La parabola del «figliol prodigo»

Un midrash di Geremia 31? (3)

«Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito… Mi sono vergognato e ne provo confusione» (Ger 31,19)
«Allora rientrò in se stesso e disse: … Mi leverò e andrò da mio padre» (Lc 15,17-18).

Mentre Marco parla ai catecumeni che per la prima volta incontrano Gesù, Matteo ai catechisti che educano alla fede e Giovanni ai contemplativi della «Gloria», Luca scrive il suo vangelo come una catechesi per i discepoli, coloro che dal catecumenato sono passati alla scelta di testimoni del Risorto. Non c’è fede senza imitazione.

IMITAZIONE DI DIO

I l capitolo 15 di Lc è una proposta, descrizione di una vocazione: con le due parabole del pastore più la donna (vv. 4-10) e del padre che accoglie il figlio, i due figli (vv. 11-32), Gesù «chiama» i suoi uditori a imitare il comportamento di Dio e fae il fondamento del proprio. Tutto il vangelo di Lc ruota attorno all’idea del discepolo che segue il Maestro. Nessuno può vedere Dio (1Gv 4,12), ma ognuno può renderlo visibile vivendone il comportamento negli atteggiamenti e nello stile del cuore e della vita.
Matteo ci aveva prospettato la perfezione di Dio come orizzonte del vivere cristiano e Dio non è una qualsiasi mèta morale o ascetica, ma è la sua stessa natura che è sorgente e roccia della vita di chi crede: «Siate voi perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (5,48).
Lc fa un passo avanti, definendo il «discepolo» di Gesù come colui che è chiamato a vivere la sua vita come espressione visibile di quella di Dio. L’atteggiamento dell’uomo/pastore (completato dalla figura della donna) e quello del padre nei confronti del figlio minore (e anche del figlio maggiore) non sono un gesto sporadico di accoglienza, ma l’essenza stessa della natura di Dio. O Dio agisce come il pastore/donna e il padre dei due figli o non è Dio. O i credenti «imitano» nella loro esistenza il Dio che fa festa «per un solo peccatore che si converte» (v. 7. 10) o non sono credenti in Gesù Cristo. Potranno forse essere religiosi, ma non saranno mai credenti nel Dio di Gesù Cristo.
Lc 15 descrive e definisce la natura intima di Dio verso i peccatori, coloro che sono già morti perché esclusi dalla benedizione della toràh e dal vivere civile. Sono condannati a morte che camminano. Questa attitudine divina si chiama misericordia nel senso etimologico ebraico di generare di nuovo.

L’ANNO DI GRAZIE E DI VENDETTA

Lc fa iniziare il ministero di Gesù nella sinagoga di Cafaao con una citazione di Isaia, da cui però omette volutamente parte di un versetto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore. Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: “Oggi si è adempiuta questa scrittura che avete udita con i vostri orecchi”» (Lc 4,18-21; cf Is 61,1-2).
La citazione di Lc è molto importante non solo per quello che dice, ma specialmente per quello che non dice. Il v. 2 di Isaia (= v. 19 di Lc), infatti, dice testualmente «a promulgare l’anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio». Lc omette la seconda parte del versetto (un giorno di vendetta per il nostro Dio), per evidenziare l’atteggiamento favorevole con cui Dio in Gesù Cristo viene incontro agli esclusi dalla mensa della pienezza della vita.
Il primo atto pubblico di Gesù è un discorso programmatico di misericordia verso coloro che la società, religione, potere e perbenismo, anche in nome di Dio, giudicano feccia e spazzatura del mondo. Il mondo di oggi parlerebbe di perdenti per niente furbi.

LA MISERICORDIA COME SPERANZA DI VITA

Lc 15 descrive le due parabole (più le due aggiunte) come l’attuazione nella storia della chiesa del progetto programmatico di Dio, centrato su un nuovo ordine di giustizia. La misericordia è il nome nuovo della giustizia di Dio (Sal 33/32,5; 36/35,11); essa segna tutta la vita e il vangelo di Gesù:
– Gesù perdona e accoglie i peccatori (Lc 7,36-50: la peccatrice in casa del fariseo Simone; 22,48.61: Giuda e Pietro; 23,34. 43: i suoi crocifissori e il ladrone morente);
– Gesù accoglie poveri ed emarginati (Lc 6,20-24: beatitudini; 8,2-3: donne indemoniate; 10,30-35: il povero viandante soccorso dal samaritano; 11,14: il muto indemoniato; 13,12: la donna ricurva; 18,22: il ricco invitato a dare tutto ai poveri; 19,9: Zaccheo);
– Gesù accoglie le donne, emarginate, disprezzate (Lc 7,1∑-15.36-50; 8,2-3; 10,38-42; 13,10-17; 18,1-5; 23,27-28).
– Gesù accoglie i bambini e li presenta come modello (Lc 9,48; 18,15-17).
La vita di Gesù è una esemplare imitazione del Padre: non frequenta i salotti buoni della società del suo tempo, anche se accetta gli inviti dei ricchi, non per assecondarli nella loro ingiusta ricchezza (Lc 16,9-11), ma per proporre loro il cambiamento della vita (19,2-9: Zaccheo, il capo dei pubblicani; 7, 36-50: Simone il fariseo). Lui che non esita a svuotarsi di sé (Fil 2,7), dedica la sua vita e insegnamento a tutti coloro che la società del tempo giudica insalvabili, perduti, scomunicati, impuri.
Al tempo di Gesù, gli stessi farisei, che pure gli erano vicini, ritenevano che il popolo non potesse salvarsi perché la maggior parte della gente semplice era incapace di osservare tutti i 613 precetti prescritti dalla tradizione scritta e orale. In questo ambiente di disperazione diffusa e collettiva, Gesù si butta nella mischia della vita e si sporca non solo le mani e i piedi con le malattie e l’impurità rituale, ma si tuffa nell’orrido della vita, percorre i bassi della morale, penetra nei tuguri dell’indegnità, mangia con i contaminati, diventa impuro egli stesso, si lascia ungere dalle prostitute, si scontra con l’ipocrisia di una religione di facciata, fino a diventare «maledizione», per riscattare i maledetti dalla toràh e dalle convenienze sociali e religiose degli uomini (cf Gal 3,13).

Lc 15 UN «MIDRASH»?

Per trasmettere questo messaggio, Lc struttura il cap. 15 del vangelo come un commento al capitolo 31 del profeta Geremia, vissuto nel sec. vii a.C. e noto per la sua delicatezza d’animo e per essere stato la figura che ha ispirato in parte la vicenda del Servo di Yhwh descritta da Isaia (42,1-4; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12). Gesù non rompe con la tradizione biblica, ma la riporta alla sua genuina interpretazione.
Lc 15 ha solo un parziale parallelo in Mt, che riporta solo la parabola del pastore che va in cerca della pecora smarrita (18,12-24). La parabola della donna con la dramma e quella del padre con i due figli sono esclusivi di Lc, ma non sono «invenzione» lucana, perché l’evangelista s’inserisce nella più ampia strategia della alleanza nuova, preannunciata da Geremia 31, a cui Gesù ha dato un disegno e una prospettiva definitivi: la «misericordia» come cifra del regno di Dio che Cristo inaugura, rivelando il volto del Padre (Gv 1,18).
Leggendo l’AT i primi cristiani annotavano in margine riferimenti alla vita di Gesù e al suo insegnamento e applicavano le conoscenze e i metodi usati dall’esegesi giudaica. Uno di questi metodi è il «midrash», che in parole semplici si può definire: il metodo che spiega la scrittura con la scrittura.
In ebraico midrash (plurale midrashim) deriva dal verbo daràsh, che nell’AT e a Qumrân significa ricercare, scrutare, esaminare, studiare. La tradizione rabbinica poi l’ha utilizzato come metodo d’interpretazione della scrittura: si parte dal senso letterale per giungere a quello profondo e nascosto per attualizzarlo, adattandolo ai bisogni nuovi e trae applicazioni pratiche per la vita.
In altre parole, si legge la sacra scrittura alla luce della situazione nuova che si viene a creare attraverso il richiamo di una parola, di un detto.
Lc 15 è dunque un midrash di Ger 31 o, se si vuole, una omelia che commenta il testo profetico. La comunità cristiana delle origini prima e Lc successivamente hanno riletto il capitolo 31 del profeta Geremia con gli occhi fissi su Gesù, tanto che l’evangelista nel redigere il capitolo, ha mantenuto lo stesso ordine dei personaggi come si trovano nel profeta: un pastore, una donna, un padre con un figlio. Per potersi rendere pienamente conto di quanto profondo e attualizzante sia il rapporto tra Lc 15 e Ger 31, è necessario leggere il testo del profeta Geremia e quello di Lc in sinossi, cioè in modo speculare, come riportato di seguito.

IL PASTORE OVVERO LA GIOIA DEI RADUNATI

Ger 31,10-14 presenta il Signore come un pastore premuroso alla ricerca delle pecore «disperse», per radunarle in un solo ovile con un cambiamento radicale della situazione: il lutto è cambiato in gioia e tutti partecipano al nuovo «Eden» (Ger 31,12).
Ispirandosi a questo testo Lc 15,4-7 parla di un pastore che va alla ricerca di una pecora perduta, per riportarla nel gregge messa al sicuro. Nel profeta e in Lc esplode la gioia dei radunati (Ger 31,12) e del pastore che festeggia la salvezza della pecora ritrovata e l’unità del suo gregge. Ecco i due testi a confronto:

UNA MADRE PIANGE, UNA DONNA GIOISCE

Il profeta parla della matriarca Rachele che piange i suoi figli perduti come esuli in terra d’esilio, dove moriranno. Il disegno di Dio, però, non è questo: i figli dispersi ritoeranno e compiranno così la speranza della madre: rivederli di nuovo dentro i confini della casa/Israele. L’immagine di afflizione disperata diventa in Lc la donna che perde un «tesoro», ma non dispera di ritrovarlo fino a quando non lo avrà trovato.

DUE FIGLI PER UN PADRE

Il profeta Geremia parla di Efraim, il figlio minore di Giuseppe e Asenèt, sua sposa egiziana (Gen 41,52; 46,20; Nu 26,28). Efraim riceve la primogenitura al posto del fratello maggiore Manasse (Gen 48,1-22, specialmente vv. 14.17-19). Questo procedimento secondo cui il figlio minore subentra al fratello maggiore, ribaltando i diritti naturali della primogenitura, è una costante nella bibbia, da formae una ossatura (esamineremo questo aspetto più avanti, nel commento della parabola del padre e dei due figli). Inoltre Efraim dichiara il suo smarrimento e il desiderio di ritornare, pieno di vergogna e confusione. A tutto ciò Dio-Padre risponde con accenti di tenerezza, dichiarandolo non solo «figlio prediletto» (v. 20), ma evidenziando la commozione delle sue viscere.
Allo stesso modo il figlio minore della parabola lucana si pente, si vergogna e ritorna alla casa patea, mentre il padre, alla vista del figlio ancora lontano, sente dentro di sé lo scuotimento delle viscere che quel figlio hanno generato (v. 20b).

In Geremia la conclusione di questo nuovo modo di agire di Dio porta a una alleanza nuova (Ger 31,31), perché non più scritta sulla freddezza della pietra, ma dentro il calore del cuore, l’unico che sappia cogliere la novità della vita e l’aspetto sponsale dell’amore: «Io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo» (Ger 31,33); un amore generante e liberante che non solo dà la vita, ma la ridona anche a coloro che l’hanno perduta, perché l’amore è generativo o è solo una mano di vernice buonista che oggi c’è e domani scompare:
«Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato» (Ger 31,31-34).
Lc per spiegarci l’agire di Dio come è descritto in Ger 31 e per prospettarci che anche noi siamo parte della predilezione di Dio, qualunque sia lo stato della nostra condizione, ci ha regalato il capitolo 15 del suo vangelo, la perla del NT, il monumento al Dio giusto perché ama.

Ger 31,10-14

10bChi ha disperso Israele lo raduna e lo custodisce come un pastore il suo gregge, 11perché il Signore ha redento Giacobbe, lo ha riscattato dalle mani del più forte di lui.

12Verranno e canteranno inni sull’altura di Sion… Essi saranno come un giardino irrigato, non languiranno più. 13Allora si allieterà la vergine della danza; i giovani e i vecchi giorniranno.

Io cambierò il loro lutto in gioia, li consolerò e li renderò felici, senza afflizioni.
14Sazierò di delizie l’anima dei sacerdoti e il mio popolo abbonderà dei miei beni.

Lc 15,4-7

4Quale uomo di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?

5Ritrovatala, se la carica sulle sue spalle tutto contento, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia pecora perduta».

7Io vi dico che così vi sarà gioia in cielo per un solo peccatore che si converte, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.

Ger 31,15-17

15Una voce si ode da Rama, lamento e pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, rifiuta d’essere consolata perché non sono più.

16Dice il Signore: «Trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c’è un compenso per le tue pene;

essi toeranno dal paese nemico.

17C’è una speranza per la tua discendenza: i tuoi figli ritoeranno entro i loro confini».

Lc 15 8-10

8 Oppure quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? 9 E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine dicendo:

«Rallegratevi con me,

perché ho ritrovato la dramma perduta».

10 Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte.

Ger 31,15-17

18Ho udito Efraim rammaricarsi: Tu mi hai castigato e io ho subito il castigo come un giovenco non domato. Fammi ritornare e io ritoerò, perché tu sei il Signore mio Dio.

19Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito; dopo essermi ravveduto, mi sono battuto l’anca. Mi sono vergognato e ne provo confusione, perché porto l’infamia della mia giovinezza.

20«Non è forse Efraim un figlio caro per me, un mio fanciullo prediletto? Infatti dopo averlo minacciato, me ne ricordo sempre più vivamente.

Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza». Oracolo del Signore.

Lc 15 8-10

12Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze.

17Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; 19non sono più degno di esser chiamato tuo figlio.

22Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. 23Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato.

20b Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.

Di Paolo Farinella
(3 – continua)

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo»

Nessuno è escluso dalla tenerezza di Dio (2)

Il capitolo 15 del vangelo di Luca riporta (si dice comunemente) le «tre parabole della misericordia»: il pastore che ritrova la pecora perduta (vv. 4-7), la donna che ritrova la moneta smarrita (vv. 8-10) e infine il padre che ritrova i due figli perduti (vv. 11-32). Vedremo che le parabole non sono «tre», ma «due», ciascuna delle quali si prolunga in un doppione con un significato particolare. Ma procediamo però per gradi.
Il capitolo si apre con una introduzione ambientale: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo» (v. 1). Luca sembra che voglia esagerare, parlando di «tutti» i pubblicani e peccatori. Questa forma sintetica esagerata è costante nei vangeli, quasi a sottolineare che Gesù aveva in sé una forza attrattiva che non lasciava indifferenti, ma al contrario attirava con forza a sé quanti erano esclusi ed emarginati dal perbenismo religioso e sociale del suo tempo. Gesù attira i pubblicani e i peccatori come in Mc «accorreva (a Giovanni) tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme per farsi battezzare» (Mc 1,5), o come agli inizi della sua attività missionaria gli apostoli gli dicono entusiasti: «Tutti ti cercano» (Mc 1,37; cf Mt 12,23, ecc.).
Nessuno può esimersi dal fascino e «singolarità» di Gesù, che porta una parola tanto «nuova» e tanto attesa, che «tutti» la percepiscono come personale. Potremmo dire che con tale espressione gli evangelisti ci offrono un criterio di pastorale missionaria, che può codificarsi così: l’annuncio del vangelo non può mai essere «generalizzato» e «generalizzante» da divenire anonimo e amorfo; al contrario, esso deve essere sempre talmente «unico» che ciascuno deve sentirlo come rivolto soltanto a sé.
Lc ci vuol dire che i pubblicani e peccatori davanti a Gesù si sentivano «unici» e importanti: sapevano che Gesù parlava a ciascuno di loro con la libertà di chi non giudica e non condanna, ma si avvicina per chiamare e convincere. L’evangelista, infatti, sottolinea che pubblicani e peccatori si avvicinavano con lo scopo «di ascoltarlo» (v. 1), cioè, entrare in relazione vitale con lui, per lasciarsi coinvolgere dalla sua proposta rivoluzionaria e sconvolgente. L’espressione pubblicani e peccatori nei vangeli è quasi un modo di dire tecnico, per presentare due categorie di persone, considerate come la feccia della società dell’epoca, la cui sola vicinanza rendeva impuri: le persone religiose e pie si tenevano pertanto a debita distanza (Mt 9,9-13; 11,19; 21,31-32; Mc 2,13-17; Lc 5,27-32; 7,34; 15,1).
Di fronte a Gesù però, come è abituale nei vangeli, questi schemi sociali saltano. Pubblicani e peccatori, infatti, all’apparire di Gesù compiono due azioni: si avvicinano e ascoltano. I poveri e gli esclusi hanno le antenne pronte per captare il segnale della misericordia e dell’accoglienza, perché intuiscono che l’uomo Gesù non è un uomo qualsiasi, ma qualcuno che porta loro un annuncio folle: Dio è venuto per loro. Chi può venire apposta per un pubblicano? Chi può dire all’emarginato dal perbenismo religioso e sociale che egli è un «valore» fino al punto che Dio ha perso la testa per lui, peccatore o pubblicano?
Lo stesso Lc nel racconto della chiamata/conversione di Levi (5,32) fa dire a Gesù: «Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi»; e in quello di Zaccheo (19,10) dichiara espressamente che «il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto». In Lc 15 tale concetto centrale si trova 4 volte, come un ritornello che ritma le due doppie parabole:
– v 6: «perché ho ritrovato la mia pecora perduta»;
– v 9: «perché ho ritrovato la mia moneta perduta»;
– v 24: «questo mio figlio era perduto ed è stato ritrovato»
– v 32: «questo tuo fratello era perduto ed è stato ritrovato».

