La parabola del «figliol prodigo» (13) Nel pozzo profondo delle ragioni del cuore

«Cambiate mentalità/ pensiero e credete al vangelo, cioè a Gesù Cristo, il Figlio di Dio»

16 Avrebbe voluto riempire il suo stomaco con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno ne dava a lui. 17a Verso se stesso quindi ritornando, disse: b «Quanti salariati di mio padre hanno abbondanza di pani, mentre io qui me ne sto a morire di carestia».

Mangiare è comunicare l’anima
Per la cultura semitica «mangiare con qualcuno» significa condividee la vita in uno stato di uguaglianza. Gesù subito dopo l’ultima cena, dichiara espressamente questa condizione: «Non vi chiamo più servi… ma vi ho chiamato amici» (Gv 15,15). La ragione di tale dichiarazione sta nel fatto che hanno mangiato insieme quel pasto «singolare», espressione unica dell’alleanza con Dio: «Questa è la mia carne… questo è il mio sangue» (Lc 22,19-20).
Mangiare è diventare una cosa sola con chi si mangia. Il giovane figlio arriva fino al punto di «desiderare» di essere con i porci, come i porci, uno di loro pur di acquietare i morsi della fame: «Voleva riempire lo stomaco/saziarsi delle carrube che mangiavano i porci, ma nessuno ne dava a lui» (v. 16). Il livello della bassezza morale non può essere più profondo perché il giovane giudeo non solo dimentica la prescrizione della Toràh, che dichiara impuro il porco (Lv 11,7; Dt 14,8) e chiunque ne entra in contatto, ma fa addirittura «comunione» con l’impurità, volendo mangiare le stesse carrube che mangiano i porci.  

Simbologia del porco
La Mishnàh (VII,7) è tassativa nella proibizione di allevare porci: «In nessun luogo si possono allevare porci»; il Talmud babilonese (Baba Qama – Prima Porta 82b e Sotah – Adultera 49b) dichiara: «Maledetto chi alleva porci».
Al tempo di Gesù, il porco era anche simbolo dell’oppressore romano sia perché la X legione «fretense» aveva come mascotte un cinghiale, sia perché i soldati romani, quando potevano, mangiavano spudoratamente i maiali rastrellati nei villaggi greci. Mangiare porco significava quindi simbolicamente assoggettarsi all’invasore che derideva la sacralità dell’insegnamento della tradizione. Per un giudeo quindi finire tra i porci era peggio della morte.
Lontano dal Dio di suo padre, impuro fino al midollo dell’anima, senza più dignità umana, sprofondato nel peccato più radicale rappresentato dall’intimità che cerca con i porci, il figlio giovane ha raggiunto il fondo di se stesso. La libertà che cercava e per la quale aveva ucciso il padre, abbandonato Dio, lasciato il suo paese e la sua storia, ora diventa il suo abisso di desolazione e la sua condanna. Una condanna a morte, se perfino i porci sono nutriti meglio di lui.
Il suo «dio» è il ventre
Nel versetto si trovano tre verbi, tutti all’imperfetto indicativo attivo che indica un’azione continuativa, abituale o tentata nel passato. Non è il desiderio di una volta, ma il desiderio costante e sistematicamente espresso, divenuto ormai un’esigenza di sopravvivenza. È l’ostinazione di chi non vuole rassegnarsi a morire di fame. C’è tutta la disperazione di chi si trova nella disperazione, solitario e isolato nel mondo che bramava e non trova altro rimedio che sprofondare ancora più in basso.
Il primo imperfetto «desiderava» è certamente un imperfetto di conato, cioè un’azione sistematicamente ripetuta, ma sempre frustrata. Ci troviamo davanti a un uomo che tenta e riprova pur di raggiungere il suo scopo: calmare la fame. Il desiderio di «riempire lo stomaco» è permanente come durevole è la carestia e la fame.

Sfamarsi o riempire la pancia?
Alcuni codici antichi del sec. IV-V hanno una variante del v. 16: «Desiderava riempire il suo stomaco/la pancia», che pare sia la forma più originale, a differenza di altri codici di primissimo piano che invece cercano di addolcie la crudezza, modificando il testo in «desiderava saziarsi/sfamarsi». Quest’ultima espressione, da un punto di vista della sintassi, è più perfetta: l’imperfetto seguito dall’infinito [desiderava (di) sfamarsi] è una costruzione propria di Lc (cf 16,21; 17,22; 22,15; cf anche Mt 13,17).
Il biblista francese Jacques Dupont osserva che l’espressione riempire lo stomaco è così volgare che forse i copisti e i traduttori hanno cercato di sminuie la crudezza cambiandola con saziarsi, sminuendo anche il contesto di abiezione nel quale il giovane è piombato (Il padre del figliol prodigo in PSpV, n.10 pp.120-134).

La frustrazione dell’isolamento
Crollano tutti i sogni e progetti di indipendenza, sepolti nel porcile del proprio isolamento che nemmeno i porci vogliono condividere! «Riempire lo stomaco/la pancia» è l’ultima prospettiva che è rimasta al giovane figlio, ormai in balìa della fame più radicale, diventata ossessione del presente con la paura di non arrivare a domani. Il figlio che non ha esitato a uccidere il padre prima del tempo, per vivere alla grande, vede la vita sfuggirgli e si sperimenta impotente a trovare una soluzione.
«Nessuno ne dava a lui». In un paese lontano, scenario di futuro scintillante, sognato e solo assaporato, egli è nessuno. Non ha passato, non ha futuro e il suo presente è assenza d’identità. «Il ventre è il suo dio» (cf Fil 3,19) e tutto ruota attorno ai suoi bisogni che non è in grado nemmeno di cornordinare. A nulla è valsa la distruzione del padre, ora è il figlio a fare i conti con la morte e la morte di fame. Il suo viaggio finisce qui: da figlio a servo, da libero a mendicante, da spensierato ad affamato.

Non più figlio, ma schiavo disprezzato
Sperperato il patrimonio, ha consumato anche la sua dignità, libertà e la stessa identità: desidera diventare come i porci, pur di lenire la fame, ma senza risultato perché «nessuno ne dava a lui». Semplicemente non esiste.
Chi si allontana da Dio e dal padre, è isolato in mezzo all’umanità, perché il rifiuto della pateità è la premessa logica per non riconoscere la frateità. Colui che non si è riconosciuto come figlio è sconosciuto anche per gli altri, diseredato dall’esistenza stessa. Di fronte al peccatore anche il pagano in una terra lontana non è «prossimo»; anzi, può diventare lo strumento della giustizia. Il pagano, infatti, disprezza talmente il giovane da abbandonarlo alla mercé dei porci, cioè alla impurità radicale, inchiodandolo nel suo stato di indegnità esistenziale e morale. Semplicemente non esiste più!
Non esiste per il padrone che vede in lui solo l’occasione di uno sfruttamento senza spesa; non esiste per i porci, che non lo vogliono «dei loro» perché la sua impurità è maggiore e contagiosa; non esiste per se stesso perché non sa più chi sia, senza dignità né speranza. Davanti a lui c’è solo il terrore della morte e della morte per fame. Per uno che aveva «posseduto tutto» è un bel progresso.

Il giovane e Lazzaro povero
In Lc un altro personaggio si trova in una situazione alquanto simile: il povero Lazzaro, «desideroso di saziarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe» (Lc 16,21). Alcuni codici non importanti aggiungono la frase: «Ma nessuno ne dava a lui», che è certamente un tentativo di uniformare i due racconti dal punto di vista letterario.
La differenza tra il giovane della parabola e Lazzaro non sta tanto nella fame o povertà, ma nell’atteggiamento degli animali. Il primo è ripudiato dai porci, il povero Lazzaro è assistito dai cani; i porci non danno neanche le carrube al giovane affamato, i cani alleviano il dolore leccando le ferite di Lazzaro. Il figlio della parabola è disperato, Lazzaro è fiducioso; il primo è nel porcile, l’altro è in mezzo agli uomini; il giovane è isolato nel suo egoismo, Lazzaro è l’anello debole di una società opulenta e ingiusta.
I due racconti sono collegati insieme perché lo stesso Lc li colloca uno dopo l’altro, dandoci così una prospettiva unitaria e un insegnamento comune: non sono le cose «possedute» che rendono liberi, né la realizzazione passa attraverso le ricchezze che spesso sono la causa prima dell’abbrutimento del cuore.

Peccare è sradicarsi dalla vita
Il padrone dei porci, pur essendo un estraneo, tratta il giovane come un depravato, cioè un peccatore abbandonato da Dio. Nella mentalità ebraica, il peccatore è abbandonato a se stesso; nessuno è tenuto a soccorrerlo. Il libro del Siracide al riguardo è esplicito e tassativo:

«Se fai il bene, sappi a chi lo fai; così avrai una ricompensa per i tuoi benefici. Fa’ il bene al pio e ne avrai il contraccambio, se non da lui, certo dall’Altissimo. Nessun beneficio a chi si ostina nel male né a chi rifiuta di fare l’elemosina. Da’ al pio e non aiutare il peccatore. Benefica il misero e non dare all’empio, impedisci che gli diano il pane e tu non dargliene, perché egli non ne usi per dominarti; difatti tu riceverai il male in doppia misura per tutti i benefici che gli avrai fatto. Poiché anche l’Altissimo odia i peccatori e farà giustizia degli empi. Da’ al buono e non aiutare il peccatore» (Sir 12,1-7).
Nell’AT il senso del peccato ha anche una valenza sociale: il bene comune precede sempre il bene individuale, che spesso può e deve essere sacrificato a vantaggio della collettività. Ciò è incomprensibile per noi che abbiamo acquisito il concetto di «persona», su cui si basa la carta dei diritti e il valore della democrazia. Non così per gli antichi popoli nomadi e seminomadi: per essi il gruppo, clan o tribù è garanzia di sopravvivenza al di sopra e oltre ogni singolo individuo. E fuori del suo contesto sociale tribale, l’individuo è nessuno, perché ognuno vive in quanto parte di una «personalità collettiva».

Ritoo senza conversione
17a Verso se stesso quindi ritornando, disse: b«Quanti salariati di mio padre hanno abbondanza di pani, mentre io qui me ne sto a morire di carestia».
Bisogna subito sfatare una mitologia che vede in questo «ritorno/rientro in sé» il principio di una conversione, al punto da presentare il «figliol prodigo» come modello del convertito. Non è così! Questa è una prova che spesso la scrittura è interpretata in base al significato delle traduzioni e non a partire dal testo originario, come dovrebbe fare un lettore attento, per non rischiare di alterare il senso stesso della parola di Dio. Esaminiamo le ragioni del «ritorno in sé» del giovane figlio.
Il figlio fa il confronto tra sé e i salariati di suo padre. Abbiamo due idee sottintese: da una parte il figlio ammette che suo padre non è un padrone despota, come ha voluto farci credere all’inizio, quando non vedeva l’ora di andarsene; ma è un «padre» attento alle necessità anche dei suoi dipendenti, visto che «abbondano di pani» (si usa il plurale apposta). Se anche il salariato sta bene in casa di suo padre, vuol dire che quest’uomo non è così malvagio da volee la morte. Il motivo della fuga quindi non sta nel padre e nel suo autoritarismo, ma il problema è tutto nel figlio che ha una grande confusione in testa e nel cuore.
Dall’altra parte, il figlio non pensa al padre e al suo dolore; non è pentito di ciò che ha scelto e fatto, delle conseguenze che ha provocato; ma di fronte a tutte le porte chiuse, non gli resta che la possibilità di usare e sfruttare ancora il padre. Egli ha preso coscienza di non avere altro futuro che la morte: «Io me ne sto qui a morire per carestia», mentre i dipendenti di mio padre… È l’invidia, il confronto, la rabbia contro il mondo cinico e baro, perché questo giovane sicuramente pensa di essere stato sfortunato e quindi di non avere alcuna colpa, ma solo circostanze avverse. Nessun ragionamento potrebbe essere più egoista di quello del figlio giovane.
Il testo deformato
Ciò che inganna è l’espressione «ritoò in se stesso», che noi leggiamo alla luce della nostra esperienza razionale e forse mistica. È un tipico caso di «eis-egèsi», cioè di «immissione dentro» il testo di un senso e acquisizioni posteriori che il testo non ha. Il momento della conversione è ancora lontano; avverrà solo quando la gratuità di cui si era preso gioco lo avvolgerà e lo rigenera del tutto nuovo: allora non avrà nemmeno bisogno di chiedere perdono, perché il perdono lo aspettava già, prima che lui partisse.  
L’espressione «eis heautòn elthôn (da èrchomai) – verso se stesso venendo/tornando» (v. 17a) nella letteratura della fine del sec. I d.C. ha il senso di «valutare/ponderare/lamentarsi». In ebraico potrebbe significare «convertirsi», ma l’unico testo di riferimento è At 12,11, dove anche «Pietro rientrato in se stesso, disse…», ma il verbo è diverso, «ghìnomai – divento/faccio».
Abbiamo però una spia in un testo che appartiene alla duplice tradizione giudaico-cristiana, Testamento dei Dodici Patriarchi, apocrifo ebraico del sec. II a.C., rielaborato in epoca cristiana con contenuti cristiani, in cui si trova l’espressione «ritornare/rientrare in se stesso» nello stesso senso della parabola lucana.

Un parallelo apocrifo
In Gen 39,7-20 si narra del tentato adulterio della moglie di Potifar, «consigliere del faraone e comandante delle guardie» (Gen 39,1), che aveva messo gli occhi sullo schiavo giudeo Giuseppe, figlio di Giacobbe e Rachele, «bello di forma e avvenente d’aspetto» (Gen 39,6). Egli era stato venduto dai fratelli, condotto in Egitto e acquistato da Potifar. Nel Testamento di Giuseppe, la donna anonima nel racconto biblico ha un nome: l’egiziana Menfia, di cui il patriarca narra le insidie ostinate per indurlo all’adulterio. Giuseppe, che teme Dio, prega e digiuna per avere da Dio la forza di essere fedele agli insegnamenti di suo padre. Poi prosegue testualmente: «Ma io ripensavo alle parole di mio padre e, entrato in camera mia, pregavo il Signore… Capii e mi addolorai fino alla morte. Quando se ne fu andata, ritornai in me stesso e soffrii per lei per molti giorni» (III,3.9).
Sia il giovane figlio che il suo antenato, il patriarca Giuseppe, ritornano in se stessi, ma con intenti e progetti diversi, ciò che più conta, con atteggiamenti opposti. Il patriarca «si addolora fino alla morte» perché l’egiziana vuole commettere peccato e soffre «per lei». Il figlio giovane invece, è scocciato della piega che ha presa la «sua» vita: «Me ne sto qui a morire per carestia». Il giusto patriarca non gode della sventura che può capitare al suo nemico, ma si preoccupa della salvezza della donna; il giovane della parabola si preoccupa solo di sé e non ha il minimo slancio di altruismo. Confrontiamo più profondamente le ragioni intime di Giuseppe e del giovane.
Il giusto e l’egoista
Il patriarca entra in camera sua e prega (cf Mt 6,6), il figlio dissoluto «valuta, ragiona, pondera» la sua situazione e cerca una soluzione vantaggiosa. Il patriarca prega Dio, il giovane si è allontanato da Dio; il patriarca trova forza nel ricordo delle parole del padre, il giovane pensa come sfruttare ancora la generosità e la bontà del padre. Il patriarca digiuna a lungo, perché il dolore della fame non gli faccia perdere il senso morale della sua responsabilità, il giovane, così terrorizzato dalla fame da indursi a mescolarsi con i porci, non ha più un padre da ricordare, ma solo un padrone da sfruttare.
Il ragionamento del figlio giovane è spudoratamente egoista, frutto di calcolo di convenienza. «Verso se stesso ritornando» significa: preso atto della situazione disperata, pensò… non di ritornare dal padre, ma di trovare il modo di rimediare un «posto» tra i dipendenti di suo padre che hanno un trattamento di giustizia e vivono senza preoccupazioni. Il figlio è prigioniero ancora della sua superficialità e immaturità.
Il pensiero della casa del padre è tutto rivolto al benessere materiale: «Quanti salariati di mio padre hanno abbondanza di pani, mentre io qui me ne sto a morire di carestia». Il verbo «morire» nella parabola ricorre tre volte, qui in bocca al figlio e nei vv. 24 e 32 in bocca al padre, che ha un motivo in più per giornire: gli è stato restituito il figlio «morto», ma egli lo ha rigenerato e ridato alla vita.

Se la motivazione non è sufficiente
Un’ultima osservazione, a conclusione di questa riflessione che ci ha restituito il sapore del testo nella sua crudezza. Abbiamo detto che il figlio non ha un moto di conversione, ma una motivazione ancora egoista perché ossessionato dalla povertà e dalla fame. Ciononostante «inizia» a pensare al padre, anche se come padrone. La motivazione non è genuina né entusiasmante; è decisamente insufficiente, ma mette in moto un processo irreversibile.
Non sempre i grandi cammini o le grandi svolte nella vita accadono perché le motivazioni sono chiare, le idee limpide e gli interessi di tornaconto assenti. No! Siamo umani, fino al midollo delle ossa, impastati di contraddizioni, dubbi, paure, egoismi. Per questo una motivazione insufficiente o del tutto inadeguata all’inizio può essere lo stesso il motore di avviamento della vettura della vita. Basta saperla cogliere, lasciarsi stupire dalle novità che quasi sempre accadono gratuitamente. La domanda a cui dobbiamo rispondere è: chi e cosa mette in movimento il figlio verso il padre? Se le sue ragioni sono meschine ed egoiste, chi muove il figlio a riprendere il cammino a ritroso verso la casa del padre suo, anche se visto solo come padrone? Dove sta la vera ragione del ritorno del figlio? Lo scopriremo nel commento ai versetti seguenti.
(continua – 13)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo» (12) Un viaggio di schiavitù: dalla casa al porcile

«Per la libertà Cristo ci liberò: non sottomettetevi di nuovo al giogo della schiavitù» (Gal 5,1)

15E dopo essersi messo in viaggio andò a servizio di (lett.: si incollò, attaccò a) uno degli abitanti di quella regione, e (= che) lo inviò/mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno glie(ne) dava.

D ei 16 affreschi elencati nella puntata n. 10 dedicata alla parabola (cf MC maggio 2007) ne abbiamo preso in considerazione 10; ora ci apprestiamo a riflettere sui restanti 6. Li riportiamo di nuovo per facilitare la lettura e la riflessione:
11.    Colui che era figlio ora diventa servo (si mise a servizio).
12.    Il figlio sostituisce il padre con «uno qualsiasi» (uno degli abitanti di quella regione).
13.    Il viaggio intrapreso dal figlio porta ad un abisso di impurità (lo mandò nei campi a pascolare i porci).
14.    Colui che si credeva ricco perché aveva «tutto» non ha neanche gli avanzi di carrube (avrebbe voluto saziarsi con le carrube).
15.    Colui che era stato commensale del padre, ora è a mensa con i porci (che mangiavano i porci).
16.    Colui che fu il prediletto del padre è rifiutato anche dai porci (nessuno gliene dava).

Dopo essersi messo in viaggio
Il giovane figlio era partito da casa verso un paese lontano, a lungo sognato come regno della libertà, mèta della sua realizzazione: ora deve ripartire di nuovo. Non è ancora arrivato che deve ripartire: il viaggio fatto è già inutile. Anche se per raggiungere un obiettivo si percorre molta strada non significa che si approda a una mèta, perché questa deve coincidere con l’obiettivo del cuore, del proprio essere intimo. Il viaggio della maturità non è vagare a zonzo. Il giovane figlio è scollato dentro di sé perché non ha più punti di riferimento e la sua vita è stravolta perché sono crollati gli appigli che aveva scambiato per sicurezza: ricchezza, compagni, divertimento.
Immerso nella più totale solitarietà, è incapace di percepire la direzione della sua vita. La tracotanza diventa dispersione e la presunzione disperazione. Il giovane figlio non fa l’esperienza della solitudine che è l’abitudine a stare con la propria intimità, nel silenzio e in compagnia di Dio. L’essere solitario è il vuoto attorno a sé anche in mezzo a una folla: è il terrore.

