Cana (3) Un vangelo, tanti autori

Il racconto delle nozze di Cana (3)

Il racconto delle nozze di Cana è un momento centrale del quarto vangelo perché annuncia, anticipandola, «l’ora della glorificazione» di Gesù, cuore della teologia di Giovanni. Il racconto si colloca nella tradizione profetica, perché Gesù moltiplica il vino, come Elia moltiplicò la farina e l’olio per la vedova di Sarepta (1Re 17,7-16) e come Eliseo moltiplicò l’olio per una vedova (2Re 4,1-7) e i pani per il popolo (2Re 4,42-44).
Scopo di questa rubrica biblica è aiutare i lettori a leggere la parola di Dio in modo più approfondito, anche se in un linguaggio semplice, che tenga conto dei risultati della scienza esegetica, senza scadere nel tecnicismo, è importante che prima percorriamo le stesse tappe, attraverso le quali il vangelo si è formato fino a raggiungere il testo che oggi abbiamo in mano, e in secondo luogo cerchiamo di individuare la figura dell’autore, che ci aiuterà a capire il motivo e la finalità del racconto delle nozze di Cana, il «primo dei segni» che Gesù fece all’inizio della sua carriera di rabbi, riportato solo nel quarto vangelo.
Per il vangelo di Giovanni, come persinottici, l’identificazione dell’autore o degli autori è sempre un problema aperto, anche se ormai, alla luce di studi complessi, si possono tirare se non tutte, almeno alcune conclusioni definitive. Oggi la critica biblica attribuisce con sufficiente certezza la redazione finale dei rispettivi scritti a Marco e Luca; la questione si complica un po’ per Matteo e Giovanni, due opere particolari, che hanno visto un processo formativo complicato, che è impossibile solo sfiorare nello spazio di un articolo divulgativo. Prima però è necessaria una parentesi che apriamo e chiudiamo con la nota.
Imparare a pensare come gli antichi
Quando parliamo dell’«autore» di un libro, oggi siamo spinti a immaginare una persona seduta alla scrivania intenta a comporre a mano, o al computer, una storia «ordinata», organizzata sulle fonti con puntiglioso riferimento alle date, ai luoghi e alle persone. Oggi si dispongono anche delle video registrazioni che fanno vedere «quel momento» passato come se fosse contemporaneo: si possono ascoltare le parole e pure «vedere» la persona che parla, anche se morta.
Dobbiamo dimenticare tutto questo, quando prendiamo in mano un vangelo o un libro antico; al contrario dobbiamo cercare di documentarci sui metodi di trasmissione delle opere. Per noi è difficile immaginare che, al tempo dei vangeli, solo pochissime persone sapevano leggere e scrivere e che non esisteva la stampa, né la carta come la possediamo oggi. Nei tempi antichi i testi scritti erano pochi e per di più su materiale fragile e costoso come il coccio, papiro, pelli di capra, ecc.
I vangeli canonici, compreso quello di Giovanni, nella loro stesura definitiva non sono opera di un solo autore, ma sono il risultato di un lungo processo e anche di molte mani di persone di generazioni diverse. È evidente che nello spazio di un articolo non possiamo dare conto di tutte le ipotesi e di tutti gli studi che sono sterminati, ma possiamo garantire di offrire una sintesi onesta e corretta dei risultati condivisi dalla quasi totalità degli studiosi.
Per dare una risposta alla domanda «chi è l’autore del quarto vangelo?», bisogna procedere per gradi e percorrere i singoli momenti con attenzione, ripercorrendo brevemente le diverse tappe.

Nota
Il problema della ricerca biblica sui vangeli si è complicata da quando, nel 2007, la Rizzoli ha pubblicato il primo volume di una riflessione biblico-teologica di papa Benedetto xvi dal titolo «Gesù di Nazaret». Il papa ripassa i momenti salienti della vita di Gesù attraverso i vangeli, collocandosi sul binario tranquillo della tradizione e facendo alcune riserve su alcuni metodi di esegesi. È importante dire una parola su questo libro, che sta generando molti problemi nella chiesa, anche a livello di studio e di ricerca.
Fin dalla sua comparsa il libro è diventato un «testo di riferimento» per la catechesi nelle parrocchie e la predicazione dei preti, che si sentono tranquilli dal punto di vista dell’ortodossia, in forza dell’assunto «se lo dice il papa!», nonostante il papa stesso abbia scritto che il «libro non è in alcun modo un atto magisteriale, ma unicamente espressione della mia ricerca personale del “volto del Signore” (Sal 27,8). Perciò ognuno è libero di contraddirmi» (p. 20).
Ci troviamo di fronte a una confusione enorme: il papa dice che il suo è un libro «qualsiasi», che può essere criticato come qualsiasi altro libro; dall’altra parte molti fedeli e operatori pastorali lo prendono come «testo sicuro», anche in contrapposizione ad altri libri di persone più competenti del papa, che non è esegeta o teologo biblico. Il fatto che in Italia nessun biblista o teologo abbia recensito criticamente il testo del papa, la dice lunga sul condizionamento che esso sta producendo. Sarebbe opportuno che si ritornasse al vecchio codice (1917) che per queste ragioni vietava ai papi di scrivere libri opinabili: i papi, infatti, devono parlare per magistero.
A quanto mi risulta solo il cardinale Carlo Maria Martini, biblista di fama internazionale e già direttore del Pontificio istituto biblico, ne ha parlato in una conferenza a Parigi, dichiarando con molta schiettezza che dal punto di vista esegetico, il libro è pieno di inesattezze e anche errori e che comunque non vi si trova il Gesù dei vangeli, ma il Gesù che piace al papa, che «non è esegeta, ma teologo… non ha fatto studi di prima mano per esempio sul testo critico del Nuovo Testamento». Secondo Martini, c’è un problema fin dalla copertina, dove sono abbinati il nome di Joseph Ratzinger e quello, a caratteri cubitali, di Benedetto xvi che sovrasta l’altro: «È il libro di un professore tedesco e di un cristiano convinto, oppure è il libro di un Papa, con il conseguente rilievo del suo magistero?» (Sede dell’Unesco a Parigi, 23 maggio 2007; cf testo integrale su Il Corriere della Sera 24-5-2007). Lo stesso concetto egli ribadisce in una recensione su La Civiltà Cattolica (C. M. Martini “Gesù di Nazaret” di Joseph Ratzinger – Benedetto xvi in La Civiltà Cattolica, quaderno 3768, II [2007] 533-537).
Per quanto ci riguarda, il libro del papa si pone anche la questione dell’autore del quarto vangelo e quindi sul suo valore storico. Egli rifiuta alcune interpretazioni (Rudolf Bultmann), ne condivide parzialmente altre (Martin Hengel), non ne prende in considerazione molte altre, ma giunge a una «sua» conclusione: «Lo stato attuale della ricerca ci consente perfettamente di vedere in Giovanni, il figlio di Zebedeo, il testimone che risponde con solennità della propria testimonianza oculare identificandosi anche come il vero autore del Vangelo» (p. 252).
Accogliendo l’invito del papa stesso a una critica serena, rilevo, per quanto mi concee, che questa è l’opinione di Joseph Ratzinger, ma non è affatto una certezza nel campo degli studi, anzi è una tesi ormai superata. Nella nostra ricerca non terremo conto del «Gesù di Nazaret» secondo il credente Ratzinger, perché appartiene più al versante della meditazione spirituale edificante che della esegesi biblica. Con ogni dovuto rispetto. (Fine Nota)

Prima tappa: da Gesù agli apostoli
a) Gesù vive in Palestina tra il 6/7 a.C. e il 30 d.C. per un totale di circa 36 anni, di cui gli ultimi tre o due pubblici, perché li impiega predicando come un rabbino itinerante dentro e fuori la Palestina. Egli non lascia scritto nulla, anzi l’unica volta in cui abbiamo testimonianza che scrisse qualcosa, scrisse sulla polvere per terra, durante il processo alla donna adultera (Gv 8,8).
b) Dopo la morte di Gesù e la sua risurrezione, gli apostoli, superata la paura e lo smarrimento, si mettono a «predicare» in pubblico per convincere che Gesù di Nazaret è il messia atteso da Israele (cf At 2,1-47). La prima predicazione degli apostoli si rivolge agli ebrei e il contenuto di essa è solo e quasi esclusivamente il «mistero pasquale», cioè la passione, morte, risurrezione, ascensione (glorificazione) di Gesù e il dono dello Spirito Santo. Gli apostoli non si preoccupano di scrivere.
c) Qui si colloca la prima tappa della «tradizione/trasmissione» del vangelo: la tradizione orale che si tramanda da persona a persona, da generazione a generazione. Chi parla descrive quello che crede e la propria esperienza con la passione di chi vuole convincere gli ascoltatori, non con la freddezza dello studioso a tavolino.
Anche l’apostolo Giovanni ha cominciato a predicare in Palestina, da dove con ogni probabilità si è trasferito in Asia Minore, nell’attuale Turchia, con epicentro Efeso, dove c’era un gruppo di giudeo-cristiani che viveva all’interno di una comunità di origine greca. Qui infatti aveva operato l’apostolo Paolo circa 30 anni prima, dimorando per quasi tre anni a Efeso (dal 53/54 al 56/57).
In questo contesto «plurale», l’apostolo Giovanni è l’iniziatore, il primo anello di partenza della tradizione giovannea, che lentamente si andrà formando sul suo insegnamento e sulla sua predicazione. È probabile che a Efeso, dopo la distruzione di Gerusalemme e l’espulsione dei giudei (70 d. C.) si costituisca un’autentica «scuola giovannea», che riflette e sviluppa la predicazione che fa riferimento all’apostolo Giovanni, che è così l’iniziatore di una corrente o scuola, ma non l’autore materiale del vangelo come oggi lo possediamo.

Seconda tappa:
dagli apostoli alla vita della comunità
La comunità è una realtà viva, che si struttura attorno alla fede in Cristo: essa celebra la liturgia, testimonia con la vita, subisce persecuzioni e naturalmente raccoglie testimonianze su Gesù o liste parziali di miracoli, insegnamenti, parabole per scopi immediati come la liturgia o la catechesi. Nel vangelo di Giovanni, per esempio, si trovano solo sette miracoli (già il numero sette è emblematico, perché simbolico), che l’autore preferisce chiamare «segni», per riportarsi a un livello più profondo che non sia quello esteriore del miracolistico eclatante. Tutti questi «sette segni» sono costruiti in modo diverso da quelli narrati nei vangeli sinottici. Ecco di seguito l’elenco:
1. le nozze di Cana (Gv 2,1-11);
2. guarigione del figlio del funzionario romano (Gv 4,46-54);
3. guarigione del paralitico alla piscina di Betesda (Gv 5,1-18);
4. moltiplicazione dei pani (Gv 6,1-14);
5. guarigione del cieco nato (9,1-41);
6. risurrezione di Lazzaro (11,1-42);
7. pesca miracolosa (Gv 21,1-14).
Tutti questi «segni» hanno lo stesso schema: sono dialogati, c’è sempre un’azione, un crescendo che si sviluppa a volte in discorso lungo e articolato come nella moltiplicazione dei pani, un intermezzo e infine una lenta risoluzione verso la conclusione positiva. È evidente anche al lettore più sprovveduto che non ci troviamo più di fronte al «fatto storico» nudo e crudo, come possiamo intenderlo noi oggi.
Bisogna capire che le prime comunità cristiane hanno avuto una vita travagliata anche sul piano della fede e non hanno capito chi fosse Gesù da subito, ma hanno elaborato lentamente una «cristologia» che ha fatto fatica a prendere piede, in mezzo a eresie, rifiuti, contrapposizione di gruppi, di idee che spesso culminavano in reciproche scomuniche o esclusioni. Dai testi possiamo rilevare, e gli studi lo confermano, che la comunità che fa capo all’apostolo Giovanni, è una comunità divisa, frantumata, lacerata da divisioni, come lo sono anche quelle di Paolo (v. 1Gv 2,18-27; 4,1-6; 2Gv 7-11; 3Gv 9-11; per Paolo: 1Cor 1,10-16). Non bisogna lasciarsi ingannare da quanto scrive Luca: «Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune» (At 2,44), perché non rispecchia la realtà primitiva, ma idealizza ciò che dovrebbe essere la comunità.
Negli ultimi decenni del sec. I d.C. (80-90) le comunità sono abbastanza strutturate e hanno una vita propria e sviluppano un livello di riflessione avanzata, dove ormai  il dato storico è, se non abbandonato, per lo meno superato. Ciò è logico anche perché non c’è più il contesto originario, che all’evangelista non interessa più. Con ogni probabilità, indipendentemente dal contesto storico e geografico originario, tutti questi «segni» sono stati raggruppati in una raccolta «pronto uso» per la catechesi o per la liturgia.
In Giovanni, per esempio, a differenza dei sinottici che riportano decine di parabole (basta pensare a Matteo che sul tema del «Regno di Dio» ne riporta sette e tutte raggruppate nel capitolo 13), ne troviamo solo due che non si trovano negli altri vangeli: la parabola del «Pastore bello» (Gv 10,1-16) e quella della vite e i tralci (Gv 15,1-8): tutte e due queste parabole sono legate alla formula di auto rivelazione divina «Io-Sono», di cui parleremo in altra rubrica. A questo secondo livello della trasmissione, si cominciano, dunque, a possedere scritti parziali, omogenei e indipendenti per uso personale o comunitario, senza ancora un progetto organico.

Terza tappa: la 1a edizione scritta del vangelo
La terza tappa del lungo cammino formativo del vangelo è quella che gli studiosi, unanimemente, chiamano la tappa della prima edizione del vangelo scritto. Fino ad ora ci siamo trovati di fronte a figure singole o collettive anonime, che identifichiamo genericamente con il termine «comunità», non avendo altri riferimenti precisi. Da questo momento, da quando cioè il vangelo appare nella prima stesura scritta si può parlare di un singolo autore, cioè dell’evangelista che comunemente indichiamo con un nome: «Vangelo secondo Giovanni».
Tra gli studiosi c’è unanimità su questo punto: nella comunità giovannea vi erano due persone con lo stesso nome: uno è l’apostolo Giovanni che possiamo definire la «fonte» da cui ha origine il fiume della tradizione orale; e l’altro è Giovanni l’evangelista, presbitero dell’Asia Minore, figura eminente di teologo, a cui risale la prima edizione del vangelo scritto che è all’origine del vangelo attuale. L’esistenza di due persone con lo stesso nome ha creato una grande confusione d’identità, come testimonia anche lo storico antico sant’Eusebio (Storia ecclesiastica 2,31,3; 3,39,6) che parla dell’esistenza a Efeso di due tombe diverse per due Giovanni distinti.

Quarta tappa: la 2a edizione scritta del vangelo
La quarta tappa della trasmissione del vangelo di Giovanni è la pubblicazione della seconda edizione di un nucleo di scritti, più ampia e più organica della prima con aggiunte che riflettono situazioni nuove di epoche più recenti. Sembra, per esempio, che nella comunità giovannea vi fossero problemi ad accettare la figura di Pietro come autorità: il quarto vangelo, infatti, presenta la fede del discepolo prediletto sempre come superiore a quella di Pietro (cf Gv 13,23; 20,4.8; 21,7). Anche san Paolo ha conflitti spesso feroci con Pietro (cf Gal 2,11-14).
All’interno di questa dialettica, in epoca posteriore una mano diversa dalla prima aggiunse il capitolo 21, dove a Pietro si attribuisce la funzione di «pastore» che non ha riscontro in tutto il vangelo precedente (cf Gv 21,5-7).
Un altro esempio si trova nel racconto del cieco nato (Gv 9): l’evangelista annota che i genitori prendono le distanze dal figlio guarito «perché avevano paura dei giudei» (Gv 9,22), annotazione che non fa alcun problema, ma ciò che segue immediatamente sì, perché l’evangelista aggiunge una spiegazione di natura storica: «Infatti, i giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come Cristo, venisse espulso dalla sinagoga» (Gv 9,22-23). Questa notizia non può che essere di molti anni dopo, posteriore al 90 d.C., quando i giudei espulsero definitivamente i cristiani dalla sinagoga. Un autore diverso dall’evangelista ha aggiunto queste parole, proiettando al tempo di Gesù una situazione drammatica del suo tempo.
La tensione tra giudei e cristiani alla fine del sec. I era tale che gli ebrei composero una apposita «maledizione» (in ebr. birkat hamminìm – benedizione [contro] gli eretici) aggiunta alla preghiera ufficiale, detta delle «diciotto benedizioni» per stanare i giudei che erano diventati cristiani e che erano considerati eretici.

Quinta tappa: la 3a edizione scritta del vangelo

L’ultima tappa della trasmissione del testo del vangelo di Giovanni corrisponde alla terza edizione scritta del vangelo come testimonia un papiro datato intorno al 120-130, trovato in Egitto vicino al Cairo in una casa privata (papiro Rylands, scoperto nel 1896) che riporta due piccoli brani della passione: Gv 18,31-33 e 37-38). Questo piccolo papiro è di somma importanza perché ci dice che all’inizio del sec. II il vangelo di Giovanni come lo abbiamo oggi circolava anche in Egitto, fuori della Palestina, lontano da Efeso, segno che il testo era ormai definito e utilizzato; ne consegue che il testo definitivo, cioè la terza edizione scritta, deve collocarsi come data probabile negli ultimi due decenni del sec. I.
Nel frattempo anche gli altri tre vangeli si sono affermati, sedimentati nella tradizione e nella liturgia, viaggiando insieme, ma sviluppando quattro prospettive degli stessi eventi, quattro angoli di visuale per uno stesso progetto: la fede nel Signore Gesù. Intoo al 150 d.C. i quattro libretti che camminavano separati, furono messi insieme, cuciti in un solo volume e da quel momento la comunità dei credenti, fino a noi, hanno tra le mani un solo libro con cinque volumi: i quattro vangeli canonici e gli Atti degli Apostoli.
Fin qui la storia complessa, che abbiamo semplificato oltre ogni umana tolleranza, per dire che il vangelo di Giovanni non si può attribuire alla mano di un solo autore, ma alla vita, alla testimonianza, alla liturgia e alla fede di una comunità, dove vivevano alcune personalità di spicco, autorevoli e degni di stima che ci hanno tramandato non la vita di Gesù, che è impossibile scrivere, ma solo quei fatti sufficienti «per la nostra salvezza» (Dei Verbum, 11; cf Gv 20,30-31; 21,24-25).

Chi è l’autore del quarto vangelo?
Alla luce di quanto abbiamo detto, dobbiamo superare la nostra convinzione che autore e scrittore siano la stessa persona. Per quanto ci riguarda possiamo dire:
1. L’apostolo Giovanni, il figlio di Zebedeo, è l’autore del quarto vangelo come l’antenato sta al pronipote. Egli è autore perché la sua predicazione e testimonianza stanno all’origine della tradizione giovannea; prima in Palestina e poi in Turchia, a Efeso; qui altri hanno ripreso contenuti e testimonianza di Giovanni e l’hanno sviluppata, integrando, arricchendo e incarnandolo.
2. L’apostolo Giovanni non è autore come possiamo intenderlo noi oggi, perché non ha confezionato alcun libro e non vi ha messo il sigillo del copyright. La sua testimonianza di e su Gesù si è diluita nel tempo, diventando vita di una comunità, che non ha mai pensato di tramandarci un testo da museo, ma l’annuncio giornioso che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio (cf Mc 1,1). Di lui, come autore nel senso che abbiamo spiegato, parlano sette testimonianze al di fuori del NT (Ireneo di Lione, Papia di Geràpoli, il Canone muratoriano, il Prologo monarchiano, Clemente Alessandrino e tutti sono databili tra il II e III secolo).
3. Il quarto vangelo in cinque testi parla di un «discepolo che Gesù amava» (Gv 13,23; 19,26; 20,2; 21,7.20) e in altri due di un «altro» discepolo non meglio identificato (Gv 1,35-40 e 18,15). Probabilmente si tratta di due persone diverse. Il primo appellativo potrebbe essere dato dallo scrittore del vangelo che ricordando il suo maestro, l’apostolo Giovanni, ne parla anche con affetto, mettendo in evidenza la sua familiarità particolare con il Signore. Nello stesso tempo «il discepolo che Gesù amava» può anche estendersi a tutti coloro che entrano in contatto con Gesù nella fede e lo accolgono come Figlio di Dio, per cui partecipano alla vita d’amore del Signore come i lettori che siamo noi. Le due interpretazioni si integrano a vicenda.
4. Avviandoci alla conclusione, possiamo dire che la «voce» che ha dato origine al vangelo, attraverso la predicazione, è quella di Giovanni l’apostolo; una voce così forte e potente che si estese presto in tutto l’Oriente dove, in Turchia, trovò un discepolo che la raccolse e la volle divulgare ancora di più, fissandola per iscritto perché molti altri ne potessero usufruire.
5. Egli non si limitò a riportare la «voce», ma insieme ad essa raccolse la sua eco, aggiunse testimonianze che integrò con altre fonti dando corpo al testo come è arrivato fino a noi. Questo evangelista scrittore non è palestinese, ma con ogni probabilità un greco che aveva assorbito la cultura multietnica di Efeso, si era imbevuto anche di un «sapere» giudaico, vivendo all’interno di una comunità mista fino al punto da fare del giudaismo lo sfondo culturale e ambientale del suo vangelo, come cercheremo di mettere in rilievo studiando il racconto delle nozze di Cana.
6. Questo vangelo è indirizzato sia ai cristiani provenienti dal giudaismo, sia a quelli che provengono dall’ellenismo, ai quali l’autore presenta un vangelo che educa alla maturità della fede. Chi ha incontrato Gesù per la prima volta come un catecumeno (vangelo di Marco), ed è poi diventato un discepolo di Gesù (vangelo di Luca), divenendo anche un catechista (vangelo di Matteo), ora può bere alla fonte spirituale e contemplativa del quarto vangelo. Senza fretta perché in Gv ogni parola ha un significato ovvio e uno nascosto, che bisogna cercare, ruminare, centellinare e assaporare, lasciando alla Parola, attraverso le singole parole, la possibilità di depositarsi nell’intelligenza e nel cuore, per diventare alimento e bevanda di vita: «Io-Sono il pane della vita; Io-Sono la vite, voi i tralci» (Gv15,5).  (continua – 3)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (2) Un fatto mille domande

Il racconto delle nozze di Cana (2)

Probabilmente qualche lettore è ansioso di sapere come va a finire il matrimonio di Cana senza sposa e con uno sposo puramente coreografico. Bisogna però rallentare la curiosità perché è necessario porre alcune premesse prima di entrare nel cuore del racconto e nella sua struttura.
Leggere un brano del vangelo non è leggere una favola che inizia e finisce senza particolari problemi. Troppo spesso abbiamo letto la Parola di Dio come raccontino, più vicino alle favole che al «mistero» dell’incontro con Dio. Questa rubrica ha lo scopo di avvicinare i lettori alla Parola di Dio in tutta la sua integrità, utilizzando gli strumenti dell’esegesi, spiegati in modo semplice e comprensibile, ma garantendo la serietà e la profondità. Un solo peccato dobbiamo temere riguardo alla bibbia: la superficialità che diventa inevitabilmente banalità.

