Cana (9) Rahab anticipa il terzo giorno

Il racconto delle nozze di Cana (9)

Nel libro di Giosuè si narra la presa di Gerico da parte degli Israeliti con l’aiuto della prostituta Rahab che per prima capisce e accetta il disegno di Dio (Gs 2, 9-13).(1) Consapevole che è inutile combattere contro il Signore degli Israeliti, Rahab accetta di collaborare, in cambio della salvezza per sé e la sua famiglia, nascondendo le spie israelite in casa propria. Quando il re viene a sapere che alcune spie sono andate nella casa della prostituta, mette in moto la sua polizia per cercare gli intrusi e ucciderli. Rahab, incurante del pericolo e correndo il rischio di essere accusata di tradimento, fa fuggire le spie dalla finestra che si affaccia sulle mura della città e li manda  verso i monti per sfuggire gli inseguitori del re di Gerico, suggerendo loro di rimanere nascosti là tre giorni» (Gs 2, 16) fino alla fine del rastrellamento. Le spie israelite, si fidano di Rahàb, la prostituta, e le ubbidiscono:  «Se ne andarono e raggiunsero i monti. Vi rimasero tre giorni, finché non furono tornati gli inseguitori. Gli inseguitori li avevano cercati in ogni direzione, senza trovarli» (Gs 2, 22).
Questi i fatti. Nel testo di Giosuè è evidente che i «tre giorni» indicano un tempo di prova e vigilanza che sfociano nella liberazione, perché le spie possano tornare da Giosuè e informarlo sulle difese della città. (2) Il Midràsh Genesi Rabbà 56 – Midràsh Grande, uno dei più antichi, commentando Gen 22, 4 – «Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo» – così commenta:

«Il Santo, Benedetto sia! Non lascia i giusti nell’afflizione più di tre giorni come è detto. Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare, così che potremo vivere alla sua presenza (Os 6, 2); il terzo giorno degli antenati della tribù: e Giuseppe disse loro il terzo giorno: fate questo e vivrete (Gen 42, 18); il terzo giorno della Torah: appunto al terzo giorno sul far del mattino, vi furono tuoni (Es19, 16); il terzo giorno delle spie: e nascondetevi lì tre giorni (Gs 2, 16); il terzo giorno di Giona: Giona restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti (Gn 2, 1); il terzo giorno al ritorno dall’esilio: siamo arrivati a Gerusalemme e ci siamo riposati tre giorni (Esd 8, 36); il terzo giorno di Ester: il terzo giorno, quando ebbe finito di pregare, ella si tolse le vesti da schiava e si coprì di tutto il fasto del suo rango (Est 5, 1), cioè si coprì con tutto il fasto dei suoi antenati. Per i meriti di chi [la liberazione arriva il terzo giorno]? I rabbini dicono: “Per merito del terzo giorno in cui è stata data la Toràh”. R. Levi dice: “Per merito di ciò che ha fatto Abramo il terzo giorno, come è detto: Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo” (Gen 22,4)».

«Il terzo giorno» è il giorno della salvezza

Il Midràsh usa lo stesso metodo che abbiamo usato noi nella puntata precedente: mette insieme tutti i testi che parlano del terzo giorno e lega questa espressione ad una salvezza realizzata, dopo una attesa o un pericolo. Il Midràsh mette sullo stesso piano figure diverse, come Rahab, la prostituta, e Abramo, il patriarca fondatore, ambedue protagonisti e strumenti di salvezza per Israele. La prostituta che salva le spie di Israele è di fatto la prima profetessa che proclama la salvezza di Dio nella terra promessa, prima che gli Israeliti vi entrino come popolo e mentre, allo stesso tempo, ne prendono possesso simbolico con l’ingresso delle spie. Certamente Gesù, quando affermava: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31), aveva ben presente questo Midràsh di Rahab, che a quel tempo era solo orale.
È singolare che l’evangelista inizi il racconto di Cana con una precisazione di tempo così particolare, pre-cisa e posta al principio del racconto, in posizione d’onore, in primo piano, quasi a metterci sull’avviso che non si tratta soltanto di un «lasso di tempo» cronologico, ma di un evento di salvezza, che irrompe nella storia come la teofania di Dio irruppe sul Monte Sinai dove, attraverso il dono della Toràh, Dio diede coscienza agli schiavi fuggiti dall’Egitto di essere un popolo, e un popolo prediletto. Ora a Cana, nasce un nuovo popolo, non nel senso che soppianta Israele –  cosa impossibile –, ma nel senso che lo stesso Israele assiste all’arrivo dei tempi nuovi, i tempi del Messia che viene a portare a compimento la Toràh del Sinai, rinnovandola e lavandola nel vino del proprio sangue, cioè nell’offerta della propria vita. Le nozze, sì, sono pronte, ma non quelle di una anonima coppia, ma quelle di Dio con il suo popolo, le nozze tra il cielo e la terra.
La scala di Gesù, il nuovo Giacobbe

In questa direzione ci porta lo stesso autore del IV vangelo che prima di aprire il racconto di Cana, chiude il capitolo primo con l’allusione alla scala di Giacobbe: «In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo» (Gv 1, 51). Subito dopo questo versetto comincia il capitolo 2 con «Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea» (Gv 2, 1). Quale nesso vi è fra i due testi? Gli angeli che salgono e scendono è un evidente ed esplicito richiamo a Giacobbe che sogna una scala che unisce la terra al cielo (Gen 28, 10-17).
Con questo testo allusivo a Giacobbe, Giovanni riprende le tradizioni giudaiche che interpretavano la scala di Giacobbe come simbolo del monte Sinai, attraverso la quale salgono e scendono gli angeli che nella tradizione sono Mosè ed Aronne. Oppure la scala è simbolo del tempio di Gerusalemme e gli angeli sono i sacerdoti che salgono e scendono per il culto. Le due simbologie sono presenti nel IV vangelo: l’espressione «il terzo giorno» (Gv 2, 1) richiama il «terzo giorno»  del Sinai (cf Es 19, 11), come molto spesso abbiamo sottolineato. Immediatamente dopo il racconto di Cana, Giovanni riporta il fatto della purificazione del tempio (Gv 2, 13-22), dove Gesù scaccia i mercanti e restituisce al tempio la sua dignità di «casa del Padre». Non solo, ma subito dopo questo fatto, Giovanni riporta una disputa tra Gesù e i Giudei nella quale egli identifica il suo corpo con il tempio e ancora una volta si serve dello schema del «terzo giorno» per annunciare la sua risurrezione: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2, 19).
Per l’autore del IV vangelo, Gesù è il nuovo Giacobbe, il padre dei dodici figli che daranno origine alle do-dici tribù d’Israele. Egli come la scala del sogno del patriarca, unisce il cielo e la terra perché ora vediamo e sappiamo che «Il Lògos-carne fu fatto» (Gv 1, 14) ed è il tempio che rinnova e purifica il culto, sostituendo il sacrificio di animali con l’offerta della propria vita e realizzando la profezia del profeta Osea: «Poiché voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti» (Os 6, 6). Rivelando e manifestando a Cana che Dio è pronto nuovamente per le nozze con Israele e con la nuova umanità rappresentata dai dodici apostoli, Gesù pone le condizioni per una nuova storia di amore e di tenerezza, dove non prevarrà più la durezza del castigo, ma solo la dolcez-za della nuzialità che diventa così la cifra nuova dell’alleanza nell’umanità redenta.