In cammino o andare a zonzo. Aveva disperso «tutto» con allegria e si ritrova di nuovo sulla strada non più in cammino verso una mèta, ma in viaggio spinto dalla sopravvivenza e dalla fame, unica compagna rimastagli. Camminare è un atto religioso di pellegrinaggio, che conduce a uno scopo già conosciuto perché lo si è visitato nel proprio cuore: si cammina verso il proprio io profondo, verso l’amore, verso un amico, un’amica, verso Dio, anche verso la morte e oltre la morte. Qui, il figlio «senza salvezza», dissoluto, cioè sciolto e smembrato due volte, invece, si mette solo in viaggio perché non sa dove andare e alla fine prenderà quello che capiterà. Non guida più gli eventi, ora sono gli eventi anche occasionali e imprevisti che lo sovrastano.

Nota spirituale. Qui potremmo vedere la descrizione della nostra storia di fede: crediamo di essere in cammino, invece andiamo solo lontano; pensiamo di pregare, invece parliamo solo con noi stessi; c’illudiamo di avere Abramo come padre (Gv 8,39), mentre siamo solo figli senza storia. A volte succede di avere la presunzione di essere nella volontà di Dio solo perché siamo battezzati, consacrati, credenti; invece siamo solo «incollati a… uno qualsiasi» degli idoli che popolano il nostro orizzonte di vita e verso i quali viaggiamo spediti, allontanandoci, anche senza avee coscienza, sempre più dalla sorgente di vita che è pateità.
Il figlio giovane è spesso la fotografia a colori della nostra situazione precaria che si lascia riempire di cose e compagnie occasionali, ma si priva della relazione essenziale dell’amore che è sempre «mettersi in cammino verso…», non un «allontanarsi da…». Possiamo moltiplicare le nostre preghiere, esse spesso sono solo formule che ingannano noi e non commuovono Dio, perché siamo lontani, incollati a una terra dove nemmeno a Dio permettiamo di entrare. Tutto è confinato: noi lontano dalle nostre origini, Dio lontano dal nostro orizzonte, fratelli e sorelle lontani dal nostro amore. Possiamo fare finta, illudere la nostra illusione, non possiamo mai ingannare la nostra coscienza e lo Spirito che, anche se sepolto, è presente in noi e nelle nostre scelte.
A volte pensiamo di dare gloria a Dio, mentre invece celebriamo solo noi stessi. Non basta celebrare liturgie «perfette» e vestire panni liturgici sgargianti, od osservare materialmente regole, prescrizioni e orari; non è sufficiente essere preti, religiosi, osservanti e pii per essere «incollati» al Padre, al Figlio e allo Spirito fin nelle fibre più intime del nostro cuore.
Dentro di noi si agita un figlio che cerca salvezza, ma volendo salvarsi da solo, si ritrova a dissipare il «tutto» che è e che ha come se fosse «senza salvezza, da dissoluto: perduto due volte».

Conoscere ciò che si cerca. È un momento drammatico nella vita del figlio giovane. Egli ancora una volta si allontana dalla mèta che si era prefissato e che avrebbe dovuto essere la sua nuova casa: egli che già si trova in un «paese lontano», va oltre, ponendo un abisso tra lui e suo padre. Non ha trovato ciò che cercava, perché non sapeva cosa voleva. La persona matura che si mette in cammino sa sempre quello che cerca.
Questo supplemento di viaggio significa un allontanamento ancora più radicale da suo padre e dalla sua casa, la cui distanza aumenta, mentre proporzionalmente diminuiscono le possibilità di un ritorno. Sembrerebbe che l’evangelista volesse dirci che questo figliolo ha oltrepassato il punto di non ritorno, le colonne d’Ercole della sua consistenza. Cosa c’è più lontano di un «paese lontano»? C’è solo l’abisso dell’inferno, dove sta entrando il «figlio più giovane» che pretese la vita del Padre per dilapidarla in un commercio dissoluto senza salvezza.

Andò a servizio di (lett.: si incollò/attaccò a)
uno degli abitanti di quella regione
Senza padre, senza terra, senza eredità, senza ricchezza, senza prospettiva, senza dignità: egli semplicemente «non è». A lui si attanaglia a pennello la rassegnata dannazione del poeta: «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti… Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (E. Montale, Ossi di Seppia, «Non chiederci la parola»).
Non esiste la formula magica per scoprire mondi nuovi e lontani perché, se chi si mette in cammino non sa dove andare, può solo incontrare «ciò che non è, ciò che non sa» e non gli rimane che l’ultima spiaggia: aggrapparsi a «uno degli abitanti». Egli che voleva avere consapevolezza del proprio destino, dalla vita stessa è scaraventato nell’oblio dell’anonimato che è l’essenza del non-essere e il vertice del non-sapere.
«Uno degli abitanti»: non ha nome, né identità; addirittura non si dice che è «un uomo», ma che era solo «uno tra i tanti abitanti», un numero nella folla. Il testo greco è terribile nella finezza psicologica: usa il verbo kollàō, che significa «m’incollo/congiungo/aderisco/unisco».

Incollarsi alla vita. Il verbo è forte: indica una profonda intimità di condivisione di vita ed esprime anche il rapporto coniugale tra uomo e donna, per definire la fusione sponsale, che elimina la dualità di maschio e di femmina, per fare l’unità del nuovo soggetto coniugale. Il verbo kollàō elimina l’io e il tu per dare vita alla novità del noi: è un verbo che fa nascere una nuova personalità. In questo senso lo usa Matteo per affermare il principio della creazione, nella Genesi, che narra come l’uomo abbandona/si separa da suo padre e madre (cioè dalle relazioni esistenziali ed essenziali alla vita) per «lasciarsi incollare» alla propria donna ed essere così «due in una carne sola» (Mt 19,5; cf Gen 2,24). Qui il verbo esprime il suo significato più profondo, perché l’adesione dell’uomo alla donna produce l’unità più radicale della natura umana.
Luca stesso usa questo verbo per descrivere la polvere «che si è incollata/attaccata» ai piedi degli apostoli, divenendo parte di essi (Lc 10,11). In At 8,29 lo Spirito suggerisce a Filippo di «incollarsi al carro» dell’etiope sovrintendente della regina Candàce, per spiegargli l’identità del Servo. In At 17,34 lo stesso verbo è usato per descrivere l’adesione alla fede predicata da Paolo: «Ma alcuni uomini, essendosi incollati a lui, credettero». In Ap 18,5 invece è usato per indicare i peccati di Babilonia che «si sono incollati al cielo».
Questi pochi esempi sono sufficienti per soffermare la nostra attenzione su questo verbo che ha un senso decisivo e pone in atto un contrasto radicale tra la situazione di prima e quella di dopo. Non si tratta solo di mettersi a servizio per sbarcare il lunario in un tempo di carestia. La posta in gioco è molto più alta.

Conoscenza o anonimato. L’evangelista parla di un rapporto d’intimità che riguarda la vita e il suo destino, anzi le condizioni della vita stessa: colui che era figlio, ora è schiavo; colui che era libero di amare e di essere amato, ora è «incollato» a un anonimo; colui che voleva vivere a modo suo, ora è costretto a vivere a modo di un altro. Si è liberato di un padre, uccidendolo anzitempo per trovare un padrone a cui non esita di affidarsi incondiziona-tamente, incollando la sua vita a quella sua, instaurando, cioè, con lui una conoscenza così profonda da alienarsi per sempre: diventerà anonimo anche lui non solo per gli abitanti di quella regione, ma anche per gli animali, per i porci che non lo riconoscono.
La tragedia di questo figlio è terribile, se rapportata a quella dei suoi antenati, anch’essi in terra lontana (in esilio), che preferiscono morire, piuttosto che deturpare il nome e i canti di Gerusalemme: «Possa incollarmisi (kollàō) al palato la lingua, se non mi ricordassi di te (Gerusalemme)» (Sal 137/136,6). L’esule a Babilonia si strugge per essere stato costretto a separarsi dalla sua casa che è anche l’abitazione di Dio; mentre il giovane figlio ha scelto di separarsi dalla casa del padre per aderire/attaccarsi al vuoto del suo futuro senza salvezza. Egli si strappa dalla consacrazione al Dio di Gerusalemme e s’incolla, cioè si consacra a un padrone di morte. Essere incollato a uno qualsiasi degli abitanti di quella regione ha in questo contesto un valore profondamente religioso perché corrisponde anche a un atto di fede: egli accetta la legge, regole e comandamenti di «uno qualsiasi», compiendo un atto di apostasia dal suo Dio e dalla fede di suo padre. «Incollarsi a qualcuno» è accettae la prospettiva e dimensione di vita, quindi diventare come lui.

Lontano dalla Shekinàh. Non va verso l’anonimo come espediente per sopravvivere, ma è una conversione alla rovescia: abdicare da figlio d’Israele per diventare suddito di «uno degli abitanti di quella regione»; rinunciare alla sua identità di figlio del Dio di Abramo per essere servo di un impuro e sfruttatore; abbandonare le norme religiose del suo popolo per essere immondo e senza salvezza «in quella regione» che è «lontana» dal tempio, da Gerusalemme, dalla Toràh, dalla Shekinàh/Dimora del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Nel giovane figlio Adam ed Eva hanno toccato il fondo del loro costante e sistematico allontanamento dall’Eden.
Abramo credette contro ogni speranza; il giovane figlio rinnega con tracotanza; Isacco si offre in olocausto e si fa legare all’altare del sacrificio pur di restare fedele al padre suo e al Dio di suo padre; il figlio della parabola si scioglie da ogni obbligo e lega il padre all’altare del suo egoismo; Giacobbe si mette al servizio (gr.: doulèuō/io servo: il verbo conserva ancora un senso di dignità) di Labano per avere Lia e Rachele come mogli, restando distinto dal suocero e contestandone l’arroganza perfida (Gen 29,25.30), al contrario del giovane figlio, che invece prende l’iniziativa per vendere se stesso, abdicando alla sua stessa esistenza e alla sua dignità di persona. Lontano dal Dio d’Israele, come può essere vicino al senso della sua identità? Voleva vivere da parassita, ora è a rischio la sua stessa esistenza che non-vita.

E lo inviò/mandò nei suoi campi a pascolare i porci
Da un punto di vista letterario il versetto 15 contiene un «anacoluto», cioè viene cambiato il soggetto logico. Si sta parlando del figlio giovane che s’incolla a un abitante della regione e il versetto continua trasformando quest’ultimo in soggetto, contro ogni logica grammaticale: «Andò (il giovane è il soggetto) a servizio di uno degli abitanti della regione e lo mandò (uno degli abitanti è il nuovo soggetto) nei suoi campi a pascolare i porci».

Figlio di Beelzebùl. Pascolare i porci è proibito a un ebreo dalla Toràh: «Fra i ruminanti e gli animali che hanno l’unghia divisa, non mangerete i seguenti… il porco, perché ha l’unghia bipartita da una fessura, ma non rumina, lo considererete immondo» (Lv 11,4.7; Dt 14,3-5.7-8).
Tale proibizione, più che a un motivo di igiene (il porco si nutre di ogni immondezza), si deva a una ragione mitologica: nella mitologia antica, il porco è associato al diavolo, è l’incarnazione di Beelzebùl (ancora oggi nella iconografia il diavolo viene raffigurato spesso con il piede di porco), che è la fonte dell’idolatria e impurità, perché egli è l’opposto di Dio, anzi il nemico. Il suo nome in babilonese è «Baal Zebul», cioè «Signore/Padrone della casa», che gli Ebrei storpiarono in «Baal Zebub – Signore delle mosche» (cioè degli escrementi). Un indizio forte di ciò lo troviamo nei vangeli sinottici, quando Gesù libera l’indemoniato addirittura da una «legione» di spiriti maligni, i quali dopo essersi arresi chiedono il permesso, che Gesù concede, di traslocare in un branco di circa duemila porci (Mt 8,28-34; Mc 5,1-14; Lc 8,26-34).

L’impurità sessuale. Pascolare i porci significa quindi mettersi sotto il dominio di Satana e del suo influsso malefico, accettare di passare dalla fede in Dio alla religione del maligno, dal comandamento della Toràh alla legge dell’ateismo. Nel 2° libro dei Maccabei si narra del vecchio scriba Eleazaro, che, viene costretto a mangiare carne di porco per avere salva la vita, preferisce la morte atroce e lasciare un esempio di fedeltà al Dio dei padri che avere salva la vita e condannare le generazioni future con un esempio di morte (2 Mc 6,18-31). Lo stesso avviene per i sette fratelli figli dell’eroica madre che preferisce lei stessa consegnare i figli alla morte pur di non trasgredire la legge di Dio (2 Mc 7,1-41, specialmente i vv. 1-3).
Il giovane della parabola accetta addirittura di «pascolare» i porci, cioè di allevarli per altri, e quindi partecipa alla corruzione del futuro, diventando strumento di morte anche per le generazioni seguenti. Un altro elemento di impurità del porco dipende dalla cultura greca che lo associa alla sfrenatezza sessuale (Aristotele, Historia animalium, V,14,546a,8-28).
Siamo sicuri che sia questo il contesto del vangelo di Luca, perché troviamo anche nella tradizione rabbinica la controprova che al tempo della chiesa nascente, questo era il sentire ebraico. La Mishnàh, infatti, prescrive che «nessuno può allevare porci in qualsiasi posto (beqòl maqòm)» (trattato Baba Kama/Prima Porta 7,7), mentre nel Talmud di Babilonia in modo ancora più esplicito si commina la maledizione a chi alleva porci e diffonde i costumi della cultura greca, mettendo così in stretta correlazione il porco e il pensiero greco, associandolo alla sfrenatezza sessuale: «Maledetto sia l’uomo che alleva porci e chiunque insegna la saggezza greca» (trattato Bekoròt/Primogeniti 82b).

La carruba e la speranza. Il giovane figlio non poteva cadere più in basso di così: dalla casa patea alla porcilaia, dal tempio all’impurità totale, dalla terra promessa benedetta alla maledizione in terra straniera, dall’obbedienza della parola di Dio alla schiavitù di un anonimo qualsiasi, dalla dignità di figlio alla schiavitù in terra lontana, dai sogni di grandezza all’abisso dell’abiezione.
Lui che era pastore di greggi nella casa del padre, ora è schiavo di porci che non gli riconoscono nemmeno la dignità di commensale. Volle affrancarsi dall’obbedienza del padre, per scrollarsi qualsiasi forma di dipendenza, e si trova davanti un padrone che «lo inviò nei suoi campi» e accetta la «missione» di essere impuro, senza protesta, alimentando l’impurità e sprofondando in essa sotto il peso della maledizione del suo popolo.
Lui che aveva aspirato a desideri di libertà, tanto da comprarla con la ricchezza iniqua, ora aspira a un solo desiderio: sfamarsi delle carrube che implora dai porci stessi al cui livello ormai si considera, ma i porci lo escludono dalla loro intimità e non lo vogliono nel loro porcile, perché egli è andato oltre l’abisso e ogni speranza che nessuna carruba potrà mai sfamare. Oltre l’immondezza della porcilaia, c’è appunto il giovane figlio che ha degradato la vita del padre incollandola a quella di un impuro e senza Dio. Non resta che una prospettiva, l’unica soluzione, la sola possibilità: la morte come pietra tombale sul vuoto che soffoca anche il desiderio di essere porco tra i porci. Come è lontano il padre adesso! Come è lontano il figlio da se stesso!  (continua – 12).

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo» (11): Quando desiderare tutto signigica possedere nulla

«Tutto mi è lecito». Ma io non mi lascerò dominare da nulla

N ella puntata precedente abbiamo elencato i sedici affreschi dei vv. 13-16 ed esaminato i primi sette riportati nel v. 13. Proseguiamo l’approfondimento esaminando altri tre affreschi contenuti nel v. 14.

Quando ebbe speso tutto
Al v. 13 avevamo lasciato il figlio giovane che aveva «raccolto tutto»; ora, al v. 14, lo ritroviamo che ha «speso tutto». Nella vita del giovane figlio, il «tutto» è sinonimo di «nulla». Al raccolto possessivo corrisponde la dispersione immediata. L’illusione di essere ricco non si è ancora sedimentata che già si trova vuoto di tutto. Aveva considerato il «possesso» della ricchezza il fondamento della sua libertà e si ritrova la povertà assoluta che diventa precarietà e inconsistenza. Voleva essere «adulto» e indipendente, ma ha solo dimostrato di essere imprevidente e incapace di calcolare le sue forze.
È evidente che nello «sforzo» superficiale di «spendere tutto» c’è anche il sarcasmo che egli non ha speso «del suo» perché il «tutto» come abbiamo visto era la vita del padre, che egli ha sperperato e svenduto.
Il «figlio più giovane» è il vero erede di Adam ed Eva che nel giardino di Eden, pur avendo tutto («di tutti gli alberi del giardino puoi mangiare», Gen 2,16), vogliono ancora di più e aspirano all’esclusività assoluta, cioè prendere il posto di Dio e possedere «l’albero della conoscenza del bene e del male» (Gen 2,17). Solo così possono affrancarsi dalla libertà reale che posseggono e che essi ritengono insufficiente, ritenendosi capaci di una libertà infinita.
Adam ed Eva si ritrovano «nudi», cioè spenti di vita e di luce, senza alcun potere e privi della loro stessa personalità. «Nudi» che scappano a nascondersi in mezzo agli alberi del giardino (Gen 3,10): desiderare una libertà maggiore di quella che si può contenere genera frustrazione e paura.
Una persona libera che si nasconde è una contraddizione esistenziale. Come i suoi progenitori, il giovane fi-glio è «nulla» in sé e per l’ambiente che lo circonda: egli è in «un paese lontano», dove per essere qualcuno deve comprare non gli amici, ma i compagni di baldoria. Spende tutta la parte di padre di cui si era impossessato per accreditarsi per quello che non è: un uomo ricco. Alle prime avvisaglie di una avversità, crolla la ricchezza che non c’è mai stata e sprofonda lui stesso nella sua inconsistenza. Inaspettata giunge una «potente carestia», che frantuma tutti i sogni del giovane illuso.
La libertà non è mai affrancarsi da qualcuno o da qualcosa perché resterebbe una finta libertà esteriore, cioè solo materiale. Non avere catene ai piedi non significa affatto essere liberi. La libertà è un atteggiamento dell’anima, un moto dello spirito che si compie e si realizza in gesti concreti di liberazione. Il giovane figlio non è libero nel cuore, perché egli è schiavo delle sue «presunte» ricchezze con le quali ha confuso la vita stessa di suo padre. Perdute le ricchezze, disperso il «patrimonio», egli annaspa nel vuoto e nel nulla. Si è liberi quando non si ha nulla da difendere perché nulla appartiene a chi ha regalato anche la propria libertà.
La persona libera è il povero nello spirito (Mt 5,3) perché accoglie i suoi stessi bisogni come compagni di viaggio senza mai trasformarli in padroni o peggio in «idoli» a cui ogni giorno bisogna sacrificare un pezzo di sé. È libero colui che sa dipendere dalle relazioni che sperimenta come strutture di crescita e come strumenti per generare altre relazioni che a loro volta generano ancora pienezza di vita. La persona gretta invece vive le relazioni (affettive, di amicizia, con Dio) in modo e forma «golosi», ma non ha tempo per assaporarli perché è solo preoccupato e occupato di avere di più per ritrovarsi alla fine senza nulla in mano e in cuore.

