere facilmente spazzato via.

Il cibo ricorda la provvisorietà della vita dei pastori: non bisogna avanzare niente, si cuocerà l’agnello alla brace (il modo più semplice, per chi è in cammino, senza stoviglie, senza condimenti speciali…), lo si accompagnerà con pane non lievitato (quello usato allora era il lievito madre, messo da parte dalla massa e tenuto per la volta dopo, con la necessità di tempi lunghi di lievitazione e dispense fresche e buie) ed erbe amare (cioè quelle che crescono spontaneamente nei campi, e non quelle coltivate, più dolci). In più, l’allestimento, soprattutto guardando al dettaglio dell’agnello «maschio, perfetto, nato nell’anno», da cuocere arrosto, sembra rimandare ai sacrifici: ciò che accadrà questa notte coinvolge Dio.

Se non bastasse il menù, si precisa che bisogna mangiarlo con i sandali ai piedi e la cintura ai fianchi, come se si fosse pronti a partire, e «in fretta», con una parola che non viene quasi mai usata nella Bibbia, e che, quando viene usata (in Dt 16,3 e Is 52,12), succede in due brani che parlano della Pasqua. Esprime una trepidazione unica, peculiare, che non può confondersi con nessun’altra. È l’ansia dello studente prima dell’esame di maturità, di due sposi la sera prima del matrimonio: paura, mescolata a speranza, insieme alla consapevolezza che da domani nulla sarà più come prima.

Il sangue alle porte

Insieme agli elementi che rimandano a un rito, che sia più pastorale (l’agnello) o agricolo (gli azzimi), ce ne sono altri che rinviano alla storia, ad esempio l’invito a bagnare col sangue dell’agnello gli stipiti delle porte.

In questo invito particolare, possiamo intravedere, mescolati tra loro, almeno quattro messaggi che il testo probabilmente vuole trasmetterci.

1) Il sangue è la sede della vita. La vita è di Dio. Non è un caso che agli ebrei resterà vietato cibarsi di sangue, perché significherebbe oltrepassare i propri confini e mettersi al posto di Dio, quasi si fosse signori della vita (cfr. Lv 17,12-14). L’aspersione con il sangue non è soltanto un gesto apotropaico, ossia un gesto che vuole scaramanticamente tenere lontano il male evocandolo (come quando ci auguriamo «in bocca al lupo»): è Dio stesso che si pone sulle porte. Dio è coinvolto, e non è neutrale.

2) L’aspersione è un gesto antichissimo, «copia» un rito già esistente. Nella tradizione vicino orientale, le porte della casa, il luogo di comunicazione con l’esterno e quindi il più fragile, il più esposto anche al malocchio, deve essere difeso da amuleti. Il sangue può essere uno di questi. Non è un rito ebraico. Nessuno di noi, però, viene dal nulla, siamo sempre figli di tradizioni e abitudini che risalgono a prima di noi e ci condizionano. A volte i «puristi» (e ogni tanto lo siamo stati tutti) vorrebbero eliminare dalle tradizioni ciò che le precede, perché siano senza mescolanze. Ma nulla nella vita umana è totalmente puro. Quando Dio si incarna, non si vergogna di questa «mescolanza», che è la normale condizione umana, e vi entra anche lui, la accoglie, la fa sua. Anche se non a ogni costo e in ogni caso. In quel rito di aspersione, che esisteva già prima degli ebrei, solitamente si difendevano tutti i lati del passaggio (i tre stipiti e la soglia), e quindi anche la soglia (nella nostra tradizione, a volte, la soglia di casa non si deve calpestare: eredità superstiziose antichissime). In Esodo, Dio invita a non prenderla in considerazione. Come a dire che la relazione con il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe resta aperta all’incertezza, al non tutto deciso, quindi alla fiducia.

3) Il sangue sugli stipiti, poi, è anche un segno visibile all’esterno. Chi passa per strada può riconoscere che lì dentro ci sono ebrei, ed ebrei che hanno deciso di ascoltare la voce di Dio. Finora, nello scontro tra Mosè (o Dio) e il faraone, il popolo sembra quasi essersi messo da parte, come uno spettatore. Viene però un momento in cui non si può più rimanere fuori, occorre mettersi in gioco, decidere da che parte stare. È questo il momento.

Una tradizione intrecciata

4) L’ultimo aspetto merita di essere trattato un po’ più a fondo, perché riguarda tutto il Primo Testamento. Nel capitolo 12 di Esodo troviamo accenni alla Pasqua «pastorale», alla Pasqua «agricola» e alla Pasqua «storica» (questa emerge con più chiarezza negli stipiti bagnati di sangue ma fa anche da cornice a tutto il racconto).

I tre aspetti vengono intrecciati, mescolati, quasi confusi, anche a costo di perdere un po’ in coerenza narrativa. Ma è l’approccio normale della Bibbia.

Noi uomini del nostro tempo tendiamo a distinguere, separare e analizzare. Il mondo biblico sa che la vita umana è interconnessa, intricata, persino confusa. E chi scrive, anche se si trova davanti tre tradizioni diverse, distinte e separate, le unisce come nella vita. In tal modo «costringe» ognuno a riconoscere dignità anche alle tradizioni diverse. Il contadino che ha sempre celebrato la Pasqua come festa stagionale, con gli azzimi e la mietitura dell’orzo, riconosce Es 12 come brano fondamentale per comprendere la propria festa. Quel passo, però, è anche centrale e fondamentale per il pastore che celebra la pasqua dell’agnello, delle erbe amare e dei sandali ai piedi. Anche il cittadino riconosce in quella tradizione soprattutto la storia del popolo. Ognuno ritrova le altre tradizioni nel «proprio» testo e impara ad accoglierle e rispettarle come affidabili, autentiche. E capisce che non è semplicemente un mettere insieme solo ciò che è comune, ma un unire e ampliare le tradizioni di ognuno. Ciascuno, quindi, non solo si ritrova a casa propria, ma anche insieme a dei compagni di casa che forse non immaginava di avere.

Un’unica storia

Chi parte dall’Egitto porta con sé un bottino (Es 12,34-36), quasi fosse un esercito vincitore. Ma questo esercito, che si rassegna a prendere la strada più lunga, per non far scoraggiare nessuno di fronte ai pericoli (13,17-18), è composto da carri, vecchi, bambini, donne incinte, bestiame, e si ritrova in una marcia che non può che essere lenta e fragile.

Gli Ebrei portano con sé le ossa di Giuseppe, per non lasciare nulla in Egitto: i ponti con la «casa di schiavitù» saranno tagliati in modo definitivo. E si guarda già avanti, alla celebrazione del «memoriale»: non un semplice ricordo, ma la ragione delle proprie scelte in ogni tempo, anche oggi (Es 13), come due sposi che rivivano insieme la memoria di come si sono conosciuti sessanta anni prima.

Il numero di coloro che abbandonano l’Egitto è fissato in seicentomila uomini adulti (12,37), cifra assolutamente inverosimile, secondo alcuni raggiunta forse nel momento di massimo splendore dei regni di Israele. L’idea è che in quella schiera che fugge sono già raccolti tutti i futuri credenti, i quali infatti saranno chiamati a riconoscersi nel Dio
d’Israele rievocando quel «passaggio» fatto di fiducia in una parola di promessa divina.

Non è un caso che l’etimologia della parola «Pasqua», abbastanza oscura, venga fatta risalire volentieri, dalla Bibbia e dalla tradizione ebraica, a «passaggio». L’angelo della morte «passa» attraverso l’Egitto, «passando oltre» le case degli ebrei, ma loro stessi sono chiamati a «passare fuori» dall’Egitto, decidendo, finalmente, di «passare» dalla parte di Dio. Non c’è nulla di statico, nulla di assicurato, è una vita in corso, fatta di promesse e fiducia.

Dio, in cambio, sarà per loro colonna di nubi che guida durante il giorno, e colonna di fuoco che protegge dalle incognite del buio durante la notte (13,21-22).

La storia non è finita, il popolo non è salvo. Ma ha preso una decisione. E, anche se questa verrà rimpianta e contestata, resta un primo passo deciso nella direzione della fiducia in Dio.

Angelo Fracchia
(Esodo 07 – continua)




L’angelo della morte (Es 11)

testo di Angelo Fracchia – illustrazione di Marco Francescato |


Il racconto della Pasqua è il centro del libro dell’Esodo, di cui copre direttamente quattro capitoli. Essi a volte si fanno un po’ contorti, anche perché non sono solo delle narrazioni, ma il fondamento della vita liturgica e della preghiera di Israele. In particolare, fondano liturgicamente una festa assolutamente centrale, che nel tempo ha raccolto in sé diverse celebrazioni nate precedentemente in tempi e luoghi differenti.

Le tre feste

  1. La Pasqua nomade.

Da una parte c’è una festa che si celebra in un giorno preciso dell’anno, il 14 del mese di Nisan. I mesi ebraici sono basati sui ritmi della luna: il primo giorno del mese coincide con il novilunio, per cui a metà mese splende la luna piena. Per evitare che, col tempo (e come accade con il calendario lunare islamico), i mesi finiscano con lo scivolare fuori dal loro contesto stagionale, il calendario ebraico riadatta la scansione lunare a quella solare tramite un complesso sistema di integrazioni, un po’ come succede con i nostri anni bisestili.

Questa festa «a data» (anche se sembra che in origine potesse essere celebrata solo quando la luna piena effettivamente si vedeva, cioè con cielo sereno) segnava per i pastori l’uscita dagli accampamenti invernali, più sicuri ma ormai sporchi e con poco cibo. Era il momento di partire in transumanza, confidando che nei pascoli del «deserto» fosse piovuto e ci fosse quindi speranza di vita ed erba fresca. Era un passaggio segnato dall’incertezza e dalla paura di brutte sorprese lungo il viaggio e all’arrivo. Spesso l’umanità esorcizza la paura anticipandola, quasi pagando un prezzo alla sfortuna. Per questo, prima di partire, i pastori sacrificavano un agnello nato nell’anno, simbolo della speranza di vita, quasi a garantirsi di aver pagato il conto con la morte. E poi consumavano il pasto che avrebbero mangiato per mesi da nomadi: senza comodità, finendo tutto quello che cucinavano, con erbe «amare» (cioè selvatiche, non coltivate), pronti a ripartire subito.

  1. La Pasqua sedentaria.

I contadini celebravano una festa diversa, al momento della mietitura dell’orzo. L’orzo nel Vicino Oriente matura tra marzo e inizio aprile, dipende molto dalle piogge invernali ma non viene minacciato dal calore dell’estate. È il primo cereale a spezzare il digiuno invernale. Non garantisce cibo per tutto l’anno (per quello diventa prezioso il grano di maggio-giugno), ma costituisce in qualche modo la promessa che il cibo ci sarà. Ecco perché in primavera la consuetudine è di purificare le madie, gettando tutti i cereali e le farine vecchie, per evitare che vi si annidino funghi e germi pericolosi per la salute. Ecco la celebrazione degli «azzimi».

Anche i contadini sono coscienti che questo buttare il cibo vecchio, che pure è passaggio di sanificazione doveroso, è un gesto rischioso, che chiede fiducia nel futuro. La festa col primo raccolto è già reale, ma rimanda a una festa maggiore, che si compirà, più o meno, cinquanta giorni più tardi, alla mietitura del nuovo frumento.

  1. La Pasqua storica.

In questo contesto si inserisce un terzo ricordo festoso, che non richiama i cicli della natura, ma un evento storico nel quale almeno alcuni gruppi di ebrei avevano vissuto un’esperienza di liberazione da un’oppressione mortale, dalla quale erano stati liberati dovendosi fidare di una promessa che li invitava ad attraversare i rischi della morte per approdare alla libertà. È il racconto principale dell’Esodo, che raccoglie intorno a sé, come sintesi, anche le altre esperienze.

