Dio tra l’uomo (Es 40)

Ci è capitato più volte, nella lettura del libro dell’Esodo, di ricordare che alcuni sottintesi culturali antichi non sono i nostri e quindi abbiamo bisogno di una «traduzione» per comprenderli. A volte ci verrebbe da pensare che questi antichi sottintesi siano davvero difficili, mentre noi ci capiamo immediatamente, mettendo tutto in chiaro. In realtà, anche noi utilizziamo determinati linguaggi culturali, zeppi di sottintesi e «scorciatoie», che però impariamo fin da piccoli, in un lungo apprendistato, e che quindi poi ci suonano assolutamente naturali, come la lingua che abbiamo imparato dai genitori.

Ad esempio, noi siamo abituati a pensare che in un racconto, in un film, in una barzelletta, l’ultimo momento sia il più importante. L’ultima pagina di un libro, l’ultima scena ci devono lasciare il gusto buono, finale, o addirittura la sorpresa che dà improvvisamente senso a tutto il resto. Invece sono rari i contesti in cui ci comportiamo diversamente, come, ad esempio, con le canzoni di musica leggera, che spesso puntano a impressionare soprattutto all’inizio, prendono ancora quota in una parte centrale che spesso è quella che ricordiamo meglio, e poi finiscono ripetendo e sfumando.

Il modo di narrare dell’antichità, come abbiamo già scritto, assomiglia a quest’ultimo «linguaggio culturale»: le cose importanti sono all’inizio o semmai al centro. Le conclusioni spesso ci sembrano mosce, poco significative, e così se le aspettavano gli antichi. E questa è l’impressione che, a una lettura superficiale, potrebbe lasciarci anche il libro dell’Esodo.

Ciò non toglie che anche per l’antichità un libro finisce all’ultima riga, e che il retrogusto lasciato non può non risentire anche delle ultime pagine. I contenuti più importanti del libro dell’Esodo sono già arrivati, eppure anche il capitolo 40 non è semplicemente banale, e chi l’ha composto ha pensato di renderlo in qualche modo significativo. Come?

Capitolo noioso? (Es 40)

Una cosa è chiara: certamente noi non avremmo scritto quell’ultimo capitolo dell’Esodo così come lo leggiamo. In esso si raccontano tutte le indicazioni che Dio affida a Mosè per costruire la tenda del convegno, quel luogo di incontro tra il cielo e la terra che idealmente proseguirà nel Santo dei santi, il punto più interno, intimo e sacro del tempio. È molto probabile che questa pagina per noi suoni noiosa e con poco nerbo. Non l’avremmo messa in un luogo del libro così importante, visibile.

La scelta degli autori è però interessante. All’inizio dell’Esodo non si era parlato di preghiera o di culto, né del Dio creatore. La vicenda era iniziata con un incontro, e costantemente il Dio d’Israele si era presentato innanzi tutto in relazione con il suo popolo. Non aveva esordito chiedendo di pregarlo in certi modi, tempi o parole, non aveva offerto in primo luogo indicazioni morali, ma si era concentrato completamente sulla relazione: «Vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio» (Es 6,7). Non sembrava esserci spazio per il rito che, lo sappiamo, si ripresenta sempre uguale e prevedibile, ma rischia di essere difficile da capire, da vivere: tranquillizzante per gli anziani, che sanno come si snoda e come va a finire, noioso per i giovani, perché sembra che non succeda mai nulla di nuovo.

La quotidianità del rito (Es 40,1-33)

Se il rito sembra negare la passione della vita vera, che parrebbe sfuggirle, nello stesso tempo quando l’entusiasmo delle grandi scelte umane deve farsi concretezza, la vita stessa  inizia spesso a parlare quel linguaggio: sono i due fidanzati che riascoltano «la nostra canzone», i due sposi che ritornano nello stesso luogo in cui si sono incontrati la prima volta, i due amici che scherzano con le stesse parole che avevano un senso e un’origine anni prima, e ora rinviano «semplicemente» a tutti gli anni in cui sono state ripetute. Con il recupero di quei gesti e parole che rimandano alla passione dell’inizio, si giustifica e rende profondo il cammino quotidiano.

Chi compone il libro dell’Esodo conosce bene queste dinamiche umane, e dopo aver dato all’incontro tra Dio e l’uomo (faticoso, tormentato, non sempre lineare) tutta la centralità che merita, ricorda che per la maggior parte del tempo della vita umana questo incontro non viene vissuto nell’eccezionalità di un roveto che brucia senza consumarsi o del passaggio tra mura d’acqua nel mare, ma nel quotidiano del cammino fatto passo dopo passo, giorno per giorno, senza paure o gioie eccessive.

Chiudendosi con il luogo del rito (quel luogo che accompagnerà Israele nel deserto, ma arriverà fino al centro del tempio), il testo ci dice che quelle vicende straordinarie, vissute solo dalla generazione dell’esodo e richiamate ogni anno a Pasqua, si prolungano nel quotidiano, nell’ordinario, il quale comprende in sé quelle ritualità che rimandano all’evento dell’origine e che quell’evento mantengono presente e vitale.

Ed è significativo che il cuore del rito venga effettivamente colto nella tenda del convegno, nel luogo dell’incontro. Perché il succo del libro non è nella salvezza umana (che pure c’è), né nel riconoscimento della grandezza divina (che non manca), ma nell’incontro tra i due. Ciò che sta a cuore a Dio, che ne dice la gloria e garantisce la vita dell’uomo, è l’incontro, ritualmente garantito da un luogo e da sacerdoti che si prendano cura di mantenerlo simbolicamente vivo.

L’ultima scena (Es 40,34-38)

Ma l’uscita di scena definitiva deve ancora darsi. Semplice e solenne insieme, è una sigla finale adeguata al gran libro che chiude.

Quando tutto è pronto per l’incontro, quando Mosè ha eseguito tutto ciò che il Signore gli ha ordinato di fare, finalmente la nube copre la tenda del convegno. Non c’è neppure bisogno di ricordare quale nube sia e perché non sia una come tutte le altre. È quella presenza divina che ha accompagnato il popolo fin dall’Egitto, che aveva minacciato più volte di abbandonarlo, e che ora invece copre la tenda del convegno, riconoscendola come il proprio luogo. Infatti, la gloria del Signore riempie la dimora.

La gloria di Dio

Abbiamo già parlato della «gloria» di Dio (vedi MC 8-9/2022 p. 33). Non è, dicevamo, la sua esaltazione, ma il suo volto autentico, il suo mostrarsi per ciò che è. E il Dio dell’Esodo decide di mostrarsi nel con-venire, nel radunarsi con altri, nell’alleanza stretta con il popolo. Dio si riconosce innanzi tutto non come creatore del mondo, non come vincitore di nemici, non come garanzia di vita e salvezza (tutte sue caratteristiche vere e autentiche, certo), ma come colui che dimora nell’incontro con l’uomo. Il Dio creatore, che non aveva sopportato di stare da solo, si compie autenticamente vivendo in comunione con noi, in una relazione che può essere soltanto scelta e accolta e mai imposta, perché fatta non di sovrano e suddito, ma di alleati che si trattano alla pari (cosa che l’uomo non può pretendere, ma solo accogliere come un dono divino). Di fronte all’essere umano che sceglie di stare con Lui e gli prepara una dimora per l’incontro, finalmente anche Dio può restare, fermarsi, riposare. Come in una nuova creazione, il punto d’arrivo è lo smettere di fare, e lo stare insieme.

Come per il racconto della creazione in Genesi 1, questo diventa, senza volerlo, un appello a noi, spesso presi dalle tante cose che sentiamo di dover fare. Dio, nostro creatore e modello, riconosce il punto d’arrivo della sua creazione nel riposare.

In cammino

Eppure, ciò non deve far pensare che, finalmente, siamo arrivati a un punto fermo, stabile, definitivo.

Gli israeliti non sono ancora arrivati alla dimora, e quindi non c’è arrivato neanche Dio, che ha deciso di camminare con loro.

Potremmo essere tentati di immaginarlo mentre li prende miracolosamente e li fa volare nella terra promessa, come spesso ci piacerebbe che facesse anche con noi, liberandoci magicamente da paura e fatica (a volte, addirittura, lo accusiamo di non volerci bene, siccome non ci risolve così i problemi).

Eppure, Dio non lo fa, non toglie loro il sudore e l’angoscia di quaranta anni di cammino nel deserto. Resta però con loro, condivide l’instabilità, la stanchezza, le preoccupazioni. Non al loro posto, ma insieme a loro.

Aperti alla sorpresa

Di più. Li invita a non fidarsi della routine, a restare sempre aperti alla novità, alle sorprese. Ci saranno mattine in cui la nube non si alzerà dalla dimora, e allora anche gli ebrei rimarranno nell’accampamento, ad aspettare. Altre in cui invece partirà, e gli israeliti la seguiranno. Ma ci sarà sempre, lungo le notti (e le notti nel deserto sono cupissime e fredde!), la sua presenza come un fuoco nella dimora, un fuoco che illumina e riscalda.

Dio non promette al suo popolo che avrà sempre le farfalle nello stomaco, né la conclusione delle favole, «e vissero tutti felici e contenti». Dio promette di esserci, di camminare insieme a lui, di non abbandonarlo. Prospetta un percorso anche faticoso, lungo, pieno insieme di pericoli, di gioie e di noie. Invita a restare aperti alle novità che possono arrivare, anche se solo sotto la veste del guardare se anche oggi si parte o si resta fermi.

La scoperta del senso

Il lungo cammino del libro, che nella prossima ultima puntata vorremmo riprendere per coglierlo nella sua globalità e attualità, non ci ha portati a «una fine», ma «al fine», che è l’incontro pieno di Dio con l’essere umano. E che non cancella ma anzi dà sapore, gusto e senso a una vita quotidiana, «normale», ma finalmente libera perché in unione rispettosa con chi guida e illumina le vite dei suoi fedeli.

Coloro che servivano il faraone da schiavi, ora prestano un servizio libero, adulto e dignitoso a un Dio che vuole la loro vita e la loro gioia. Non c’è che un passo piccolo per sentirsi dire: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15).

Angelo Fracchia
(Esodo 19 – continua)




Vivere di un Dio buono (Es 34)

Mosè ce l’ha fatta: è riuscito a convincere Dio a restare in comunione con il suo popolo dalla testa dura (Es 34,9). Viene quindi invitato di nuovo a salire sul monte, come prima, come se nulla fosse successo.

Ma, come sa bene chiunque viva in relazioni umane, non si ricomincia mai «come prima». I rapporti incrinati possono essere risanati e possono diventare anche più profondi, autentici e solidi. Ma non è possibile che ritornino come all’inizio. La nostra storia ci segna, diventa parte di noi, di un noi accresciuto, magari con più cicatrici, ma anche più vivo e vero. Vale anche per la relazione tra Dio e l’uomo.

Si riparte (Es 34,1-8)

Dio aveva minacciato di abbandonare il popolo perché morisse nel deserto (Es 32,9-10). A questa intenzione divina Mosè si era contrapposto, richiamando Dio al suo ruolo, alla sua vocazione (32,11-13). Dio aveva allora ipotizzato di far arrivare Israele alla terra promessa, ma senza seguirlo (33,1-3), ma anche su questo aveva dovuto ricredersi (33,15-17). Sono reazioni e dinamiche che ci dicono molto sul Dio d’Israele, e su cui torneremo.

Intanto, però, finalmente Dio richiama Mosè sul monte.

Prima di salire, gli chiede di tagliare due tavole di pietra, «come le prime». Non è chiaro chi avesse tagliato le prime due (Es 24,12; 31,18), quelle che Mosè aveva poi spezzato al vedere il vitello d’oro (24,12). Esodo dice solo che erano state scritte «dal dito di Dio» (31,18). Si può, fino a questo punto, supporre che il lavoro di taglio delle nuove pietre sia soltanto preparatorio, e che sarà poi Dio a scrivervi sopra di nuovo. Non sarebbe, in ogni caso, un passaggio secondario. Conosciamo troppo bene il valore delle reliquie per sottovalutare il gesto di Mosè, il quale, pur fuori di sé per l’offesa fatta a Dio, aveva comunque distrutto un’opera divina. Il fatto che Dio provveda a restaurarla significa che è disposto a passare sopra alla distruzione di un frutto delle sue mani. Ma quando poi Mosè scenderà dal monte con le due tavole in mano, non si dirà più che il «dito di Dio» vi ha scritto sopra. Dobbiamo supporre che, dal momento che non si dice niente, siano nuovamente opera totalmente divina? Oppure che, come le ha tagliate, sia stato ancora Mosè a scriverci sopra? Non lo si dice, e forse c’è un motivo. Ma anche su questo torneremo tra poco.

Perché una cosa chiara, in questa ripartenza, c’è.

Dio si presenta

Dio torna a stringere un’alleanza dicendo chi è, e lo fa in un modo estremamente solenne, ossia ripetendo per due volte il proprio nome. Questo accade molto di rado nella Bibbia, e mai da parte di Dio, ma sempre solo in preghiere di uomini. Chi è arrivato fin qui leggendo il libro dell’Esodo, non può che restarne stupito, e fa bene a riaccendere l’attenzione, se per caso si fosse assopita.

Se in precedenza Dio si era presentato semplicemente come «sarò ciò che sarò» (Es 3,14: occorrerà stare con lui, per conoscerlo) o come «il tuo Signore che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto» (Es 20,2: cioè colui che ha operato prodigi di salvezza per il popolo), qui riconduce tutto all’essenziale e proclama: «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6).

In questa presentazione può valere la pena richiamare il fatto che qui, l’autore di Esodo, pensa a un Dio che premia i suoi fedeli e punisce gli infedeli (Es 34,7). Detto questo, il premio e la punizione vengono elargiti con una sproporzione enorme: la colpa viene castigata fino alla terza o quarta generazione, secondo il modello per cui nonconta il singolo ma il clan, ma l’amore viene ricompensato fino alla millesima. In quel contesto culturale bisogna dire che Dio premia e punisce, ma, nello stesso tempo, che le due possibilità non sono alla pari, e davanti all’uomo si apre, con molta maggiore probabilità, la relazione con un Dio di amore.