In quel paese venne una
carestia grande
(lett.: forte/potente)
Non basta allontanarsi dalla casa del padre per essere autonomo: la soglia di casa non è il confine tra l’autonomia e la dipendenza, ma la misura del confronto sia in casa che fuori. Il figlio giovane ora si trova in «quella regione» che diventa anche tragica, perché arriva la carestia. Nella casa di suo padre poteva raccogliere «tutto» ciò che non era nemmeno suo, mentre lontano da casa può incontrare solo la fame, cioè la privazione anche del necessario per vivere.
Da un punto di vista letterario, l’espressione è «una forte/potente carestia» ed è collocata al centro del versetto; sembra quasi personificata, perché domina la scena come un fantasma pauroso. Non è solo carestia, è anche «potente» ed è contrapposta alla scena tragica del giovane che ha «speso tutto». Da una parte il vuoto totale, la nullità, e dall’altra la potenza della fame che avanza e sovrasta. Il viaggio della libertà è durato poco, lo spazio di una illusione.
Giobbe sconsolato e frustrato esclama: «Nudo sono uscito dal ventre di mia madre (= dalla terra) e nudo vi farò ritorno» (Gb 1,21), mentre il giovane della parabola lucana, non solo non è uscito «nudo» dalla casa di suo padre, perché aveva «raccolto tutto», cioè la metà della vita del padre, ma ora si trova anche nudo e senza niente. Per chi ha preteso «tutto» è un bel successo!
Il giovane è l’opposto del patriarca Abramo, che andò in Egitto a causa di una «carestia» (Gen 12,10). Luca usa la stessa espressione greca: «egèneto limòs – accadde/avvenne una fame/carestia». Il patriarca fugge dalla carestia e va in Egitto alla ricerca di cibo; il giovane fugge dal cibo e va verso la carestia. Il patriarca guarda al futuro; il giovane lucano guarda a se stesso. Abramo lascia la sua terra perché costretto; il figlio lascia la casa di suo padre per scelta e decisione. Abramo sta seguendo il disegno di Dio, suo Padre; il figlio si allontana dal padre che considera un ostacolo ai suoi disegni. Abramo commette una indegna ingiustizia (per salvare se stesso, non esita a concedere sua moglie Sara all’harem del faraone, Gen 12,12-13), ma lo fa per paura di trovarsi in terra straniera; il figlio va volutamente in «una terra lontana» a sperperare la vita del padre.
Anche Giacobbe, il fondatore delle dodici tribù, manda i figli due volte in Egitto, allontanandoli da sé e dalla propria terra. La prima volta «perché nel paese di Canaan c’era la carestia» (Gen 42, 5) e la seconda volta perché «la carestia andava diventando potente/forte» (Gen 43,1). Giacobbe allontana i figli da sé per salvarli dalla morte, mentre il figlio della parabola si allontana dopo avere ucciso il padre per raccogliere in forma di patrimonio la stessa vita patea che ha preteso anzitempo.
Giacobbe pensa alle generazioni future, il figlio lucano semplicemente non pensa: è troppo occupato a godersi la vita per accorgersi che sta arrivando la carestia. Egli crede di essere radicato nel presente e dà sfogo al suo carpe diem: «Fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero – Fugge il tempo geloso: cogli l’attimo e confida meno possibile nel domani» (Oratio, Carmina I,11,7-8). È talmente immerso nel suo presente da non accorgersi di essere già nel passato, in quel vuoto esistenziale da cui voleva fuggire, ma da cui non può scappare, perché nessuno può fuggire da se stessi, in quanto noi non possiamo non inseguirci dovunque andiamo.
Il testo greco è puntiglioso perché non dice che la carestia piombò «in quel paese», ma usa la preposizione  «katà – giù per» con l’accusativo, nel senso di «lungo quella regione», con valore distributivo locale, col significato di dappertutto: «Avvenne/accadde una carestia forte/potente lungo tutta quanta/dappertutto in quella regione».
Nemmeno un anfratto è sicuro, non c’è un posto dove ripararsi dalla fame. Il «paese lontano» del v. 13, verso cui camminava il desiderio di liberazione dal padre, ora diventa una prigione senza scampo e senza futuro: dappertutto c’è carestia e privazione. Anticipo di morte e di tragedia.

Ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno
Il verbo greco «hysterèō» significa «manco/sono privo/escluso» ed è preceduto da un verbo ausiliare «àrchō – io comincio a», per cui si può dire che indica un’azione ingressiva, che cioè sta per iniziare e di essa ora si vede solo il principio, ma è destinata a durare nel tempo o nello spazio. Inizia una nuova storia, imprevista e non programmata.
Il bisogno come privazione di qualcosa era assolutamente impensabile e quindi bandito dai pensieri del giovane figlio. Egli aveva un solo ed esclusivo bisogno: lasciare la casa del padre per affrancarsi da ogni forma di dipendenza e di bisogno; il suo unico bisogno era affrancarsi dall’affetto del padre, che considera opprimente. Questo unico bisogno diventa il motore della sua vita futura che egli immagina roseo, spensierato e senza problemi economici: egli ha «tutto» con sé ed è sufficiente a se stesso. Non ha bisogno della dipendenza nemmeno affettiva.
Egli deve andare lontano; il suo desiderio di libertà non nasce dal suo cuore, ma si misura solo con il metro della distanza. Più si allontana dalla sorgente della vita, più s’illude di trovare la pienezza di vivere. Tutto sacrifica per questo miraggio: padre, fratello, casa, amici, terra. Anche Dio diventa superfluo, mero accessorio. Quando il bisogno s’ingigantisce, fino a diventare una esigenza irrefrenabile, anche Dio si trasforma in ostacolo; anzi, in un persecutore senza cuore, qualcuno da cui allontanarsi.
Il giovane somiglia allo stolto del vangelo che avendo avuto uno straordinario raccolto non sa come gestire l’abbondanza e sogna una vita piena di sé e di ricchezze, prevedendo un futuro ancora più ricco: «Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia e bevi e divèrtiti! Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce davanti a Dio» (Lc 12,16-21, qui 19-21). Coperti di ricchezze, hanno schiacciato la vita e con essa i bisogni e anche i sogni.
Il figlio della parabola sperimenta sulla sua pelle le parole del castigo predette dal libro del Deuteronomio e che egli avrebbe dovuto bene conoscere: «Non avendo servito il Signore tuo Dio con gioia e di buon cuore in mezzo all’abbondanza di ogni cosa, servirai i tuoi nemici, che il Signore manderà contro di te, in mezzo alla fame [gr. limòs], alla sete, alla nudità e alla mancanza di ogni cosa; essi ti metteranno un giogo di ferro sul collo, finché ti abbiano distrutto» (Dt 28,57-48).
Nella bibbia la carestia o la fame (con la siccità) è sempre un castigo mandato da Dio, come conseguenza dell’allontanamento da lui o come segno dell’assenza della parola di Dio (Am 8,11) e quindi della mancanza di profezia. In una parola, la carestia significa che Dio ha abbandonato a se stesso Israele che ha rotto l’alleanza con il Signore (cf Ez 5,17).
Il giovane non ha servito il Signore «in mezzo all’abbondanza» nella casa del padre, ora sperimenta la logica conseguenza del suo peccato voluto e con determinazione perseguito: sarà schiavo (come vedremo commentando il v. 15) e sperimenterà ogni sorta di privazione: fame, sete, nudità e ogni altra sventura che lo soggiogheranno, riducendolo a uno stato animalesco, fino al livello più infimo oltre il quale è impossibile andare per un Ebreo: compagno e commensale dei porci. Egli non è andato solo «in un paese lontano», cioè in terra pagana, si è diretto invece nel regno dell’impurità che lo rende inabile alla preghiera e al sacrificio cultuale. Diventando impuro, egli si allontana dall’intimità e diventa estraneo a Dio e a se stesso.
Non è Dio, non è il padre a infierire sul giovane e la carestia non è un capriccio di Dio per farlo rinsavire; al contrario la fame, la sete e il bisogno improvvisi sono il risultato o, se si vuole, il segno esteriore della condizione interiore in cui l’uomo si trova. Attraverso le scelte libere e autonome, il figlio più giovane si esclude da sé dalla pateità, dalla frateità, dalla comunione (casa) per restare solo e privo di tutto. Bisogno e privazione, solitudine e fame sono le cicatrici della sua insipienza che non ha saputo pensare alla carestia in tempo di abbondanza (cf Sir 18,25).
Dopo avere speso tutto, non gli resta che il nulla totale, perché pur di mangiare qualcosa, egli vende addirittura se stesso, negando la sua stessa natura e apparendo per quello che realmente è: un morto che vive in una regione morta, devastata dalla carestia.  (continua – 11)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo» (10)

Si allontanò dal suo popolo verso un paese lontano

«13Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolto tutto, se ne andò via
per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto
[lett. da (uomo) senza salvezza]. 14Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne
una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò
e si mise a servizio [lett. si incollò/attaccò] di uno degli abitanti di quella regione,
che lo mandò nei campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube
che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava» (Lc 15,13-16).

L a sequenza narrativa dei vv. 13-16 descrive la prima parte dell’agire del figlio «più giovane» che si potrebbe chiamare «il distacco». La sequenza è drammatica, perché con una sintesi straordinaria descrive sedici affreschi che possiamo così ricomporre:
1.    la fretta di scappare e togliersi da una situazione diventata pesante (dopo non molti giorni);
2.    l’attore è il figlio più giovane, quasi a mettere in evidenza la sua condizione di privilegiato;
3.    l’illusione di una ricchezza senza fine e autosufficiente (raccolto tutto);
4.    il distacco, il taglio definitivo con il proprio passato e la propria radice (se ne andò via);
5.    la mèta come realizzazione di sé e delle proprie aspirazioni (per un paese lontano);
6.    l’ingordigia di essere finalmente libero (sperperò la sua natura/le sue sostanze);
7.    la piena soddisfazione dei bisogni a lungo repressi e finalmente realizzati (vivendo da dissoluto);
8.    la fine della ricchezza considerata «tutto» e fonte di libertà (quando ebbe speso tutto);
9.    il paese lontano, la mèta diventa un incubo di sopravvivenza (in quel paese venne una grande carestia);
10.    l’inizio di una nuova vita: l’indipendenza diventa bisogno (cominciò a trovarsi nel bisogno);
11.    quello che un tempo era figlio ora diventa servo (si mise a servizio);
12.    il padre da cui ci si affranca ora diventa «uno qualsiasi» (uno degli abitanti di quella regione);
13.    il fondo dell’abisso dell’impurità (lo mandò nei campi a pascolare i porci);
14.    chi aveva «tutto» si accontenta degli avanzi di carrube (avrebbe voluto saziarsi con le carrube);
15.    chi era commensale del padre, ora aspira a diventare commensale dei porci (che mangiavano i porci);
16.    il prediletto del padre è respinto anche dai porci (nessuno gliene dava).
Queste sedici pennellate formano l’affresco dei quattro versetti che abbiamo citato e che formano una unità letteraria che descrive le prime tre tappe del «viaggio» verso la libertà del figlio più giovane: la partenza in ricchezza, lo sperpero in baldoria, la schiavitù nella fame.
Iniziamo a esaminare più da vicino il v. 13, sezionandolo in più parti per potee cogliere meglio la portata e riflettere ad un livello più profondo per cogliee il messaggio di salvezza per noi.

V. 13:  Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose se ne andò via per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Traduzione letterale: Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolto tutto, si allontanò/separò dal [suo] popolo verso un paese lontano e là disperse la sua natura da [uomo] senza salvezza.

«Dopo non molti giorni»
L’espressione «dopo non molti giorni» significa «dopo pochi giorni» ed è una figura retorica che in letteratura si chiama «litòte» (dal gr. litòs = semplice). Essa attenua la durezza di un contenuto o di un’affermazione, negando il contrario (pochi = non molti; appena sufficiente = non è poi così male). Lc non vuole calcare la mano: invece di dire che se ne andò via quasi subito, afferma che se ne andò «dopo non molti giorni», ponendo l’accento sull’aggettivo «molti» che induce a riflettere. Questa figura letteraria è molto presente in Lc specialmente negli Atti degli Apostoli (Lc 21,9; At 1,5; 12,18, ecc.).
La manciata di ore intercorse tra la richiesta del figlio minore, che pretende la vita del padre, e la sua partenza verso la libertà devono essere carichi di emozioni e imbarazzo, impregnando di emotività la casa che già appare vuota: vuota per il padre, che vede il figlio esigere la propria morte per affermare se stesso, e vuota per il figlio, che con la testa è già nel suo mondo virtuale e lontano. Domina un silenzio carico di sconfitta, scandito dalle lacrime mute del padre, che impotente assiste alla propria morte pur restando in vita e col pensiero immagina gli scenari veri di morte certa in cui si sta avventurando il figlio.
«Dopo non molti giorni» è una pausa musicale in un rapido fugato di note che si arrampicano correndo verso la fine: come se Lc volesse concedere un attimo di respiro in una situazione di soffocamento e prima della tragedia che si sta preparando.

«Raccolto tutto»
Il figlio che col corpo è in casa, ma con il cuore e la testa è già «lontano», si premura di passare in rassegna tutta la casa per  non lasciare nemmeno le briciole di «quanto gli spetta» (v. 12) della metà della vita che il padre gli ha donato.
Il testo greco non dice «raccolte le sue cose», ma «raccolto tutto», suggerendo l’idea che il figlio passa in rassegna ogni angolo con una accurata ispezione. Anche tutto quello che ha è di suo padre, ma queste sono sottigliezze di cui uno spirito libero non si cura. Questa sottolineatura è importante, perché l’autore vuole metterla in relazione al v. 14 dove ci avverte che spese «tutto».
Gli sforzi per liberarsi del padre, l’anelito della libertà, l’aspirazione a una vita autonoma e senza freni, tutto ciò per cui ha vissuto svanisce in un baleno: tutto è inutile, perché come aveva raccolto «tutto», così ora spende «tutto»: nudo è nato da sua madre e nudo resterà senza suo padre (cf Gb 1,21).

«Si allontanò/separò dal (suo) popolo»
Il testo greco usa il verbo apo-dēmèō che è composto dalla preposizione di allontanamento «apò-» e «dêmos-popolo». L’idea soggiacente è molto più che un andare via da casa. Il figlio più giovane, andandosene, «si allontanò/separò dal [suo] popolo», tagliando dietro di sé ogni radice e ogni riferimento.
Per un orientale, allontanarsi dal clan, dalla tribù, dalla famiglia, rappresentata dal padre, significava andare incontro alla morte, perché vuol dire andare allo sbaraglio, senza alcuna protezione. Esaù, per es., quando vuole separarsi dal fratello Giacobbe, non parte da solo, ma raduna tutta la sua tribù, il gregge, il bestiame e tutti i suoi beni per andarsene «lontano dal fratello» (Gen 36,6-9). Parte con il suo popolo.
Il figlio più giovane della parabola lucana, invece parte senza popolo: ha già perso la sua identità prima ancora di sperperarla in un «paese lontano».
Egli è l’opposto di Abramo che, in Gen 12,1-4, «deve» lasciare il paese, la patria e il padre per ubbidire al Dio che chiama e convoca per un progetto di popolo nuovo con una prospettiva missionaria. Abramo, infatti, andrà «verso una terra» non ancora conosciuta, che Dio stesso gli indicherà per donargliela come promessa ed eredità (cf Gen 15 e 17). Abramo non si preoccupa di conoscere la mèta «verso cui andare», perché a lui basta sapere «da dove» parte. Egli non si allontana «da» qualcuno, ma va «verso» qualcosa, un futuro, una promessa, un’alleanza. «E Abramo partì» (Gen 12,4). La partenza di Abramo è solenne e maestosa, perché è la risposta a una chiamata e quindi la realizzazione di una vocazione. Il «partì» è un progetto.
Il figlio giovane della parabola invece «si allontanò» quasi di nascosto, fuggendo, in fretta: egli non ha un progetto, ma sa esattamente «dove vuole andare». Come Abramo lascia il suo paese, la sua patria e suo padre, ma solo per egoismo e interesse. Abramo è aperto alla fecondità sconfinata («padre di molti popoli»); il giovane figlio è chiuso nella sua grettezza. Abramo si affida alla parola del «Padre», sulla quale soltanto fonda il suo futuro («farò, benedirò, renderò, diventerai, maledirò»); il giovane figlio ha soltanto la certezza di lasciare il suo passato per andare incontro «ad un paese lontano», dove non c’è salvezza. Abramo aspira l’eredità della «terra promessa»; il figlio giovane, aspirando al suo egocentrismo, erediterà soltanto una porcilaia e una fame da schiavo.
Usando il verbo «apo-dēmèō» l’autore sottolinea che il figlio giovane non si mette solo in cammino verso un suo destino, ma che egli «lascia» dietro di sé tutti i fondamenti della vita: si separa dalla «comunità» di cui non è più membro e resta un solitario che cammina isolato verso un destino di morte. Fuori della comunità o del proprio popolo, non si dà vita, ma solo illusione, che presto si trasforma in morte. È l’apostasia che conduce all’inferno dell’isolamento e dell’egoismo.

«Per un paese lontano»
In tutto il NT un’altra volta soltanto si trova questa espressione e cioè in Lc 19,12: «Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi tornare». L’uomo nobile parte per ritornare, il figlio più giovane parte per allontanarsi definitivamente. L’uomo nobile va in un paese lontano solo provvisoriamente, il giovane «emigra» per sempre, entrando in una diaspora senza fine.
Il viaggio del figlio minore è l’inverso dell’esodo dei suoi padri, i quali uscirono «insieme» dalla condizione di schiavitù per andare verso una terra «lontana» e sconosciuta, che avrebbe loro garantito la libertà e la dignità di «nazione», anzi, di «nazione santa, popolo di Dio» (Es 19,6; 1Pt 2,10). Ora invece assistiamo al viaggio di un solitario che emigra verso «un paese lontano» per essere straniero tra stranieri. Egli va in esilio anche da Dio, perché allontanandosi dal padre, dalla casa e dalla «comunità», egli abbandona anche il «Dio di suo padre» (Es 3,6).
Giacobbe quando partì per la terra straniera di Egitto si fermò a Bersabea, ultimo avamposto abitato, prima di inoltrarsi nel deserto del Neghev, dove «offrì sacrificio al Dio di suo padre Isacco» (Gen 46,1). Andandosene, il figlio giovane compie un gesto di apostasia: egli rinnega suo padre e il Dio di suo padre, il suo fondamento e il suo principio. In una parola rinnega se stesso.
L’espressione «paese lontano» è quasi una formula per indicare una terra pagana abitata da stranieri (Dt 29,21), cioè tutto ciò che è opposto alla «terra santa» abitata da Dio. Da questa «santità» della terra si allontana il giovane figlio, che così non si mette in viaggio verso una mèta, ma s’incammina verso l’esilio. Il suo è un cammino dalla «santità» all’impurità.
Viene alla mente la figura femminile di Rut che, pur essendo pagana, si comporta in modo opposto al «figlio più giovane» che è un giudeo osservante. La nuora di Noemi, invitata dalla suocera a ritornare al suo paese, nella «casa di sua madre» (Rut 1,8) cioè «in terra lontana», si rifiuta e sceglie la dimora di Noemi come sua dimora, il popolo di Noemi come suo popolo e il Dio di Noemi come suo Dio (Rut 1,16).  Nella parabola di Lc, invece, un figlio d’Israele rifiuta il padre, il paese e la patria  «per un paese lontano». A differenza dei suoi antenati, a cui in «terra straniera» gli si attaccava la lingua al palato per l’impossibilità di cantare i canti del Signore (Sal 137/136,4-6) per non renderli impuri, questo figlio che rinnega la pateità aspira all’impudicizia del paese lontano e alla indipendenza da ogni dovere, perdendo così ogni diritto.