Queste, che erano da tempo celebrate in autonomia, a un certo punto inizieranno a essere festeggiate insieme alla terza, con una certa forzatura da parte di tutte, ma anche con un reciproco riconoscimento: cioè che la logica di fondo restava la stessa, quella di una fiducia oltre i timori, in vista di un «di più» di vita. Chi le ha unite ha colto che, nella varietà delle esperienze che testimoniavano, condividevano lo stesso approccio di fiducia in una parola che chiamava a vivere.

L’ombra della morte

Su tutto questo si affaccia la presenza particolarmente inquietante e fastidiosa della morte. Non solo della morte che colpisce i nemici della vita, ma anche della morte degli innocenti.

Ancora una volta, e prima di avere qualche indicazione interpretativa in più, dobbiamo ricordarci che leggiamo testi che vengono da culture lontane dalla nostra.

Tutte le generazioni umane, da che ne abbiamo memoria, lamentano la decadenza dei tempi e la degenerazione dei costumi, rimpiangendo quando si era giovani e il mondo andava molto meglio. È una lamentela che troviamo già su manoscritti di cinquemila anni fa. Chi però guarda la storia umana un po’ più dall’alto, deve ammettere che questo pessimismo è sufficientemente infondato. Il nostro tempo è gonfio di ingiustizie, di violenze, di sopraffazioni, di morti innocenti e di ingiustizie non sanate. Ma parole come la dichiarazione dei diritti dell’uomo, che non accetta distinzioni per ragioni di sesso, di etnia, di età, di formazione, di convinzioni, sono parole che non erano state mai scritte fino a pochi decenni fa. Un tribunale internazionale che processi crimini contro l’umanità (anche nel rispetto delle leggi del proprio stato) è esperienza storicamente recente. Nel Vicino Oriente antico, chi veniva sconfitto sapeva di non avere nessuna legge internazionale a cui appellarsi, neanche solo a livello teorico. A livello aneddotico, una lingua povera di termini come l’ebraico biblico (circa 6.000 vocaboli) ha una ventina di sinonimi che indicano l’«avere paura». La presenza della morte era incombente sempre, ed era anche più facile da accettare nei confronti dei «nemici». Anche il percorso dei credenti ha faticato e ha avuto bisogno di tempo per cogliere che Dio non poteva amare solo una parte di umanità.

Il confronto tra Mosè e il faraone (ma sarebbe meglio dire tra il Dio d’Israele e il presunto dio in terra degli egizi) si presenta anche come uno scontro militare, e già all’inizio Dio aveva promesso agli ebrei che ne avrebbero riportato un bottino (Es 3,21-22), e così sarà (11,1-3).

Ma c’è una ragione in più che giustifica la morte dei primogeniti d’Egitto, agli occhi antichi.

Un mondo culturale diverso

Mentre leggiamo questi testi antichi, che pretendono di avere valore ancora per noi oggi, non dobbiamo mai dimenticarci che siamo costretti a fare ricorso a delle traduzioni. Non solo nel senso che quei testi sono scritti in una lingua che la maggior parte di noi non riesce a leggere, ma anche nel senso che vengono da un mondo culturale che non è il nostro. Pensiamoci: noi italiani siamo in grado di leggere la Divina Commedia senza traduzioni. Ma per lo più non la capiamo. Comprendiamo le parole, intendiamo le frasi, ma per penetrarne il senso abbiamo bisogno di note che ci spieghino quale modello teologico avesse presente Dante, a quali riferimenti letterari e simbolici si rifacesse, a quali sottintesi politici e contemporanei alludesse, solo allora possiamo cogliere meglio che cosa dica. Anche se parliamo la stessa lingua, non condividiamo più la stessa cultura, e questo rende la comprensione faticosa.

Il nostro approccio culturale, anche quando parliamo di spirito e di anima, è tendenzialmente razionale. Abbiamo bisogno di ragioni, di argomenti, magari anche di prove. Intuiamo che non tutto si esaurisce nella razionalità (abbiamo passioni, timori, speranze, e sappiamo che muovono gran parte di noi), ma il nostro approccio di fondo resta razionale. I più profondi tra noi riescono a mantenere, dentro a un’impostazione razionale e logica, lo sguardo di chi mira in alto, e ci affascinano; altri, che perdono il contatto con la concretezza, li pensiamo sognatori… o anche un po’ pazzi.

Il mondo del Vicino Oriente antico ragiona invece per simboli, per quadri ideali, per grandi sistemi. Le spiegazioni razionali lo lasciano freddo, se non si inseriscono in un contesto simbolico coerente.

Non siamo sbagliati noi o loro. Siamo diversi. E, per poterci capire, dobbiamo renderci conto che parliamo lingue culturali diverse. Il vero errore sarebbe pensare che quegli autori antichi scrivano come scriveremmo noi.

Ebbene, in quel contesto simbolico, la questione dei primogeniti assume un valore diverso.

Dio libera tutti?

Uno dei principi che attraversa il Primo Testamento è la consapevolezza che la vita è dono di Dio. L’uomo non ne ha il dominio. Ecco perché, quando all’umanità venne concesso di uccidere per nutrirsi (a partire da Gen 9), Dio stabilì che, simbolicamente, ci si dovesse astenere dal cibarsi di sangue, ritenuto la sede della vita (cfr. Lv 17,10-14; Dt 12,15-16). Un altro elemento simbolico che ricordava che Dio era il Signore della vita era il richiamo che ogni primizia, delle piante o degli animali, apparteneva a Dio. Per questo i primi frutti dell’anno erano dati in offerta a Dio (ad es. Nm 15,20-21; Dt 26,2) e anche i primogeniti degli animali, i quali potevano essere offerti in sacrificio o, a seconda della specie, essere riscattati con altri doni (ad es. Es 13,12-13). Solo l’uomo doveva obbligatoriamente essere riscattato, perché la sua vita è sacra.

Il riscatto comportava l’idea di entrare in una sorta di scambio di favori. Il primogenito avrebbe dovuto essere di Dio, che però lo lasciava vivere in cambio di un’offerta più piccola che in qualche modo manteneva il beneficiato in una condizione di privilegio. È il segreto dello scambio commerciale vicinorientale, nel quale la compravendita è soltanto una parte della relazione personale che si viene a creare. Pagare completamente un commerciante significherebbe concludere lo scambio, decidere di chiudere la relazione e di non avere più nulla a che fare con lui.

È questo il modo con cui un lettore vicinorientale antico avrebbe colto la morte dei primogeniti d’Egitto: certo, è un atto di guerra, crudele come in tutte le guerre. Ma è anche l’atto con cui Dio riconosce all’Egitto la sua libertà di regolamentarsi senza Dio. Il Dio d’Israele se ne va dall’Egitto senza lasciare debiti né crediti, prendendosi semplicemente il suo. E il suo è rappresentato dai primogeniti. Con la loro morte, Dio riconosce di non avere più conti aperti, l’Egitto è libero di fare la sua vita senza di lui.

A noi suona una crudeltà inutile, alle menti antiche risuonava come una forma, magari cruda, con cui Dio riconosceva la libertà degli altri, e non imponeva loro la sua presenza. Persino ai nemici.

Angelo Fracchia
(Esodo 06 – continua)




Mosè e il Faraone (Es 7-10)


Per avere un’idea abbastanza precisa di una qualunque esperienza, di solito è sufficiente viverne il primo quarto. Con la tappa di questa puntata del nostro percorso nell’Esodo giungiamo proprio al primo quarto del libro.

Finora tutto si è incentrato su Mosè e sulla sua complessa e imperfetta risposta alla chiamata: ebreo cresciuto nella famiglia del faraone, assassino, fuggitivo, genero di un sacerdote madianita (Es 2), chiamato dal Dio degli ebrei in un confronto lungo e complicato (Es 3-4), torna in Egitto dove sembra coalizzare intorno a sé il popolo oppresso (4,29-31) e inizia a scontrarsi con il faraone (Es 5-6).

Ormai la scena è preparata: il grande scontro tra il re d’Egitto e la guida del popolo ebraico, o, per meglio dire, tra l’uomo che pretende di essere dio e il profeta che parla a nome del Dio vero, ha inizio. Si potrebbe precisare ulteriormente dicendo: ha inizio il confronto tra colui che, pur essendo umano, si arroga privilegi divini e il vero Dio, JHWH (il teragramma del nome di Dio, ndr).

La lotta

Questo scontro prende la forma di dieci «piaghe», o «colpi», che Mosè e Aronne fanno calare sull’Egitto, per ordine divino. È un tipo di racconto che ci chiederà di schiarirci le idee su qualche concetto di fondo. Intanto, però, ripercorriamolo.

Si presentano davanti al faraone Mosè, rappresentante di Dio, e Aronne, rappresentante di Mosè. Può sembrarci un’inutile complicazione, ma da subito siamo messi davanti allo stile dell’intervento divino, che chiede di essere fatto proprio anche dall’umanità: nessuno agisce da solo. Dio è il vero protagonista dello scontro con il faraone, ma non opera in prima persona, bensì tramite Mosè. Costui potrebbe rischiare di essere considerato un vice di Dio, ma anche lui non può fare nulla in autonomia: ha bisogno di Aronne che non balbetta come lui. Il Dio degli ebrei non è un Dio per solitari, per autosufficienti. Esige e stimola collaborazione.

Di fronte ai due ebrei si staglia il faraone, il dio in terra degli egizi, l’imperatore assoluto della sua terra. A suo riguardo si ripete molte volte che «Dio indurì il suo cuore». È una formula che ci è semplice fraintendere.

Il primo fraintendimento è il seguente: se è stato Dio a indurire il cuore del faraone, quest’ultimo non può essere ritenuto responsabile.

Qui è all’opera l’approccio mentale semita antico, non solo biblico, secondo il quale ciò che accade nel mondo è voluto da forze esterne (ad esempio Dio), non visibili. Questo approccio, che di per sé non sarebbe condiviso dal mondo biblico, si trova nella cultura e nel linguaggio del tempo in cui i testi biblici sono scritti, cristallizzato in formule linguistiche, in espressioni idiomatiche che precedono il mondo ebraico e restano presenti nel modo di parlare. Capita a tutti i popoli in tutte le epoche: anche noi usiamo espressioni come, ad esempio, «avere testa e cuore in conflitto», ma non pensiamo davvero che i sentimenti stiano fuori dalla testa o che nel cuore ci sia un secondo cervello più emotivo. Ci esprimiamo però così, riempiamo fogli e messaggi di cuoricini, perché sono formule entrate nella lingua tanti secoli fa e sono capite da chi le legge.

Il mondo biblico sa benissimo che le persone sono autonome e responsabili, ma continua a dire che se qualcosa è successo, è perché Dio l’ha voluto così.

Ne troviamo un esempio limpido nel capitolo 33 del libro di Ezechiele, in cui si dice che il profeta è come una sentinella per il popolo: se è mandato a dire all’empio di convertirsi e non va, la morte dell’empio è colpa del profeta, ma se va, lo avverte, e quello non si converte, la colpa è della persona avvertita; così, se il profeta è mandato al giusto, e non ci va, la morte del giusto è responsabilità del profeta, mentre in caso contrario il giusto si salverà.

Noi moderni occidentali ci chiediamo perché l’empio non potrebbe convertirsi: un ebreo antico replicherebbe che se si converte è un giusto, ma il profeta non sa chi è giusto e chi empio, e quindi va da entrambi. Ezechiele ha sostanzialmente detto che le persone sono autonome, che Dio stesso non sa come risponderanno, ma lo ha detto in modo diverso da come avremmo fatto noi.

Il secondo fraintendimento riguarda il «cuore indurito»: per noi è sinonimo di crudeltà, mentre per il mondo biblico indica più l’inflessibilità e la coerenza ostinata (il cuore per i semiti non è il centro delle emozioni, ma delle decisioni).

Queste pagine, insomma, sembrano dire che l’agire senza piegarsi, senza adattarsi, magari fidandosi di una rivelazione che è venuta a una persona sola, senza aiuti né confronti, porta alla morte. La persona fedele al Dio della Bibbia non è rigorosa e inflessibile, ma sa cogliere le situazioni diverse, le occasioni, sa mettersi sempre in discussione.