Tanto è vero che il Signore applica a sé quattro parole pregnanti. «Pietoso» rimanda al dono gratuito, a un perdono regalato non perché sudato e meritato, ma perché Dio vuole perdonare. «Misericordioso», però, è ancora più profondo, perché richiama le viscere, anzi l’«utero»: l’idea è quella di un sentimento che prende alla pancia, irresistibile, da «farfalle nello stomaco». Dio, insomma, ammette di voler amare il suo popolo per scelta, ma anche perché non può farne a meno, perché è preso da un innamoramento totale.

In quanto agli altri due termini che l’ultima versione della Bibbia Cei ci restituisce con «amore e fedeltà», il primo indica il sentimento di un genitore, quell’affetto che non pretende di essere ricambiato e che esisterà per sempre e comunque, intatto e disponibile, mentre «fedeltà», collegato alla parola che è diventata il nostro «Amen», segnala l’affidabilità e la solidità. Dio dice di non poter fare a meno di amare i suoi, e di farlo con costanza, generosità, totalità e fedeltà.

Un (altro?) decalogo (Es 34,10-28)

A questo punto Dio (ri)condivide i termini dell’alleanza con il suo popolo, mediante quelle che, al v. 28, sono indicate come «le dieci parole», il modo per chiamare il decalogo già offerto al popolo al capitolo 20. Questa nuova offerta del decalogo sarebbe anche comprensibile (Dio riprende l’alleanza con il popolo), se non fosse che i comandi sono diversi.

Come è possibile? Che cosa è successo?

I redattori dell’Esodo sono stati disattenti? O hanno lo hanno fatto apposta, per suggerire qualcosa al lettore? E che cosa? Come nei libri gialli, anche stavolta rimandiamo la risposta a tra poco.

Del «nuovo decalogo» evidenziamo qui almeno un comandamento, che peraltro non si trova solo qui (si era già letto in Es 23,19 e tornerà in Dt 14,21) e che sarebbe poi diventato particolarmente significativo nella storia del popolo ebraico: «Non cuocerai un capretto nel latte di sua madre» (Es 34,26). Perché? Il senso è che l’uomo ha il diritto di sfruttare la vita animale per nutrirsi, ma non deve dimenticarsi che è vita, dono divino. Utilizzare il latte, alimento che permette di diventare adulti, per cuocere un capretto che, quindi, adulto non diventerà, sarebbe quasi uno scherzo crudele. È vero che né il capretto né la capra coglierebbero questo sarcasmo, ma chi cucina sì, e deve mantenersi compassionevole e misericordioso come Dio. E per essere sicuri di non violare questo comandamento, gli ebrei evitano del tutto di unire nel cibo carne e latte o latticini, mantenendo in cucina due set completi di stoviglie, che non devono mescolarsi. Così, si dice, ogni volta che ci si accinge a cucinare, si deve decidere quale tipo di cibo preparare, e ci si ricorda di dover essere rispettosi verso tutto il creato, che ci dona da vivere ma non deve essere umiliato. È un adattamento possibile al sogno divino di un mondo senza violenza (cfr. Gen 1,29-30).

Qualche risposta

Proviamo a cogliere meglio il senso del racconto, abbozzando anche qualche risposta ai quesiti che abbiamo lasciato sospesi.

L’essere umano è abituato alla dinamica del premio-castigo: se mi comporto bene, sarò premiato, altrimenti sarò castigato. È una logica iscritta talmente nel profondo, che riemerge a volte anche nei rapporti di amicizia o di amore più gratuiti e generosi. Ed è una dinamica che ricompare con forza anche nelle tradizioni religiose. Le religioni antiche, poi, ancora più di quelle che conosciamo oggi, si concentravano moltissimo sulle azioni e sul fare, il che si presta più facilmente a ribadire questa logica.

Il mondo dell’Antico Testamento non fa eccezione, e sono numerosi i passi che richiamano al dovere dell’osservanza di regole o rimarcano come la conseguenza dell’infedeltà sia la punizione. Nello stesso tempo, però, il percorso del popolo d’Israele con Dio lo rende sempre più consapevole che quella relazione è diversa. Il Dio d’Israele è il più importante di tutti gli dei (più tardi si arriverà a dire che è l’unico), eppure ha scelto, come «sua proprietà», un popolo piccolo e debole, dal quale è stato tradito più volte, ma che lui non ha mai abbandonato.

È quello che il racconto del doppio dono delle tavole della legge ribadisce: Dio aveva salvato dalla schiavitù il popolo, gli aveva liberamente chiesto se volesse diventare il «suo popolo» (Es 19,4-8), e, a quel punto, gli aveva dato delle norme che erano state disattese subito, tanto che aveva pensato di abbandonarlo. Ma ha accettato di ritornare nella relazione, affermando di essere un Dio «misericordioso e pietoso, ricco di amore e di fedeltà». E ridà le tavole, «come le prime», offrendo nuovamente dieci comandamenti, che però non sono identici ai primi.

Il racconto intende suggerire che cruciale è la relazione, la quale ovviamente comprende anche dei comportamenti conseguenti, ma in realtà le regole e le leggi non sono il cuore del discorso. Il cuore è la relazione che Dio è disposto a salvaguardare anche a costo di rimangiarsi la propria parola. Non un Dio «che non deve chiedere mai», severo e austero, dunque, ma un Dio amante, che per il suo amore viscerale verso l’uomo perde anche la faccia (o la vita, come comprenderà e vivrà Gesù: cfr. la parabola della vigna di Lc 20,9-13).

E che Dio pensi innanzitutto alla relazione, e a una relazione alla pari, è in fondo detto anche dallo strano gioco sull’autore delle «seconde tavole». Chi le ha scritte? Dio o Mosè? Dal testo non si capisce, e in fondo sembra quasi che Dio, sorridendo, suggerisca che non è importante. Come nel rapporto tra amici, come in una coppia ben affiatata, non è significativo decidere chi metta a disposizione o faccia che cosa.

È la stessa dinamica che i cristiani vivono nell’eucaristia, dove il grano e l’uva sono doni divini, che però devono essere coltivati e non diventano pane e vino senza lavoro, e, una volta offerti, vengono restituiti trasformati ai fedeli. È come in un’amicizia profonda, dove ci si scambia doni di continuo, finché non sia più possibile dire chi abbia dato che cosa, ma si deve giustamente parlare di «comunione».

Un Mosè trasformato

Quando Mosè torna a valle, il suo volto è pieno di «raggi» (Es 34,29). Questa parola in ebraico coincide con «corno», il che ha dato origine alla immagine del Mosè «cornuto» che vediamo, tra l’altro, anche nella statua michelangiolesca.

È il segno che la relazione di Mosè con Dio lo ha cambiato irrevocabilmente. Sembra quasi che gli autori dell’Esodo vogliano suggerire che chi incontra Dio in profondità, intimamente, con quello sguardo «faccia a faccia» da cui Dio non è disturbato né rifugge, resta cambiato, diventa persona nuova. Il suo volto acquisisce uno splendore che rende insostenibile il guardarlo (v. 30), tanto che per parlare con gli altri, con quelli che non hanno ancora completamente incontrato Dio, Mosè si dovrà coprire il volto con un velo, per non abbagliarli.

Si direbbe quasi che la comunione profonda con Dio inizi a portare nel mondo quello splendore del corpo glorioso che sarà pieno solo nell’incontro definitivo, come i discepoli di Gesù  sperimenteranno alla trasfigurazione (Mc 9,2-6), dove pure l’apparire del volto «autentico» di Gesù riempie i discepoli di paura, anche se pure di fascino.

Si può dire che stare con Dio trasformi gradualmente l’uomo in lui, così da essere sempre più profondamente e completamente se stesso. L’uomo pieno, perfetto, diventa come Dio. Come Gesù ridirà con la sua stessa vita.

Angelo Fracchia
(Esodo 18 – continua)

Paesaggio della penisola del Sinai lungo la strada che da Dahab va verso Sharm el Sheikh (foto Benedetto Bellesi)




Le spalle di Dio (Es 33)


Dopo il famosissimo capitolo del vitello d’oro (Es 32), il libro dell’Esodo ce ne riserva uno probabilmente molto meno noto, anche perché di difficile comprensione, ma non meno importante.

Le interpretazioni diverse, soprattutto sui particolari, sono molte. Sembra tuttavia possibile, anche appoggiandoci a tanti biblisti che vanno nella medesima direzione, spiegare il capitolo 33 nel modo che segue.

Fuori dalla luna di miele (Es 33,1-6)

Siamo abituati, soprattutto nella liturgia della messa, a leggere la Bibbia divisa in brani corti. Questo ha il vantaggio di stimolarci ad accostarci a essi con maggiore profondità, ma comporta anche il rischio di farci dimenticare ciò che viene prima e, magari, di non considerare quello che viene dopo.

Tra l’altro, non dobbiamo trascurare il fatto che persino la divisione in capitoli e versetti non risale al tempo in cui sono stati scritti i testi.

Per cui dobbiamo ricordarci che i vari capitoli sono legati l’uno all’altro e quindi che la pagina che ci accingiamo ad approfondire viene subito dopo il racconto dell’adorazione del vitello d’oro.

Proprio quell’esperienza, infatti, spiega forse la stranissima richiesta di Dio agli israeliti, presente nei primi versetti del capitolo 33, di togliersi di dosso tutti i loro ornamenti. Dio promette nuovamente al popolo ebraico il dono della terra, ma aggiunge che Lui non prenderà più parte al cammino: si tira fuori dal gioco (Es 33,3) perché il popolo ha la testa troppo dura, è ribelle e non si fida di Lui (come ha dimostrato con l’episodio del vitello d’oro). A questo punto, quando il popolo viene informato da Mosè di questa decisione, «tutti fecero lutto: nessuno più indossò i propri ornamenti» (33,4). Nel versetto successivo sarà Dio stesso a ordinare (33,5) «ora togliti i tuoi ornamenti». Sembra, peraltro, che questa spogliazione abbia un carattere definitivo: «Gli israeliti si spogliarono dei loro ornamenti dal monte Oreb in poi» (33,6).

Nei versetti successivi, il testo prosegue presentando la normalità di una relazione del popolo con Dio (34,7-11) mediata da Mosè presso la tenda del convegno, alla quale «si recava chiunque volesse consultare il Signore». Più avanti, poi, troviamo di nuovo un Mosè che, come nell’episodio del vitello d’oro, si mette a contrattare e a richiamare Dio alla sua vocazione. Il Signore, che in 32,9-10 aveva pensato di distruggere il popolo garantendo al solo Mosè una discendenza, e che aveva cambiato idea per l’insistenza dello stesso Mosè (32,11-13), ora pare di nuovo recedere dalle sue posizioni: dapprima immagina di garantire terra e vita al popolo senza accompagnarlo, poi concede a Mosè che non lo lascerà solo, infine, quasi con riluttanza, assicura che salirà con il popolo fino alla terra promessa (32,12-17).

Il Dio che aveva detto di essersi stufato di Israele ammette, a denti stretti, che non lo lascerà.

Tuttavia, non si cambia idea sugli ornamenti.

Qualcuno ha visto in questo episodio il fondamento di una religione senza statue, quadri, immagini di Dio. Sembra però strano che un aspetto così centrale della religione ebraica sia giustificato da un passo della Scrittura che a prima vista pare marginale, quasi casuale.

Inoltre, è vero che il culto degli ebrei è molto più asciutto ed essenziale di tanti altri, ma nella storia e nella liturgia ebraica non mancheranno abiti liturgici, filatteri, mezuzot (piccole citazioni della Bibbia da affiggere alle porte o da appendere ai capelli), tallit (il mantello per la preghiera), ecc. (cfr. Es 31,10; Nm 15,38-39; Dt 11,18-20). Dunque, Es 33,4-6 è falso?

Gli ornamenti normalmente sono oggetti che sottolineano e accrescono la bellezza di chi li porta. Spesso sono citati in contesti nuziali: allo scopo della seduzione, si presentano ornate Giuditta (Gdt 10,4; 12,15) ed Ester (Est 5,1c); nei profeti, e nel contesto simbolico in cui si parla della relazione tra Israele e Dio (ossia, dove c’è bisogno che il simbolo parli in modo chiaro) si allude spesso all’unione parlando di ornamenti (Is 49,18; Ger 2,32; Ez 16,39).

La rinuncia a utilizzarne, decisione presa dal popolo ma poi ratificata dal Signore, potrebbe suggerire l’uscita della relazione tra Israele e il suo Signore dal contesto della «luna di miele».

Di fronte al primo tradimento, Dio minaccia di andarsene, ma poi rimane, con la consapevolezza che potrà essere tradito ancora, ma anche con la determinazione a concedere nuove opportunità e spazio a questo amore. Anche Dio sembra passare dall’amore ingenuo, giovanile, a quello adulto, quello consapevole dei limiti dell’altro e della relazione stessa, ma anche determinato a portarla avanti.

È l’amore più tormentato ma anche il più profondo, quello che parte dal cuore, ma coinvolge tutte le dimensioni della persona.

È l’amore con cui ora anche Dio sa di amare Israele. Perché non si ritrova semplicemente attratto dal suo popolo, ma lo ha scelto.

La gloria di Dio

È a questo punto che Mosè decide di porre a Dio una richiesta: «Signore, mostrami la tua gloria» (Es 33,18).

Se ci sembra una frase uscita dal nulla, senza collegamento con il discorso, è perché non ne cogliamo i sottintesi.

La «gloria», nella lingua e nello stile dell’Antico Testamento, è mostrare chi si è davvero. Non si glorifica qualcuno perché lo si acclama o lo si esalta, magari in modo esagerato. La «gloria» di un atleta, ad esempio, può essere la sua medaglia d’oro, il suo record personale, che dicono chi è e che cosa è stato capace di fare, non l’urlo della folla che lo festeggia riconoscendo soltanto quello che lui è. Allo stesso modo la «gloria» di Dio non consiste nelle parole di lode che noi diciamo, ma nel suo mostrarsi per quello che Lui è davvero.

Mosè, insomma, chiede a Dio di poterlo vedere, di poter capire chi è, senza più filtri. Ne avrebbe il diritto, dopo aver fatto per lui tanta fatica. Ed è poi anche il desiderio di ogni innamorato, che vuole sempre contemplare il volto dell’amato. È la richiesta di ogni mistico.