«E là disperse la sua natura
vivendo (uomo) senza salvezza»
Fa pensare che questo giovane figlio dissolve e consuma non se stesso, ma la parte di vita del padre, che egli ha preteso come parte spettante della sua eredità. Dilapida la vita di suo padre, che si era portato dietro come mezzo per acquisire la sua libertà. L’autore della parabola usa il verbo «dia-skòrpizō» che in italiano è tradotto con «io sperpero». Alla lettera potremmo tradurre con «fece scorpacciate», cioè si abbuffò, oppure «disperse» tutto ciò che era e che aveva, cioè la vita di suo padre, cioè la sua natura. Egli può permettersi di essere dissoluto perché non si gioca del suo dal momento che nulla possiede, ma della vita del padre che gli è stata regalata con abbondanza e che ora dilapida e sperpera senza criterio, da «dissoluto».
Il testo greco è pregnante e tagliente, perché usa un avverbio tragico e definitivo: «asôtōs» è un avverbio che deriva dall’aggettivo «à-sōstos» che è composto dalla vocale privativa «a», che significa «senza», e dal termine «sôstos» che a sua volta proviene dal verbo «sôzō» che significa «io salvo». Si può quindi tradurre l’avverbio con «senza speranza di salvezza», oppure «senza salvezza». Noi abbiamo tradotto: «Vivendo da (uomo) senza speranza di salvezza».
La dissolutezza non è solo un comportamento immorale, come dirà il fratello maggiore al v. 30, dove accusa il «figlio di suo padre» di avere divorato tutto con le prostitute, ma è un atteggiamento interiore, un modo di accostarsi e vedere la vita, una scelta consapevole di vita: il dissoluto è colui che non ha una prospettiva spirituale, ma è rivolto esclusivamente alle cose materiali, che diventano il suo unico orizzonte immediato e finale.
Il dissoluto «si dissolve» lentamente, a mano a mano che si consuma insieme alle cose che usa e che consuma: non significa necessariamente «scostumato», come forse si potrebbe pensare, ma letteralmente è uno «che si scioglie due volte», perché è un antropofago di se stesso nello stesso istante in cui sbrana le cose che sta usando: si consuma consumando.
Non è libero chi è riempito di cose con cui ha coperto la propria anima, che diventa sorda e dissoluta, perché già seppellita  nel vacuo e nell’effimero. La schiavitù più grande e irrimediabile è quella di colui che perde anche la speranza di essere salvato, perché vede la sua vita rinchiusa e ripiegata su se stesso, senza alcun riferimento agli altri che sono sempre, sul piano affettivo e di fede, la parte migliore di sé.
D’altra parte se il figlio giovane lascia suo padre e il suo popolo e il suo Dio, avendo raggiunto la mèta della sua vita, che è «un paese lontano», che altro può fare se non perdere la speranza? È la fine totale, perché tutto sarà perdonato, ma non il peccato contro lo Spirito Santo, cioè il peccato di disperazione, la morte della speranza (Lc 12,10). Il figlio giovane somiglia ad Adam, che «pretende» la conoscenza del bene e del male del «Padre», che egli vuole spodestare per sostituirvisi. Volendo diventare «come Dio», Adam ed Eva di fatto intendono uccidere Dio per sostituirlo; ne esigono la morte, lusingati dal potere di essere affrancati dalla libertà che avevano di mangiare «tutti gli alberi del giardino»; ma vogliono di più, vogliono ancora, vogliono «tutto» (Gen 3,1-7). Si ritrovano alla fine «nudi», «scacciati dal giardino di Eden», stranieri in mezzo al deserto, terra lontana e di nessuno (Gen 3,23-24).
Come i suoi progenitori, anche il figlio della parabola lucana si scaccia da sé dall’Eden, alla ricerca di una libertà che nemmeno conosce e che non saprà nemmeno gustare, perché estranea alla sua condizione di schiavo del suo bisogno.
Ci resta una sola domanda: dove si annidano in noi l’Adam e il figlio «prodigo»?                            (continua – 10)

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo»(9)

La pateità / mateità è scandalosa

Nel numero precedente di MC non avevamo esaurito del tutto il v.12. Lo riprendiamo per approfondie la portata alla luce della scrittura. Abbiamo visto che il versetto riporta la richiesta del figlio e il gesto del padre come risposta (12b-c: bPadre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. cE il padre divise tra loro le sostanze).
Apparentemente tutto sembra pacifico e lineare, ma così non è perché ci troviamo di fronte a una tragedia.

Solo il primogenito eredita
La richiesta dell’eredità, infatti, da parte del figlio «più giovane», cioè non del primogenito, è contro il diritto e quindi illegale. Per la legislazione biblica il passaggio di eredità da padre in figlio avviene per testamento o per diritto naturale solo dopo la morte, pena l’invalidità (Eb 9, 16-17). Il diritto ereditario del primogenito supera qualsiasi altro legame, anche quello di amore tra marito e moglie:

Se un uomo avrà due mogli, l’una amata e l’altra odiosa, e tanto l’amata quanto l’odiosa gli avranno procreato figli, se il primogenito è il figlio dell’odiosa, quando dividerà tra i suoi figli i beni che possiede, non potrà dare il diritto di primogenito al figlio dell’amata, preferendolo al figlio dell’odiosa, che è il primogenito; ma riconoscerà come primogenito il figlio dell’odiosa, dandogli il doppio di quello che possiede; poiché egli è la primizia del suo vigore e a lui appartiene il diritto di primogenitura (Dt 21,15-17).
L’eredità spirituale di Eliseo
Si può pensare che la stessa idea soggiaccia al racconto di Eliseo che insegue il suo maestro, il profeta Elia a cui, mentre è rapito in cielo da Dio, chiede in eredità due terzi del suo spirito per proseguire la sua stessa missione:

Elia disse a Eliseo: «Domanda che cosa io debba fare per te prima che sia rapito lontano da te». Eliseo rispose: «Due terzi del tuo spirito diventino miei». Quegli soggiunse: «Sei stato esigente nel domandare. Tuttavia, se mi vedrai quando sarò rapito lontano da te, ciò ti sarà concesso; in caso contrario non ti sarà concesso»… Vistolo da una certa distanza, i figli dei profeti di Gerico dissero: «Lo spirito di Elia si è posato su Eliseo». Gli andarono incontro e si prostrarono a terra davanti a lui (2Re 2,9-15).
La Legge enumera dettagliatamente gli eventuali passaggi in base alla parentela, perché lo scopo dell’eredità è quello di non frammentare il bene, ma di consegnarlo alle generazioni indiviso, sotto la responsabilità di un garante che è il primogenito:

Quando uno sarà morto senza lasciare un figlio maschio, farete passare la sua eredità alla figlia. Se non ha neppure una figlia, darete la sua eredità ai suoi fratelli. Se non ha fratelli, darete la sua eredità ai fratelli del padre. Se non ci sono fratelli del padre, darete la sua eredità al parente più stretto nella sua famiglia e quegli la possiederà (Nm 27,8-11; per le figlie cf Nm 36,7-9).
Salvaguardia del patrimonio familiare
Al figlio primogenito dunque spettavano due terzi dell’eredità, mentre al minore solo un terzo. Egli però non poteva vendere il proprio terzo prima della morte del padre, che comunque mantiene il diritto dell’usufrutto. Il principio dell’unità del patrimonio è così forte che, anche al tempo di Gesù, se un figlio voleva vendere la parte del proprio patrimonio, vivo ancora il padre, il compratore ne sarebbe entrato in possesso solo dopo la morte del genitore del venditore. Il padre può fare una donazione in vita, ma è sconsigliata per le conseguenze negative che possono sopravvenire:

Al figlio e alla moglie, al fratello e all’amico non dare un potere su di te finché sei in vita. Non dare ad altri le tue ricchezze, perché poi non ti penta e debba richiederle. Finché vivi e c’è respiro in te, non abbandonarti in potere di nessuno. È meglio che i figli ti preghino che non rivolgerti tu alle loro mani (Sir 33,20-22).
 Il primo dato che emerge dalla parabola lucana è l’illegittimità della richiesta del «figlio più giovane» che diventa così una richiesta di morte anticipata del padre per potere godere del suo patrimonio. Nello stesso tempo «il figlio più giovane» viola la Toràh e le sue prescrizioni, dimostrandosi uno senza timore di Dio: per lui nulla ha valore, né il padre che vuole morto, né la Legge di Dio, che trasgredisce senza ritegno, rivelandosi non «figlio della Toràh», ma figlio pagano.

Amare da padre può significare perdere
Egli chiede la «parte di eredità che mi spetta» (v.12), sapendo bene che come «figlio più giovane», cioè secondogenito, non gli spetta alcuna eredità, ma solo quel terzo che nemmeno può alienare.
A rigore di legge, il padre avrebbe potuto buttare fuori di casa il «figlio più giovane» senza dargli nulla; oppure, come abbiamo visto, poteva condurlo in giudizio e chiedee la morte per lapidazione. Chi poteva dargli torto da un punto di vista giuridico?
Al padre però non interessa l’osservanza materiale della legge o avere riconosciuto il suo diritto al prezzo della vita del figlio; egli preferisce distruggere la propria vita, ma tentare di salvare il figliolo, piuttosto che non perdere la faccia, ma perdere il figlio. Non può obbligare con la forza della Legge ad amare con il cuore, perché nessuna legge può imporre i sentimenti e tanto meno l’amore. Non si ama perché si deve, ma si ama perché si vive.
Nel gesto del padre che prende la sua vita e la divide tra i due figli troviamo qualcosa di scandaloso: egli va oltre il diritto, oltre le convenienze, oltre le apparenze e pone se stesso come prezzo della colpa del figlio.
Il figlio pecca, ma è il padre che ne assume il peso e consapevolmente ne intende scontare la pena: «Divise la vita tra loro» (v.12). L’iconografia cristiana nel Medio Evo raffigurava il pellicano che si strappa il cuore per nutrire i suoi figli come simbolo del sacrificio di Cristo che il padre della parabola rappresenta perfettamente:

«A stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,7-8).

Vangelo puro, senza se e senza ma
Troviamo nel gesto del padre qualcosa di più dell’amore affettivo di un padre: il figlio è un pagano, nemico del padre, e il padre lo ama senza porre condizioni, svelando così nel suo anonimato il volto intimo del Padre dei cieli «che fa sorgere il suo sole sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45):

Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso… Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperae nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gl’ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro (Lc 6,32.35-36).
Il figlio chiede la «natura» del padre e questi va oltre la richiesta e dona tutta la sua stessa vita, con una abbondanza che va contro ogni logica e razionalità. Il padre ha un comportamento decisamente scandaloso: «A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Da’ a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo» (Lc 6,29-30).
Il padre che apparentemente sembra un remissivo senza spina dorsale, è invece un campione evangelico, l’esempio vivente dell’incarnazione del messaggio di Gesù:

Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi  vuol portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a camminare per un miglio, tu fanne due con lui (Mt 5,38-41).

Il padre e la vedova
Il figlio pretende la parte dei beni che non gli spettano perché non ne ha diritto, mentre il padre rinuncia al suo diritto e offre gratuitamente tutto ciò che è, perché sa che tutto ciò che ha proviene da Dio: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù» (Rom 3,23-24).
Egli è la controfigura della vedova che mette nel tesoro del tempio non quello che gli avanza, ma solo tutto ciò che è e tutto ciò che ha per vivere: due monetine, cioè la sua vita (cf Lc 21,2-4).
Chi rappresenta la vera «natura» di Dio è una vedova insignificante e un povero padre che si lascia depredare dal figlio non solo la proprietà, ma la sua stessa vita. Di fronte al figlio peccatore e parricida il padre si offre liberamente contro ogni logica, perché la misericordia non ha la logica della ragione, ma è la ragione dell’amore che genera e salva.
Il figlio è già salvo, anche mentre pecca, perché il padre lo ha riportato nel suo grembo per rifarlo nuovo, per redimerlo. Questo figlio non può perdersi e noi già ora sappiamo che egli si salverà, non perché si convertirà di sua iniziativa, ma solo perché il padre ha posto le premesse della sua redenzione.
Il figlio porterà con sé la vita del padre che si premurerà di custodirlo anche in mezzo ai porci; ma alla fine quella vita del padre che egli sperpererà sarà la forza che lo farà ritornare a casa. Il padre sa che solo lui può salvare il figlio, ma per salvarlo deve morire: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).

Si è liberi quando si regala la propria libertà
Il figlio guarda al suo tornaconto immorale, il padre al contrario svuota se stesso, perché nulla vada perduto del figlio che vuole dannarsi da solo: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39) e per questo  non esita fino a lasciarsi uccidere per non condannare quel figlio che deve ad ogni costo essere salvato: «Spogliò se stesso» (Fil 2,7).
La fede è tutta qui, il cristianesimo non è altro: la libertà di regalare la propria libertà. L’espressione violenta del figlio più giovane, «dammi la parte che mi spetta», significa: vecchio, togliti di mezzo perché sei di ostacolo alla mia realizzazione e quando ti decidi di morire è anche troppo tardi. Io sono giovane e ho la vita davanti, ma tu sei vecchio e quindi inutile: dammi la tua vita che ci penso io a sperperarla.
Il padre sa quello che fa per questo figlio, a cui riconosce il diritto di chiedere la sua vita, perché è lui, il padre, che lo ha chiamato alla vita e non il contrario: «Chi ama la propria vita la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,25).
È lui, il padre, che deve fare testamento per il figlio e non il contrario, che sarebbe innaturale: dividendo la sua vita tra i due figli, il padre sceglie di stare con loro fino in fondo,  annullando così la pretesa del figlio di volere vivere per conto suo. Dando la sua vita, il Padre mantiene unito non il patrimonio, ma la vita dei due suoi figli e la sopravvivenza della sua famiglia.

L’Agàpe è Cristo
In greco il verbo «divise – dieîlen» è al tempo aoristo, che indica un’azione definitiva e irreversibile: divise completamente/del tutto/definitivamente, senza possibilità di tornare indietro; il padre non esiste più, perché ora vive nei figli.
Questo padre anonimo, perché espressivo del volto di Dio, è l’opposto del ricco stolto che accumula ricchezze e ingrandisce i suoi silos come se fosse eterno: «Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia e bevi e divertiti… Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita» (Lc 12,19-20). Al contrario, il padre della parabola considera le sue proprietà nulla, di fronte alla vita del figlio, e non esita ad offrire se stesso gratuitamente, senza chiedere nulla in cambio: egli è l’immagine incarnata dell’Agàpe di cui Paolo tesse le caratteristiche divine:

Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’Agàpe, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi l’Agàpe, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi l’Agàpe, niente mi giova. L’Agàpe è paziente, è benigna l’Agàpe; non è invidiosa l’Agàpe, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’Agàpe non avrà mai fine… Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e l’Agàpe; ma di tutte più grande è l’Agàpe! (1Cor 13,1-8.13).
Luca è discepolo di Paolo e sa perfettamente che per Paolo l’Agàpe non è un sentimento o un atteggiamento morale dovuto, quasi un imperativo della coscienza. Luca sa che l’Agàpe in Paolo non è altri che Gesù Cristo, che manifesta il cuore stesso della rivelazione e cioè che «Dio Agàpe è» (1Gv 4,8).
Qualsiasi morale, qualsiasi comportamento etico, qualsiasi osservanza di regole o precetti… tutto è vanificato e vale nulla, se non è vissuto e sperimentato e consumato nell’amore a… perdere, nell’amore gratuito che dona se stesso, perché soltanto nel dono si compie e si realizza, come il padre della parabola lucana, come Gesù Cristo da cui Paolo si è «lasciato afferrare» (Fil 3,12):

Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi Cristo, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi Cristo, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi Cristo, niente mi giova. Cristo è paziente, è benigno Cristo; non è invidioso Cristo, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. Cristo non avrà mai fine… Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e Cristo; ma di tutte più grande è Cristo!
Non ci resta che tacere, adorare e amare, accogliendo anche noi l’invito di Gesù al dottore della legge: «Va’ e fa anche tu lo stesso» (Lc 10,37).           (continua – 9)

A cura di Paolo Farinella

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo» (8)

Il padre spezza la sua vita tra i due figli

L a parabola del figliol prodigo si divide in due parti: a) vv. 12-24: il figlio minore; b) vv. 12-25: il figlio maggiore. Il padre è il peo attorno a cui ruotano tutti e due, anche a loro insaputa. Molti sarebbero i modi di accostarci al testo, scegliamo quello lineare, seguendo l’ordine dei versetti come proposti da Lc.

1a parte: il figlio «più giovane» (vv. 12-24)
Dividiamo questa prima parte che si compone di 13 versetti in 6 piccoli frammenti letterari, così sintetizzati:
1) vv. 11-15: morte come distacco     ovvero rifiuto della famiglia
2) vv. 16-17: morte come condizione    ovvero mancanza della famiglia
3) vv. 18-19: coscienza della morte     ovvero desiderio della famiglia
4) vv. 20-21: decisione contro la morte     ovvero famiglia come progetto
5) vv. 22-23: morte sconfitta     ovvero rinascita nella famiglia
6) vv. 23-24: morte trasformata in vita     ovvero famiglia in festa
Di ogni unità riporteremo il testo integrale nella versione della Cei; ma nel commento seguiremo il testo originario greco e, quando sarà necessario suggeriremo, una traduzione quasi letterale che ci permetta di fare un confronto, ma anche di andare più a fondo, con lo scopo di alimentare in noi il desiderio di «ruminare» la scrittura, che non si esaurisce in un solo significato.
Di questa parabola, che costituisce «il vangelo del vangelo», con l’aiuto dello Spirito cercheremo di assaporare parola per parola, cercando di sentirne la dolcezza come il profeta Ezechiele dopo avere mangiato il rotolo della parola di Dio: «Mangiai e accadde che nella mia bocca fu dolce come il miele» (Ez 3,3).

V. 11b: «Un uomo aveva due figli»
Nel numero di febbraio di MC abbiamo iniziato a commentare la 1a parte del 1° versetto della parabola lucana (v.11a) «E disse», che ci ha permesso di mettere in evidenza in modo particolare l’importanza della «Parola» in sé nel contesto dell’anonimato delle persone protagoniste della parabola: «Un uomo aveva due figli» (v. 11b). Di questa espressione avevamo già anticipato sia l’anonimato che la struttura circolare, dandone anche lo schema circolare o a chiasmo che riprendiamo.
L’espressione generica, infatti, ci lascia così stupiti da pensare che sia una scelta consapevole dell’evangelista per darci un messaggio particolare. L’indicazione lucana non descrive una relazione affettiva, ma evidenzia una contrapposizione d’interessi. Riprendiamo lo schema osservando la posizione dei singoli termini:
 L’uomo anonimo, solo dopo l’intervento dei figli acquisisce la dimensione esistenziale di padre. Nessuno è chi è per se stesso, senza rapporto a un altro. La nostra identità dipende dalla relazione costitutiva del nostro essere.
L’immobilità del possesso del verbo «aveva» si rapporta alla dinamicità del verbo «disse», che movimenta il cammino del figlio verso il padre. Il nucleo centrale di questa breve frase di presentazione è dominato dalla presenza, anch’essa anonima, dei due figli, di cui uno resta sullo sfondo (assente-presente incluso nei due figli), mentre immediatamente entra in scena «il più giovane».
Luca è unico nel NT a usare l’espressione «ànthropos tis» che si può tradurre con «un uomo», ma anche e forse meglio in senso più indefinito «un tale», perché fa riferimento al genere umano indistinto (cf 10,30; 12,16; 14,2.16; 15,11; 16,1; 19,12; 20,9; At 9,33).
In greco esiste un’altra espressione più individualizzante e precisa: «anêr tis – un uomo» (Lc 8,27; At 5,1; 8,9; 10,1; 13,6; 16,9; 17,5;25,14) oppure «tis anêr» (At 3,2; 14,8; 17,34), che Lc usa da ottimo conoscitore della lingua greca. Questa seconda espressione, pur anonima, mette in evidenza la caratteristica sessuata dell’uomo, come dirimpettaio della donna e sarebbe stata più idonea a definire un padre. Lc preferisce la prima alla seconda forma, più logica, forse perché la riceve da una fonte precedente, che vuole fare risaltare, attraverso l’anonimato estremo, la vera ricchezza di quest’uomo: non è definito da sé, ma è identificato subito dopo dai due figli: egli è padre.