Le piaghe

Il racconto, a questo punto, si fa quasi favolistico, con la descrizione di una serie di sfide che sembrano ripetersi uguali a se stesse, ma in realtà mostrano un loro sviluppo.

Inizialmente i maghi egizi riescono a ripetere i gesti di Mosè e Aronne: trasformano anche loro i bastoni in serpenti (Es 7,9-13, benché propriamente questa non sia una piaga), anche se i loro vengono mangiati dal serpente-bastone di Aronne; poi trasformano l’acqua in sangue (7,14-25) e fanno uscire rane dal Nilo (8,1-11). Dalla piaga delle zanzare (8,12-15) in poi, però, non riescono più a rinnovare i prodigi, e ammettono che «C’è il dito di Dio, qui!» (8,15).

Delle piaghe delle mosche o tafani (8,16-28) e della pestilenza sul bestiame (9,1-7) si dice che colpiscono solo gli egizi. Per la prima volta il faraone si dimostra disposto a minime concessioni che però poi si rimangia sempre (eccola l’inflessibilità, che non cede se non momentaneamente e poi torna sulle proprie posizioni).

Dalla piaga delle ulcere (9,8-12) sono colpiti anche i maghi egizi. Dopo quella della grandine (9,13-35), il faraone fa penitenza e di nuovo concede l’uscita del popolo ebraico (9,27-28), ancora una volta senza mantenere la parola. Dopo la piaga delle cavallette (10,1-20) anche i dignitari e il popolo intorno al faraone fanno pressione perché lasci uscire gli schiavi salvando l’Egitto (10,7).

In seguito alla penultima piaga, i tre giorni di tenebra (10,21-29), la proposta è che gli ebrei vadano nel deserto, ma lasciando il bestiame in Egitto. Come in precedenza il faraone si era detto disposto a concedere che partissero solo gli uomini adulti (10,8-11) o, ancor prima, che offrissero sacrifici a Dio lì dove erano (8,21), anche adesso, il suo tentativo è di mantenere il dominio sugli ebrei, trattenendo degli «ostaggi». Non si lascia cioè mettere in discussione, non rinuncia alla centralità del proprio potere ed economia, non riconosce davanti a sé delle persone. Mantiene il cuore indurito.

A questo punto, le trattative sono finite (10,29, anche se in realtà Mosè vedrà ancora il volto del faraone), ma ormai non c’è più spazio per la discussione di proposte.

A proposito di storia e geografia

Abbiamo già affrontato a marzo (vedi Mc 3/2021, pag. 34) la questione della storicità degli avvenimenti narrati nel libro dell’Esodo. Possiamo tornarci ora con qualche elemento in più. Ma prima di questo, è il caso di affrontare la questione riguardante la storia del testo.

Da secoli si è notato che il racconto dell’intero Pentateuco, e in particolare dell’Esodo, è pieno di incoerenze, contraddizioni piccole e grandi, cambi repentini di clima e di stile, modi diversi di citare il nome di Dio. Si è pensato di spiegare l’aspetto composito del testo che abbiamo oggi attraverso l’ipotesi di una fusione in un unico libro di alcuni testi precedenti, diversi tra loro, scritti in epoche e anche con teologie differenti. Ancora mezzo secolo fa si dava per assodato che all’origine dei primi cinque libri della Bibbia ci fossero state quattro fasi, o fonti. Tale teoria è oggi contestata da tanti e difesa da altri.

In questo commento si è preferito trascurarla, sia perché nessuna risposta finora si è dimostrata tanto convincente da essere quella definitiva, sia perché, alla fine dei conti, i credenti si trovano a confrontarsi con il testo definitivo, che è da leggere e cercare di capire fino in fondo anche nelle sue incoerenze.

Sono discussioni importanti e anche molto intriganti ben presenti a chi scrive, ma non necessarie per il nostro percorso. Le lasciamo sullo sfondo per non distrarre l’occhio di chi legge da ciò che è davvero importante.

Lo stesso si potrebbe dire dei tentativi di ricostruire delle coordinate storiche più precise. Sotto quale faraone si sarebbe verificata la fuga degli ebrei? Quanti erano davvero? Che strada percorsero per allontanarsi dall’Egitto e poi nel deserto? Come e dove hanno attraversato il «Mar Rosso»? Dove era il monte su cui Mosè ricevette le tavole della legge?

Sono esse tutte domande legittime, stimolanti, che hanno suscitato e continuano a suscitare un ampio e accalorato dibattito. Pur nel loro fascino, sono però domande che non sfiorano il cuore del discorso, che per il libro dell’Esodo non è l’epopea storica del popolo, ma il suo tragitto di fede.

In che senso, una favola?

Una volta che abbiamo rinunciato a delineare queste precisazioni, possiamo allora tornare al testo ammettendo che ha il procedimento narrativo tipico della favola: la ripetizione dei gesti, delle parole, l’insistenza sulla dinamica di fondo (Mosè chiede, il faraone rifiuta, arriva il castigo…).

Le favole, come i miti, nel nostro mondo e nella nostra cultura sono considerate cose infantili, da bambini piccoli. Ma se proviamo ad allargare un po’ lo sguardo, innanzitutto notiamo che altre culture non si comportano allo stesso modo, e poi, soprattutto, capiamo che le favole non sono raccontini che servono solo ad addormentare i bambini, ma narrazioni piene di sapienza che trasmettono idee del mondo, avvertimenti, consigli… insomma, contenuti importanti e «per adulti».

Il mondo della Bibbia si muove a suo agio più con questi strumenti che con le definizioni dogmatiche le quali, infatti, sono rare e comunque sfuggenti: ben difficilmente riterremmo la formula, spesso ripetuta, «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» (Es 3,6.16; Nm 32,11; Dt 9,5; Mt 22,32…), una vera e propria formula di fede. Quasi ovunque, nei libri che compongono la nostra Bibbia, Dio preferisce mostrare chi è attraverso una storia, a volte anche inventata, come quelle dei libretti di Giona, di Tobia e di Ester che raccontano eventi sicuramente non storici, ma non per questo privi di contenuto spirituale importante, e quindi di verità. Siamo sinceri, anche noi, nel nostro mondo razionale e rigoroso, condividiamo sui social frasi celebri, episodi noti e racconti edificanti che hanno poca probabilità di essere veri, ma che fanno del gran bene affermando verità autentiche.

Questo stile di racconto, che noi utilizziamo ancora, anche se con un po’ di vergogna, nell’antichità non era ritenuto vergognoso. Il libro dell’Esodo, per i lettori antichi, sarebbe falso e ingannevole se la fiducia in Dio di cui parla fosse infondata, non se si dimostrasse che dall’Egitto non possono essere uscite seicentomila persone (Es 12,37).

Il messaggio che il racconto delle piaghe d’Egitto lascia è che Dio è davvero presente e punta a rendere liberi i suoi fedeli, ma non arriva miracolosamente dal cielo, e non fa a meno della collaborazione umana. Chiede la nostra risposta piena e fiduciosa, ma non ci lascia soli. E quanto più ci mettiamo a disposizione, più grandi sono le cose che può operare per nostro tramite.

Resta aperta la domanda sul senso del male subito dal popolo egiziano che non ha certo avuto voce in capitolo nelle scelte del faraone. Ma su questo torneremo il prossimo mese.

Angelo Fracchia
(Esodo 05-continua)




Mosè in Egitto (Es 4,18-7,7)

Mosè è fuggito dall’Egitto e si è sposato con la figlia di un sacerdote madianita. Mentre ne porta il gregge al pascolo, incontra Dio, che lo invia a liberare il popolo ebraico dall’oppressione egizia.

È già iniziato per Mosè un percorso che in queste pagine dell’Esodo viene proposto come modello di un cammino di fede per tutti.

Mosè si mette in moto per curiosità. La meraviglia, però, comporta anche la disponibilità a lasciarsi scomodare, e Mosè, sia pure con tutti i suoi difetti e tentennamenti (che non contraddicono, ma semmai danno profondità alla fede), decide, alla fine, di partire.

Dopo averne chiesto al suocero il permesso, presi moglie e figli, ritorna verso il Nilo (Es 4,18-20).

Può sembrare una (piccola) carovana di nomadi, ma Mosè non vaga senza meta, percorre a ritroso la stessa strada che ha percorso molti anni prima. Allora era da solo e a piedi, oggi è con la sua famiglia e viaggia a dorso d’asino. Soprattutto, allora era un fuggiasco spaventato verso luoghi sconosciuti, ora viaggia con un obiettivo: parlare con il faraone e convincerlo a lasciare espatriare un popolo di schiavi. Un compito affidatogli da Dio, che gli ha anche fornito argomenti e strumenti per portarlo a termine (4,21-23): riuscirà nella missione?

Un episodio enigmatico

Proprio all’inizio del cammino di Mosè verso l’Egitto per compiere la missione ricevuta, si colloca un episodio enigmatico che tanto ha fatto scrivere ai commentatori: «Mentre si trovava in viaggio, nel luogo dove pernottava, il Signore gli venne contro e cercò di farlo morire. Allora Zippora prese una selce tagliente, recise il prepuzio del figlio e con quello gli toccò i piedi e disse: “Tu sei per me uno sposo di sangue”. Allora si ritirò da lui. Essa aveva detto sposo di sangue a causa della circoncisione».

Sembra che Dio cerchi di far morire il suo inviato, che viene salvato dalla moglie tramite la circoncisione del figlio (Es 4,24-26). Qui rinunciamo a prendere posizione sulle decine di spiegazioni possibili di questo brano, nessuna delle quali abbastanza convincente da imporsi sulle altre. Ci limitiamo a quattro considerazioni.

a) Un uomo in «debito»

Mosè sarà presentato più avanti come la guida, il punto di riferimento, il riassunto della legge. Si corre il rischio di esaltarlo troppo. Per questo, il libro dell’Esodo, che pure lo tiene sempre al centro della scena, sottolinea come lui non agisca da solo, non sia perfetto, come abbiamo già fatto notare, e debba riconoscere il proprio debito nei confronti di altri: la propria sorella e la figlia del faraone alla nascita, un compatriota che (per liberarsene) lo mette in guardia sul fatto che il suo assassinio è conosciuto, un sacerdote madianita, e ora la moglie.

b) Tra dubbio e fiducia

Non tutto riusciamo a capire, nella nostra vita. Neppure in quelle circostanze che più sembrano guidate dalla volontà di Dio. Occorre accettare che ci siano aspetti e particolari della nostra esperienza che restano apparentemente staccati dal quadro generale. Anche le vicende che più sembrano muoversi in un orizzonte chiaro, definito, sostenuto dalla grazia divina, restano segnate dall’incertezza, dal dubbio, dal sospetto. Continuano a chiamarci alla fiducia, a metterci in gioco, sapendo che non tutto dipende da noi. E che molto non riusciamo neppure a capirlo.

c) Fidarsi della «promessa»

Ci potrebbe anche essere un invito a non fidarci troppo di coincidenze e calcoli. Se Mosè fosse superstizioso, potrebbe dire che quel suo viaggio di ritorno inizia sotto pessimi auspici, e che farebbe bene a tornare indietro. Ma Mosè non si fida di brutti segni, si fida di una parola che gli ha promesso grandi cose, anche se la promessa non garantisce dagli inciampi. L’essere umano compiuto deve restare lontano da scaramanzie e presagi, che sono ingannevoli. Dio non passa da quelli, ma da promesse e appelli alla ragionevolezza umana. Certo, non ci invita ad affidarci semplicemente al calcolo e alla ragione (ad esempio, c’è poco di ragionevole nelle relazioni e negli affetti, che pure ci danno da vivere), ma di sicuro Dio non parla per enigmi: si rivolge al nostro «io» più autentico e completo, ragionevolmente padrone di sé.

d) Legame con Abramo

La circoncisione è segno dell’alleanza tra Dio e Abramo. Dio aveva chiesto ad Abramo che circoncidesse i figli. Mosè tornava al suo popolo Israele senza averlo fatto. Non è che Dio punisca Mosè, ma simbolicamente, l’episodio sottolinea il legame tra la vita e missione di Mosè e la promessa fatta ad Abramo. Nell’ottica dei redattori finali del Pentateuco è, inoltre, anche un modo per legare il ciclo di Mosè con quello dei patriarchi che, in origine, erano due cicli narrativi separati.