Se ci pensiamo, capita anche a ognuno di noi, magari con meno meriti di Mosè e con parole diverse, di chiedere la stessa cosa: «Dio, se ci sei, fammi capire che cosa vuoi, che cosa progetti… Fammi capire perché tanta ingiustizia, tanta sofferenza… Mostrati, facci vedere chi sei davvero».

Noi potremmo anche pensare di non meritarcelo, ma chi negherebbe che Mosè, forse, questo eventuale privilegio se lo è proprio guadagnato?

Un Dio invisibile?

E invece no, Dio non lo concede. «Non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedere il mio volto e restare vivo» (Es 33,20).

Ci sembra veramente di trovarci davanti a un Dio spietato, insensibile. Forse persino un po’ ottuso. Perché mai bisognerebbe morire solo per averti visto? Non puoi fare in modo che ciò non accada? Non puoi fare un’eccezione almeno per un campione della fede come Mosè?

«Ti coprirò con la mia mano, finché non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (Es 33,22-23). Meglio di niente, certo, anche se dalle spalle non siamo sicuri di riconoscere una persona.

E quanto previsto accade: Dio pone Mosè in una fessura della roccia e gli passa davanti, coprendogli il volto con la mano e proclamando, nello stesso tempo, la propria gloria. La proclama, non gliela lascia vedere. La dice, anche se non lascia che la si veda in faccia. E questa gloria, la natura stessa di Dio, non è quella di un giudice giusto e severissimo, non è quella del creatore o del signore assoluto dell’universo. Il nome che Dio proclama di se stesso è: «A chi vorrò far grazia farò grazia e di chi vorrò aver misericordia avrò misericordia» (Es 33,19). Un Dio liberissimo, autonomo, che non rende conto a nessuno. Ma anche un volto che, nel proclamare la propria libertà, riesce a dirla soltanto in positivo: parla di grazia e misericordia, non di castigo. Ciò che si può dire di Dio è bontà, misericordia, salvezza. Peccato solo non poterne vedere il volto.

Quando Dio passa, toglie la mano, e Mosè può vederne le spalle.

Il senso del racconto

L’Antico Testamento molto spesso fa teologia raccontando storie. È quello che fa anche Gesù, con le sue parabole e i suoi discorsi. Dobbiamo quindi provare a capire se per caso questa pagina voglia dirci qualcosa su Dio. Data la domanda di Mosè, è molto probabile.

E ciò che il testo vuole dirci è nascosto tra le sue righe, anzi, forse non è neppure troppo nascosto, si lascia intuire bene.

Quante volte nella nostra vita capita che solo guardandoci indietro possiamo cogliere il valore di certi passaggi, di certe persone, di certi tempi di gioia o di fatica. Quando c’eravamo in mezzo, coglievamo, certo, il sudore che ci chiedevano, a volte persino anche il bene che ricevevamo, ma il valore pieno del tempo vissuto lo capiamo soltanto quando lo ripensiamo a distanza, dopo che è passato.

Guardando indietro possiamo forse anche intuire la presenza di Dio sulle pagine della nostra vita. Anche là dove ci sembrava di essere stati lasciati da soli.

Questo succede soprattutto per le questioni davvero importanti: è necessario che siano passate, che siano chiuse, per riuscire a tracciarne un bilancio e capire a che cosa ci sono servite. È guardando indietro ai tempi della nostra vita ormai sigillati che possiamo apprezzarne e valutarne fino in fondo il valore, cogliendo anche magari come Dio vi fosse all’opera. Ne vediamo le spalle: solo quando Dio è passato riusciamo a capire che c’era, che era con noi. Anche a Mosè è capitato lo stesso.

Chi vede Dio, muore?

Ecco allora la dimensione più profonda del rifiuto di Dio di mostrare il proprio volto a Mosè, di fargli vedere la sua gloria. Per cogliere la realtà autentica, completa, di Dio, occorrerebbe che la nostra storia con lui fosse ormai conclusa. Occorrerebbe, cioè, che la nostra relazione con lui fosse finita, oppure che la nostra vita sia ormai giunta alla fine. Quello che Dio afferma non è che chi lo vedesse, morirebbe, ma che per vederlo completamente, per capire fino alla fine ciò che ha fatto nella nostra vita, per cogliere il suo volto, occorre essere morti, bisogna che la nostra vita abbia detto tutto ciò che doveva dire. Oppure, che la nostra storia con Dio sia ormai conclusa.

Il messaggio divino a Mosè, ma anche ai lettori, è esattamente questo: per vedere Dio occorre essere morti, in quanto lui non ha nessuna intenzione di lasciare che la nostra storia insieme finisca prima. Finché non saremo arrivati alla fine dei nostri giorni, dice Dio, Lui continuerà a essere presente e parlare e camminare con noi. Quindi, non si può ancora vedere fino in fondo il suo volto, non si può tirare un bilancio della relazione con Lui.

Angelo Fracchia
(Esodo 17-continua)




Un Dio amuleto (Es 32)


L’episodio del «vitello d’oro», nel quale il popolo d’Israele si lascia trascinare dal fascino illusorio di un’alternativa alla promessa concreta e vitale di Dio, è notissimo. Per gli antichi lettori del Primo Testamento era l’esempio definitivo della tentazione dell’idolatria, tanto che sarebbe poi stato ripreso diverse volte in più contesti.

Anche per i lettori moderni continua a essere particolarmente significativo, purché si riesca a penetrarlo in profondità.

Per farlo, dobbiamo richiamare due attenzioni da mantenere mentre lo leggiamo.

Due eccessi

Ci sono infatti due rischi che corriamo quando ci confrontiamo con testi antichi, Bibbia compresa. Ne abbiamo già parlato in passato, ma vale la pena ritornarci.

1. Leggere solo con gli «occhi» del nostro tempo.

Il primo rischio è quello di leggere queste pagine come se fossero state scritte oggi. Potremmo allora scandalizzarci per espressioni o presentazioni del divino che, fortunatamente, ci risultano ormai eccessive, violente e fuori luogo. La lunga frequentazione tra Dio e uomini ci ha progressivamente abituati a conoscerlo meglio, e, nel tempo, a raffinarci anche nel raccontarlo. L’essenziale del messaggio biblico (la vicinanza divina all’umanità tutta, senza alcun tipo di preferenza se non per i più deboli e poveri) resta vero, anche se le forme cambiano.

E leggere di un Dio severo, vendicativo, che punisce, castiga e uccide, ormai ci disgusta. Ottimo. Significa che a forza di stare con Dio ci siamo sempre più umanizzati, anche se quelle presentazioni dure erano efficaci e interessanti per i lettori di quel tempo, e in fondo dicevano il coinvolgimento divino con la sorte degli uomini.

2. Spiegare tutto solo andando alle origini.

C’è però anche il rischio opposto, per il quale un po’ di colpa è dei biblisti. Consiste nel tentativo di spiegare tutti i particolari complicati di un testo a partire da ipotesi sull’origine dello stesso. Si immagina che all’inizio tutto fosse chiaro, ma che poi, un po’ alla volta, nelle successive copiature e redazioni, si siano infilati errori e sovrastrutture che hanno reso il brano incomprensibile. E si ritiene che per capire si debba tornare proprio ai testi più originali e antichi. Così facendo, però, ci si dimentica che gli ultimi redattori che hanno messo mano al libro hanno deciso che, nella forma attuale, il racconto era chiaramente comprensibile per i loro lettori.

Rientrano in questo rischio i tentativi di spiegare che la religione cananea, che gli ebrei si sono trovati di fronte quando sono entrati nella terra promessa, immaginava spesso un Dio invisibile seduto su un trono altrettanto invisibile il quale era sorretto da un vitello. Tale vitello, sostegno del trono di Dio, era spesso rappresentato nei templi con statue ricoperte d’oro o anche in oro massiccio (è consueto collegare l’oro alla divinità). Due vitelli di questo tipo sarebbero stati posti, in epoca storica, al confine settentrionale e meridionale del regno di Samaria, come si racconta nel capitolo 12 del primo libro dei Re (il versetto 28 sembra preso direttamente da questo capitolo 32: «Il re preparò due vitelli d’oro e disse al popolo: “Siete già saliti troppe volte a Gerusalemme! Ecco, Israele, i tuoi dei che ti hanno fatto salire dalla terra d’Egitto”»). Questa pagina potrebbe allora essere una polemica nei confronti di un culto che di per sé, a essere precisi, non venerava i vitelli come dei, ma pensava che costituissero la parte visibile del trono del Dio invisibile. C’è chi ha sostenuto, quindi, che probabilmente Es 32 non facesse parte originariamente del testo, ma sia stato aggiunto a posteriori. L’allusione ai vitelli d’oro di Geroboamo nel primo libro dei Re è troppo chiara per non essere stata voluta, ma non ci dice di preciso chi si sia ispirato a chi (ossia quale testo sia stato scritto prima, Es 32 o 1 Re 12?).

Questa e altre considerazioni sono possibili, a volte addirittura probabili, e non è per nulla insensato porsi queste domande. Ma per noi che meditiamo sul libro dell’Esodo, il capitolo 32 merita di essere letto per come è oggi, a prescindere dal fatto che possa essere stato inserito in una versione successiva. Tanto più che ci sta anche discretamente bene, acquistando un suo senso compiuto e pieno, il quale ha un valore anche per i lettori odierni.

Che cosa si racconta

Il popolo che il Signore ha fatto uscire dall’Egitto, che ha attraversato il deserto, che si è trovato a decidere se stare con Dio o no (Es 19,1-8), è ora sotto il monte. Sopra, è salito solo Mosè. Anche se non tutta la dinamica narrativa è chiarissima, l’impressione lasciata dal racconto è che Dio abbia già finito di spiegare a Mosè non solo il decalogo, scritto su due tavole di pietra (Es 31,18), ma anche le norme che regoleranno il culto del tempio.

Intanto, però, il tempo passa («quaranta giorni e quaranta notti»: Es 24,18) e nell’accampamento l’inquietudine cresce: «A Mosè, quell’uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto» (Es 32,1). Il popolo chiede quindi ad Aronne, fratello di «quell’uomo», di dare loro un nuovo dio. E per farlo Aronne impoverisce il suo popolo, togliendogli quelle ricchezze che erano state donate dagli egiziani (Es 12,35-36) fondendole per farne una statua.

Poi, presenta il vitello d’oro come «il tuo Dio, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto!» (32,4).

Come abbiamo già spiegato, c’è chi ritiene che, in qualche fase nell’evoluzione della religione ebraica, queste fossero forme religiose accettabili. In Es 32, però, il gesto è interpretato da Dio come un tentativo di esautorarlo, di dimenticarlo, al punto che propone a Mosè di dargli un altro popolo, distruggendo questo che era arrivato fino sotto al monte (v. 10).

Ed ecco che Mosè, quello stesso Mosè che in Es 4,13 aveva tentato di tirarsi fuori dal progetto di salvezza divina, di fronte all’idea di abbandonare i suoi compagni decide invece di reagire a Dio, e gli spiega che, se così facesse, verrebbe meno alla sua promessa e sarebbe schernito dagli egiziani stessi. È come se Mosè ricordasse a Dio la sua vocazione e la sua identità, cosa che può accadere solo se il rapporto tra i due è schietto e trasparente come tra amici.

Il primo incontro tra Mosè e il «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» era stato inevitabilmente segnato dalla distanza, dal timore magico, dalla solennità divina, quella stessa che si era mostrata nel mandare le piaghe all’Egitto, nel cammino attraverso il mare e il deserto. Quando però, in Es 19,1-8, Dio aveva tirato le somme, non aveva preteso l’ubbidienza di coloro che aveva salvato, ma aveva atteso la loro risposta libera, trattandoli alla pari.

Qui addirittura, come succede nelle relazioni umane più autentiche e profonde, è Mosè stesso a porsi, provvisoriamente, a un piano superiore, rimproverando il proprio Signore e richiamandolo a comportarsi da Dio, per non rinnegare se stesso. E «il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo» (32,14).

Solo a questo punto Mosè ritorna il violento e intransigente difensore della fedeltà a Dio, o addirittura del proprio ruolo: scende a valle, fa a pezzi e riduce in briciole il vitello, per poi scioglierlo in acqua e costringere tutti a berla (ecco che fine fanno le ricchezze portate via all’Egitto!), comanda uccisioni casuali (una violenza terribile che ripugna alla nostra sensibilità) e poi ritorna sul monte, invocando il perdono del popolo (32,30-32) e riscrivendo le tavole della legge. Per altri quaranta giorni e notti.

Libertà o smarrimento?

È come se il racconto, a questo punto, ci sveli i suoi contenuti, che sono in qualche modo risposta e completamento a ciò che si diceva nel capitolo 19. In quel testo Dio, dopo aver condotto il popolo fin lì, si rimetteva al loro giudizio e aspettava che gli dicessero se volevano davvero diventare la sua eredità tra le genti o no. Un atto nel quale la libertà umana veniva sopra a tutto.

Ma già all’uomo antico, come pure – e ancor più – a noi, poteva venire in mente l’idea che in fondo servire Dio era solo un’altra forma di schiavitù, dalla quale, invece, pensavano di essere stati liberati. Essere liberi non significa forse non avere padroni? E un Signore, per quanto divino, non è, appunto, un padrone?

Questo episodio in qualche modo risponde alla questione. Il popolo che recalcitrava, che aveva rimpianto le cipolle d’Egitto, che già aveva contestato tante volte Mosè, quando non lo vede tornare, non si sente finalmente libero, ma smarrito, e chiede che qualcuno lo guidi, che ne sia il capo. Non trovando nessun altro, decide di farsi un dio da sé. Questo dio, però, è solo una statua che non può parlare né udire né muoversi, che non può proteggerlo dai nemici, che non può custodirlo e accompagnarlo. In fondo è solo un dio piccolo piccolo, per restare sotto al quale occorre sdraiarsi, prostrarsi.

L’intuizione è quasi psicologica, pienamente moderna. L’essere umano ha bisogno di un «sopra di lui», ha bisogno di un trascendente che lo renda autenticamente pieno. Se non lo trova, se pensa di essere rimasto senza dio, se lo crea, si inventa qualcosa da servire: saranno i consumi domenicali, l’apparenza fisica, l’orgoglio di «appartenere» a una squadra sportiva (di solito senza scendere in campo), di fare parte del gruppo «giusto», di immaginarsi invidiati da altri per il patrimonio, per la macchina o il telefono nuovo, e tanto altro. Tutte passioni piccole, poco significative, che ci abbassano sotto la nostra dignità autentica. L’uomo lasciato senza nessuno sopra di sé, si costruisce qualcuno o qualcosa a cui obbedire, e gli si prostra davanti. Vivendo peggio.