Il padre crocifisso tra due figli-ladroni
Quale ne è il senso? Solo nel versetto successivo (v. 12) quest’uomo è definito «padre» in rapporto al figlio «più giovane»: i figli definiscono se stessi in rapporto al «padre», perché senza di lui essi non esistono. Un padre/madre senza il riconoscimento della loro pateità/mateità da parte dei figli restano anonimi: «un tale». Figlio e padre esistono solo nella relazione. Il padre «aveva due figli», ma resta «un tale», senza nome: un innominato perché i due figli non hanno un padre.
Possiamo intuire che quest’uomo è «già» morto prima ancora che inizi la storia: immediatamente infatti siamo immessi in una storia di morte e di morti. I figli sono morti al padre e il padre è morto per i figli. Il padre è «crocifisso» con i due figli che lo sorvegliano, ciascuno da un lato, ma ambedue assetati della morte del padre.
Il minore lo uccide anzitempo per appropriarsi dell’eredità prima della morte del padre: «Dammi la parte del patrimonio che mi spetta» (v. 12). È come se dicesse: «Tu per me sei morto».
Il maggiore non è da meno, perché mette il padre sotto processo e lo giudica con una severità veemente, condannandolo inesorabilmente senza appello: «Egli s’indignò… tu non mi hai dato… questo tuo figlio» (vv. 28. 30).
Si potrebbe intitolare questa prima parte della parabola come «la parabola della morte preventiva». Quale tragedia per questo «uomo», che in un attimo apre gli occhi e si sveglia da un sogno per prendere coscienza di avere fallito tutto nella sua vita che ha dedicato ai suoi due figli, i quali ora gli negano la sua stessa «natura»: i figli hanno il potere di trasformare il «padre» in «un tale».

Nota. In Oriente, al tempo di Gesù (il costume esiste ancora oggi presso i palestinesi) quando nasce un figlio, sia il padre che la madre perdono il nome proprio per acquistare quello della pateità/mateità. Facciamo l’esempio di Gesù. Il padre legale, Giuseppe, e la madre, Maria, mantengono i loro nomi fino alla nascita del figlio e per tutti sono Giuseppe e Maria. Dal momento della nascita del figlio maschio (che eredita non solo i beni, ma anche il nome e quindi il casato), Giuseppe diventa per tutti «il padre di Gesù» (‘ab Jehoshuà; in arabo: abù Issàh) e Maria perde il suo nome proprio e diventa per tutta la vita «la madre di Gesù» (‘em Jehoshuà; in arabo: ummùn Issàh: Gv 2,1.3; 19,25; At 1,14). Il figlio determina la natura e la funzione del padre e della madre.
Vale anche il contrario: di norma i figli non vengono chiamati con il nome personale, ma con il nome che indica la relazione generativa, per cui Gesù non è il «figlio di Giuseppe» (Lc 3,23; 4,22; Gv 1,45; 6,42) oppure «il figlio di Maria» (Mc 6,3).
 
L’anonimato estremo della parabola mette in risalto in modo drammatico la tragedia di questo padre: «aveva» solo due figli, che erano tutta la sua vita e la sua ricchezza; ha vissuto per loro credendo di essere una vita donata. Un istante e tutto crolla; senza identità, senza funzione, senza più figli: una pateità strozzata, vilipesa e uccisa.
È il sentimento comune a tanti padri e madri che davanti all’autonomia dei figli, che prendono strade diverse da quelle che essi vorrebbero, si abbandonano allo sconforto e pensano di avere fallito tutto nella loro vita o di non essere stati capaci di trasmettere ai figli quel bagaglio necessario ad affrontare il viaggio dell’esistenza, mentre i figli pretendono il diritto di sbagliare da soli, attraverso le loro esperienze.
A questi padri e madri, piombati nell’anonimato della sterilità non resta che assumere questo stato innaturale e trasformarlo in un punto di forza, come fa il padre della parabola lucana: è un padre negato che non nega né rinnega i suoi figli. I figli lo uccidono lasciandolo ancora respirare, ma egli non rinuncia alla sua pateità generativa e continua ad amarli perché a un padre e a una madre nessuno può impedire di amare e continuare a generare i figli, anche contro la loro volontà, anche se non ne sono coscienti. Un figlio può rinnegare il padre; il padre non può rinnegare mai il figlio: padre e madre «sono condannati» a partorire i figli sempre. In questo contesto si capisce e si spiega l’espressione che tante volte abbiamo richiamato: «Dio è giusto perché salva, perché perdona».

V. 12b-c: 12bPadre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. 12cIl padre divise tra loro le sostanze
Il vocativo «padre» farebbe supporre un grado d’intimità confidenziale, invece mette ancor più in evidenza lo stridore tra questa parola pregna di affetto e la richiesta del figlio, che si rivolge al padre con un imperativo. Lc usa l’imperativo aoristo (dòs – dammi), che in greco esprime un comando che deve essere eseguito una sola volta, per cui potremmo tradurre: «dammi una volta per tutte/una buona volta» oppure «dammi definitivamente».
Usando il verbo in questo tempo il figlio vuole chiudere la partita col padre una volta per sempre, segno che la sua richiesta è frutto di una lunga gestazione e macchinazione. Forse da molto tempo fa le prove, ma non ha mai trovato il coraggio di affrontare il padre, mentre ora entra nella logica della rottura definitiva e quindi della lacerazione: «Padre, dammi…» nel senso di «facciamo i conti». Lo circuisce con una finta affettività (padre) per assestargli il colpo di grazia senza scampo (dammi).
Già nella quarta parola di libertà della Toràh (comandamento), Dio aveva scritto sulla pietra che una condizione per accedere all’alleanza era l’onore dei genitori: «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dá il Signore, tuo Dio» (Es 20,12; cf Dt 5,16). La sanzione per chi non osserva questo obbligo è la morte: «Chiunque maltratta suo padre o sua madre dovrà essere messo a morte; ha maltrattato suo padre o sua madre: il suo sangue ricadrà su di lui» (Lv 20,9; cf Es 21,17). Il libro dei Proverbi caratterizza la fisionomia del figlio saggio e intelligente e quella del figlio stolto e disonorato: il primo onora il padre (Pr 15,20; 28,7; 10,1) il secondo lo rattrista (Pr 19,13.26; 17,25).
Il figlio più giovane con una sola parola (dammi)  abolisce la Legge, la Sapienza e qualsiasi principio che si basi sul dovere: abolisce semplicemente l’intera Toràh di Mosè. Egli è impaziente e in quanto giovanissimo non ha tempo per aspettare il suo tempo: accecato da se stesso, vuole il buio attorno a sé e tutto deve piombare nel silenzio della morte: «Dammi!». La figura del figlio più giovane risalta ancora di più, se messa a confronto con due simboli eccellenti di tutta la tradizione biblica giudaico e cristiana: Isacco e Gesù, i due figli esemplari.
 In Gen 22 incontriamo Isacco che sale accanto al padre Abramo verso la cima del monte Moira, dove egli figlio «unigenito» dovrà essere sacrificato. Lungo il cammino padre e figlio dialogano con intensità fino a identificarsi entrambi nell’obbedienza al loro Dio esigente. Isacco si rivolge ad Abramo, invocandolo con la dolce espressione «Padre mio!», a cui fa eco la risposta calda e traboccante di affettività del padre: «Eccomi, figlio mio» (v. 7).
Nel NT Gesù di Nazareth che la tradizione cristiana vede prefigurato in Isacco, nel momento supremo della sua morte, prende tutta la sua vita e la getta nel cuore del Padre: «Padre nelle tue mani depongo/affido (da paratìthemi) il mio spirito» (Lc 23,46). Isacco e Gesù hanno il rispettivo padre come mèta e fondamento della propria esistenza. Il «figlio più giovane» della parabola invece esige: «dammi» (da dìdomi); egli ha come scopo e confine della sua esistenza solo ed esclusivamente se stesso: egli vuole, esige e pretende. Il verbo greco dìdomi significa dare/donare/offrire, ma anche pagare (cf Lc 20,22; 23,2) per cui c’è una richiesta esigente, come se riscuotesse un pagamento.

«La parte del patrimonio che mi spetta»
La traduzione letterale quasi meccanica è: «Padre dammi la parte che è posta sopra della sostanza», perché esprime l’idea di una divisione e per dividere bisogna prima contare e quindi «porre sopra» il tavolo e fare i calcoli di quanto spetta a uno e quanto all’altro. Lc per indicare «il patrimonio» usa il sostantivo femminile «ousìa», derivato dal verbo eimì (io sono), che significa «sostanza/essenza/bene/patrimonio»; ma nel greco del 1° secolo (Platone e Plotino) significa anche «natura/esistenza», cioè la consistenza dell’essere. Il figlio non chiede solo «la roba» o il patrimonio, ma vuole di più: egli pretende la «natura» del padre suo, cioè la sua vita.
Il padre, infatti, capisce perfettamente la richiesta del figlio, perché l’evangelista si premura di dire che «divise tra loro» non le sostanze, come dice la traduzione della Cei, ma «ton bìon – la vita». Il padre prende la sua vita e la distribuisce, la divide, la spezza tra i due figli. Chiedere la vita del padre insieme agli averi, senza aspettare la morte naturale, significa volee la morte in anticipo. Con la sua richiesta il «figlio più giovane» uccide il padre in nome della sua autonomia e libertà.

Una vita… «a perdere»
Non si parla della reazione emotiva del padre, ma di ciò che fece: sa che come padre non ha una vita propria perché, avendo generato lui i due figli, spetta a lui dare loro la sua vita. Sono i padri che devono «donare» la vita ai figli e non viceversa: «Il padre divise tra loro la (sua) vita».
Nell’ultima cena Gesù compie lo stesso gesto: prese il pane, lo spezzò, lo diede (in greco dal verbo dìdomi) loro e disse: è il mio corpo… è il mio sangue (cf Lc 22,19). Chi ama oltre se stesso, dà la vita senza calcoli e senza misura. Solo Dio può fare questo e solo un padre/una madre sulla terra possono imitare Dio nel dare la vita «a perdere». Il padre avrebbe potuto appellarsi alla Legge e farlo condannare, metterlo in riga, diseredarlo, imporre la sua volontà e, se avesse voluto, avrebbe potuto distruggerlo, portandolo in giudizio ed esigendone la condanna: «Se un uomo avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce… suo padre e sua madre… lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita… Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà» (Dt 21,18-21). Invece di avvalersi del suo diritto, il padre non solo vi rinuncia, ma divide la sua vita.
Con questo gesto il padre non dà solo la sua vita, ma annulla e svuota la richiesta e l’azione del figlio, perché adesso non è più il figlio che pretende, ma è il padre che «offre/dà» la sua vita. La situazione è capovolta. Se il padre avesse punito il figlio, lo avrebbe inchiodato alla sua responsabilità oscena, perdendolo per sempre e uccidendolo; ma svuotando il suo «imperativo» (dammi), spezzando la propria vita e donandola senza nulla pretendere ai figli, egli li salva ancora una volta preventivamente e li mette al riparo da se stessi, perché li custodisce al caldo della sua vita che ora è data per sempre perché data per amore.

Il padre «spezzato», figura di Abramo
Non è più l’uomo qualunque, «un tale», ora è a tutti gli effetti «il padre» e non tradisce la sua «natura», quella che il più giovane chiede per sé come garanzia della sua autonomia, perché la «natura» del padre è quella di essere «vita» per i figli: «divise la [sua] vita».
Il comportamento di questo padre «spezzato» è lo stesso di quello di Abramo, quando Dio lo chiama e gli ingiunge una separazione dolorosa, una frattura irreversibile con tutta la sua vita: Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria, da tuo padre (Gen 12,1-4): Abramo deve lasciare la sicurezza (paese), la storia (patria) e gli affetti (padri); con sé deve portare solo la sua sterilità, perché possa sperimentare che la vita donata è un dono ancora più grande, perché non dipende dalla sua virilità, ma dalla grazia di Dio.
Il redattore di Genesi fissa in un gesto la risposta di Abramo: «E Abramo partì» (Gen 12,4). La risposta degli uomini di Dio è sempre un gesto che dice più di qualsiasi parola. Lo stesso atteggiamento troviamo nel «padre» del figlio più giovane: «divise la [sua] vita». Non si limita a dare le sostanze del patrimonio a cui forse nemmeno pensa, ma dà tutto ciò che è: il suo essere padre non appartiene a lui, ma appartiene solo ai figli. Non un rimprovero, non un appunto né recriminazione, ma semplicemente un dono gratuito della sua vita.
Al padre interessa solo una cosa: salvare il figlio; per questo, invece di rischiare di mandarlo da solo, gli dà la sua vita come compagna di viaggio e la vita del padre lo custodirà e proteggerà anche contro la sua volontà e a sua insaputa: «Il padre divise la vita».                  (continua – 8)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo» (7)

Dio Padre è giiusto perché misericordioso

Con questa 7a puntata iniziamo la spiegazione, versetto per versetto, della parabola raccontata da Lc 15,11-32, a cominciare dal titolo.
Il più diffuso è: «Parabola del figliol prodigo»1. L’espressione non appartiene al testo biblico, ma è messo dagli editori come sintesi del brano. Non è un titolo sbagliato, ma è impreciso e povero, perché riduce l’immensa ricchezza della parabola a un solo aspetto, per altro marginale: la prodigalità spensierata del figlio lontano da casa.
Sono stati proposti molti titoli per questa parabola, che però non si lascia imbrigliare in una definizione sintetica. La prima edizione della Bibbia della Cei del 1971 titola: «Il figlio perduto e il figlio fedele: il “figlio prodigo”», cercando di salvare e superare al tempo stesso il titolo tradizionale, ma  travisando così la figura del figlio maggiore, che non è affatto un figlio fedele. La seconda edizione del 1997, infatti, cambia il titolo nel più comprensibile «Parabola del padre misericordioso», mettendo in evidenza il cuore del racconto, ma lasciando in ombra l’elemento della «giustizia», che è essenziale nel pensiero lucano.
Bruno Corsani e Carlo Buzzetti nella edizione bilingue (greco-italiano) del NT titolano: «Parabola del figlio ritrovato»3, che è parzialmente vera, ma non dice il cuore della parabola. Helmut Gollwitzer  titola «La gioia di Dio»4 e in questo modo sintetizza tutto il capitolo alla luce del tema della gioia (gr.: charà/chàirê) presente espressamente 6 volte in tutto il capitolo 15 (vv.5.6.7.9.10.32; cf anche v. 23). Gérard Rossé sceglie un titolo neutro, da scoprire: «La parabola del padre e dei suoi due figli»5, senza alcuna implicazione preventiva. Noi proponiamo di chiamarla: «La parabola di Dio Padre giusto perché misericordioso». È un titolo lungo, ma offre la chiave di lettura per entrare nel cuore di Dio il cui mestiere è il perdono. Sappiamo, però, che si continuerà a chiamarla per abitudine e comodità «parabola del figliol prodigo».

La sezione della «giustizia»

Prima di cominciare l’analisi dei versetti, è necessario ribadire che quando si legge questa parabola bisogna avere ben presente l’inizio e la fine della sezione in cui Lc colloca il racconto: la sezione comprende da 15,1 fino a 17,10 e tratta della «giustizia di Dio», in contrapposizione a quella degli uomini. Questi emettono sentenze e condanne secondo criteri di eguaglianza, per lo più di convenienza; Dio al contrario esercita la giustizia di Padre e di Madre per recuperare sempre i figli del suo amore.
In Lc 15,1 come abbiamo già visto più volte, si legge il contesto di riferimento: «Si avvicinavano poi a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo, mentre mormoravano [sott. contro di lui] i farisei e gli scribi, dicendo». A conclusione della sezione in Lc 17,1-10 leggiamo che bisogna perdonare il fratello che si pente (v. 3); bisogna perdonare sempre: «Anche se [tuo fratello] peccasse sette volte al giorno contro di te e per sette volte ti dicesse: Mi pento. Tu gli perdonerai» (v. 4).
Dall’inizio alla fine, l’orizzonte è dominato dai pubblicani, dai peccatori e dal perdono senza condizioni e senza misura. Perdonare è soltanto amare a perdere, senza chiedere nulla in cambio. Un perdono che pone una condizione (ti perdono, se fai questo o quello… se ti comporti così… se non lo fai più…) non è un perdono, perché manca la caratteristica della gratuità: non ti perdono perché lo meriti, ma perché io ho sperimentato la misericordia di Dio e la rendo visibile, le do un corpo offrendolo a te, realizzando così la preghiera del Padre nostro: «Padre, … perdona a noi i nostri peccati affinché anche noi possiamo perdonare a ogni nostro debitore» (Lc 11,4).
Il perdono di Dio diventa fondamento del perdono reciproco degli uomini e il perdono vicendevole degli uomini diventa il «sacramento» visibile della misericordia di Dio. A differenza di Lc, Mt userà una prospettiva diversa: «Padre, …perdona a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (6,12): impegniamo il perdono di Dio a condizione che «prima» noi abbiamo già perdonato. Le due prospettive s’integrano e si rafforzano.

Le coppie in contrasto

L’orizzonte in cui si colloca la parabola è duplice: da una parte la coscienza di essere peccatori (Lc 15,1-2) e dall’altra la certezza della misericordia (Lc 17,3-4). Gesù non fa un discorso morale né assume l’atteggiamento di giudice. Egli guarda al cuore della persona e cerca ogni mezzo perché entri nella dinamica della tenerezza di Dio, «perché nulla vada perduto di ciò che mi ha dato» (Gv 6,39).
La parabola, in quanto modello letterario, veicola un insegnamento generale, per cui il suo messaggio è valido sempre, anche per noi oggi. Sia l’inizio che la fine dell’intera sezione della «giustizia» mettono in contrapposizione due gruppi di persone con i loro atteggiamenti e sentimenti. I vv. 1-2 hanno una struttura incatenata:

1Si avvicinavano a lui    tutti i pubblicani e peccatori    per ascoltarlo,
2mentre mormoravano    i farisei e gli scribi,     dicendo…
  (sott. contro di lui)

Due vv. appena per mettere in evidenza tre contrasti: 1) pubblicani-peccatori si contrappongono a farisei-scribi;
2) i primi sono considerati lontani e impuri, ma si avvicinano a lui, mentre farisei-scribi, che dovrebbero essere vicini (almeno per professione), sono molto lontani e mormorano contro di lui, perché agisce fuori dai loro schemi: non sanno superare il loro limite; 3) i pubblicani-peccatori si dispongono ad ascoltare, cioè a entrare in sintonia di cuore e di anima; al contrario dei farisei-scribi, che parlano per condannare e disprezzare, «dicendo: Costui riceve i peccatori e mangia con loro» (v. 2).
È il capovolgimento radicale delle situazioni: chi crede di credere è ateo, chi è stato giudicato ateo e gettato fuori invece è credente, è parte della chiesa. Lo stesso atteggiamento troviamo in Mc 3,31-35, quando Gesù accredita come «sua famiglia» non quella di sangue, ma quella di «elezione»: «Giunsero sua madre e i suoi fratelli, e stando fuori, lo mandarono a chiamare… Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno [cioè dentro], disse: Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre». Anche qui la contrapposizione è tra «fuori» e «seduti (dentro)».
Lo stesso clima si respira alla fine della sezione dove la contrapposizione è tra chi ascolta e chi deve ricevere il perdono: «Anche se [tuo fratello] peccasse sette volte al giorno contro di te e per sette volte ti dicesse: Mi pento. Tu perdonalo/gli perdonerai» (17,4). Gesù usa l’imperativo alla 2a  persona singolare, allo stesso modo di Yhwh quando trasmette i comandamenti a Mosè sul Sinai (Es 20,2-17; Dt 5,6-21).
Il perdono non è una pia pratica di pietà né un atteggiamento ascetico di purificazione in vista di una ricompensa futura, ma assume la veste solenne di un comandamento. Il perdono, infatti, non è facoltativo, ma è un imperativo che adempie l’Alleanza nuova. Il perdono è la rivelazione della vera natura di Dio, che chi crede deve rendere visibile e sperimentabile. Perdonare significa aiutare gli altri a «toccare il Verbo della vita» (cf 1Gv 1,1) perché è la vera novità dell’evento Gesù Cristo.
Solo all’interno di questo clima possiamo accostarci alla rilettura della parabola prendendo coscienza che essa è stata scritta apposta per ciascuno di noi e ora la ri-leggiamo come se fosse la prima volta. Non ci limitiamo solo a una esegesi fredda e scientifica, ma cercheremo di danzare insieme alla Parola, evocando tutto ciò che essa suscita in noi, per la nostra vita spirituale e di preghiera.