«Il terzo giorno» porta due benedizioni

Il «terzo giorno» ha segnato l’inizio della coscienza di Israele come popolo, perché Dio si manifesta a Israele per dargli la Toràh (Es 19,10-11.16; cf Targum Gionata a Es 19, 24). Allo stesso modo i figli di Israele segnano l’inizio della vita della nuova coppia, celebrando il matrimonio «nel terzo giorno della settimana» e cioè il martedì, secondo il computo ebraico. Questa scelta è legata sia alla tradizione del Sinai, sia con il fatto che nel terzo giorno della creazione (cf Gen 1,9-13), Dio concede due benedizioni: alla creazione della terra e alla creazione dei frutti della terra. Il terzo giorno, giorno della doppia fecondità, è il più indicato per la celebrazione della fecondità dei figli d’Israele. La Legge e la Benedizione, la coscienza e la relazione sono i segni che svelano il volto di Dio nel volto dei suoi figli: come Dio si lega a Israele suo popolo nel «terzo giorno», allo stesso modo, «nel terzo giorno», i figli di Dio si legano tra di loro nella fecondità sponsale, che è la benedizione di Dio Padre e creatore riversata sul mondo presente e futuro. (9-continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (8) A CANA FINISCE LA VEDOVANZA DI GERUSALEMME

Il racconto delle nozze di Cana (8)

Più andiamo avanti nella presentazione del racconto dello «sposalizio di Cana» e più ci rendiamo conto che esso ha senso dentro il contesto del vangelo come anticipo della rivelazione «dell’ora della gloria», che coincide con la morte e la risurrezione del Signore. Nello stesso tempo, abbiamo coscienza che il racconto acquista un significato ancora più profondo all’interno del contesto remoto che comprende tutta la Scrittura, perché, come abbiamo anticipato diverse volte, il racconto di Cana ha il valore di «commento» all’evento del Sinai in prospettiva cristologica. In sostanza, l’autore ci dice che la chiave di comprensione (ermeneutica) dell’Esodo, cioè della salvezza che è entrata nella storia, è Gesù di Nazaret. Egli, infatti, si presenta come il discendente di Mosè, ma più grande di Mosè, perché compie ciò che a Mosè fu impossibile realizzare: fare entrare il popolo di Dio nella terra santa della promessa che egli annuncia e presenta come Regno di Dio.

Chi studia la parola espia i peccati
Il racconto di Cana e i temi in esso contenuti sono una rilettura cristologica delle tradizioni del Sinai, che l’autore descrive con i criteri dell’esegesi giudaica, secondo il metodo specifico che si chiama midràsh. Questa affermazione è importante perché colloca il vangelo di Giovanni nel contesto diretto del Giudaismo, che fu la culla del cristianesimo nascente. Noi siamo abituati a leggere e interpretare il vangelo con categorie quasi esclusivamente greco-romane e rischiamo di perdee l’anima stessa con il rischio di travisae il senso. Cercheremo di spiegare con semplicità in che modo il racconto di Cana sia un midràsh dell’Esodo e così offriremo uno strumento di rilet-tura del testo capace di andare ben oltre l’ovvio senso letterale che altrimenti, da solo, direbbe poco.
L’ebraicità di Gesù, degli apostoli e della Chiesa nascente appartiene al cuore della rivelazione del Nuovo Testamento e condiziona la nostra fede, in forza della quale noi stessi, credenti in Cristo, ebreo, figlio di ebrei, siamo discendenti di ebrei o, come affermava Pio XI, «spiritualmente semiti».
La banalità e la superficialità sono nemiche della verità evangelica e della dignità umana che indaga, cerca, trova e vive. Ogni volta che diciamo cose scontate o improvvisiamo i nostri commenti sulla Parola di Dio, diventiamo colpevoli di «lesa Parola» perché la riduciamo a favola o a racconto morale, trasformando spiegazioni ed omelie in pillole di ovvietà che pretendono avere una dignità edificante. Spesso gli annunciatori del vangelo mancano di vera «professionalità» e si riducono ad essere professionisti del banale, alimentando così l’ignoranza del popolo di Dio. Il quale popolo ha diritto ad avere invece il meglio degli studi esegetici, affinché il messaggio evangelico non si riduca ad una pia esortazione insipida, frutto magari di manie soggettive e di una dottrina moraleggiante che lascia il tempo che trova.
Già al tempo di Gesù i Rabbini insegnavano che lo studio della Toràh equivale al sacrificio offerto al tempio, ha, cioè, valore espiatorio. Oggi, noi diremmo che lo studio della Parola ha valore «sacramentale» ed è l’equivalente dell’Eucaristia. Questo insegnamento attraversa la storia di Israele e arriva fino a noi:
«Chi si dedica allo studio della Toràh, ovunque nel mondo [anche fuori Gerusalemme], è considerato da Me [il Signore] come se bruciasse offerte al mio Nome» (Rabbì Samuel bar Nahman a nome di R. Yonathan). «Chi dedica la notte allo studio della Toràh è considerato dalla Scrittura come se avesse partecipato al sacrificio del Tempio» (R. Yohanan) e un altro Rabbi, anonimo, commenta: «Senza il Tempio (= in diasporà?), come puoi ottenere l’espiazione dei peccati? Studia le parole della Toràh che sono paragonate ai sacrifici e così otterrai l’espiazione dei peccati per te». Il midràsh Sifre Deuteronomio 41, commentando Gen 2, 15 («Il Signore Dio prese Adam e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse») afferma: «Perché lo coltivasse» si riferisce allo studio della Toràh e «perché lo custodisse» si riferisce all’osservanza dei comandamenti [1].
L’interpretazione corrente delle nozze di Cana si è adagiata anonimamente sul versante sacramentale perché bisognava giustificare in che modo e in che senso il matrimonio cristiano era ed è sacramento. Quale risposta migliore delle nozze di Cana? Vi è lo sposalizio, vi è Gesù, vi è la Madonna, vi sono gli apostoli; la Chiesa intera è presente e tutto è pronto: la presenza di Gesù diventa la «garanzia» della sacralità del matrimonio.
La Madonna, poi, ha un posto ancora più privilegiato, perché è lei che intercede per il vino che viene a mancare e, come si è soliti dire, con la sua sensibilità di donna e di madre si è preoccupata perché gli sposini non facessero brutta figura. Che abisso! La rivisitazione in chiave cristologica dell’irruzione di Dio nella storia di Israele e dell’umanità, la teofania del Sinai riletta alla luce del Figlio di Dio, Gesù di Nazaret, è ridotta a semplice intervento di buon senso e di galateo perché una sposina assente e uno sposo distratto non facciano brutta figura. Veramente siamo colpevoli della scristianizzazione del nostro popolo. Come possiamo pretendere che il mondo creda se noi annunciamo un messaggio evangelico che il vangelo non ha?