Le nozze di Cana
come prospettiva di tutto il vangelo
Il racconto delle nozze di Cana si trova all’inizio del quarto vangelo, esattamente all’inizio del capitolo 2, e comprende i primi 11 versetti per un totale in greco di 185 parole, compresi articoli e particelle (209 parole se si considera anche il v. 12 come parte integrante del testo).
Posto all’inizio del vangelo, il racconto ha una certa importanza, perché potrebbe avere lo scopo d’introdurci in una prospettiva particolare come angolo di visuale di tutto quello che segue. In questo caso, si parlerebbe tecnicamente di «prolessi tematica», cioè di anticipazione (pro-lalèō – parlo/dico prima): le nozze di Cana sarebbero la chiave di lettura di tutto il vangelo.
Se non possediamo la chiave, non possiamo entrare e se non ci mettiamo dalla giusta prospettiva, rischiamo di vedere e leggere il resto del vangelo in modo annebbiato e confuso.
L’esegesi non è un’operazione da obitorio, che lavora su corpi morti, ma un incontro con le singole parole che sono «persone vive», che danzano di significato in significato, fino al cuore del senso ultimo che è (dovrebbe essere) il pensiero di Dio, che parla a noi attraverso le nostre parole.
L’esegesi è un cammino di domanda in domanda, spesso senza risposte, perché dietro una domanda si trova un’altra domanda. Nel cammino di fede, infatti, come in ogni percorso di ricerca, non sono importanti le risposte, ma le domande che aiutano a seguire la pista per allargare sempre più l’orizzonte in cui, nel nostro caso, si colloca la Parola di Dio.
Il racconto delle nozze di Cana è Parola di Dio per i credenti. Dio non parla mai a vuoto, ma a ogni sua «parola» corrisponde un «fatto»: Dio parla agendo e agisce parlando perché in lui parola e fatto sono la stessa cosa, fino al punto che Dio stesso diventa Lògos, cioè Discorso/Parola/Vangelo/Messaggio/Annuncio. Per questo motivo, ogni volta che si apre la bibbia, bisogna prepararsi: non ci accostiamo a un libro qualsiasi, ma entriamo nel «Santo dei Santi» del cuore di Dio.
Gli ebrei, prima di iniziare la preghiera, si preparano per almeno un’ora. Ci vuole un’ora di decantazione, un tempo congruo di ambientazione prima di cominciare a pregare. Nella preghiera i preliminari di preparazione sono più importanti dell’atto stesso della preghiera. Come nell’amore. Lo stesso criterio vale per la bibbia: non si deve mai improvvisare perché chi improvvisa o manipola la Parola di Dio a casaccio, è blasfemo.
Prepararsi a entrare nel significato profondo del racconto delle nozze di Cana, significa camminare in punta di piedi e percorrere lo spazio necessario che precede e che comprende una premessa come introduzione di metodo, di sentimento e di dati necessari per capire e vivere.

Tre contesti per un racconto
Il rispetto della Parola di Dio esige che ci lasciamo avvolgere da alcune premesse che hanno lo scopo di prepararci il terreno e l’ambiente che circonda il racconto. Ogni brano della scrittura, infatti, ogni racconto, ogni miracolo, ogni sentenza, ogni frase del vangelo (di tutti i vangeli) devono essere letti sempre all’interno di tre contesti.
Il primo contesto è quello «immediato», che esamina il brano che si legge in relazione a quanto lo precede e lo segue immediatamente. Questa operazione serve per verificare se il testo interessato è un brano a sé; se è la conclusione di qualcosa che precede oppure se è la premessa di quello che segue, o se invece è un raccordo tra ciò che precede e ciò che segue.
Il secondo contesto è quello «remoto», che riguarda l’intero libro da cui è tratto il brano interessato. A questo livello ci si chiese quale sia lo scopo del racconto nel «contesto» appunto del libro, oppure qual è l’obiettivo che l’autore si propone nel riportare quel fatto.
Nel caso in esame, ci domandiamo: il racconto delle nozze di Cana quale significato o scopo ha per l’autore considerando tutto l’insieme del quarto vangelo?
Il terzo contesto è quello che possiamo definire «globale», perché legge il fatto o il racconto in un contesto ancora più ampio che è la visione unitaria e d’insieme di tutta la scrittura. La bibbia non è una sfilza di eventi, fatti, insegnamenti messi uno accanto all’altro, quasi a casaccio, ma è la «visione d’insieme» del piano di Dio, del suo disegno di alleanza che, per noi cristiani, trova in Gesù Cristo la sua chiave di volta.
Ugo di San Vittore ci offre in modo chiaro questa prospettiva «globale»: «Tutta la divina scrittura è un libro unico, e questo libro unico è Cristo; infatti, tutta la divina scrittura parla di Cristo e in lui trova compimento» (Ugo di San Vittore, De Arca Noe, 2,8: PL 176,642; cf Ibid. 2,9: PL 176, 642-643).
A questo livello, la domanda è: nell’economia della storia della salvezza scritta nella bibbia, quale significato o quale posto occupa il racconto delle nozze di Cana? Se non ci poniamo questa domanda, sarà difficile capire che il racconto delle nozze di Cana non parla di matrimoni, ma è un midràsh della rivelazione al Sinai e della prima piaga che colpisce l’Egitto, l’acqua del Nilo trasformata in sangue (cf Es 19,1-25; 7,14-25).

La Bibbia non è un ricettario
Accanto al contesto l’altra grande domanda è capire l’ambiente dove il vangelo ha trovato forma definitiva. Il testo che abbiamo oggi del quarto vangelo (ciò vale anche per tutta la bibbia, sia Antico che Nuovo Testamento) è il testo del redattore finale, cioè il frutto dell’ultimo autore che lo ha fissato nella forma in cui noi oggi la leggiamo. Noi però sappiamo che esso è il frutto di un lungo processo di trasmissione prima orale, poi anche liturgica, quindi parzialmente scritta e infine il frutto maturo di un testo finale e conclusivo.
Uno dei lavori più impegnativi (e a volte anche più noiosi) è l’analisi critica o «critica testuale» di un testo, attraverso cui, confrontando i codici esistenti, si sceglie il testo tra tutte le varianti possibili e se ne offrono le ragioni mediante un criterio di valutazione ormai attestato nelle università e nei centri di studi biblici.
Come si vede, il vangelo non può essere letto come un ricettario di cucina, dove ognuno estrae o confeziona la ricetta che vuole e come vuole. La bibbia tutto sopporta tranne la superficialità e la banalità, che spesso si trovano abbondanti tra i credenti che abitualmente frequentano la chiesa. Essi ricevono una formazione morale quando va bene, liturgica se va un po’ meglio, ma quasi nessuno riceve a livello istituzionale una formazione biblica sistematica come caratteristica fondamentale della vita del credente. Questo compito è relegato a gruppi spontanei di appassionati che magari sulla loro strada hanno trovato la disponibilità di un biblista.
La catechesi oggi nella chiesa è in funzione della dottrina come è codificata nel Catechismo della chiesa cattolica (Ccc) che, di fatto, ha più rilevanza della bibbia che porta in seno la Parola di Dio. Poiché anche i preti non conoscono la bibbia, ma la leggono come possono, di norma la vita delle comunità ecclesiali ruota attorno all’ortodossia dei contenuti e delle formule che, una volta acquisite, danno maggiori sicurezze e tranquillità tra ciò che «si deve» credere e ciò che non si può credere.
La Parola di Dio per sua natura è interrogativa, cioè stimola al cammino, alla ricerca, allo studio e non si ferma mai sulle conclusioni, ma alimenta la fame e sete di ricerca, perché Dio non si esaurisce mai e una volta raggiunto, vuole essere cercato ancora, come insegna Sant’Agostino: «Signore mio Dio, mia unica speranza, esaudiscimi e fa’ sì che non cessi di cercarti per stanchezza, ma cerchi sempre il tuo volto con ardore. Dammi tu la forza di cercare, tu che hai fatto sì di essere trovato e mi hai dato la speranza di trovarti con una conoscenza sempre più perfetta» (Agostino, Trinità 15,28,51).

Una sola mensa per scrittura ed eucaristia
Lo stesso Ccc, citando la costituzione dogmatica del Vaticano II «Dei Verbum» (Dv), sulla Parola di Dio, espone la necessità che la scrittura sia alla portata di tutti: «È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla Sacra Scrittura» (Ccc 131; cf Dv 22) e ci invita espressamente «con forza» a conoscere le scritture che non sono altro che la Persona di Gesù, il Lògos incarnato: «La chiesa esorta con forza e insistenza tutti i fedeli (…) ad apprendere “la sublime scienza di Gesù Cristo” (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine scritture. “L’ignoranza delle scritture, infatti, è ignoranza di Cristo”» (cf Dv 25; San Girolamo, Commento di Isaia, Prologo; Ccl 73, 1 [Pl 24, 17]).
Il Concilio ecumenico Vaticano II va ancora oltre e pone sullo stesso piano la scrittura e l’eucaristia: «La chiesa ha sempre venerato le divine scritture come ha fatto per il Corpo stesso del Signore» (Dv 21); e il Ccc continua: «In ambedue le realtà tutta la vita cristiana trova il proprio nutrimento e la propria regola» (cf Ccc 141).
Ne deriva una serie di conseguenze non equivoche, di cui ne sottolineiamo due soltanto. La prima: la celebrazione dell’eucaristia assume la forma di una duplice mensa, sulla quale per primo ascoltiamo la Parola, quella stessa che diventerà Pane/Corpo. La seconda: nell’eucaristia facciamo due volte la comunione; la prima volta attraverso le orecchie, ascoltando la Parola che è il Lògos, cioè Gesù Cristo, il Signore; la seconda facciamo la comunione con la bocca, mangiando la Parola che «carne fu fatta» (Gv 1,14).
Per fare tutto questo sono necessari strumenti adeguati come la conoscenza delle lingue bibliche, l’ambiente vitale dove i testi si sono formati, sviluppati e dove infine sono stati scritti nella forma giunta fino a noi. Occorre conoscere la storia collaterale, la geografia dei luoghi e degli eventi, l’archeologia là dove può essere di aiuto.
Per quanto riguarda l’individuazione della località delle nozze, dal punto di vista dell’archeologia, per esempio, si parla di tre località bibliche col nome di «Cana». Quale delle tre è quella di cui parla il quarto vangelo? Escludiamo la località Qana, che si trova a km 12 a sud-est di Tiro, nel Libano, sulla costa del Mediterraneo e quindi fuori dei confini d’Israele; restano le altre due che si disputano la primogenitura.
I pellegrini che vanno in Terra Santa, non mancano, dopo Nazaret di fare una visita anche a Khirbet Kana (rovine di Cana), dove la tradizione francescana fa memoria delle nozze evangeliche fin dal medioevo. Già nel 570 ne parla l’anonimo Pellegrino di Piacenza, che visita il luogo e lo descrive nel suo diario. L’attuale chiesa è stata costruita dai francescani solo nel 1883 nel luogo dove sorgeva una moschea.
Con ogni probabilità, però, il luogo del racconto evangelico è Kafr Kenna (villaggio di Kenna), distante circa km 7 dalla Cana ufficiale. Le fonti letterarie oggi sono tutte propense per questo secondo sito, anche se i pellegrini continueranno a frequentare la Cana di sempre.  

Chi ha scritto il «vangelo di Giovanni»?
Oltre al luogo, un altro problema gigante riguarda la questione dell’autore del quarto vangelo. Da secoli siamo abituati ad ascoltare «dal vangelo secondo Giovanni» e con questo nome s’intende «quel» Giovanni di cui si parla nello stesso vangelo e che viene identificato con il «discepolo che Gesù amava» (Gv 19,26; 20,2; 21,7.20) e che nell’ultima cena ha posto il suo capo sul petto di Gesù, in segno di familiarità e di predilezione (cf Gv 13,25).
Tutti parlano di «discepolo prediletto», testimone attendibile, perché spettatore oculare di fatti. Noi sappiamo che i vangeli non sono opere scritte a tavolino, in modo asettico, ma sono frutto di un lungo percorso comunitario, quasi mai opera di un singolo individuo. Essi, dopo lunga gestazione nell’uso liturgico e nella predicazione, hanno assunto la forma con cui sono giunti fino a noi.
È probabile che Giovanni, il discepolo della prima ora, abbia influenzato con la sua predicazione il clima entro il quale è nato e si è sviluppato il vangelo che poi la tradizione ha attribuito a lui. È quasi certo ormai che il «discepolo che Gesù amava» non sia l’apostolo Giovanni, ma un suo discepolo che è diventato una figura autorevole di primo piano nella comunità giovannea abitante a Efeso nell’Asia Minore, attuale Turchia.
A questo punto le domande inevitabili sono: chi è l’autore del quarto vangelo? Chi ha potuto lambire vertici simili a quelli descritti in questo libretto di appena dodicimila parole, di cui essenziali non più di due mila? È il problema dell’identità dell’autore dello scritto che è altrettanto «enigmatico» come il vangelo che ci propone, simile ai vangeli sinottici (Mc, Mt e Lc), ma anche completamente diverso da essi.
«Gli interrogativi che lo riguardano sono assai numerosi e alcuni di essi si possono formulare così: chi sarà all’origine della cosiddetta tradizione giovannea? In quali ambienti si è sviluppata? Quali tensioni intee ha dovuto affrontare? Ha forse subito influssi da altri settori del cristianesimo primitivo, quali san Paolo e i sinottici? Come è maturato il suo rapporto con il giudaismo, tenendo conto della cesura segnata dall’anno 70? E come si può delineare più in generale l’innegabile influenza dell’ampio contesto religioso-culturale del tempo?» (R. Penna, Il giovannismo).
Per lungo tempo il vangelo di Giovanni fu considerato così «spirituale» da non considerarlo affidabile dal punto di vista storico, o come dice lo stesso Penna: «In quanto prodotto del mondo ellenistico, lo si considerò talmente privo di valore storico e con pochi rapporti con la Palestina di Gesù di Nazaret» (R. Penna, Il giovannismo).
Il processo che vede la nascita e lo sviluppo del quarto vangelo è molto complesso e articolato e non si è ancora arrivati alla conclusione definitiva. Allo stato attuale, esistono alcune ipotesi, ragionevoli e probabili, fantasiose e inconsistenti. Con la prossima puntata, cominceremo a dipanare la questione dell’autore e della sua comunità, esaminando alcune ipotesi per scegliee una che a noi sembra la più consona.
Nella terza puntata faremo una presentazione succinta di tutto il quarto vangelo, facendone emergere l’unità e la dinamica strepitosa. Infine collocheremo il racconto delle nozze di Cana nel suo contesto prossimo e remoto per passare poi all’esegesi parola per parola, frase per frase per assaporae, con l’aiuto dello Spirito Santo, la profondità e la vertigine.              (continua-2)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (1) Un matrimonio senza sposi

Il racconto delle nozze di Cana (1)

D opo avere concluso la lettura e il commento della parabola del «figliol prodigo» di Lc 15 che ci ha accompagnato per oltre un anno, con questo numero iniziamo la presentazione e il commento del racconto delle «Nozze di Cana» riportato solo nel vangelo di Giovanni nei primi undici versetti del capitolo secondo.  

Immettere ed estrarre
Spesso il testo del racconto viene sfalsato perché letto fuori dal suo contesto originario che noi invece vogliamo recuperare e rispettare. Di solito il brano viene usato nei matrimoni perché, si dice, è il testo che fonda il matrimonio come sacramento a motivo della presenza di Gesù. Diciamo subito che questa lettura è superficiale e non rispecchia affatto il testo in sé, né l’intenzione dell’autore, il quale non intende esporre una riflessione articolata del matrimonio cristiano come si è sedimentato dal sec. x d.C. nella teologia della chiesa e nella cultura occidentale, per altro, ovviamente, inesistente al tempo di Giovanni.
Non ribadiremo mai abbastanza il pericolo che corriamo sempre di far dire alla Scrittura quello che è frutto della nostra mentalità e della nostra esperienza, invece di estrarre fuori il senso proprio dai testi come sono e letti nel loro naturale contesto, che è semitico, orientale, greco-ellenistico. Il primo modo di leggere la Scrittura, di norma basato solo sulle traduzioni che sono quasi tutte addomesticate, si chiama «eis-egèsi» perché «immette dentro» significati che il testo non ha; il secondo metodo invece è quello corretto e si chiama «ex-egèsi», perché studia il testo come è e «tira fuori» da esso, quanto più è possibile, il senso vicino alla mentalità e all’intenzione dell’autore.
Per questo lavoro è necessario trovare tempo, non avere fretta, ruminare le parole, assaporarle, quasi una centellinazione di un bicchiere di un vino d’annata fino a percepie il colore, la densità, la trasparenza, il retrogusto, la corposità, la vivacità: in una parola «la bellezza».
Viviamo in un tempo in cui le parole sono inflazionate (si parla di 90 milioni di sms al giorno solo in Italia) e mai come in questi tempi si è vista una carenza di comunicazione: abbondano e straripano le parole morte, manca il silenzio che dà corpo e vita al suono delle parole vitali. All’eccesso di parole corrisponde una deficienza di attenzione e di profondità: tutto scorre e rotola in superficie, pochi ormai si fermano a leggere in profondità. Dilaga la stupidità, che nasce dalla superficialità, e viene meno «l’intelligenza», cioè la capacità di «intus-lègere – di leggere dentro» gli avvenimenti, i fatti, le persone, i sentimenti, le emozioni, la preghiera, la liturgia, Dio.

Un modo nuovo per leggere la Storia
Entriamo subito nel cuore delle questioni, tanto per dare un saggio, mettendo in fila, anche in modo disordinato, le prospettive che il racconto racchiude per farcene un’idea e superare almeno il livello della superficialità sapendo che dobbiamo riprenderle tutte, fino ad esaminare il racconto parola per parola se vogliamo cogliee l’intensità e i riferimenti ai testi dell’AT di cui il racconto vuole essere un commento cristologico.
L’autore intende presentare la persona di Gesù e lo fa da ebreo che conosce l’AT, il Targum come ascoltato nella sinagoga e l’esegesi giudaica del «midràsh». Lo sposalizio di Cana è solo un espediente che permette di conoscere più profondamente la personalità di Gesù di Nazaret. Il racconto, infatti, è carico di una cristologia elevata: la posta in gioco non è un banale matrimonio, ma la risposta alla domanda cruciale che attraversa tutto il IV vangelo: «Chi è Gesù?».
L’autore del vangelo ci accompagna per mano e ci conduce in un viaggio di «conoscenza» dentro la storia ebraica, dentro il cuore stesso di Dio che si rivela e si manifesta nella stessa storia, la storia del suo popolo Israele, e lo fa da giudeo che ha creduto in Gesù e lo ha riconosciuto come Messia. Nel racconto di Cana vuole mettere in rilievo l’alleanza del Sinai che tutta la letteratura biblica presenta come uno sposalizio (cf p. es., Is 54,5; 62,5; Jer 2,2; 3,1; Ez 16,23; Os 1-3 e tutta l’allegoria del Cantico dei Cantici) per dirci che Gesù riprende il tema della nuzialità come dimensione della nuova alleanza nel suo sangue.