A l comportamento, abituale per Gesù, di stare con gente poco raccomandabile del v. 1, corrisponde un clima di opposizione da parte dell’autorità ufficiale del tempio: «I farisei e gli scribi mormoravano: costui riceve i peccatori e mangia con loro» (v. 2).
Questo contesto di opposizione è espresso dal «mormorio» di coloro che avrebbero dovuto invece «ascoltare» la novità di Dio perché sono «scribi e farisei», cioè i capi, i responsabili della formazione e crescita del popolo e gli specialisti della parola di Dio: essi infatti sono membri del sinedrio, che sovrintende la vita sociale e religiosa del popolo d’Israele. Solo le guide e maestri d’Israele, eppure non sanno riconoscere la novità di Dio (Gv 3,10) e mormorano. È il mistero della salvezza che si fa storia: coloro che dovrebbero «vedere» diventano ciechi e coloro che sono ciechi invece vedono/ascoltano (cf Lc 8,10). Ci troviamo di fronte al capovolgimento delle situazioni già descritto nel «Magnificat» di Maria (Lc 1,51-53) o nelle beatitudini (Lc 6, 20-26).
Per descrivere l’atteggiamento interiore degli scribi e farisei, Lc usa il verbo onomatopeico diegòngyzon che alla lettera significa borbottare/mormorare: si riferisce a colui che brontola sottovoce in malafede contro qualcuno per non farsi sentire, ma in modo che l’altro possa percepire il borbottio. Borbotta chi trama nell’oscurità. Lo stesso verbo e la stessa espressione si trovano in Lc 5,30: «I farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano ai suoi discepoli: Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?». In Lc 7,34 Gesù è accusato da farisei e dottori di essere «un mangione e beone, amico dei pubblicani e peccatori».
A gli occhi dei benpensanti del tempo (e di ogni epoca), Gesù appariva scandaloso, irritante, pericoloso: il suo atteggiamento di accoglienza verso i «delinquenti», immorali e deviati lo rivelava come un sovversivo dell’ordine costituito o, si direbbe oggi, del sistema.
Nell’Italia di oggi qualcuno lo avrebbe accusato di essere un pericoloso «comunista» e come tale bandito e crocifisso. Se vivesse fisicamente oggi, Gesù non starebbe certamente nei salotti buoni della borghesia, ma andrebbe per tutte le suburre della sua città, nei tuguri degli immigrati senza permesso di soggiorno, dormirebbe dietro i cancelli dei Cpt (Centri di prima accoglienza), radunerebbe tutte le vittime di qualsiasi ingiustizia e, senza cambiare una virgola, rifarebbe lo stesso discorso che fece trasalire i suoi compaesani nella sinagoga di Cafaao, tanto che lo costrinsero ad andarsene dal suo paese: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore… Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi» (Lc 4,18-20).
Poveri, prigionieri, ciechi, oppressi e ora pubblicani e peccatori. In Mt 21,31-32 addirittura pubblicani e prostitute sono portati a modello di fede e hanno la precedenza nel regno di Dio; in Mc 2,15 pubblicani e peccatori mangiano seduti a mensa con lui e, come al solito, le persone perbene e di buona educazione s’indignano per tale comportamento sconveniente.
«È venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve, e voi dite: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Ma alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli» (Lc 7,34-35). Il vangelo della misericordia che Lc annuncia nel capitolo 15 è tutto qui: nessuno può dire di essere escluso dalla tenerezza di Dio. Nessun peccato è più grande di Dio (1Gv 3,20), nessun peccatore può giudicare se stesso più severamente di quanto non faccia Dio, che viene apposta per cercare la pecorella, per trovare la dramma, per salvare i figli perduti. Nessuno. Se qualcuno pensasse ciò, commetterebbe sì l’unico peccato imperdonabile in cielo e in terra: contro lo Spirito Santo (Lc 12,10).
Il tempo della chiesa, dice Lc, è il tempo «dell’anno di grazia del Signore», un prolungamento di tempo per dare a tutti e a ciascuno la possibilità di ritornare, l’occasione di farsi trovare. Allora e solo allora ci ritroveremo figli della sapienza (Pr 8,22), che sanno riconoscere la fonte della giustizia che in Dio si chiama misericordia.
Dai primi due versetti di Lc 15 dovremmo già sapere che l’evangelista ci vuole portare a scoprire la follia di Dio: abbandona, infatti, 99 pecore per andare a cercarne una sola perduta, così come mette sottosopra la casa per trovare una moneta smarrita. Nella seconda parabola abbiamo un padre che si lascia squartare da due figli pur di farli vivere attraverso la sua stessa vita e recuperarli a sé stesso e tra di loro.

A bbiamo detto che le parabole non sono «tre», ma «due». La narrazione vera e propria, infatti, inizia con il v. 3: «Ed egli disse loro questa parabola». Si usa il verbo narrativo per eccellenza (il passato remoto «disse») e subito dopo si usa il singolare «questa parabola», a cui seguono di fatto due racconti: il pastore e la pecora (15,4-7), la donna casalinga e la moneta (15,8-10).
La parabola è unica, ma è illustrata da due esempi. Dopo avere introdotto, infatti, al v. 4 il primo esempio del pastore che perde e trova la pecora con una domanda interrogativa: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia…», l’autore prosegue lo stesso ragionamento al v. 8 con un’alternativa: «Oppure quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende…». Letterariamente vi è una precisa corrispondenza tra i due esempi: chi di voi… oppure quale donna? L’evangelista descrive una sola parabola a due membri o un doppio esempio, uno maschile e uno femminile, dello stesso insegnamento. Un uomo e una donna, cioè la totalità del genere umano, perché nessuno può essere escluso o può escludersi dalla salvezza che Gesù porta in dono a nome del Padre.
Al v. 11 ritroviamo di nuovo per la seconda e ultima volta il verbo narrativo (sempre al passato remoto) «e disse», che introduce la seconda parte del capitolo. Questo duplice uso dello stesso verbo narrativo «disse» è un indizio notevole che per Lc le parabole sono due e non tre.

I l verbo introduce la seconda parabola: del padre e figlio minore (15,11-24), prolungata nella relazione dello stesso padre con il figlio maggiore (15,25-32).
Anche qui abbiamo una parabola a due membri, in cui i protagonisti sono tre uomini: un uomo anonimo e due figli. L’insegnamento è lo stesso della prima parabola, ma prospettato da due angolature diverse: la prospettiva del figlio minore e quella del figlio maggiore, ambedue collegati dalla figura del padre. I due figli nella parabola non s’incontrano mai, non si parlano, sono estranei: l’unico collegamento tra loro è il padre: anche quando i fratelli sono distanti tra loro o addirittura nemici e nessun dialogo intercorre tra loro, essi continuano a comunicare attraverso la vita del padre, attraverso cioè un canale che li supera e li contiene.
Questo vale in ogni circostanza per ciascuno di noi, nella propria esperienza di vita. Ma vale anche a livello geopolitico, riguardo ai tre popoli che si richiamano idealmente al comune padre Abramo: ebrei, musulmani e cristiani. C’è chi vuole la guerra di religione anche attraverso il terrore di uomini-bomba, c’è chi vuole una nuova crociata in difesa di un concetto di civiltà inesistente e c’è chi vuole che il cristianesimo si presti a fare da baluardo contro gli immigrati, specialmente i musulmani, brandendo il crocifisso come simbolo di una identità nazionale che è la negazione dell’universalità di quel simbolo.
In questo contesto, poiché tutti e tre i popoli fanno riferimento ad Abramo e al suo Dio, anche senza saperlo e senza volerlo, essi sono in comunione tra loro perché ogni volta che attaccano gli altri, anche uccidendo, essi ne diventano sempre più parte, sempre più intimi. Essi non sanno che possono agitarsi, possono armarsi, possono uccidersi, ma il loro destino è già segnato: sono condannati a ritrovarsi figli dello stesso Padre, il quale nonostante le apparenze li sta guidando verso un percorso che si concluderà con il riconoscimento reciproco della propria figliolanza e della propria frateità.
Non si può credere in Dio ed essere estranei agli altri. Non si può essere figli di Dio e non riconoscere negli altri i propri fratelli, cioè la carne della propria carne e il sangue del proprio sangue. La pateità è la roccia su cui poggia la frateità e la frateità non può escludere del tutto la pateità, perché il figlio è figlio solo perché c’è un padre e un fratello può anche rinnegare il fratello, ma non del tutto, perché verrà un giorno in cui la pateità avrà il sopravvento e rigenererà i fratelli riportandoli alla stessa mensa della vita.
La parabola del padre e i due figli è la parabola dell’umanità intera di ieri e di oggi; se oggi Lc fosse tra noi scriverebbe la stessa parabola per dare una risposta agli immani problemi che assillano l’umanità a causa della stupidità dei fratelli che perdono tempo a uccidersi, sapendo che prima o poi dovranno ritrovarsi, convivere e aiutarsi.
Il capitolo 15 ha un orizzonte grande, ampio, universale; l’applicazione della sua catechesi non ha confini. Essa si rivolge a uomini e donne in qualsiasi situazione si trovino, in qualsiasi ambiente tentino di realizzare la propria vita:
– c’è un uomo, il pastore, e c’è una donna, la casalinga;
– c’è un animale, la pecora, e c’è una cosa, la moneta;
– c’è il fuori del deserto e c’è il dentro della casa;
– c’è un uomo che è padre anonimo e ci sono due figli anonimi;
– c’è il figlio minore che uccide il padre e il figlio maggiore che odia il padre e il fratello;
– c’è un paese lontano che è l’esilio e c’è la coscienza dell’abiezione che sono i porci;
– c’è il ritorno del figlio minore e l’accoglienza senza misura del padre;
– c’è la gioia e anche la festa in terra insieme all’allegria del cielo.
Le due doppie parabole non sono scritte da Lc per edificarci a buoni sentimenti; al contrario, sono scritte per noi, per chi legge, per l’uomo e la donna di tutti i tempi, di ogni tempo, per me qui e ora, stimolati a essere felici di gioia nell’impegno di una disperata ricerca di cose perdute e trovate. L’uomo-pastore-pecora-deserto fa da parallelo alla donna-moneta-casa, quasi a dire che nessuna situazione della vita può estraniarsi dalla presenza di Dio che viene a fare le cose più impensabili, come rischiare la vita stessa pur di salvare una sola pecora. Il padre non tiene conto del suo patrimonio, perché egli dà la sua stessa vita per i figli, anche se ribelli.
Le due parabole sono anche una esasperazione che contrappongono il comportamento di Dio a quello degli uomini. Questi hanno un concetto di giustizia feroce: non puntano a salvare l’uomo, ma solo a punirlo, secondo il principio apparentemente corretto che chi sbaglia deve pagare. Dio, al contrario, ha un senso di giustizia diverso, opposto a quello dell’uomo: chi sbaglia deve essere salvato, a ogni costo.
Il motivo risiede nella natura stessa di Dio, il quale è Dio non è uomo: «Sono Dio non uomo, sono il Santo in mezzo a te» (Os 11,9). In Dio, infatti la giustizia s’identifica con la misericordia perché il Dio di Gesù Cristo che non ha esitato ad abbandonare il Figlio sulla croce per salvare l’umanità (Mc 15,34) è il Dio giusto perché perdona. [continua-2]

Paolo Farinella

PUBBLICANI

Il termine pubblicano (in greco telônês) è un latinismo che designa il funzionario dell’amministrazione: pubblicanus, cioè agente commerciale privato, che aveva in appalto la riscossione delle tasse per conto del governo romano. Per esercitare il diritto di riscuotere le tasse in una data regione, egli riceveva una somma fissa annua, calcolata sulla previsione delle entrate, valutate al ribasso per dare all’esattore/pubblicano lo stimolo e la convenienza.
Egli aveva tutto l’interesse a riscuotere «ogni» tassa perché, doveva dare allo stato solo quanto aveva pattuito e quindi teneva per sé tutta l’eccedenza dell’incasso. In questo sistema gli abusi erano frequenti.
Accanto ai pubblicani ufficiali, vi erano esattori di grado inferiore, di norma arruolati presso le stesse popolazioni tassate: essi erano dei subaltei in sub-appalto, che avevano interesse a fare pagare quanto più potevano per guadagnare anche loro.
Nel vangelo solo Zaccheo (Lc 19,2) non è un subalterno, ma un capo degli esattori (architelônês). Questi esattori erano odiati dal popolo, sia in quanto esattori e sia in quanto truffatori e ladri, ma specialmente perché erano collaborazionisti del nemico oppressore. Matteo (Mt 9,9) e/o Levi (Mc 2,14; Lc 5,27), uno del gruppo dei dodici era un pubblicano chiamato direttamente mentre raccoglieva le imposte (Mt 10,3).

SCRIBI, FARISEI E SINEDRIO

Gli scribi al tempo di Gesù erano gli studiosi del giudaismo ufficiale tramandato nella Toràh scritta (bibbia) e nella Toràh orale (la tradizione dei saggi, che verrà raccolta per iscritto nella Mishnàh e Talmud solo tra il ii e il iv secolo d.C.). Formavano la categoria degli intellettuali dell’epoca, coloro che sapevano leggere e scrivere e, pur non appartenendo a nessuna setta particolare, erano molto vicini alla corrente dei farisei, gli interpreti rigidi del giudaismo.
Essi avevano il titolo di rabbi-maestro/guida e svolgevano anche la funzione di giureconsulti, giudici e consiglieri: seduti nel porticato del tempio, dirimevano problemi e questioni legali che la gente portava alla loro attenzione.
Mt 7,29 dice che Gesù, anch’egli rabbi, ma itinerante, insegnava con autorità, ma non come gli scribi, per dire che l’insegnamento di Gesù non si fondava su una scuola, anche se antica, ma era personale, nuovo e originale come si può osservare nel discorso della montagna di Mt, dove Gesù stesso per ben sei volte contrappone il suo insegnamento a quello della tradizione: «Vi è stato detto… ma io vi dico» (Mt 5,21-22. 27-28.31-32.33-34.38-39.43-44).

I farisei (ebr. perushìm; aram. perishayyàh = separati). La loro origine risale al sec. i a.C. al tempo dei Maccabei. Sono citati da Giuseppe Flavio come la prima delle tre correnti filosofiche accanto ai sadducei e agli esseni (Guerra Giudaica, ii,8,2,119; Antichità Giudaiche, xiii,v,9,171). Lo stesso Flavio dice che essi insorsero contro il re Giovanni Ircano (135-104 a.C.), che svolgeva anche il ruolo di sommo sacerdote e per questo considerato un usurpatore: «Tanto grande era il loro influsso tra la folla che anche quando parlano contro un re o contro un sommo sacerdote hanno credito immediatamente» (A.G, xiii,x,5,288).
Sono laici e non svolgono funzioni sacerdotali di alcun genere, ma insieme alla casta sacerdotale, i sadducei, fanno parte del sinedrio. Dopo la distruzione del Tempio e l’interdizione agli ebrei di risiedere in Gerusalemme e in Giudea (70 e 135 d.C.), fu l’unica corrente di pensiero sopravvissuta che continua ancora oggi nell’ebraismo moderno.