V. 11a: «E disse»

L’espressione solenne e maestosa, propria del verbo principe della narrativa, «e disse» apre la parabola come al v. 3 apriva quella del pastore e della donna. Il soggetto sottinteso di tale verbo è Gesù, che è nominato in 14,16 e poi si passa direttamente a 17,11: in tutto il capitolo 15 Gesù non è mai nominato nemmeno come «narratore».
Questa assenza letteraria mette maggiormente in evidenza la sua Presenza come «Parola» che annuncia il «vangelo della misericordia giusta» di Dio, quasi a volerci insegnare che non dobbiamo fermarci mai alle apparenze, se vogliamo cogliere il cuore dell’altro. Dio è «Assente-Presente», discreto e silenzioso, che solo nel più intimo del più profondo di noi stessi e degli altri possiamo incontrare e «vedere». Anche sulla barca in mezzo alla tempesta sembrava dormire, ma al momento opportuno, la sua «Parola» domina le acque e i venti tempestosi (cf Mc 4,35-41).

Nel segno della coerenza. L’espressione «e disse», sia nella linea narrativa principale (come è qui in Lc) sia nella linea secondaria di commento aggiuntivo, nella bibbia ebraica ricorre 2.084 volte, nella bibbia greca della Lxx 2.337 volte, nel NT 125 volte. Una cifra impressionante che mette in evidenza la centralità della «Parola» in tutta la storia della salvezza.
Le due parabole di Lc 15 sono «Parola di Dio», proclamata dal Lògos stesso per dare compimento alla profezia di Isaia, che Gesù fa sua nella sinagoga di Cafaao, quando si appropria della sua personalità di messia della nuova Alleanza: «Mi ha consacrato con l’unzione (= sono il messia) per annunziare ai poveri il vangelo e proclamare un anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19; cf Is 61,1-2). I poveri a cui va annunciato il vangelo sono i peccatori, reprobi,  assassini, ladri, immorali, impuri, gli esclusi, le prostitute e tutte le categorie di persone che il perbenismo di ogni tempo condanna come fecero gli scribi e farisei.

Dabar: parola e fatto. È Dio che parla e annuncia la salvezza del perdono, ma non come proposito od obiettivo, ma come evento che si compie nel momento stesso in cui Lui «dice». Dio, quando parla, crea e realizza quello che dice, come evidenzia il 1° capitolo della Genesi, dove per 10 volte Dio parla «facendo» la creazione: «E disse Dio: “Sia la luce”. E la luce fu» (Gen 1,3; cf vv. 6.9.11.14.20. 24.26.28.29). Dio parla agendo e agisce parlando, perché in lui la parola è fatto, fino all’incarnazione inaspettata del Figlio: «Il Lògos (Parola) carne fu fatto» (Gv 1,14).
È ciò che sperimentiamo nell’eucaristia, dove la Parola che ascoltiamo diventa il pane del nutrimento e il sangue della vita. In ebraico c’è un termine «dabar» che è verbo e sostantivo: significa contemporaneamente sia «parlare/parola» che «fatto/avvenimento». Parola efficace: «Così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritoerà a me senza effetto, senza avere operato ciò che desidero e senza avere compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,11; cf Dt 32,2; Zc 1,6).
Per gli uomini spesso le parole sono suoni vacui e anche muti: si pronunciano quantità enormi di parole senza dire nulla. Si parla e si resta muti. Si parla, si parla e crolla la comunicazione: «La polvere delle morte parole ti copre, lavati l’anima nel silenzio» (Tagore). La chiacchiera ha preso il sopravvento. Tutti parlano al telefonino, sempre, e ognuno è sempre più solo e isolato.

La parola nasce se qualcuno ascolta. «E disse», posto all’inizio assoluto della parabola, esige un atteggiamento di ascolto profondo, perché la parabola non è un racconto edificante per suscitare pii desideri, ma è la proclamazione della volontà di Dio, che con una parabola annuncia «il vangelo del vangelo», definendo la sua natura di Dio e descrivendo la natura della sua nuova alleanza. Nel momento in cui Dio «dice» la parabola è Lui che sta davanti a noi e ci supplica, ci prega di essere presenti con l’ascolto delle orecchie del cuore.
«E disse» provoca in noi l’eco di Dt 6,4: «Ascolta, Israele!», dove è Dio stesso che «prega» il suo popolo. Ascoltare la Parola è vedere Dio che prega noi perché lo ascoltiamo. Dio che parla la parabola significa lasciarsi sedurre dalla sua «voce», come l’amante del cantico dei cantici, che cerca la «voce» dell’amato e non ha pace finché non si unisce a lui: «Una voce! Il mio diletto! Ora parla il mio diletto e mi dice… fammi sentire la tua voce perché la tua voce è soave…» (Ct 2,8.10.14). Il Targum del Cantico (2,14) mette in bocca a Dio queste parole: «Tu, assemblea d’Israele, che sei come una colomba pura… fammi vedere il tuo volto e le tue opere rette, fammi udire la tua voce! Perché la tua voce è soave quando preghi nel santuario, è bello il tuo volto nelle opere buone».
La parabola che Gesù annuncia è un «vangelo», cioè la giorniosa notizia che Dio viene a salvare quello che poteva andare perduto. Quando Dio parla, e Dio parla in Gesù, non è per giudicare e condannare, ma sempre per salvare. Per questo ascoltare Dio è pregare lo stesso Dio che prega noi di fargli «udire» la nostra voce.

vv. 11b-12a: Un uomo aveva due figli.
        Il più giovane disse al padre

Questi due brevi vv. hanno una struttura circolare, a chiasmo, cioè a incrocio, perché la prima parola richiama l’ultima, la seconda la penultima, ecc.

Protagonisti anonimi. «Un uomo aveva due figli» (v. 11b). Il quadro è immediatamente definito dai protagonisti. Sappiamo che c’è «un uomo» anonimo, come è abituale nel vangelo, dove tutti i personaggi delle parabole o dei miracoli sono anonimi, tranne il mendicante Lazzaro (in ebr. Dio aiuta; cf Lc 16,20) e il cieco Bartimeo (in aramaico Figlio di Timeo; cf Mc 10,46). L’unica volta in cui nel vangelo di Lc si nomina qualcuno, questi è un povero, un mendicante a cui «Dio viene in aiuto» per rendergli quella «beatitudine» che gli spetta di diritto: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio» (Lc 6,20). Tutti gli altri personaggi sono anonimi, come il pastore che trova la pecora o la donna che ritrova la moneta. È veramente significativo che il vangelo riporti solo il nome di poveri esclusi e ne perpetui la memoria.
L’uomo anonimo della parabola ha due figli e dunque è padre. Un altro padre e due figli troviamo in Mt 21,38, dove s’invertono apparenza e realtà: quello che dice no fa la volontà del padre, mentre quello che dice sì, non la fa. La relazione non è solo contatto, ma condivisione di volontà, di progetti, di sogni, di vita.
Quando si è padri e madri non si è più anonimi, perché i figli sono il nome della nuova identità. Presso gli ebrei quando nasce un figlio, padre e madre perdono il loro nome proprio e vengono indicati e chiamati in riferimento al figlio: «Padre e madre di…» (cf Mc 6,3). Qui è assente la madre, di cui non si fa cenno; ma forse è dietro la tenda che la nasconde come è uso in oriente.
Nella «parabola di Dio Padre giusto perché misericordioso»  l’anonimato s’incarna immediatamente in una relazione: «Il più giovane disse al padre». Nulla di straordinario se un figlio parla col padre e il padre col figlio, se non fosse per ciò che sappiamo sta per succedere. L’accenno al «più giovane», infatti, è un campanello d’allarme, quasi un anticipo che stiamo entrando in un abisso d’iniquità che cercherà la morte della pateità e distruzione della relazione.

La salvezza si fa storia. Chi è questo uomo che è anche «padre»? L’uomo innominato, come avviene in quasi tutte le parabole (Lc 10,30; 13,6; 14,16; 16,1; 19,12; 20,9), è l’immagine di Dio. Qui ha due figli come rappresentanti di tutta l’umanità: gli ebrei, simboleggiati dal figlio più grande, per ora assente, e tutti gli altri popoli, qui rappresentati dal «più giovane». La parabola ha un respiro universale perché riguarda tutta l’umanità.
Prima che scoppi il dramma e si giunga alla conclusione di salvezza, l’evangelista tiene a dirci che siamo «figli» perché quello che sta per succedere riguarda ciascuno di noi. La parabola è per noi e forse è il momento che iniziamo a prendere coscienza di cosa significhi per noi essere figli, prima di immergerci nel mistero che sta davanti a noi. L’anonimato del padre non è casuale, ma induce chiunque legga o ascolti a riempire il vuoto del nome mancante con il proprio nome e identificarsi con uno dei protagonisti, costringendoci a prendere coscienza del nostro cammino di fede: in ciascuno di noi vi sono due figli… il minore… e il maggiore.
Leggiamo nella Mishna giudaica: «Bisogna benedire Dio per il male e per il bene, perché egli ha detto: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutti i tuoi mezzi. Con tutto il cuore: con le due tendenze, il bene e il male» (Berakot [Benedizioni] 9,5)6.
La parabola del Padre giusto perché misericordioso è la parabola della pateità e della figliolanza che è dentro ciascuno di noi: la parabola infatti narra la storia della salvezza, o meglio annuncia il vangelo della salvezza che si fa storia nella vita di ciascuno di noi e nella storia di tutti i popoli.                          (continua – 7)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo» (6)

La Legge dell’impossibilità
«Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti» (1Cor 1,27)

Il confronto presentato il mese scorso tra la parabola del «figliol prodigo» e quella del pubblicano e fariseo al tempio insegna che i vangeli devono essere letti non a pezzetti o brani separati, ma nel loro contesto e visione globale. Tale confronto mette in luce che Lc 15 e Lc 18 (così pure il confronto tra il fariseo Simone e l’anonima prostituta in Lc 7,36-50) sono due modi per spiegare ai cristiani la teologia paolina della giustificazione: cuore di tutto il NT e  nodo cruciale per i cristiani della prima e seconda generazione. I primi cristiani, in quanto ebrei, si consideravano depositari esclusivi della salvezza, ma entrarono in crisi quando videro che Dio accoglieva i pagani e su di essi effondeva lo Spirito senza differenza alcuna (cf At 10).
È un momento drammatico. L’accettazione nella comunità giudaico-cristiana dei pagani provenienti in massima parte dal mondo greco non fu pacifica né semplice. Ne fece le spese Paolo, che per tutta la vita si portò conficcata nel fianco «la spina» (cf 2Cor 12,7) del sospetto e del rifiuto da parte della comunità cristiana di Gerusalemme.
Fu uno scontro durissimo tra due correnti teologiche:  da una parte Paolo, aperto al futuro e alla libertà; dall’altra Giacomo (all’inizio anche Pietro), che pretendeva che i pagani, prima di diventare cristiani, si convertissero al giudaismo, praticando la circoncisione e sottomettendosi ai precetti della Toràh. Vinse la linea di Paolo, assunta ben presto anche da Pietro (cf At 10; Gal 2).

Quando il «no» diventa «sì»
Vi sono nella scrittura vari esempi riguardanti coppie di fratelli o gemelli con i quali può essere confrontata la parabola del «figliol prodigo» per assaporae una profondità maggiore. La prima coppia riguarda due fratelli che il padre manda a lavorare nella vigna: essi si comportano in modo opposto alle parole che dicono: uno dice di sì e poi non ubbidisce, l’altro dice di no e poi, «pentito», ubbidisce.

«28Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, và oggi a lavorare nella vigna. 29Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. 30Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. 31Chi dei due ha compiuto la volontà del padre? Dicono: “L’ultimo”. E Gesù disse loro: “In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”» (Mt 21, 28-31).
Anche qui abbiamo due figli e due comportamenti: quello apparentemente obbediente, alla fine è disobbediente; quello esteamente appare ribelle, alla fine ubbidisce al padre. Il figlio che dice di sì e non va è il figlio maggiore di Lc 15 e il fariseo di Lc 18 e Lc 7; mentre il figlio che dice di no e poi esegue la volontà del padre è il figlio minore di Lc 15 e il pubblicano di Lc 18 e la prostituta di Lc 7.
Gesù commenta tale comportamento come schizofrenico: «Perché mi chiamate: Signore, Signore, e poi non fate ciò che dico?» (Lc 6,46). Mt dice che le parole non bastano per fare di noi i figli di Dio; solo l’identità con la sua volontà ci introduce nel mistero del suo cielo: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21).

Stare «in» casa o essere «nella» casa
La specularità tra la coppia dei fratelli di Mt e quella dei fratelli di Lc è ancora più profonda perché svela la vera natura di ciascuno, al di là delle apparenze. Il maggiore afferma di avere detto sempre di sì nella sua vita: «Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando» (Lc 15,29), mentre in realtà ha sempre onorato il padre «con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Mt 15,8; cf Is 29,13). Egli è sempre stato materialmente «in» casa di suo padre, ma non è mai stato «nella» casa del padre e con il padre, perché chiuso nel suo egoismo e vigliaccheria. Non si è neppure accorto che ogni giorno se ne andava molto più lontano del fratello minore, andato via da casa a vivere «da dissoluto» (v. 14). L’ossessione dalla «roba» ancora oggi gli preclude ogni possibilità di conversione.
Al contrario, il figlio minore ha abbandonato il padre e la casa materialmente, ma in fondo al cuore il padre è rimasto sempre presente; la decisione del ritorno gli viene dalla «memoria» del padre, della cui accoglienza egli non dubita: «Rientrò in se stesso e disse… Mi leverò e andrò da mio padre» (vv.15,17.18). Il minore non è «in casa», ma è sempre rimasto «nella» casa con suo padre e, trovandosi in «un paese lontano» (v. 13) ne sente nostalgia e mancanza (v. 17).

Peccato per difetto o per eccesso
Ancora una volta si capovolgono le situazioni: il «lontano» diventa «vicino»; chi crede di stare dentro la casa si trova fuori, estraneo. Tutti e due i figli peccano nei confronti del padre; ma mentre il minore, assillato da un bisogno errato di libertà, pecca per eccesso e per esuberanza, il fratello maggiore, accecato dall’egoismo, pecca per difetto, cioè per grettezza, perché dominato dalla paura e dalla religione del dovere, cioè da una religiosità basata sul tornaconto.
Chi pecca per eccesso, spesso lo fa per amore, mentre chi pecca per grettezza, lo fa sempre per interesse. La parabola dei due figli «incoerenti» in Mt precede immediatamente quella dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-46) e anche la versione lucana dei vignaioli (Lc 20, 9-29) segue il racconto del «figliol prodigo». La conclusione sia di Mt che di Lc è inevitabile: quando il Figlio dell’uomo verrà, «affiderà ad altri la vigna» (Lc 20,16) perché i vignaioli che si era scelti sono risultati indegni. Scribi e sommi sacerdoti «avevano capito che quella parabola l’aveva detta per loro» (Lc 20,19). La parabola dei due fratelli di Mt si conclude con lo stesso insegnamento di Lc: «In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31).
La conclusione a cui arriva Mt è dura per gli orecchi pudichi dei benpensanti che hanno passato la vita a fare calcoli e confronti tra quanto hanno dato a Dio e quanto hanno ricevuto in cambio, tra la loro integerrima facciata di perbenismo e la pretesa di essere annoverati tra i giusti: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31). I pubblicani li abbiamo incontrati nel versetto iniziale della parabola: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo», che corrisponde nel contenuto a «pubblicani e prostitute» di Mt. Gli uni e gli altri sono impuri e Gesù, se vuole essere fedele osservante della Toràh e della morale religiosa, deve allontanarli da sé perché diventerebbe impuro anche lui. Gesù invece mangia con loro (Mt 9,11).

La persona prima della norma
Al tempo di Gesù, il giudeo era ossessionato dall’osservanza della Toràh che la tradizione aveva codificato in 613 precetti: era il primato della norma sulla persona. Gesù con le sue parabole (pastore/donna e padre con i due figli; i due figli incoerenti, i vignaioli, ecc.) opera un radicale cambiamento di prospettiva e annuncia la novità del suo messaggio, che si può sintetizzare nel principio nuovo che «il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,2). Gesù non esita a disubbidire alla norma e trasgredire i precetti, pur di salvare coloro che erano esclusi dalla convivenza civile e religiosa. Gli specialisti del sacro e della religione non si sporcano le mani, come il sacerdote e lo scriba che, incontrando un povero mezzo morto, pur di non toccarlo cambiano marciapiede (Lc 10,31-32).
«Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?» (Lc 5,30). Non sono più i comportamenti esteriori che contano, ma la disponibilità del cuore e la coerenza nella verità. Ora nessuno può più dire che per lui non c’è salvezza: gli affamati sono invitati alla mensa e gli esclusi entrano a fare parte del Regno. In Lc 15,1 abbiamo già commentato il verbo «si avvicinavano», riferito ai pubblicani e ai peccatori. Ora però possiamo immaginae la scena più concretamente, terribile per quel tempo e affascinante nella sua prospettiva: reprobi e condannati dalla società religiosa, pieni di paura e circospezione, consapevoli di essere disprezzati per la loro innata impurità, passo dopo passo «si avvicinano» all’Uomo che pronuncia parole nuove e dense di una speranza mai udita: «Un uomo aveva due figli…» (Lc 15,11).

Il vangelo del grembo
Egli parla per loro, parla solo a loro, è venuto esclusivamente a cercare i peccatori, pubblicani e prostitute, per i quali era  «come chi solleva un bimbo alla sua guancia» (Os 11,4) e ai quali ha portato il «vangelo del grembo»:  voi siete generati e amati da Dio; voi peccatori ed esclusi siete prediletti da Dio; voi disprezzati e reietti dalla società dei finti religiosi siete i beniamini di Dio; voi che siete scappati dalla casa del Padre per paura o per pudore, tornate nel grembo di Dio, che non vi ha mai abbandonato, perché «mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore (Lc 4,18-19).
Il padre della parabola lucana accoglie il figlio minore che, secondo la giustizia umana, non ne aveva diritto e invece è di nuovo reintegrato nell’«anno di grazia» e per lui ricomincia la vita e l’avventura dell’amore: «Gesù rispose: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi”» (Lc 5,31-32). Ora è compiuto per sempre l’anelito del salmista che desiderava partecipare all’incontro della misericordia con la fedeltà e vedere la giustizia mentre bacia la pace (cf Sal 85/84,11).