Un matrimonio senza la sposa
Rileviamo subito che nel racconto si parla di uno sposalizio, come ve ne saranno stati tanti al tempo di Gesù e come ve ne sono tanti anche ai nostri giorni. Tutti hanno lo stesso schema, gli stessi elementi, lo stesso andamento: festa, sposa al centro dell’attenzione, sposo nervoso, invitati, regali, organizzazione e infine banchetto con ubriacatura finale.
Nel racconto del quarto vangelo, però c’è qualcosa che non quadra. Anche il lettore più superficiale si accorge subito che manca la «sposa»: essa addirittura non è nemmeno nominata. Lo sposo poi è citato di passaggio e solo per rilevare la brutta figura che ha fatto nel non sapere prevedere il numero degli invitati e l’esito del banchetto. La stessa collocazione a «Cana» è problematica perché sono tre i villaggi con questo nome, di cui uno anche nel Libano meridionale, che si contendono le nozze: tre villaggi per una sposa assente. L’archeologia e specialmente lo studio delle fonti letterarie hanno dimostrato, ormai definitivamente che il villaggio delle nozze di Cana non è quello che usualmente i pellegrini visitano, ma un oscuro posto distante circa sette km, abbandonato e dimenticato.
L’intervento della madre di Gesù è centrale e non può essere solo la preoccupazione di una donna di buon senso che cerca di rimediare a una difficoltà. Per questo non era necessario scrivere un vangelo. La madre che chiede di porre rimedio alla brutta figura è fuori luogo, perché sia lei che il figlio sono invitati e non responsabili del banchetto. L’intervento di Maria viene spesso interpretato come una intercessione «matea» che si fa carico dei bisogni degli altri, dimostrando così come si possa manipolare un testo con la teologia mariana «di poi», immessa a piene mani nel vangelo che invece vuole dire tutt’altro.
Dietro la richiesta della madre ci deve essere un altro motivo logico, un motivo profondo che tenteremo di scoprire. Le giare di pietra sono un altro «enigma»: perché sei? perché «di pietra»? In Gv nulla è superfluo, perché tutto ha un senso preciso e puntuale. Se non lo comprendiamo, è per nostra ignoranza.

Una rilettura cristiana dell’Esodo
Cercheremo di dimostrare che il racconto delle nozze di Cana è un «midràsh» cristiano che ha lo scopo di svelarci una parte della complessa personalità di Gesù, riprendendo alcuni testi dell’AT che acquistano così il valore di eventi premonitori e anticipatori. Scopriremo così che i primi cristiani leggevano gli eventi nuovi riguardanti Gesù di Nazaret come «Scrittura» all’interno dell’altra grande «Scrittura» giudaica, che era la Toràh scritta (Pentateuco) e orale (Targum, Midràsh).
Due sono i fatti più importanti della storia biblica a cui il racconto delle nozze di Cana si riferisce: l’alleanza stipulata ai piedi del monte Sinai, descritta nel capitolo 19 dell’Esodo, e il «segno» della prima piaga (le acque del fiume Nilo trasformate in sangue) che colpì l’Egitto come è descritta in Esodo al capitolo quarto. In questo contesto si capisce la prospettiva di Giovanni.
Nei testi dell’AT si parla di confronto tra fede e incredulità, tra il faraone ostinato e Mosè il credente, allo stesso modo, a conclusione del racconto delle nozze di Cana, l’autore ci svela il suo obiettivo: l’intervento di Gesù che muta l’acqua in vino durante un banchetto nuziale «fu il principio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui» (Gv 2,11).
Questa conclusione è la chiave interpretativa di tutto il racconto e di tutto il vangelo: il rapporto tra incredulità e fede, tra accoglienza di Gesù e rifiuto della sua persona, il conflitto tra luce e tenebra, come si esprime lo stesso autore nel «prologo» (Gv 1,1-8). Dalla banalità di uno sposalizio a una prospettiva universale della vita.

Gesù e Mosè: la discriminante della fede
Per l’autore del quarto vangelo, Gesù si trova nella stessa situazione di Mosè appena dopo l’esperienza del roveto ardente (Es. 3), quando Dio ha intenzione di rimandarlo in Egitto a portare il suo messaggio al Faraone perché liberi il popolo d’Israele. Mosè oppone una difficoltà: «E se non mi credono e non ascoltano la mia voce?» (Es 4,1). Dio allora istruisce Mosè che in questo caso deve fare tre «segni» in un crescendo drammatico culminante nell’acqua del Nilo trasformata in sangue (Es 4,9), come nelle nozze di Cana l’acqua è trasformata in vino.
Un altro elemento importante è il tema del vino, perché in tutta la tradizione biblica e giudaica è simbolo della Toràh e anche dell’alleanza in prospettiva messianica, come testimoniano alcuni apocrifi dell’AT, di cui parleremo più avanti. Narrando il «fatto» di Cana, l’autore ci scaraventa di peso nel cuore stesso della storia della salvezza, che ha il suo fulcro e il suo epicentro nell’alleanza del Sinai a cui Israele è giunto dopo avere attraversato tutte le fasi dell’incredulità del faraone e della sua corte: fu un confronto titanico tra la non-fede e la fede, tra la lettura dei «segni» come accaduti nella storia e la cocciutaggine di volerli addomesticare a proprio vantaggio come fa il faraone, tra la libertà dei figli di Dio e la schiavitù dei figli degli uomini.
Le nozze di Cana ci svelano il volto autentico del Dio che Gesù è venuto a mostrarci: il volto di un Dio innamorato che non smette mai di innamorarsi.
Quanto detto finora ci sembra sufficiente a stuzzicare la curiosità su un brano del vangelo, le nozze di Cana, molto conosciuto, ma poco approfondito a livello popolare. La nostra intenzione è di fare un commento che tenga conto di tutte le ricerche bibliche più aggiornate, espresse in un linguaggio non specialistico, ma divulgativo: per questo motivo diamo in questo numero una bibliografia essenziale, per fare anche capire che dietro ogni puntata vi è la giorniosa fatica di un lavoro di ricerca e di confronto e dare anche lo spessore dell’impegno che testimonia l’importanza della Parola e la serietà con cui deve essere accostata e mangiata (cf Ez 2,8; 3.1). Solo così anche per noi essa sarà «dolce come il miele» (Ez 3,3).
Lo scopo nostro è divulgare la Parola di Dio, in obbedienza all’invito di donna Sapienza a quanti sono inesperti: «Venite mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato» (Pr 9,4-5).

Il quarto vangelo: una fittissima foresta
Prima però di cominciare la presentazione e il commento del brano che riporta il racconto delle nozze di Cana (Gv 2,1-11), è necessario dire qualcosa sul quarto vangelo e sul suo autore, così non navigheremo a vista, ma avremo una panoramica di riferimento, una coice che per necessità sarà essenziale, ma sufficiente a darci il quadro generale entro cui ci muoveremo.
Il quarto vangelo, attribuito dalla tradizione a un certo Giovanni, è come un bosco fittissimo, dove una volta entrati se non si conoscono bene i sentirneri, si rischia di girare a vuoto senza andare da nessuna parte o anche di andare nella direzione opposta: «Solo quando noi, dopo aver percorso a lungo un sentirnero, ci rendiamo conto che i nostri passi non portano da nessuna parte, oppure in una direzione che non è quella che vogliamo, cominciamo a maturare in noi la convinzione di dover fare a ritroso il cammino, per riguadagnare il punto da cui sia possibile ritrovare l’orientamento. Questa osservazione non si applica solo a coloro che attraversano un bosco o iniziano a scalare una montagna» (G. Ruggieri, Cr St 21 [2000] 1), ma anche a chi si avventura a entrare nella selva di sentirneri e percorsi, incastonati nel quarto vangelo come innumerevoli e fitti alberi di una immensa foresta. Per entrarvi bisogna essere dotati di una mappa minuziosa ed essere attenti a ogni minimo particolare, che, a volte, all’occhio dell’inesperto sembra futile o insignificante, mentre è la chiave per capire l’insieme.

Il iv vangelo: un enigma dietro l’altro
«Il Vangelo di Giovanni è una collezione di enigmi»  (G. Ravasi, Il Vangelo 5) e «ha un qualcosa di enigmatico, che non trova riscontro in nessun altro libro del Nuovo Testamento» (H. Strathmann, Il Vangelo 9). Enigma ed enigmatico sono un sostantivo e un aggettivo molto pertinenti a definire il quarto vangelo, per sintetizzae in una parola il fascino e le difficoltà di approccio. Mano a mano che ci si addentra al suo interno, più che le certezze aumentano gli interrogativi.
Un’altra espressione, ormai corrente «vangelo spirituale», espressione antica e divenuta ormai abituale. Di «vangelo spirituale», infatti, parla Eusebio di Cesarea (Storia Ecclesiastica, VI,14,7) che, a sua volta, riferisce la testimonianza di Clemente Alessandrino, morto verso il 200: «“…Da ultimo Giovanni, vedendo che negli altri vangeli era messo in luce l’aspetto umano della vita di Cristo, obbedendo all’invito dei discepoli e divinamente ispirato dallo Spirito Santo, compose un vangelo che è spirituale”. Questo riferisce Clemente» (cf anche G. Ravasi, Il Vangelo 5).
L’esegeta olandese H. van den Bussche e l’americano R. E. Brown pongono ambedue l’espressione addirittura come sottotitolo al rispettivo commento che porta lo stesso titolo: Giovanni. Commento al Vangelo spirituale (v. bibliografia).
Un’altra definizione è «vangelo del presbitero, quello che al cristiano maturo e contemplativo dà una visione unitaria dei vari misteri della salvezza» (C. M. Martini, L’itinerario 8). Ognuna di queste definizioni è vera, ma incompleta, perché nessuna di esse esaurisce la profondità e l’intensità del pensiero dell’autore espresso nelle parole del vangelo.
Ogni parola ha un significato diretto e immediato che è quello del vocabolario, ma dietro il senso ovvio ognuna di esse nasconde un significato misterioso o «significato secondo» che bisogna cercare e scoprire con pazienza, preghiera e passione.
Lo stesso evangelista ci invita a rimanere sulla sua Parola per essere suoi discepoli, conoscere la verità e diventare liberi (cf Gv 8,31). Rimanere sulla Parola significa essere saldi e radicati su di essa come la casa costruita sulla roccia (cf Mt 7,24-25) per penetrae l’anima e il cuore che solo con lo studio si può realizzare: la Parola di Dio è come un’innamorata che esige tempo e attenzione, riguardo e passione.

Attenti ai segni
Abbiamo già accennato che il versetto conclusivo del racconto delle nozze di Cana ci informa che ciò che accadde allo sposalizio fu «il principio dei segni» (Gv 1,11) e un lettore attento non può non restare stupito di fronte alla prima conclusione del vangelo dove leggiamo: «Gesù in presenza dei suoi discepoli fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,30-31).
Il vangelo prende l’avvio dal «principio dei segni» che è anche l’inizio della fede dei discepoli e si conclude con l’accenno ad alcuni «segni» finalizzati alla fede del lettore che così inizia a diventare discepolo che testimonia colui in cui crede.
Nel vangelo di Giovanni non bisogna mai fermarsi alle apparenze, perché esse sono sempre occasione per un trabocchetto, dove ci si impiglia facilmente. Per impedire di inciampare dal prossimo numero cominceremo con una presentazione sintetica del quarto vangelo e cercheremo di capire chi ne è l’autore.    (continua – 1)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




«DIO È AMORE»

la parabola del «figliol prodigo» (24)

Concludiamo il nostro lungo cammino in compagnia dell’evangelista Luca, il quale da par suo ci ha fatto conoscere profondamente cinque personaggi: un padre sconfinato che non esita a dare la vita per i figli; il figlio minore, sognatore e irrequieto, ma senza una propria progettualità tanto da finire subito in fallimento; il figlio «anziano», apparentemente tutto dolce e obbediente, ma nel suo cuore è tragico senza possibilità di redenzione; la persona di Gesù, che non smentisce la sua natura di rivoluzionario delle convenzioni religiose e sociali del suo tempo; e infine noi stessi, noi lettori, che dopo questo viaggio «dentro» la parabola del cosiddetto «figliol prodigo», non possiamo rimanere gli stessi di quando abbiamo cominciato.

Punto di arrivo e di partenza: domande personali
La parabola del figlio prodigo, infatti, penetra nel midollo della nostra anima e ci scaifica fino all’osso come una spada tagliente (cf Eb 12,4). La lettura e il commento che abbiamo fatto ci obbligano a una presa di posizione personale nei confronti di Dio e dei nostri stili di vita. Le domande sono individuali. Chi è Dio «per me?». Il comportamento del padre che perdona senza chiedere in cambio nulla, un perdono gratuito, senza condizione mi scandalizza oppure mi rivela un «volto nuovo» di Dio che prima non immaginavo? Ritengo che il comportamento del padre sia «ingiusto» secondo i miei criteri della giustizia che spesso si avvicina fino a confondersi con la vendetta? A quale dei personaggi della parabola mi trovo più vicino? Per quali motivi? Ha senso la mia pratica religiosa, dopo avere vissuto questa parabola dal punto di vista del padre/Dio?
Tutte queste domande e molte altre ancora tracimano dentro di noi perché la parabola lucana è uno spartiacque tra il «dio-idolo», che a volte ci costruiamo per giocare a fare i religiosi, e il «Dio-Misericordia» che trancia la logica umana, esigendo da noi uno stile di vita divino, in forza del principio evangelico: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48).
Il cristianesimo è tutto qui: non è una morale, né un sistema di pensiero, né un’organizzazione, né una religione, ma è solo una «imitazione» che si trasforma in simbiosi di vita e prospettiva con una Persona. Se non impariamo nei nostri rapporti, contatti, pensieri, parole, ideali, atteggiamenti, ad agire come Dio, la nostra religiosità è un francobollo da cui è evaporata la colla.
Ripercorriamo brevemente il cammino fatto con Luca e la sua parabola. Siamo partiti da alcune domande poste da un lettore: «Da dove Lc ha attinto questa parabola, non essendo apostolo? Come spunta questa meravigliosa “perla”, visto che è esclusiva di Lc e non compare negli altri evangelisti? L’ha pronunciata veramente Cristo?».
Le domande sono radicali e dimostrano la poca frequenza, oltre la lettura di prassi, con la complessità della formazione dei vangeli e del NT. Un dato è certo: i cattolici conoscono poco, pochissimo, quasi niente le sacre scritture, che dovrebbero essere il fondamento della loro fede. Essi, infatti, sono molto religiosi, ma scarseggiano di fede e di conoscenza. Officiano, senza amare.

Conoscere la scrittura e il suo cammino
Di fronte a tali presupposti abbiamo proposto una carrellata veloce sulla formazione dei vangeli, spiegando che i vangeli non sono nati per tramandare aneddoti su Gesù, ma sono stati «predicati» per fare conoscere Gesù ai propri contemporanei. Da questa predicazione orale, fatta da persone innamorate di Gesù, sono nati i primi scritti come elenchi di miracoli, di parabole, di detti o sentenze ad uso in genere dei catechisti e dei predicatori.
Questi documenti sparsi giravano per le chiese e cominciarono a essere abbinati come «Parola di Dio» alla lettura dell’AT nelle assemblee eucaristiche. A circa 30 anni dalla morte di Gesù, quando ormai Paolo aveva valicato i confini della Palestina e fondava chiese nell’attuale Turchia e in Grecia, l’evangelista Marco, per primo, inventa un genere letterario nuovo che chiama «vangelo», preso più tardi a modello da altri due progetti pensati da Matteo e da Luca. Nascono così i vangeli «sinottici» perché se si mettono in colonne affiancate Marco, Matteo e Luca, si possono leggere simultaneamente o, come si dice in gergo biblico, in «sinossi» che significa «con un colpo d’occhio».
Lo schema dei vangeli «sinottici» è semplice: a) predicazione di Giovanni Battista; b) predicazione e attività di Gesù, prima in Galilea e poi in Giudea/Gerusalemme; c) passione, morte e risurrezione di Gesù. A questo schema, in epoca successiva, Mt e Lc aggiungono i primi due capitoli dei rispettivi vangeli che si chiamano in blocco «vangeli dell’infanzia», perché trattano di Gesù Bambino, ma visto e descritto alla luce della pasqua già avvenuta.
L’evangelista Gv non segue questo schema, ma si pone su un piano più teologico, perché fa emergere una «cristologia» alta: Gesù infatti fa lunghi discorsi che sono inverosimili storicamente, mentre sono essenziali per il progetto di Gv che ci presenta Gesù, l’uomo di Nazaret, come il «Lògos» eterno incarnato nella storia.
Dopo questa premessa essenziale e didascalica, abbiamo parlato del capitolo 15 di Lc, che riporta tre parabole secondo le bibbie ordinarie, mentre abbiamo dimostrato che le parabole sono due, di cui la prima quella del pastore è ripetuta anche in versione femminile (la donna che perde e trova la moneta). Il capitolo 15 di Lc è uno spartiacque, il vertice di tutta la rivelazione del NT, dopo l’affermazione giovannea che «Il Lògos-carne/fragilità fu fatto» (Gv 1,14). Successivamente abbiamo presentato i protagonisti della parabola con una breve scheda storica dei pubblicani, scribi, farisei e sinedrio che fanno da sfondo e da pretesto alla parabola.

Luca 15: una nuova prospettiva
Infine, abbiamo avanzato l’ipotesi, che ci sta a cuore e di cui siamo convinti: il capitolo 15 di Luca, compresa quindi la parabola del figliol prodigo, non è una invenzione di Lc, ma è un «midràsh» del capitolo 31 di Geremia. Abbiamo spiegato che il midràsh è un modo giudaico di esegesi che si basa sul principio che la scrittura si spiega con la scrittura. Lc prende il testo del profeta Geremia che appartiene all’AT e lo commenta non con un altro testo dell’AT, ma con due parabole messe in bocca a Gesù, dicendoci così che la parola di Gesù è sullo stesso piano dell’AT: è Parola di Dio.
Gesù ha parlato ai suoi uditori di pecore, di monete e di figli: ne abbiamo molti esempi nei vangeli; ma nella forma espressa da Lc, l’intero capitolo è una costruzione per tradurre in forma cristiana il capitolo 31 di Geremia che parla di un pastore, di una donna e di due figli.
Il contesto di Geremia è «la nuova alleanza» (Ger 31,31) che è la chiave di comprensione di tutta la vita di Gesù. Egli porta la novità di un Dio che trasforma la vendetta in perdono, l’esclusione in inclusione, l’emarginazione in elezione, il peccato in grazia, il rifiuto in accoglienza. La novità riguarda anche la religione: dagli atti estei di culto pubblico o privato si passa all’adesione del cuore, all’etica dell’intenzione, alla purezza del cuore, al perdono senza condizione.
In MC (Luglio/agosto 2006) scrivemmo: «Lc 15 è dunque un midràsh di Ger 31 o, se si vuole, una omelia che commenta il testo profetico. La comunità cristiana delle origini prima e Lc successivamente hanno riletto il capitolo 31 del profeta Geremia con gli occhi fissi su Gesù, tanto che l’evangelista nel redigere il capitolo, ha mantenuto lo stesso ordine dei personaggi come si trovano nel profeta: un pastore, una donna, un padre con un figlio. Per potersi rendere pienamente conto di quanto profondo e attualizzante sia il rapporto tra Lc 15 e Ger 31, è necessario leggere il testo del profeta Geremia e quello di Lc in sinossi, cioè in modo speculare»: nello stesso numero mettemmo a disposizione dei lettori i due testi a confronto per vedee somiglianze e differenze.
Noi cattolici siamo abituati a leggere il vangelo e il NT in genere con la nostra mentalità occidentale latina, senza alcun riferimento, se non in forme marginali, all’ambiente vitale dove questi scritti sono nati, sono stati pensati e sono stati messi su pergamena.

Il giudaismo, ambiente vitale del vangelo
A questo scopo, abbiamo insistito molto nel dire che corriamo il rischio di non capire il 90% del vangelo se ci limitiamo a leggerlo con le nostre categorie culturali e non ci sforziamo di situarlo nel suo ambiente vitale, culturale e religioso del suo tempo. Gesù è un ebreo, Maria è un’ebrea, Giuseppe è un ebreo della stirpe di Davide, gli apostoli sono ebrei osservanti, i primi cristiani sono ebrei figli di Abramo: non possono non pensare e non esprimersi da ebrei. Essi conoscono non solo la scrittura ebraica, che è Toràh, i Profeti e gli Scritti (corrispondenti ai nostri Sapienziali), essi conoscono anche e specialmente la «bibbia orale», che è tramandata solo oralmente attraverso la predicazione e la sinagoga con i Targum e i Midràsh.
Affinché non andasse perduta, la maggior parte della predicazione orale fu messa per iscritto durante la diaspora tra il sec. II e il sec. VI d.C., ottenendo così i testi che conosciamo con il nome di Mishnàh, Talmud, Tosèphta, Ghemarà, che riportano i commenti alla scrittura di tutti i saggi d’Israele dal sec. III a.C. al sec. VI d.C. È un materiale immenso, certamente tardivo, ma che contiene materiale anche antico da valutare di volta in volta. Noi cattolici non conosciamo quasi nulla di tutto questo e spesso ci scandalizziamo, perché consideriamo il NT un frutto del tutto avulso dal mondo che lo ha generato e partorito. Finché non si ritoerà alla bibbia come libro fondamentale della nostra fede, basato nel contesto giudaico, il nostro cristianesimo sarà molto superficiale e anche falsato.
Abbiamo presentato la parabola, cercando di evidenziae il vocabolario peculiare, mettendo in risalto il comportamento del padre che riflette il modo di essere di Dio nei nostri confronti. S’è scoperto che il figlio maggiore è rappresentativo del mondo farisaico, che rigetta Gesù per difendere il proprio potere, e che il figlio minore ha tutte le caratteristiche dei pubblicani. Come questi, anche il minore non è giustificabile, ma nella logica della parabola non è determinante che egli chieda perdono, come spesso si legge nei commenti e negli usi liturgici di questa parabola, perché il cuore della pagina non è il figlio minore o maggiore, ma è l’accoglienza del padre/Dio, che previene i figli al di là dei loro meriti.
In sostanza abbiamo visto che il significato ultimo della parabola è la tenerezza di Dio, che si commuove fino alle viscere se vede un figliolo che si sta perdendo in «un paese lontano»: egli allora spinto dal suo viscerale amore senza fondo e senza confini, perde se stesso pur di guadagnare il figlio/figli. Alla fine abbiamo scoperto con amarezza che riesce nel caso del figlio minore, ma fallisce nel caso del figlio maggiore.