Il sinedrio (gr. synèdrion) è il supremo consiglio che governa Israele come autorità religiosa e civile, sotto il periodo della dominazione greco-romana. Nell’AT è citato nei libri dei Maccabei che sono databili al sec. i a.C. (1Mcc 11,23; 12,6; 14,28; 2Mcc 1,10; 4,4; 11,27). Al tempo di Gesù era formato da tre classi: gli anziani, ossia i più anziani tra i capi famiglia e tribù; i sadducei che foivano i sommi sacerdoti, gli scribi e farisei; vi appartenevano di diritto gli ex sommi sacerdoti. Era formato da 71 membri, compreso il sommo sacerdote in carica, che durava un anno e svolgeva la funzione di presidente.
Al tempo di Gesù la sua giurisdizione era limitata alla Giudea (sud Palestina), mentre la Galilea (nord Palestina) ne era esclusa. Il sinedrio aveva una certa autorità anche sotto il dominio romano: poteva imporre tasse proprie, emanare leggi e condannare anche a morte, ma non aveva il potere di eseguire la condanna (ius gladii, potere della spada) che era riservata solo ai romani. Il sinedrio vide in Gesù e nella sua predicazione un pericolo per la sopravvivenza stessa del giudaismo.

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo»

La salvezza diventa storia di ciascuno (1)

Un nostro lettore, il dott. Giorgio Lacquaniti di Frosinone, mi scrive ponendo alcune domande sulla parabola del «figliol prodigo» (Luca 15,11-32). All’età di 12 anni egli ha «incocciato» la parabola lucana e non se n’è più liberato; con essa continua a fare i conti anche oggi, sebbene siano trascorsi 65 anni.
Ecco le domande: «Da dove Lc ha attinto questa parabola, non essendo apostolo? Come spunta questa meravigliosa “perla”, visto che è esclusiva di Lc e non compare nei sinottici (Mt e Mc) e in Giovanni? L’ha pronunciata veramente Cristo? Possibile che, oltre Luca, nessuno l’abbia raccolta? Si può dire che sia stata rivelata a Luca dal Maestro per “ispirazione dello Spirito Santo”?». Secondo il sig. Lacquaniti, se esistesse un “Premio Nobel del vangelo”, bisognerebbe darlo senza ombra di dubbio a questa parabola, perché essa «contempla l’unica soluzione apprezzabile e possibile tra il finito e l’infinito e l’unico rapporto autentico e possibile tra Dio (necessario) e la creatura (contingente)».
La rubrica «Così sta scritto» è nata per gettare qualche supplemento di comprensione sulla Parola di Dio per aiutare i lettori che non dispongono di strumenti adeguati ad assaporare i risultati della ricerca biblica. Essi hanno il diritto d’intervenire e suggerire gli argomenti che più possono interessare o che possono apparire più difficili (cf in MC 5, 2005, pp.16-17, l’intervento di una nostra lettrice sul Salmo 137/136). Ho pensato non di dare risposte in pillole al nostro amico Giorgio, ma di fare un discorso organico sull’intero capitolo 15 di Lc, dedicandovi diverse puntate, senza la pretesa di esaurirla. Il metodo che userò parte dal testo così come lo possediamo e avrà un andamento dal generale al particolare, dal grande al piccolo, per cui una visione completa si potrà avere solo alla fine.

Ricerca di un titolo: imbarazzo della scelta

L’espressione «figliol prodigo» è un titolo convenzionale che non appare nel testo. I codici antichi greci erano scritti a mano e con le parole tutte attaccate l’una all’altra senza spazi intermedi, senza titolo e senza divisioni in capitoli e versetti. Non esisteva la carta: papiri e pergamene erano un materiale da scrivere molto costoso.
La divisione in capitoli e versetti inizia con Johann Gänsfleisch detto Gutenberg (1390ca.-1468), quando il 23 febbraio 1455 pubblica la prima Bibbia stampata, detta a «42 linee». Per facilitare la consultazione del testo, egli divise il testo in capitoli (corrispondenti a una pagina di stampa) e versetti (corrispondenti più o meno a una frase compiuta): è la divisione mantenuta ancora oggi, sebbene non corrisponda alla struttura letteraria del testo secondo la modea scienza biblica.
Le edizioni successive per facilitare la lettura cominciarono a introdurre nel testo i titoli-spia alla luce dei contenuti che pertanto non fanno parte della «Parola di Dio» ispirata, ma sono solo aggiunte editoriali. Queste notizie storico-letterarie servono per spiegare la varietà dei titoli dati alla parabola di Lc 15,11-32. Ogni titolo non è «neutro», ma è una sintesi che esprime una valutazione e offre una prospettiva di lettura o di osservazione dell’intero racconto.
La parabola è tradizionalmente conosciuta come la parabola «del figliol prodigo»; la Bibbia della Cei (ed. 1997, ufficiale per la chiesa italiana) titola: «Parabola del padre misericordioso», mentre la Bibbia di Gerusalemme (ed. 1984) offre un titolo diverso: «Il figlio perduto e il figlio fedele: il figlio prodigo», raggruppando in un solo titolo «tradizioni» interpretative diverse.
L’esegeta Roland Meynet nel suo Vangelo secondo Luca. Analisi retorica (Bologna 2003) parla di «Due figli smarriti». Al contrario lo statunitense Luke Timothy Johnson nel suo commento Il Vangelo di Luca titola «Parabola di cose perdute e ritrovate», preferendo una visione d’insieme dell’intero capitolo 15 di Luca. All’elenco possiamo aggiungere il nuovo titolo che anche il nostro lettore suggerisce: «Il figliolo imbelle e ribelle». Tutti questi titoli dicono la difficoltà di sintetizzare una parabola che sfugge a ogni sintesi e la ricchezza incontenibile di un testo che nessun titolo può esaurire: certe profondità abissali si possono solo sperimentare e contemplare, mai scalare e descrivere.

Il pittore esegeta

Nel 1669 Rembrandt dipingendo il suo famoso «Il figliol prodigo», oggi conservato al Museo Hermitage di San Pietroburgo in Russia, ha raffigurato in modo magistrale «l’anima recondita» del racconto. Si vede il padre di faccia nell’atto di chinarsi ad abbracciare il figlio minore in ginocchio davanti a lui, a capo scoperto e scalzo, ma con le scarpe rotte; le mani del padre sono sulle spalle del figlio: una mano è maschile (la sinistra) e l’altra femminile, sintesi magistrale e irripetibile dell’amore gratuito che accoglie il figlio perduto e ritrovato nell’unica forma possibile che è dato sperimentare sulla terra: l’incastro vitale di padre e di madre. Il figlio è l’amore di madre e di padre fuso e confuso prolungato nel tempo come corpo che vive.
In disparte, sulla destra, seduto dietro il padre, con il capo coperto di un nero berretto, il figlio maggiore osserva, apparentemente partecipe; ma nella mano destra tiene un pugnale, come se stesse studiando il momento opportuno per colpire. Fratelli coltelli, dice il proverbio. Solo il padre (e il maggiordomo) hanno un mantello rosso, mentre i due figli sono avvolti nel grigio della loro tragedia.
Rembrandt è un poeta e attraverso i colori e la disposizione delle figure fa «vedere» plasticamente l’abisso e il vertice della parabola lucana: il padre (con il maggiordomo) spicca nel colore rosso del suo mantello, simbolo del calore della «casa», mentre ambedue i figli sono avvolti nel grigio del loro egoismo ed esilio: uno che ritorna quasi morto e l’altro che nutre pensieri di morte pur stando «in casa».
Non sappiamo se Rembrandt conoscesse l’esegesi giudaica, ma è certo che in quella figura di padre, materno e paterno insieme, egli esprime ciò che la scienza della ghematria, cioè il valore numerico delle lettere alfabetiche, dice con il linguaggio dei numeri meglio di qualsiasi altra forma esplicativa. In ebraico, infatti padre si dice ’ab e ha il valore numerico di «2»; madre si dice ’em e ha il valore numerico di «41», mentre figlio si dice yelèd e ha il valore numerico di «43», cioè la somma di 2+41: il figlio è il risultato della sintesi di «padre+madre». Il figlio è la vita visibile del padre e della madre.

In principio fu la predicazione orale

La parabola del «figliol prodigo» si trova solo in Luca, non in Matteo e in Marco e nemmeno in Giovanni. In termini tecnici, con una parola greca, si dice che è un racconto hàpax, cioè una parabola detta «una sola volta».
Per rispondere alle domande del lettore, è necessario fare un po’ di storia sulla formazione dei vangeli, che non sono opere scritte a tavolino, come la biografia di un personaggio. I vangeli nascono come predicazione che si tramanda oralmente. Gli apostoli, dal giorno della pentecoste non si preoccupano di scrivere una «vita di Gesù», ma si buttano nelle piazze e sulle strade a «predicare» agli ebrei loro contemporanei che Gesù, l’uomo di Nazareth crocifisso, è il messia atteso, che Dio ha risuscitato dai morti.
Per farsi un’idea di questa predicazione basta leggere il capitolo 2 del libro degli Atti, che riporta il primo discorso missionario (tecnicamente si dice kèrigma, cioè annuncio) di Pietro il giorno di Pentecoste. I primi cristiani erano ebrei che frequentavano il tempio a Gerusalemme e la sinagoga nelle altre città e villaggi. Qui ascoltavano la Parola di Dio, cioè quello che noi oggi chiamiamo l’Antico Testamento.
Con la conversione di Paolo di Tarso (35/36 d.C.), inizia anche la predicazione alle persone di lingua greca residenti in Gerusalemme con cui inizia la missione verso i pagani o gentili (dal latino gentes che significa le genti/i popoli). I quali gentili non conoscono la tradizione religiosa ebraica, ma hanno una esperienza religiosa politeista e quindi non sanno nulla della storia degli ebrei: patriarchi, esodo, promessa, alleanza, messia. Si hanno così due kèrigma/annunci: uno rivolto agli ebrei, prevalentemente da Pietro, che parla di Cristo come messia d’Israele nel solco delle promesse dell’Antico Testamento, e l’altro rivolto ai pagani, prevalentemente da Paolo, che svela il piano di salvezza del Dio della creazione realizzato in Gesù Cristo, figlio di Dio e salvatore del mondo. Questi due annunci sono orali.

Le prime raccolte scritte

I primi scritti del NT sono le lettere che Paolo scrive alle comunità da lui fondate e dalle quali si trova lontano (anni 50-67 d.C.). Queste lettere passano di comunità in comunità e vengono lette durante le riunioni eucaristiche (cf 1Ts 5,27; Col 4,16).
Più ci si allontana dalla pasqua di Gesù e più la chiesa primitiva si allarga e si organizza. C’è bisogno di avere strumenti adeguati sia per integrare la liturgia leggendo «fatti e parole» di Gesù accanto all’AT, che ora viene letto e interpretato alla luce della sua morte e risurrezione. Accanto alle lettere paoline, nascono le prime raccolte scritte su ciò che Gesù ha detto e ha fatto.
Nascono così liste di miracoli, raccolte di parabole, insegnamenti di Gesù in diverse occasioni; coloro che avevano conosciuto Gesù fanno a gara a ricordare questa o quella parola o una frase o miracolo che Gesù ha fatto o detto nelle più diverse situazioni. È un cammino lento, che alimenta un materiale sempre più corposo, ma anche sempre più lontano dal suo contesto storico. Quello che Gesù ha detto o fatto non viene ricordato solo per conservae la memoria, ma principalmente per rispondere alle nuove problematiche e situazioni della vita: se i cristiani sono perseguitati, si do-mandano come Gesù si sarebbe comportato e quindi si va alla ricerca di parole e fatti che possono essere di aiuto in questa circostanza; di fronte agli ebrei che negano la messianicità di Gesù, si cercano quelle parole e fatti che invece l’appoggiano; davanti a una religione ufficiale troppo esteriore, si ricordano parole e fatti che esprimono una purificazione della religione e di Dio. Tutti questi scritti in origine sono autonomi e indipendenti gli uni dagli altri.

I primi tre vangeli prima dei sinottici

L’ipotesi più accreditata considera che la predicazione degli apostoli fu messa per iscritto dando vita a un probabile Vangelo dei dodici, forse scritto in ebraico o aramaico a Gerusalemme prima dell’anno 36, anno in cui gli ebrei di lingua greca, chiamati «ellenisti» nel NT, furono cacciati dalla città santa, spostandosi ad Antiochia in Siria, a nord della Palestina. Qui nasce e si sviluppa una fiorente comunità dove per la prima volta i discepoli di Gesù sono chiamati «cristiani». Anche qui si sentì la necessità di avere «scritture» di Gesù sia per la liturgia che per la catechesi.
Si suppone che il Vangelo dei dodici sia stato tradotto in greco, ma aumentato di altro materiale che raccoglieva i gesti e insegnamenti di Gesù sull’universalità del suo messaggio rivolto non solo agli ebrei, ma a tutti gli uomini. Si arriva così alla seconda tappa del vangelo scritto, cioè a quello che possiamo chiamare il Vangelo degli ellenisti.
Vi sono così due «scritture» contemporanee: una a Gerusalemme per i cristiani di origine ebraica (Vangelo dei dodici) e una ad Antiochia per i cristiani di origine greca (Vangelo degli ellenisti).
La chiesa intanto si espande in Grecia attraverso i viaggi apostolici di Paolo. Nelle comunità fondate da Paolo come Filippi, Efeso, Corinto, Tessalonica, avviene lo stesso fenomeno di Antiochia: il Vangelo dei dodici è utilizzato come fonte base, ma integrato da altre fonti vicine a Paolo, che sottolineano l’universalità della salvezza e il culto spirituale. Anche qui, forse a Efeso intorno agli anni 55/56, nasce un altro vangelo: il Vangelo di Paolo.

I vangeli sinottici dopo i primi tre vangeli
Intoo agli anni 30/40 a Cesarea sul Mediterraneo nasce una comunità particolare, formata da cristiani provenienti dal paganesimo (quindi dal mondo greco), ma sono al tempo stesso simpatizzanti del giudaismo, stanno a mezza strada: non sono del tutto greci come non sono del tutto giudei. Questo gruppo, forse presieduto dal diacono greco Filippo, che gli Atti chiamano spesso «evangelizzante» (cf At 8,12.35), genera un quarto vangelo, comunemente censito come Vangelo dei timorati di Dio, che raccoglie materiale sparso fuori di ogni contesto storico o narrativo.
Gli studiosi sono soliti chiamare questa ipotesi come «fonte Q» (prima lettera del termine tedesco quelle, pronuncia kèlle, che significa fonte). I vangeli sono, dunque, tutti scritti occasionali, nati ed elaborati per illuminare con l’insegnamento del Signore la vita vissuta e le nuove situazioni che le comunità cristiane delle origini incontravano.
Intoo all’anno 50 d.C., dunque, nelle comunità cristiane, sparse in Palestina, in Siria, in Grecia e in Anatolia (attuale Turchia) circolano almeno quattro vangeli (dei dodici, degli ellenisti, di Paolo e dei timorati di Dio) e liste autonome di «detti» del Signore (es.: parabole) e racconti di miracoli. È un immenso materiale sparso, ma ancora fluttuante. A questo punto avviene il passaggio determinante, che corrisponde alla «redazione finale», che la tradizione attribuisce agli evangelisti sinottici: Marco, Matteo e Luca. Essi non sono solo collettori di tradizioni che assemblano insieme materiale raccolto, ma al contrario, raccolgono il materiale esistente e lo dispongono secondo un piano personale che persegue un fine specifico. Essi sono autori a tutti gli effetti.