Certo, il dio costruito dall’uomo ha il vantaggio di stare dove lo si mette, di essere prevedibile, «sicuro», di poter essere chiuso a chiave nelle proprie stanze. Il Dio che si è ricordato del suo popolo sofferente, invece, ama la libertà, non sopporta di essere ridotto a un amuleto, desidera essere amato e amare.

Acquista un pieno significato adesso una frase che Dio aveva apparentemente buttato lì durante il suo primo colloquio con Mosè. Alla richiesta di un segno che potesse renderlo credibile di fronte al popolo, il Signore aveva risposto: «Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte» (Es 3,12). Solo adesso sappiamo che quella di Mosè era stata una chiamata davvero divina. E lo sappiamo in quanto il popolo non serve più padroni umani, che lo costringeranno a sdraiarsi a terra, ma colui che l’uomo può contemplare restando ben dritto e con lo sguardo fisso al cielo. Perché è questo a segnare la differenza tra la schiavitù, vissuta per costrizione, e il servizio, liberamente scelto nei confronti di un «tu» autentico e pieno: il secondo è una scelta autonoma, a vantaggio di qualcuno che desidera essere amato. Chi si mette a servizio di colui che ama, non è schiavo.

Chi ha Dio per Signore, non avrà altri signori.

Angelo Fracchia
(Esodo 16 – continua)




Norme e precetti (Es 25-31; 35-39)


Si legge (e si è scritto anche qui) che il libro dell’Esodo è in fondo un percorso esistenziale di ingresso nella fede. È questo il motivo per cui rappresenta un testo ancora attualissimo e leggibile come un avvincente cammino umano, a patto di essere aiutati a capirne le modalità di espressione.

Ciò non toglie che, a prima vista, risulti ben difficile inserire in tale quadro i capitoli dal 25 al 39, fatto salvo il capitolo 32 che racconta l’episodio del vitello d’oro. Sono infatti pagine per noi estremamente noiose, nelle quali viene descritto con dovizia di particolari tutto ciò che riguarda il culto, a partire da come dovrà essere costruita la tenda del santuario, l’arca dell’alleanza, come dovranno essere i paramenti dei sacerdoti e così via. Noi facciamo fatica a capire come questi testi siano finiti in una vicenda per altri versi vivace e appassionante. Si tratta però di molti capitoli, circa un terzo del libro, e non si può quindi decidere di saltarli. Il nostro disagio forse tradisce il fatto che non li abbiamo capiti bene.

Uno sguardo alla struttura

Innanzi tutto, dobbiamo di nuovo ricordarci che ci troviamo davanti a un «libro» di circa 2.500 anni fa. È vero che continua a mostrare la sua modernità, in quanto parla di dinamiche umane che evidentemente non sono cambiate molto. Ma, nello stesso tempo, è scritto da autori che non potevano conoscere il romanzo moderno e che seguivano, invece, le convenzioni letterarie di quel tempo.

Qualcuna di queste convenzioni può risultarci utile per capire. Noi, infatti, siamo abituati a libri divisi in capitoli, paragrafi e capoversi (il «punto e a capo»), con elenchi numerati, con punteggiatura precisa e magari con l’uso di grassetto e corsivo. Tutti questi elementi della scrittura moderna, che ci aiutano a capire il procedere del discorso, nell’antichità non si usavano. Così come allora si faceva ricorso a «trucchi» ai quali noi non siamo più abituati. Possono sembrarci più complessi e meno chiari di quelli che usiamo noi, e in parte lo sono, ma non dobbiamo dimenticarci neanche che l’antichità aveva a disposizione molti meno testi scritti di noi e meno persone capaci di leggerli, il che significa che quelle poche affrontavano percorsi di alfabetizzazione più lunghi, e quindi anche più approfonditi e ricchi.

Principi di fondo

Per quello che ci interessa, può essere utile recuperare almeno tre principi di fondo.

a) Ciò che è più importante viene prima. Noi siamo abituati ad avere dei riepiloghi finali che sono spesso il cuore del discorso. Anzi, i libri gialli e le barzellette ci hanno abituato all’idea che fino all’ultima parola, potremmo non avere capito l’essenziale. Gli antichi, invece, tendevano a mettere riepiloghi e principi di fondo all’inizio. Certo, a volte c’era da seguire un ordine cronologico, ma anche in quel caso si inserivano all’inizio dei segnali per indicare che un determinato evento doveva essere considerato fondamentale, anche se narrato solo a un certo punto del percorso.

Per fare un esempio, quando nel libro dell’Esodo Dio dialoga per la prima volta con Mosè, gli dice anche che dopo l’uscita dall’Egitto gli israeliti lo avrebbero «servito su quel monte» (Es 3,12). Ovviamente il tema riemergerà solo al capitolo 19, ma intanto il lettore sa già che quell’aspetto è significativo.

b) Ciò che è più importante prende più spazio. Se ci pensiamo, lo fanno ancora i nostri maestri, che ritornano più volte sui concetti fondamentali, dilungandosi a presentarli anche se potrebbero farlo in mezzo minuto. Ma ciò che è esposto in mezzo minuto sarà più facile da dimenticare, mentre se di un’idea parlano per due ore, tutti se ne accorgeranno e la ricorderanno.

c) Si potrebbe ancora aggiungere un mezzo meno frequente, ma interessante per la lettura di questi capitoli: ciò che è inserito dentro a una «cornice» che lo inquadra, va interpretato all’interno di quel contesto. Ad esempio, Es 25-31 sembrano essere ripetuti in Es 35-39. Questo, tra l’altro, vuol dire che forniscono il contesto in cui dovranno essere interpretati i capitoli dal 32 al 34 (di cui ci occuperemo nelle prossime puntate).

Una vita concreta e organizzata

Cominciamo allora a trarre qualche conseguenza. Nei capitoli dal 25 al 31 di Esodo, Dio indica a Mosè come dovrà procedere a organizzare il tempio e il sacerdozio; nei capitoli dal 35 al 39, una buona parte di quelle indicazioni vengono ripetute per dire che Mosè ha fatto proprio come Dio gli aveva detto. Un doppione noiosissimo, diremmo (e, diremmo anche, a ragion veduta!). Al di là della noia, se riusciamo a leggere questi lunghi capitoli di spiegazioni minuziose e ripetitive alla luce dei tre principi spiegati sopra, possiamo darci la possibilità di capire qualcosa di importante: innanzitutto capiamo che la dimensione normativa e rituale della vita di fede, per il popolo uscito dall’Egitto è fondamentale. Questi testi occupano infatti un terzo del libro dell’Esodo.

Poi capiamo anche che, arrivando alla fine del libro, questi capitoli non rappresentano quelli più importanti. Di questi materiali, infatti, non si era offerta alcuna anticipazione nei capitoli precedenti, il che significa che non sono essenziali. L’aspetto rituale, liturgico, è importante e significativo, ma non è il cuore del discorso né il primo mattone.

Se l’Esodo fosse stato scritto oggi, questi capitoli sarebbero riassunti in qualche annotazione esplicita (come queste mie) o con qualche nota a piè di pagina. Gli antichi però non usavano le note e non erano abituati a spiegare il senso di ciò che narravano.

Chi leggeva, però, avrebbe perfettamente compreso che cosa significava concedere tanto spazio a questi temi e allo stesso tempo porli alla fine.

Il senso della concretezza

Iniziamo a cogliere allora che cosa gli autori del libro volevano che si capisse e ciò che probabilmente i lettori avrebbero intuito con relativa facilità.

Il percorso di fede tracciato dal libro si è finora giocato moltissimo sulle dinamiche personali e spirituali. Dalla liberazione dall’oppressione si è giunti alla percezione che era necessario fidarsi di una parola promettente, per poi decidere di legarsi definitivamente a questa presenza (Es 19).

Tutte dinamiche, diremmo, quasi psicologiche, sicuramente interiori. È vero che le scelte comportano anche delle decisioni concrete (dall’Egitto bisogna partire, dentro al mare occorre entrare…), ma queste restano occasionali e secondarie.

Giunti a questo punto del percorso, però, gli autori segnalano che la concretezza della vita può anche essere secondaria rispetto alla fiducia e alla decisione di abbracciare la relazione con Dio, ma non può essere trascurata. Siamo fatti anche di materia, di azioni e di abitudini.

Riprendendo un paragone che abbiamo già fatto, è una dinamica che ricorda la vita insieme di due persone che si amano. A tenerli insieme non sono delle regole, ma l’affetto reciproco, che però deve farsi anche pratico, stabilendo chi cucina, chi fa la spesa, chi pulisce, chi paga le bollette. Sono questioni senza dubbio secondarie, meno fondamentali dell’ispirazione di partenza, ma non possono essere tralasciate. La vita reale passa dal rendere concrete le intuizioni più profonde.

I contenuti

In particolare, il testo di questi capitoli si concentra sugli arredi del santuario (Es 25; 37), sulla sua architettura (Es 26-27; 36,8-38 e poi ancora il capitolo 38), sui sacerdoti (28-29; 39) e infine sugli strumenti al servizio della mediazione tra Dio e gli uomini (l’altare degli incensi, il propiziatorio, il tributo per il tempio, il bacile d’acqua, l’olio per l’unzione, l’incenso, il sabato, le tavole: Es 30-31; 34,29; 35; 38,8.21.24-31).

Nell’insieme delle indicazioni a volte molto minuziose, può essere utile riprendere almeno alcuni elementi.

a) Le differenze. Di solito, quello che è presentato nei capitoli 25-31 è ripreso quasi alla lettera in 35-39. In Es 25,1-7, però, si illustra il materiale necessario per il tempio, che in 35,4-29 è ripresentato in modo nettamente più articolato. Così, l’olio per i candelabri di cui si parla in Es 27,20-21 non trova paralleli nei capitoli successivi, dedicati all’attuazione del progetto.

È interessante che, pur nel contesto di una ripetizione completa e precisa delle indicazioni, per sottolineare che Mosè attua realmente ciò che Dio gli chiede, si ammetta che tuttavia non si dà una corrispondenza perfetta.
La realtà non coincide totalmente con il progetto divino,
che nessuna situazione umana adempierà pienamente.

Anche se la chiesa cristiana o il popolo ebraico tenteranno, in buona coscienza, di pensarsi come la realizzazione precisa dell’intenzione divina, esisterà sempre una differenza di cui tutti devono essere consapevoli. La pienezza del regno divino è sempre oltre ciò che l’uomo potrà costruire nella storia.

b) Un Dio presente e vigilante.

In Es 25,23-30; 37,10-16 si presenta quella che, nella tradizione religiosa non solo d’Israele, era concepita come «la stanza di Dio». Anche Israele, infatti, nell’immaginare il suo rapporto con Dio, copia le modalità che erano consuete tra i popoli che vivevano intorno a lui. Queste prevedevano di preparare alla divinità un ambiente in cui vivere, comprensivo di una tavola per pranzare, a volte strumenti per le diverse attività (arco e frecce, mattoni per gli dèi costruttori…), un letto in cui dormire. Ebbene, in questa presentazione dell’Esodo, di letto non si parla mai, né di strumenti di lavoro. L’unica a essere presente è una tavola, con un rimando al nutrimento che spesso, nel contesto del tempio, punta sui «sacrifici di comunione» (cfr. Lv 7, ad esempio), nei quali l’animale sacrificato era mangiato in parte da chi presentava l’offerta, in parte bruciato sull’altare, come se fosse Dio a cibarsene. Si immaginava, cioè, un banchetto in cui Dio era un commensale. Vale a dire che l’unico elemento che si ritiene di evidenziare è l’intenzione divina di vivere la comunione con i suoi fedeli. Per il resto, il Dio d’Israele non dormirà (cfr. Sal 121,4).

c) Tenda, non reggia. In Es 25,8 si presenta il santuario come «residenza» divina. Il termine utilizzato rimanda alle tende dei nomadi, una dimora preziosa ma non stabile, non fissa. Si suggerisce da subito che essenziale per Dio non è un luogo dove stare, una reggia, ma il poter risiedere insieme al suo popolo. Dal tempio potrà anche fuggire, ma essenziale è la comunione con i suoi fedeli.

d) Partecipazione attiva di tutti. In Es 31,1-11; 35,30-36,7; 38,21-23 si presenta la costruzione e abbellimento del tempio. Potrebbe stupire che non si dica che sia Dio a costruirlo, né Mosè ad eseguire l’ordine divino, bensì i «costruttori», dotati da Dio delle competenze necessarie. La relazione tra Dio e Mosè è privilegiata, ma si coglie sempre che i talenti e i doni di ognuno meritano di essere lasciati liberi di esprimersi, e che il rapporto tra gli uomini e il divino non sopporta di passare solo da pochi eletti. Non è Mosè e neppure Dio a fare tutto, ma ciò che accadrà sarà possibile solo per l’intervento attivo e variegato di ogni fedele.

Angelo Fracchia
(Esodo 15 – continua)




Un luogo dove vivere (Es 23,20-24,18)


Il libro dell’Esodo è il racconto dell’uscita d’Israele dalla «casa di schiavitù», dall’Egitto, per diventare un popolo libero. Esso ci mostra che per ottenere tale libertà, non basta essere liberati dall’oppressore, come si scopre strada facendo. Dio, dopo aver portato il popolo nel deserto, gli ha proposto un legame personale definitivo, «sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo» (la citazione è di Lv 26,12, ma è il senso di Es 19,5-6). Questo legame, che in qualche modo era regolamentato dal decalogo, è stato ripreso e chiarito in modalità che ora vederemo e che ci permetteranno di evidenziare alcuni elementi importanti. Oltre a una terra da cui uscire, infatti, c’era anche bisogno di una terra in cui vivere, e questa è stata promessa, anche se la promessa non riguarda solo la terra, ma allude a tante altre cose.

Un angelo davanti a te (Es 23,20)

«Se ci fosse Dio» è una frase che abbiamo sentito o ci siamo trovati a pensare molte volte. Molto spesso, la frase esprime quello che noi pensiamo che faremmo se fossimo noi Dio. Si tratta di una tentazione, a cui, in qualche modo, questo testo risponde: «Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato».