Lettura scientifica e insegnamento spirituale
Abbiamo impegnato 15 puntate per commentare i singoli versetti della parabola lucana, mettendo in evidenza anche aspetti psicologici, oltre che esegetici, pastorali e spirituali: il nostro commento infatti non voleva essere solo un rendiconto asettico delle questioni letterarie o testuali, ma un momento di valutazione anche della nostra vita alla luce della parola di Dio, più profondamente compresa. Lo studio della bibbia più è scientifico più diventa spirituale, perché dandoci il senso genuino del testo scritto, ci permette di entrare nel messaggio autentico della rivelazione.
All’interno del commento abbiamo imparato il significato del vitello grasso, il cui sacrificio ristabilisce i termini dell’alleanza qui tra figlio e padre e in termini più generali l’alleanza che in Gesù si stipula tra l’umanità e Dio, fermo restando il mestiere per eccellenza di Dio che è la misericordia. «I sandali, la tunica e l’anello» ci hanno svelato il senso nascosto nella tradizione giudaica di reintegro nell’eredità materiale, nella dignità personale e nell’identità filiale; siamo così arrivati a scoprire il capovolgimento delle situazioni di partenza: il figlio che ha chiesto la vita del padre per poterla sperperare nella dissolutezza e nell’impurità (paese lontano) ora si ritrova immerso in quella stessa vita che lo ha salvato dall’inferno della dannazione (porci) e dalla presunzione di se stesso.

La conversione interessata
Troppa retorica si è fatto attorno al figlio prodigo e alla sua conversione, tanto che è diventato un classico, durante la quaresima, imbastire una liturgia penitenziale dove lo si prende a modello di conversione e di pentimento. Il figlio minore invece è motivato dalla «necessità di sopravvivere» e la sua conversione, se c’è, avviene dopo, nel silenzio della parabola, quando il padre lo fa entrare nella sala del banchetto con la veste nuziale che gli cambia l’aspetto e quello che più conta il cuore. Ancora una volta è il padre il peo di ogni movimento.
Abbiamo anche ridimensionato drasticamente il figlio maggiore, verso il quale si è di solito più indulgenti, perché apparentemente non ha mai dato dispiaceri al padre, restando sempre in casa. Il commento ha evidenziato la natura perversa di questo figlio, simbolo del fariseismo e dell’opportunismo, del comportamento cioè di chi trama nell’acqua senza mai esporsi. Egli ha goduto, almeno crediamo di averlo bene chiarito, della partenza del figlio e già faceva i calcoli della «sua roba» alla morte del padre che aspettava con ansia. La sua vita è rovinata dal padre che accoglie il fratello e, come è stato assente per tutta la sua vita dalla vita del padre, così alla fine egli resta fuori del banchetto e non può indossare l’abito delle nozze. Egli che è rimasto sempre in casa, di fatto era partito da un pezzo ed era rimasto lontano, molto più lontano del paese dove è andato a gozzovigliare il fratello; il minore invece, andato fisicamente via da casa, è tornato perché nel suo cuore, anche a sua insaputa, era rimasto legato al padre di cui aveva inconsciamente nostalgia.

Gli ultimi precedono i primi
Abbiamo pure visto concretizzarsi la «legge» biblica del ribaltamento delle posizioni codificato nel Magnificat di Maria e la «legge della sostituzione» che percorre la bibbia dalle origini alla fine: l’ultimo prende il posto del primo e il secondogenito subentra nell’asse ereditario al primogenito. Strano e illogico, secondo i parametri umani, il Dio che è delineato nella parabola del figlio prodigo!
Egli è un Dio senza dignità e senza rispetto per se stesso, perché, travolgendo ogni costume sedimentato e ogni razionalità, si «mette a correre» per venire incontro a chi non ha più speranza, a chi è morto e bandito dalla società e dalla religione. Egli è un Dio senza pudore che abbandona il tempio, le chiese, conventi e monasteri, dove i figli sono al sicuro e corre per le strade del mondo a cercare la pecora smarrita, la moneta perduta e il figlio traviato. A buon diritto il lettore può dire: egli viene per me.
Un’attuazione pratica della parabola si ha nell’eucaristia, che è il commento sacramentale, o «midràsh sacramentale», della parabola della tenerezza del Padre che trasforma la vita del Figlio unigenito in parola, pane e vino perché i figli dispersi e smarriti possano rifocillarsi nell’ascolto, nel cuore e nel corpo per ritrovare il Volto di Dio, che in Gesù si manifesta e rivela a noi come Padre/Madre.
È questo il senso ultimo della parabola della pateità sconfinata che sa rigenerare, perché ama senza scopo e senza interesse. Se dovessimo sintetizzare il capitolo 15 di Lc in una parola, non avremmo dubbi perché c’è una sola parola, come ci suggerisce Paolo in 1Cor 13, e questa parola è «Agàpēē», il nome nuovo del Dio di Gesù Cristo: «Dio è Agàpēē» (Gv 1Gv 4,8) che tradotto alla lettera si può rendere con «Dio è Amore a perdere».

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




ACCOGLIETELO NEL SIGNORE CON PIENA GIOIA

La parabola del «figliol prodigo» (23)

«29 Ma egli rispondendo, disse a suo padre: Guarda/Ecco, da tanti anni [io] ti sono schiavo e mai un tuo comando ho trasgredito, e (tu) mai mi hai dato un capretto perché con i miei amici  potessi essere felice (= fare festa). 30 Ma quando questo tuo figlio, che ha mangiato con le prostitute la tua vita, è venuto, (tu) hai ucciso per lui il vitello grasso». «31 Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32 ma bisognava fare festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».

Nella puntata precedente abbiamo lasciato il figlio «anziano» in preda all’ira contro il padre, che ha osato accogliere il fratello tornato a casa, dopo il tradimento e il pentimento. Nei nostri orecchi risuona ancora come una lama affilata e piantata nella carne viva l’espressione «questo tuo figlio», carica di disprezzo senza tregua e senza  sconti.

Stare con il padre senza esserci
Il fratello maggiore ha rinnegato la «frateità» e si è chiuso nella sua solitudine, che diventa anche rifiuto della pateità perché egli si considera non figlio, ma «schiavo»: «Da tanti anni (io) ti sono schiavo (in greco: doulèuō) e mai un tuo comando ho trasgredito» (v. 29). Stare a casa col padre deve essergli pesato come un macigno perché egli si è imposto non di «stare col padre», ma di vigilare sulla eredità che considerava sua a tutti gli effetti. La giustificazione della sua tirchieria avara è riversata sul padre, perché l’egoista non sa portare nemmeno le responsabilità delle proprie scelte, ma ha bisogno sempre di un paravento, dietro cui riparare il proprio perbenismo e la propria grettezza.
Il v. 29 dove il figlio maggiore accusa di avarizia, vi è una ripresa del tema dell’«avere» che segna tutta la parabola e che ci pare importante sottolineare anche visivamente;
v. 12: Padre, DAMMI (dice il figlio minore che pretende la vita e l’eredità del padre prima della sua morte);
v. 16: Nessuno gli DAVA (al figlio minore che vuole saziarsi almeno del cibo dei porci);
v. 22: Disse: DATEGLI l’anello al dito (dice il padre ai servi per reintegrare il minore nell’eredità);
v. 29: Mai mi HAI DATO un capretto (dice il maggiore al padre per giustificare la sua gretta avarizia);
v. 31: Tutto è TUO (dice il padre al maggiore che non ha mai potuto godersi quello che aveva).
Il figlio maggiore si dimostra autentico figlio di Adam che, rifiutando di riconoscere la «signoria» di Dio, finisce per ritrovarsi «nudo» per se stesso e incapace di riconoscere gli altri come suoi simili. Caino uccide il fratello Abele, perché senza padre non c’è fratello. Nella parabola di Lc, avviene il contrario: non riconoscere la frateità significa disconoscere anche la pateità di Dio. D’altra parte i due atteggiamenti sono simmetricamente corrispondenti («chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede?», 1Gv 4,20), perché senza fratelli non c’è padre.
Il fratello maggiore si ribella al padre che accoglie e «salva» il fratello minore, come il profeta Giona s’indignò con Dio perché concesse a Ninive un’opportunità di salvezza (Gn 4,1.4), mentre egli nel furore della sua personale giustizia avrebbe voluto distruggere tutta la città, abitanti e animali compresi.

Simbolismo dei nomi: il Barabbà e i barabbi
Esaminando il v. 28 (cf MC 7-8 [2008] 72-73) abbiamo parlato del «giorno dell’ira» e ci siamo riferiti sia a Caino che al profeta Giona che, ora, trovano pieno compimento nel figlio «anziano» della parabola, che si contrappone in modo lampante al padre come evidenzia lo schema seguente:
Due mondi e due prospettive si confrontano e si oppongono. È evidente che Lc non intende raccontare solo una parabola edificante, ma vuole proporre una catechesi in prospettiva cristologica. La figura del padre è simbolica di Dio che viene in cerca dei suoi figli vaganti nel deserto come pecore smarrite (Lc 15,4.8). Egli ha inviato il Figlio primogenito per radunare e salvare i «figli minori», che costituiscono l’umanità intera fino ad offrire la sua vita «perché (…) non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma (…) lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39).
A questo riguardo nella scena della passione, in modo esplicito Matteo e in modo più implicito, come è suo costume, l’evangelista Giovanni giocano sul significato dei nomi aramaico-ebraici per esprimere il senso profondo degli avvenimenti. Pilato chiede alla folla urlante che scelgano chi liberare tra «Gesù, chiamato Cristo» [cioè il Bar-Abbà, Figlio unigenito del Padre] e «Barabba» [cioè il bar-abbà in aramaico] che significa figlio del padre/papà (cf Mt 27,17; Gv 18,40).
Gesù per salvare i «figli minori», cioè noi, non esita a dare la sua vita fino alla morte; mentre il fratello maggiore della parabola vuole la morte del fratello minore. Per Lc il figlio «anziano» è l’anti-Cristo, il vero figlio di Adam, che vuole usurpare per sé l’albero della conoscenza del bene e del male (cf Gen 3,2-6), escludendo dal suo orizzonte tutti gli altri fratelli (cf Gen 4,9). Sta qui la natura del peccato del figlio anziano: essa consiste nella «solitudine» della sua vita, che egli pretende di vivere da sé e per sé, senza padre e senza fratello.
Egli vive da solo, cioè per se stesso nell’abisso della grettezza, fuori da ogni parvenza di comunità e di relazione. Isolato nel suo egoismo, trasuda rabbia, odio e morte. Il suo peccato è più grave di quello del fratello minore che, anche andando con le prostitute (cf Lc 15,13.30), in qualche modo cercava una parvenza di relazione e di comunione; in modo certamente sbagliato, ma anche «in un paese lontano» (Lc 15,13) non visse mai da solo.

Questo tuo figlio….questo tuo fratello
Il figlio maggiore rinnega perfino il fratello (v. 30), che lo identifica solo come figlio di suo padre: «Questo tuo figlio». Il padre si rende perfettamente conto e risponde (v. 32) riportandolo a un livello profondo di affettività: «Questo tuo fratello». Per il figlio primogenito, il fratello «ha mangiato con le prostitute la tua vita (= del padre)»; per il padre il figlio minore, invece, «era morto ed è tornato in vita»; per l’egoista conta il patrimonio, per il padre la vita salvata.
C’è nella scrittura un altro tentativo simile a questo, quando, dopo il peccato d’idolatria compiuto da Israele che si è fabbricato il vitello d’oro, Mosè sale a Dio per intercedere il perdono. Dio ripudia il suo popolo e cerca, solleticando la vanagloria, di circuire Mosè per ricominciare una storia nuova, con persone nuove, con esiti diversi. Nelle parole di Dio Israele diventa il popolo di Mosè: «Allora il Signore disse a Mosè : “Và, scendi, perché il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto, si è pervertito”» (Es 32,7). Mosè non cade nel tranello e rimanda a Dio la responsabilità della salvezza dall’Egitto: «Mosè supplicò il Signore, suo Dio, e disse: “Perché, Signore, divamperà la tua ira contro il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto con grande forza e con mano potente?”» (Es 32,11). L’autore conclude lapidariamente che «il Signore abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo» (Es 32,14).
Di fronte alla fermezza della verità, anche Dio si piega e abbandona l’ira della morte, ma non il fratello maggiore della parabola lucana, che resta chiuso nelle spire della morte sua e degli altri. Non sappiamo come va a finire, perché la parabola si conclude con le parole del padre che rimanda il figlio maggiore alla sua responsabilità di primogenito. Egli però non risponde e Lc lascia il lettore con il sapore della prospettiva che almeno il figlio minore è salvo, al sicuro, in casa, in attesa che il padre rientri. La conclusione è aperta: forse convertito dalle parole del padre, il figlio anziano è entrato anche lui nella festa della risurrezione; ma forse, e più plausibilmente, ha sbattuto la porta e se ne è andato, maledicendo il padre che si è perso dietro il figlio minore.

«Io sarò sempre con te»
Alla dichiarazione del maggiore che si dichiara non figlio, ma «schiavo» (Lc 15,29), il padre risponde (Lc 15,31) con parole che manifestano la grandezza abissale della pateità: «Figlio, tu sei sempre con me». Bisogna fare attenzione a questa risposta del padre che non sembra così ovvia come potrebbe apparire. Il padre non dice di essere lui «sempre con il figlio» perché egli non ha mai messo in questione o in dubbio la propria pateità. Al contrario, è il «figlio» che non «deve» dimenticare di «stare sempre col padre» perché, accecato dagli interessi materiali, ha perso di vista anche la presenza della pateità.
Quale tragedia si consuma tra questi due uomini! Una pateità sempre presente è misconosciuta, mentre una frateità mai condivisa viene espulsa. Un padre tesse le relazioni vitali tra i figli e uno (il minore) lo uccide e l’altro (il maggiore) lo uccide e seppellisce.

a) Nell’AT, i patriarchi
Nell’AT, l’espressione «io sono/sarò con te» indica la protezione e la familiarità/vicinanza che Dio ha con i patriarchi: Abramo (Gen 21,22), Isacco (Gen 26,3.24), Giacobbe (Gen 28,15); con Mosè (Es 3,12), con Giosuè (Gs 1,5.9) nella prospettiva di una alleanza di amore filiale e paterno. Dio si prende cura di coloro che chiama e non li abbandona alla solitudine della disperazione.
Parlando il linguaggio della «vicinanza», il padre tenta di rimettere il figlio, che si è perduto senza mai muoversi da casa, nella scia dei patriarchi e reinserirlo nella trama della salvezza che si fa storia, ricordandogli che non ha motivo di sentirsi solo, perché avrebbe dovuto sentire la presenza patea. Invece il figlio maggiore, pieno di sé, abitato solo da interessi materiali, non solo non ha percepito la presenza del padre, ma ha anche rinnegato e oscurato la «Shekinàh/Dimora/Presenza» di Dio.
Mentre il fratello minore è stato capace di riannodare i nodi della sua esistenza, ritornando alla sua origine e alla sua identità, il fratello maggiore, stando sempre fuori di casa (il testo non dice che è entrato), in un colpo solo, ha reciso il suo passato e il suo futuro. Senza storia e senza prospettiva.

b) Nel NT: il Figlio della necessità
Nel NT si usa la stessa espressione per coloro che hanno condiviso le prove con Gesù (Lc 22,28-29), per il ladrone pentito che per primo sperimenta la promessa del compimento del regno: «Oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43), segni premonitori di una realtà più profonda e radicale: la totale identità tra Gesù/il Figlio e Dio/il Padre: «Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie» (cf Lc 15,31 con Gv 17,10).
Per Lc, l’evangelista del discepolo, seguire Gesù significa imitarlo nell’unità col Padre, l’opposto esatto di ciò che vive, decide e sceglie il figlio maggiore della parabola, che fu generato figlio, ma volle essere schiavo, finendo per diventare ateo praticante, idolatra senza Dio.
La parabola si conclude con la dichiarazione del padre sulla «necessità» della festa che richiama la gioia del pastore che ritrova la sua pecora (Lc 15,6) e quella della donna casalinga che ritrova la moneta (Lc 15,9), formando, a livello tematico, una specie di «inclusione» tra l’inizio e la fine del capitolo 15 di Lc, aggiungendo così un altro elemento unitario sul piano letterario.
Lc è particolarmente legato a questa «ineluttabilità necessaria»: nel NT il verbo al presente (= dêi – bisogna) e all’imperfetto (= èdei – bisognava) ricorre almeno 100 volte, di cui 40 solo in Luca: una presenza massiccia e segno che l’autore vuole sviluppare un proprio pensiero teologico.
Già al compimento dei dodici anni, in occasione della cerimonia della «Bar mtzvàh – figlio del comandamento», quando il giudeo diventa maggiorenne, mentre era nel tempio a discutere con i dottori della Toràh, alla madre che lo rimprovera, risponde che è suo compito (= dêi – bisogna) occuparsi delle cose del Padre suo (Lc 2,41-50, qui v. 49).
In Lc, Gesù è pressato della «necessità» che gli studiosi, specialmente di teologia, definiscono come «necessità di Dio o divina» per sottolineare il mistero della libertà di Gesù congiunto con quello di una chiamata particolare per un compito particolare: Gesù non si sottrae alla volontà del Padre fino al punto che la sceglie come fondamento della sua vita: «Prese la ferma decisione di dirigersi verso Gerusalemme» (Lc 9,51), la città di Dio, la città del compimento delle profezie, la città, dove la «necessità» di Dio diventa redenzione degli uomini e delle donne.

Un padre senza fine
Di fronte alla necessità della gioia che condivide la vita ritrovata del fratello, il figlio maggiore prende le distanze, si priva da sé della festa, e pretende anche di essere giusto. Il padre parla al plurale (in greco si ha il verbo in forma impersonale che può quindi leggersi come «plurale»): «È necessario che noi ci si rallegri e si faccia festa», aprendo uno spiraglio sul fatto che la gioia o è comunitaria o è un inganno.
Insieme ci si salva, da soli ci si danna. La comunità è il luogo principe della festa di accoglienza, ma ancora una volta il figlio maggiore ne resta volutamente fuori, mentre il figlio minore è immerso nel cuore della «casa», immagine della chiesa, che lo accoglie con amore materno e lo custodisce entro i muri del suo cuore.
Un padre e due figli. Il figlio scapestrato ora è dentro la casa, mentre il maggiore rimane fuori; il padre che prima era col minore a fare festa, ora è fuori accanto al maggiore per condividee l’angoscia e la resistenza; il figlio minore inizia il suo cammino di catecumenato dentro la chiesa in cui condivide la sua gioia di salvato, il figlio maggiore è in procinto di dare voce e corpo alla sua auto-scomunica perché egli si esclude da solo dalla prospettiva di salvezza della chiesa intera.
Tra i due è il padre che ancora una volta spezza la sua vita, una parte per figlio, pur di tenerli uniti. Nella penna di Lc, il padre è sempre in movimento perché corre da un figlio all’altro, dentro e fuori la casa/chiesa: alla fine è l’unico a non avere un posto, ma è anche il solo che sa stare accanto ai suoi figli senza pretendere da loro nulla in cambio del suo «esserci».
Non cerca di cambiare i figli, ma li aiuta a guardare dentro di sé perché soltanto loro conoscono «la necessità» del loro cuore e il bisogno della loro vita.     (continua – 23)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




GUAI A VOI, CHE APPARITE  GIUSTI ALL’ESTERNO, MA DENTRO SIETE PIENI D’INIQUITÀ

La parabola del «figliol prodigo» (22)

«Ma lui rispose a suo padre: «Guarda/Ecco, da tanti anni (io) ti sono schiavo/servo e mai un tuo comando ho trasgredito, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. 30 Ma quando questo tuo figlio che ha mangiato con le prostitute la tua vita è venuto, (tu) hai ucciso per lui il vitello grasso».