I vangeli definitivi
L’evangelista Marco che non è discepolo di Gesù, ma lo ha conosciuto, è l’inventore dello schema del vangelo come lo possediamo (si dice genere letterario del vangelo). Egli fonde il Vangelo degli ellenisti e quello di Paolo, rielaborandoli di sana pianta e facendone un nuovo vangelo come strumento di una catechesi catecumenale: un aiuto a chi non conosce nulla di Gesù e si accosta a lui per la prima volta.
Matteo scrive un vangelo per i catechisti/maestri, quindi per coloro che già seguono Gesù, provenienti dal mondo giudaico. Nella redazione del suo vangelo si basa su Marco, che integra con materiale della «fonte Q» e con altro materiale a lui proprio, che gli arriva da fonti sconosciute agli altri.
Anche Luca, come Marco, non è discepolo di Gesù e, a differenza di Marco, non l’ha nemmeno conosciuto. Per redigere il suo vangelo, da studioso fa ricerche appropriate. Partendo da Marco, dal materiale comune con Matteo e dalla «fonte Q», egli aggiunge fonti proprie che gli derivano dalle tradizioni tramandate nella famiglia/parentela di Gesù o da fonti a noi sconosciute. Al terzo vangelo, Lc fa seguire il libro degli Atti degli Apostoli, che potremmo chiamare il «Vangelo dello Spirito Santo e/o della chiesa», perché racconta lo sviluppo e il diffondersi della chiesa del primo secolo fino alla prigionia di Paolo a Roma (a. 67).
I vangeli di Marco, Matteo e Luca sono redatti tra gli anni 60 e 80 d.C. Qualche decennio più tardi Gv, un autore dell’ambiente dell’apostolo Giovanni, tenendo presente questi vangeli «sinottici» scrive il iv vangelo, detto il vangelo del presbitero o spirituale, perché accompagna alla contemplazione di Cristo nella sua «Gloria» di Figlio di Dio e di Lògos incarnato.
In conclusione, alla domanda da dove arriva la parabola del «figliol prodigo» a Luca, possiamo rispondere: poiché non si trova nel materiale comune, Lc non l’ha ricevuta dalla tradizione sinottica perché Mc e Mt la conoscerebbero. Lc con ogni probabilità la riceve da una fonte particolare (famiglia?) non conosciuta dagli altri e nemmeno da noi. D’altra parte nel prologo (1,1-5) egli ci dice che fece ricerche accurate e sicuramente è venuto a contatto con materiale che solo lui poté avere a disposizione.
Dal prossimo numero cominceremo a presentare la parabola e a commentarla.

Paolo Farinella
(continua-1)

Paolo Farinella




011-Cos’ sta scritto – «A immagine di Dio lo creò»

«Egli è l’immagine del Dio invisibile»

Il mese scorso abbiamo stabilito i termini e il loro significato di base. Ora diventa più agevole approfondie il senso nascosto, oltre il testo, per addentrarci nel mistero della coppia. In questa esplorazione applichiamo la ghematrìa o scienza che esplora il significato dei numeri corrispondenti alle lettere dell’alfabeto ebraico, secondo l’uso comune alla tradizione giudaica e ai padri della chiesa dei primi secoli.
Intoo al xii sec. d.C., chiusa da secoli la fase di raccolta della tradizione orale (Mishnàh e Talmud), nell’ebraismo si sviluppa un genere letterario detto Qabalàh o Càbala (in ebraico significa tradizione/ricezione/accoglienza), che rappresenta il vertice della conoscenza: è la mistica, la sintesi della Mishnàh e del Talmud; l’ultimo gradino della perfezione, riservato agli iniziati introdotti al segreto (sod) della conoscenza per acquistare il dono/ricezione della luce.
L’opera letteraria, il codice della Qabalàh è il Sefer ha-zohar o solo Zohar (Libro dello splendore), a cui si rifanno i successivi movimenti mistici ebraici fino a oggi. La Qabalàh può riportare tradizioni antiche, che bisogna individuare di volta in volta sui singoli testi.
Il criterio esegetico prediletto dalla Qabalàh è la ghematrìa o scienza dei numeri: a ogni consonante (l’ebraico ha solo consonanti, le vocali sono secondarie) corrisponde un numero, per cui le composizioni che si possono ricavare con i relativi significati sono infiniti. Il processo è complesso e noi ci limitiamo ad alcune applicazioni.
Zakàr/pungente/maschio in ebraico si scrive zkr e ha un valore numerico di 22; neqebàh/perforata/femmina si scrive nqbh e ha un valore di 157.

La differenza tra maschio e femmina è 70 (227-157=70): è lo stesso numero che si ottiene sommando le consonanti dell’espressione ebraica Adam weChavàh/Adam ed Eva.

All’epoca della bibbia, intorno al sec. x a.C., si calcolava che la terra fosse abitata da 70 popoli, per cui l’espressione Adam weChavàh/Adam ed Eva comprende la totalità del genere umano, un modo per dire che tutti i popoli hanno una sola origine: nella prima coppia creata da Dio.
Anche la qabalàh si basa sul n. 70, perché corrisponde alla parola ebraica sod (60+6+4 = 70), che significa «segreto» della conoscenza e della mistica. Il «segreto» della coppia umana è nella loro differenza; dall’altra parte il suo mistero è nella totalità della sua umanità: l’unione tra maschio e femmina è il segno dell’unità del genere umano (70 = tutti i popoli della terra).

Prima di creare la coppia umana, Dio crea l’ambiente, il cielo e la terra; e prima ancora crea la luce, come orizzonte del creato e dimensione della coppia: in ebraico luce si dice «’or» e ha un valore numerico pari a 207.

L’espressione come la luce si dice ke-’or e il suo valore è la somma della luce (=207) e della lettera k/come (=20) 227, cioè lo stesso numero di zakàr/maschio.
L’ultima espressione come la ricezione della luce in ebraico si dice ke-qabalàh e corrisponde al numero 157 cioè lo stesso numero della neqebàh/femmina.

Il valore della lettera ebraica K (kaf=20) si ritrova sia nel maschio, perché lo paragona alla luce che viene offerta (207 [luce] + 20=227 [maschio]), sia nella femmina, perché la paragona alla luce che viene ricevuta e accolta (157 [femmina] – 20=137). Il n. 137 è il valore di qabalàh/ricezione/ accoglienza: la femmina in quanto luce ricevuta e accolta è simbolo del mistero e della mistica, il vertice e la sintesi di tutta la tradizione scritta e orale, ovvero della qabalàh [=137].
All’alba della vita, Dio crea la luce prima del maschio e della femmina, per fare della loro unione il segreto della conoscenza. «Conoscere/yadà’» nella bibbia è sinonimo di rapporto sessuale.
Adam ed Eva nel giardino di Eden erano senza vestiti, perché il loro vestito era la luce di Dio che risplendeva sulla loro pelle. In ebraico pelle si dice ‘or, parola simile a luce che si dice ’or (tra le due parole cambia solo la 1a consonante, che corrisponde al piccolo segno che sembra una virgoletta): ’or/luce e ‘or/pelle. Nel parlare si sente l’assonanza.

Dice una tradizione che la pelle dei corpi di Adam ed Eva era luminosa: come la luce/ke-’or. La pelle divenne opaca dopo il peccato e per questo si accorsero di essere nudi: si era spenta la «luce» della grazia che li rivestiva.
Dio procura alla coppia nuda (Gen 3,21) un vestito di tuniche di pelli ricavate dagli animali morti e scuoiati: Adam ed Eva hanno il sigillo della loro mortalità nel vestito della loro opacità. La coppia, perduto il vestito della pelle luminosa, deve coprire la propria opacità con pelle di animali morti, impegnando la propria esistenza nel tentativo di recuperare la somiglianza perduta. La morte entra a fare parte della natura umana e ne diventa il vestito, il contenitore e la morsa.
La vita della coppia diventa così un costante impegno a ricostruire ciò che era al «principio», cioè l’espressione visibile di una luce misteriosa che emana il senso di Dio/Amore. Prima del peccato originale, l’amore era la stessa natura del maschio/femmina, cioè armonia di perfezione; dopo il peccato l’amore diventa un impegno, una conquista, ma anche una sofferenza.
Gesù viene a portare solo questa rivelazione: Dio/Padre è Amore che vuole ricomporre l’armonia iniziale della creazione nella persona del Figlio suo, nella sua morte e risurrezione. Il senso finale della redenzione è la ri-creazione dell’immagine perfetta di Dio (Col 1,15-20).
La parola «Amore» in ebraico è ’ahabah" (valore numerico 13) e il Nome santo di Dio è Yhwh (valore numerico 26).

A nche la parola «esistenza/hawayah» ha il valore numerico di 26. Yhwh (=26) è la vita/esistenza (=26). Creando zakàr/maschio e neqebàh/femmina, ha diviso la vita in due e ne ha dato metà al maschio (13), metà alla femmina (13). Se vogliono ritrovare la loro immagine iniziale e vivere la vita di Dio (=26), essi devono sommare la parte di amore che hanno ricevuto per esprimere la totalità dell’esistenza (13+13=26), che si manifesta nella generatività di padre, di madre e del figlio generato, secondo lo schema seguente.

Maschio e femmina uniti come zakar e neqebàh diventano padre e madre, cioè sorgente della vita: nella ghematrìa la somma numerica di padre (3) e di madre (41) dà il figlio (3+41=44).
Se Dio è l’Amore e questo è l’esistenza partecipata, vivere acquista senso solo in una dimensione di amore che a sua volta trasforma e rigenera il maschio in padre e la femmina in madre, che sommati insieme formano una nuova esistenza, una vita nuova per ricominciare il ciclo luminoso della creazione.
Amare è sempre un ritorno alle origini, al «principio» dell’intimità con Dio (Gen 3,8). Il Talmud babilonese, nel trattato Sotah17a, ce ne dà la conferma: «Quando l’uomo e la donna sono degni (dell’amore), la Shekinàh/Presenza di Dio è con loro; quando invece non ne sono degni il fuoco li consuma». •

Paolo Farinella




010-Così sta scritto – Maschio e femmina li creò

L’ espressione «maschio e femmina» si trova nel secondo racconto della creazione (Gen 1,27), databile sec. v a.C., all’epoca dell’esilio a Babilonia. Ritorna quasi alla lettera in Gen 5,2, nell’elenco dei patriarchi prima del diluvio. Nel NT l’espressione è riportata come citazione indiretta da Mt 19,4 e Mc 10,6, in cui Gesù, nella questione del divorzio, non dà una risposta pronto-uso, ma rimanda al «principio» della creazione, cioè al disegno di Dio e alla sua prospettiva sull’uomo/donna.
Mantenendo in italiano lo stesso ordine delle parole ebraiche, Gen 1,27 ha il seguente schema:

A. Creò Dio l’Adam
B. a sua immagine
B1. a immagine di Dio
A1. creò esso:
B2. maschio e femmina
A2. creò loro
Nel greco della Lxx manca B1. Il testo presenta una costruzione tipica biblica, detta a chiasmo o incrocio, dove la prima parte (A) corrisponde all’ultima (A1), perché vi si trovano le stesse parole: creò l’Adam – creò lui. A1 poi si sviluppa in A2: il singolare «lui» diventa il plurale «loro», per dire che l’umanità (Adam) non è solo maschile, ma anche femminile. Allo stesso modo la seconda espressione (B), che introduce il tema dell’immagine: a sua immagine, anch’essa sviluppata in a immagine di Dio (B1), corrisponde alla penultima (B2), che ne chiarisce la natura: non l’uomo in quanto maschio rappresenta Dio sulla terra, ma Adam, cioè l’umanità nella sua struttura fondamentale, fatta di mascolinità e femminilità. Uomo e donna insieme sono l’immagine completa, la somiglianza adeguata di Dio sulla terra.
Questo modo di procedere per coppie a uncino era un sistema tipico delle lingue antiche per facilitare la memorizzazione e quindi la trasmissione orale, ma anche per esprimere concetti di inaudite profondità che proveremo a intuire.
Era usanza che i confini di un regno fossero segnati con le immagini o statue dei re in carica: chiunque vedeva l’immagine del sovrano ne riconosceva la signoria e ne accettava la supremazia. Creando il mondo, Dio non ha bisogno di segnae i confini, ma pone in esso «la sua immagine» vivente, Adam (maschio e femmina) come segno e garante della sua signoria. Adam non è il padrone del mondo, ma il luogotenente di Dio creatore: chiunque vede il maschio e la femmina insieme, dovrebbe riconoscere immediatamente il volto di Dio creatore.
Nella sezione A del v. 27 sopra riportato (A-A1-A2), la creazione dell’uomo è annunciata con il termine generico Adam (A) al singolare e indica il genere umano indistinto: si potrebbe tradurre con umanità. Il testo prosegue con il singolare generico lo creò (A1), per concludersi con un plurale di distinzione sessuale: creò loro (A2), perché il genere umano è composto di maschi e femmine. Maschile e femminile insieme specificano l’individualità personalizzata del genere umano/umanità. Non il maschio o la femmina separati.
Nella sezione B-B1 l’autore introduce una idea nuova: l’Adam in quanto genere umano è creato a immagine di Dio e questa immagine ha in sé le caratteristiche complementari del maschio e della femmina (B2).

I n ebraico il termine maschio si dice zakàr e letteralmente significa «pungente»; femmina si dice neqebàh significa «perforata». Il riferimento alla funzione degli organi sessuali è evidente. L’ebraico è una lingua descrittiva come tutte le lingue semitiche: racconta la realtà come la vede. In un contesto culturale maschilista, che relega la donna in uno stato di quasi schiavitù, nel sec. v a.C. un autore biblico ci consegna il vangelo della rappresentanza di Dio sulla terra con un’affermazione forte e rivoluzionaria: non è il maschio ad avere la prerogativa di rappresentante di Dio, perché fin dall’in principio solo «maschio e femmina» sono l’adeguata immagine di Dio. Non il maschio senza la femmina, non la femmina senza il maschio possono rivelare l’identità di Dio: il rapporto sessuale in quanto comunione di pungente e perforata dice la vera immagine di Dio creatore che genera alla vita. Realizzandosi sessualmente, la coppia esercita il proprio ruolo sacerdotale e vive la propria immagine nuziale come liturgia eucaristica sacramentale.
In questa prospettiva è la coppia il vero «sacramento» rivelatore di Dio che è Agàpe/Amore (1Gv 4,8). Il passaggio dal singolare al plurale nel v. 27: «creò esso/creò loro» è molto importante. Nella relazione sessuale, l’individuo cessa di essere «singolare», perché consegna la propria individualità a una nuova «personalità plurale», che nasce dalla fusione di pungente e perforata: la personalità della coppia, la personalità del «noi», che è la confluenza di «io» e di «tu».
Per questo, secondo la chiesa cattolica, il matrimonio sacramento celebrato nella chiesa (non solo in chiesa) non è compiuto finché non è consumato nel rapporto sessuale, che diventa così l’azione sacerdotale della coppia. Il maschio e la femmina, in quanto ministri del sacramento, celebrano la liturgia d’amore esprimendo come coppia il volto maschile-femminile di Dio creatore. Maschio e femmina, incastrati insieme, sono una persona nuova: un nuovo unico corpo e una nuova unica anima che danno origine a una nuova identità.
Si capisce perché Lv 20,10 punisce l’adulterio con la pena di morte, equiparandolo all’omicidio. L’adulterio, infatti, uccide la nuova personalità della coppia in quanto immagine sessuata di Dio. L’adultero divide in due (cioè uccide) la nuova persona che è la coppia e ne sostituisce metà con una falsa. Si uccide una persona togliendole la vita; si uccide la persona-coppia, spezzando in due la coppia, che così non può vivere: un corpo spezzato in due è un cadavere smembrato.