Al punto di partenza

Nel suo cammino verso l’Egitto, sul monte di Dio, Mosè ritrova Aronne, di cui noi lettori abbiamo sentito parlare per la prima volta in Es 4,14, nell’episodio del roveto ardente, e che forse abbiamo immaginato più giovane di Mosè. Invece Es 6,20 ci informerà che è Aronne il primogenito, e sappiamo da Es 2,4 che anche Maria, la sorella, è più vecchia di Mosè. Questi, insomma, è il più giovane dei tre.

Quello che sarà il grande condottiero del popolo, colui che parlerà faccia a faccia con Dio, per il momento ci è presentato come assassino, pavido, incerto, balbuziente, nonché il più giovane della sua famiglia.

Come in molti altri casi nella Bibbia, Dio non ha paura di fare grandi cose con persone che noi uomini magari non sceglieremmo (tipici i casi di Giuseppe e poi di Davide). E questo non per insinuare che l’umanità non conta niente (Dio, infatti, non fa nulla senza Mosè), ma, al contrario, per indicare che anche chi si reputa scarso, insieme a Lui, può raggiungere grandissimi risultati.

Aronne, chiamato dal Signore, va incontro a Mosè, il quale gli spiega tutto ciò che gli è successo. I due vanno dagli anziani del popolo di Israele, coloro che detengono la sapienza e sono chiamati a guidare la propria gente, e questi li ascoltano e credono in Dio (Es 4,27-31). Ci troviamo di fronte a una situazione che sarà rarissima nel resto dell’Esodo. Come succederà ben poche volte in futuro, Mosè, Dio e il popolo sono in accordo, in piena sintonia. Tutto sembra risolto, deciso, chiaro.

Anche se, in verità, nulla è ancora fatto e compiuto, anche se quell’armonia è destinata a rovinarsi presto.

Primi inciampi

Mosè e Aronne, a questo punto, si presentano al faraone. Questi, come è stato preannunciato da Dio a Mosè, oppone il suo rifiuto alle richieste. Non solo, però, non acconsente al progetto divino di lasciare uscire il popolo, ma dichiara di non conoscere per nulla quel dio che ne avrebbe ordinato l’uscita, e stabilisce di appesantire le condizioni di lavoro degli ebrei, che da ora dovranno consegnare lo stesso numero di mattoni senza averne a disposizione le materie prime (Es 5,1-11).

Il faraone, comprensibilmente, fa il proprio interesse, puntando a delegittimare il sedicente capopopolo davanti agli ebrei. E ci riesce, tanto che questi iniziano a rimproverare Mosè per la nuova peggiorata condizione (Es 5,20-21).

Mosè, d’altronde, non fa quello che il popolo si aspettava: ha convocato gli anziani, le persone più sagge ed esperte, i rappresentanti di tutto il popolo, ma poi non li ha portati davanti al faraone, dove è andato, invece, accompagnato dal solo Aronne. In più, non ha riferito al faraone ciò che Dio gli aveva suggerito di dire, né si è premurato di operare quei prodigi che gli erano stati consigliati (Es 4,21-23). Semplice disattenzione o mancanza?

Di fronte alla contestazione degli anziani, poi, Mosè sembra prendersela con Dio, riversando su di lui la responsabilità dell’accaduto e accusandolo di non aver ancora fatto niente (Es 5,22-23). Come succede in tanti altri passi, Mosè non sembra proprio essere l’eroe senza macchia e senza paura che ci si poteva aspettare.

Eppure, Dio si appoggia a lui, si fa rappresentare proprio da lui.

Il discorso di Dio

È a questo punto (Es 6,1) che Dio reagisce e conforta Mosè rivolgendogli un altro discorso. Immaginiamoci al suo posto: se fossimo Dio e dovessimo rassicurare il nostro inviato, probabilmente sottolineeremmo la nostra forza davanti alla debolezza del faraone, destinata a essere sconfitta. Dio però non parla così. Lascia da parte la forza, e insiste su altre due ragioni per cui Mosè può fidarsi: la prima è la promessa di una discendenza e di una terra fatta ad Abramo, Isacco e Giacobbe, la seconda è l’oppressione degli ebrei.

Entrambe le ragioni si muovono sul filo delle relazioni personali. Per Dio l’unico motivo di saldezza è il credere alla sua promessa, che non è radicata nella sua forza, ma nella sua fedeltà.

È quasi un invito a Mosè e al popolo a cambiare modo di pensare: non è perché Dio è più forte del faraone che gli israeliti possono essere sereni. Questa è un’osservazione vera (di fatto, Dio è più forte del faraone), ma non è quella più significativa. Se il centro dell’azione di Dio fosse la sua forza, gli ebrei passerebbero da una schiavitù a un’altra (e, in un certo senso, è proprio quello che continueranno sempre a desiderare). Essi possono invece fidarsi di Dio, perché lui ha conosciuto i loro antenati, ha percorso un tratto di strada con loro, li ha accompagnati e ha rivolto loro una promessa. E ora vede i loro discendenti oppressi.

A guidare i pensieri di Dio non è la potenza o l’orgoglio, ma l’amore. Dio si muove perché gli ebrei stanno male, e perché ha garantito ai loro antenati che ciò non sarebbe successo.

Così inizia a cambiare il modo di ragionare di Mosè e dei suoi compatrioti, con un appello che continua a parlare anche a noi. Dio non cerca un popolo che lo lodi o gli offra sacrifici. Dio vuole la relazione, e vuole che questo popolo viva bene. Dio non ha bisogno delle nostre preghiere, ma di noi, del legame con noi. Quello che vuole stringere con l’umanità non è un contratto, ma una relazione di amicizia profonda. Potremmo addirittura dire che persino Dio non sia libero, perché è legato dall’affetto: non può tirarsene fuori!

Mosè… e noi

Chissà se è questo che Mosè intuisce quando si definisce, per ben due volte, «uomo dalle labbra incirconcise» (Es 6,12.30). La circoncisione era un segno del patto con Dio, del fatto di essere riservati per lui. Quando Mosè dice di avere le labbra non circoncise, può forse semplicemente ricordare che non è un buon oratore, e che anzi balbetta (cfr. Es 4,10). Ma questa interpretazione sembra superficiale e incoerente confrontata con tanta insistenza, e proprio in questo punto.

Si direbbe quasi che Mosè ammetta di non aver ancora capito fino in fondo qual è la relazione di Dio con il suo popolo, di non saperla spiegare. È vero che Dio gli suggerisce, di nuovo, di mandare Aronne a parlare al posto suo (Es 7,1), ma è come se Mosè, pur essendo ormai coinvolto nel progetto, riconoscesse di non averlo ancora compreso fino in fondo.

Perché i progetti di vita, le interpretazioni esistenziali, la relazione con Dio, non funzionano come una professione, per la quale devo essere stato promosso all’esame di laurea e a quello abilitante per poterla esercitare. La vita (ma in realtà è così persino per le professioni), la si capisce, se va bene, mentre la si vive, non prima. E più spesso dopo.

Questo però non toglie che il percorso possa essere fruttuoso, utile, e possa cambiare la vita anche agli altri. Mosè non ha capito ancora tutto, ma ha capito la cosa fondamentale: che la via d’uscita dalla situazione pesante in cui sono lui e il popolo si trova ascoltando Dio, fidandosi di lui. Allo stesso tempo, sente di non avere ancora imparato, lui per primo, a fidarsi fino in fondo, ma sa che, persino così, Dio gli concede di essere una guida per gli altri: incerta, limitata, ma autentica.

Perché Dio non fa nulla senza l’uomo, ma accompagna e sostiene l’uomo che è disposto a collaborare con lui.

Angelo Fracchia
(Esodo 04 – continua)




La chiamata (Es 3,1-4,17)

Testo di  Angelo Fracchia |


Con il terzo capitolo dell’Esodo entriamo nel cuore della vicenda di Mosè. Inizia un’avventura unica, che sarà fondamentale per la relazione tra il Dio d’Israele e il suo popolo, ma che si lascia anche interpretare come modello ideale di un percorso di fede. Nella nostra lettura, cercheremo di evidenziare entrambe le dimensioni di questo itinerario.

Ci troviamo di fronte a Mosè, salvato miracolosamente da bambino, cresciuto alla corte del faraone, fuggito per aver difeso un ebreo (uccidendo un egiziano). Diventato genero di un sacerdote di Madian, un personaggio rilevante ma che appartiene a un popolo disprezzato e, in più, non certo ricco, dato che si trova a dover mandare le proprie figlie a pascolare le sue greggi. Mosè diventa parte di quella famiglia e si prende cura di pascolarne il gregge.

L’incontro all’Oreb

Il territorio che dalla Giudea arriva all’Egitto è un deserto, ma non dobbiamo pensare a una distesa di dune di sabbia. È punteggiato da oasi, e se lo si attraversa in quei rarissimi momenti in cui piove, lo si trova addirittura trasformato in un prato fiorito e pieno d’erba nutriente e gustosa per le greggi. Al di là del deserto, ci dice il libro dell’Esodo (3,1), Mosè raggiunge il monte di Dio. Molto si è discusso e molto si discuterà sull’identificazione di questo monte, come su altre domande riguardanti la geografia dell’Esodo: in questo nostro percorso eviteremo di occuparci di tali questioni, che sono assolutamente interessanti, ma non hanno né una risposta sicura né ricadute sul messaggio religioso del libro. A noi interessa di più l’esperienza di Mosè e capire come percepisce quanto gli succede.

Mosè vede bruciare un rovo senza che si consumi e decide di avvicinarsi per capire meglio.

Per Mosè, come per noi, e per qualunque percorso di crescita umana, il punto di partenza necessario è la voglia di capire, di vedere, di conoscere. La disponibilità a mettersi in gioco, a non starsene in disparte da spettatori. Se Dio non avesse posto sulla strada di Mosè quel segno curioso, Mosè non si sarebbe fermato; ma se Mosè non avesse voluto andare a vedere che cosa accadeva, la sua vita sarebbe stata più semplice, sicuramente più vuota, e noi non avremmo mai sentito parlare di lui. E chi avrebbe condotto il popolo ebraico fuori dall’Egitto?

Un Dio coinvolto

Dopo essersi avvicinato al roveto ardente, Mosè sente una voce che lo invita a togliersi i calzari, perché si trova in un luogo santo.

Chi tra i lettori ha già sentito la voce di Dio? Magari dal crocifisso, come capitava nei film di don Camillo. Forse nessuno. O forse qualcuno racconterebbe di aver percepito la voce di Dio in momenti delicati della vita: nel consiglio di un amico, in un’intuizione improvvisa, nella serenità giunta come dono, nel coraggio di affrontare una certa scelta. Noi preferiamo essere più razionali nel presentare queste esperienze, mentre l’antichità si fa più facilmente prendere dal gusto del racconto e parla di una voce da un roveto. Forse davvero c’è stato qualche evento sovrannaturale, ma può anche darsi che si tratti solo di un modo di esprimersi metaforico, come anche noi oggi possiamo parlare di una guerra tra la testa e il cuore, senza davvero pensare che i sentimenti stiano nel petto e non nel cervello. Non possiamo sapere di preciso che cosa abbia sperimentato Mosè, ma in ogni caso si è sentito destinatario di un messaggio, partecipe a una conversazione.

E il senso di questa conversazione è chiaro: «Il mio popolo è davvero afflitto, l’ho visto, e ho deciso di scendere ad aiutarlo» (Es 3,7-8).

Non è una presentazione banale, ed è densa di sottintesi. Il libro dell’Esodo aveva già ammesso l’oppressione del popolo, che aveva alzato grida di lamento (Es 2,23). Queste grida però non sembravano essere rivolte in particolare a Dio. È invece Dio a essersi mosso per primo, perché non si è dimenticato di Abramo, Isacco e Giacobbe (Es 2,24; 3,6).