Il padre umiliato due volte

Il padre era andato incontro al figlio minore per accoglierlo nella sconfinata sua pateità; ora di nuovo, «dopo essere uscito, chiamava/invitava» il figlio anziano (v. 28), dimostrando così che egli non ama un figlio più dell’altro, ma ama ogni figlio con tutto se stesso, partendo non dalla sua realizzazione di padre, ma dal bisogno personale dei figli.
Secondo il costume e la mentalità orientale, il padre che corre scomposto incontro al figlio perde la sua dignità di persona autorevole, perché sono i figli che devono correre verso l’autorità (cf puntata 15a in MC 2,2008, 22-24).
 Ora la scena si ripete: mentre il figlio maggiore è ancora fuori, è il padre che esce, umiliandosi a supplicarlo per essere parte della gioia e della festa. Per la mentalità orientale, sarebbe stato sufficiente che il padre gli avesse dato un ordine e lui doveva ubbidire; il figlio stesso dice con convinzione: «Mai un tuo comando ho trasgredito» (v. 29).
L’atteggiamento del maggiore è chiaramente falso, perché la sua adesione al padre è solo formale: se fosse stato un «vero figlio obbediente» come si gloria di essere, non avrebbe mai permesso che suo padre «perdesse la faccia» lasciando la festa e uscendo fuori a supplicarlo.
Il testo greco dice di più, aggravando ancora, se mai è possibile, la sua posizione: «Guarda/Ecco, da tanti anni [io] ti sono schiavo/servo». Quello che noi traduciamo con l’avverbio «ecco» in principio di frase, in greco è un imperativo (aoristo medio) del verbo «horàō – guardo/vedo», quasi che volesse dire: «Guarda da te stesso/renditi conto/possibile che tu non veda come…».
Da un punto di vista narrativo, questo imperativo con valore avverbiale posto ad inizio di frase ha lo scopo di rendere immediato, contemporaneo quello che segue. In altri termini, il redattore ci avverte che sta accadendo qualcosa di importante e le parole che seguono non sono parole qualsiasi, ma decisive.

Vivere da schiavo, fingendo di essere figlio

Il testo ci fa ascoltare le parole tragiche e tremende del figlio anziano che si pone di fronte al padre come se fosse in competizione. L’atteggiamento psicologico del figlio è di sfida e di conflitto: egli non ha alcuna considerazione del padre. Il verbo infatti che usa è «douléuō – io sono schiavo/servo», che esprime lo stato permanente di schiavitù alle dipendenze di un altro: lo schiavo è proprietà del padrone. Anche i servi spesso hanno dignità, ma quando si diventa servili, per apparire «modelli» agli occhi del padrone di tuo, non si appare soltanto «schiavi», lo si è veramente.
Il verbo «douléuō – io sono schiavo/servo» è opposto all’altro verbo greco «diakonéō – presto servizio/io servo», da cui deriva il sostantivo «diàkonos – diàcono/servitore»: esso esprime un «servizio libero» e in questo senso è usato per il servizio liturgico.
Due sono i riferimenti biblici a cui possiamo collegare l’atteggiamento del figlio maggiore: nel confronto con tutti e due egli rimane in perdita. Il primo esempio lo ricaviamo dal racconto dell’Esodo, dove Dio libera Israele «dalla schiavitù-doulèia» del faraone (Es 6,6) per condurlo al monte Sinai, dove arriva una massa di schiavi, ma da cui riparte un «popolo libero» con il tesoro delle «dieci parole» di libertà (Es 19-20). Il secondo esempio è più diretto perché mette a confronto la fatica della «schiavitù» che i protagonisti devono subire per realizzare il loro sogno.

L’esempio di Giacobbe

Nel libro della Genesi (Gen 29,15-30) si narra che Giacobbe «servì-douléuō» sette anni Làbano per avere in moglie la figlia secondogenita Rachele. Passati i sette anni di servizio, la notte di nozze, il padre scambia le figlie e Giacobbe al mattino si trova in moglie la primogenita Lia, che «aveva gli occhi smorti» (v. 17), invece di Rachele, «bella di forme e avvenente di aspetto» (vv. 15-20, qui 17). Se vuole avere Rachele, Giacobbe deve «servire altri sette anni» (v. 27): per amore Giacobbe ridiventa schiavo del suocero: «Fu ancora al servizio (douléuō) di lui per altri sette anni» (v. 30).
Quando Giacobbe, assolti i suoi obblighi, va via con mogli e proprietà, Làbano lo insegue, perché gli fa comodo avere uno schiavo di quel valore a basso costo; ma Giacobbe «si adirò e apostrofò Làbano: …Vent’anni ho passato con te… ho servito quattordici anni per le tue due figlie e quattro per il tuo gregge e tu hai cambiato il mio salario dieci volte» (Gen 31,36-42, qui vv. 36.38.41). Giacobbe rivendica «tutto il tempo del suo servizio/schiavitù» (doulèuō) che egli accettò per amore e non si rassegnò al raggiro, alla truffa e alle avversità. Egli agì per amore e alla presenza di Dio che egli venera e ama: «Se non fosse stato con me il Dio di mio padre, il Dio di Abramo, il Terrore di Isacco, tu ora mi avresti licenziato a mani vuote» (Gen 31,42).
Il patriarca Giacobbe rivendica non la quantità del tempo, ma la giustizia infranta dal suocero. Egli non ha agito con secondi fini e con reconditi pensieri, ma alla luce del sole, rispettando contratti capestro che egli accettò come piccolo prezzo di un grande amore.
Non si può dire lo stesso del figlio maggiore della parabola, che rivendica solo la «quantità» della sua schiavitù che nessuno per altro gli aveva chiesto né contrattato. Se il patriarca ha agito per amore, il suo discendente agisce solo per egoismo e interesse. Giacobbe crede in Dio, il figlio maggiore crede nelle sue sostanze; il patriarca affronta dei rischi e subisce per un bene superiore, il figlio anziano è prigioniero della sua grettezza che ostenta davanti al padre: «Da tanti anni ti sono schiavo».

La religiosità della parvenza

Se il figlio avesse avuto coscienza del suo rapporto affettivo col padre, avrebbe certamente usato il termine «diàkonos»; invece l’evangelista, usando il verbo della schiavitù, ci mette in guardia, dicendo che egli si sente e si comporta da «schiavo» perché, pur essendo figlio anagraficamente, ha sempre vissuto da sottoposto gretto e vuoto di passioni.
Una persona senza passioni, anche se a volte possono essere sbagliate, è sempre una rovina per se stessa e per l’umanità intera, perché riduce tutto al proprio interesse personale con cui fa coincidere l’esistenza e il valore di tutto l’universo. Ed è anche un monito perenne per noi: si può passare la vita a fare sacrifici, a macerarsi nelle rinunce e nelle privazioni, si può rinunciare a tutti i capretti del mondo, ma se non c’è la libertà dei figli di Dio, la gioia di regalare la propria libertà, l’autonomia dai propri interessi immediati e quasi sempre meschini, la condivisione con i fratelli «più giovani» che tornano dopo avere sperimentato i loro errori, noi saremo sempre i farisei della situazione: osserviamo materialmente tutti i precetti, ma il nostro cuore è lontano dalla salvezza, perché pur stando in casa col padre, di fatto siamo in «un paese lontano, vivendo da dissoluti, da persone senza salvezza» (Lc 15,13).
Il figlio «anziano» si rivela qui il più infantile e il più immaturo: non è mai cresciuto a livello di umanità, né come uomo né come figlio, perché come uomo si comporta e vive da «schiavo» e come figlio considera suo padre come padrone/proprietario. A questo punto non possiamo nemmeno meravigliarci della sua reazione nei confronti del «fratello», che egli non ha mai conosciuto, perché lo considera solo figlio di suo padre: «Questo tuo figlio» (v. 30).
Il suo isolamento è totale: nessuna relazione vitale lo anima, né quella affettiva parentale (padre, fratello, casa) perché egli è sempre «fuori» dagli altri, né (ed è facile supporlo) quella relazione con gli amici perché con questi «è felice» solo nelle feste occasionali. Il testo parla di «phìloi – amici», ma forse si dovrebbe parlare di «compagni» di baldorie.

Vita d’amore e prostituzione

Quanta differenza tra i due «fratelli»! Al v. 15, il minore che era in «un paese lontano», per sopravvivere «si incollò/attaccò» a un pagano perché spinto dalla disperazione, che lo induce a sognare di tornare al padre suo, anche nella condizione di «mìsthios – salariato/operaio». Egli prende lentamente coscienza del suo peccato morale e lascia che la vita del padre, che egli ha sperperato colpevolmente e resa immonda, lo travagli, lo recuperi, lo rimodelli per tornare alla sua affettività di relazione. Con le prostitute ha sperimentato l’ebbrezza della illusione momentanea, a pagamento, non ha avuto una relazione di vita, perché gli è venuto meno il contesto d’amore che la prostituta non può dare. I gesti d’amore, infatti, della vita d’amore e della prostituzione sono gli stessi, l’atto sessuale è lo stesso, ma la differenza sostanziale è tutta qui: nella vita d’amore il contesto è d’amore, libero e gratuito, nell’altro il contesto è mercenario perché si compra la finzione.
Dove c’è un corrispettivo, di qualsiasi natura e specie, c’è sempre prostituzione perché l’amore/agàpē è per sua natura gratuito e senza pretese, ma principalmente senza reciprocità.
Il figlio minore che è «materialmente» schiavo fino all’abiezione di «servire» i porci, anela a diventare «salariato», non schiavo, perché forse nel suo inconscio sa che suo padre non lo permetterebbe mai.
Al contrario, il fratello «anziano» che non si è mai allontanato dalla casa patea, che non ha mai trasgredito un «comandamento» del padre e che nella sua tirchieria ha risparmiato anche i capretti per le feste con gli amici, accusa il padre della sua inesistenza. Egli, infatti, dichiara apertamente la sua schiavitù come condizione interiore propria: è sempre stato uno schiavo e sempre lo sarà. Non ha sperperato con le prostitute, ma di prostituzione è piena la sua vita apparente e impura.
La parabola non dice che egli «entra» nella festa degli affetti, ma resta in sospeso, come un monito per noi che leggiamo a distanza di ventuno secoli. Egli somiglia al fariseo che si ritiene a posto per avere adempiuto i comandamenti prescritti e di non mescolarsi con gli impuri e gli ingiusti (Lc 18,11-12) o a quei cristiani che ritengono Dio in debito con loro perché vanno a messa, non si perdono una processione, fanno la carità e non ammazzano.
Essi hanno una concezione «quantitativa» della religione, che è solo quella del «dovere». Essi girano sempre con la bilancia per misurare il pro e il contro, per valutare di non esagerare nel rapporto con Dio, che comunque deve stare dalla loro parte, altrimenti è un «dio» ripudiato.

Il libello del ripudio

I due versetti (vv. 29-30) che stiamo commentando svelano l’abisso del figlio «anziano»: di fatto egli presenta il «libello del ripudio» al padre e, tramite il padre, al fratello.
Accusando il padre di non avergli mai concesso un capretto per fare festa con gli amici, egli mente (come vedremo nella prossima puntata), perché da figlio libero, poteva prendere tutto quello che voleva senza nemmeno chiedere il permesso. Da avaro e schiavo, ha sempre pensato ad accumulare, aspettando famelico la morte del padre per potere disporre della «roba» sua che egli ritiene propria.
Il minore di fronte al padre che gli corre incontro, si getta ai suoi piedi; il maggiore di fronte al padre che esce per supplicarlo, gli sbatte in faccia il suo perbenismo di facciata e il suo odio, facendogli la lista dei suoi diritti e l’elenco delle colpe del padre.
«Mai un tuo comando ho trasgredito». È la foto della presunzione narcisistica di chi pensa che il mondo comincia e finisce con lui. Il testo greco parla di «entolê – comandamento». La bibbia riserva questo termine all’osservanza dei «comandamenti» della Toràh (Dt 26,13; Gb 23,12), ma anche agli impegni umani (2Cr 8,15). Il  termine così acquista una connotazione «religiosa», ma anche «etica», perché esprime la natura della relazione umana: verticale verso Dio e orizzontale verso il prossimo. Dicendo di non avere «mai» trasgredito un comandamento, egli asserisce di non avere mai peccato né contro Dio né contro i propri simili, qui suo padre e suo fratello. In questo stesso istante, egli pecca con un peccato in più (cf Lc 18,14).
«Mai ho trasgredito un tuo comando» è lo stesso che affermare: io sono giusto perché osservo la lettera della Toràh, sono un modello di religiosità e pretendo di avere la mia parte, quella che mi spetta di diritto (cf Lc 18,14). Nel giardino di Eden, Adam vuole essere «come Dio» per usurpae il potere (cf Gen 3,5); qui il figlio anziano contesta il potere del padre che accusa di non essersi accorto della sua schiavitù accumulata per tutta la vita, credendo di potere comprare la sua dignità di uomo e di figlio che non ha mai avuto. 
Già prima di Gesù, la tradizione giudaica aveva codificato tutta l’osservanza della Toràh in 613 precetti, di cui 365 negativi, simbolicamente corrispondenti a ogni giorno dell’anno solare, e 248 positivi, corrispondenti simbolicamente alla totalità dei «pezzi» che compongono il corpo umano. Il simbolismo è chiaro: tutto il tempo (anno) e tutto l’uomo (parti del corpo) sono sotto il segno della volontà di Dio che si esprime nell’Alleanza come dimensione d’amore e di affetto.
Al tempo di Gesù i farisei pensavano che il popolo non potesse salvarsi perché era molto arduo osservare tutti i comandamenti, giorno dopo giorno. Per questo Gesù, nel vangelo di Matteo, scritto per i cristiani provenienti dal giudaismo, espone la sua interpretazione della Toràh, oltre la tradizione, con le famose opposizioni del discorso della montagna: «Vi è stato detto… ma io vi dico» (Mt 5,21-22.27-28.31-32.33-34.38-39.43-44), con cui si schiera dalla parte del popolo degli esclusi dalla salvezza e dalla parte del Dio che la salvezza annuncia proprio agli esclusi. Egli toglie i pesi dalle spalle delle persone (cf Lc 11,46) e le impegna in un dinamismo di amore, sintetizzando la Toràh, in un solo «comandamento»: amare Dio e amare gli altri (Mt 22,36-40).

Ciò che non vogliamo fare, ciò che non dobbiamo essere

Al v. 30 c’è un cambiamento stilistico, con una frase temporale che imprime un’accelerazione al contenuto, come se non vi fosse tempo sufficiente: «Ma quando questo tuo figlio che ha mangiato con le prostitute la tua vita è venuto, (tu) hai ucciso per lui il vitello grasso».
In queste parole, le uniche che il maggiore pronuncia sul fratello minore, sono parole di disprezzo e di morte: «Questo tuo figlio». Se nel versetto precedente aveva ripudiato il padre, ora presenta il libello del ripudio anche al fratello che non ha mai amato. Egli è inchiodato nella «solitarietà» di se stesso: non ha altro dio che se stesso, cioè il suo abisso di nullità, che coincide con la cima del suo egoismo.
Egli accusa il fratello di impurità legale, perché «ha mangiato con le prostitute», senza rendersi conto che egli è impuro nel cuore, perché si è sempre limitato a osservare la lettera della Legge, senza mai lasciarsi penetrare e interpellare nella coscienza (cf Is 29,13; Mt 15,8).
L’espressione «questo tuo figlio» trasuda disprezzo illimitato: il ritorno del fratello ha sconvolto il suo piano di restare unico padrone dell’eredità patea. Egli è consapevole che il minore ha sperperato la «vita del padre», ma non si rende conto che il padre ha preferito essere sperperato pur di salvarlo da se stesso, riuscendoci e riportandolo a casa.
Il maggiore al contrario non tiene conto del valore della vita del padre (in greco: tòn bìon), perché la colloca in un contesto di un disprezzo assoluto senza appello: la perla della tenerezza del padre è buttata ai porci nel fango della grettezza (cf Mt 7,6).
Dal figlio «anziano» noi, uomini e donne della modeità, possiamo, dobbiamo imparare quello che non dobbiamo fare, che non vogliamo essere (continua – 22).

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




«ADIRATEVI, MA NON PECCATE;  NON TRAMONTI IL SOLE  SOPRA LA VOSTRA IRA» 

la parabola del «figliol prodigo» (21)

«Disse il Signore a Caino: Perché sei acceso d’ira» (Gen 4,6)
«28 Allora si adirò e non voleva entrare. Suo padre perciò, dopo essere uscito, lo chiamava/invitava».

Abbiamo concluso la puntata precedente anticipando la reazione del figlio «anziano», cioè del fratello maggiore «si accese d’ira e non voleva entrare» (v. 28), svelando così la sua natura fratricida e la sua indole irrecuperabile: se è vero che il minore è scappato di casa, è altrettanto vero che il maggiore non vuole entrare. Il figlio minore è tornato da «un paese lontano» (v. 13) e ora sta dentro; il figlio maggiore, invece, che non si è mai allontanato fisicamente, resta fuori perché non è mai entrato.
Ancora una volta tocca al padre uscire e andargli incontro, nel tentativo di recuperare anche questo figlio che avrebbe dovuto essere un modello di esempio per la sua «anzianità». È evidente che nella reazione del fratello maggiore esplode un conflitto di frateità che non è solo un conflitto affettivo, ma ora, leggendo i vv. 28-29, scopriamo qualcosa di abissale e di tragico: il conflitto è fondato sugli interessi, sulla proprietà.

L’esodo e l’immobilità

Quando il maggiore chiede informazione a uno dei servi (v. 26) coglie lo stupore che colpì tutti i membri della famiglia: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo» (v. 27). La straordinarietà dell’evento non è il ritorno del figlio, che in un certo senso può anche rientrare in una certa logica, ma nel fatto che il padre ammazza il vitello grasso, quello delle grandi occasioni.
In questo modo il padre ha dato al ritorno del figlio perduto un valore di grande significato: non un rientro qualsiasi, quasi fosse scontato, ma il passaggio dalla perdizione alla salvezza. Il padre celebra un vero «esodo» del figlio minore, che dalla schiavitù ritorna alla figliolanza, dall’Egitto dell’idolatria alla Terra Promessa dell’unica Pateità, dal deserto della disperazione al giardino della sua casa.
Di fronte a questo evento «universale di salvezza», il figlio anziano, invece di coinvolgersi e tuffarsi nell’ordito salvifico che lo interessa, perché chi ritorna è pur sempre suo fratello, reagisce in modo inatteso e sproporzionato: «Allora si adirò e non voleva entrare» (v. 28).
L’evangelista con tre sole parole riesce a esporre un mondo di contraddizioni: «Allora si adirò». In greco la parola «ira» si dice «orghê» e traduce l’ebraico «‛af», che letteralmente indica la narice del naso, che per i semiti è la sede dell’ira e della rabbia, perché la persona irata o arrabbiata gonfia le narici. L’ira gonfia di sé e non lascia spazio per gli altri. Poiché l’alito è caldo, è logico dire «si accende d’ira» oppure «bolle di rabbia».

Il giorno dell’ira

Anche di Dio si dice che «dalle sue narici saliva fumo, dalla sua bocca un fuoco divorante, da lui sprizzavano carboni ardenti» (Sal 18/17,9; cf anche Sal 2,5; 6,2; 7,7; ecc.).
In tutta la tradizione biblica, il tema dell’«ira di Dio» è una costante che manifesta la vera natura del Dio d’Israele prima e di Gesù Cristo dopo. L’ira in Dio esprime un atteggiamento radicale di opposizione assoluta al mondo del peccato e del rifiuto consapevole dell’amore di Dio e dell’agnello.
San Paolo parla di «giorno dell’ira della giustificazione e della giustizia giudicatrice di Dio» (Rm 2,5) e l’Apocalisse dell’«ira dell’agnello» e del «grande giorno dell’ira» a cui nessuno potrà resistere (Ap 6,16-17).
Dio si «adira» di fronte all’ingiustizia che soffoca la verità (Rm 1,18); il fratello «anziano», invece, «si adira» contro il padre che ammazza il vitello grasso per il ritorno del fratello. Egli è l’anti-dio, pur essendo esteriormente un uomo devoto, religioso e pio e purtroppo, non è un caso isolato, ma è il frutto di una lunga storia di usurpazione e di prevaricazione che in nome di una supposta e scontata religiosità, riduce Dio e il suo comandamento a un puro meccanismo di potere. Peggio: di possesso.
Il «figlio anziano» è un modello, anzi, la sintesi finale di un lungo processo che comincia fin dalle prime pagine della scrittura. Adam nel giardino di Eden «vuole essere come Dio» per disporre della salvezza del mondo «conoscendo il bene e il male» (cf Gen 3,5). Dio è un antagonista e concorrente che bisogna sconfiggere sul suo stesso piano, perché Adam si sente defraudato in un suo diritto: se Dio è Dio, perché io non posso essere «come lui»?
Il progenitore ha fatto scuola e, infatti, il figlio Caino mette subito in pratica la lezione, non accettando l’agire di Dio: «Caino si adirò in sé… Perché sei adirato in te?» (Gen 4,56). Il testo ebraico parla di «ira in se stesso», cioè, un’ira covata e alimentata contro il fratello Abele, i cui sacrifici erano più graditi a Dio. Caino crede di subire una ingiustizia e teme di essere esautorato dal secondogenito e quindi di perdere il suo diritto alla primogenitura (ne abbiamo parlato a lungo nella puntata n. 6, sviluppando lo schema «maggiore/minore» – cf Mc 1 (2007) 24-26).
L’ira di Caino è contro di Dio che giudica «ingiusto», ma la sua ira si compie nel sangue, perché uccide il fratello minore, Abele. L’ira del figlio «anziano» in Luca è contro il padre, perché si oppone radicalmente alla generatività del padre che «fu commosso nelle viscere» di fronte al figlio minore mezzo morto ai suoi piedi (v. 20).
Il figlio/fratello maggiore è «irritato», diventa duro come pietra e non sente ragione: di mezzo c’è la sua «roba» che è più importante del resto, compresa la vita del fratello. All’amore generante del padre corrisponde la durezza assassina del figlio/fratello.