S e la coppia è l’immagine più adeguata di Dio, viene logico domandarsi, in rapporto a Dio, quale sia il ruolo del prete che coppia non è. In quanto «singolo», in forza di Gen 1,27 sarebbe incapace di rappresentare Dio, dal momento che egli per legge canonica non può esercitare la sessualità genitale. Lo stesso vale per i monaci, le monache e in generale per i religiosi che fanno un voto di verginità, promettendo a Dio di non essere mai coppia, ma di restare sempre sessualmente incompleti.
Da una parte tutta la creazione è proiettata verso la coppia, perché tutto ciò che è creato nei primi cinque giorni è in funzione del giorno sesto, il giorno in cui Dio crea zakàr/maschio e neqebàh/femmina. È la coppia il vertice del creato e, vivendo una relazione vitale fondante, è rappresentativa di Dio come Agàpe/Amore di cui è l’immagine adeguata. Dall’altra parte il prete (religioso/a, monaco/a) che ha fatto promessa di celibato (o voto di castità) non può rappresentare Dio-Agàpe/Amore perché egli è incompleto, non è coppia. Il Talmud babilonese nel trattato Jebamoth 63a, a questo riguardo è lapidario: «Un uomo che non ha moglie non è un vero uomo, poiché è detto: maschio e femmina li creò… e dette loro nome Adam (Gen 5,2).
La domanda è: se la coppia è immagine di Dio, il prete (il monaco/a) di chi è immagine?
La risposta articolata, a mio parere, potrebbe essere la seguente. Sappiamo per rivelazione che Dio è «unità» e «trinità». Dio è uno solo e non c’è altro Dio al di fuori di lui: «Ascolta, Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è Uno» (Dt 6,4). Questa unicità di Dio si è manifestata a noi storicamente come comunione di Padre, di Figlio e di Spirito Santo. Per questo possiamo dire che «Dio è Amore» (1Gv 4,8). La trinità di Dio altro non è che l’unità divina vissuta come pienezza di comunione senza fine.
La coppia è una pienezza, un incastro d’amore mandato nel mondo a indicare la strada di Dio che è amare, amare sempre, amare comunque. Chiunque vede una coppia amante dovrebbe essere indotto immediatamente a rapportarsi con il suo Creatore di cui la coppia è copia conforme.
Ma la coppia in quanto sacramento visibile di Dio-Agàpe corre il rischio di Adamo ed Eva, cioè, della presunzione superba, che potrebbe indurla a credere di avere raggiunto la perfezione e quindi chiudersi all’interno di se stessa, senza bisogno di altre conversioni per mettere sempre più a fuoco l’immagine di Dio che racchiude. Amarsi anima e corpo potrebbe dare l’ebbrezza dell’autosufficienza ripiegata su se stessa, facendo dimenticare che l’obiettivo finale della coppia è sempre Dio.
Il celibe (il consacrato/a in genere) ha il ruolo pedagogico di ricordare alla coppia che c’è un solo Dio e solo lui è l’Assoluto, il Primo e l’Ultimo (Ap 1,17; 22,13) e che nessuna realizzazione di pienezza d’amore può esaurire il desiderio di amore infinito che c’è in ogni cuore. Il celibe (religioso/a) ha la funzione profetica di ricordare alla coppia che se l’incastro è autentico e se l’amore che sperimenta è vero, inevitabilmente conduce all’Assoluto dell’Amore di Dio, anche oltre la morte.
Chiunque vede il celibe (religioso/a) sente di essere riportato alla radicalità evangelica, che chi ama la moglie o il marito più di Lui non è degno di Lui (cf Mt 10,37): il maschio è la via di Dio che realizza la femmina; la femmina è la via di Dio che realizza il maschio; maschio e femmina dicono insieme al mondo intero e al celibe che «Dio è Amore/Agàpe» (1Gv 4,8).
Il celibe (monaco/a, religioso/a), a sua volta, potrebbe essere preso dal dèmone dell’esclusività, dall’intransigenza della casta e dalla disperazione della solitarietà senza riferimento al di fuori di sé. Il rischio dei celibi è il peccato di grettezza e chiusura narcisistica. Presumendo di essere più vicino a Dio-Uno, il celibe rischia di consumarsi in una vita gretta e senza amore, chiuso in rituali di morte liturgie, schiacciato dalla lettera della legge e ossessionato dal peccato.
La coppia diventa allora profezia vivente per il religioso/a o celibatario a cui ricorda che Dio non è solo Uno, ma è anche Trinità, cioè relazione e condivisione e senza comunione non può esserci vita né fede. Un celibe chiuso in sé, sterile nel ventre e arido nel cuore è inutile a sé, agli altri e anche a Dio. Un simile celibe di norma dedica la sua esistenza alla ricerca ossessiva degli onori della carriera.
Nessuno esiste per se stesso, ma ciascuno di noi è stato pensato e amato per amore e a servizio degli altri. Ecco dunque la reciprocità: la coppia è profezia della Trinità di Dio-Agàpe e il celibe-religioso/a è profezia dell’Unità di Dio e della sua esclusività. Coppia e celibe, procedono insieme protesi verso l’Assoluto, che si manifesta nella gloria della croce, il trono della redenzione che compie definitivamente la creazione in attesa dell’ultima ora, quando «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28).
Assaporiamo ancora una volta Gen 1,27 nella versione letterale con la trascrizione dell’ebraico:
E creò Dio l’Adam a sua immagine
Wayyibarà ’elohim et-ha’adam bezalmò
a immagine di Dio creò esso
bezelem ’elohim barà’ ’otò
maschio e femmina creò loro
zakàr u-neqebàh barà’ ’otàm

La coppia è immagine e somiglianza di Dio «Amore», che si esprime nella relazione di zakàr/u-neqebàh. Tale relazione costituisce il principio fondamentale non solo della persona umana, ma di tutta la creazione che vibra nella polarità maschile-femminile.
La cultura cinese parla allo stesso modo di yin e yan. Anche l’ebraismo dà vita a una specifica corrente di pensiero che sviluppa il significato nascosto della sapienza della vita per raggiungere il vertice e la sintesi della conoscenza che è la mistica: è la Qabalàh (tradizione/accoglienza/ricezione), che, nella corrispondenza delle parole e lettere con i corrispettivi numeri, applicando la scienza dei numeri o ghematrìa, è in grado di raggiungere significati profondi che ancora oggi riescono ad affascinarci e stupirci. Della Qabalàh e delle sue applicazioni a questo versetto tratteremo nel prossimo numero.

Paolo Farinella




009-Così sta scritto – Simbologia del «n.8»

Al Vincitore, sull’ottava [corda] (Sal 12,1)

Quando si compirono gli otto giorni per circonciderlo, gli fu messo nome Gesù (Lc 2,21)

Per gli ebrei il «nome» non è un’etichetta scelta a caso perché «suona bene», ma indica la natura intima, il compito o missione della persona che lo porta (v. nota n. 1). Quasi tutti i nomi biblici sono teoforici: composti col nome di Dio. Luca ignora le annotazioni di tempo, ma tiene a precisare l’esatta data della circoncisione di Gesù: «Quando si compirono gli otto giorni per circonciderlo, gli fu messo nome Gesù» (Lc 2,21).
La circoncisione, che in epoca di nomadismo e clima arroventato era una semplice precauzione profilattica, è diventata un rito di alleanza, legato alla sessualità, per il suo carattere di fecondità, e al sangue, per il suo simbolismo sacrificale (cfr il significato di benedizione/fecondità in M.C. n.3, 2005, p. 50 ). Per gli antichi il sangue è sede della vita e fare un’alleanza di sangue significa mettere la propria vita nelle mani dell’altro in un legame irreversibile: il sangue del rito della circoncisione rimanda all’idea di espiazione-redenzione.
Solo a partire dal ii sec. d.C., durante la diaspora, l’esegesi rabbinica sposta l’accento dall’espiazione-redenzione al rito della circoncisione come segno esclusivo di appartenenza a un popolo, dandole valore d’identità e motivo ascetico di perfezione. Nel contesto di una religione di alleanza, tagliare il prepuzio del pene maschile (circoncisione in ebr. deriva da mûl – tagliare) e versare alcune gocce di sangue significa stabilire un patto vitale di reciprocità con Dio. La circoncisione assume così il valore di segno (oggi diremmo sacramento) di una duplice appartenenza: a Dio e al popolo eletto. Segno di comunione di vita con Dio e solidarietà con gli altri ebrei, la circoncisione è un atto di culto che trasmette l’identità religiosa del popolo d’Israele, popolo dei circoncisi. Corrisponde al battesimo cristiano.

G ià in Gen 17,12, che prescrive la circoncisione di alleanza ad Abramo, troviamo l’indicazione degli otto giorni: «Tra di voi ogni maschio, figlio di otto giorni, sarà circonciso». Una tradizione afferma che la circoncisione deve essere fatta non solo all’ottavo giorno, ma anche «di mattina presto» per imitare l’ardore di Abramo nell’accogliere l’alleanza. Il Targum Shabat 130b-132a prescrive che la circoncisione deve essere eseguita anche se l’ottavo giorno cade di shabat, ponendo così sullo stesso piano circoncisione, ottavo giorno e shabat.
Perché l’ottavo giorno e non il settimo, giorno della pienezza, o il sesto, giorno dell’uomo? La risposta è nella scienza dei numeri o «ghematrìa», perché nella bibbia nulla è scritto a caso e tutto racchiude sensi nascosti, non evidenti a prima vista, che spetta a noi scoprire (Mt 13,52).
Nella tradizione biblica giudaico-cristiana il «n. 8» è sempre collegato alla figura del Messia/Cristo. In ebraico, «8» si dice shemonè e in greco oktô. Come numero cardinale si trova 83 volte da solo o composto con altri e ha il senso generico prevalente per indicare l’età. Come numero ordinale, «ottavo» (in ebraico sheminì e in greco ogdòê) ricorre 45 volte sia in senso comune senza particolare significato (1Re 6,38. ecc.), sia come spazio di tempo determinato: l’ottavo giorno in cui si consacra qualcuno o qualcosa al Signore (Es 22,29; Lv 9,1; 22,27; Ez 43,27; cfr nota n. 3).
L’ottavo figlio di Obed-Edom è una grande benedizione (1Cr 26,5). Quando Dio deve sostituire il re d’Israele Saul con un re-pastore mite e docile, invia Samuele a consacrare Davide, l’ottavo e figlio di Iesse (1Sam 16,1-13). La purificazione del tempio avviene all’ottavo giorno, dura otto giorni e termina al sedicesimo (8+8) giorno (2Cr 29,17), imponendo così un ritmo temporale di ottava in ottava.
In due salmi (6,1 e 12,1; 1Cr 15,21) il «n. 8» è una indicazione musicale, la corda ottava, di cui sappiamo nulla (forse uno strumento o una tonalità per cantare i salmi nel tempio). I due salmi hanno questo titolo: al hasheminit, per l’ottava. Il Talmud babilonese (bArakin 13b) spiega: «Rabbi Jehudà era solito dire: l’arpa del santuario aveva sette corde… Quella dei giorni del Messia ne ha otto, come è detto: Al Vincitore, al hasheminit, sull’ottava (Sal 12,1) corda». Il nesso esplicito tra «n. 8» e Messia è posto.

N el NT «8/ottavo» compare 13 volte, ma solo tre testi sono fondamentali per la nostra riflessione. Sono nel vangelo di Luca e fanno quasi una trama: all’inizio, a metà e alla fine, la vita di Gesù è segnata dal numero «otto», stabilendo un filo cristologico come sfondo del viaggio/èxodon di Gesù verso Gerusalemme e da qui verso il Padre. L’ottavo giorno indica il tempo di Dio perché è un supplemento di pienezza che completa il «n. 7», il numero della creazione: «Otto gli aggiunge un accento di trionfo. L’ottavo giorno è difatti il giorno del Signore risuscitato» (H. de Lubac, Esegesi medievale). I testi:

Lc 2,21: «Quando furono compiuti gli otto giorni perché fosse circonciso, gli fu messo il nome Gesù, [quello] detto dall’angelo prima di essere concepito nel grembo».
Lc 9,28: «E avvenne poi dopo questi discorsi, circa otto giorni dopo… avendo preso con sé Pietro e Giovanni e Giacomo salì sulla montagna per pregare» (trasfigurazione);
Lc 24,1: «Nel primo [giorno] dei sabbati [frase tecnica per dire l’ottavo giorno, la domenica], al mattino molto presto [le donne] vennero al sepolcro portando gli aromi che avevano preparato».
In Luca l’indicazione dell’ottavo giorno riferito alla circoncisione, trasfigurazione e pasqua di Gesù non è solo un riferimento temporale, ma è simbolo del Messia, figlio di Davide e di Adamo. Il giorno ottavo va oltre il 7° e si apre a un ordine nuovo, riprendendo la perfezione imperfetta della creazione e proiettandola in un nuovo orizzonte: nella pienezza di Dio attraverso il Messia e Redentore. L’uomo accoglie questa pienezza col rito della circoncisione e del sangue: è il sigillo dell’alleanza nuova.

L a festa di sukkôt-capanne durava sette giorni, ma era prolungata di un giorno per completarla con shemini azeret, l’ottava assemblea solenne: «Nell’ottavo giorno avrete una assemblea solenne (azeret): non farete alcun lavoro servile» (Nm 29,35). Giuseppe Flavio in riferimento a questa festa scrive: «Nell’ottavo giorno si asterranno da qualsiasi lavoro e offriranno a Dio il sacrificio di un vitello, un montone, sette agnelli, e un capretto per la remissione dei peccati. Queste sono le consuetudini ricevute dai padri che gli ebrei osservano, quando erigono le tende» (Antichità giudaiche, x, 4, 245-247). Nel giorno ottavo l’ebreo: non lavora a imitazione di Dio e compie sacrifici per la remissione dei peccati (espiazione). Secondo il Talmud (Sukkôt 55b), nella festa delle capanne che aveva una forte connotazione messianica (cfr Zac 14,16) si sacrificava un bue per ogni popolo esistente sulla terra: una forte connotazione di universalità.
La circoncisione e più ancora la sua risurrezione, collocata al primo giorno dopo il sabato (=ottavo), colloca Gesù all’interno della tradizione giudaica, ebreo tra gli ebrei. Gesù Iêsoûs/Yehoshuà’ riceve il «nome che è sopra ogni altro nome» (Fil 2,9) nel giorno ottavo, il giorno del patto della circoncisione che richiama il giorno del Messia, il giorno dopo il settimo (v. nota 2). Nell’alfabeto ebraico il «n. 8» corrisponde alla lettera x (hêeth) che è chiusa da tre lati, ma aperta sul quarto, quello verso il basso, verso la terra: dall’alto al basso, dal cielo alla terra, da Dio all’uomo perché i cieli possano riversarsi sulla terra: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (Is 63,19), riallacciando il colloquio d’intimità spezzato da Adamo ed Eva (Gen 2,8).
Il bimbo circonciso all’ottavo giorno e il Risorto che ritma le sue apparizioni di otto giorni in otto giorni (Gv 20,26), potrebbero contenere uno schema teologico per affermare la messianicità di Gesù, in sintonia con la tradizione giudaica che attende il suono dell’arpa a 8 corde per fargli accoglienza: il regno del Messia è anticipo e premessa del Regno di Dio al quale ci prepara il canto dell’arpa in ottava.
In Gen 7,7 si dice che Noè si salvò nell’arca con moglie e figli. Il sapiente specifica che fu la Sapienza con la sua fragile barca di legno a salvare la terra dal castigo dell’acqua (Sap 10,4). Anche l’apocrifo La Cavea del tesoro dice lo stesso (16,3-5). Nel NT Pietro commenta in chiave cristologica il diluvio di Noè: «Ai giorni di Noè mentre veniva fabbricata l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate attraverso l’acqua, che è figura del battesimo… che ora salva anche voi mediante la risurrezione di Gesù Cristo» (2Pt 3,20). Pietro aggiunge che Dio «custodì Noè come ottavo in quanto predicatore di giustizia» (2 Pt 2,5). Noè è figura di Cristo che annuncia la giustizia di Dio mentre la nuova arca è la chiesa che con le acque del battesimo accoglie/salva l’umanità dal giudizio di Dio.

G li Atti presentano Gesù di Nazaret come discendenza di Davide, per cui il «n. 8» che legava Davide al Messia, ora collega Gesù di Nazaret al Messia e a Davide: «Ho trovato Davide, figlio di Iesse, uomo secondo il mio cuore; egli adempirà tutti i miei voleri. Dalla discendenza di lui, secondo la promessa, Dio trasse per Israele un salvatore, Gesù» (At 13,22-23). Secondo la ghematrìa, il nome greco Iêsoûs ha il valore di 888 (=8×3), mentre in ebraico, il termine Mashiàch ha il valore finale di 16 (=8×2). Tutto ciò che riguarda Gesù il Messia è sempre connesso con il «n. 8» in un rapporto non occasionale, ma salvifico e teologico. Come il 666 è l’imperfezione assoluta (3 volte 6) così l’888 è il massimo della perfezione perfetta.
Il Midrash Cantico rabbà 1,1 riporta l’elenco dei dieci cantici della storia della salvezza: «Dieci cantici sono stati detti in questo mondo… Il primo cantico lo disse Adamo… L’ottavo cantico lo disse Davide, re d’Israele, per tutti i prodigi che aveva fatto per lui il Signore; egli aprì la sua bocca e disse il cantico, come sta scritto: E Davide in profezia cantò la lode davanti al Signore (2 Sam 22, 1/targum)».