Il popolo afflitto resta il popolo suo. Lungo i secoli non era intervenuto a ricordare la propria esistenza, ma ora non può più tenersi lontano. Dio non si muove per farsi servire e adorare, ma quando l’uomo ha bisogno, si identifica con l’umanità sofferente, si mette al suo fianco. Mosè diventerà chi sappiamo perché ha accettato di mettersi in gioco, ma anche Dio si è messo in gioco: non se ne sta sulle nubi a guardare distaccato la storia, ma si sente coinvolto. E si sente coinvolto dalla sofferenza. Non per compiacersene, ma per guarirla, per toglierla: «Fammi scendere a liberarlo» (3,8).

Il nome di Dio

Comincia qui un lungo botta e risposta tra Dio e Mosè. Nella Bibbia non mancano personaggi che si offrono generosamente per collaborare con l’Altissimo (pensiamo ad esempio a Isaia: «Eccomi, manda me!»
(Is 6,8). Non tutti, però, si offrono senza indugi. Mosè, il più grande, colui che parlava faccia a faccia con Dio (Dt 34,10), l’intermediario per la liberazione dall’Egitto e per il dono della legge, non solo era un assassino fuggiasco e pavido, ma osa anche dire di no a Dio.

Una delle prime obiezioni che muove è che non sa chi ha davanti: «Ecco, io vado dai figli d’Israele e dirò loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? Che cosa dirò loro?» (Es 3,13).

Dio in realtà si era già presentato, rimandando ad Abramo, Isacco e Giacobbe (i «vostri padri», appunto: Mosè si era distratto). Ma questo rimando poteva suonare generico: nelle vite dei padri erano successe tante cose, alcune delle quali incoerenti tra di loro. Non sarebbe stato meglio una presentazione più dettagliata, precisa? Quando ci offrono un lavoro, pretendiamo di sapere con che contratto saremo assunti, qual è la retribuzione, quante ferie ci spettano, con quali garanzie. Ma quello che Dio offre non è un lavoro.

Ci sentiremmo molto in imbarazzo (speriamo) se un simile discorso si facesse all’inizio di un’amicizia o di un amore.

Anche Dio sembra perplesso di fronte alla domanda, come se non se l’aspettasse. Poi esce in un «Sono ciò che sono» (3,14), che potrebbe essere tradotto anche come «Sarò ciò che sarò» o «Continuerò ad essere ciò che sono». E prosegue, quasi convinto da una trovata che sembrerebbe estemporanea: «Dirai così agli israeliti: Sarò/sono/continuo a essere mi ha mandato a voi». Potremmo addirittura renderlo con «Ci sarò». Mosè ha chiesto un nome, una definizione, un’identità precisa e un perimetro della missione chiaro; ma di fronte a questa richiesta, che sembra quasi prospettare un lavoro, Dio risponde con la più alta e coraggiosa promessa: «Io ci sarò, io sarò con voi». Se ci pensiamo, noi sappiamo essere molto generosi nelle nostre promesse, le quali spesso si fanno grandi come le nostre speranze o desideri, anche se non siamo padroni del nostro futuro. Possiamo però garantire che non scapperemo, che non ci tireremo fuori. E che cosa accadrà, si vedrà strada facendo.

Manda un altro

Le obiezioni di Mosè non si fermano qui. «Non conto niente» (3,11), «non mi crederanno» (4,1), «non so parlare» (4,10), fino a una frase che le nostre traduzioni, giustamente, ci restituiscono alla lettera, ma di cui rischiamo di perdere il senso profondo e l’improvvisa reazione irritata di Dio. Quando, parlando in italiano, diciamo che Andrea esce da tre mesi con la stampella o esce da tre mesi con Lucia, non intendiamo dire la stessa cosa: nel secondo caso parliamo di una relazione profonda, di affetto reciproco, quanto meno iniziale. Se sentiamo dire che una certa offerta è «per molti», capiamo che non è per tutti, anche se questo di per sé non è stato detto.

Quando Mosè dice: «Signore, manda chi vuoi mandare» (4,13), a noi può sembrare una faticosa assunzione del proprio incarico (che Dio voglia mandare Mosè è chiaro, sta cercando di convincerlo da un quarto d’ora…). Ma nel modo di parlare ebraico quella frase sottintende «tranne me». Come se Mosè dicesse a Dio: «Mi hai convinto, il progetto è veramente affascinante. Ma non contare su di me. Trovati un altro, e sarà un successo». Ecco perché Dio perde un po’ la pazienza.

Anche se non può costringere Mosè. Come con un amico che può anche spazientirsi, ma vuole la collaborazione, non può forzarlo e non farà nulla senza di lui.

Qualche insegnamento

Possiamo provare a tirare un po’ le fila di questa tappa, cogliendo anche che cosa possa voler dire a noi.

L’inizio del libro dell’Esodo ci presenta un Dio che si sente coinvolto con l’umanità. Soprattutto con quella che soffre. Non è il motore immobile dei filosofi, che se ne sta nei cieli a guardare un po’ severo ciò che succede sulla terra. È piuttosto un padre che soffre per i suoi figli, finché non ce la fa più a resistere, e scende sull’Oreb.

E non è un Dio che voglia agire senza gli uomini. Con Mosè insiste, discute, prova a convincere, si arrabbia… ma non si muoverà senza di lui. Il Dio della Bibbia prende totalmente sul serio l’uomo, non lo tratta da burattino. Se Mosè dicesse di no, sarebbe no. Ecco perché Dio si prende il fastidio di tentare di convincerlo, non può passare sopra alla sua libera scelta. La libertà dell’uomo per Dio è tanto sacra da non poter essere forzata neppure da lui. Ecco perché è tanto grande e impegnativa la responsabilità umana.

E, insieme, questa non è un’opportunità riservata solo agli eletti, ai migliori, ai perfetti. Mosè ci può sembrare non migliore né peggiore della maggior parte degli esseri umani. Anche nel suo tentativo di non prendersi responsabilità. Dio non chiama a grandi cose l’umanità perfetta: al limite, la rende indimenticabile, se solo inizia a fidarsi di lui.

Cominciamo poi a cogliere le modalità della relazione con questo Dio: non c’è una proposta da ponderare con la calcolatrice. La chiamata divina non è una proposta assicurativa. È piuttosto un progetto di vita: come ogni progetto di vita (che sia un legame coniugale, una consacrazione, una professione, una scelta di stile o di residenza…) ci sono degli elementi che lo rendono conoscibile, credibile, attraente, ma alla fine se non si decide di fidarsene, di lasciargli spazio, di stare al gioco… non accade. Se ci impegnassimo nella vita solo in ciò che si dimostra affidabile e garantito, non faremmo nulla. Come nelle amicizie, anche nel rapporto con Dio l’unico modo di avere garanzie sulla credibilità della sua chiamata, è ascoltarla. Ciò di cui ci fidiamo, potrebbe tradirci, ma ciò di cui non ci fidiamo, non mostrerà mai le sue potenzialità, siamo noi a tradirne la promessa.

E Dio è promessa, è potenzialità, è slancio sul futuro, è relazionalità. Non è una definizione statica, non è il difensore dell’ordine, bensì della vita, che è disordinata, anche incoerente ma solare e piena di frutti. Per questo non può sopportare di rinchiudersi in una definizione, che possiamo controllare e che ci dice tutto. Il Dio di Mosè è un Dio capace di sorprendere, di invitare a scommettere, a mettersi in gioco. Capace di pentirsi ma anche di rilanciare, di ripartire. Non è il dio dei filosofi (o anche, a volte, del catechismo), racchiudibile in una griglia molto ben organizzata, ma è il Dio dei profeti, degli artisti, di chi ama. E se è vero che viene incontro al bisogno non espresso del suo popolo promettendo intanto la liberazione ma sapendo già che non basterà (allude al servizio che il popolo gli offrirà sul monte, Es 3,12, ma poi non se ne parlerà più finché non sarà ora), ciò che promette non è la programmazione dettagliata di tutto quello che dovrà succedere, ma «solo» la garanzia che la relazione non verrà mai meno: «Io ci sarò».

Angelo Fracchia
(Esodo 03 – continua)




Le origini di Mosè (Es 1,15-2,25)

Un viaggio nel libro dell’Esodo con Angelo Fracchia |


Mosè ha ispirato romanzi, opere artistiche e liriche, film e persino apprezzabili e raffinati cartoni animati, perché è una di quelle grandissime figure che ha cambiato la storia. Per il mondo ebraico antico il suo nome poteva addirittura diventare sinonimo della stessa Bibbia e della legge (cfr. At 15,21). La vicenda è certo conosciuta, tuttavia vale la pena riprenderla per riscoprirne diversi aspetti forse dati per scontati.

In breve

Un nuovo faraone, che non ha conosciuto Giuseppe (Es 1,8), e quindi non può essergli riconoscente, è spaventato dalla crescita numerica degli ebrei. Per questo inizia a opprimerli e ordina alle due loro levatrici di uccidere i maschi appena nati (1,15-16). Ma queste non obbediscono, così che il popolo «aumentò e divenne molto forte». Allora il faraone estende l’ordine a tutto il suo popolo (1,17-22). Dal massacro si salva un bimbo bello, Mosé, figlio di una coppia di leviti, che viene tenuto nascosto per tre mesi e poi affidato alle acque del Nilo (2,1-4). A trovarlo è la figlia del faraone, che lo adotta, affidandolo a una nutrice ebrea, la quale, grazie all’astuzia della sorella di Mosè, è la sua stessa madre (vv. 5-10).

Una volta cresciuto, Mosè, un giorno, reagisce ai maltrattamenti subiti dal suo popolo e uccide una guardia che sta picchiando un ebreo (vv. 11-12). Quando, il giorno dopo, intuisce che il fatto non è rimasto nascosto, fugge nel deserto, dove a un pozzo incontra le sette figlie di un sacerdote di Madian. Dopo averle aiutate, viene accolto in famiglia e ne sposa una (vv. 16-22).

Storia o favola?

Nel racconto ci sono di certo tanti tratti che ci ricordano una favola: come si può pensare che per tutto il popolo ebreo, tanto numeroso da spaventare il faraone, ci siano solo due levatrici (1,15)? E come fa la figlia del faraone a capire che quel bimbo è un ebreo (2,6), o le figlie del sacerdote madianita Reuèl a capire che Mosè è un egiziano (2,19)? Forse dagli abiti?

Poi la storia della famiglia di Mosè si apre con la sua nascita, come se lui fosse il primogenito, ma subito ci troviamo di fronte a una sorella più grande e abbastanza scaltra da pensare come ricongiungere la famiglia (2,4-7). E non è strano che siano proprio sette le figlie che Reuèl manda a pascolare (2,16 – sette è un numero altamente simbolico nella Bibbia, ndr)? Lo stesso incontro a un pozzo, con il protagonista che s’imbatte imprevedibilmente in una donna, è un cliché ricorrente nell’Antico Testamento (e anche nel Nuovo: Gv 4).

Ma, in fondo, è favolistico lo stesso motivo di partenza del racconto: il bambino affidato alle acque. È un tema che accomuna Romolo e Remo, Perseo, il dio Dioniso… e soprattutto Sargon, ritenuto per millenni il più importante sovrano mesopotamico, vissuto attorno al 2200 a.C., il modello stesso di conquistatore e imperatore finché non sorse Alessandro Magno. Presentare un bambino che viene affidato alla sorte dentro a una cesta abbandonata sulle acque era un espedeinte narrativo per farne presagire il destino importante.

Per i lettori ebrei, poi, quel «cestello» (teba, in ebraico), peraltro spalmato di bitume e pece, in cui Mosè è posto, è la stessa parola che in Gen 6-9 indica l’arca di Noè: entrambi porteranno a termine l’intenzione di Dio di salvare la vita galleggiando su acque che altrimenti sarebbero minacciose.