Una simbologia corretta
Nel contesto messianico dell’alleanza, abbiamo scoperto che nulla è fuori posto o superfluo: la madre, i servi e le giare, oltre il loro senso immediato e ovvio, diventano simbolo dell’antica alleanza e rappresentanti del popolo d’Israele e dell’umanità, invitati a guardare a Gesù come Messia e salvatore. «È lui lo sposo! Corretegli in-contro!» (cf Mt 25, 6). Anche l’assenza della sposa e la presenza puramente coreografica dello sposo sono simbolo non già del matrimonio cristiano (e come potrebbero esserlo?), estraneo alla preoccupazione dell’evangelista, ma dello stato di Gerusalemme divenuta «come una vedova fra le nazioni», in cui «nessuno si reca più alle sue feste» perché «dalla figlia di Sion è scomparso ogni splendore» (Lam 1, 1.4.6).
La Madre, in rappresentanza dell’umanità-vedova, e il Figlio, nella sua veste nuziale di Sposo, garantiscono che è già giunto a noi «il principio dei segni» (Gv 1, 11), il tempo della «alleanza nuova», preconizzata dal profeta (Ger 31, 31). In altre parole, ora possiamo cominciare a vedere il volto di Dio, rivelato nell’uomo Gesù, che risplenderà nell’ora della morte, morte che a sua volta esprimerà l’ora della gloria: il mistero pasquale, «principio e fondamento» della vita credente, della fede accolta e della nuzialità che siamo chiamati a testimoniare nel mondo dove viviamo. Poiché le nostre forze non sono in grado da sole di comprendere e accogliere questo mistero, «lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza» (Rm 8, 26), sostenendoci nella ricerca, nello studio e nell’adorazione.

La ricerca esegetica e lo sviluppo del magistero
Aristide Serra, esegeta dell’ordine dei Servi di Maria, ha dedicato tutta la sua vita di studioso alla figura di Maria nella Scrittura e ha approfondito il brano delle nozze di Cana sotto ogni aspetto, tanto nella tradizione biblica cristiana, quanto in quella giudaica, aprendo prospettive inesplorate e straordinarie [2]. Seguendo la sua ricerca e prima di passare all’esegesi, parola per parola, vogliamo anticipare, anzi, desideriamo puntualizzare la matrice giudaica del racconto perché, quando lo commenteremo, possiamo gustarlo con grandi respiri e soddisfazione.
Facciamo anche riferimento ad un altro testo magisteriale, che riteniamo essere fondamentale. Nel 2001, la Pontificia commissione biblica, allora presieduta dal card. Joseph Ratzinger in qualità di Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, pubblicò un documento, «Il popolo Ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana» [3], della cui dirompenza solo gli specialisti si resero conto. Il documento, che è una mirabile sintesi degli ultimi quattro secoli di studi biblici, dedica un capitolo intero ai «Metodi esegetici giudaici usati nel Nuovo Testamento» (pp. 34-45), rendendo così ufficiale l’approccio alla Scrittura che noi sosteniamo da queste pagine ormai da diversi anni. Dopo la costituzione conciliare sulla Parola di Dio «Dei Verbum» del 1965 questo documento ufficiale della Chiesa è il secondo pilastro che non può essere disatteso da chi è responsabile della predicazione, della catechesi e della celebrazione eucaristica e/o sacramentale.

Dal Sinai a Cana e da Cana al Sinai
Abbiamo a più riprese accennato che il racconto delle nozze di Cana è un midràsh cristiano dell’evento del Sinai e, quindi, una spiegazione dell’Esodo alla luce della novità che è Cristo. Ne esaminiamo alcuni aspetti in modo organico, considerando ancora il racconto nel suo insieme. Questo metodo di prendere e lasciare, anticipare e sottolineare potrebbe disturbare chi è addentro alle questioni bibliche e che vorrebbe andare subito al sodo dell’esegesi, ma è necessario per coloro che sentono questo discorso per la prima volta. Bisogna procedere per gradi e salire la scala gradino dopo gradino, anche per abituare la ragione e il cuore ad assaporare, gustare senza ingolfarsi. È il metodo del «ruminare» la Parola affinché diventi sangue e vita.
Una rilettura giudaica dello sposalizio di Cana non è agevole per i nostri lettori che non sono abituati a considerare l’ebraicità di Gesù come condizione essenziale per comprendere lui come persona e per capire il senso autentico del suo messaggio. Per questo motivo dobbiamo essere molto schematici e chiari, a costo di essere ripetitivi. È meglio ripetere più volte lo stesso pensiero piuttosto che esprimerlo una sola volta malamente e in modo oscuro. Per capire il nesso stretto che c’è tra il racconto di Cana e la letteratura giudaica, è necessario fare un confronto tra ciò che accadde a Cana e ciò che accadde al Sinai, sottolineando fatti, idee e testi che aiutino a cogliere il legame stretto che c’è tra di essi. Il confronto tra Primo e Nuovo Patto passa attraverso il confronto Cana – Sinai, all’interno del quale troviamo diversi temi: il «terzo giorno» (che abbiamo già anticipato nelle puntate precedenti); le parole che la madre dice ai «diaconi»; il simbolismo del vino e l’allusione alla scala di Giacobbe (Gv 1, 51) che precede immediatamente il racconto delle nozze di Cana. Questi temi devono essere letti nel contesto della Bibbia, poi in quello della tradizione giudaica e infine nel contesto del vangelo che, a sua volta, vive e si sviluppa «dentro» una Chiesa che lo accoglie e lo consegna ai posteri.
(continua – 8)

Paolo Farinella

Note
1. Cf Urbach 627-628; 950, nota 402
2. Ci ispiriamo pertanto alla sua opera, che è una pietra miliare nella storia dell’esegesi, specialmente il poderoso Contributi dell’antica letteratura giudaica per l’esegesi di Gv 2,1-12 e 19,25-27, Edizioni Herder, Roma 1977, pp. 494.
3. Il popolo di Dio e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001, pp. 218.

Paolo Farinella




Cana (7) OTTO PERSONAGGI IN CERCA DI SIMBOLI

Il racconto delle nozze di Cana (7)

Nella puntata precedente abbiamo presentato il testo ufficiale del racconto delle nozze di Cana insieme a una nostra traduzione letterale e abbiamo iniziato a riflettere sul tema del «3° giorno», rimasto in sospeso per ragioni di spazio. Riprendiamo il tema perché è una delle chiavi per capire il racconto.