Giona vuole insegnare a Dio il mestiere di Dio

Nell’AT c’è una figura che somiglia molto al fratello maggiore: è il profeta Giona che «arde d’ira» contro Dio (Gn 4,1) perché «s’impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro (ai niniviti) e non lo fece» (Gn 3,10). Giona non capisce il comportamento misericordioso e temporeggiatore di Dio, che fa di tutto per salvare la città di Ninive e i suoi abitanti, mentre egli vorrebbe lasciarla al suo destino di morte e distruzione. A questo scopo non esita a mettersi contro Dio, anzi ad andarsene «lontano dal Signore» (Gn 1,3 – 2volte), quasi per non essere complice nell’esercizio della giustizia di Dio che è la misericordia.
Anche il figlio maggiore, si dissocia dalla misericordia di suo padre, e se ne sta lontano perché «non voleva entrare»: egli non ha nulla da spartire con l’immondo figlio del padre (non dice mai «mio fratello»!), così come Giona non vuole condividere nulla con quei peccatori dei niniviti. L’uno si «disgusta di Dio», l’altro «si adira»; l’uno accusa Dio di essere troppo buono; l’altro rifiuta la frateità, perché non ammette che la pateità possa capire e accogliere e rigenerare. Giona preferisce la morte piuttosto che spartire qualcosa con un Dio pietoso; il figlio maggiore si gonfia d’ira perché il fratello non è morto lontano da casa.

Il padre consolatore e l’ekklesìa

Il padre invece non si smentisce mai, è sempre se stesso, coerente alla sua pateità/mateità con ciascuno dei due figli e con tutti e due insieme, anche se l’evangelista non dice che sia riuscito a farli incontrare e accettare. Era andato incontro al figlio minore tornato dissanguato e ora va anche incontro al figlio maggiore, che non vuole entrare per tentare di riportarlo alla ragione dei sentimenti e della verità. Il figlio minore era «lontano», il figlio maggiore è «fuori». Né l’uno né l’altro sono «con il padre», che deve fare la spola dall’uno all’altro.
Nonostante il figlio maggiore non voglia entrare, nonostante lo accuserà (v. 29) di essere tirchio, il padre gli va incontro: «Suo padre perciò, dopo essere uscito, lo chiamava/invitava» (v. 28). È sempre il padre che fa il primo passo e va incontro ai figli, perché è compito dei padri generare per primi. Quest’uomo rappresenta il Dio di Giona e il Dio di Gesù Cristo, che non guardano il proprio interesse, ma unicamente la salvezza degli altri.
Il testo greco dice però qualcosa di più e di più profondo, perché il padre «dopo essere uscito» non si limita a chiamarlo/pregarlo, ma «para-kàlei autòn». Il verbo è composto dalla preposizione «parà-», che indica prossimità o vicinanza, e il verbo «kalèō» che significa «chiamare». Chiamare in prossimità o accanto (a sé) significa dunque non solo «chiamare», ma anche «consolare/confortare». Nel NT lo stesso verbo si usa per indicare lo Spirito Santo, il «Paràcleto/Paraclito» appunto, che giustamente viene tradotto con «Consolatore» e per estensione «Avvocato» (colui che sta accanto all’accusato per consolarlo con la sua parola di difesa).
Anche il termine «chiesa» deriva dallo stesso verbo: «ek-klesìa» (ek- preposizione d’origine o provenienza). La Chiesa è «chiamata da… (Dio)» perché sia segno visibile del Paràcleto/Consolatore attraverso la testimonianza della misericordia e tenerezza di Dio, che ama tutti gli uomini con simpatia.
È questo il contesto semantico entro il quale dobbiamo vedere l’azione del padre che esce di casa per «chiamare/pregare» il figlio. Non è una semplice supplica, ma una vera vocazione. Con il suo gesto di andargli incontro, il padre pone di fronte al figlio maggiore la possibilità di rientrare nell’«ecclesialità», cioè nel circuito profondo della consolazione e della condivisione con chi è più nel bisogno. In altre parole il padre ancora una volta svela la vocazione del figlio maggiore, che è quella di andare incontro al fratello minore, perché solo così egli può ritrovare la sua dimensione di persona e di figlio di Dio, perché Dio lo chiama a essere strumento di consolazione, cioè figlio dello Spirito Santo che convoca tutti i fratelli e le sorelle alla sorgente della frateità/sororità che è la pateità di Dio.

La faccia perbenista della religione atea

Non accettare la pateità di Dio come fondamento della propria vita (Adam/Eva), significa non riconoscere la frateità con i propri consanguinei (Caino/Abele), diventare gelosi dei doni altrui (Giuseppe/fratelli: Gen 37,11) e impedisce la convivenza nella stessa «casa», come gli invitati alle nozze del figlio del re che «non vollero venire» (Mt 22,2-3).
In questa «volontà» negativa del figlio, c’è qualcosa di diabolico, perché la volontà designa una scelta consapevole e determinata: «non voleva entrare» è più grave e più terribile del semplice «non entrò», perché esprime l’opposizione radicale al fratello e al padre. L’ira del figlio maggiore è indirizzata verso il padre più che verso il fratello, perché ciò che lo scandalizza è il comportamento del padre che è esattamente l’opposto del suo. Egli non si riconosce nel padre e pertanto lo rifiuta e lo rinnega: non ha il coraggio o, se si vuole, l’incoscienza del fratello minore, perché non sarà mai capace di andare via di casa a motivo della «facciata di perbenismo» che deve conservare; ma restando, si isola in un individualismo tragico, narcisista e possessivo, che lo uccidono prima ancora che cominci a respirare. Quest’uomo è pieno di sé, anzi è pieno di desiderio di possesso da non essere più in grado di ritrovare se stesso.

L’ekklesìa, luogo di condivisione nella gioia

Nella quinta puntata del presente commento (cf MC 12 -2006, 61-63), abbiamo paragonato il figlio «anziano» al fariseo nel tempio, che, stando davanti a Dio «in piedi», disprezza il pubblicano che se ne sta in fondo, invocando solo pietà e misericordia (cf Lc 18,9-14). Ora ne abbiamo la definitiva conferma: egli è «geloso» della salvezza altrui, come i vignaioli nei confronti di chi riceve un salario generoso da parte del padrone della vigna (Mt 20,15).
La religione autentica si avvera quando qualcuno si salva e il credente ne giornisce, condividendone la felicità e vivendola come se fosse una gioia personale: «Vi sarà più gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione» (v. 7).
Questa è la chiesa: la condivisione della gioia con tutti coloro che incontrano Dio e la sua misericordia. Al contrario, il figlio «anziano», come la maggior parte dei cristiani da registro, vogliono un Dio che sanzioni e castighi secondo un metro di giustizia che corrisponda al loro vedere e sentire. Costoro non hanno mai incontrato il Dio di Gesù Cristo, ma solo la proiezione di un loro bisogno, solo la caricatura di un Dio come loro lo immaginano.
Non basta essere battezzati, o «andare» a messa la domenica, o fare pratiche di pietà o sopportare la «religione del dovere» per essere credenti nel Dio rivelato da Gesù Cristo, «perché l’ira dell’uomo non produce ciò che è giusto davanti a Dio» (Gc 1,20). È il destino delle persone religiose che credono di programmare Dio come un orologio ad alta precisione, purché Dio esegua alla lettera la loro visione di vita, sposi le loro idee e attui i loro desideri. Per loro quello che si è sempre fatto è la regola d’oro e la barra di navigazione; tutto ciò che si discosta dal proprio ordine, proviene dal diavolo. Essi passano (o perdono?) la vita a precisare, a distinguere, a valutare: non vivono, soffrono sempre e vogliono che anche gli altri debbano essere come loro.

Quando Dio è pazzo e si vuole rinchiudere

Bisogna vivere in uno stato di discernimento permanente, se non si vuole correre il rischio di «credersi dentro», mentre in realtà «si è solo fuori», come accadde alla stessa famiglia di Gesù: «Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo» (Mc 3,31); ma Gesù, «girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui (in casa, cf v. 20), disse: … Chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre» (Mc 3,34-25). Da una parte il fariseo che disprezza il pubblicano, dall’altra la famiglia che reputa Gesù «fuori di sé», cioè pazzo (Mc 3,21).
Il religioso, il fariseo, l’uomo dell’istituzione mantiene sempre le distanze da ciò che accade e senza nemmeno accorgersene si ritrova immerso in un isolamento popolato da regole, doveri, tradizioni che uccidono la Parola di Dio (Mt 15,6) e rifiutano gli altri che non si possono gestire come si vorrebbe secondo la propria volontà.
Il figlio maggiore somiglia molto a coloro che si appellano all’immutabilità della teologia e della liturgia, perché nei tempi modei non vedono che dissoluzione e nefandezze. Essi sono «fuori tempo», perché vivono solo di se stessi e per se stessi e pur restando in mezzo agli altri sono soli, terribilmente soli e si consolano foicando con le tradizioni che essi stessi si danno, ma che riescono a contrabbandare come Parola di Dio (Mc 7,13).
Essi non «vogliono sapere» che la storia è il luogo dove lo Spirito Santo parla e agisce oggi non meno di ieri, perché «lo Spirito soffia dove vuole» (Gv 3,8).

Il figlio maggiore che è dentro di noi

Il «figlio anziano» è il prototipo, oggi, di quei tradizionalisti, inevitabilmente fondamentalisti, che vogliono bloccare l’azione dello Spirito a un particolare tempo storico che, di norma, coincide con il tempo delle loro convinzioni e rimpiangono il passato come il paradiso perduto e non si accorgono di essere «fuori», mentre s’illudono di essere «dentro». Essi, infatti, rifiutano un Dio non «adeguato» alla loro mentalità, rinnegano la fede dell’incarnazione e vogliono bloccare ogni processo di trasformazione che non sia «conversione alle loro idee» e alla loro religione, che non è fede nello Spirito Santo, ma religiosità superficiale ed evanescente, che si nutre di riti e non di vita, di rubriche e non di amore.
Il figlio maggiore è un caposcuola che ha seminato discepoli in ogni epoca: egli è dentro ciascuno di noi che cova l’ira e ci gonfia di gelosia, quando vogliamo un Dio «a nostra immagine e somiglianza», capovolgendo così la Parola di Dio che ci parla di un Dio «annientato» per amore e per giustizia: «Gesù Cristo… non considerò un bene esclusivo l’essere uguale a Dio, ma annientò se stesso prendendo la condizione di schiavo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,6-7).
Gesù infatti è il Figlio primogenito che è venuto a cercare i fratelli minori per insegnare loro ad essere una sola famiglia, che possa pregare con una sola voce e una sola frateità: «Padre nostro, che sei nei cieli» (Mt 6,9), dove in quell’aggettivo «nostro» c’è la nostra vita o la nostra condanna.                                                         (continua – 21)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




«AMATEVI GLI UNI GLI ALTRI  CON AFFETTO FRATERNO»

la parabola del «figliol prodigo» (20)

«25… Ed essendo appena giunto, si avvicinò alla casa, ascoltò musiche e danze; 26e avendo chiamato (a sé) uno dei servi, s’informava di cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo» (trad. letterale).

Il figlio anziano della parabola, come abbiamo già visto, prefigura non solo «gli anziani», che con gli scribi e i sacerdoti costituiscono l’autorità istituzionale, rappresentata nel Sinedrio, ma anche il mondo «religioso» nel suo insieme che professa la religione del dovere e dell’adempimento.
Luca 15 si era aperto con la scena dell’avvicinamento dei «pubblicani e peccatori per ascoltarlo (= Gesù)», in contrapposizione a scribi e farisei che invece «mormoravano» (Lc 15,1.2), quasi di soppiatto, ma in modo che il mormorio fosse percepito. Il figlio anziano nella penna di Lc sviluppa un comportamento che riflette e rinnova il mormorio dei farisei, che sono emblema del perbenismo di facciata di ogni epoca, la cui regola d’oro è: avere la coscienza a posto con il minimo di disagio.

Sei verbi per un assente?
Per descrivere la personalità irrisolta del figlio «anziano», uomo religioso e pio, che entra in scena in modo bizzarro, l’evangelista nei vv. 25-26 usa sei verbi in sequenza, senza respiro: quattro verbi sono secondari (due participi e due imperfetti) e due verbi principali, cioè narrativi.
– «Era/si trovava nel campo» (verbo all’imperfetto che serve per dare al lettore una informazione supplementare, circostanziale che aiuti a inquadrare il personaggio): il figlio è sempre da un’altra parte, sempre altrove. Era assente nella prima parte, quando si consumò la tragedia del fratello, è assente anche nel momento del ritorno. È stato «in», ma mai «nella» casa. Da questo accenno ci rendiamo conto che la sua personalità è avvitata nella grettezza e isolamento. Nei momenti della vita, egli semplicemente non c’è. Se il fratello si è perso in «un paese lontano» (v. 13), egli, pur stando fisicamente vicino, è sempre stato smarrito «nel campo». 
– «Ed essendo appena giunto» (participio presente medio, costruito secondo la sintassi ebraico-aramaica, che serve da introduzione ai due verbi principali che seguono): questa notizia conferma e rafforza, aggravandola, quella del verbo precedente, perché mette in evidenza stridente che il figlio resta sempre fuori e, come vedremo, sceglie di restare fuori.
– «Si avvicinò alla casa» (verbo narrativo di primo piano, come il seguente, che l’evangelista vuole mettere in evidenza). La notizia principale è questa: appena giunto, si avvicina, ma non si precipita, come farebbe qualsiasi persona normale. Avanza circospetto e dubbioso e ancora una volta resta sulla soglia, in forma anonima. Si avvicina soltanto, sospettoso e forse irritato.
– «Ascoltò musiche e danze» (verbo narrativo, come il precedente, sulla linea principale della narrazione che l’evangelista vuole mettere in evidenza). È la seconda notizia che l’autore vuole dare come importante. Ascoltare è entrare in relazione con il clima di festa che danze e musiche (lett. «sinfonia») fanno presagire. Per il figlio la festa è una novità assoluta, che non capisce: o il padre è impazzito o è successo qualcosa di straordinario. Il figlio anziano «ascolta» e si sente profondamente estraneo. L’osservazione dell’evangelista esprime bene il disorientamento di questo disadattato normale che non ammette né la festa per sé (v. puntata seguente) né tanto meno può accettare che altri facciano festa. Lui e solo lui è la misura del mondo che lo circonda.
– «E avendo chiamato (a sé) uno dei servi» (participio medio che serve da complemento al seguente imperfetto, anch’esso secondario): il figlio anziano è talmente sospettoso che va alla ricerca di un intermediario per non esporsi in prima persona. Non si butta in mezzo alla novità, ma resta ancorato alla «sua tradizione» di uomo diffidente e fiero avversario di ogni innovazione. Ha sempre bisogno di schermi, che per lui sono scuse: potrà sempre dire che lui non c’era e non sapeva. Il verbo «proskalèomai – io chiamo a me/faccio venire a me (avvicinare)» nel NT ricorre (sempre nella forma media) 29 volte, di cui 10 nelle opere di Luca (Lc 7,18; 15,26; 16,5; 18,16; At 2,39; 5,40; 6,2; 13,7; 23,17.18.23). Di norma si applica a Gesù che chiama i discepoli (Mt 10,1), il popolo (Mt 15,10), i bambini (Lc 18,16), ma anche ad altri personaggi (Mt 18,32; Mc 15,44, ecc.). L’espressione «uno dei servi» è forma indeterminativa ed esprime l’ansia e la fretta di sapere: egli chiama uno «qualsiasi» dei dipendenti. Al v. 22 il padre aveva chiamato «i servi» (gr.: doûloi) cioè quelli che facevano parte della famiglia abitualmente; ora il figlio anziano chiama «uno qualsiasi» (gr.: hena tôn pàidōn, che letteralmente significa «uno dei ragazzi»), forse uno che lavorava a giornata e quindi un estraneo.
– «S’informava di cosa fosse tutto questo» (imperfetto medio, serve per descrivere al lettore l’atteggiamento del figlio). Il verbo greco «pynthànomai» esprime l’idea dell’investigare, quasi spiare: se ne stava a indagare. Nel NT ricorre 12 volte (Mt 2,4; Lc 15,26: 18,36: Gv 4,52: 13,24: At 4,7; 10.18.29: 21,33: 23,19.20), di cui, come si vede, ben 8 in Lc. Si può dire che è un verbo proprio del terzo evangelista. Il verbo a sua volta è seguito da una interrogativa indiretta e significa «domandare/indagare con curiosità/chiedere con attenzione». Luca con un paio di verbi dipinge il quadro completo della personalità del figlio anziano: è curioso, ma senza esporsi a fare la domanda diretta: indaga, confabula per sapere perché, in caso di necessità, vuole essere sicuro di non rimetterci e avere sempre una via di fuga o una spiegazione pronta.

Essere fuori stando dentro
Luca è un narratore straordinario perché con poche parole mette il lettore sull’avviso che il nuovo personaggio non ha una chiara personalità ben stagliata e definita, ma è un individuo indistinto, quasi senza volto; un uomo che si aggira, non si presenta; che spia, non affronta. Il suo ingresso in scena fa da contrasto stridente con la presenza del fratello minore, che era presente anche quando era assente: la casa senza di lui era un mortorio. Ora invece, solo sentire la musica allarma così tanto il figlio, fariseo-anziano, che si avvicina circospetto e s’informa attraverso il servo, restando però sempre «fuori».
Essere fuori è tipico delle persone religiose che sono talmente piene di pratiche e doveri e obblighi da non accorgersi che nel loro cuore non c’è posto per Dio: praticano molto, ma amano poco o nulla e non si accorgono che Dio passa inutilmente accanto a loro, preoccupati come sono di «soddisfare i precetti» per tranquillizzare la propria coscienza. Dio per loro è solo un pretesto, essi adorano soltanto il loro narcisismo solipsistico: sono schiacciati dai doveri religiosi da non essere più abituati a sapere ricevere gratuitamente il senso liberante dell’atto religioso.
Don Primo Mazzolari nel 1934 pubblicò un commento alla parabola lucana dal titolo La più bella avventura e pur non essendo un esegeta, ma un uomo letteralmente posseduto dallo Spirito, seppe cogliere le sfumature e l’anima dei protagonisti. Mettendo a confronto i due fratelli scrive: «Tanto colui che rimane come colui che va, non ha capito l’amore del Padre: perciò le tenebre sono dentro e fuori. Anche la Casa ha resistenze opache. L’amore del Padre non è negato, ma sospettato… L’anti-chiesa può essere nella chiesa stessa: come l’anticristo può essere accantonato nel mio animo di credente e cristiano. Siamo tutti fuori e tutti dentro, perché ognuno, nella propria inadempienza, è mancante; come nella propria insufficienza, ha la possibilità di rientrare» (P. Mazzolari, La più bella avventura. Sulla traccia del «prodigo», Ed. Dehoniane 2001, pp. 40.43).

Si avvicinò alla casa, ascoltando musiche e danze
Il figlio anziano procede circospetto e non giunge libero e disinvolto, ma si limita ad avvicinarsi: ancora lontano, sente qualcosa di strano, un suono che aumenta mano a mano che si avvicina. Preoccupazione e curiosità alimentano il suo terrore. Dove c’è festa di solito c’è gioia e lui vive nella tristezza che è il vestito diuo della sua anima. S’insospettisce, diventa guardingo, comincia a domandarsi cosa stia succedendo; la preoccupazione e l’affanno lo prendono nell’anima e vuole vederci chiaro.
Emblema del «tipo» religioso osservante (fariseo) che si sente sempre in credito verso Dio e verso gli altri, di cui non ha alcuna stima, non ritorna a casa ma, «appena giunto», si avvicina come un ladro per origliare e pronto a giudicare e a condannare. Uomini di chiesa e laici clericali hanno la condanna facile, perché trasformano il vangelo in un codice penale per comminare pene a chi non è e non pensa come loro.
Egli sa che suo fratello è andato via e che in casa il padre vive in perenne lutto, piangendo il «figlio perduto» e domandandosi dove abbia potuto sbagliare nell’educarlo. Chiunque sarebbe corso immediatamente in casa a vedere di persona cosa stesse accadendo, ma «questo» figlio, no: lui non corre dentro casa, dal padre, ma comincia ad avere paura, perché ogni novità o variazione nel grigiore della sua giornata è un attentato all’ordine costituito.
È un uomo triste e lugubre che diffida di tutti e tutti considera inferiori a sé, perché solo lui è «il giusto». Probabilmente intuisce che possa essere tornato il fratello e va nel panico: non vuole ammetterlo nemmeno a se stesso, perché sarebbe il crollo di ogni suo sogno e cupidigia. Non pensa che la musica e le danze possano essere espressione di esplosione di vita e segno di felicità partecipata; al contrario, pensa che danza e musica siano segnali di tragedia, segni cupi di un imminente cataclisma, perché non annunciano nulla di buono.
La tragedia di quest’uomo è che, pur non essendosi mai allontanato da casa, non vi è mai entrato, perché ne è sempre rimasto «fuori», avendo paura di essere coinvolto in una rete di relazioni affettive a cui si sente estraneo. Deve chiamare un servo per sapere cosa accade (v. 26), quasi per mettere tra sé e l’evento un diaframma, uno schermo che al tempo stesso è riparo ed esclusione. Egli sente che tutto attorno gli è ostile e cerca una via di fuga, una forma di esorcismo, perché la novità della musica e danza gli sconvolge la vita.