Ma quanto più i motivi favolistici si moltiplicano, tanto più il nostro senso critico di moderni alza le sopracciglia, perplesso: non si saranno inventati tutto?

Già nella puntata precedente abbiamo affrontato la questione. Qui basti richiamare i toni epici e mitologici con cui si presentano, persino tra noi razionalisti e scettici, le imprese sportive, dove la conquista di una vittoria sembra, a volte, presagita e predestinata fin dall’infanzia dell’atleta di turno. Quel tono favolistico serviva a dire, ai lettori antichi, che si trovavano di fronte a una vicenda eccezionale. La perfetta adesione del racconto alla veridicità assoluta della storia non era un problema per nessuno di loro.

Ironia e assenza di Dio

Due caratteristiche, tra le altre, rendono questo racconto interessante anche per il nostro gusto moderno.

La prima, su cui torneremo, è il fatto che non si citi Dio. Succede anche a noi lettori religiosi e credenti di restare infastiditi quando in una storia troppo viene affidato all’intervento miracoloso di Dio. Tutto sommato, preferiamo che non se ne parli. Forse ci rendiamo conto che affidare troppo velocemente alla responsabilità della provvidenza la nostra vita, non rispetta la nostra autonomia e libertà. Vorremmo cogliere Dio presente, sì, ma come chi si muove tra le righe. A quanto pare, gli autori di Esodo, in questo, ci capiscono.

La seconda è che il racconto scorre piacevole anche per la presenza di diversi spunti ironici. Eccone alcuni.

  • Il faraone vorrebbe negare una discendenza agli ebrei, ma sarà invece Dio a garantire una discendenza alle levatrici che non lo ascoltano (1,17-18.21).
  • Ciò che il faraone voleva impedire verrà portato a termine da un uomo allevato dalla sua stessa figlia (2,5). Questa, peraltro, affida l’incarico di balia, a pagamento, alla madre di Mosè che aveva dovuto abbandonarlo (2,7-9), e che in questo modo può accudirlo apertamente e, persino, protetta e stipendiata.

Le due caratteristiche che abbiamo qui richiamato, ossia il silenzio apparente di Dio e l’ironia, probabilmente sono collegabili. La storia può essere ironica perché non è nelle mani dei più potenti, ma di Colui che può fingere di essere assente per portare però i potenti a fare ciò che vuole Lui. Il fatto che Dio sembri mancare dalla scena, non significa che non ci sia: semplicemente, lavora dietro alle quinte. E chi non vuole vederlo, resterà convinto che lui non esista.

Mosè: Chi è costui?

Mosè è un ebreo, ma cresce alla corte del faraone. È la figlia di quest’utimo a dargli un nome che sembra egiziano, con il significato di «figlio di». Solitamente è la seconda parte di un nome
(-mosis/-mses) a cui si premette quello di una divinità come in alcuni nomi di faraoni, tipo Ah-mosis, Tuth-mosis, Ra-mses.

Nello stesso tempo, però, l’etimologia offerta nel testo è semita: «Tirato su dalle acque». Etimologia perfetta e adattissima, se il nome fosse Musai, non Mosè che vuol dire piuttosto «che tira su dalle acque»: è già un’allusione al passaggio del Mar Rosso? Mosè cresce alla corte del faraone, ma si riconosce negli ebrei perseguitati. Interviene a difendere uno dei suoi «fratelli» (2,11-12), ma per questo viene rimproverato dagli stessi suoi fratelli (2,14). È cresciuto alla corte, ma il faraone lo cerca per ucciderlo (2,15). È un profugo fuggitivo, ma sposa la figlia di un uomo importante, un sacerdote (2,21). Ogni volta che ci sembra che l’identità di Mosè sia fissata, viene rimessa in discussione. In fondo, non facciamo fatica a riconoscerci in lui: anche noi abbiamo un’identità di partenza che sembrerebbe molto chiara e definita, ma che viene continuamente messa in discussione dalla storia che attraversiamo con gioie e dolori, con successi anche insperati e fallimenti impensati. A differenza di tanti eroi della storia, esaltati come predestinati, Mosè si direbbe destinato soltanto a un’esistenza di normale fallimento.

Eroe o uomo qualunque?

A leggere bene la sua storia, il più grande personaggio della storia ebraica, colui che parlava con Dio faccia a faccia (Es 33,11), ha una caratteristica sorprendente: non è perfetto, e non tutto gli va bene.

Se lo guardassimo con gli occhi di un ebreo perseguitato e oppresso, Mosè, che è cresciuto alla corte del faraone, è un privilegiato. Se invece ci mettessimo nei panni del faraone, non sarebbe difficile definirlo un traditore ingrato.

Quando prende consapevolezza della triste sorte dei suoi fratelli e ne prende le parti (2,11), finisce però con l’uccidere, macchiandosi del peccato peggiore da cui, nella Genesi, Dio chiedeva che anche i non ebrei si tenessero lontani (Gen 9,5-6). Tra l’altro, prima si limita a nascondere il cadavere, ma poi, quando viene a sapere che il fatto è risaputo, anziché assumersi le conseguenze del proprio gesto, fugge fuori dall’Egitto (Es 2,14-15): al posto di un «eroe senza macchia e senza paura», abbiamo qui uno spaventato assassino e un liberatore fallito.

Potremmo dire che la sua sorte si trasforma quando arriva nel deserto, dove Dio gli prepara un futuro radioso tramite il matrimonio con la figlia di un sacerdote. Certo, perché i sacerdoti erano uomini protetti da Dio e detentori di un potere, spesso anche politico ed economico. Ma Reuèl, altrove chiamato Ietro, è sì un sacerdote, ma è anche un madianita. I madianiti erano una tribù di seminomadi, che vivevano di pascolo e di espedienti, ai margini delle terre e dei collegamenti importanti e ritenuti senza legge né morale. Erano madianiti, per esempio, i commercianti che avevano comprato e rivenduto Giuseppe (Gen 37,28.36).

Mosè acquisisce probabilmente un ruolo importante, benché straniero, nel clan dei madianiti, ma questo è uno dei clan meno desiderabili e più ignobili del tempo. E si direbbe che peraltro il suocero non gli possa garantire neppure ricchezza, dal momento che manda al pascolo le figlie nubili, segno che non ha neppure uno schiavo per accudire il suo bestiame, e accetta il rischio di esporre le figlie alle prepotenze e violenze degli altri pastori nel deserto. Mosè, pur integrato in una famiglia importante, patisce la propria condizione di straniero (Es 2,22). Peraltro, per anni sarà solo il pastore del gregge di Ietro (Es 3,1): da nipote adottivo del faraone a servo del suocero, il quale finalmente può lasciare riposare le figlie al sicuro.

Può stupire la scelta e il coraggio della tradizione biblica, che non esalta il proprio fondatore, non lo divinizza e, anzi, ne presenta con schiettezza i limiti, le fragilità, le meschinità. Ciò che gli autori dell’Esodo sanno è che la grandezza, anche di Mosè, dipende dall’intervento divino. Ma allora, ciò che accade in Mosè potrebbe ripetersi con qualunque persona che si lasci guidare dallo spirito di Dio.

Un Dio di relazioni

Il secondo capitolo di Esodo si chiude con un accenno, improvvisamente cupo, alle sofferenze del popolo ebraico (2,23-25). E qui ricompare Dio. Quando sembra che gli uomini riescano a gestire adeguatamente, tra alti e bassi, le proprie vicende, il Signore si nasconde dietro le quinte. Ma ora che tutto ciò che gli uomini riescono a fare è alzare lamenti (e non si dice neanche che li alzino a lui, che lo invochino), Dio si sente coinvolto, «se ne dà pensiero» (2,25). Non pretende di stare al centro della scena, ma si ricorda delle persone che di lui si erano fidate (2,24) e non le abbandona. E così anche la vicenda di Mosè, che sembra essersi incamminata su un binario morto della storia, acquisirà una nuova energia. Ma questa volta, in modo molto chiaro, per iniziativa divina.

Angelo Fracchia
(Esodo 02 – continua)


Quando, dove e chi ha scritto l’Esodo?

Per secoli si è ritenuto che l’Esodo fosse stato scritto da Mosè, quasi come un diario. Nel XIX secolo si è fatta strada una teoria che ha sostenuto che quattro quattro scuole diverse, in tempi diversi (*), avessero contribuito a comporre l’Esodo così come lo troviamo oggi tra i primi cinque della Bibbia. Anche questa teoria molto rigorosa, che ci ha aiutato a capire tanti particolari del testo, è ora in crisi.

Oggi, i più (non tutti) pensano che esistessero delle tradizioni, in parte anche già scritte, precedenti all’esilio del 587 a.C., quando Gerusalemme e il tempio furono distrutti dai babilonesi. In quel tempo di crisi (l’esilio terminò nel 538 a.C.) e nei decenni successivi diversi saggi decisero che la tradizione ebraica non doveva morire: ripresero quelle tradizioni orali e scritte e diedero loro una veste unitaria, in quello che chiamiamo Pentateuco, tenendo d’occhio la propria storia (dimensione più «di popolo»), le attenzioni di tipo rituale (più guardando al tempio e alle norme di purità e di alimentazione) e una sensibilità spirituale che potesse dare un’interpretazione e un senso all’esperienza personale e a quella comunitaria dell’esilio e della perdita di un proprio regno.

Tutto è confluito in un testo solo, perché tutte queste dimensioni erano importanti. E tutto incentrato su un’esperienza di coraggiosa uscita da una «terra di schiavitù», sotto la guida di Mosè, di cui peraltro nei profeti e nei salmi si parla molto poco, perché probabilmente non era considerato così importante. In quel tempo, però, parve che quell’esperienza, che forse aveva coinvolto solo alcuni piccoli gruppi, potesse interpretare bene il senso di quanto stava vivendo Israele dopo l’esilio. Così organizzarono quei testi non solo per non dimenticare vicende antiche, ma soprattutto per dare coraggio e una guida ai contemporanei.

Alla fine del VI secolo a.C. il testo dell’Esodo doveva probabilmente essere quello che abbiamo noi oggi. Le poche correzioni e aggiunte fatte in seguito per adattarlo via via a situazioni nuove, testimoniano quanto abbia continuato a essere ritenuto importante lungo gli anni. In fondo, continua a valere anche per noi, che non aggiungiamo più annotazioni e ampliamenti al testo, ma scriviamo articoli su MC.

(*) Queste le quattro scuole o fonti:

  1. Jahvista (la più antica) che per il nome di Dio usa il sacro tetragramma JHWH.
  2. Eloista (dell’VIII secolo a.C., nell’Israele del Nord) che usa il nome Elohim per indicare Dio.
  3. Deuteronomista (VII secolo, nell’Israele del Sud), soprattutto il libro del Deuteronomio.
  4. Sacerdotale (del post esilio) che raccoglie le norme liturgiche e rituali e si esprime soprattutto con il libro del Levitico.



Esodo: Una storia di ieri e di oggi

Un viaggio nel libro dell’Esodo con Angelo Fracchia |


Dopo due anni passati in compagnia degli Atti degli Apostoli, a scoprire come Luca traccia gli inizi e i fondamenti della Chiesa, dal direttore della rivista arriva la sfida a confrontarsi con un testo altrettanto fondamentale, non solo per i cristiani. Ci spostiamo nell’Antico Testamento dove si trova il libro dell’Esodo che ci terrà impegnati per un altro biennio.

Libri di vita, non di leggi

Nel comune sentire di tanti che non conoscono la Bibbia (però anche, ahimè, di tanti che dovrebbero conoscerla!), quel volumone, composto da ben 73 libri, contiene molti obblighi e divieti che ciascuno di noi dovrebbe rispettare per piacere a Dio (e quindi da Lui essere trattati meglio di chi invece non li rispetta). In realtà, le norme morali, che pure ci sono, ammontano solo a circa un ottavo dei versetti biblici, e spesso sono legate alle circostanze specifiche nelle quali sono state scritte, quindi non sono tutte applicabili universalmente e per sempre.