Il «terzo giorno»
Il terzo giorno è un tema che attraversa tutta la Scrittura1. Citiamo solo tre esempi: nel «terzo giorno» Abramo sacrificò Isacco (Gen 22,4), Giona fu salvato dal pesce (Gn 2,1-2) e la regina Ester si presentò ad Assuero per salvare il suo popolo (Est 4,16; 5,1).
Nel 538/9 a.C., con il ritorno dall’esilio concesso da Ciro il Grande, il sacerdote Esdra e il laico Neemia inaugurano il tempio ricostruito «nel terzo giorno» (Esd 6,16): probabilmente a questo testo si riferisce Gesù, quando scaccia i profanatori del tempio e dichiara: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere», parlando del tempio del suo corpo (Gv 2,19-21).
Per i profeti del sec. VIII a.C. «il terzo giorno» è giorno di risurrezione (Os 6,2), ma anche di condanna (Am 4,4) perché gli atei, che usano la religione per i loro interessi, trasformano il giorno del Signore in giorno di mercato, credendo di potere comprare Dio con offerte e sacrifici (cf Is 1,15.17).
Nel NT «terzo giorno» è espressione tecnica per indicare la risurrezione di Gesù (Mt 16,21; 17,23; 20,19; 27,19; Lc 9,22; 13,32; 18,33; 24,7,21,46; At 10,40; 1Cor 15,4). Secondo Rashì, acronimo di Rabbi Shlomo Yitzhaqi  (1040-1105), uno dei più famosi commentatori ebrei medievali della Bibbia, il «terzo giorno» coincideva con il primo giorno di Pesàh-Pasqua (cf Rav Shlomo Bekhor, Meghillà di Estèr, Milano 1996, 31, commento a 5,1, nota 1). Tale dato conferma anche la tradizione cristiana, che colloca la risurrezione nel «primo giorno della settimana» che è naturalmente la settimana della pasqua ebraica (cf Gv 21,1.19).
Questi riferimenti sono sufficienti per metterci sull’avviso che quando Gv usa l’espressione «il terzo giorno» per collocare lo sposalizio di Cana, è evidente che non si tratta di un dato «storico-cronologico», ma s’inserisce in una dinamica teologica e in una prospettiva biblica che dà la tonalità a tutto il brano: «il terzo giorno» è il giorno degli interventi di Dio, giorno di rivelazione.

Cana: un «midràsh» cristiano dell’esodo
Affermiamo con convinzione che il racconto di Cana è un «midràsh» cristiano del racconto dell’alleanza che inizia in Egitto e si conclude ai piedi del Sinai (Es 19). L’autore del IV vangelo si trova davanti al ciclo della liberazione dalla schiavitù, che va dai nove «segni», più la decima «piaga», inflitti al faraone, fino alla fuga di Israele dall’Egitto e al dono della Toràh. Di tutto questo ciclo l’evangelista assume due fatti e ad essi si riferisce con il racconto di Cana che diventa così un commento cristiano della storia dell’alleanza. I due fatti sono: il 1° «segno/piaga» che tramuta l’acqua del Nilo in sangue (Es 7,14-25); è evidente l’analogia con l’acqua mutata in vino. Il secondo fatto è la manifestazione di Dio sul Sinai che avviene «al terzo giorno» (Es 19,11), quando, dopo la purificazione d’Israele, avviene la consegna delle tavole di pietra (Es 19,1-25). Per confermare questa lettura ci vengono in aiuto ancora due elementi letterari.
Il primo riguarda il termine «segno» che Giovanni usa per definire quanto accade alle nozze di Cana: «Questo fu il principio dei segni compiuti da Gesù» (Gv 2,11); Giovanni infatti, non parla mai di miracolo, ma di «segno – sēmêion», usando il vocabolario della bibbia greca della Lxx che nel libro dell’esodo (cf Es 7,9; 11,1) descrive i primi nove interventi di Dio contro il faraone come «segni» (ebr.: mophèt; gr.: sēmêion).
Purtroppo le traduzioni superficiali volgarmente traducono con «piaghe» (ebr.: nega’; gr.: plēghê), termine che invece la Lxx usa soltanto per il decimo colpo, cioè la morte dei primogeniti. Il secondo motivo è interno al vangelo stesso: bisogna leggere il testo come è stato pensato dall’autore, che lo costruisce secondo un suo disegno, per dirci qual è l’elemento più importante di tutto il brano.

Dietro uno schema, un progetto
Il racconto delle nozze di Cana ha un andamento circolare, tecnicamente detto «a chiasmo» o «circolare» o a incrocio, perché il primo elemento corrisponde all’ultimo, il secondo al penultimo e via via fino al punto centrale di tutta la narrazione. Ecco lo schema.

A    2,1Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di  Galilea e vi era là la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze sia Gesù che i suoi discepoli.
B    3Essendo venuto a mancare il vino, la madre di Gesù dice a lui: «Non hanno vino».
C    4E Gesù le dice: «Che cosa a te e a me, donna? Non è ancora giunta la mia ora». 5Sua madre dice ai servitori/diaconi: «Fate quello che vi dirà».
D    6Vi erano poi là, collocate (per terra), sei giare di pietra, per la purificazione dei giudei, contenenti ciascuna due o tre barili (=da 80 a 120 litri ciascuna).
C’    7E Gesù dice loro: «Riempite d’acqua le giare»; e le riempirono fino all’orlo. 8E dice (=ordina) loro: «Ora cominciate ad attingere e continuate a portare al maestro di tavola». Ed essi cominciarono a portare. 9E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove (venisse), ma lo sapevano i servitori/diaconi che avevano attinto l’acqua, chiama lo sposo
B’    10e gli dice: «Tutti servono per primo il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato il vino buono (lett.: bello) fino ad ora».
A’    11Questo principio dei segni Gesù fece in Cana di Galilea e manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui.
Lo schema aveva prevalentemente lo scopo di facilitare l’apprendimento a memoria, ma è indubitabile che al tempo stesso propone una visione non solo letteraria, ma di contenuto. Se si osserva, infatti, la struttura, si vede che tutta la narrazione converge verso il punto «D» che parla delle sei giare «di pietra collocate per terra» pronte per la «purificazione dei giudei» (Gv 2,6). Il riferimento al libro dell’Esodo è esplicito: le giare sono di pietra come le tavole della legge sono di pietra; servono per la purificazione dei pii giudei, come i loro antenati ai piedi del Sinai dovettero purificarsi per due giorni e «al terzo» ricevere la dignità di popolo attraverso la Toràh, scritta sulla pietra. Da una parte il 1° segno che compie Mosè in terra di Egitto è la trasformazione dell’acqua del Nilo in sangue; il 1° «segno» che Gesù compie all’inizio della sua vita pubblica è la trasformazione dell’acqua delle giare per la purificazione nel vino dell’alleanza.  