Davide re e pastore, immagine, tipo e padre del Messia pastore e redentore, conclude l’ottavo cantico profetizzando il Messia, sua discendenza regale. Nella Bibbia greca della Lxx in 2Sam 22,51 l’ottavo cantico si conclude con un riferimento esplicito al Messia: «Al suo cristo/unto, a David e alla sua discendenza per sempre».
Davide nel Sal 12,1 canta al Messia sull’ottava corda dello strumento musicale che accoglie il suo discendente nel volto di quel Bimbo circonciso «quando furono compiuti gli otto giorni» perché assume la missione del Messia salvatore e pastore d’Israele che guida nel mondo futuro, nel mondo dei redenti. È la conclusione della storia. È il ritorno all’Eden dell’«in principio».

Il 1°gennaio, capodanno civile, memoria della circoncisione di Gesù, solennità della Madre di Dio, ci introduce con la cetra a 8 corde in un nuovo anno, un anno sotto il segno del Messia redentore che riceve il nome di Gesù/Iêsoûs/Yehoshuà’ che significa «Dio è salvezza». Il 1° gennaio è anche il giorno della Pace (v. riquadro n. 1) che il Bimbo appena circonciso ci ha lasciato come suo testamento e obbligo: «La pace vi lascio, la pace, quella mia, vi do» (Gv 14,27).
Alle nostre lettrici, ai nostri lettori e loro famiglie, un grande e affettuoso augurio di «pace» per tutto il 2006 sulle note della cetra messianica a otto corde come sta scritto: «Al Vincitore, al hasheminit, sull’ottava» (Sal 12,1).

Note
1- Nel 1969 la riforma liturgica ha dedicato il primo giorno dell’anno civile a «Maria ss. Madre di Dio», riallacciandosi così al Concilio di Efeso (431), che definì Maria di Nazaret, «Theotòkos, Madre di Dio». A questa giornata associò anche la Giornata mondiale della Pace. In questo giorno si celebra il Figlio di Dio nato dalla figlia di Sion, che lo offre al mondo: il Figlio di Maria, circonciso nell’alleanza della Pace che è il nuovo «nome» della salvezza messianica. Solo la poesia ispirata di Dante ha saputo evocare questa singolare sintesi tra divino e umano: «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio…» (Paradiso, xxx,1).

2- Nei vangeli di natale (Lc 1-2), 8 nomi «teologici» con cui si esprime un messaggio salvifico.
Zaccaria = Dio si ricorda; Elisabetta = Dio giudica; Giovanni = Dio fa grazia; Maria = Dio ama/Signora; Giuseppe = Dio aggiunge/aumenta; Gesù = Dio salva; Simeone = colui che ascolta; Anna = graziosa o colei che implora.

3 – Il giorno ottavo è giorno consacrato per:
– la circoncisione, segno di separazione, consacrazione (Lv 12,3)
– la purificazione della lebbra (Lv 14,10.23), malattie sessuali (Lv 15,14) o nazireo (Nm 6, 9)
– il giorno della festa delle Tende/Sukkôt (Lv 23,39)
– il giorno di assemblea solenne e di riposo (Lv 23,36.39)
– il tempo dell’anno sabbatico (Lv 25,22)
– il giorno dell’offerta di Gamliel, principe della tribù di Manasse [di Giuseppe] (Nm 7,54)
– il giorno della proclamazione della Parola/Legge (Ne 8,18)
– il giorno della festa della dedicazione (1Re 8,66; 2Cr 7,9)
– il giorno della scissione a opera di Roboamo (1Re 12,32.33).

Paolo Farinella




008-Così sta scritto – Nato da Donna (8)

"NATO DA DONNA, NATO SOTTO LA LEGGE"
FAVOLA O "MISTERO"?

C’era una volta…
Tutto è già pronto sul tavolo dei pubblicitari per celebrare il natale 2005: panettoni, alcornol, telefonini, babbi-natale, luminarie, zampogne e poi chi più superfluo ha più superfluo metta!… E intanto quel bimbo, occasione di tanto scialo, continua a morire di fame, freddo, sete in tutto il mondo.
C’era una volta… Ognuno aggiunga di suo il personaggio che vuole: Cappuccetto rosso, Alice, Biancaneve; oppure anche il presepio, Gesù bambino tra il bue e l’asinello, le oche giulive e i pastori, le massaie e la neve di cotone; oppure la Madonna stralunata davanti al Figlio nudo «al freddo e al gelo»; o anche san Giuseppe a mani giunte, beato e contento che il Figlio di cui è custode nasca all’aria buona dell’aperta campagna. Tutto fa tenerezza; tutto è utile per addormentare bambini e adulti con overdose di ninne-nanne a suon di zampogne.
Se a natale bisogna essere buoni perché lo esige il galateo e la nostra «civiltà occidentale», che gli atei pii vorrebbero difendere con lo sbarramento di fuoco della religione cristiana, ebbene, quest’anno voglio cantare fuori dal coro e voglio fare il cattivo, perché per fedeltà al natale e per rispetto della fede cristiana abolirei il natale con annessi e connessi.

In principio… il Mistero…
Nel NT per descrivere il natale non trovo parole più crude e austere di quelle di Paolo ai Galati (4,4): «Quando poi giunse la pienezza del tempo, Dio mandò fuori (inviò) il Figlio suo, fatto (nato) da donna, fatto sotto la legge (sottomesso alla legge)» (trad. letterale).
«Quando giunse la pienezza/maturità del tempo». Significa che il tempo precedente era immaturo e incompleto, vuoto perché mancava il Figlio. Ora il tempo è pronto e Dio/Padre-Madre si distacca dal suo unigenito (mandò fuori) per dare un senso al tempo vuoto degli uomini, per renderlo maturo a ricevere una nuova umanità. Natale è il tempo di Dio perché «accorcia» l’eternità di Dio: «Colui che i cieli dei cieli non possono contenere» (1Re 8,27; 2Cr 2,5; 6,18) lascia la sua eternità ed entra nel tempo dell’uomo e ne scandisce il ritmo perché è tempo che l’uomo rientri nell’eternità di Dio (cf Fil 2,7).
A natale Dio si fa uomo perché questi possa riprendersi la dignità della sua immagine perduta nel giardino di Eden da Adam ed Eva, scacciati dal paradiso e diventati opachi e mortali. Il loro vestito di luce, cioè la loro pelle luminosa, là divenne pelle oscura e opaca, pelle di morte. Ora a natale, Adam ed Eva riprendono di nuovo la luminosità dello spirito e rientrano nella dignità di figli, accompagnati dal Figlio venuto a riscattarli: riaccendono la luce della loro anima e della loro nuova pelle: «Il Lògos/Verbo/Parola carne fu fatto». Adam ed Eva e i loro discendenti, uomini e donne di ogni tempo e geografia, ricevono «il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,14.12).
È il Mistero! La sconvolgente rivelazione del «natale del Signore».

Il Dio accorciato…
Nella Regula Bullata del 1223, Francesco d’Assisi dice che «il Signore sulla terra ha fatto il verbum abbreviatum» (cap. IX; cf Rom 9,28), intendendo che tutta la storia della salvezza è stata abbreviata, accorciata nella persona del Verbo Incaato. Dio si accorcia nelle misure di un bambino per farsi capire e comprendere dall’umanità: un bambino è capace di smontare anche l’animo più restio perché è libero, senza difese, senza pregiudizi, senza maschere, immediato e affettivo. Chi ha paura di un bambino?
Dire che Dio si fa bambino significa affermare che l’impossibile è possibile. Significa in un certo senso negare la divinità di Dio stesso perché fa coincidere due contrari: l’umano e il divino, il tempo e l’eterno, l’immanente e il trascendente. Dio si accorcia! Ecco lo scandalo, simile allo scandalo della croce.
Dal primo natale in avanti, nessuno può più fare a meno di contare il tempo con la misura dell’eternità, perché l’eternità stessa di Dio è contaminata per sempre dal tempo dell’uomo. Nessuno può più incontrare Dio o cercarlo o invocarlo senza passare attraverso la sua umanità, la sua corporalità e la sua fisicità. Nessuna spiritualità è più possibile al di fuori dell’incarnazione, cioè dell’incontro «fisico» con Dio.
Gli spiritualisti che mettono tra parentesi l’umanità di Dio, credendo di difendere la sua trascendenza, non si rendono conto che parlano di un altro dio, di un idolo, una caricatura di Dio. Nessuno infatti può accedere più a Dio senza passare obbligatoriamente attraverso la pienezza della umanità del Lògos-carne: Uomo-Dio «nato da donna, nato sotto la legge».
Natale: Dio incarnato! Nemmeno Dio può più fare a meno dell’umanità e della carne mortale.
Questo è il motivo per cui non ci può più essere «rivelazione» in senso stretto: ora possiamo vedere e toccare la «carne di Dio», perché Dio, l’inesprimibile, diventa «carnale»: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo» (1Gv 1,1-3).
Le parole del prologo della prima lettera di Giovanni contengono due ossimori (=opposti) travolgenti: vedere il Verbo e toccare il Verbo. Come è possibile vedere e toccare la Parola/Lògos? Natale è questo ossimoro: Dio veduto e toccato. Non è forse quello che avviene anche nell’eucaristia dove vediamo la Parola che diventa il Pane che mangiamo?

La donna e la Legge
Il ventre della donna è la tenda della nuova umanità perché è la grotta del natale di Dio. Non si è uomini senza una donna e non c’è Dio incarnato senza la donna: «Fatto da donna»! Il Concilio di Efeso (431) ne ebbe tanta consapevolezza che i 200 padri presenti proclamarono all’unanimità Maria, la donna, Theotòkos/Madre di Dio. Solo Dante riesce a esprimee la profondità, ma anche lui deve ricorrere ad altri 3 ossimori stridenti e per questo sono poesia pura: «Vergine-Madre, figlia-del-tuo-Figlio, umile-ed-alta più che creatura» (Par. xxxiv, 1-2).
San Paolo ha coscienza di quello che afferma, perché l’espressione «fatto da donna» è una bestemmia di fronte alla religione giudaica, un obbrobrio per la filosofia greca! Dio l’Onnipotente, il Creatore, il Liberatore, il Salvatore, il Padre d’Israele che si accorcia così tanto fino a diventare sarx/carne di fragilità nell’impuro ventre di una donna.
L’ebreo maschio, infatti, ogni mattina prega: «Benedetto sei tu, Signore nostro Dio e re dell’universo, che non mi hai fatto nascere pagano/idolatra… che non mi hai fatto nascere schiavo… che non mi hai fatto nascere donna» (Ufficio del mattino, Barùk). Essere donna, secondo la legge e la tradizione è paragonabile all’idolatria e al paganesimo, cioè all’essere spregevole davanti a Dio.
Per questo la donna, consapevole della sua condizione di emarginazione e non riponendo alcuna fiducia nell’uomo, perché disprezzata anche da coloro che l’amano, a differenza dell’arroganza dell’uomo, si abbandona totalmente alla volontà del Signore, senza pretendere di avee spiegazione. Anche lei infatti ogni mattina prega come il suo uomo, ma con una piccola variante: «Benedetto sei tu, Signore… che non mi hai fatto pagana/idolatra… schiava… e mi hai fatto nascere secondo la tua volontà».
Nella donna si compie la Legge, perché la volontà dell’Onnipotente si assume la forma del ventre di una donna: «Ecco, vengo! Nel rotolo del libro sta scritto per me di fare la tua volontà. Sì, mio Dio, lo voglio: la tua Toràh/Legge (è/sta) in mezzo alle mie viscere» (Sal 40/39,8-9).

Quando giunse la pienezza del tempo
Una donna ebrea, una ragazza appena adolescente, di fronte al mistero di un Dio che la sceglie Arca della Nuova Alleanza, lei che si nutre della preghiera dei salmi, si lascia trasportare dal suo cuore e si abbandona alla volontà del Re dell’universo: «Oh, sì! Ecco (mi! Sono) la serva del Signore: avvenga di me secondo la sua Parola» (Lc 1,38). Circa 35 anni dopo, il Figlio farà sue le parole della Madre, abbandonandosi alla morte per amore: «Padre… si compia la tua volontà» (Mt 26,42).
Celebrare il natale è entrare in questa volontà fino a identificarsi con essa: carne di Dio e sangue dell’uomo.
È natale! Bisogna spegnere le luci che distraggono dal silenzio che avvolge tutte le cose nella notte di Dio, per ascoltare la Parola che vagisce dal ventre di donna come una spada affilata (Sap 18,14-16; cf Eb 4, 12) che porta all’umanità il vangelo della fine dell’esilio perché Dio riprende possesso della tenda carnale di un grembo di donna: la tenda nuova del convegno dove ora Adam ed Eva possono riposare in pace!

La favola
Il natale-favola è comodo e liberante, perché non tocca le corde vitali della vita, ma solo la superficie del sentimento, che oggi c’è e domani scompare come l’erba del campo (Mt 6,30). Il natale-mistero, al contrario, fa paura sia ai credenti che ai pastori, i quali si gingillano a costruire scenari di poetici presepi, cullati dalle note edulcorate di nenie insulse e bolse, e finiscono per annegare in un mare di sentimentalismo buonista da un giorno e lasciano che il mistero del Figlio-di-Dio-e-Figlio-di Donna si disperda per l’aria, sommerso da una montagna di convenevoli formali che anestetizzano l’anima davanti allo scandalo della nascita di Dio.
Si consuma il rito del natale civile, del natale senza Dio, ridotto a infantile rappresentazione, a cui nemmeno i bambini di oggi credono più. Dormi, dormi, Bambin… ninna nanna Gesù! A natale bisogna essere buoni e ricordarsi dei poveri! A natale anche i vescovi visitano le mense dei poveri. A natale! Peccato che ogni anno è di 365 giorni e 366 quelli bisestili. A natale il mistero del natale è sostituito dall’angoscia del regalo che bisogna fare per obbligo e convenienza: chi fa il regalo, infatti, aspetta anche un regalo a sua volta.

A natale… Dio è altrove!
A natale Dio non è in questa inciviltà occidentale, che nega ai poveri il diritto alla sopravvivenza, contravvenendo alle sue stesse leggi; non è nell’illegalità diffusa per salvaguardare privilegi individuali a danno del bene comune; non è nella religione civile senza il Bambino nato all’ombra della croce; non è nelle alleanze politiche tra lobby di potere; non è nelle cattedrali sfoggianti abiti sfarzosi e calici d’argento; non è nello scintillio dei negozi che sostituiscono la grotta di Betlemme; non è… dove lo abbiamo esiliato: nel natale, festa della finzione elevata a sistema. Sì, perché nel natale pagano dei cristiani e nel natale pseudo-cristiano dei pagani tutto è finzione. Frivolezza di favola.

È Natale! Un Bambino è nato per noi!
Gesù Bambino ritorna puntuale all’appuntamento della storia, nella pienezza del suo tempo che è la nostra eternità. Al contrario, noi ci perdiamo dietro la stupidità e la superficialità alla ricerca di una identità cristiana perduta da noi stessi e che ora vogliamo contrabbandare come identità culturale di civiltà. Siamo italiani perché cattolici, siamo cattolici perché italiani… Natale vuol dire che ogni identità parziale è annullata perché ora Dio è «tutto in tutti» (1Cor 12,6).