Paradigma etico: Giuseppe e i suoi fratelli
Il versetto nella sua semplicità dice anche un altro elemento che spesso viene sottaciuto: nessuno ha avvertito il figlio «anziano» del ritorno del fratello. Egli era estraneo, «nel campo», e tale resta: nessuno si accorge della sua assenza, perché nessuno si è mai accorto della sua presenza. È tragica la figura di questo figlio che vive, come sapremo presto, nell’attesa della morte del padre per ereditare «la roba» e che è indiffe-rente sia quando c’è che quando non c’è.
Nel libro della Genesi (37,12-18) si narra che Giacobbe aveva i suoi figli «anziani» al pascolo in una regione lontana e, volendo avere notizie di loro e del gregge, mandò Giuseppe a cercare i fratelli: «Va’ a vedere come stanno i tuoi fratelli». Giuseppe, il fratello minore, si mette in viaggio verso i suoi fratelli e non conoscendo la strada, chiede a un passante: «Cerco i miei fratelli. Indicami dove si trovano a pascolare». Alla fine «Giuseppe andò in cerca dei suoi fratelli e li trovò a Dotan». I fratelli «maggiori», gelosi del fratello minore «lo videro da lontano e, prima che giungesse vicino a loro, complottarono di farlo morire».
Sappiamo come andò a finire: dopo non molti anni sarà Giuseppe, il figlio minore, che salverà la vita dei fratelli omicidi e di tutta la sua stirpe. Anche per lui valgono le parole del salmo che la liturgia pasquale applica al Cristo Messia: «La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo» (Sal 118/117,22).
Anche nella parabola lucana, avviene qualcosa di simile: il ritorno del figlio minore può essere l’occasione di salvezza per il fratello anziano, la svolta della sua vita e la riscoperta dell’amore di quel padre che egli non ha mai amato e da cui non si è mai lasciato amare. Il ritorno del fratello minore, al contrario, sancisce la sua condanna definitiva, perché egli non vuole un fratello e di conseguenza non vuole nemmeno un padre: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).
Nella parabola lucana nulla può escludere la possibilità che il minore sia scappato da casa per le vessazioni del fratello «anziano», ma è facile dedurlo dalla reazione del maggiore che si stupisce della musica, e forse teme che il fratello sia davvero ritornato. Egli sperava di essersene liberato per sempre, mentre adesso rischia di ritrovarselo di nuovo, ma come è suo costume non vuole esporsi.
Ormai siamo certi che egli non si è mai informato del fratello e né mai ne ha parlato con il padre, che probabilmente ha trasformato la casa in luogo di lutto perenne, dove la vita scorreva anonima e greve, perché quella casa era vuota e muta senza il «figlio più giovane».
Il figlio «anziano» non ha partecipato al lutto e non intende partecipae ora la gioia: ha messo gli altri nel ghetto, alzando una siepe di egoismo ed esclusione, e considera gli altri come suoi nemici, padre compreso, con i quali non vuole sporcarsi. Chiamare il servo per conoscere gli avvenimenti, significa impedirsi di vivere gli stessi avvenimenti e condannarsi alla morte. Invece di sprofondarsi nel cuore della festa per diventae parte e fae parte agli altri, «chiamò un servo».
L’evangelista in questo modo mette in contrasto l’atteggiamento del padre con quello del figlio «anziano». Il padre si accorge del figlio giovane prima di vederlo e lo percepisce «quando ancora era lontano» (v. 20) e gli corre incontro, perdendo la sua stessa dignità. Il «figlio anziano» non solo è nel campo, cioè lontano da casa, ma nemmeno quando si avvicina alla casa riesce a «sentire» la presenza del fratello.
La musica e le danze avrebbero dovuto essere «il segno» da mettergli le ali ai piedi e farlo volare verso la pateità e la frateità compiute nell’abbraccio di padre e figlio; al contrario, lo escludono ancora di più e lo seppelliscono nel suo egoismo e nella sua avidità.

La frateità, Pasqua della pateità
Nella prima parte della parabola, tutto si gioca sulla pateità negata dal figlio minore, mentre il maggiore viene ricordato solo incidentalmente, perché «un uomo aveva due figli» (v. 11), tra i quali il padre «divise la sua vita» (v. 12). In seguito si parla solo del figlio «più giovane», mentre dell’altro si perdono le tracce. Forse per questo una lettura superficiale ce lo ha fatto apparire «simpatico», modello di figlio adulto e maturo, devoto al padre, a differenza del minore, degenere e traviato.
Scopriamo, invece, che la sua assenza non è motivata dalla sua fedeltà, ma dalla sua natura di figlio degenere nell’anima e traviato nel sentimento: egli è sempre assente, nonostante sia il «più anziano» e quindi l’erede designato, colui che fa le veci del padre. A una lettura attenta e meno frettolosa veniamo a conoscere la natura gretta e il volto accigliato di questo figlio, che figlio non è mai stato, perché vive nel rifiuto della frateità.
Il servo interpellato, con ogni probabilità, conosce bene questo figlio anziano e con la sua risposta cerca di creare il ponte verso il padre, offrendogliene l’opportunità: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo» (v. 27), mettendo in luce lo stesso sentimento del padre, espresso al v. 24: il figlio morto e ritrovato.
Nelle parole del servo, però, c’è di più, perché anticipa le parole che lo stesso padre dirà più tardi, andando incontro anche a questo figlio «anziano» che si è perduto senza essersi mai allontanato: «Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita» (v. 32). Il servo infatti non dice che è tornato il «figlio del padre», ma precisa «tuo fratello è qui» e aggiunge «tuo padre» ha deciso si ammazzare il vitello della festa.
Il servo gli annuncia la Pasqua di risurrezione che sta vivendo il padre e lo invita a risorgere anche lui, entrando a mangiare il vitello della festa. Il servo/estraneo sa quello che il figlio anziano non sa e non vuole sapere: «Che io non perda nulla di quanto egli (il Padre) mi ha dato» (Gv 6,39). Egli da uomo della tradizione religiosa, che recita le preghiere secondo il rituale, quello sicuro, pensa a salvare se stesso, non curandosi della salvezza del fratello, e non sa che questa è la sua condanna e il suo inferno, perché da soli ci si danna sicuramente, mentre ci si può salvare solo insieme.

Salvare vale più di ogni sacrificio
In questa circostanza straordinaria, il servo prova a riportare il figlio dentro la rete di relazioni affettive, stuzzicandolo a entrare nella dinamica della pateità, che diventa frateità condivisa: tuo fratello, tuo padre. È straordinario che il servo non gli dica che il padre ha reintegrato il fratello nella pienezza della sua identità di figlio, attraverso i segni esteriori (vestito, anello e sandali del v. 22), ma metta in evidenza l’aspetto religioso e sacrificale dell’avvenimento: il vitello grasso, riservato al sacrificio per il Signore.
Per il padre ricevere il figlio vivo ha la stessa valenza che stare davanti a Dio: ammazza il vitello grasso per il suo ritorno come se stesse compiendo il sacrificio di ringraziamento nel tempio di Gerusalemme. Per il padre credere è accogliere il figlio perduto. Il servo coglie questa grandezza smisurata e ne è partecipe così tanto che crede possibile smuovere il cuore di pietra del figlio anziano: «Tuo fratello è tornato e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo» (v. 27).
A questa notizia il figlio «anziano»: «Si accese d’ira e non voleva entrare» (v. 28), svelando così la sua natura fratricida e la sua indole irrecuperabile; se è vero che il minore è scappato di casa, è altrettanto vero che il maggiore non vuole entrare; ma mentre il primo è tornato e sta dentro, l’anziano resta fuori perché non è mai entrato e tocca ancora una volta al padre uscire e andargli incontro, nel tentativo di recuperare anche questo figlio, che avrebbe dovuto essere un modello di esempio per la sua «anzianità». Di questo però ci occuperemo la prossima volta                              (continua – 20).

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




«GUAI A VOI, CHE SIETE RICCHI, PERCHÉ AVETE GIÀ IL VOSTRO CONFORTO»

La parabola del «figliol prodigo» (19)

«25 Si trovava, intanto, suo figlio, quello anziano [lett.: presbitero] in [nel] campo. E quando fu di ritorno, si avvicinò alla casa, udì musiche e danze» (trad. letterale).

P rima di iniziare a descrivere il nuovo personaggio che entra in scena, è utile fare una breve sintesi di tutto quello che abbiamo riflettuto fino a qui, per riuscire a cogliere la novità di questo «figlio maggiore» (spiegheremo più avanti il vero senso di questa imprecisa traduzione) che è essenziale ai fini narrativi.

Il sabato o la persona?
Con il v. 25 inizia la seconda parte della seconda parabola di Lc 15, cioè, il prolungamento della parabola del «figliol prodigo» vera e propria che si conclude con il v. 24.
Abbiamo già insistito precedentemente, spiegando che Lc 15 si compone di due parabole che hanno per protagonisti il pastore e la pecora da un lato (vv. 4-7) e il padre con il figlio minore dall’altro (vv. 11-24). Le due parabole hanno lo stesso insegnamento: pastore e padre non guardano al loro interesse e al loro benessere, ma mettono a rischio se stessi per la salvezza della pecora e del figlio. Per loro conta ciò che è importante: la pecora e il figlio, realizzando così la parola del Signore che «il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27).
La seconda parabola (padre e figlio minore) approfondisce e sviluppa l’insegnamento della prima perché, oltre la simbologia, si estende ai rapporti umani vissuti. Non è più solo la gioia di un ritrovamento, ma c’è di più: nonostante il figlio minore lo avesse ucciso, chiedendogli l’eredità prima della morte, il padre lo accoglie di nuovo come figlio e lo reintroduce nel diritto ereditario.
Non si tratta solo di perdono, il padre va oltre la natura, anzi va contro natura e non lo sfiora nemmeno l’idea di perdono perché si lascia distruggere per avere la possibilità di reimpastare il figlio e rigenerarlo nuovamente alla vita come fosse la prima volta.

Dio è trasgressivo
In queste due figure (pastore e padre) sono descritti il volto e la natura di Dio come Gesù lo ha manifestato con il suo agire e le sue parole. L’evangelista vuole metterci di fronte alla necessità di purificare l’immagine che abbiamo di Dio, obbligandoci a prendere coscienza del suo agire «trasgressivo» secondo le regole umane.
Il Dio di Gesù Cristo non è «l’idolo» ufficiale che la religione dominante ha addomesticato per orientare le coscienze e addormentarle, piegandole al suo potere, ma è il Dio scandaloso che rompe gli schemi della convenienza e della religiosità a buon mercato. Egli non accetta transazioni ricattatorie del tipo: «Se tu mi fai un favore, io ti offro un sacrificio», perché questo «mercato» è stato rovesciato definitivamente da Gesù nel porticato del tempio (cf Gv 2,13-22). Egli ha una sola fissazione: salvare tutti, a qualsiasi costo ( Gv 6,39), perché per lui non esistono buoni e cattivi, delinquenti e onesti; per lui tutti gli uomini e donne sono figli e figlie suoi e la prova è che «fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45).
Noi siamo lontani dal volto di Dio e spesso ci facciamo di lui una rappresentazione caricaturale, espressione di ciò che noi vogliamo che Dio sia: per molti cristiani Dio è la proiezione delle loro manie e del loro modo di pensare e vedere. Troppo facilmente dimentichiamo il monito di Paolo ai Gàlati che davanti ai nostri occhi «è stato dipinto/rappresentato Cristo crocifisso» (Gal 3,1).

Un figlio contrappunto
Da genio della narrazione, Luca vuole che comprendiamo bene il messaggio delle due parabole (pastore e padre) e per questo le prolunga, estendendone il significato, impiegando altre due figure complementari: al pastore che esprime la prospettiva maschile, aggiunge quella femminile della donna che trova la moneta (vv. 8-10). In questo modo la parabola del pastore che giornisce per il ritrovamento della pecora perduta diventa un insegnamento universale che vale sia per gli uomini che per le donne, cioè per tutta l’umanità.
Allo stesso modo la seconda parabola, che rigorosamente parlando è limitata al padre e al figlio minore (vv. 11-24), è prolungata di altri otto versetti, che illustrano la grandezza del padre sul contrappunto del «figlio maggiore» (vv. 25-32); tale prolungamento serve da contrasto, per fare emergere la figura del padre come un gigante di fronte alla piccolezza e piccineria egocentrica del figlio maggiore, che rivela una mentalità gretta e omicida più grave di quella del fratello minore.
Senza questa aggiunta, la parabola sarebbe abbastanza scialba, perché mancherebbe il contrasto tra il padre e il figlio anziano, tra questi e il fratello minore. Come in una pala a due quadri, a loro volta suddivisi in due parti, i colori sono netti, senza sfumature e per questo rapiscono l’attenzione e i sentimenti.
Con l’ingresso del «figlio maggiore» assistiamo a un capovolgimento imprevisto che Luca anticipa, collocandolo «fuori» della casa patea.
Ragionando con gli schemi umani, secondo un senso «materiale» della giustizia, istintivamente si è portati a solidarizzare con questo personaggio, che viene spontaneo giudicare buono e vittima dell’ingiustizia patea: non è giusto che il figlio minore che ha speso tutta la sua parte ora riabbia di nuovo tutto, mentre il maggiore che «è stato fedele» debba avere di meno. Se questo fosse il comportamento generalizzato, dove si andrebbe a finire?
Luca probabilmente consoce questo «tipico» modo di ragionare e quindi ci apre gli occhi a cogliere il comportamento di Dio, qui raffigurato nel padre, che capovolge sistematicamente i criteri di valutazione degli uomini.

Sguardo d’insieme
Nella terza puntata (MC 7-8 2006, pp. 61-63) abbiamo spiegato che la parabola lucana è un «midràsh» di Geremia 31, dove il figlio minore di Giuseppe, Efraim prende il posto del fratello maggiore, Manasse (Ger 31,18-20), realizzando un capovolgimento di diritti e situazioni, cioè ribaltando il modo umano di vedere le cose, alla luce del pensiero profetico che il modo di pensare di Dio è l’opposto di quello dell’uomo (cf Is 55,8-9). Questo capovolgimento di mentalità rispecchia l’insegnamento di Gesù, esposto nella parabola degli operai che vanno a lavorare nella vigna: gli ultimi non hanno meno dei primi (cf Mt 20,1-16) e che Lc mette in bocca a Maria nel Magnificat, che è la sintesi di tutta la storia della salvezza (Lc 1,51-53).
Nella stessa puntata abbiamo scritto: «La parabola dei due figli è parallela a quella del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14). Essi si recano al tempio per pregare, ma ritornano a casa a ruoli invertiti: l’atteggiamento del fariseo corrisponde a quello del figlio maggiore, mentre quello del pubblicano è identico a quello del figlio minore» (MC 12 2007, pp. 62-63). Il fariseo e il «figlio maggiore» sono tronfi di sé e accampano diritti davanti a Dio, mentre il figlio più giovane e il pubblicano sono disperati nel loro bisogno di perdono.
«Anziani, capi dei sacerdoti e scribi» (Mc 8,31)
Con il v. 25 entra in scena il figlio comunemente indicato nelle varie traduzioni (compresa la 3a edizione della CEI del 1997) come «figlio maggiore». Questa traduzione ridimensiona la vera portata del termine greco che è «presbýteros – presbitero/anziano» e ne svia anche l’esegesi, perché travisa l’intenzione dell’autore.
Con il termine «anziano» che traduce l’ebraico «zaqèn/ziqnê», infatti, nella tradizione biblica e giudaica al tempo di Gesù si indicavano gli antenati (At 2,17; Eb 11,2) oppure il sinedrio che governava Israele (Lc 7,3; Mc 11,27) e in epoca cristiana, i capi della comunità (At 14,23; 15,2). Qui si potrebbe dire che la parola è una specie di «sinèddoche» (dal gr. syn-ekdèchomai – prendo insieme), cioè una figura retorica che usa una parte per indicare il tutto: con il termine «anziani» si indicano tutte e quattro le categorie che componevano la suprema autorità in Israele.
I rappresentanti del sinedrio si dividevano in quattro classi o caste: sacerdoti, scribi, farisei e anziani; in genere si usa la forma abbreviata, cioè uno o due nomi per indicare tutti, cioè la «casta» globale dell’autorità ufficiale. Nei vangeli troviamo molto spesso questo utilizzo: «Scribi e farisei» oppure «dottori della leg­ge» o anche «farisei e dottori della leg­ge», e ogni volta s’intende la totalità del sinedrio, cioè di chi esercita autorità.
Luca quindi ci vuole parlare dell’atteggiamento ufficiale della religione del tempo di Gesù, qui rappresentata dal figlio «anziano», che escludeva dalla salvezza «i pubblicani e i peccatori» (Lc 15,1), nella parabola rappresentati dal figlio più giovane. Da ciò rileviamo che la parabola non ha il compito di suscitare un comportamento etico, cioè non è scritta per insegnarci a essere più buoni e accoglienti, ma ci insegna qual è la prospettiva di Dio che si manifesta a noi in un piano di salvezza, rivelato e proclamato da Gesù, affinché noi potessimo prenderlo come modello di vita e di testimonianza.

Sinagoga e chiesa scomunicate
Nel tempo in cui scrive Lc (seconda metà del sec. i d.C., anni 80-90), c’è una fortissima tensione che conduce alla separazione totale, con un atto di scomunica reciproca, tra la comunità cristiana ormai consolidata e la sinagoga anche della diaspora: gli ebrei accusano i cristiani di essere traditori della Toràh di Mosè e quindi li considerano «apòstati»; i cristiani, al contrario, considerano gli ebrei ciechi, che non sanno vedere il compimento di tutte le profezie nella persona di Gesù, e si ritengono i «veri discendenti» di Abramo (Mt 3,9). Il momento è drammatico.
Anche all’interno della chiesa le lotte sono feroci, come testimoniano le lettere di Paolo (vedi ad es. la lettera ai Galati): i cristiani provenienti dal giudaismo non accettano «il vangelo» di Paolo, che predica il superamento della tradizione nella novità di Cristo e si oppone drasticamente ai primi, che vogliono che i pagani convertiti prima diventino ebrei attraverso la circoncisione e solo dopo possono pervenire al battesimo come qualcosa in più. Per essere cristiani bisogna farsi prima giudei.
Dopo una lunga e furibonda lotta, che portò al primo concilio di Gerusalemme, prevale la posizione di Paolo (cf At 15,1-29), anche se l’apostolo non sarà mai accettato completamente dai giudeo-cristiani e subirà persecuzione e opposizioni da parte di «falsi fratelli», che ne spiano continuamente la predicazione e l’agire (cf 2Cor 11,26; Gal 2,4).
Questo, in sintesi il contesto storico, in cui collocare la parabola e allora si capisce meglio che l’intento dell’autore non è solo quello di completare un raccontino fiabesco con la figura un po’ strana di un figlio, ma di presentarci il simbolo di una categoria religiosa, cioè gli «anziani» d’Israele, a loro volta rappresentativi di tutto il sinedrio. Essi sono stati introdotti e descritti già all’inizio del capitolo: «I farisei e gli scribi mormoravano» (Lc 15,2) per l’accoglienza che Gesù riserva «ai pubblicani e ai peccatori» (Lc 15,1).

Religione col telecomando
Non sappiamo se questo «figlio» appartenga di fatto al gruppo degli «anziani» d’Israele e quindi al sinedrio, certamente li rappresenta molto bene e ne esprime l’atteggiamento di totale esclusione nei confronti di quanti essi non ritengono «idonei» alla salvezza. Logicamente, sempre «in nome di Dio», che gestiscono col telecomando a distanza, perché Dio è a loro servizio ventiquattro ore su ventiquattro, a cui ha delegato la sua volontà e la sua verità. Quando l’autorità si appella all’autorità di Dio per dare forza al proprio insegnamento, è segno che è distante da Dio, perché significa che la propria vita di testimonianza fa acqua da tutte le parti. L’autorità di Dio non ha bisogno di essere provata, perché si manifesta e si esprime nella trasparenza della vita che diventa una profezia parlante e orante del cuore di Dio.
La rappresentatività dell’«anziano» figlio non riguarda tanto le figure storiche degli «anziani, scribi e farisei», perché anche di loro al tempo di Gesù vi erano persone rette e giuste che cercavano la volontà di Dio con purezza di cuore: al contrario, il «figlio anziano» è rappresentativo del «fariseismo» in quanto atteggiamento religioso escludente e, quindi, ci riguarda da vicino, perché possiamo essere religiosi osservanti e praticanti ed essere farisei, che rinchiudiamo l’immagine di Dio nelle nostre anguste categorie mentali fino a escludere quanti non sono in sintonia con noi.
Lc ci vuole insegnare che dobbiamo costantemente purificare il nome e l’immagine di Dio che è in noi, per avere la certezza di essere di fronte al Dio di Gesù Cristo. Non è scontato: si può essere credenti ed essere «idolàtri»; si può essere preti e celebrare messa tutti i giorni e ritrovarsi «atei», perché ossequienti di una caricatura di Dio e non nel Dio carnale che ci ha spiegato Gesù (cf Gv 1,18).
Sì, si può essere religiosi e pii senza fede, perché per essere religiosi basta osservare esattamente le regole e le pratiche di pietà, ma per essere uomini e donne di fede bisogna essere appassionati e passionali, carnali e assetati di verità, amanti della novità, cercatori instancabili del volto di Dio, sempre nuovo e sempre diverso, capaci di dubitare di se stessi e delle proprie certezze, liberi da ogni forma di religiosità schiavizzanti e servi di una fede che affonda nel corpo e nel cuore di una Persona viva che viene a noi come Parola, Pane, Perdono, Tenerezza, Vita, Progetto, Speranza. Questa Persona è il Signore risorto, anzi il Signore Crocifisso e Risorto.