Dio promette che un «messaggero» (questo è il significato della parola «angelo») condurrà il popolo nella terra promessa. A chi si deve pensare? A un essere invisibile, non umano? A un intervento miracoloso? Nel Primo Testamento si parla spesso di «angeli», ma sembra sempre un modo per indicare l’intervento divino senza nominare Dio apertamente. Quasi mai leggiamo di interventi «magici» che risolvono le questioni. Normalmente gli uomini devono mettersi in gioco, conquistarsi la fiducia, interpretare e rischiare.

Sembra, insomma, che l’«angelo» di cui si parla sia un uomo. E non sembra che questi sia Mosè, altrimenti non verrebbe usato il futuro (peraltro, Mosè non arriverà nella terra promessa).

Dio invita il popolo ad avere fiducia: Lui interverrà. Ma non lo farà direttamente, bensì attraverso persone, delle quali bisognerà vagliare l’affidabilità, decidere se sono degne di fiducia.

È la presentazione della vita umana che non offre certezze ma invita a mettersi in gioco anche soltanto per valutare di chi fidarsi.

In tutta la storia dell’umanità occorre aspettarsi che Dio intervenga tramite persone umane che però potrebbero essere ingannevoli. Bisognerà, quindi, continuamente mettersi in gioco, cercare di capire, scommettere, fidarsi.

Il sogno di un legame

Il modo con cui Dio immagina la relazione con il suo popolo sembra davvero sognante: «Terrò lontana da te la malattia, non ci sarà donna che abortisce o sterile, ti farò giungere al numero completo dei tuoi giorni» (Es 20,25). Nell’originale ebraico tante parole sono tipiche della poesia, non di un trattato legale.

Il motivo si può cogliere nell’insistenza con cui Dio chiede che il popolo gli sia fedele, senza volgersi ad altri dèi.

Il richiamo alla fedeltà e il tono poetico (poco adatto a un trattato legale) ci possono fare avvicinare all’interpretazione più verosimile del passo: Dio non sta firmando un contratto, ma sta impegnandosi in un legame. Il paragone più vicino non è l’acquisto di una casa, ma un matrimonio. Dio sogna di essere amato, di vivere sempre insieme al suo popolo. Non è un legame di convenienza, ma di amore.

Ecco perché il testo insiste sul tenersi lontano dall’idolatria, sulla gelosia divina. L’immagine è precisa: Dio non vuole altri, perché è innamorato del suo popolo. Lo lega in un rapporto alla pari, perché lo ama. Con l’umanità non stipula un contratto di assicurazione, ma un legame di cuore per sempre, come uno sposo che sogna la sua vita insieme all’amata.

L’espulsione degli altri

Se da un lato Dio chiede al popolo di discernere chi sono i suoi angeli e di fidarsi di loro, da parte sua, sembra impegnarsi a scacciare chi occupa la terra che gli è destinata. Lo fa con attenzioni graduali e sorprendenti, affinché i nuovi occupanti non trovino poi una terra desolata e invasa da bestie selvatiche (23,29-30).

La nostra sensibilità moderna si stupisce e scandalizza: perché la salvezza di un popolo deve significare la morte o l’espulsione di altri?

Una prima risposta ha la sua radice nella mentalità semitica antica. Per quella cultura, chi si impegna in un compito deve innanzitutto dimostrare di esserne capace, di esserne all’altezza. Dio non può promettere agli ebrei che vivranno nella terra destinata a loro, se non è capace di fare piazza pulita di chi ci abita adesso. Noi amiamo vedere delicatezza e dolcezza, persino commozione e fragilità, anche nei potenti; la cultura che scrive queste righe, invece, voleva che il garante assicurasse di avere la forza necessaria per garantire.

Ma poi, strisciante, si insinua un’altra spiegazione appena andiamo a indagare più da vicino i nomi degli espulsi. In Gen 10,15-18 e 1Cr 1,13-16 troviamo elenchi più ampli, che arrivano a una dozzina di popolazioni. Qui ne troviamo «solo» tre, che ci lasciano un po’ perplessi: degli Ittiti sappiamo tanto, compreso il fatto che non si sono mai stabiliti in Palestina; i Cananei, invece, resteranno nella terra anche secoli dopo l’insediamento ebraico, continuando, soprattutto al Nord, a essere i vicini di casa, a volte più tollerati e a volte più odiati. Gli Evei, stranamente, non hanno lasciato alcuna traccia di sé se non in questi elenchi. Quando andiamo a controllare anche le liste più ampie, troviamo di nuovo popolazioni che avrebbero continuato a vivere insieme agli ebrei per lunghi secoli (Amorrei, Gebusei, Aramei) oppure altre di cui non abbiamo traccia se non in questi elenchi (Gergesei, Architi, Sinei, Semariti, Amatiti).

Agli archeologi e biblisti, dopo lunghe analisi, è venuto il sospetto che i nomi delle popolazioni che non hanno lasciato traccia di sé (in un territorio piccolo e arido come quello della Palestina) siano forse stati inventati. Come se Dio, innamorato del suo popolo, abbia esagerato il numero delle alternative a cui aveva rinunciato per la sua unica amata.

Non ci sembri irrispettoso. A noi pare che nella Bibbia debba trovare spazio solo ciò che è rigorosamente storico, secondo i nostri criteri moderni. Ma la storia, di fatto, ci dice che gli ebrei si infiltrarono quasi di soppiatto nella terra di Canaan, senza cancellare chi ci viveva già prima. In realtà questi testi che stiamo considerando sembrano più scritti poetici e retorici, che documenti storici. Storiograficamente potremmo ritenere falsa questa presentazione delle popolazioni scacciate, e considerarla invece come un tenero tentativo di ribadire al popolo d’Israele quanto il suo Dio ne è innamorato. Nel genere del canto d’amore, i particolari possono essere inventati, il contenuto di affetto, no.

Sul monte

Normalmente solo Mosè parlava con Dio, come ripete anche Esodo 24,2: «solo Mosè si avvicinerà al Signore». Di fatto, però, salgono sul monte anche Aronne, Nadab, Abiu e settanta anziani (24,9). E il loro messaggio sarà poi trasmesso a tutto il popolo.

Se è vero che, riprendendo anche l’umanissima tradizione della lontananza di Dio dall’umano, Esodo immagina che l’uomo non possa avvicinarsi al Signore senza morire (Es 20,19), qui però un’ampia rappresentanza del popolo lo incontra senza conseguenze (24,10-11). Da una parte Dio rimarca la sua distanza e alterità rispetto al mondo, dall’altra vuole incontrarsi con i suoi, e non sopporta di tenerli lontani o fare loro del male.

Sempre di più il comportamento di Dio si mostra comprensibile e affascinante se lo pensiamo diverso da un assicuratore, un legislatore o un condottiero, se lo vediamo come un innamorato che vuole mantenere la propria distanza e dignità ma, nello stesso tempo, e molto di più, non vuole in alcun modo perdere o fare del male al suo amato popolo.

Un’alleanza

In diverse occasioni, nel Primo Testamento, Dio viene ritratto nel gesto di stringere un’alleanza con gli uomini (Gn 6,18; 9,9-17; 15; 17,2-21; Es 6,4-5 …). In tutte queste situazioni il modello di alleanza è quello paritario. Dio, cioè, non stringe un patto con gli uomini tenendoli in condizione subalterna, come fossero dei sudditi.

Spesso noi non riusciamo a cogliere tutti i sottintesi di riti antichi che sicuramente erano meglio noti ai primi lettori dell’Esodo di venticinque secoli fa, ma qualcosa capiamo lo stesso. Il sangue, ad esempio, è simbolo della vita e dice la serietà del patto: idealmente, chi lo viola sarà tenuto a effondere il sangue proprio, in punizione. Ma è interessante che (in Es 24,6-8) il sangue venga sparso mezzo sul popolo e mezzo sull’altare: Dio non si tira fuori, non si ritiene superiore, anzi, minaccia anche se stesso di vendetta e punizione se violerà l’accordo.

I riti di iniziazione spesso calcano la mano sul rischio di morte, perché l’accordo è questione importante che va presa sul serio: questo vale anche, simbolicamente, nell’iniziazione cristiana, come si intuisce dal fatto che in greco il verbo «battezzare» significava «affogare». Qui, però, Dio si mette in gioco allo stesso modo: la sua natura è diversa da quella dell’uomo, ma lui accetta di «scendere» al livello umano, per un accordo che sia di vera reciprocità.

È significativo il fatto che non riusciamo a capire con precisione quale sia il contenuto di questa alleanza: è il decalogo (Es 20,1-17)? È il corpo legale più ampio (Es 20,22-23,19)? È qualcos’altro che non ci viene raccontato?

Cose da innamorati

Sembrerebbe che il cuore dell’accordo sia l’accordo stesso. Come, di nuovo, tra innamorati, a Dio pare interessare soprattutto stringere un accordo alla pari con un popolo di cui è innamorato. I contenuti dell’accordo sembrano secondari e riformabili (Dio li riformerà tante volte lungo la storia). Quello che non cambia pare essere solo la sua intenzione di continuare a relazionarsi con l’essere umano.

Si direbbe quasi che la vera terra che Dio promette è la relazione tra sé e l’uomo, tramite il popolo ebraico.

Un innamorato che fantastichi di vivere con la sua amata in una bella casetta solitaria sui monti, vivendo di allevamento e scaldandosi a legna, quando poi si trovasse a vivere in un appartamento con riscaldamento centralizzato e lavoro d’ufficio, potrebbe ritenere di avere compiuto il proprio sogno comunque: il sogno infatti è quello di vivere con la propria amata, non i dettagli del modo in cui vivere insieme.

E Dio sembra essere interessato soprattutto, o meglio solo, a continuare a vivere con il suo popolo. L’unico ostacolo immaginabile a tale sogno è il (possibile) rifiuto del popolo ad accogliere la piena comunione di vita con lui.

Angelo Fracchia
(Esodo 14 – continua)




Vivere di Dio (Es 20,18-23,19)


Il decalogo (Es 20,1-17) non è il riassunto o la conclusione della legge, ma semmai il suo sfondo, quasi la sua «costituzione». Evidentemente, però, le leggi non possono esaurirsi in una presentazione profonda e sintetica (quasi solo dei titoli), ma poco dettagliata. E in effetti il libro dell’Esodo fa seguire le dieci parole da quasi tre capitoli di regole più specifiche e precise, che possono tuttavia causarci qualche problema, anche se, secondo alcuni, essi sono solo il primo commento e applicazione dei «comandamenti».

La prima raccolta di leggi ebraiche

Le nuove parole divine, che iniziano in Es 20,22, sono estremamente concrete, puntano a regolamentare una vita reale, quindi una vita ambientata in un tempo storico preciso. Ecco perché, ad esempio, non solo accettano l’inferiorità della donna nei confronti dell’uomo e anche la schiavitù (che nei tempi biblici non vediamo mai sparire), ma danno anche per scontato che il tempio non sia uno solo, e ve ne sia, invece, uno in ogni cittadina o addirittura in ogni casa (cfr. 21,6). Questo è un tema che diventerà fondamentale nel libro del Deuteronomio. In questi capitoli abbiamo, quindi, una raccolta di leggi e norme piuttosto antica, che tradisce il suo essere nata in un contesto contadino arcaico.

In questa raccolta si parte dalle questioni riguardanti il culto (20,23-28) per poi passare ad alcune regole sugli schiavi (21,1-8) e sulle donne (21,6-11, con una certa sovrapposizione dei temi), per poi giungere ai casi di omicidio e lesioni fisiche (21,12-36), anche qualora a perpetrarle siano animali, tanto che, per affinità di tema, si arriva a contemplare il caso di furto di bestiame (21,37). A sua volta, quest’ultimo argomento porta l’attenzione più generale sulla tutela delle proprietà (22,1-14). Quindi, si prende in carico la difesa dei deboli (22,15-26) e di Dio (22,19.27-30). Si passa poi a diverse norme relative al rapporto con il prossimo, anche nel caso della gestione di animali (23,1-9), e, infine, nuovamente, a questioni religiose: l’anno sabbatico (23,10-12) e alcune feste (23,13-19).

Il tutto si chiude rinnovando la garanzia dell’assistenza permanente da parte di Dio (23,20-33), che lega il nostro brano con ciò che segue e che analizzeremo con più calma nella prossima puntata.

Alcuni casi particolari

Omicidio. Può essere interessante riprendere in particolare alcune delle norme inserite in questi capitoli.

Si stabilisce, ad esempio, che chi uccide un uomo vada messo a morte (21,12-14), anche se questi può rifugiarsi in alcune città specifiche, qualora l’omicidio non sia intenzionale (21,13; cfr. Nm 35; Gs 21). Qui l’omicida non può essere arrestato, sempre che non abbia ucciso con inganno, nel qual caso può anche essere strappato via dall’altare del tempio dove si è rifugiato (Es 21,14). Il senso generale pare abbastanza chiaro: la tutela della vita è qualcosa di imprescindibile (cfr. Gen 9,5), al punto che persino quando l’omicidio non è intenzionale, va perseguito. Nello stesso tempo, occorre prevedere delle vie di scampo legittime per chi davvero non ha cercato la morte del fratello. La vita è sacra al di là di ogni intenzione omicida, ma anche la vita dell’omicida è da tutelare.

Questa raccolta di leggi recupera poi anche la norma del taglione, «occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede…» (21,21). Questa consuetudine, che a noi oggi sembra crudele, era in origine un limite alle faide e a vendette sproporzionate. Come vedremo tra poco, non dobbiamo dimenticarci che si tratta di regole antiche, che sarebbero state superate già durante l’elaborazione del Primo Testamento.

Donne e spose. È questo contesto arcaico a spiegare anche norme che oggi, fortunatamente, ci paiono disumane e insensate, come quella che equipara sostanzialmente una donna vergine al valore economico che ha per la sua famiglia nel caso che la sua verginità sia violata prima del matrimonio (cfr. Es 22,15-16): si parla di rimborsi, come fosse un costo che lo sposo o il violatore deve pareggiare. Il contesto culturale era quello, incapace di cogliere nella giovane una persona, autonoma e sensibile, benché questa dimensione sia poi pienamente colta in Gen 1-2, testi che vengono scritti probabilmente secoli dopo.