Con Mosè e con Gesù
Se l’obiettivo dell’autore è di farci riflettere sulla liberazione d’Egitto e il ripristino dell’alleanza, non lo fa per farci fare un ripasso della storia antica, ma vuole guidarci a una interpretazione nuova della rivelazione del Sinai, attraverso una nuova visione e una chiave interpretativa.
Chi legge il racconto deve capire che si trova di fronte a un fatto straordinario di auto-rivelazione di Dio: Gesù è il nuovo Mosè di cui prende l’eredità, dando compimento alla profezia dello stesso Mosè: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me: lui ascolterete… e gli porrò in bocca le mie parole, ed egli dirà loro quanto io gli comanderò» (Dt 18,15-18). Il tempo di Gesù è il tempo del nuovo profeta che riprende la storia da dove l’aveva lasciata Mosè, per portarla al compimento, al traguardo del regno di Dio.
Se confrontiamo le due figure, Mosè e Gesù, vediamo una corrispondenza straordinaria che ci apre ancora di più una grande finestra sul racconto di Cana, letto alla luce di Es 19-24 che descrive la nascita di Israele come popolo perché riceve la coscienza della propria dignità con  il dono della Toràh sul monte Sinai. Tra la figura di Mosè mediatore di alleanza sul monte Sinai e Gesù, la nuova alleanza (cf Ger 31,31), vi sono almeno otto paralleli che sono sorprendenti:
– Es 19, 3.20: Dio convoca (ekàlesen/chiamò) Mosè montagna;
     + Gv 2,2: Gesù è invitato (eklêthē/fu chiamato) alle nozze.
– Es 19,25: Mosè scese (katèbē) dalla montagna (vv. 10.21.24);
     + Gv 2,12: Gesù, dopo le nozze, scese (katèbē) a Cafaao.
– Es 19,10: Mosè ordina al popolo di purificarsi/santificarsi
  (gr.: aghnìzō; ebr.: kadòsh) per due giorni;
     + Gv 2,6: Gesù fa riempire le sei giare di pietra pronte per
      la purificazione (katharismòn).
– Es 19,8: il popolo farà tutto quello che Yhwh ha detto;
    + Gv 2,5: i servi devono fare tutto quanto Gesù dirà loro3.
– Es 19,9: Dio si manifesta nella densità della nube
     + Gv 2,11: Gesù manifestò la sua gloria.
– Es 24,12: al Sinai Dio scrive la Toràh su tavole di pietre
  (cf anche Es 31,18; 34,1.4);
    + Gv 2,6: a Cana vi sono sei giare di pietre giacenti a terra.
– Es 19,9: scopo della rivelazione di Dio è pure credere a Mosè;
    + Gv 2,11: con la rivelazione della gloria di Gesù,
    i discepoli cominciano a credere in lui.
– Es 19,3.7.25: Mosè media tra Dio e il popolo.
     + Gv 2,1.3.5: La madre-Israele, Maria, media il dono della
     Nuova Alleanza: «Stava lì anche la madre di Gesù…
    la madre di Gesù gli dice… disse la madre ai servi/diaconi».

Toràh di pietra e Legge del Paràclito
Da questo confronto di testi, il parallelo che l’autore fa tra Gesù e Mosè è molto evidente e riguarda due prospettive che non sono in opposizione perché l’alleanza antica non è stata ripudiata. L’alleanza di Mosè è rimasta incompiuta; senza compimento, «giace per terra» come le giare e Gesù, il nuovo profeta del regno, è stato mandato «perché si adempisse» la scrittura o la parola dei profeti (Gv 12,38; 17,12; 19,28.36; cf anche Mt 1,22; 2,15.23; 4,14; 12,17; 13,35; 21,4): egli manifesta i «segni» di una nuova èra. Come si vede il parallelo non è solo esteriore, ma sui comportamenti e anche sul vocabolario, come se da parte dell’autore del vangelo vi fosse una ricerca puntuale per usare il linguaggio della bibbia greca che utilizzavano i primi cristiani, la Lxx.
Il successore di Mosè è anche più grande e prima di lui: «La Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,17-18); egli, infatti, che è il Lògos, porta non più la Legge scritta sulla pietra, ma la sua presenza stessa come garanzia del «principio dei segni» dei tempi nuovi. La sua umanità è la tavola di carne dove ora è scritta la Toràh dello Spirito, il Paràclito che insegnerà tutto quello che Gesù ha insegnato (Gv 14,26).
Anticipando i tempi, rileviamo che quando giungerà la «sua ora», dal monte Calvario non scenderà più un profeta con due tavole di pietra, ma dal monte della Croce, dove brilla di gloria il fallimento di Dio, scenderà il dono dello Spirito Santo su Maria e il discepolo, novelli Eva e Adam, in rappresentanza della nuova umanità: «E, chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).
Le nozze di Cana non possono essere lette come racconto autonomo, perché non hanno senso, ma devono essere proiettate nel contesto dell’«ora» di Gesù: «Donna… non è ancora giunta la mia ora» (Gv 2,4); tale contesto ci obbliga a percorrere tutto il cammino di Gesù fino alla fine: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo» (Gv 17,1). Le nozze di Cana sono il «segno» che anticipano «l’ora di Dio»: la morte e la risurrezione. Sono solo un segnale stradale che indicano la direzione di marcia verso «l’ora della gloria», quando tutto si compirà: l’alleanza nella morte e nella risurrezione di Gesù.

Otto invitati eccellenti alle nozze
Dopo tutto quello che abbiamo detto sin qui, acquistano un’importanza capitale i personaggi che popolano il racconto, inserito da Gv all’inizio del suo vangelo, non per parlarci di un banale matrimonio, ma della prospettiva della salvezza della storia. Lo sposalizio è solo un accidente, un espediente, una banale occasione per portarci ad altezze più vertiginose e più ardite. All’interno di questa logica e di questo contesto, vediamo allora chi sono i personaggi che Giovanni evoca per noi e quale è la loro importanza.

a) La sposa e la madre/donna
Il primo personaggio vistosamente assente è la sposa che in un matrimonio è il fulcro della festa: tutto ruota intorno a lei, dalle trattative alla festa nuziale. Sappiamo che c’è uno sposalizio, ma lo vediamo solo come coice esteriore, eppure tutta la tradizione biblica descrive l’alleanza come uno sposalizio tra Dio e il suo popolo Israele descritto come una sposa (Is 1,21; 62,5; 62,5; Ger 2,32; 3.1; Ez 16; 23; Os 1-3, ecc.).
L’assenza della sposa è sostituita, e siamo al secondo personaggio, dalla madre/donna che il testo cita come prima invitata in assoluto fin dal primo versetto: «Vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù» (Gv 2,1). La presenza della madre è importante sia perché sostituendo la sposa assente annuncia che Israele è orfano e abbandonato, sia perché somiglia più a una vedova che simboleggia in senso profetico Rachele che piange i suoi figli dispersi in Egitto (cf Ger 31,15; Mt 2,18), dove sono senza vino, cioè senza alleanza, senza Dio.