La voglia di andarsene lontano
Un Midrash ebraico descrive la storia della salvezza come un costante e progressivo allontanamento dell’uomo da Dio: «Più li chiamavo, più si allontanavano da me» (Os 11,2). Da Adamo il ribelle a Caino l’assassino, da Lamech l’immorale agli uomini di Sodoma e Gomorra, alla generazione della torre di Babele e lungo tutta la storia, l’uomo ha camminato in direzione opposta a quella del giardino di Eden. Per ogni generazione che pecca e provoca l’allontanamento della Dimora/Shekinàh  di Dio dalla terra, sorge una generazione giusta che avvicina la Presenza alla terra:

«Quando peccò il primo uomo, la Dimora salì al primo cielo; peccò Caino e salì al secondo cielo; con la generazione di Enoch al terzo; con la generazione del Diluvio al quarto; con la generazione della torre di Babele al quinto; con i sodomiti al sesto e con gli egiziani ai giorni di Abramo al settimo. Al contrario, vi furono sette giusti: Abramo, Isacco, Giacobbe, Levi, Keat, Amram, Mosè con il quale la Dimora discese di nuovo sulla terra, al Sinai, come era sulla terra, all’Eden, prima del peccato (di Adam)» (cf Midrash Numeri Rabbà XIII,4; Genesi Rabbà XIX, 13 =Cantico Rabbà, V,1).
Questi insegnamenti Gesù respirò fin da bambino: coloro che si ritenevano giusti o pii erano soddisfatti di se stessi perché contribuivano a portare la Dimora di Dio sulla terra. Allontanare empi e impuri dalla loro vista e dalla vita era opera meritoria, un atto di culto.
Gesù sconvolge ogni prospettiva e modo di pensare, perché ora è Dio stesso che stabilisce definitivamente la sua dimora in mezzo agli uomini: «Il Lògos (Verbo, Parola) carne (fragilità, debolezza) fu fatto e si attendò (piantò la sua tenda) in mezzo a noi» (Gv 1,14). Veramente strano questo Dio di Gesù Cristo, che non si diverte affatto a condannare le persone, ma non si dà pace finché non li salva, specialmente se sono incapaci anche di meritarlo.
Il perdono di Dio, che è il suo unico modo di essere giusto, non si limita a cancellare il male, ma rigenera la persona a nuova vita come se rinascesse nuovamente (cf Gv 3,3-8). «Donna… nessuno ti ha condannata? Nessuno, Signore… Neanch’io ti condanno; và e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,10-11). Lc nella parabola descrive il padre che «commosso, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (15,20) con una serie di quattro azioni in un rapporto di crescendo musicale, dal piano al fortissimo che  travolge il lettore in una dimensione di puro amore.

Il perdono fonte di gioia
La parabola lucana, abbiamo detto, potrebbe essere catalogata come il «vangelo del grembo», perché in ebraico il termine misericordia deriva dalla parola rahamìm che richiama l’utero materno nell’atto di generare alla vita (cf Sal 51/50,3). Il termine «commosso» usato dalla traduzione italiana è troppo povero per esprimere la densità e intensità del greco «esplanchnìsthê», che traduce a sua volta l’ebraico «rachàm», che significa «grembo/utero» materno, sottolineando che la misericordia non è una concessione benevola, ma un atto che genera e riporta alla vita. Quando si è afferrati dal perdono di Dio si scoppia di vita e questa zampilla di gioia.
Questo è il cristianesimo nel suo ideale supremo. Questo dovrebbe essere il cattolicesimo. Questa dovrebbe essere la vita e testimonianza dei credenti. Da quando Gesù è morto sulla croce, giudizio, condanne, moralismo, perbenismo, tutto è morto con lui, perché da quella croce, nuovo monte Sinai della Nuova Alleanza, scendono non più due tavole di pietra, ma il grembo e la tenerezza che hanno il volto umano e divino dell’Uomo Gesù.

Una costante: lo schema «maggiore/minore»
Nella puntata n. 3 (MC 6-7, 2006, p. 63) abbiamo accennato allo schema del fratello minore che subentra al fratello maggiore nella linea della discendenza o dell’eredità, o semplicemente nella linea della storia della salvezza, perché il minore che ha sperperato la sua parte di eredità viene riammesso di nuovo nel diritto di ereditare alla morte del padre (v. simbolismo dell’anello al v. 22).
Questo schema costituisce una «legge», una costante invariabile di tutta la rivelazione e che noi codifichiamo così: Dio sceglie ciò che agli occhi della logica umana è impossibile per realizzare il suo progetto di salvezza.
Questa norma, descritta attraverso i comportamenti nell’AT, giunge a diventare espressamente «parola rivelata» nel NT con Paolo: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono» (1Cor 1,27-29). Ne rileviamo alcuni esempi, tra i più rilevanti.

a) Fratelli insanguinati. In Gen 4,1-20 si narra del fratricidio del fratello maggiore, Caino, che uccide il fratello minore Abele. Anche qui un conflitto tra due mondi: un contadino (sedentario) e un pastore (seminomade) vivono in perenne conflitto e reciproca gelosia. L’insegnamento del racconto è semplice: chi non accetta la dipendenza da Dio e non ne riconosce la pateità, non può riconoscere la frateità, che invece vede come impedimento e ostacolo da eliminare. Il figlio maggiore di Lc 15 non accoglie il fratello perché è lontano dal loro padre.

b) L’inganno: Esaù/Giacobbe. In Gen 25,19-34 si narra che Dio si ricordò di Rebecca, sposa sterile di Isacco, ed ella rimase incinta di due gemelli che sarebbero stati capi di due popoli. Dio disse a Rebecca: «Un popolo prevarrà sull’altro, il maggiore servirà il minore» (Gen 25,23c). Il maggiore, partorito per primo, è Esaù; il minore, partorito per secondo, è Giacobbe (Gen 25,26). Secondo il diritto Esaù avrebbe dovuto continuare la discendenza di Isacco e invece egli vende la sua primogenitura al fratello minore Giacobbe che con uno stratagemma imbroglia il padre e il fratello (Gen 27,146).

c) L’incesto: Rerach/Perez. In Gen 38 si narra la storia dell’incesto di Tamar, che pur di ottenere giustizia secondo la Toràh (Dt 25,5), non esita a travestirsi da prostituta per concepire da suo suocero che, senza saperlo, la lascia incinta di due gemelli: Perez e Zerach (Gen 38,30). Zerach avrebbe dovuto essere il primogenito; invece al momento della nascita è soppiantato dal gemello Perez che ritroveremo nella genealogia di Mt come antenato di Gesù con il nome di Fares (Mt 1,3; Lc 3,33). Un altro fratello minore che soppianta il maggiore.

d) Lo scambio: Manasse/Efraim. In Gen 48, si narra di Giacobbe che, ospite di suo figlio Giuseppe, vice re d’Egitto, ormai vecchio e cieco, vuole benedire i due figli che Giuseppe ebbe dalla moglie egiziana Asenèt: Manasse il primogenito ed Efraim il secondogenito. Giuseppe colloca il figlio maggiore davanti alla mano destra di Giacobbe e il minore davanti alla mano sinistra, affinché il vecchio padre possa compiere il rito della trasmissione secondo la legge. Ma al momento di benedire Giacobbe incrocia le braccia e inverte la benedizione: «Israele stese la sua mano destra e la pose sul capo di Efraim, che pure era il più giovane, e la sua sinistra sul capo di Manasse, incrociando le braccia, benché Manasse fosse il primogenito… Così pose Efraim prima di Manasse» (Gen 48,14.20c). Dio guida la storia secondo suoi criteri per noi inverosimili.

e) L’ultimo sarà il primo: Davide e i 7 fratelli. In 1Sam 16,1-13 si narra che Dio manda il profeta Samuele a cercare il successore del re Saul tra i figli di Iesse. Il profeta fa venire i primi sette uno ad uno; vorrebbe consacrare Eliab, il primogenito. Dio lo scarta, come gli altri sei. Rimane l’ultimo, «il più piccolo che ora sta pascolando il gregge» e a cui nessuno presta attenzione, tanto che non è stato nemmeno invitato. Dio, invece, sceglie lui, il più piccolo e dimenticato che diventerà il re Davide, il consacrato dal cui casato discenderà il Messia d’Israele.
Tutti questi avvenimenti hanno in comune la legge dell’impossibilità: coloro che non hanno diritto sono scelti per proseguire la discendenza di Abramo fino al Messia, mentre coloro che ne hanno il diritto naturale lo perdono. Nella logica di Dio tutto si capovolge, perché in lui non c’è la giustizia come misura tra eguali, ma l’amore senza confini, la cui misura è l’accoglienza come premessa per un amore più grande e senza condizioni.

A scuola di Maria di Nazareth
È la stessa logica che domina e dirige il comportamento del padre della parabola lucana: egli ama il figlio minore non meno del figlio maggiore, ma tra i due non fa le parti uguali: ama secondo il bisogno e la necessità di ciascuno, senza togliere con questo nulla all’altro.
La logica del padre misericordioso che accoglie il figlio minore, nonostante l’opposizione del maggiore l’ha bene capita Maria di Nazareth, l’ultima degli ‘anawin/poveri di Yhwh di cui si fa portavoce e garanzia: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51-53).
È la stessa logica che Lc illustra nelle beatitudini della pianura, quando il Figlio di Maria di Nazareth darà agli altri lo stesso nutrimento che egli ha ricevuto da sua madre: «Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame. Beati voi che ora piangete, perché riderete. Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete» (Lc 6, 21-25). [continua – 6]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo» (5)

Il mestiere di Dio: è il perdono, sempre e comunque
«Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti darà sostegno» sal 53

Se guardiamo attentamente i comportamenti dei due figli della parabola lucana, ci accorgiamo subito che ci svelano due figure speculari che si integrano e si illuminano a vicenda: l’uno mette in risalto la figura dell’altro e tutti e due insieme fanno da sfondo e contrasto a quella del padre.

Amore sconfinato e insufficiente
Ma il padre, nonostante i suoi sforzi, non riesce a fare incontrare i due fratelli, che, stando alla parabola, non si riconciliano; non riesce a farli abbracciare e vede incrinata la gioia che aveva nel cuore, pregustando il sapore di una famiglia di nuovo riunita e felice.
La parabola, infatti, resta sospesa sull’atteggiamento del padre che è giornioso di avere recuperato il figlio che credeva morto; ma è atterrito dall’atteggiamento del figlio maggiore, che gli è sempre stato accanto, ma da estraneo, interessato solo all’eredità e geloso del fratello minore, di cui avrebbe preferito la morte. L’amore immenso del padre resta come un macigno tra i due fratelli; ma specialmente il maggiore non sa o non vuole approfittare del momento di grazia.
Per essere capace di amare, bisogna lasciarsi amare e perdersi tra le braccia di un amore gratuito. Il minore, schiacciato dalla colpa, si lascia travolgere dall’amore del padre; il maggiore non può: è troppo pieno di sé e della sua presunzione di essere sempre stato «il figlio buono».

Per eccesso o per difetto
Per ragioni diverse tutti e due i figli hanno impostato la vita attorno alla «roba», lasciandosi abitare da falsi problemi o, peggio, «da cose»; non si sono accorti che il tempo passava e il vuoto aumentava e tutti e due si allontanavano dal padre: uno andandosene lontano e l’altro restando in casa.
Non basta stare fisicamente in una casa per essere famiglia; non è sufficiente essere in un gruppo per fare comunità. Famiglia e comunità sono eventi del cuore, scelte dell’anima, non meccanismi per risolvere i problemi personali. Si può stare insieme agli altri ed essere soli; fare folla senza condividere nulla. Si può vivere in una comunità una vita intera e restare isolati nel proprio egoismo.
Se si dovesse dare una misura di colpevolezza, sarebbe difficile dire chi dei due figli sia più colpevole, almeno inizialmente, perché alla fine della parabola la colpa del figlio maggiore supera di gran lunga quella del figlio minore. I due fratelli di sangue, ma non di anima, hanno un elemento in comune: di fronte alla scelta tra la vita e la morte, tutti e due hanno preferito la morte, il giovane scambiandola per la vita indipendente, il maggiore per grettezza ed egoismo. In loro si realizza alla lettera la parola della scrittura che dice: «Davanti agli uomini stanno la vita e la morte; a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Sir 15,17; cf Dt 30,15.19; Ger 21,8).
È sempre meglio non peccare; ma se uno pecca è preferibile chi pecca per eccesso di colui che pecca per difetto. Il primo pecca per errore di valutazione e comunque per amore debordante, anche se sbagliato; il secondo pecca per grettezza e insufficienza di anima, perché incatenato alla golosità del suo egoismo.

Da Adamo a Davide
Allargando lo sguardo alla scrittura nel suo complesso, vediamo che il comportamento dei due figli in Lc non è una «sindrome» isolata, ma un’epidemia che segna la storia della salvezza fin dalle origini. Già nel giardino di Eden, Adamo ed Eva si accusano a vicenda, scaricandosi addosso reciprocamente il barile delle proprie responsabilità e tutti e due «disobbediscono» a Dio, loro padre (Gen 12,13), fino a nascondersi dalla sua presenza (Gen 3,10), con la conseguenza che sono cacciati «fuori» dal giardino della pateità (Gen 3,23-24).
L’esempio dei genitori cade a valanga: Caino e Abele arrivano fino alla morte per gelosia (Gen 4,8). Anche il primo omicidio si compie «nei campi», fuori dalla pateità.
I fratelli di Giuseppe sono gelosi del fratello minore, che considerano un arrogante concorrente per l’eredità, e arrivano a concepire un fratricidio pur di disfarsene; ma poi ripiegano su altra soluzione: lo vendono a mercanti madianiti che lo portano «fuori» in terra straniera, in Egitto per venderlo come schiavo (Gen 27,28-29).
Nella lotta per la successione a Isacco, il figlio minore Giacobbe riesce a ingannare il fratello Esaù, primogenito a cui la legge riconosce il diritto di erede (cf Gen 27).
Tamar, l’incestuosa nuora di Giuda e antenata di Gesù (Mt 1,3), partorisce due figli, ma il secondo, Perez, già nel grembo materno soppianta il fratello Zerach, che avrebbe il diritto legale di essere il primogenito (cf Gen 38,27-30).
Per la successione al trono del re Saul, tra otto fratelli, Dio non sceglie il primogenito, il più prestante o appariscente, ma il giovane Davide, l’ultimogenito, mite e innocuo pastorello. Egli addirittura è scelto mentre non è assente alla cerimonia d’investitura (cf 1Sam 16,1-13).
Tutti questi personaggi hanno in comune un dato con la parabola lucana: il figlio minore prevale sul fratello maggiore, anche contro il diritto e consuetudine. Non è il diritto che conduce la storia della salvezza, ma la gratuità con cui Dio sceglie i suoi inviati, attraverso criteri che esulano da quelli umani. Il comportamento di Dio può apparire ingiusto agli occhi degli uomini, perché questi agiscono in base a un principio cieco di diritto, mentre Dio guarda alle ragioni del cuore e consistenza dell’anima.
Il figlio maggiore della parabola lucana appare il «figlio buono», perché è rimasto in casa accanto al padre, mentre agli occhi del mondo il figlio minore è una pecora nera, perché ha abbandonato il padre, spezzandogli il cuore. A guardare bene però, con gli occhi della verità dell’esistenza di ciascuno, la situazione si capovolge: il figlio che è «fuori» ha il padre nel cuore, mentre il figlio che è «dentro» ha il cuore nella «roba».

Disperde i superbi, innalza gli umili
In questo contesto, la parabola lucana è una cartina di tornasole della storia della «nuova alleanza»: descrive e illustra che Gesù è venuto ad abolire la distinzione tra «dentro» e «fuori» per dare diritto di figliolanza a tutti coloro che ne sono esclusi dalle leggi di purità, dai pregiudizi religiosi o dalla presunzione di chi si ritiene «puro» e considera se stesso come l’ombelico del mondo.
Così pensa e agisce il figlio maggiore, quando rispondendo al padre dice sprezzante: «Ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso» (Lc 15,30). Non è «suo fratello», ma solo figlio di suo padre. Il «puro» che presume di essere giusto non ha nulla da spartire con uno che è andato a prostitute, non vuole sporcarsi con il fratello che reputa «peccatore immondo». Non si accorge che, mentre il fratello minore ha lasciato le prostitute nel «paese lontano», egli, il «puro», porta nel suo cuore il virus della prostituzione, perché è tutta la sua vita a essere prostituita.
È il capovolgimento della situazione descritta nel Magnificat: «Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi» (Lc 1,53). Il comportamento di Dio è la rivoluzione dei sistemi su cui si regge il mondo degli uomini: chi non ha diritto, è accolto; chi è escluso, è accettato; chi è condannato, è salvato; chi non conta vale; chi crede di contare è espulso.
Con questa parabola Lc descrive il comportamento «scandaloso» di Gesù, che accoglie gli avanzi della società: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo» e volutamente lo oppone all’atteggiamento dei farisei e scribi, che «mormoravano: costui riceve i peccatori e mangia con loro» (vv. 1-2; cf Mt 9,11).
Nulla c’è della logica umana nel comportamento del Figlio dell’uomo, venuto perché nulla si perda di quanto il Padre ha affidato alla sua tenerezza (Gv 6,39). Se da una parte il figlio minore rappresenta l’umanità marginale, che istituzioni e potere escludono anche dall’orizzonte di Dio, perché confondono la propria miseria con la volontà di Dio, il figlio maggiore è il degno rappresentante di chi crede in un Dio costruito a propria immagine e somiglianza e usato come strumento di discriminazione ed esclusione per fare della chiesa una sètta di puri, cioè di senza Dio.

Novità del dio scandaloso
La parabola dei due figli è parallela a quella del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14). Essi si recano al tempio per pregare, ma ritornano a casa a ruoli invertiti: l’atteggiamento del fariseo corrisponde a quello del figlio maggiore, mentre quello del pubblicano è identico a quello del figlio minore. Ne leggiamo il testo:
«Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri. Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi toò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18,10-14).
Nell’interpretazione di questa parabola, molti si fermano alla superficie. Non si tratta, come potrebbe apparire a prima vista di un insegnamento sulla preghiera, che deve essere umile e non presuntuosa. C’è anche questo sullo sfondo, ma non deve oscurare l’insegnamento primario che è la proclamazione di una costante nell’agire di Dio in quanto Dio. Gesù non viene ad annunciare un «Dio nuovo», diverso da Yhwh, Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (Es 3,6); ma viene a rivelare, a raccontare (Gv 1,18) la natura intima di questo Dio, i cui comportamenti sono molto diversi da quelli dell’uomo.
La parabola espone in modo drammatico il concetto di giustizia come viene applicato da Dio: Dio è giusto perché salva. In Dio giustizia e misericordia s’identificano, tanto da potere dire che Dio è giusto perché salva e salva perché è giusto. Tale «natura» di Dio, che la scrittura aveva codificato (Sal 33,5; 36,11; 40,11; 85,11; 88,15; 103,17; Sir 35,23), si è offuscata nel corso della storia mano a mano che l’uomo si allontanava da lui e si faceva un’immagine di Dio sempre più conforme alle sue idee e al suo immaginario.