Maghe. Questo stesso spirito «arcaico» si muove nelle condanne a morte delle maghe (22,17) e di chi compie atti di bestialità (22,18). Il motivo di punizioni così gravi è probabilmente da identificare in ragioni religiose: in Egitto si veneravano diversi animali come dèi, e il rapporto con il Dio d’Israele non sopporta manipolazioni magiche, che non coinvolgono la persona ma che lasciano intendere che di Dio ci si possa servire come di uno strumento.

Anno sabbatico. Peraltro, non abbiamo certezze che queste misure così dure siano mai state applicate, così come è rimasto sempre un bel progetto mai applicato quello dell’anno sabbatico (23,10-11). Succede anche a noi oggi, quando offriamo il racconto della nostra vita, e certamente accadeva per i testi biblici, di descrivere come una realtà quello che invece era un desiderio o un progetto che ritenevamo giusto e bello da realizzare. Sono incoerenze che da una parte dicono il limite umano nel non riuscire a tradurre in realtà ciò che è solo ideale, e dall’altra mostrano la capacità di cogliere con onestà che l’ideale è altro rispetto a ciò che si fa.

Il senso nel contesto

Qual è il senso di questi capitoli, allora?

La prima impressione che proviamo di fronte a questi testi è quella di un certo straniamento. Essi sembrano incoerenti con il contesto degli altri capitoli.

Fino a ora, infatti, il libro dell’Esodo ha presentato un poderoso cammino di fede, sia pure in modi e forme narrative inconsuete per noi. Un percorso di approfondimento nella conoscenza e nell’intimità con Dio, nella fiducia in un Signore che si prende carico delle vite umane.

Lo stesso decalogo, come abbiamo visto, lungi dall’essere un elenco di regole, è quasi un manuale d’istruzioni per l’esistenza, criteri di fondo per poter vivere una vita bella e piena.

Qui, invece, improvvisamente, ci troviamo in un testo arido, formale, legalista, che ci parrebbe completamente fuori luogo in un libro tanto ricco.

L’intuizione spirituale antichissima che lo ispira, però, è che i moti profondi dello spirito esigono di essere tradotti in misure pratiche. Una coppia che inizi una vita insieme dovrà mettersi d’accordo su chi fa la spesa, chi cucina, chi pulisce, chi pensa alla posta e alle bollette: tutti questi accordi pratici non sono la ragione per cui si sta insieme, ma la incarnano. Si vive insieme per amore, per dedizione reciproca, cosa che ha un valore spirituale profondissimo, ma che si deve concretizzare in scelte pratiche e minute. Anzi, si dovrebbe addirittura dire che proprio perché ha un valore spirituale profondo si incarna in scelte pratiche.

Il mondo cristiano dovrebbe essere consapevole che non si dà conoscenza di Dio se non nell’umano, non si vive di spirito se non nella carne, non si rende reale un’intuizione dell’animo se non dentro al corpo: anche di questo parla l’incarnazione del Verbo. Ma qui intuiamo che tale percezione profonda era già presente negli autori antichi, che hanno contribuito a formare il Primo Testamento.

Una fede incarnata

Se si vuole essere fedeli al Dio creatore e salvatore, occorre iniziare dal rispetto di norme esteriori e poco importanti in sé, ma che incarnano scelte di vita e di fede fondamentali. Anche riportare al padrone un bue smarrito (Es 23,4) è uno dei tanti modi concreti con cui esprimere la propria fede nel Dio liberatore che ha fatto uscire il popolo dall’Egitto. In questo senso, tutte le norme elencate nei capitoli dal 20 al 23, norme che non sono sicuramente centrali, costituiscono tuttavia la conseguenza pratica dell’adesione all’alleanza.

Per tornare all’esempio della vita di coppia, non è tanto importante chi porti fuori da casa la spazzatura, ma che in quel gesto molto semplice si ribadisce l’intenzione di tenere in piedi e rendere viva un’unione spirituale decisa tempo prima. Il gesto in sé può essere trascurabile, ma è espressione di amore.

Ecco perché queste norme, sicuramente datate e limitate, vengono inserite nella Bibbia, e in una posizione importante. Che non siano regole eterne è dimostrato dal fatto che verranno riprese e modificate almeno altre due volte (nel «codice deuteronomico», Dt 12-26, e nella «legge di santità», Lv 17-26). Qualunque interpretazione letterale di queste norme («Bisogna fare così perché nella Bibbia è scritto così») è una forma di integralismo che non tiene conto del fatto che agli stessi problemi la Bibbia ha risposto nel tempo con leggi diverse incarnate in nuovi contesti di vita.

Detto questo, però, ci è utile capire che nel contesto e nel tempo in cui sono state formulate, quelle regole erano il modo preciso con cui accogliere l’alleanza con Dio. Mantengono un valore autentico di «parola di Dio» per lo spirito profondo che le abita, anche se la lettera è superata dal tempo.

È anche per questo motivo che tali leggi possono, in fondo, restare incompiute. Non è neppure lontanamente ipotizzabile che questo «corpo legale» possa regolamentare la vita di una società intera. Di fatto, si riprendono soltanto alcune questioni, e forse neppure le più importanti.

Non sappiamo se la società ebraica avesse prodotto raccolte di leggi complete (se l’ha fatto, non ci sono arrivate). A chi ha redatto l’Esodo, di certo, questo non importava: bastavano alcuni esempi, non esaustivi, che ricordassero a tutti i fedeli che i grandi moti dell’anima esigono una traduzione corporea.

Al centro c’è l’essere umano

Queste regole incomplete sono attraversate comunque da un’attenzione che era già presente nel decalogo e che è diffusa in tutto il Primo Testamento: ciò che sta a cuore a Dio è la vita dell’uomo.

Possiamo infatti notare che per alcune colpe si prevede addirittura la pena di morte, per altre delle sanzioni che sembrano delle semplici multe. E quasi sempre la pena di morte è prevista per chi ha ucciso altri esseri umani. Per chi ha rubato o danneggiato i beni altrui, sono previste anche pene importanti, ma sempre senza andare a toccare la vita.

Questi capitoli suggeriscono che i beni, il buon nome delle persone, le stesse norme liturgiche, sono tutte cose importanti, ma per Dio lo sono meno della vita delle sue creature. L’essere umano viene prima di tutto, anche prima della legge divina. Questa intuizione, in forme diversissime tra di loro, attraversa tutta la Bibbia. Mai il Dio che impone delle regole si mostra più interessato al rispetto di queste piuttosto che all’esistenza autentica delle persone.

È un’attenzione che si coglie tra le righe in diverse norme: ad esempio, si prevede un limite al tempo in cui uno schiavo può restare tale (21,2-4), salvo che sia lui a non voler essere liberato (21,5-6); una ragazza può essere anche venduta schiava, ma va trattata quasi fosse una moglie (21,7-11); e sono originali e commoventi, nel contesto del Vicino Oriente Antico, le norme che vanno a proteggere orfani, vedove e forestieri, ossia coloro che, in quel mondo culturale, basato sul clan, non avrebbero avuto nessuno che li proteggesse (22,20-23). Alla base di tutto non c’è la gestione ordinata di una società, magari, come spesso succede, allo scopo di tutelare ricchi e potenti, quanto l’attenzione paterna nei confronti di ogni singolo essere umano.

Il rispetto dell’alleanza con Dio comporta insomma di intraprendere percorsi concreti tramite i quali esprimere la scelta religiosa di fondo. Percorsi che sono situati in un tempo e in un contesto, che invecchieranno e saranno superati, ma che continuano a indicare un modo possibile con cui accogliere e rispondere con coerenza all’amore di Dio Padre. Ecco perché il loro valore materiale decade, ma quello spirituale dura sempre, e vengono inseriti nel libro dell’Esodo.

Angelo Fracchia
(Esodo 13 – continua)




Decalogo: istruzioni per vivere (Es 20,1-17)


Solo dopo che il popolo ha affermato di voler vivere insieme al suo Dio, riconosciuto come Signore (Es 19,8), riceve la legge: una sorta di sintesi scritta di ciò che Dio si aspetta dai suoi: un documento che si apre con un testo assolutamente centrale per la vita del popolo, tanto è vero che verrà citato da Gesù (Mc 10,19; Lc 18,20), da san Paolo (Rom 13,9) e addirittura ripreso quasi alla lettera in un altro brano del Primo Testamento (in Dt 5,6-21). Non è frequente che due passi biblici siano uguali: il Deuteronomio riprende la rivelazione e la ridice in un altro modo, ma quando arriva al Decalogo preferisce usare quasi le stesse parole, salvo pochi cambiamenti. Uno scrittore che si comportava così, nell’antichità, lasciava intendere che non si sarebbe potuto riscrivere meglio il testo, che restava quindi intatto. Non è un plagio, è un omaggio.

Un modello di morale?

Nella tradizione ebraica e cristiana il Decalogo è diventato la sintesi delle norme morali, da insegnare al catechismo e da utilizzare per l’esame di coscienza. L’impressione era, infatti, che raccogliesse tutto ciò che Dio «comandava» agli esseri umani. Intorno al Decalogo si è spesso strutturata la morale. Esso è servito come strumento d’ordine di tutti i doveri e i divieti, religiosi e non, a volte elaborati anche al di là del suo stretto contenuto.

Una lettura un po’ attenta ci aiuta però ad accorgerci che dentro al testo del Dealogo c’è qualcos’altro. Qualcosa di più prezioso di un codice di comportamento etico.

Nelle nostre presentazioni del Decalogo spesso si parla di due parti (d’altronde, Es 34,29 parla di due tavole di pietra), una prima riguardante le relazioni con Dio, che coprono tre comandi, e l’altra sui rapporti con gli altri uomini. Nei secoli di elaborazione da parte della Chiesa, poi, gli ultimi comandamenti hanno finito con l’essere molto ampliati (a essere onesti soprattutto il sesto) dando l’impressione che essi avessero un peso maggiore. Possiamo però notare che nell’antichità, lo scrittore faceva come oggi fanno spesso gli insegnanti: dava maggiore spazio a ciò che riteneva più importante, a costo di ripetersi. Possiamo allora notare che ai primi tre comandamenti nel testo dell’Esodo sono dedicati dieci versetti, per un totale di 134 parole (in ebraico), mentre gli altri sette coprono nove versetti, ma solo 44 parole. La prima parte, insomma, è decisamente più ampia, perché evidentemente chi l’ha scritta la considerava molto più importante.

Ma anche un altro particolare ci stimola a ripensare il senso del Decalogo. La prima affermazione del testo, infatti, può sembrare strana per un elenco di norme (Es 20,2: «Io sono il Signore, tuo Dio»): non ordina niente. Sembra piuttosto una presentazione, quasi una premessa, in cui Dio spiega chi è. In effetti le tradizioni catechistiche l’hanno trattata come un’introduzione, che però nel testo è un’altra, al versetto 1 («Dio pronunciò tutte queste parole:»). In più, si tratta di un’autopresentazione ampia, in cui Dio si definisce con il suo nome proprio, poi aggiunge che si tratta del «tuo Dio», precisando di essere colui che ha fatto uscire il popolo dalla terra d’Egitto, «dalla condizione servile». Non si tratta semplicemente di una carta d’identità, ma della spiegazione della relazione che lo lega a Israele. E questa relazione è di salvezza, di liberazione, di legame interiore con qualcosa di nuovo. «Io sono il tuo Dio»: tu hai un Dio, non sei abbandonato, non sei solo, non rimani senza custodia e accompagnamento. Pensavi di essere solo, ma non lo sei; di più, hai accanto a te un Dio, che è tuo.

Un’intuizione e le sue conseguenze

Se lo ripensiamo così, il Decalogo acquisisce subito un’intonazione diversa. Non si tratta più di dover rispettare delle regole, magari specificando quali punizioni o conseguenze ci saranno per i trasgressori. Si tratta invece, come intuizione di partenza, di renderci conto che non siamo soli.

Israele, questo popolo che ancora non ha scoperto di essere un popolo, ha un Dio. E non nel senso che abbia qualcuno da venerare, per il quale faticare, a cui presentare offerte. Ha un Dio perché colui che lo lega a sé lo ha già liberato, lo ha fatto uscire dall’Egitto che era una terra di schiavitù.

Quella che ci sembrava una pallida introduzione ai comandamenti, è in realtà il cuore pulsante di tutta questa pagina: il popolo ebraico, e chiunque vorrà mettersi su quella strada, non è solo. Non siamo soli. C’è un Dio pronto a mettersi dalla nostra parte e a muoversi per primo, rendendoci liberi. Perché non è un Dio che cerchi schiavi, ma persone autonome che decidano di legarsi a lui non per costrizione ma per amore, non servi ma amici, o addirittura sposi (cfr. Os 2,21-22; Is 61,10-11; Ez 23; Gv 15,15).

Al primo versetto del nostro testo, Dio si presenta al suo popolo, ma per presentarsi non usa una definizione filosofica, non dice «Io sono l’essere perfettissimo…». Al contrario, si presenta in relazione: «Io sono il tuo Dio, io ti ho fatto uscire dall’Egitto». Non si presenta in astratto, ma in rapporto con coloro con cui parla. Non è l’amore, è l’amante.

Letta così, la prima frase non può essere una semplice introduzione, ma l’intuizione di fondo. Israele non è solo, noi non siamo soli. Dio c’è, ed è in relazione con loro, con noi. Il resto, in fondo, sono conseguenze.

Se Dio c’è, ed è in relazione con Israele, perché andare a cercare altri dèi («Non avrai altri dèi di fronte a me», Es 20,3)? Non ce n’è bisogno. Dio c’è già.

Ma non solo non c’è bisogno di cercare degli dèi. Bisogna anche evitare di trasformare il Dio d’Israele in un amuleto, in qualcosa di oggettivato, di fisso, di rigido, di «sicuramente nostro». Anche questo dice il versetto 4 («Non ti farai idolo né immagine alcuna…»), che è stato inteso nella tradizione ebraica come invito a evitare di farsi una qualunque immagine di Dio (anche perché l’immagine di Dio, nel mondo, esiste già, ed è l’uomo che vive: cfr. Gen 1,26; S. Ireneo dirà che «gloria di Dio è l’uomo vivente»). Ma in più c’è l’intuizione, colta plasticamente nell’episodio del vitello d’oro (Es 32), che in assenza di Dio non si sia più liberi, ma si diventi servi di altro, oltre tutto di qualcosa che non è superiore all’uomo. Chi ha Dio come Signore, invece, non ha altri signori.