b) Gesù e gli apostoli in cerca dell’«ora»
Il terzo personaggio è Gesù, che appare distratto e disinteressato, perché lui non fa miracoli da giocoliere (cf Lc 23,8-9), ma annuncia la volontà del Padre che vuole tutti gli uomini salvi (1Tm 2,4).
Il quarto personaggio sono gli apostoli, presenti pare solo come ospiti di Gesù, che non intervengono affatto: la loro presenza però è importante come simbolismo di tutti i credenti chiamati a scoprire non il Gesù del miracolistico, ma il Gesù della fede, «cominciando a credere» per scoprirlo lentamente.
Anche noi, cominceremo a credere e ad intraprendere il nuovo cammino verso il monte Sion del regno finale.
Gesù sa che la sua presenza alla festa nuziale ha un valore simbolico: egli è lo sposo che viene per «acquistare» (etimologia di Cana) con la sua vita la sposa Israele: l’«ora» che ancora non è giunta (Gv 2,4) è l’ora della sua morte, cioè del dono del suo amore. Nonostante questa coscienza, egli non precipita le cose, ma segue gli eventi leggendoli nell’ottica di Dio e secondo la sua volontà di liberazione.

c) Il vino dell’alleanza e la cantina del Sinai
Il quinto personaggio è il «vino», che è il segno messianico per eccellenza. Il midràsh ebraico (Cantico Rabbà 2,4) equipara la Toràh, cioè la parola di Dio, al vino e il monte Sinai è descritto come la cantina dove Dio, prima ancora della creazione del mondo, ha conservato il vino-Toràh per la festa delle nozze messianiche: «Il Sinai è la cantina dove fin dalla creazione del mondo è stato tenuto in serbo per Israele il vino delizioso della Toràh: Disse l’Assemblea d’Israele: Il Santo – benedetto egli sia – mi ha condotto alla grande cantina del vino, cioè al Sinai» (Ct R 2,12; cf Nm R 2,3; Pr 9,5).
In Gv 2,10 vi è un accenno a questa cantina, quando il maestro di tavola rimprovera lo sposo di avere conservato il vino eccellente fino ad ora («tu hai conservato il vino buono [=bello] fino ad ora – sý tetêrekas tòn kalòn òinon hèōs àrti»).

d) Le giare di pietra e i cieli del futuro
Il sesto personaggio importante, chiave di volta di tutto il racconto, sono le «giare di pietra», simbolo della durezza e freddezza del cuore d’Israele che ha travisato l’alleanza, allontanandosi da Dio, come afferma il profeta: «Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ez 36,26).
Anche l’apostolo Paolo è sulla stessa linea: il vangelo della nuova alleanza che genera nuovi figli è «scritta non con inchiostro, ma con lo spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole di cuori umani [=di carne] (2Cor 3,3).
Il settimo personaggio sono i servi, che l’autore chiama «diaconi», simbolo di un servizio liturgico nel nuovo tempio dell’umanità di Gesù.
L’ottavo personaggio sono lo sposo e il responsabile della festa, «l’arcitriclìno», che hanno confuso il vecchio col nuovo, andando a nozze e preparando la festa senza accorgersi dei «cieli nuovi e delle terre nuove» (Is 65,17; 66,22; 2Cor 5,17).   (continua – 7)

Di Paolo Farinella

Note
1 – LXX: 27x (cf. Gen 22,4; 34,25; 40,20; 42,18; Es 19,16, Lv 7,18; 19,7; Nm 7,24; 19,12.24; 29,20; 31,19; Gdc 20,30; 1Re 30,1; 2Re 1,2; 3Re 3,18; 12,12.24; 3Re 20,5.8; 2 Cr 10,12; Est 5,1; 1Mac 11,18; Os 6,2 parla espressamente di risurrezione e salvezza) e 2x si trova l’altra forma attributiva, più elegante, con un solo articolo: «tēi tritēi hēmerai» (Gen 31,22; 40,20).
2 – Sulla descrizione fantasiosa, ma suggestiva, di Giona nel ventre del pesce, cf. Meir Gentili – Rav Shlomo Bekhor, Il libro di Giona, Milano 1996, 43 (commento a Gn 2,1 nota 1).
3 – In Es 19,8, il popolo si impegna prima a fare e solo dopo ad ascoltare tutto quanto Yhwh ordinerà (pànta hòsa èipen hò theòs poiêsomen kài akousòmetha) esattamente come in Gv 2,5 dove la madre ordina ai servi di «fare quello che vi dirà (hò àn lèghēi hymîn poiêsate) e i servi eseguono prontamente.
Un altro sottofondo biblico può essere illuminante a riguardo perché si inserisce sempre nel tempo della schiavitù come sottofondo e riferimento: Gen 41,55 quando il faraone invia da Giuseppe il popolo affamato, dicendo loro: «Tutto quanto egli vi dirà fate(lo)». Gesù è il nuovo Giuseppe che pone fine alla carestia ricomponendo la famiglia dispersa di Israele.

Paolo Farinella




Cana (6) A Cana manca la sposa, ma c’è la donna (la «Madre»)

Il racconto delle nozze di Cana (6)

D opo la lunga, eppure incompleta introduzione sul quarto vangelo e alcuni problemi che esso suscita ancora negli studiosi, passiamo al testo del racconto. I nostri lettori comprendono bene che la povera introduzione per quanto possa apparire ampia nel contesto di una rivista come Missioni Consolata, è del tutto insufficiente a delineare la problematica che ruota attorno all’«enigma del quarto vangelo». È appena sufficiente, però, se ci aiuta a capire che mai dobbiamo leggere i vangeli con superficialità, perché essi sono come un iceberg: ciò che vediamo è solo la punta, mentre la massa enorme che la regge, è tutta nascosta sotto l’acqua. Bisogna scendere in profondità se vogliamo scoprire i mille significati che la Parola di Dio porta in sé come una donna incinta pronta a dare la Vita.
Riportiamo il testo delle nozze di Cana (Gv 2,1-11) secondo l’ultima edizione della Bibbia Cei (2008), messa a confronto con una nostra traduzione dal testo greco:

Il testo

Traduzione Cei (2008)
2,1Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù.
2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli.
3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino».
4E Gesù rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora».
5Sua madre disse ai servi: «Fate quello che vi dirà».
6Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei giudei, contenenti ciascuna due o tre barili (= da 80 a 120 litri ciascuna).
7E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le giare»; e le riempirono fino all’orlo.
8Disse loro (di nuovo): «Ora attingete e portatene al maestro di tavola». Ed essi gliene portarono.
9E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo
10e gli disse: «Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono».
11Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli (lett.: Gesù operò questo principio dei segni) in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
Traduzione letterale
2,1Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e vi era là la madre di Gesù.
2Fu invitato alle nozze sia Gesù che i suoi discepoli.
3Essendo venuto a mancare il vino, la madre di Gesù dice a lui: «Non hanno vino».
4E Gesù le dice: «Che cosa a te e a me, donna? Non è ancora giunta la mia ora».
5Sua madre dice ai servitori/diaconi: «Fate quello che vi dirà».
6Vi erano poi  là, collocate (per terra), sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili.
7E Gesù dice loro: «Riempite d’acqua le giare»; e le riempirono fino all’orlo.
8E dice (= ordinò) loro: «Ora cominciate ad attingere e continuate a portare al maestro di tavola». Ed essi cominciarono a portare.
9E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove (venisse), ma lo sapevano i servitori/diaconi che avevano attinto l’acqua, chiama lo sposo
10e gli dice: «Tutti servono per primo il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato il vino buono (lett.: bello) fino ad ora».
11Questo principio dei segni Gesù fece in Cana di Galilea e manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui.
12 Dopo questo fatto, discese a Cafàao lui insieme con sua madre, i (suoi) fratelli e i suoi discepoli e si fermarono là solo non molti giorni.