Fariseo/figlio maggiore,
figlio minore/pubblicano
La parabola del fariseo e pubblicano è ambientata al tempio, simbolo di Dio stesso, quasi a dire che lo stesso Dio si fa garante dell’autenticità dell’insegnamento di Gesù, «nuovo» e sconvolgente per il contesto in cui viene fatto: un peccatore che si pente è più gradito a Dio di un superbo che si crede giusto e frequenta il tempio, fa offerte generose e si dedica alla beneficenza. Dio non si può comprare perché nessuno lo può vendere.
Dietro al pubblicano pentito in fondo al tempio e al fariseo gradasso davanti alla balaustra si oppongono due concetti di giustizia: quella umana e quella di Dio. Il principio è codificato dallo stesso Lc nel criterio generale: «Egli disse (ai farisei): voi vi ritenete giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio» (Lc 16,15). Osservare tutte le prescrizioni religiose, partecipare ai riti di culto, dare denaro in beneficenza non rende necessariamente giusti davanti a Dio. A volte aumenta il peccato.
Il fariseo non chiede nulla; apparentemente ringrazia solo e dichiara la sua gratitudine a Dio per la sua benevolenza e benedizione. È lo stesso atteggiamento del figlio maggiore che dichiara di avere dedicato tutta la vita al servizio del padre, senza chiedere neppure un capretto per fare festa con gli amici. Chi potrebbe condannare un simile atteggiamento? Il fariseo del tempio è il figlio maggiore.
Al contrario, il figlio minore è scappato di casa, ha peccato, ha dissolto il suo patrimonio, è diventato impuro tra gli impuri; torna e, secondo la giustizia umana, non avrebbe diritto a nulla. Egli stesso pensa di essere escluso dalla giustizia patea, quando dice nel suo intimo: «Mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò: non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni» (Lc 15,18-19). Il figlio minore ha coscienza di essere diventato servo, cioè uomo senza diritti. Non ha diritto alla giustizia e se il padre lo cacciasse di sua iniziativa lontano da sé, chi potrebbe condannarlo?
Allo stesso modo il pubblicano nel tempio non osa avvicinarsi a Dio; consapevole della sua Presenza, se ne sta in fondo, quasi che il suo stato di peccato possa contaminare il tempio stesso. Egli è impuro e rende impuro tutto ciò che tocca. Non ha diritto di stare nel tempio (cf Lv 10,10; 13,46). La sua preghiera è disperata, simile a quella di Davide dopo l’omicidio di Uria l’Hittita e l’adulterio con la moglie di lui, Bersabea (2 Sam 12,9): «Abbi pietà di me, o Dio, nella tua chesed (amore di tenerezza), secondo l’abbondanza delle tue rahamìm (grembo materno) cancella il mio peccato» (Sal 51,3).
Il pubblicano del tempio è il figlio minore che si butta ai piedi della giustizia di Dio, abbandonando lì la stessa speranza di essere salvato. Secondo la logica umana, il fariseo nel tempio e il figlio maggiore in casa sono modelli di vita e di fede, mentre il figlio minore e il pubblicano sono la faccia peggiore dell’umanità. L’uomo si crede giusto quando fa le parti uguali; Dio è giusto quando tra diseguali sceglie il più svantaggiato.

il mestiere di dio è perdonare sempre
Nelle due parabole Luca espone la dottrina della giustificazione di Paolo (Rm 1-9; Ef 2,8-10), che si fonda sulla fede e non sulle opere umane, se è vero che «il giusto cade sette volte al giorno» (Pr 24,16); ma è qui che si rivela e si celebra la grandezza di Dio, che chiama ciascuno di noi a imitarlo nel suo comportamento: se tuo fratello «pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: mi pento, tu gli perdonerai» (Lc 17,4).
Dio è giusto perché perdona senza tenere conto di meriti e demeriti perché la sua misericordia è radicata nel cuore stesso di Dio. Con una frase a effetto si potrebbe dire che il mestiere di Dio è il perdono. È la teologia della croce la sorgente di questa «novità». Su quel legno di morte Cristo insieme a sé ha crocifisso anche il peccato dell’umanità (Rm 5,19; cf 3,24-25; Gal 2,21), inaugurando «l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,19), che consiste nel dare la giustificazione a coloro che non possono accedervi (Rm 3,23-25; 4,4-8; 5,9-21), perché non hanno nemmeno la forza di alzarsi dalla loro debolezza.
Alla luce di questa spiegazione che allarga la visuale della parabola del figliol prodigo, trasferendola da storia familiare a simbolo della storia della salvezza o della giustificazione, possiamo meglio comprendere le corrispondenze delle due parabole lucane, osservandole in sinossi, assaporandone il testo:
Simmetrie e contrasti sono evidenti. Il fariseo nutre lo stesso disprezzo «morale» che il figlio maggiore riserva verso «questo tuo figlio», che pertanto disconosce come «suo» fratello, nonostante il padre glielo ricordi espressamente: «Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita» (v. 32).
Il pubblicano e il figlio minore non perdono tempo a «giudicare» il comportamento degli altri, ma vivono la pesantezza della loro situazione e offrono quello che hanno: cioè nulla, solo il loro peccato e «distanza» da Dio. Alla fine il fariseo, che «stava in piedi» davanti a Dio, e il figlio maggiore, che non sa accogliere il fratello corrotto, si ritrovano lontanissimi da Dio e aggravati da un altro peccato; mentre il figlio minore e il pubblicano, che avevano coscienza del loro peccato, si ritrovano accanto a Dio che li accoglie e li «risuscita», per fae uomini nuovi.
I primi hanno perso tempo a guardare la pagliuzza nell’occhio dei fratelli, senza curarsi della trave che c’era nei loro (Lc 6,41-42); gli altri hanno «gettato» letteralmente il loro peso su di Dio, affidandogli la loro cecità e rimettendosi alla sua misericordia: «Getta sul Signore il tuo affanno ed egli ti darà sostegno» (Sal 55/54,23) [continua – 5].

Paolo Farinella

Paolo Farinella




La parabola del «figliol prodigo»

La parabola del "figliol prodigo" (4)
Il vangelo della gioia genera la comunità
e uomini e donne liberi

"Egli deve crescere e io invece diminuire" (Gv 3,30)

Ripercorriamo il capitolo 15 di Luca mettendo in evidenza in modo particolare il vocabolario in relazione alla vita di ogni giorno. È un vocabolario circolare, perché vi sono parole e concetti che ritornano come un ritornello, quasi che l’autore sia preoccupato che i suoi lettori imparino bene la lezione di vita.

VOCABOLARIO CIRCOLARE

Abbiamo sottolineato più volte che ci troviamo di fronte non a tre, ma a due parabole, ciascuna delle quali è prolungata o raddoppiata con un nuovo personaggio che mette ancora di più in luce l’argomento della prima. Leggendo in parallelo la prima parabola (vv. 4-7) e il suo prolungamento (vv. 8-10) scopriamo "visivamente" che vocabolario e messaggio sono gli stessi.
La parabola vera e propria (l’uomo/pastore) è composta di quattro versetti, per un totale, in greco, di 81 parole, mentre il commento illustrativo (la donna) si compone di tre versetti, per un totale di 51 parole, cioè 28 in meno, rispettando così anche un rapporto proporzionale tra parabola primaria e aggiunta di rafforzamento.
Il messaggio della prima parabola è dunque quella dell’esclusività di ciascuno di noi che Lc indirizza sia al mondo maschile che a quello femminile: nessuno deve sentirsi escluso dall’attenzione di Dio.
Sia la parabola (pastore) che il suo prolungamento (donna) cominciano con un interrogativo ipotetico, che esige la risposta: "Nessuno". Nessuno infatti abbandona una pecora nel deserto e nessuna donna fa finta di nulla se perde una moneta preziosa.
Luca stesso ci aveva preparato a questa svolta, quando, nel contesto della preghiera, ci aveva già anticipato che Dio non si rassegna di fronte alle esigenze dei suoi figli e nessun padre dà al figlio pietra per pane o serpe per pesce o scorpione per uovo (Lc 11,11-13). Ora ci dice che a maggior ragione Dio non si rassegna alla morte dei suoi figli, per quanto peccatori e ribelli essi possano essere. Pateità/mateità e figliolanza non si possono mai rinnegare senza annullare la propria identità e Dio "ricorda sempre la sua alleanza: parola data per mille generazioni" (Sal 105/104,8).

UN UOMO E UNA DONNA PER LA STESSA IMITAZIONE

Appare subito evidente che il secondo esempio è un doppione del primo, che non ha senso nella logica della parabola, ma trova un motivo nel fatto che Lc ricostruisce in forma letteraria un parallelismo, tanto caro alla cultura ebraica: si afferma lo stesso concetto, ripetendolo due volte, in positivo e in negativo o mettendo in evidenza gli opposti, come in questo caso: maschile e femminile.
L’introduzione narrativa del v. 3 è illuminante, come abbiamo già sottolineato, perché parla al singolare di "questa parabola" e poi passa a illustrare due esempi. In questo contesto si evidenzia l’intenzione dell’autore di rimarcare l’insegnamento del primo racconto, ma sotto la prospettiva femminile.
Mettendo come protagonisti dell’unica parabola, un uomo e una donna, l’autore espone la sua intenzione di dire che nessuno, uomo o donna, possa e debba dirsi esentato dall’imitare il comportamento di Dio. La prova che questa sia la volontà dell’evangelista, si trova al v. 4 dove non si parla di "pastore", ma alla lettera (dal greco): "Quale uomo tra di voi…", che trova il suo corrispettivo al v. 8 nella specularità opposta: "Oppure quale donna…".
Lc non è nuovo a questo procedimento, perché, pur non essendo ebreo, è l’evangelista che più di tutti imita lo stile ebraico, in modo particolare quello della bibbia greca dell’AT, detta la Lxx. Gli studiosi hanno contato circa 83 septuagentismi (frasi e modi di dire cioè costruiti sullo stile della Lxx).
Secondo la tradizione ebraica, ogni Israelita per adempiere la toràh doveva osservare 613 precetti: 365 negativi (uno per ogni giorno dell’anno) e 248 positivi (uno per ogni articolazione, nervo e osso che compongono il corpo umano). Le donne erano dispensate dall’osservare i 248 precetti positivi, mentre erano obbligate a rispettare quelli negativi.
In questo contesto, narrare una parabola mettendo sullo stesso piano sia un uomo che una donna, significa riconoscere anche alla donna il diritto di imitare Dio né più né meno come l’uomo: è la dichiarazione dell’uguaglianza dei figli di Dio.
Lc è veramente il discepolo di Paolo che aveva spezzato ogni catena di discriminazione in nome della fede: "Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,26-28).

LA COMUNITA’ LUOGO DELLA GIOIA

Un altro elemento di corrispondenza è l’opposizione che intravediamo nei due ambienti diversi dove agiscono l’uomo e la donna: il primo si trova "nel deserto" (v. 4), la seconda invece in "casa" (v. 8), che in qualche modo ci prefigurano quanto succederà nella seconda parte dove si descriverà un allontanamento dalla casa patea verso "un paese lontano" (v. 13), che non è solo il deserto, ma qualcosa di peggio: è la negazione della santità della casa, perché il figlio minore andrà in una regione impura, popolata da porci (v. 15).
Sia l’uomo/pastore che la donna/casalinga della prima parabola hanno la stessa reazione e provano gli stessi sentimenti di fronte al ritrovamento, forse insperato, della pecora e della moneta: ambedue chiamano amici e vicini per condividere la gioia che li pervade.
Quando l’arcangelo Gabriele visita Maria di Nazareth, entrando da lei la saluta dicendo: "Chàire-Gioisci" (Lc 1,28), che è lo stesso verbo che usano il pastore e la donna quando convocano gli amici, ma rafforzato dalla preposizione di compagnia: "Synchàrete-con-giornite" (Lc 15,6.9). È il bisogno della condivisione del cuore. È la logica della comunità, come luogo naturale della gioia e dell’amore, mentre la tristezza spinge alla chiusura e all’isolamento. Quando si scoppia di gioia, si è naturalmente contagiosi e si cerca una comunità dove potere partecipare i sentimenti di vita.
Forse qui c’è un discreto accenno alla comunità/chiesa, che è tale solo se condivide e partecipa la vocazione alla imitazione del Padre che sbocca nella gioia. Non basta andare in chiesa, bisogna essere chiesa. Va in chiesa chi deve adempiere un obbligo, chi deve pagare un pedaggio.
È chiesa chi invece risponde a una vocazione con il desiderio di incontrare uomini e donne con cui partecipare la gioia di essere ritrovati, con cui condividere il vangelo della gioia, espresso dall’uomo e dalla donna della prima parabola e dal padre della seconda parabola che ora ci accingiamo a studiare insieme.

UN UOMO AVEVA DUE FIGLI, ED ERA SOLO

La 2a parabola, rigorosamente parlando, è limitata ai vv. 11-24: la parte relativa al padre e al figlio minore. La seconda parte (vv. 25-32), che riguarda il padre e il figlio maggiore, è un prolungamento della prima, osservata da una prospettiva opposta. In essa si ripete lo stesso insegnamento della prima, ma da un angolo di visuale diversa. Che sia la seconda parabola lo rileviamo dal v. 11, dove ritroviamo per la seconda volta il verbo narrativo "e disse" che fa coppia con "egli disse" del v. 3.
Se la prima parabola è illustrata dall’esempio di un uomo e una donna, la seconda è dominata da due figure: un uomo e due figli (v. 11) che l’autore divide in due parti:
a) il padre e il figlio più giovane (vv. 12-24),
b) il padre e il figlio maggiore (v. 25).
Il padre fa da peo ai due figli, che sono speculari e l’uno non può esistere senza l’altro, perché ciascuno è sfondo e premessa per l’altro.
Sia nella parabola essenziale (figlio minore) che nel suo prolungamento (figlio maggiore) la figura centrale è il padre: tutto ruota attorno a lui; e mentre i figli fanno i propri interessi, ciascuno dal proprio punto di vista, il padre è in continuo movimento: corre (v. 20), si getta addosso al figlio (v. 20), esce incontro al maggiore (v. 28), mentre i figli e i servi, che pure hanno ricevuto l’ordine di fare in fretta (v. 22), sembrano immobilizzati e incapaci di essere protagonisti e di affrancarsi dalla pateità che li sostiene.

DALL’ESPERIENZA ALLA STORIA DELLA SALVEZZA

La parabola in sé riguarda le scelte e il comportamento del "più giovane" (v. 12), mentre il comportamento del figlio maggiore fa da contrasto e ci permette di accostarci alla figura del padre in modo più pieno e profondo. Il confronto tra la parabola del figlio minore in relazione con suo padre e il suo prolungamento, cioè del figlio maggiore in rapporto con suo padre, non è un doppione vero e proprio, come nella prima parabola del pastore/donna, ma l’altra faccia della stessa medaglia.
Questa seconda parabola illustra il tema della misericordia sullo sfondo della storia della salvezza come si è realizzata, mettendo a confronto Israele e la chiesa.
Esaminiamo le corrispondenze tra la parabola vera e propria (vv. 11-24) e la seconda parte (vv. 25-32), riportando solo i temi e non il testo che occuperebbe molto spazio:
I due figli, il più giovane e il maggiore sono simboli di due atteggiamenti: un abisso li separa dal padre; ma anche tra di loro vi è una somiglianza nonostante non esista alcuna comunicazione del figlio minore con il fratello maggiore e di questi con il fratello minore. Sono stranieri in "casa", la negazione della frateità pur vivendo insieme al padre.

APPLICAZIONE: A QUALE DEI DUE FIGLI ASSOMIGLIAMO

Non conosciamo il motivo per cui il figlio minore vuole andarsene via di casa, ma possiamo intuirlo, perché il testo ci offre qualcosa di più di un semplice sospetto.
Viene un tempo nell’adolescenza, in cui i genitori sono colpevoli di tutto: in essi l’adolescente identifica tutte le cause di tutte le sue insoddisfazioni che riguardano il corpo (nessun adolescente "si piace"), la fatica di vivere, lo stile di vita, la casa, la famiglia. Il "figlio più giovane", come tutti gli adolescenti, vuole essere "più grande" di quanto non sia, mentre sperimenta ogni giorno di essere trattato come l’adolescente che è. Il conflitto con tutto ciò che ostacola il suo "essere grande" è inevitabile, il confronto con il fratello maggiore è una sfida che degenera in guerra. Si sogna di scappare di casa, come soluzione della propria irrequietezza. A questa età si sogna la morte dei genitori e si odiano i fratelli e sorelle, perché "loro sono grandi, mentre io a quin-di-ci-an-ni sono trattato/a ancora da bambino-bambina".
Chiunque è stato genitore ha vissuto questi problemi. I fratelli maggiori si divertono alle spalle dei fratelli minori e non perdono occasione per mettere in ridicolo le manifestazioni della loro crescita e del loro sviluppo. Da un lato l’adolescente "sente" di non potere vivere una sua propria vita se non "uccide" (psicologicamente) i genitori, mettendo così in atto quel desiderio inconscio di eliminare qualunque principio di autorità.
In psicologia questo principio è codificato nell’espressione: "Uccidi il Budda che incontri per strada", dove Budda sta per qualsiasi forma di autorità (padre, madre, maestro, direttore spirituale, ecc.). Per ritrovare l’autorità come sostegno di servizio alla crescita, bisogna sapersene separare, altrimenti c’è il rischio di vivere sempre sottomessi a una autorità che diventa sostitutiva e per questo deleteria.
Il figlio minore volle uccidere suo padre per affrancarsi dalla dipendenza, ma non è ancora giunto il suo tempo di maturità; il figlio maggiore non aveva tagliato il cordone ombelicale, ma non era affatto cresciuto, perché si era rintanato nel suo egoismo possessivo, fino a essere geloso del ritorno del fratello, che vede come antagonista e concorrente.
È l’atteggiamento di fondo per vivere una relazione matura e armonica in ogni ambiente, in ogni condizione. Ciò vale per il figlio nei confronti del padre e della madre, per il monaco nei confronti del superiore, per la suora nei confronti della superiora, per il prete nei confronti del vescovo, per la moglie nei confronti del marito, per il marito nei confronti della moglie, per gli alunni nei confronti dei maestri.
Tutti coloro che esercitano una qualche forma di autorità devono diminuire se vogliono che gli altri affidati alla loro responsabilità crescano liberi, pieni, maturi e diventino adulti (Gv 3,30).
Col padre e i suoi due figli, tutti dobbiamo fare i conti e prima lo facciamo meglio è per noi [continua – 4].

Paolo Farinella

Allora egli disse loro QUESTA PARABOLA

Uomo
4 "Quale uomo di voi
se ha cento pecore
e ne perde una,
non lascia le novantanove
nel deserto
e va dietro a quella perduta,
finché non la ritrova?
5 Ritrovatala,
se la carica sulle sue spalle
tutto contento,
6 va a casa,
chiama gli amici e i vicini
e dice loro:
“Rallegratevi con me,
perché ho ritrovato
la mia pecora perduta”.
7 Io vi dico che così
vi sarà gioia
in cielo
per un solo peccatore
che si converte,
che per novantanove giusti
che non hanno bisogno
di conversione".

Donna
8 "Oppure quale donna,
se ha dieci dramme
e ne perde una,
non accende la lucerna
e spazza la casa
e cerca attentamente
finché non la ritrova?
9 E dopo averla trovata,
chiama le amiche e vicine
dicendo:
“Rallegratevi con me,
perché ho ritrovato
la dramma perduta”.
10 Così, io vi dico,
vi è gioia
davanti agli angeli di Dio
per un solo peccatore
che si converte".

Figlio giovane
In casa
Lascia la casa
Va in un paese lontano
Commensale dei porci

Il padre gli corse incontro
Padre, ho peccato contro di te
Il padre fa festa
perché "questo mio figlio"
* da morto è tornato in vita
* da perduto è ritrovato

Figlio maggiore

È nei campi
Toa a casa
Non entra, ma resta "vicino"
Tu sei sempre con me
(dice il padre)
Il padre uscì a chiamarlo
Non mi hai mai dato un capretto
Il padre invita alla festa
perché "questo tuo fratello"
* da morto è tornato in vita
* da perduto è ritrovato

Paolo Farinella