Nel libro sacro, piuttosto, si trovano tante testimonianze su come persone diverse, in contesti e tempi diversi, hanno vissuto l’esperienza dell’incontro con Dio e su quali sono state le sue conseguenze. Questi incontri e le loro conseguenze, a volte sono espressi nella Bibbia in forma di norme e leggi, ma più spesso in forma di racconti, inni, poesie e tanto altro. Diventa allora più facile capire perché alcune di quelle esperienze «ci parlano» meglio e più in profondità di altre, le quali invece restano più mute e lontane dalla nostra sensibilità.

Diventa allora più semplice capire e accettare il fatto che nella Bibbia ci sono alcuni testi che contano di più, sono più importanti e più centrali. E non c’è nulla di blasfemo o irrispettoso in questa constatazione.

È peraltro una valutazione naturale per i cristiani, almeno per il Nuovo Testamento (considerato più importante dell’Antico): i Vangeli sono più importanti delle pur preziose lettere di Paolo, e dentro i Vangeli il racconto della passione e risurrezione è assolutamente decisivo. Ed è significativo notare che i capitoli più importanti del Nuovo Testamento non ci offrano indicazioni su come comportarci, ma raccontino «soltanto» ciò che è successo a Gesù.

Al cuore dell’Antico Testamento

Un discorso simile si può fare per l’Antico Testamento, che noi cristiani rischiamo di trattare come se fosse tutto uguale. Nella tradizione ebraica il fondamento della scrittura è nella Torà, quella che in greco si chiama Pentateuco, ossia i primi cinque libri della Bibbia. Tra questi, il cuore è costituito dal libro dell’Esodo, che narra l’uscita dall’Egitto del popolo d’Israele, che così si scopre popolo, sulle orme del suo Dio.

Chi ha narrato al cinema l’impresa di Mosè, in pieno stile hollywoodiano, ha pensato che la storia potesse finire quando il popolo raggiunge l’altro lato del Mar Rosso e l’esercito del faraone annega nelle acque: un vero «lieto fine» secondo tutti i criteri cinematografici. Solo che la storia raccontata nel libro dell’Esodo, a quel punto, non è arrivata neppure a metà.

Il suo percorso è infatti molto più intelligente e profondo di tante sue trattazioni romanzate, e presenta anche un itinerario ideale del cammino di incontro con Dio: il credente che lo leggerà, attraverserà, in un certo modo, le tappe vissute dal popolo. Il percorso tracciato dall’Esodo rappresenta l’evoluzione che compie la fede nel suo crescere e maturare.

Gli antichi non erano abituati a scrivere trattati di psicologia o teologia, non redigevano saggi, ma raccontavano storie, dentro le quali mettevano in evidenza gli elementi importanti, ben visibili per chi era abituato ad ascoltarle.

Noi, ormai poco avvezzi a presentazioni di questo tipo, possiamo ritornare bambini (perché tramite le favole i bambini sono abituati a questo stile), oppure passare decenni a meditare questi testi, come facevano i monaci (ma di solito così tanto tempo non lo abbiamo, o non riusciamo a prendercelo), oppure, infine, possiamo farcelo spiegare un poco. Esattamente ciò che proveremo a fare noi.

Quale storicità?

Noi adulti ci mettiamo davanti al racconto dell’Esodo chiedendoci subito quale affidabilità storica abbiano le sue pagine. Al riguardo è stato scritto tantissimo e, di tanto in tanto, accadrà che anche noi faremo qualche cenno in merito.

Per ora ci basti ciò che oggi viene ritenuto più probabile (non sicuro!) da tanti.

È verosimile che un piccolo gruppo di persone abbia vissuto un’esperienza simile a quella narrata nel libro: la fuga da un regime poderoso e oppressivo, seguendo non la più normale «via del mare» nel Nord del Sinai, ma quella, meno presidiata, che passava attraverso le paludi del Mar Rosso settentrionale per avventurarsi poi attraverso le oasi (rare e magre) del Sinai meridionale.

Queste persone avevano percepito di essere state salvate da un Dio che le aveva scelte senza loro merito, se non quello di aver accolto una chiamata che chiedeva loro di seguirla senza avere certezze.

Una volta approdati in Palestina, questi fuggitivi liberati si sono legati a gruppi umani già presenti sul territorio, i quali, sentendo narrare la loro vicenda di fiducia in un Dio che aveva scelto gli oppressi e non i grandi della storia, hanno riconosciuto in quel Dio lo stesso Dio che anche loro adoravano. E hanno pensato che quella vicenda di fiducia e rischio, interpretasse bene anche la loro esistenza di contadini o di pastori (per il resto avversari). Poi, col tempo, le «tre storie» (dei fuggiaschi, dei contadini e dei pastori) hanno finito con il confluire in una storia sola.

Un approccio diverso

L’effettiva storicità degli eventi, che giustamente ci preoccupa quando parliamo di Gesù, è però in questo caso meno vincolante.

Noi oggi abbiamo un approccio alla «realtà storica» che è molto diverso da quello dell’antichità. Noi troviamo citate con le virgolette, nei nostri giornali, solo le parole esatte che sono state pronunciate. Può poi accadere che quelle parole vengano tolte dal loro contesto, che aiuterebbe a capirle bene (basti pensare alle citazioni di frasi di papa Francesco, che in pubblicazioni o film vengono estrapolate dal contesto per fargli dire quello che lui effettivamente non ha mai detto), ma se sono state dette così, ci sentiamo autorizzati a riportarle così.

L’antichità ha un approccio diverso: conta il senso profondo degli eventi, e per farlo capire gli autori antichi a volte inventavano particolari o avvenimenti. Lo stesso Tucidide, storico greco e non semita, ritenuto modello di obiettività storica, afferma, nella «Guerra del Peloponneso», che metterà in bocca ai suoi personaggi storici anche ciò che era verosimile o magari solo opportuno che dicessero in quella situazione. E lo afferma nell’introduzione, dando quindi alle sue parole il valore di un principio di fondo della sua narrazione storica. Se le cose raccontate da Tucidide riguardo a un fatto storico interpretavano bene quel fatto, non importava che alcune cose fossero inventate, o supposte, restavano «vere».

Il principio di fondo di Tucidite vale anche per l’Esodo, che è sicuramente vero e storico, perché rispecchia in modo autentico la vita e la storia di tanti credenti nei secoli.

Sicuramente non riusciremo a precisare sotto quale faraone sia potuto avvenire l’Esodo (il testo non lo chiama mai per nome), né se davvero così tante persone abbiano potuto sopravvivere nel deserto per quaranta anni. Non lo sapremo mai perché per gli autori del libro questi due elementi, e anche altri che oggi per noi sono importanti, erano del tutto marginali.

Secondo la tradizione (che trae le proprie conclusioni a partire dalle scivolosissime cronologie bibliche) ci troveremmo intorno alla metà del XIII secolo a.C., ma neppure questo è sicuro. Il bello è proprio questo: che anche noi lo possiamo trascurare.

Il problema di partenza (Es 1,1-14)

Chi ha letto il libro della Genesi, o almeno i suoi ultimi capitoli, sa chi è Giuseppe, penultimo figlio del patriarca Giacobbe, che, con i suoi sogni, e la capacità di interpretarli, acquisisce un ruolo di primo piano nell’amministrazione egizia, tanto da poter accogliere i suoi fratelli e suo padre nella regione quando una carestia sparge la fame in tutta l’area. Ma è nella sorte delle cose umane di essere dimenticate, ed ecco che sorge in Egitto un faraone che non sa più chi sia stato Giuseppe (v. 8).

Il nuovo capo coglie solo il problema immediato, ossia che il popolo di Israele non è amalgamato con gli egizi ed è numeroso, tanto che, se l’Egitto fosse attaccato da nemici esterni, si potrebbe correre il rischio che si uniscano agli invasori (vv. 9-10). La paura del faraone sembra essere, soprattutto, quella della partenza degli ebrei, che si confermano, già solo per questo, oppressi.

Può darsi che si tratti soltanto di un trucco letterario per mettere in moto la trama, ma colpisce che il punto di partenza sembri essere la mancanza di memoria. Il faraone non conosce più Giuseppe, ma neppure il popolo di Israele pare essere particolarmente capace di ricordare: non richiama il proprio antenato, non invoca Dio, non tenta neppure di riprendere la strada del deserto. Semplicemente, si è rassegnato a una condizione di schiavitù.

A metà del libro, nella notte cruciale di Pasqua, molto si insisterà su questo invito a ricordare. Chi dimentica da dove viene, non sa dove potrebbe andare e si accontenta di restare schiavo. Quel Dio che aveva stretto un’alleanza con gli antenati non viene neppure invocato; sarà però lui stesso a mettersi in movimento, sebbene il suo popolo non si ricordi di lui.

Non si tratta in realtà neppure di un vero popolo: sono persone, separate tra di loro. È solo lo sguardo impaurito del faraone a renderlo un popolo. Quello sguardo, e poi quello compassionevole e protettivo di Dio.

Le due città

Senza entrare ancora nella questione di quando effettivamente sia avvenuto l’Esodo e quando il libro sia stato compilato, per ora ricaviamo qualche suggestione interessante, anche se soltanto probabile e non sicura, dal nome delle due città egizie costruite con il lavoro degli ebrei (Es 1,11). Ramses era infatti rimasto nella memoria come un faraone importante e potente, anche molte generazioni dopo la sua scomparsa. Citarlo significava spostare in un passato lontano la vicenda.

Intorno al VII secolo a.C., l’antica città di Pi-Ramses (nome completo, preferito dalle iscrizioni egizie), disabitata da secoli, venne utilizzata come cava di pietre già lavorate per la costruzione di una nuova città magazzino a Nord Est del Delta. Questa nuova città si trovò quindi con tante iscrizioni che citavano l’antica Pi-Ramses.

Nella stessa zona, venne allagata la città di Pitom, che fu quindi spostata e ricostruita altrove con il lavoro di braccianti non egizi. Che questi manovali non egizi potessero essere anche ebrei è molto probabile (2 Re 23,33-35 lascia intendere che diversi ebrei erano stati sequestrati come prigionieri di guerra proprio in quel periodo). Peraltro, la parola utilizzata per definire queste due «città-magazzino» (Es 1,11) è un prestito dalla lingua egiziana entrato nel lessico ebraico non prima del VII secolo a.C. Sembra insomma che l’autore dell’Esodo strizzi l’occhio al lettore, lasciandogli intendere che ciò che racconta riguarda vicende antiche, ma è rilevante anche l’oggi.

Fare memoria

Questi particolari potrebbero sembrarci (e in effetti sono) minimi, ma rivelano un atteggiamento che tornerà spesso in Esodo: ciò che ha riguardato la generazione che dall’Egitto è uscita, non interessa solo loro quella generazione, ma tutti coloro che in quella storia si ritroveranno. Non è un caso che il rito ebraico di Pasqua fa ringraziare «per quello che il Signore mi ha fatto quando mi ha liberato dalla schiavitù egiziana».

È questo il senso del memoriale, su cui tanto si concentrerà Esodo e quindi anche noi: non il ricordo nostalgico di un ottantenne che sa ancora i nomi di tutti i suoi compagni della prima elementare, ma l’ottantenne che, insieme alla moglie al suo fianco, richiama il giorno di sessanta anni prima in cui si sono incontrati.

Angelo Fracchia
(Esodo 01 – continua)

disegno orginale di Marco Francescato




Ai confini del mondo (At 27-28)

testo di Angelo Fracchia |


Siamo al termine della grande opera di Luca, quella che, partendo dalla vita di Gesù (il Vangelo), è sfociata poi nel racconto della vita iniziale della Chiesa. Dal capitolo 16 la narrazione è concentrata sulla sorte di Paolo di Tarso che, alla fine del capitolo 26, troviamo a Cesarea Marittima, prigioniero del procuratore Festo, il quale lo avrebbe già liberato come innocente, se l’incarcerato non si fosse appellato al tribunale di Cesare (26,32).