Un sostituto di Dio, poi, può essere, sì, un idolo, ma anche la tentazione di ridurre il Dio vivente a un’immagine sola, a un’idea sola. Es 20,4 ci dice che Dio continuerà a sorprenderci, pur continuando a essere affidabile. È vivo, non è un ritratto o una statua, non è un’idea sempre rigida e fissa. Potrà anche essere imprevedibile, arrabbiarsi e castigare, anche se promette già che manterrà l’ira per tre o quattro generazioni, ma la bontà per mille (Es 20,5-6).

A cerchi sempre più larghi

Il testo del Decalogo parte da questo discorso di fondo e lo sviluppa come una serie di conseguenze man mano più ampie.

Se JHWH è il nostro Dio, non c’è bisogno di cercarne altri. Ma a questo punto, come ulteriore conseguenza, occorre evitare di appellarci a Dio per ciò che non è da Dio (v. 7). È inutile pretendere che possa salvaguardarci e vivere al posto nostro, sostituirsi alle nostre decisioni, cambiare il mondo compiendo ciò che sarebbe affidato a noi. Sarebbe un «invocare Dio invano», perché se ne ridurrebbe il ruolo a qualcosa di infimo e marginale; come sposarsi per avere a disposizione una cuoca o uno spaccalegna. Dio si propone come nostro compagno, come garanzia ed esito della speranza, non come tappabuchi alle cose che, nella nostra vita, potrebbero non funzionare.

E ancora, e sempre di conseguenza: se Dio può essere questo elemento centrale della vita umana, occorre trovare tempo per lui. Lui per primo è consapevole che la nostra vita si muove tra moltissimi impegni e urgenze. Ma se riconosciamo che qualcosa è centrale nella nostra esistenza, sentiremo il bisogno di donargli tempi e spazi. Non necessariamente la parte maggiore del tempo, di certo, ma la più importante. «Tempo di qualità», diremmo noi oggi, senza però aver inventato l’idea. Secondo l’intuizione dell’Esodo, si tratta di un giorno su sette, destinato a recuperare ciò che ci fa autenticamente esseri umani, anzi creature, se è vero che al riposo settimanale sono richiamati non solo tutti gli esseri liberi, ma anche gli schiavi e il forestiero e addirittura il bestiame (v. 10: «il settimo giorno è il sabato, in onore del Signore»). Di più, persino Dio si è fermato il settimo giorno (20,11), perché il ritorno all’essenziale della nostra esistenza, indipendentemente da tutto il lavoro più urgente che dobbiamo accollarci, è un’esigenza dei viventi tutti.

Fino a coinvolgere gli altri

I cerchi non si fermano. Il v. 12 («Onora tuo padre e tua madre») sembra quasi collegare la dimensione divina con quella umana. Invita a «dare peso» ai genitori, che rappresentano ciò da cui veniamo senza averlo deciso, il dono di una vita che è in nostra gestione ma non ci siamo guadagnati. Non si toglie l’autonomia alle persone libere, non si dice che occorra ubbidire a ogni ordine dei «padri», ma che va concessa loro importanza, rilievo, peso. Non ci siamo fatti da noi, occorre riconoscerlo.

Nei primi «comandi», quelli fondamentali, il testo offre anche delle motivazioni. Qui lo fa per l’ultima volta, indicando, più che la ragione, lo scopo: «perché si prolunghino i tuoi giorni». Il verbo ebraico può essere tradotto «allungarsi» («prolunghino» nella traduzione Cei), come fanno tutte le versioni moderne, ma anche «approfondirsi», come se la percezione di ciò da cui veniamo, la consapevolezza di dover essere grati per un dono che non ci siamo cercati, permetta non solo di allungare il tempo della nostra vita, ma (soprattutto?) di viverlo in profondità, conoscendone il pregio. È diverso il nostro rapporto con un oggetto che ci siamo comprati da quello che abbiamo con un regalo ricevuto.

Gli altri comandamenti, più veloci e secchi, si pongono a questo punto ancora come conseguenza dell’intuizione di fondo iniziale.

Dal momento che conosco il pregio della mia vita, rispetterò anche quella altrui («Non uccidere», v. 13).

Anzi, non mi limiterò a rispettare la vita fisica, ma anche quella dimensione di speranza e costruzione di vita che è soprattutto il legame di coppia: «Non commettere adulterio» (v. 14). Questo comandamento nella tradizione si è ampliato a tutti i reati sessuali, ma non è così nel testo biblico, il quale non sembra tanto interessato al sesso in sé, quanto alla relazione tra persone.

Ma sono a servizio della vita anche i possedimenti altrui («Non rubare», v. 15), e il buon nome che tutela una piena vivibilità dell’esperienza umana («Non risponderai contro il tuo prossimo una testimonianza falsa»: v. 16).

All’ultimo cerchio concentrico troviamo anche il semplice desiderio dei beni degli altri, perché sentirsi minacciati nelle proprie «cose» rende precaria la vita. L’elenco del v. 17 («Non desidererai la casa del tuo prossimo», la moglie, lo schiavo, il bue, l’asino, ecc.) risente di una cultura contadina arcaica, nei fatti molto maschilista e pronta non solo a considerare la moglie uno dei tanti beni, ma a metterla in un ordine approssimativamente di costo economico: per questo viene dopo la casa, anche se prima del bue… (v. 17).

È come se, progressivamente, si cogliessero, una per volta, le conseguenze del passo precedente. Al centro di tutto, però, come causa prima delle nuove intuizioni, c’è la percezione che non siamo soli, che Dio è con noi, che è in relazione con noi, che intende salvarci. Tutto il resto è conseguenza. E non tanto comando, ordine, quanto, per così dire, percorso per assomigliare sempre più a Dio, istruzioni per vivere bene questa relazione con lui che trasforma la nostra vita.

Angelo Fracchia
(Esodo 12 – continua)




Alleanza (Es 19)


Lo abbiamo già detto: nel nostro immaginario, condizionato ad esempio dalle riduzioni cinematografiche, la vicenda dell’Esodo, spesso, si concentra e si conclude sul passaggio del Mar Rosso, miracoloso e spettacolare.

Se seguiamo, però, la logica del racconto biblico, il cuore della vicenda non sta nel passaggio del mare, ma in ciò che succede più avanti, nel capitolo 19, il punto di svolta decisivo.

Il popolo d’Israele, fidandosi in modo progressivamente sempre più intenso e radicale, si è lasciato condurre da Dio fuori dall’Egitto, al di là del mare. È stato nutrito dalla manna, dall’acqua, dalle quaglie; ha vagato nel deserto, sostenuto da un Dio che si è mostrato guida di giorno, sotto forma di colonna di nubi, e protezione di notte, come colonna di fuoco; ha imparato a collaborare con Mosè scegliendosi giudici che ne alleggerissero in parte il lavoro. Ma ancora vaga nel deserto senza un punto fermo. È giunto quindi il momento di porne uno in modo definitivo.

Le radici nel passato (ES 19,1-4)

Diversi commentatori moderni hanno richiamato l’attenzione sulle incoerenze del testo, che in questi capitoli sembra faticare a presentarci spostamenti ed eventi in modo lineare. Di solito, questo è un segno di abbondanti riletture e riscritture, e quindi di quanto, lungo i secoli, si siano ritenuti centrali questi episodi.

I biblisti spesso amano indagare queste incoerenze per capire le caratteristiche delle aggiunte e delle correzioni, e poi stabilire se è più importante la versione di partenza o il testo di arrivo. Qui non si intende negare l’importanza di tali indagini e ricostruzioni, noi lettori ci troviamo però davanti a un libro offerto a noi in una forma definitiva, l’unica a disposizione del nostro ascolto e della nostra meditazione. Chi ha composto la versione finale del libro, in ultimo, era convinto che fosse sufficientemente comprensibile e significativo. Per questo, senza disprezzarli, tralasciamo tutti i pur preziosi tentativi di ricostruzione storica e cronologica, evitando di addentrarci con troppa pignoleria sui tempi e glispostamenti delle vicende raccontate.

Così facendo, peraltro, siamo coinvolti in un percorso che è particolarmente significativo anche per noi, per i nostri cammini di fede moderni.

È vero che in Genesi ci troviamo davanti un’esperienza di fede limpida come quella di Abramo, pronto a stare al gioco divino senza argomenti e motivazioni, e semplicemente fidandosi. Chi ha composto l’Esodo, invece, pare dire che, senza nulla togliere a quella fede eccezionale, il percorso degli uomini è di solito diverso.

Lo stesso Mosè ha titubato non poco di fronte alla chiamata di Dio (Es 3-4), prima di farsi suo portavoce coraggioso e deciso. Gli ebrei sembrano aver dapprima assistito quasi passivamente allo scontro tra Mosè e il faraone (Es 5-10), ma poi hanno dovuto decidere da che parte stare, «denunciarsi» come ebrei nella notte di Pasqua, partire all’avventura (Es 11), affrontare la minaccia angosciante e mortale del mare (Es 12) e poi il deserto.

Su ali d’aquila

Ora, al capitolo 19, dopo tante settimane o mesi di percorso, Dio li invita a guardarsi indietro, a ricordarsi della schiavitù e di come ne sono venuti fuori, «come sulle ali» di un rapace. Di un’«aquila», dicono le nostre traduzioni del salmo 90. Alcuni propongono, con qualche ragione, che il salmo si riferisca piuttosto a un «avvoltoio», uccello – è vero – impuro, ma che gli ebrei ammiravano non solo per il suo volo tanto controllato, ma anche per la cura che presta ai suoi piccoli. Non è raro che non riusciamo a ricostruire il senso preciso, esatto, di un termine ebraico nella Bibbia, ma comunque è chiaro il messaggio: il salmista pensa a un uccello in grado di volare sicuro, padrone dell’aria, e mosso da un esemplare affetto da genitore.

Si potrebbe obiettare che in realtà il cammino del popolo nel deserto non sia stato per nulla come un volo su ali d’aquila. È stato, anzi, difficile, tra ansie, rimpianti, fatiche, fame e sete, calura, incertezze. Il testo biblico, però, molto spesso non pretende di essere un resoconto formale, ma piuttosto il racconto di un innamorato. Dio non assomiglia a un poliziotto che redige un verbale, ma a un amante che ricorda gli inizi della sua storia di coppia. E per lui, dal momento che il cammino nel deserto ha portato all’incontro decisivo nel quale può finalmente porre al suo amato Israele la domanda fatidica, è un cammino buono, compiuto come in volo. Fatica e tempo non contano, perché finalmente si è insieme.

C’è poi un elemento essenziale, in questa presentazione. Spesso gli esseri umani immaginano di dover dare qualcosa a Dio, convincerlo, sedurlo, per averne qualcosa in cambio. Qui, invece, il primo a dare, a mettersi in gioco, è l’Altissimo, e non l’uomo. Prima Dio agisce, e solo dopo offre all’uomo di entrare in una relazione più stabile. Anche questa, peraltro, non viene imposta all’uomo, quasi fosse un pagamento obbligatorio per la salvezza, ma gli è offerta come proposta, come possibilità a cui l’essere umano è chiamato a rispondere liberamente.

Tutto fa pensare non a un rapporto tra padrone e servo, ma a una relazione tra amanti. Dio spera e desidera di essere scelto liberamente, di essere amato. Non pensa di avere diritto a pretendere dall’uomo di essere onorato.

Alleanza come matrimonio

Quello che Dio prospetta al popolo, qualora esso decida di sceglierlo come suo Signore, ha in effetti a che vedere con un legame personale più che con un servizio formale. Dio propone un’alleanza, un patto che si stringe solo tra chi si considera alla pari (anche quando, come in questo caso, i due non sono affatto allo stesso livello). L’uomo può rifiutarsi di accogliere la relazione.

Da parte sua, però, Dio può proporla consapevolmente e in modo non superficiale perché, spiega, «mia è tutta la terra» (Es 19,5). Se avesse voluto, avrebbe potuto andare a prendere il suo popolo ovunque. Il fatto di scegliere proprio Israele è, per il popolo, la garanzia che il Signore vuole restargli vicino e fedele sempre, perché non ci sono poteri esterni che possano separarli. Tra i vari popoli di tutta l’umanità, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ha deciso di restare fedele al gruppo guidato da Mosè, e si pone davanti a lui in attesa di una risposta. Gli prospetta di farne una «proprietà particolare», una «cosa sua».

L’espressione potrebbe in teoria far pensare a un possesso, se non fosse accompagnato da tutte queste formule che, insieme alla libertà di scelta, rimandano a un legame personale, quasi come fosse un matrimonio. Non però un matrimonio come lo si viveva al tempo di Mosè, dove gli sposi a volte non avevano grande libertà di scelta (e quasi nessuna ne aveva la donna!), ma come lo concepiamo noi, tra due libertà che decidono di vincolarsi a vicenda perché si riconoscono reciprocamente come promessa di vita piena. E se una prospettiva di questo tipo è comprensibile per l’uomo, non può che stupirci che anche Dio attenda del bene dalla sua relazione con l’essere umano.

Certo, in seguito a questa decisione anche umana, il Signore potrà presentarsi come «Dio geloso» (Es 20,5; 34,14), ma parliamo della gelosia di un amante equilibrato, che sa di dover custodire con cura la relazione più importante della sua vita, quella che costituisce per lui qualcosa di unico, insostituibile. Potrebbero dirlo gli uomini, ma lo dice anche Dio.

Una missione comune (Es 19,6)

Come un fidanzato che prospetta alla su futura sposa come sarà la vita insieme, così Dio spiega al suo popolo, da cui attende una risposta, quali progetti ha su di lui: «Sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa».

A noi la parola «regno» non evoca quello che diceva ai lettori antichi. A noi, guardando soprattutto alle esperienze delle monarchie assolute dei secoli passati, richiama inevitabilmente l’opposto di repubblica e l’idea del dominio di uno sugli altri. Nell’antichità non era così: le popolazioni potevano strutturarsi in clan disordinati, spesso nomadi, o in regni. Il re era colui che imponeva la direzione di fondo a una comunità organizzata di persone, era concepito come l’ordine in mezzo al caos.