Una gemma nel NT
In greco il brano si compone di 185 parole nei primi 11 versetti; 209 se si considera il versetto 12 come parte integrante del racconto, passaggio di transizione. Una manciata di parole che formano un capolavoro letterario, ma anche una gemma in tutto il NT: il racconto di Cana infatti è esclusivo di Giovanni. L’autore narra un quasi ordinario della vita di tutti i giorni: anche al tempo di Gesù i matrimoni erano all’ordine del giorno.
Qui però, l’autore riferisce di una festa di nozze non per celebrare il valore del matrimonio, ma per annunciare che la nuova alleanza, portata da Gesù di Nazaret, è una realtà sponsale e realizza la nuzialità descritta nell’AT (Toràh e Profeti) e mai compiuta adeguatamente per l’infedeltà di Israele/sposa (ripudiata con l’esilio).
Al tempo di Gesù, il matrimonio era un evento civile e si svolgeva nelle case con un contratto tra le due famiglie dei nubendi, consacrato dallo scambio della dote. In una società teocratica tutto ciò che accadeva avveniva all’insegna del senso religioso della vita e della società. La presenza di Gesù alle nozze di Cana non santifica alcun matrimonio, ma assume su di sé la dimensione sponsale della storia di Israele e dell’alleanza per annunciarla con maggiore forza e trasparenza.
Giovanni Battista lo aveva già indicato come «colui che viene dopo di me» (Gv 1,15.27.30) che nel linguaggio del tempo indica «lo sposo» il cui arrivo è preceduto dall’amico dello sposo (cf Gv 3,39). Gesù viene per rinnovare l’alleanza a lungo tradita e realizzare l’anelito del profeta Geremia: «Ecco verranno giorni… nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova (ebr.: berît chadashàh; gr.: diathêkēn kainên») (Ger 31,31). Ora nella persona di Gesù, è Dio stesso che assume in sé il progetto della nuzialità e se ne fa garante nell’umanità del Figlio come prospettiva del Regno.

Un fatto, anzi di più: un simbolo
Come si vede dalla traduzione letterale, il racconto abbonda in greco di verbi al presente indicativo, chiamato «presente storico», invece del «passato remoto», tipico della narrazione storica, per dare al racconto vivacità e contemporaneità agli occhi di chi legge. In questo metodo il lettore si sente portato di peso «dentro» il racconto e ne diventa parte integrante. L’edizione della Cei traduce, di regola, con il passato remoto, rendendo così il testo neutro davanti al lettore. Nel brano vi è un continuo passaggio  tra gli 8 verbi al «passato remoto» (in greco chiamato «tempo aoristo») e i 7 verbi che invece sono al «presente indicativo» (chiamato «presente storico» proprio perché prende il posto del «passato remoto/aoristo»). In mezzo vi sono altri verbi secondari (ad es. l’imperfetto) che hanno una funzione di sfondo per chiarire le circostanze e aggiungere elementi di contorno.
Interessante, da questo punto di vista il v. 8 dove secondo la versione ufficiale Gesù ordina ai servitori/diaconi: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola. Ed essi gliene portarono». Detto così nessun problema perché è la relazione di una cronaca. Eppure nel testo greco l’autore ragiona in un altro modo attraverso l’uso sapiente dei verbi che possono essere tradotti così: «E dice loro: “Ora cominciate ad attingere e continuate a portare al maestro di tavola”. Ed essi cominciarono a portare».
Nella nostra traduzione mettiamo in evidenza l’intenzione dell’autore che usa un tempo (per noi è il passato remoto, per i greci è l’aoristo) che ha qui un valore «ingressivo», perché descrive un’azione nel suo nascere, nella fase iniziale: «cominciate ad attingere», mentre l’imperativo seguente ha un valore «durativo e continuativo», senza interruzione: «continuate a portare» perché il vino della nuova alleanza non si esaurirà più.
Possono sembrare osservazioni di lana caprina, ma non lo sono: si tratta del «senso della Parola di Dio». Una cosa è «attingete e portatene» e un’altra cosa è «cominciate ad attingere e continuate a portare». A noi pare che in questo modo l’autore voglia sottolineare una pregnanza teologica di altissimo livello: le nuove nozze dell’alleanza, che si realizzano con la presenza di Gesù, cominciano ora (cominciate ad attingere) e non finiranno mai (continuate a portare): inizia una nuova èra che non avrà mai fine.
Sullo stesso piano sta un’altra osservazione: per 6 volte si trova il verbo «dice», al presente, come se le parole di Gesù, i suoi gesti e gli eventi che lo circondano fossero qui davanti a noi che leggiamo: egli parla e agisce «adesso» [= dice], non ieri o l’altro ieri [= disse].
Oltre le apparenze, il livello profondo
Non si tratta solo di un espediente narrativo per rendere più partecipe il racconto, ma noi vogliamo credere che si voglia affermare anche l’attualità della Parola di Dio che resta «presente in modo continuativo» nella nostra storia e nella nostra vita. La Parola di Dio non è un resoconto storico del passato, ma la Vita che è qui, adesso.
Le nozze di Cana non sono un racconto banale chiuso nel passato della vita terrena di Gesù, ma l’occasione propizia (kairòs) qui e adesso per chiunque si lascia interpellare dall’annuncio della nuova alleanza che non è per l’Israele antico, ma è per l’Israele di oggi e di domani che siamo noi. Dio in Gesù si fa nostro contemporaneo e quelle parole dette oltre due mila anni fa, ora, adesso e qui, diventano Parola di salvezza per ciascuno di noi. Ora Gesù «dice»; ora noi ascoltiamo ciò che egli «dice».
Diamo subito alcune informazioni di contorno che ci permettono di semplificare il commento che faremo.
Nel racconto delle nozze di Cana ci troviamo di fronte a due livelli di lettura: quello materiale e quello più profondo che dobbiamo scoprire oltre le parole ovvie. Il primo livello è presto liquidato, perché si tratta di uno sposalizio come tanti, a cui viene invitato Gesù, i suoi discepoli e sua madre. Il testo non dice il motivo di questo invito: se fu per ragioni di parentela o perché la fama del giovane rabbi Gesù era ormai diffusa e la sua presenza avrebbe dato onore e lustro ai partecipanti e a tutto il villaggio.
Al tempo di Gesù il matrimonio si svolgeva sempre di martedì, perché, secondo la Mishnàh (Kethuboth 1; per la datazione e interpretazioni, cf Brown, Giovanni, vol 1,125-126), il matrimonio deve essere celebrato «il terzo giorno» dopo il sabato, per tre motivi, dei quali diamo alcune informazioni estee; nella prossima puntata affronteremo in modo dettagliato la questione del «terzo giorno».