Luca ci racconterà come è andata a finire? Non ancora perché ha in serbo altre sorprese per noi.

L’ultimo viaggio (At 27)

La prima sorpresa è un avvincente ed emozionante racconto di viaggio. I «racconti di viaggi» erano un genere letterario popolare a quei tempi. Per apprezzarlo anche noi conviene però che ci facciamo qualche idea su come si viaggiava nell’antichità.

Dovunque i romani giungessero, ampliando il proprio impero, si preoccupavano tra le altre cose di garantire delle comunicazioni efficienti, sia costruendo strade lastricate, che potevano cioè essere percorse anche con il brutto tempo, sia garantendo che i mari restassero liberi e sicuri. Era infatti il mare la via di comunicazione preferita. Le strade lastricate erano ottime per lo spostamento di truppe, comunicazioni leggere e veloci a cavallo, e movimenti di persone e merci tra le varie città, anche d’inverno. Ma su quelle strade ci si spostava per lo più a piedi o su carri trainati da animali, e si poteva trasportare relativamente poco; oltre tutto, quanto più ci si allontanava da Roma, tanto meno si trovavano strade.

Per questo le vere autostrade del tempo erano i mari. Non esistendo però il sestante per orientarsi, ed essendoci nel Mediterraneo diverse zone pericolose, si preferiva navigare sotto costa. Via mare si trasportavano soprattutto le merci più pesanti o che occupavano più spazio, come ad esempio il preziosissimo grano egizio che dava da mangiare a una capitale come Roma che sfiorava già allora il milione di abitanti. Non esisteva un servizio passeggeri, ma era sempre possibile unirsi ad altri che facevano la stessa rotta (una nave merci aveva quasi sempre posto sul ponte, e a Roma andavano in molti).

Il problema era che il Mediterraneo d’inverno diventava pericoloso, poteva essere scosso da burrasche anche improvvise. Per questo d’inverno non si navigava. Ovvio che, per amore di guadagno, qualcuno provasse ad anticipare la primavera partendo un po’ prima o a ritardare l’inverno partendo a ridosso del freddo. Questo è ciò che prova a fare la nave carica di grano su cui si è imbarcato il centurione che ha in custodia Paolo e alcuni schiavi destinati al mercato della capitale.

La baia di Mistra a Malta (china di Paul Gichui)

Un viaggio avventuroso

Una volta salpati da Creta, equipaggio e viaggiatori si rendono presto conto che non si riuscirà a procedere sulla rotta stabilita. I marinai cercano allora di spostarsi verso un porto migliore, ma incappano in una burrasca che li trascina al largo per due settimane (At 27,7-15). La paura più tremenda è quella di incagliarsi nelle Sirti, grandi banchi di sabbia vicino alla costa africana tra Cartagine e la Cirenaica (negli attuali golfi di Sidra e di Labes), a giorni di navigazione dalla terra più vicina, e di rimanervi finché le onde non abbiano sfasciato la nave.

Un Paolo affidabile

Luca presenta un Paolo che, in questa situazione, si pone come punto di riferimento: prova a orientare le scelte del centurione e del capitano della nave, a tenere alto il morale dei marinai, a confortare i compagni di viaggio. Non ci sembri un ritratto inverosimile: Paolo è prigioniero, è vero, ma è un cittadino romano, e questo lo pone in una situazione di privilegio. È poi persona abituata a viaggiare. E si mostra animato da una grande fiducia in Dio che non lo abbandonerà mai, benché a noi possa sembrare quasi magico l’intervento dell’angelo che gli assicura che nessuno di quella nave morirà.

È ancora Paolo che, al quattordicesimo giorno di deriva, quando la nave si sta avvicinando a un’isola che peraltro nessuno riconosce, invita a prendere forza mangiando. Le parole utilizzate («prese un pane, rese grazie, lo spezzò» At 27,35) potrebbero quasi ricordarci l’Eucaristia. Non è detto che Paolo l’abbia in effetti celebrata, ma Luca ci strizza l’occhio: il nutrimento di Paolo, il punto di riferimento di chi cerca salvezza resta sempre Gesù. Perché non c’è contrasto tra la salvezza cercata dagli uomini e quella offerta da Dio.

A Malta (At 28,1-10)

Paolo a Malta (china di Paul Gichui)

I viaggiatori approdano a Malta, l’isola sconosciuta che nesuno di loro pare aver mai sentito nominare. L’accoglienza è splendida, salvo che, nel raccogliere legna per far fuoco, Paolo viene morso da una vipera (28,3). Interessante, anche nella sua ingenuità, la reazione degli abitanti. Dapprima, vedendo che Paolo, scampato miracolosamente a un naufragio, viene morso da un serpente velenoso, pensano che sia una prova della sua colpevolezza: gli dèi, non essendo riusciti a ucciderlo in mare, lo giustiziano a terra. Poi, notando che Paolo non risente del morso, si persuadono al contrario che sia un essere divino, a cui niente può portare danno.

Questa volta Paolo non si ribella con decisione al travisamento della sua identità, come aveva invece fatto a Listra (14,12-15). Che non si sia accorto di ciò che si diceva di lui, impegnato com’era ad aiutare gli altri? Di certo continua a spiccare come figura guida, sereno e sicuro, attento ai suoi compagni (viene morso dalla vipera mentre raccoglie legna per scaldare tutti) e agli abitanti del luogo.

Durante i tre mesi di forzata permanenza è comunque sempre teso a fare del bene, anche con la guarigione miracolosa (28,8-9) non solo del padre del governatore, ma anche degli isolani, senza perdere l’occasione di predicare il Vangelo.

In Italia (At 28,11-28)

Alla fine, il centurione trova a Malta una nave proveniente dall’Egitto, probabilmente anch’essa carica di grano: il suo capitano doveva aver provato a sua volta a raggiungere Roma prima della brutta stagione, riuscendo a portarsi solo poco più avanti ma salvando il carico.

Partono e sbarcano a Siracusa. Da lì, Luca ci racconta il viaggio a piedi verso Roma. L’autore degli Atti pare che abbia fatto il viaggio insieme a Paolo fin da Cesarea Marittima, e ci offre tutti i dettagli sulle tappe affrontate, e sulle comunità incontrate, che ovviamente gli interessano di più.

Ancora una volta, è interessante ciò che l’autore dice, ma anche ciò che tace. I cristiani non sono solo a Roma, ma già anche a Pozzuoli (28,13-14). Quelli di Roma vengono incontro a Paolo «fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne» (28,15), il che ci permette di fare almeno due deduzioni. Intanto, Paolo è famoso, al punto che si organizza per lui un comitato d’accoglienza, anzi due. Proprio questo particolare, però, ci suggerisce che forse anche la comunità di Roma non è compatta e unita. Il Foro di Appio era il punto in cui un canale navigabile proveniente da Terracina si congiungeva con la via Appia, così da farne uno snodo importante a circa 60 chilometri da Roma (su una bella strada lastricata, ma comunque a quasi due giorni di viaggio per chi avesse a disposizione dei carri trainati da animali o fosse particolarmente forte e veloce nel camminare). Ma le Tre Taverne, anche se non siamo sicurissimi sulla loro posizione precisa, si trovavano sulla stessa via Appia a una quindicina di chilometri da Roma. Qualche ritardatario, oppure le comunità cristiane romane non erano riuscite a mettersi d’accordo?

Teoricamente queste comunità dovevano aver già ascoltato la lettera di Paolo ai Romani, ma paiono non sapere niente dell’opposizione contro di lui che si era diffusa a partire da Gerusalemme (28,21). Può stupirci, ma c’è da ammettere che le pretese del sinedrio di governare su tutto il mondo ebraico (i cristiani di origine ebraica si consideravano ancora ebrei), non sono messe facilmente in pratica. Peraltro, questi ebrei sanno che sul movimento dei cristiani c’è parecchia discussione (28,22).

Tale discussione si rinnova ancora intorno a Paolo, in grado di incontrare persone, dibattere, evangelizzare, argomentare e suscitare almeno domande e dubbi nei suoi interlocutori (28,23-24). Di nuovo, non stupiamoci per la libertà di movimento di un prigioniero indagato come Paolo: è in catene, è vero, e infatti un soldato è sempre con lui, ma è un cittadino romano, quindi trattato comunque con i guanti (anche se a Roma nella sua condizione si trovano in tanti, molti di più che in Oriente), e in ogni caso con dei capi di imputazione evidentemente alleggeriti dalle testimonianze dei procuratori.

Una conclusione aperta (At 28,30-31)

Decapitazione di Paolo (china di Paul Gichui)

Abbiamo già detto che a volte Luca sembra uno sceneggiatore per il cinema. Ma a Hollywood avrebbero di certo pensato a un lieto fine in cui Paolo venisse liberato, magari dopo aver parlato del Vangelo davanti all’imperatore. E invece gli Atti degli Apostoli qui ci offrono la seconda grande sorpresa di questi ultimi capitoli: la narrazione finisce con l’annotazione che Paolo poteva incontrare chi voleva e annunciava il regno di Dio, ma nulla si dice su come sia andato a finire il processo. Non solo manca il lieto fine, ma sembra che manchi la fine. Perché mai?

Oggi c’è chi fa notare che due anni (28,30) erano il tempo massimo di durata legale di un procedimento giudiziario. Peraltro, in tribunale si dava la precedenza ai processi più importanti, o che avevano alle spalle pressioni più potenti. Evidentemente il caso di Paolo non è stato ritenuto pericoloso per Roma, e nella capitale le pressioni del sinedrio non riescivano a farsi sentire. Può anche darsi che, finiti i due anni, Paolo sia stato semplicemente scarcerato, senza che il processo abbia avuto luogo. Che cosa abbia fatto dopo, Luca preferisce non dircelo.

C’è chi sostiene invece che proprio il silenzio di Luca suggerisca che il processo, per un motivo o per l’altro, sia andato a finire male, con la condanna a morte di Paolo. La tradizione romana vuole che l’apostolo sia in effetti morto martire alle Tre Fontane oppure lungo la via Ostiense. Già in questa occasione o più tardi? Non lo sappiamo. Ma si potrebbe ritenere che l’autore degli Atti non volesse finire la sua opera con quello che, umanamente, era un fallimento. Altri ribattono che come il martirio di Stefano non è presentato di sfuggita né tantomeno come un insuccesso, così la stessa glorificazione si sarebbe potuta narrare per Paolo.

Se ci teniamo però a quello che è scritto, dobbiamo ammettere che la conclusione ha delle somiglianze con quella del Vangelo di Marco (la conclusione originaria, in Mc 16,8), che Luca sicuramente conosceva, in quanto ne aveva usato diverse pagine per il proprio Vangelo. Quel Vangelo finisce con le donne che vanno via dalla tomba vuota senza dir niente a nessuno, perché avevano paura. Si ammette oggi che l’intenzione dell’evangelista doveva essere proprio di tenere aperta la porta ai lettori, perché si mettessero in gioco, si facessero domande e completassero l’opera delle donne.

Luca, alla fine degli Atti, ci dice solo che Paolo continuava a evangelizzare, senza ostacoli e senza paura. Sappiamo così che il Vangelo viene annunciato a Roma, centro del mondo, capitale di un impero che si poteva ritenere universale ed eterno. E allora Luca ci porta di nuovo al centro del discorso. È vero: negli ultimi quindici capitoli ha parlato quasi solo di Paolo, che per noi lettori è diventato il protagonista e il centro dell’attenzione. Ma Luca, lasciando aperto il racconto delle sue vicende, ci ricorda, quasi di colpo, che il protagonista non è l’apostolo. Il vero attore di quest’opera è lo Spirito che muove l’annuncio. Ed entrambi sono liberi di agire, persino nella capitale, in quella Roma che poteva essere considerata il centro del mondo, del potere, del male.

Paolo è in catene, ma il Vangelo è libero. E allora, ci suggerisce Luca, non c’è bisogno di aggiungere altro, perché tutto l’essenziale è stato detto. Possiamo scrivere la parola «Fine».

Angelo Fracchia
(20-fine)