Lontano, restando vicino
«25 Si trovava, intanto, suo figlio, quello anziano (lett.: presbitero) in campo. E quando fu di ritorno, si avvicinò alla casa, udì musiche e danze».
La notizia più importante che Lc offre alla nostra attenzione nel presentare il nuovo personaggio è agghiacciante: «Si trovava nel campo», cioè non era in casa, ma lontano. Il fratello minore quando se ne andò da casa «partì per un paese lontano» (v. 13) e quindi intraprese un viaggio di diverse giornate di cammino: dovette sudare per diventare estraneo alla sua famiglia.
Il fratello «anziano» non ha bisogno di andare distante, egli è già «lontano» pur restando in casa. Non assiste all’incontro del padre con il fratello, non ne partecipa la gioia, non è contagiato dal trambusto che il ritorno comporta. Forse, Luca ci dice che, anche se fosse stato dentro le mura di casa, per lui sarebbe stato la stessa cosa, perché questo figlio è lontano non fisicamente, ma nel cuore. Si può stare insieme accanto ed essere distanti; si può vivere nella stessa famiglia/comunità/chiesa, vivere sotto lo stesso tetto, mangiare alla stessa mensa ed essere lontani, cioè irraggiungibili.
La notizia non è solo tragica, ma la costruzione sintattica del greco ci dice qualcosa di più. Il verbo all’imperfetto è all’inizio di frase per darvi importanza e sottolineare lo stato quasi permanente che esprime, perché l’imperfetto indica un’azione continuativa: «Si trovava», cioè, «era solito trovarsi» nel campo. Dopo la spartizione dei beni patei, probabilmente egli controlla da vicino la sua parte di eredità che cerca di fare fruttare al massimo: egli assapora la «sua» proprietà e da essa non si distacca mai, perché egli ama ed è amato dal possesso che, invece di riempirlo di gratitudine verso il padre che gliel’ha dato, lo allontana da lui sempre più.
Si può dire che il figlio «anziano» è l’assente per eccellenza: assente dalla vita e anche da se stesso, perché prigioniero del dèmone del possesso, sempre «in campo» a misurare, a controllare e amare la sua ricchezza con tutto il cuore, con tutta l’anima e tutte le forze (cf Lc 10,27). Come può trovare il tempo per «essere in casa» e accorgersi degli eventi straordinari che vi accadono?
Tre capitoli prima, Lc lo aveva avvertito che il Signore aveva messo in guardia i ricchi, i quali non possono salvarsi: «Badate di tenervi lontano da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni» (Lc12,15); ma egli era lontano e lontano è rimasto, anche se materialmente «si avvicinò alla casa». (continua – 19)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




«Offrirono olocausti con gioia e sacrificarono vittime di ringraziamento e di lode»

La parabola del «figliol prodigo» (18)

Il vitello dei patriarchi
Quasi tutte le volte che nella bibbia si parla dei patriarchi si aggiunge che hanno «greggi e armenti», che in ebraico suona «z’on ubaqàr», che la versione greca della Lxx traduce quasi sempre con «pròbata kài mòschoi». L’espressione indica bestiame adulto (buoi, mucche, vitelli) e minuto (pecore, capre, agnelli).
I patriarchi d’Israele possiedono «greggi e armenti» in abbondanza, perché sono sotto la benedizione di Yhwh. Possedere «greggi e armenti» è segno di potenza e dimostrazione di forza, come per Adonia fratello maggiore di Salomone (ma di diversa madre), che «immolò pecore, buoi e vitelli grassi» (1Re 1,9.19) per affermare pubblicamente la sua primogenitura nella successione al re Davide, vecchio, ma ancora vivo. Adonia si comporta come il giovane della parabola lucana: assume il regno quando il padre è ancora vivo, cioè lo uccide prima del tempo. Finirà male, ucciso per ordine di Salomone (1Re, 2,12-25).
Nel libro della Genesi in due racconti che narrano lo stesso fatto, ma in due modi diversi, troviamo presenti uno o più vitelli. Il primo (Gen 12,10-20) narra di Abramo che, giunto in Egitto, per paura di essere ucciso a motivo della bellezza di Sara sua moglie, su consiglio della stessa Sara, la fece passare per sua sorella. Di lei s’invaghì il faraone che la fece portare a corte per possederla: «Per riguardo a lei, egli trattò bene Abram, che ricevette greggi e armenti e asini» (Gen 12,16). Il secondo fatto è simile, ma questa volta è Abram a fare passare Sara per sua sorella che così, per la seconda volta, sta per finire nelle mani di un altro. Ora è il tuo di Abimèlech, re di Gerar che se ne era invaghito. Quella notte, però, intervenne il Signore, fermò l’adulterio e fece restituire Sara al legittimo marito: «Allora Abimèlech prese greggi e armenti… li diede ad Abramo e gli restituì la moglie Sara» (Gen 20,1-18, qui, v. 14). In Gen 21,27 Abramo sigilla un’alleanza con Abimèlech dandogli «greggi e armenti».
In tutti questi casi la bibbia greca della Lxx traduce il termine «armenti» con «mòschoi» (plurale): lo stesso termine che usa Lc 15,23: «mòschos» (singolare). Da ciò possiamo rilevare che il «vitello» segna in un certo senso la vita patriarcale. Ordinando ai suoi servi di «prendere il vitello», il padre della parabola lucana, si presenta come un patriarca che non ha più bisogno di nascondersi per paura, ma apre la sua casa per sigillare una gioia. Il padre continua la storia dei patriarchi, di cui la storia del figlio e del padre rappresenta una parabola e una sintesi.

Il vitello del sacrificio
Nel libro dell’esodo il «vitello» fa parte degli animali deputati al sacrificio di comunione: «Farai per me un altare di terra e, sopra, offrirai i tuoi olocausti e i tuoi sacrifici di comunione, le tue pecore e i tuoi vitelli (mòschoi)» (Es 20,24). Il vitello è il segno della presenza di Dio perché gli è offerto e lo riceve in olocausto. Nel momento in cui il fumo del sacrificio si eleva sull’altare, esso diventa lo strumento della presenza di Dio che dopo averlo ricevuto lo restituisce come alleanza.
Il padre che chiede di prendere il vitello per il ritorno del figlio perduto, entra nella logica del sacrificio di comunione e celebra l’«eucaristia», nel senso più pieno e più profondo del sacramento: ringrazia Dio facendo festa. Il padre, attraverso il vitello, reintroduce il figlio nella storia patriarcale da cui si era tagliato fuori, andando via di casa, in un paese lontano, diventando figlio impuro e spurio del suo popolo. Il vitello diventa così il segno della riammissione del figlio nella santità della vita, nel-la purità del culto, nella realtà del suo popolo.
La traduzione italiana non evidenzia la particolarità della lingua greca: il padre non chiede di prendere soltanto un vitello, ma «il vitello, il grasso», che tutti conoscono, «quello grasso, tò siteutòn», quello e non un altro. Nell’espressione «il vitello, il/quello grasso», in greco si ha una costruzione per cui il soggetto con l’articolo è seguito dall’aggettivo anch’esso con l’articolo per dargli forza ed evidenza, ma anche eleganza stilistica.
Tale costruzione serve per mettere in evidenza che si tratta del vitello noto a tutti, forse tenuto all’ingrasso con cura speciale per un sacrificio (molto probabilmente) oppure per una circostanza particolare. Nulla ci vieta di pensare che il padre lo avesse tenuto in disparte per un sacrificio di comunione per il ritorno del figlio.
Nel libro dei Giudici (6,25-35) Gedeone costruisce un nuovo altare e vi immola «un vitello grasso» per riparare il peccato di idolatria dei suoi concittadini che avevano sacrificato a Bàal: un sacrificio di purificazione (v. 28). Il vitello, quello grasso, è una spia forse per dirci che in questo modo il figlio è reintegrato nell’ortodossia che aveva rinnegato, andandosene «in un paese lontano». Nel vangelo nulla è detto per caso o a casaccio. Il figlio aveva messo in moto un processo di morte, abiura, distruzione, blasfemia; ora tutto si annulla nel segno de «il vitello, quello grasso», sacrificato per la festa della risurrezione del figlio.

Il vitello dell’accoglienza ospitale
Altri due testi famosi ci sembrano più attenenti di ogni altro con il testo lucano. Il primo racconta la visita dei tre personaggi misteriosi ad Abramo, alle querce di Mamre (Gen 18,1-15). Per dare risalto alla sua ospitalità accogliente: «All’armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e bello e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo» (v. 7). Il testo greco usa il termine «moschàrion», un diminutivo per dire «vitellino»; e per sottolineare la portata della scelta aggiunge due aggettivi che qualificano il vitellino come (letteralmente) «tenero e bello».
Qui il vitello è segno dell’ospitalità e accoglienza dello straniero, che nella cultura semitica è sempre il segno della Presenza di Dio. Rifiutare lo straniero è rifiutare Dio e porsi al di fuori della sua comunione. Prendendo «il vitello, quello grasso», il padre si mette sulla scia di Abramo e accoglie il figlio che torna come se accogliesse la Shekinàh di Dio. Ritorna da un paese lontano e straniero; ritorna da straniero perché aveva rinnegato il suo popolo; ora lo straniero è accolto da figlio e così il padre rende visibile la Presenza di Dio. Il Dio dei padri che il figlio aveva abbandonato, dilapidato, offeso, infangato con la sua vita di uomo «senza salvezza» (Lc 15,13), ora ritorna di nuovo nel figlio distrutto, che si presenta al padre non più come figlio, ma come servo, come straniero che chiede un salario per vivere. Il vitello non è solo lo strumento per la festa del ritorno del figlio, esso è il simbolo sacrificale di una gioia festosa perché è stata ricostituita la discendenza patriarcale e restaurata di nuovo la storia della salvezza che il figlio aveva spezzato. Il padre ritorna a essere il patriarca che riceve l’erede, mentre il figlio è il futuro che si riannoda al suo passato. Il figlio che era diventato «senza salvezza» (Lc 15,13) ora rientra a pieno titolo nella storia della salvezza patriarcale.

Il vitello dell’idolatria
Il secondo testo racconta del vitello d’oro (Es 32,1-6). La prima generazione che visse l’esperienza del deserto non esitò a lasciare il Signore durante l’assenza di Mosè che stava sul monte Sinai per ricevere la Toràh scritta e orale. Approfittando della lontananza del profeta, la folla riuscì a corrompere anche il sacerdote Aronne, che fuse l’oro raccolto tra la massa e costruì l’idolo per eccellenza, prototipo di tutte le prostituzioni future d’Israele e della chiesa: un vitello. Un vitello d’oro. In greco si usa il termine già visto: mòschos. Essi lo adorano come loro Dio e liberatore: «Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto» (Es 32,4). La folla, complice il sacerdote Aronne, fece festa al nuovo Dio: «Domani sarà festa in onore del Signore. Il giorno dopo si alzarono presto, offrirono olocausti e presentarono sacrifici di comunione. Il popolo sedette per mangiare e bere» (Es 32,5-6).
In Luca, nel banchetto di festa per il figlio ritornato, il vitello non è adorato, ma ucciso; non si fa festa «davanti al» vitello, ma perché il figlio minore è tornato alla vita. Con questo banchetto, il padre della parabola reintegra il figlio sottraendolo all’idolatria del vitello dietro al quale si era perduto, prostituendosi e lo restituisce all’adorazione del Signore e Dio di Mosè, il Dio dell’alleanza del Sinai. Colui che con un solo gesto aveva rinnegato la Toràh, ora nel sacrificio del vitello annienta tutte le idolatrie passate e si apre a un futuro da dove potrà fare festa davanti al Signore Dio suo e dei suoi padri.

Il vitello dell’odio
L’espressione intera «il vitello, il/quello grasso» ricorre tre sole volte e solo in Luca ed esclusivamente nella parabola del «figliol prodigo». Della prima ce ne stiamo occupando ora; la seconda volta è in bocca ai servi, che informano il figlio maggiore del ritorno del fratello e del fatto che «tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso» (v. 17). In questa seconda citazione la costruzione in greco è uguale alla prima, cioè con la ripetizione dell’articolo si mette in evidenza la «singolarità» di «quel vitello».
Il figlio maggiore si arrabbia e si scoccia per il ritorno del fratello che viene a sconvolgere i suoi piani e accusa il padre con veemenza: «Per lui ha ammazzato il vitello grasso» (v. 30). In questa terza volta il testo greco cambia, non ripete più l’articolo davanti all’aggettivo. In italiano non si riesce a esprimere la differenza tra le due costruzioni: il vitello che nelle prime due citazioni precedenti era «quello e non un altro», qui, in bocca al fratello maggiore diventa «il vitello grasso», cioè un vitello qualsiasi, uno della mandria.
Al fratello maggiore da fastidio che il padre abbia preso «un» vitello per festeggiare il fratello. Anche se il padre avesse preso un pollo, o un uovo, o un dattero, per lui sarebbe stato sempre e comunque uno spreco perché il fratello non merita nulla. Il testo greco ci dice la diversità di atteggiamento interiore attraverso l’uso delle parole e per questo è importante studiare la scrittura e appropriarsi degli strumenti di lettura per cogliere anche le sfumature e non perdere il sapore della Parola che a noi giunge attraverso le parole. Per questo figlio maggiore, senza fede e senza umanità, il padre ha solo sperperato ancora una volta un pezzo del suo patrimonio per accogliere il figlio/fratello come ospite di Dio. In questo atteggiamento, il figlio maggiore è un vero ateo, un religioso praticante ateo: l’opposto del padre.
Il vitello della gioia
Il verbo greco che traduce l’ordine del padre di ammazzare «il vitello, quello grasso» è «thýō» e significa «uccido/immolo/sacrifico/offro in sacrificio» (cf Mt 22,4; At 10,13). In molti testi del NT (Mc 14,12; Lc 22,7 e 1Cor 5-7) il verbo è usato per il sacrificio dell’agnello pasquale.
Usando questo vocabolario «sacrificale» per l’uccisione de «il vitello, quello grasso», è come se Lc ci dicesse che ci troviamo di fronte a un vero e proprio «sacrificio eucaristico», perché il sacrificio è festa per la gioia ritrovata. Non a caso tutto converge verso il banchetto della festa, che è l’espressione sociale di un evento interiore e spirituale: «Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Il banchetto celebra la risurrezione del figlio, ma anche quella del padre e quella della casa: tutti risorgono in una casa quando qualcuno si salva dal pericolo e dalla morte.
Il banchetto è lo strumento della gioia perché, a tradurre alla lettera il greco, si deve mettere insieme la contemporaneità del mangiare con il giornire: le due azioni non possono essere separate perché la festa si esprime mangiando e mangiare è (non sempre) un segno/occasione di gioia e intimità. Il verbo principale usato da Lc è «euphràinō – giornisco/faccio festa», mentre il verbo «mangiare» è usato al participio, che è un tempo secondario ed esprime contemporaneità con il verbo da cui dipende.
In tutto il NT è usato 14 volte e sempre nello stesso senso di pienezza di soddisfazione, gioia irrefrenabile. A volte la gioia vuole essere egoista, ma diventa un peccato a sua volta, come nel caso dell’uomo ricco che invita la sua anima a godere e a divertirsi perché i raccolti sono andati molto bene, mentre non sa che non farà in tempo ad assaporare la festa perché quella notte gusterà il fiele della morte (cf Lc 12,19-21). Oppure come il ricco epulone che, mentre offre «lauti banchetti», non si accorge che sulla soglia di casa sua giace Lazzaro ammalato e affamato (Lc 16,19-21). La gioia non può essere mai individuale, ma per natura deve essere condivisa, perché è contagiosa e comunitaria; solo la tristezza è narcisistica. Il ricco che non si fa carico della povertà che sta sulla soglia di casa e delle cause che la provocano, scava «un grande abisso» tra sé e il cielo (Lc 16,26).

Il vangelo della gioia
In tutte le religioni storiche il rapporto con la divinità è assicurata dalla «comunione» con le offerte sacrificali (cf Dt 27,7). È una esigenza della religione mettere in contatto offerente e ricevente, attraverso segni e simboli: il banchetto di comunione è simbolo di intimità condivisa, accetta e partecipata. In un contesto di fede, però, il banchetto è secondario, perché è solo strumentale, mentre è determinante la gioia che attraverso il banchetto si esprime. L’eucaristia è il banchetto da cui scaturisce la gioia della ecclesialità, come il ruscello dalla sorgente.
La ragione del banchetto festoso è il figlio morto/risorto, perduto/ritrovato, espressione che troveremo ancora in chiusura del capitolo (v. 32); qui ci limitiamo a sottolineare che il padre non giornisce per sé, ma il motivo della sua gioia è solo il figlio. Come il suo amore fin dall’inizio fu e resta un amore senza tornaconto, così la gioia è una gioia gratuita, che consacra il suo amore e grandezza.
Il figlio fu al centro del suo dolore e solitudine; ora è il fulcro della sua gioia. Ha dato la vita al figlio, gli ha dato la libertà al prezzo della sua morte nel cuore; lo ha reintegrato nell’eredità, dignità e condizione di figlio: ora gli da anche la gioia del suo ritorno. Il padre è l’immagine perfetta del Padre celeste, che ha creato un cielo dove «c’è più gioia per un solo peccatore che si converte che per 99 giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,4.10).

Una parabola della gioia perfetta
Concludiamo con un aneddoto della vita dei padri del deserto. Due monaci avevano peccato gravemente. Il padre abate impose loro la stessa penitenza: andare fuori dal monastero e fare penitenza; chi avrebbe fatto la penitenza più adeguata sarebbe stato riammesso nella comunità. I due uscirono dal monastero e presero strade diverse.
Passò un anno. Un uomo macilento e lacero fece appena in tempo a suonare la campanella del monastero che cadde in terra stremato. I monaci lo raccolsero: è uno dei due fratelli tornato dalla penitenza. L’abate gli chiese cosa fosse successo ed egli narrò ciò che aveva vissuto: «Dopo un lungo peregrinare, vivendo di elemosine giunsi in un bosco dove non passava anima viva. Mi sistemai in una capanna di fortuna e mi inginocchiai davanti al Signore, dicendo: “Signore, sono un grande peccatore, e tu lo sai; per compiere la penitenza comandata dal padre abate, vivrò tutto il tempo a digiuno, mangiando solo ciò che offre il bosco e bevendo l’acqua del vicino ruscello; pregherò e mi flagellerò ogni giorno per riparare le mie colpe”. Ora al termine della mia penitenza, chiedo di essere ammesso in comunità». L’abate disse ai confratelli presenti: «Questa è grande penitenza. Sia riammesso».
Dopo qualche giorno, arrivò anche il secondo e suonò la campanella. Era fresco come una rosa, paffutello, felice e sereno, canticchiava con cuore allegro. Stupore e disprezzo nella comunità che lo accoglie. Il padre abate gli chiede: «Figlio mio, disgraziato, cosa hai fatto ancora di peggio? Come mai ti ritrovi qui e in questo stato?».
Il monaco raccontò il suo anno di penitenza, dicendo: «Padre abate, dopo lungo pellegrinare sono arrivato in un bosco da dove non passava nessuno; sono entrato in una capanna di fortuna, ho chiuso la porta, mi sono inginocchiato e ho pregato: “Signore, sono davanti a te e tu mi conosci più di quanto io conosca me stesso. Tu sai che ho peccato e non meriterei di essere considerato tuo figlio, ma so anche che sei un Dio pietoso e misericordioso, lento all’ira e grande nel perdono. Mi fido e mi affido alla tua parola e accolgo il tuo perdono come la festa più grande della mia esistenza. Per celebrare il tuo perdono e la tua infinita misericordia, trascorrerò tutto il tempo che mi resta a lodarti e ringraziarti, facendo festa e banchettando con tutto ciò che vorrai mandarmi”. Così ho fatto e ora sono qui a chiedere di essere riammesso nella comunità».
L’abate fece suonare le campane, radunò la comunità e disse: «Rallegratevi, fratelli! Oggi si è compiuto per noi un miracolo: questa non è solo grande, ma vera penitenza, perché c’è più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione. La vera penitenza è la gioia del perdono». Per suggellare il ritorno dei due fratelli diede ordine di fare un banchetto come si usa a pasqua.        (continua 18)

di Paolo Farinella

Paolo Farinella