A natale bisogna sapere e avere coscienza che il Bambino che chiede di nascere…
• è un extracomunitario, perché è un palestinese di Nazaret;
• è un emigrato in Egitto, perché perseguitato politico e religioso;
• è vittima della Bossi-Fini, perché senza permesso di soggiorno;
• è ebreo di nascita e ricercato per essere eliminato;
• è palestinese di nazionalità, perché figlio di quella terra;
• è un fuorilegge, perché è un clandestino e ricercato dalla polizia;
• è un poco di buono, perché figlio di una ragazza-madre, appena adolescente;
• è oppositore del potere religioso e politico e finisce morto ammazzato;
• è povero dalla parte dei poveri e deve essere eliminato;
• è un laico credente atipico e controcorrente;
• è poco raccomandabile perché frequenta lebbrosi e prostitute;
• è Dio perché i suoi pensieri non sono i pensieri dei benpensanti (Is 55,8).

Quel Bimbo chiede a uomini e donne di rinascere donne e uomini nuovi, per essere abitanti vivi e seri della polis e della ekklesìa. Donne e uomini liberi, pronti a compromettersi sempre per il diritto di chiunque subisce un sopruso o vede non riconosciuto un suo diritto.
Quel Bimbo è solo un Bimbo, cioè un progetto sul futuro, una ipoteca di vita e una speranza proiettata sul domani, nonostante… tutto; e «finché nasce un bambino è segno che Dio non si è ancora stancato degli uomini» (Tagore), perché egli stesso continua a nascere per noi, a natale

Paolo Farinella

Paolo Farinella




007-Così sta scritto -Nel Giardino di Eden (7)

«Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo servisse/coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15)

«Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi
nelle doglie del parto» (Rom 8,22)

Nella coscienza dei popoli aumenta la preoccupazione per il futuro della terra. Lo sviluppo disordinato e lo sfruttamento delle risorse idriche, alimentari ed energetiche hanno imboccato la via di non ritorno verso l’implosione dell’ecosistema. I governi sono i soli a non preoccuparsene, dal momento che essi sopravvivono una manciata di istanti e non interessa loro la sorte delle generazioni future, ma il risultato immediato. Domani altri goveeranno; ad altri i problemi di domani.
Goveare è prevedere. Anzi, governare è anticipare le previsioni. Prendere coscienza della terra o, come si dice oggi, dell’ambiente in cui viviamo è un imperativo morale e religioso, oltre che civile. Per il credente il rispetto e la cura della terra sono un atto di obbedienza al Creatore del cielo e della terra e un inno di lode al Dio redentore dell’umanità e dell’ambiente che la contiene. Chiunque insulta, defrauda, violenta, sfrutta la terra e le sue risorse compie un atto blasfemo contro se stesso e contro Dio.
L’inquinamento ha raggiunto livelli insopportabili; il degrado delle urbanizzazioni selvagge hanno prodotto la cementificazione della terra, con la conseguenza che sono in aumento la desertificazione, alluvioni, mutamento delle stagioni, scioglimento dei ghiacciai, cataclismi di cui siamo attoniti e impotenti testimoni.
Eppure la bibbia si apre appunto con la questione ambientale, fulcro di tutta la storia di salvezza. Il fondamento di tutto ciò era già scritto fin dal principio, ma pochi ne hanno coscienza, anche tra i credenti. In nessun programma di politici sedicenti cristiani e/o cattolici ho mai visto un espresso capitolo dedicato all’ambiente o alla terra e al conseguente sviluppo sostenibile.
Guardandomi attorno, vedo che l’umanità è ancora ferma ai primi 11 capitoli della Genesi: non ha fatto un grande progresso da un punto di vista antropologico. Questa constatazione diventa drammatica se guardiamo al rapporto tra gli uomini, tra uomo e natura, tra uomo e creato. Tutti gli scienziati liberi (non a libro paga dei governi) dicono che il mondo sta morendo per opera dell’uomo e le proiezioni parlano di uno stravolgimento epocale che sovrasta le teste dei nostri figli, perché il rapporto dell’uomo con la terra è un rapporto di violenta aggressione, quasi una volontà positiva di distruggere il creato.

Tutto era previsto dal x sec. a.C. in poi. Tutto era scritto già nel sec. iv a.C., nei primi 11 capitoli del libro della Genesi. Essi sono il risultato finale di una lunga riflessione sull’esperienza di fede del popolo d’Israele, frutto di diverse tradizioni orali e scritte. Sono la proiezione all’indietro dell’esperienza storica vissuta lungo 5 secoli (x-v a.C.): la problematica che attraversa l’anima umana è proiettata su uno sfondo cosmico per dire che si tratta di una realtà universale.
Genesi 1-11 è una «narrazione storica», nel senso che tematiche universali come dolore e morte, violenza gratuita e organizzata, lavoro e fatica, disgregazione dell’ambiente e cataclismi, sofferenza degli innocenti e successo degli ingiusti, attrazione dei sessi e dolore del parto, mistero della vita e mortalità, società e sovversione dell’ordine morale… sono patrimonio dell’umanità che cammina nel tempo della storia. Sempre.
Genesi 1-11, però, supera i confini di un tempo specifico o di una generazione e per questo vengono collocati «in principio», perché fanno parte del patrimonio storico che ogni generazione lascia a quella successiva. Ieri come oggi e come domani. A distanza di almeno 3 mila anni, infatti, anche oggi siamo alle prese con gli stessi interrogativi.
Ai quali interrogativi, l’uomo biblico dà una risposta di fede, che può essere sintetizzata così: l’uomo/Adam che non riconosce la «signoria» di Dio, cioè, non accetta il proprio limite di creatura e si ribella nel tentativo di sostituirsi a Dio stesso, va incontro a una serie di fallimenti senza ritorno.
Adam disponeva del giardino di Eden; era «signore» di tutto il creato; dove svolgeva un compito sacerdotale di rappresentanza. Egli era la «statua/immagine» del Creatore, la coscienza vigile dell’intero creato attraverso l’esercizio di una «signoria vicaria» che avrebbe dovuto fare sperimentare al creato la provvidente pateità di Dio-Signore.
L’uomo poteva «dare il nome» agli animali, cioè esercitare su di essi un compito non di dominio, ma una primazia di signorilità: come il sacerdote nel tempio di Gerusalemme rappresentava liturgicamente Dio davanti al popolo e il popolo davanti a Dio attraverso il sacrificio perpetuo e il sacrificio di lode (Sal 53,8; 115,8; 1Mac 4,56; Eb 13,15), così Adam nell’Eden, tempio cosmico, celebrava la liturgia di lode in rappresentanza e in comunione con il creato: umani, animali e cose. Il «principio» o fondamento della creazione era l’armonia del creato, come contesto dell’armonia del regno vegetale, animale e umano e segno dell’armonia pacificata dell’animo umano. Ad Adam non basta.
Egli vuole essere Dio, non solo la sua immagine; non accetta di essere quello che è, ma vuole diventare chi non è, introducendo nel suo cuore, nella relazione con la donna e nel mondo intero il germe del disordine e divisione. Per responsabilità dell’uomo il virus della disgregazione è inoculato nel creato, nel mondo animale, vegetale e inanimato.
Quando la persona perde di vista il confine della propria consistenza e identità interiore e vuole essere altro da ciò che realmente è, pone in atto un processo dissolutivo di sé e travolge tutto ciò che incontra. Egli separa così l’esperienza dalla coscienza, il proprio vissuto storico (del momento) dal proprio progetto complessivo (il dovere essere del proprio io profondo), frantuma ogni principio di coerenza nella verità, la quale non è più un obiettivo da cercare, ma una parzialità imposta come verità assoluta.
La persona che perde di vista il punto di partenza, le sue radici (l’Eden che ne determina l’individualità limitata) e il suo fine (l’immagine che ne esprime la capacità indefinita di relazione creativa), smarrisce se stessa, si attorciglia come un serpente in meccanismi opachi di distruzione, che deprimono la coscienza e ne fanno un soggetto gracile di feroci distruzioni contro se stesso e l’ambiente circostante. Senza più Dio come Signore e principio della creazione, le conseguenze rotolano come su un piano inclinato.
La donna non è più compagna di vita e viaggio alla pari, ma strumento nelle mani del potere maschile, che trasforma anche la relazione d’amore in possesso violento e di dominio: «Verso tuo marito sarà la tua brama, ma egli dominerà su di te» (Gen 3,16). La relazione sessuale, che doveva essere il sigillo dell’armonia perfetta, il sacramento visibile del volto di Dio in quanto «immagine e somiglianza», diventa invece campo di violenza e sopraffazione.
Senza il riconoscimento di Dio come Padre, Abele non è più riconosciuto come fratello, ma diventa ostacolo al successo di Caino, che per questo lo vuole uccidere (Gen 4): nasce l’omicidio/fratricidio. I fratelli diventano «extracomunitari» l’uno all’altro, ieri e oggi.
All’Adam che rinnega Dio creatore, la natura stessa si ribella e non ne riconosce più la signoria: «Maledetto sia il suolo per causa tua. Con travaglio ne trarrai nutrimento… spine e cardi farà spuntare per te» (Gen 3,17-18).
All’uomo che si rivolta contro Dio, l’intero creato si rivolta con violenza sovrumana: il diluvio sommerge la terra intera e solo otto persone si salvano (Gen 6). L’uomo che disattende la Torà/Legge di Dio creatore è incapace di riconoscere qualsiasi legge morale come equilibrio di convivenza: nascono poligamia e vendetta smisurata nella proporzione di uno a sette (Gen 4,19.24).
 
Dio non aveva posto Adam nel giardino di Eden perché ne spadroneggiasse secondo il suo capriccio, ma con un progetto di armonia e sviluppo ben preciso. I due verbi usati in Gen 2,15 sono fondamentali nella teologia biblica ed esprimono la dimensione interiore che si rapporta sempre con la natura di Dio. In ebraico l’espressione suona così: le’abedàch uleshamaràch: per servirlo e per custodirlo; mentre il greco della lxx dice: ergàzesthai autòn kai fylàssein, per lavorarlo e custodirlo.
Servire deriva da ’abàd (290 volte nell’AT) e contiene l’idea di fare e in arabo di onorare/obbedire. Servire vuol dire ascoltare e rispondere ai bisogni di colui che si serve. Dalla stessa radice ’.b.d. deriva ’ebed, servo, che nella bibbia ha anche valore onorifico: è servo il diplomatico che rappresenta il re. Il Servo di Yhwh di cui parla Isaia (52,13-53,12) è il misterioso personaggio eletto perché offra la sua vita in espiazione e col quale s’identificherà Gesù nella sua passione e morte.
Custodire da shamar (420x nell’AT) contiene l’idea di avere a cuore, prestare attenzione e nella scrittura è spesso riservato alla Torà/Legge: osservare/custodire la Torà è vivere; disattendere i precetti del Signore è avviarsi alla morte.
In questo senso i due verbi servire e custodire sono sinonimi, perché pongono il rapporto dell’uomo con il creato nella dimensione del servizio e questo servizio ha la stessa dimensione della Parola di Dio che deve essere ascoltata e custodita. Ascoltare/custodire/osservare (le parole del)la Torà è quasi un ritornello che popola l’intera scrittura ebraico-cristiana: Dt 17,19; 28,58; 30,10; 31,12; 32,46; 1Cr 22,12; Sal 98,7; 118,34.44.55; Mt 19,17; Lc 1,6; 18,20, Gv 14,15.21; 15,10 ecc.

Qui sta il fondamento teologico della creazione: la natura non deve solo essere rispettata per utilità, ma deve essere riconosciuta come soggetto di salvezza e redenzione. Le conseguenze, infatti, della disobbedienza dell’uomo si sono riversate sul creato, che così è associato e coinvolto nella storia distruttiva dell’uomo.
Lo esprime drammaticamente san Paolo nella lettera ai Romani (8,19-22), dove paragona il creato a una partoriente in preda alle doglie: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto».
L’uomo capace di trasformare un giardino di armonia in un deserto di sofferenze è capace di tutto; infatti lo vediamo all’opera instancabilmente: guerra, violenza, corruzione, potere come dominio, egoismo come sopruso, arrivismo, liberismo senza legge e morale, ricerca della propria realizzazione «qui e subito» a scapito degli altri sono le cause «originali» della depravazione dell’ambiente, che da giardino di vita si trasforma in inferno di morte.
L’inquinamento della coscienza e l’oscuramento dell’immagine di Dio nell’uomo-donna sono madre e padre dell’inquinamento della natura che ci sovrasta e ci seppellirà, se non saremo capaci di guardare il «principio» di dignità e libertà che è dentro ciascuno di noi e che si chiama responsabilità. Sì, coscienza della responsabilità non solo di se stessi, ma anche del mondo che ci circonda, degli animali, piante e cose inanimate che fanno parte del mondo che ci è stato consegnato per servirlo e custodirlo e consegnarlo alle generazioni future con lo stesso atteggiamento con cui consegniamo la Parola.
Davanti al tribunale dei nostri figli futuri e al tribunale di Dio, dobbiamo rispondere non solo della gestione della nostra «immagine e somiglianza» di lui, ma anche dell’etica delle nostre relazioni e dell’ambiente dove siamo vissuti che, in quell’ora suprema, si ergerà contro di noi per accusarci di essere colpevoli di assassinio cosmico o per testimoniare a favore di noi per essere stati fedeli servitori e custodi del giardino con la signorilità di chi restituisce qualcosa che ha ricevuto in affidamento.

Paolo Farinella




006-Così sta scritto – Così parla l’Amên Il testimone fedele e veritiero, il principio della creazione di Dio

Parte seconda: il significato dell’Amen

La parola ’Amên spesso viene tradotta con «Così sia!», quasi un augurio, un buon auspicio. In aramaico e in ebraico deriva dalla radice ’amàn, che esprime l’idea di stabilità, solidità, fermezza. Il suo significato fondamentale è «essere fermo/stabile» e l’immagine è quella di una colonna che è ferma e sicura, al contrario della canna che è fragile e pieghevole a ogni soffio di vento (Lc 7,24).
In aramaico come in ebraico esiste una forma particolare di verbo che si chiama «causativa» (qualcuno causa/produce, fa fare qualche cosa). La forma causativa del verbo ’amàn è «rendere fermo/sicuro, fare stabile», da cui nasce il senso finale di «prestare fede, cioè credere». In questo senso, la fede è un’iniziativa di Dio, perché è lui la sorgente «causativa» che la fa essere e «rende stabile/fermo/sicuro» colui che crede. Di conseguenza chi è stabile/fermo /sicuro «gli presta fede», cioè «crede in lui» e si abbandona totalmente sulla colonna/roccia della sua Parola (Mt 7,24).
’Amên è una parola tardiva, passata dall’aramaico all’ebraico e successivamente anche nel greco della lxx (la bibbia greca usata dai giudei di Alessandria d’Egitto che non parlavano più l’ebraico). Non si trova mai nel Pentateuco, che raccoglie le tradizioni fondamentali della storia d’Israele, tranne il Deuteronomio, che è un libro recente (vii-v sec. a.C.) e fu protagonista sia della grande riforma liturgico-politico-religiosa del 621 a.C., promossa dal re Giosia, che della ricostruzione di Gerusalemme, autorizzata dal re babilonese Ciro, dopo l’esilio di Babilonia del 587 a.C.
Al tempo di Gesù, l’uso di ’Amên nelle sinagoghe di Palestina e della diaspora è comune. Ancora oggi ebrei e musulmani concludono benedizioni e preghiere con questa parola. Ogni volta che pronunciamo ’Amên, preghiamo con una parola che hanno pregato Gesù, sua madre e gli apostoli e gettiamo un ponte di preghiera tra tutti i figli di Abramo: cristiani, ebrei e musulmani.

Nella bibbia ebraica, la parola ’Amên ricorre complessivamente 34x (d’ora in poi: x = volte) di cui 26x come risposta di adesione/accettazione o come sigillo conclusivo di preghiera. Di queste 26x, se ne trovano 12x in Deuteronomio cap. 27, che tratta del culto e sempre nell’espressione: «Tutto il popolo dirà/dice: ’Amên!», come risposta alle maledizioni contro chi non osserva la Torah/Legge. Con questo significato di ratifica e di consenso ’Amên immedesima, fonde e unifica.
Nella bibbia greca (la lxx) si trova 12x; le altre 22x ’Amên è tradotto con l’espressione gènoito, che significa «voglia il cielo che così avvenga!».
Nel NT ’Amên ricorre 128x: 50x nei vangeli sinottici (Mt, Mc e Lc) sempre nell’espressione «’Amên/in verità io vi dico…»; 50x nel vangelo di Giovanni, sempre nella doppia espressione: «’Amên – ’Amên/in verità – in verità io vi dico…»; 28x come formula conclusiva di preghiera o di benedizione negli altri scritti, specialmente san Paolo, lettere di Giovanni, Ebrei, Pietro, Giuda e Apocalisse. Non ricorre mai negli Atti.