E Dio indica anche la direzione generale che immagina prenderà questo suo regno: sarà una nazione «di sacerdoti». Il sacerdote era colui che mediava tra l’umanità e Dio, tra il cielo e la terra. Faceva salire al cielo le offerte e ne faceva discendere la volontà divina, garantendo così l’ordine nell’universo, perché assicurava la comunicazione tra le sue due entità più significative.

Quello che Dio prefigura, insomma, è che gli ebrei, riconoscendolo come Dio, avrebbero potuto far dialogare la storia e l’eterno, il trascendente e il mondano, a beneficio di tutti (un sacerdote non si limita mai a mediare solo per sé). Dio sta sognando un suo rapporto con tutti gli uomini, garantito dagli ebrei. Li chiama a collaborare alla sua opera di vita e salvezza per tutti.

Per questo può dire loro che saranno una «nazione» messa da parte, riservata, «santa».

Gli ebrei, nei secoli, distingueranno il loro ruolo (di «popolo») da quello di tutti gli altri (che sono definiti «nazioni», «genti»). Qui Dio usa il termine che solitamente si utilizzava per indicare «gli altri» applicandolo agli ebrei. Parola accompagnata però dall’aggettivo «santo». Il «santo» non indicava, come poi si è inteso nella storia più recente, una persona dalla vita vissuta in modo esemplare e perfetto, bensì uno che era messo da parte, riservato, solitamente, per Dio. Con questo Egli riconosce che i discendenti di Giacobbe sono una nazione come le altre, ma che diventerà speciale agli occhi dell’Altissimo, esattamente come una fidanzata riconosce che esistono tanti uomini nel mondo, ma ha occhi solo per il suo amato.

La risposta umana

Per fortuna ci manca il tempo per metterci a fantasticare sulla possibile ansia divina nell’attendere la risposta degli ebrei. E anche il libro dell’Esodo risolve in fretta la risposta umana. Tutto, nel testo, lascia però intendere che davvero Dio lasci pienamente liberi coloro che ha strappato dalla schiavitù dell’Egitto.

Certo, l’antichità non pensava alla libertà del singolo e insisteva sulla dimensione comunitaria (saranno poi i profeti a cogliere che davanti a Dio siamo più propriamente individui). Ma la libertà di scelta è garantita, difesa, voluta da Dio, che non cerca servi, ma amici (cfr. Gv 15,15).

Cogliamo forse adesso quello che evidentemente era già chiaro a Dio fin dall’inizio (Es 3,12): il percorso di liberazione poteva essere compiuto solo arrivando qui, per essere non più schiavi del faraone, ma servi del Signore, in un rapporto di esclusività che sia però scelto consapevolmente, e non subìto come imposizione. È la differenza che passa tra servire per ubbidienza o per amore.

E la risposta del popolo arriva veloce: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!» (Es 19,8). La successiva visione di Dio che avvolge il monte è quasi la festa davanti al «sì» del popolo.

Angelo Fracchia
(Esodo 11 – continua)




Collaborare (Es 18) nella «normalità»


Il popolo d’Israele è libero, al di là del mare, fuori dalla casa di schiavitù. Ha già sperimentato la nostalgia del passato e il sostegno di Dio (con la manna, l’acqua e persino con un dono che sembra parlare dell’eccezionalità di una festa, le quaglie). Tutto sembrerebbe risolto, ma il percorso in realtà non è finito.

Ora, l’attenzione si sposta su Mosè, chiamato a fare un altro passo, questa volta nella direzione della gestione del quotidiano. Alcune situazioni sono vissute prima da lui, poi vengono vissute in modo simile dall’intero popolo. Tocca ora alla guida di Israele aggiungere un altro mattone.

Una famiglia (18,1-12)

Quando in Esodo 2,15-22 abbiamo incontrato Ietro, il sacerdote madianita divenuto suocero di Mosè, pensavamo che servisse semplicemente a introdurre la moglie, o forse addirittura il figlio. Ma Ietro ora ritorna in scena, imprevisto, e si comporta come se si trovasse di fronte a un popolo stanziale. Infatti si reca in visita dal genero, riportandogli moglie e figli.

In questa veloce annotazione ci sono molti particolari che ci stupiscono. Intanto, non sapevamo che a Mosè fosse nato un secondo figlio, Elièzer. Poi, se Sipporà e i suoi figli vengono condotti nell’accampamento ebraico, significa che non erano con Mosè in Egitto.

Noi lettori sappiamo diverse cose sulle vicende vissute da Mosè e dal suo popolo. Come quest’ultimo avesse dapprima assistito allo scontro con il faraone quasi da spettatore, ma poi aveva dovuto prendere posizione e ogni famiglia aveva dovuto esplicitare la sua identità ebrea (Es 12,7), partire in fretta di notte con carri e bestiame, anziani e bambini, lasciandosi alle spalle gli egiziani in lutto per la morte dei primogeniti. Sappiamo anche che gli egiziani li hanno inseguiti con un esercito veloce e agguerrito. Non sappiamo però quanto tempo trascorre dal primo scontro tra Mosè e il faraone e l’uscita di Israele dall’Egitto. Potrebbero essere trascorsi mesi, oppure poche settimane o addirittura giorni.

In quel tempo Mosè ha rischiato la propria vita esponendosi in prima persona. Il testo ci dice tutte queste cose. Ma che Mosè non avesse portato con sé in Egitto moglie e figli non ce lo dice, e in effetti non ce lo aspettavamo. Li ha lasciati fuori dall’Egitto per precauzione? Come garanzia per il suo ritorno fuori dall’Egitto?

Enigmi

Colpisce, poi, che l’Esodo narri l’accoglienza calorosa che Mosè riserva a Ietro, ma non dica niente riguardo a come abbia ricevuto la moglie e i figli. Certo, possiamo spiegarci questa cosa con il fatto che il mondo culturale da cui il libro dell’Esodo proviene e, ancor di più, quello che intende storicamente narrare, erano contesti fortemente patriarcali e maschilisti, dove inoltre i figli rappresentavano semplicemente la garanzia di continuità del clan, ma non erano valorizzati in sé. È però vero che, nonostante questo retroterra, spesso, nei racconti biblici, le donne vengono presentate con fisionomie nette, con progetti, sogni e frustrazioni proprie, come autentiche protagoniste delle storie che coinvolgono i loro mariti. E nel caso di Sipporà questo non succede.

La figlia del sacerdote madianita aveva agito autonomamente, salvando Mosè, nell’enigmatico episodio in cui, mentre tornavano verso l’Egitto dopo la chiamata divina, aveva salvato la vita del marito circoncidendo il figlio (Es 4,24-26). Ma quel racconto, nel quale peraltro pare che la coppia avesse un figlio solo e che stesse andando in Egitto unita, è l’unico nel quale Esodo parla di Sipporà in modo significativo. E ora, invece, veniamo a sapere che non è stata in Egitto con il marito.

Ciò potrebbe significare che dopo la circoncisione del primogenito Gersom, Mosè ha rimandato alla casa paterna la propria famiglia. Però l’assenza, in quel contesto, del secondo figlio (il cui nome, Elièzer, in Es 18,4, è spiegato alludendo alla liberazione dal faraone) può lasciare intendere che solo dopo un periodo in Egitto, moglie e figli sarebbero stati fatti tornare. Se così fosse, le vicende dello scontro con il faraone sarebbero durate molto più a lungo di quanto il racconto spieghi.

Non lo sappiamo. Come succede spesso nei racconti biblici, ci troviamo di fronte a molte meno informazioni di quelle che noi riterremmo necessarie. Ma, proprio per questo, le notizie che troviamo sono significative. È come se l’autore ci dicesse che non è importante il perché Mosè avesse mandato via la propria famiglia, ma il fatto che ora vi si riunisce.

Una vita normale?

Dopo le vicende epiche dell’uscita dall’Egitto, e le cadute vergognose del deserto, ora Mosè, come il suo popolo, riprende una vita normale. La famiglia è simbolo di ordinarietà, anche per chi in una famiglia non vive (e magari se la ricrea con abitudini, animali o piante «di casa»).

Questa ordinarietà ci restituisce un Mosè non perfetto. Abramo, Elkana (1 Sam 1, il padre di Samuele, più grande profeta-sacerdote d’Israele), lo stesso Giacobbe, avevano avuto con le mogli una relazione intensa, di scambio e di affetto. Mosè, invece, no. O almeno, il testo dell’Esodo non ce ne parla. Sembrerebbe ricadere nel più scontato cliché patriarcale. Esso fa da sfondo ai racconti biblici, ma non è il modello da imitare. Ancora una volta, come nei casi dell’uccisione della guardia egizia (Es 2,12), del matrimonio con una madianita o delle incertezze davanti alla chiamata divina (Es 3-4), la vicenda umana di Mosè sembra perfettibile.

I più grandi modelli di cammino con Dio non sono necessariamente persone del tutto esemplari. A contare non è la loro perfezione, ma la relazione con l’Altissimo. Questo parla, di rimbalzo, anche a noi oggi: la «normalità», la banalità, e, spesso, anche l’imperfezione della vita di ognuno di noi, non sono un impedimento a una relazione intensissima e profonda con Dio.

Nessun integralismo

La stessa sensazione di imperfezione e, in fondo, di normale vita umana, è sucitata anche da un altro particolare: Ietro riconosce le grandi opere compiute dal Signore (chiamato JHWH, il «nome proprio» del Dio d’Israele: Es 18,9), ma poi lo celebra facendo «olocausto e sacrifici a Elohim», chiamando Dio con il suo «nome comune». Siamo sicuri che sia un sacrificio al «Dio giusto»?

Ancora una volta, non siamo certi di nulla. Si può immaginare e sostenere che, dopo aver lodato il Dio d’Israele, Ietro lo onori con il suo sacrificio. Ma d’altra parte non possiamo dimenticare che lui è un sacerdote madianita, incaricato di sacrificare ai suoi dèi, e che non ha ancora una conoscenza profonda del Dio di Mosè.

D’altra parte, Elohim, grammaticalmente, è un plurale. Se è vero che molto spesso nella Bibbia ebraica indica genericamente «Dio», in una forma plurale che è di onore, quello resta comunque un nome generico, che potrebbe anche indicare un sacrificio non a un dio singolo, ma a diverse divinità. Come spesso accade in questo racconto così centrale per la fede ebraica e cristiana, dobbiamo sopportare l’ambiguità.

Alcuni elementi sono tuttavia chiari: la Bibbia, nonostante alcune apparenze e qualche passaggio diverso, non è integralista, e infiltra in molti brani l’impressione di un culto, una morale e una vita che non sono proprio immacolati e limpidi: se restano esemplari è perché si pongono sempre in relazione con Dio, non perché rispettino alla lettera norme e regole.

Un popolo (Es 18,13-27)

Il suocero di Mosè non ha però finito di immischiarsi nell’opera del genero. Si ferma qualche giorno da ospite e, nel frattempo, guarda che cosa succede. Vede che ogni mattina tanta gente va da Mosè per regolare le proprie questioni. La guida del popolo ascolta, valuta, fa capire quale sia la volontà di Dio e passa al caso successivo. Ietro scuote il capo, e spiega al genero che non approva: «Così non va bene! Hai un popolo numeroso, non puoi pensare di provvedere a tutto tu! Stabilisci invece degli anziani che giudichino le questioni ordinarie, e lascia che ti inoltrino soltanto quelle più difficili!» (Es 18,17-23).

Un consiglio di buon senso, semplice da elaborare, a cui Mosè, ci viene da pensare, sarebbe potuto arrivare anche da solo. Eppure, c’è bisogno che glielo fornisca il suocero, sacerdote di quei madianiti con cui gli ebrei avrebbero in futuro fatto più volte la guerra (cfr. Nm 25; Gdc 6-7; ricordiamo che erano madianiti anche i mercanti a cui Giuseppe fu venduto dai propri fratelli: Gen 37,28-36).

Il capo del popolo liberato dall’Egitto, l’uomo che parlava faccia a faccia con Dio (Es 33,11), ha bisogno del consiglio, peraltro non particolarmente geniale, del suocero, per imparare a gestire convenientemente il proprio popolo. E deve imparare a delegare, a farsi da parte, a lasciare che altri lavorino al posto suo, a non avere tutto sotto controllo.

Quale insegnamento per noi?

Noi siamo abituati a spiegazioni didattiche o morali molto esplicite, capaci di dirci con parole chiare che cosa fare e non fare, cosa è bene e cosa è male. In fondo, cerchiamo questo (magari persino per contestarlo) in tutte le tradizioni religiose o legali. Ma le forme religiose, soprattutto quelle più antiche, preferiscono raccontare, e comunicare contenuti attraverso narrazioni e storie.

Il Primo Testamento, per lo più, non fa eccezione: nella storia di Abramo è in realtà contenuta la spiegazione del modo ideale con cui rapportarsi con Dio, così come i primi tre capitoli di Genesi, che apparentemente sono una storiella carina e senza pretese, sono un condensato intensissimo della concezione dell’essere umano, e così via. Non fa eccezione l’Esodo, dove il racconto chiarisce il modo con cui relazionarsi con il Dio d’Israele attraverso un percorso lungo e articolato, nel quale all’iniziale interesse e stupore (Es 3-4) segue l’attento contemplare e soppesare dell’opera di Dio (Es 7-10), fino al momento in cui occorre prendere posizione (Es 11) e addirittura decidere di buttarsi, rischiando la propria vita sulla fiducia di una semplice promessa (Es 14).

Ci si poteva forse immaginare che il percorso fosse finito qui, ma in realtà si tratta ancora di investire fiducia e ascolto in una promessa che non si presenta con manifestazioni eccezionali ma passa attraverso le fatiche e i rimpianti della vita «normale» (Es 15-17).

Questo capitolo ci lancia verso un contesto ancora nuovo. Possiamo essere tentati di ridurre il cammino con Dio alle occasioni eccezionali, eroiche, ma queste sono soltanto un momento, un’introduzione o una svolta, di un percorso che passa dalla vita consueta, quotidiana, fatta di incertezze, tentazioni, ritorni indietro, e anche di mediazioni, di suggerimenti magari banali, di percezione del proprio limite e trucchi per superarlo, persino di piccole o grandi miserie e fragilità.

Nel cammino con il Dio d’Israele non è richiesta l’eccezionalità o la perfezione, ma solo di mettersi in cammino.

Angelo Fracchia
(Esodo 10 – continua)