Il Talmud babilonese, nel trattato Shabàt 119b, insegna che i maestri d’Israele con le lettere di ’Amên facevano un acrostico: da ognuna delle tre consonanti di ’Amên (l’ebraico si legge da destra a sinistra: /’-M-N) facevano derivare una nuova parola, formando così la frase nuova: ’Elhoim Melek Ne’eman che significa «Dio (è) Re Fedele» (il segno «’» di ’Elhoim in ebraico è la stessa consonante iniziale di ’Amên). Ecco di seguito lo schema completo:

Dire ’Amên, quindi, non significa recitare una formula rituale, ma pronunciare una completa professione di fede in «Dio, mio Re Fedele», riconoscendo cioè la regalità di Dio e sottomettendoci alla sua maestà di Creatore e Padre. ’Amên è nel contempo atto di fede e atto di obbedienza filiale.
Gli stessi maestri rabbini insegnano che dire ’Amên una sola volta può essere sufficiente, sia al giudeo peccatore che al giusto non giudeo, per sfuggire alla dannazione eterna, perché chi dice ’Amên ha adempiuto la Legge.
Quando non si ha tempo per pregare, a causa di un imprevisto, si ha sempre tempo per dire ’Amên, che è il credo in un soffio, poiché in questa piccola parola c’è tutto il cuore dell’alleanza tra il Re, il Santo, e il suo popolo Israele che egli rende stabile e fermo sulla fede del Patto e dei patriarchi: «Dio [tu sei] mia roccia, mia fortezza e mio liberatore» (Sal 18/17,3; Es 32,4.15.18.30.31; 2Sam 22,2; Sal 42/41,10; cf Mt 7,25; Lc 6,48).
Dire ’Amên dunque significa proclamare che Tu, o Signore, sei il mio Re Fedele e su questa roccia io resto stabile e fermo in eterno. Possiamo professare questa fede ovunque e in ogni tempo: in viaggio, in autobus, in casa, in ufficio, prima di un impegno o un incontro, tra i fornelli o in mezzo alle pulizie, nel silenzio o in mezzo alla folla. Mentre aspettiamo che tornino i figli o le persone amate, il nostro ’Amên li accompagna sotto la custodia della fedeltà di Dio: Tu, o Signore sei loro Re Fedele, custodiscili nel tuo Nome. La maestà della Regalità di Dio sta al di sopra di tutto ciò che siamo, facciamo, amiamo e temiamo, e nello stesso tempo diventa fondamento/colonna della nostra stabilità di vita.
’Amên è uno scudo di benedizione di due sillabe con cui proteggiamo noi e coloro che incontriamo, amiamo o per i quali soffriamo: in due sillabe tutta l’eternità!

A pprofondiamo ancora. I numeri sono stati diffusi tra i secoli vii-xii d.C. dagli arabi, che sostituirono il sistema precedente, basato sulle lettere dell’alfabeto che erano usate come «numeri»: a ogni lettera corrisponde un valore numerico. Ciò avveniva nella cultura egiziana, fenicia, ugaritica, babilonese, ebraica, greca e latina. Questo rapporto tra lettera e numero è studiato da una speciale scienza che si chiama ghematrìa (cioè scienza dei numeri).
Se scomponiamo le consonanti aramaiche/ebraiche di ’Amên in numeri, scopriamo che il suo valore numerico è 91 (vedi riquadro).
Quando Dio si rivela a Mosè sul Sinai si presenta con il Nome di YHWH (Es 3,14-15). Ma questo Nome è tre volte santo e non può essere pronunciato, per cui gli ebrei, quando leggono la scrittura, incontrando il santo Nome Yhwh, con gli occhi leggono Yhwh, ma con le labbra pronunciano ’Adonài, che significa «Signore» in senso generico. Il valore numerico di Yhwh è 26, mentre quello di ’Adonài è 65 (vedi riquadro). Se sommiamo i valori numerici dei due nomi più importanti di Dio nella scrittura ebraica, cioè Yhwh + ’Adonai / 65 + 26, la somma fa 91, cioè lo stesso valore numerico di ’Amên, che è quindi la sintesi dei nomi di Dio.
I n conclusione, dire ’Amên significa entrare nel mistero stesso di Dio, nel suo nome impronunciabile che custodisce il segreto della sua vita (Yhwh) e in quello proclamato (’Adonai), che sulle labbra del credente fiorisce come un piccolo, immenso ’Amên.
Da tutto ciò si capisce perché i rabbini al tempo di Gesù proibivano di rispondere ’Amên a una benedizione affrettata o non pronunciata distintamente, perché si tocca l’onorabilità e credibilità stessa di Dio. Dice il Talmud babilonese, nel trattato Berakôt (benedizioni) 47a: «Insegnarono i nostri maestri: non si risponda né un ’Amên affrettato, né un ’Amên strappato, reso orfano (cioè senza avere capito la benedizione), né si faccia prorompere la benedizione dalla bocca (cioè in modo affrettato quasi a dare l’impressione che si abbia fretta di sbarazzarsi dell’obbligo di onorare il Santo: cf 1Cor 14,16)… Chi prolunga (= chi canta) ’Amên, gli saranno prolungati i giorni e gli anni…».
Non possiamo più stupirci, a questo punto, se nel NT ’Amên è il Nome nuovo del Cristo, figlio fedele ed esegeta del Padre (Gv 1,18): «All’angelo della chiesa di Laodicea scrivi: Tutto ciò dice l’’Amên, il Testimone fedele e veritiero, il Principio della creazione di Dio» (Ap 3,14).
La piccola parola ’Amên c’insegna che nella scrittura, come nella vita, nulla è casuale o banale o superfluo, ma tutto ha un senso, evidente o velato, che occorre svelare, perdendovi tempo, studio e meditazione. Anche le cose che apparentemente sembrano ovvie, se scrutate con gli occhi del cuore (Pv 23,26; Lc 24,31-32), rivelano profondità inaspettate e inesauribili: «Non passerà neppure un iota (’=y, la lettera più piccola dell’alfabeto ebraico) o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto» (Mt 5,18).
Inesauribile è la parola di Dio, che supera tutte le generazioni; ma in ogni tempo può (e deve) essere mangiata (Ez 3,1-3) e ruminata per gustarne anche le sfumature, apparentemente insignificanti, perché nulla si perda: nemmeno le briciole (Mc 7,28; Mt 15,27).
Nel segno di un piccolo ’Amên, anche noi possiamo attendere con il desiderio e la certezza che nella vita eterna saremo introdotti da un ’Amên: «Colui che testimonia queste cose dice: Sì, vengo presto. ’Amên! Sì, vieni Signore Gesù!» (Ap 22,20).
Alle nostre lettrici e ai nostri lettori in qualsiasi parte del mondo, possiamo assicurare che ogni giorno il nostro ’Amên! si depone come una carezza e una benedizione su di loro e le loro famiglie, sulle loro giornie e sui loro dolori, specialmente sui malati nel corpo e nella speranza. ’Amên! ’Amên!. •

Paolo Farinella




005-Così sta scritto – Amen! Amen! (5)

Esdra benedisse il Signore, Dio grande,
e tutto il popolo rispose:

’Amên! ’Amên!
(Ne 8,6)

In questo e nel prossimo numero esaminiamo una breve parola che incontriamo spesso nel Nuovo Testamento (NT), passata in seguito nella liturgia e a cui non prestiamo la dovuta attenzione: è la parola aramaica ’amên: appena due sillabe, un soffio che si dissolve prima ancora di pronunciarlo, ma carica di significato e di memoria storica e affettiva.
È una parola che ha pregato anche Gesù, per cui ogni volta che la pronunciamo, dovremmo «dirla» con labbra e cuore circoncisi, perché preghiamo in aramaico come Gesù, come sua Madre, come gli apostoli e con loro stabiliamo un rapporto spirituale ed emotivo, che raggiunge le profondità stesse della fede. Chi dice ’amên è una cosa sola con il Signore Gesù.
In un certo senso è come visitare i Luoghi della memoria, andando in Palestina e respirando l’aria che lui respirava, vedendo il cielo che lui guardava, camminando per le strade che lui percorreva, sperimentando il deserto che lui ha sperimentato, attraversando il lago di Tiberiade come lui lo ha attraversato tante volte. Come magica è la Palestina, perché ci parla di lui, se la visitiamo con cuore puro, così le lingue che Gesù parlava (aramaico ed ebraico certamente, greco probabilmente, latino forse qualcosa) ci introducono nel suo mondo interiore, nella sua cultura, nell’anima del suo pensiero: c’immergono nella sua personalità.
La piccola parola ’amên è una chiave per accedere al suo cuore del Verbo incarnato e all’anima della sua divina umanità, perché Gesù la pronunciava nella preghiera, cioè in quel rapporto così particolare che solo lui poteva instaurare con il Padre suo. Il nostro cuore dovrebbe scoppiare di commozione emozionata e il nostro ’amên dovrebbe esprimere tutta la nostra intima gioia.
San Girolamo (347-420) testimonia che, nel suo tempo (iv-v sec. d.C.), nelle basiliche romane la parola ’amên «rimbombava come un tuono», fino a fae tremare le colonne.
Oggi invece assistiamo a liturgie tisicucce e malferme di salute, dove ’amên è buttato all’aria o biascicato senza voce, quasi di nascosto, come se fosse un affare privato e non un solenne e austero atto pubblico di fede. Quest’uso superficiale è il segno che la vita di fede, di cui la liturgia è specchio, può scadere in ritualità vuota, in formule vocali distratte senza passione e vitalità.

Uno dei problemi che si poneva la scienza biblica fino al secolo scorso riguardava la ricerca delle parole precise pronunciate da Gesù: era la questione delle ipsissima verba (le stesse/precise parole) dette da Gesù.
Sappiamo che i vangeli non sono un diario né la cronistoria della vita di Gesù: essi sono scritti occasionali, motivati dalle necessità delle comunità cristiane dove sono nati con lo scopo di introdurre alla fede in Gesù, creduto messia e Dio, oppure di rafforzarla in coloro che già credevano in lui.
Potremmo dire con una frase sintetica che i vangeli sono catechismi scritti da credenti per altri credenti. Essi riflettono la fede e la teologia delle comunità di riferimento degli autori. Non sono stati scritti a tavolino, ma hanno avuto un processo di elaborazione lento e complesso, intanto che nella chiesa del 1° secolo si diffondevano le lettere di Paolo e si diversificavano le comunità ecclesiali sia in Palestina che nel mondo greco.
Cercare nei vangeli le precise/identiche parole che Gesù avrebbe detto potrebbe essere una perdita di tempo, perché nessuno andava dietro a Gesù col registratore. Nella forma definitiva come li possediamo oggi, i vangeli furono messi per iscritto a cavallo tra il 65 e il 100 d.C., cioè dopo circa 35-65 anni dalla morte di Gesù.
Due evangelisti, Marco e Luca, non erano nemmeno apostoli (Luca nemmeno ebreo); mentre agli apostoli Matteo e Giovanni fa capo la riflessione della scuola di pensiero che da essi prende origine e che si sviluppa a partire dalla loro predicazione. I vangeli sono storici, ma non al modo nostro. Essi lo sono al modo degli antichi e quindi dobbiamo essere noi a indagare i testi per scoprie il senso.
Non sappiamo con esattezza matematica che cosa Gesù abbia detto, quali discorsi abbia fatto e quali parole abbia pronunciato in questa o quella occasione. Sappiamo che gli apostoli e altri predicatori, singoli o in gruppo, uomini e donne, hanno diffuso il suo insegnamento oralmente.
Successivamente, nelle varie comunità circolavano elenchi di «detti» o «fatti» (parabole e discorsi, miracoli o azioni) a uso dei predicatori o della liturgia che si svolgeva nelle case. Nella seconda metà del 1° secolo, quattro amici di Gesù mettono in ordine (Lc 1,3) quello che hanno sentito di lui e quello che hanno trovato già scritto su di lui, per aiutare le rispettive comunità a «fare memoria» del Signore Gesù, specialmente durante la liturgia, quando accanto alle letture giudaiche dell’AT si sentì l’esigenza di aggiungere anche la proclamazione di ciò che Gesù ha insegnato e operato durante la sua vita terrena (At 1,1), come compimento delle profezie. Sono i quattro vangeli e più in generale, tutto il NT. Ora le scritture si leggono a partire da lui: ai discepoli di Emmaus, infatti, «cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro le scritture» (Lc 24,27).
In questo lungo processo formativo delle scritture, che esprimono la fede della chiesa primitiva e danno fondamento «apostolico» al nostro credere, scoprire che Gesù nella sua breve vita (trentasei anni circa) certamente pronunciò innumerevoli volte la piccola parola aramaica ’amên come sigillo di tutti i suoi momenti di preghiera personale o pubblica quando frequentava in giorno di sabato la sinagoga di Nazaret o di Cafaao o il tempio a Gerusalemme «secondo il suo solito» (Lc 4,16), dovrebbe essere per noi ancora oggi, specialmente oggi, a distanza di 20 secoli, motivo di grande emozione.

Abbiamo talmente occidentalizzato l’uomo Gesù e anche la sua personalità divina, che abbiamo dimenticato che era ebreo, orientale e non aveva la pelle bianca. Egli era un figlio del sole e del vento, un figlio del deserto con la pelle olivastra e il portamento di un palestinese del sec. i d.C., con la gente parlava aramaico, mentre nel Tempio e in sinagoga pregava e leggeva in ebraico (Lc 4,16-17).
Gesù era un giudeo osservante. Sicuramente, entrando e uscendo dalla sua casa di Nazaret o da quella di Pietro a Cafaao, toccava e baciava sulla porta d’ingresso la mezuzah (stipite), piccolo astuccio contenente alcuni versetti di Esodo e Deuteronomio, in base a Dt 6,7: «Ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per la via, quando ti coricherai e quando ti alzerai».
Gesù portava i capelli lunghi, arricciati alle tempia, per ricordarsi sempre che Dio è il Signore e creatore fino agli estremi confini della terra. Durante la preghiera in sinagoga o nel tempio di Gerusalemme, metteva sul capo il tallìt gadòl (grande mantello), dai quattro angoli del quale pendevano gli tzitziòt (al sing. tzitzìt), cioè le frange fatte con un filo azzurro di lana o di lino con alcuni nodi, che avevano lo scopo di ricordare tutti i comandamenti, secondo le prescrizioni di Nm 15,37-41: «Li guarderete, vi ricorderete dei comandamenti del Signore, li metterete in pratica e non devierete dietro il vostro cuore o i vostri occhi» (cf Dt 22,12; cf Lc 8,44). Quattro verbi che racchiudono tutta la vita del credente: guardare, ricordare, praticare, non deviare.
Sempre, durante la preghiera, indossava anche i filattèri o tefillìn (da tefillàh = preghiera), scatolette di legno contenenti versetti biblici e che si legavano in fronte («in mezzo agli occhi»), sul braccio sinistro («sul tuo cuore») e sulla mano, secondo la prescrizione di Dt 6,4-9 (cf Mt 23,5).
I vangeli ci dicono inoltre che Gesù pregava spesso e, quando non poteva pregare di giorno, perché assediato dalla folla, pregava di notte o al mattino presto. La preghiera era il suo respiro.
Se leggendo il vangelo di Luca, si segnassero tutti i passi dove Gesù prega o è in atteggiamento di preghiera, si scoprirebbe che Lc scrive un vero e proprio «vangelo della preghiera». Vi troviamo, infatti, almeno nove testi diretti, in cui si afferma che Gesù prega personalmente (Lc 5,16; 6,12; 9,18.28.29;11,1; 22,32.41.44), altri in cui invita a pregare e altri in cui qualcuno prega per lui.
Alla luce di questo breve, ma esauriente e necessario contesto, nella rubrica del prossimo numero, ci sarà più facile comprendere il significato di ’amên, questa piccola-grande parola, sintesi sublime di preghiera, senza morire di stupore.

Paolo Farinella