Tre motivi per «il terzo giorno»
I primi due motivi per la scelta del «martedì» come giorno del matrimonio sono di natura teologico-salvifica, mentre il terzo, di origine post-esilica, ha solo una valenza pratica legata alle usanze del tempo di Gesù.

a) La doppia fecondità del terzo giorno della creazione
Nel racconto della creazione, redatto dal circolo dei sacerdoti nel sec. V a.C., dopo la luce, creata nel 1° giorno (Gen 1,3-5) e il firmamento, disteso nel 2° giorno (Gen 1,6-8), nel 3° giorno Dio pone mano a due nuove realtà: terra ferma e germogli che producono semi e alberi da frutto (Gen 1, 9-13). In questo 3° giorno, fatto unico in tutto il racconto, per due volte dice il testo che «Dio vide che era cosa buona» (Gen 1.10.12). Questa affermazione non è solo una constatazione, ma anche un giudizio di valore: si tratta di due approvazioni da parte di Dio.
In altri termini le due affermazioni corrispondono a due benedizioni: alla terra madre creata e ai germogli che la fecondano. La tradizione giudaica stabilì quindi il matrimonio al terzo giorno dopo il sabato per affermare che il matrimonio è sotto la protezione della duplice benedizione di Dio creatore che custodisce la sposa come «vite feconda» (Sal 128/127,3). Il giorno della doppia fecondità della creazione, è il giorno più adatto per celebrare la fecondità dei figli d’Israele.

b) La Toràh è pronta per il terzo giorno
Il secondo motivo per celebrare il matrimonio il terzo giorno sta nel fatto di commemorare la manifestazione del Signore ai figli d’Israele sul Sinai per dare loro la Legge, come è scritto: «Va’ dal popolo e santificalo oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo» (Es 19,10-11.16).
Ai piedi del Sinai, nel terzo giorno Yhwh si è comportato come uno sposo, perché ha acquistato il popolo d’Israele (Es 15,16) come sua sposa, legandosi irreversibilmente attraverso la dote della Toràh. Celebrare il matrimonio il terzo giorno dopo il sabato per Israele ha il significato di «imitare Dio» perché tutti i figli di Israele acquistano una sposa per una discendenza alla promessa di Abramo (cf Manns, Il Giudaismo 85; Jésus 72).
Non è un caso che le nozze sono collocate in un villaggio di nome «Cana», della cui identificazione geografica abbiamo già parlato, trattando della localizzazione del villaggio: Khirbet Qana (Altura di Qana), località probabile, oppure Kefer Kenna (villaggio di Kenna), dove attualmente vanno i pellegrini (cf MC 3/2009). Qui c’interessa sottolineare che in ebraico «Cana/Qana/Kana» deriva dal verbo «qanàh» e significa «acquistare/comprare/creare». Già nel nome del villaggio c’è il segreto del messaggio che Paolo espliciterà in modo formale nella lettera ai Corinzi: «Siete stati comprati a caro prezzo» (1Cor 6,20; 7,23). Gesù viene per prendere possesso d’Israele proprietà di Dio, popolo che egli ha acquistato (Es 15,16).

c) La verifica della verginità in tribunale
La scelta del martedì (3°giorno dopo il sabato) come giorno del matrimonio era determinato da un altro motivo di ordine pratico. Il tribunale infatti si riuniva il giorno dopo, cioè il mercoledì, per cui era possibile accedervi subito dopo la prima notte di nozze, in caso che la sposa non fosse stata trovata vergine (cf. Manns, Il Giudaismo 85).
La prima notte di nozze era sempre sotto i riflettori delle due famiglie interessate che erano in agguato di mostrare in pubblico «i segni» della verginità della sposa. Di norma si esponevano in pubblico le lenzuola macchiate di sangue. In caso di contestazione il matrimonio doveva essere subito sciolto e per questo occorreva la possibilità di accedere al tribunale rabbinico, l’unico che poteva dichiarare invalide le nozze. Questa usanza ai nostri occhi è di natura barbara e violenta perché considera la donna come una proprietà «materiale» dell’uomo.
Il riscatto delle donne, apostole degli apostoli
La religione ha molte responsabilità nell’avere indotto una mentalità maschilista che ha sempre visto nella donna il pericolo, il male se non il diavolo in persona; salvo però servirsi della donna a piacimento per i propri ca-pricci e in funzione dei propri istinti. Se da una parte la scelta del «terzo giorno» per celebrare il matrimonio ha un valore simbolico altissimo, perché rappresenta sulla terra l’azione creatrice di Dio che si conclude con «due benedizioni» e afferma quindi la fecondità infinita dell’alleanza, dall’altra parte scegliere il terzo giorno in vista di potere accedere al tribunale, riduce il matrimonio a un rapporto di forza, un contratto mercantile: è la donna che deve dimostrare di essere «vergine», non l’uomo che invece può frequentare le prostitute senza dovere rendere conto a nessuno (cf Gen 38,14-18; Gdc 16,1).
Nella mentalità religiosa del tempo, la donna è colpevole per avere sedotto l’uomo fin dai tempi primordiali e questo la rende inferiore, non-persona, senza diritti, incapace giuridicamente di testimoniare in tribunale: essa è mera proprietà dell’uomo come stabilisce il comandamento: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es 20,17).
Gesù romperà questa perversa mentalità e affermerà il diritto della donna di essere «figlia di Abramo» sullo stesso piano degli uomini (Lc 13,16). Alle donne, anzi, affiderà il primo annuncio della sua risurrezione, trasformandole in apostole degli apostoli e testimoni necessarie della sua risurrezione (cf Gv 20,1-18). Nelle nozze di Cana, come vedremo, una dei protagonisti è una donna, «la Madre», che determina gli sviluppi degli eventi e svolge un ruolo significativo di rappresentanza.
Come è strano questo matrimonio! Manca la sposa che non è nemmeno nominata e domina «la Madre» di Gesù, donna che assume su di sé le attese e i travagli del suo popolo Israele per accompagnarlo a varcare la soglia della nuova alleanza. È interessante sottolineare, come faremo a suo tempo, che l’evangelista mette sullo stesso piano «la Madre di Gesù» (v. 1) e le «giare di pietra» (v. 6).
Per tutte e due si usa il tempo imperfetto del verbo essere, tempo secondario che spiega le circostanze di contorno, e per tutte e due usa l’avverbio di luogo «ekèi – là». La corrispondenza non è casuale né occasionale: «Vi era là la madre di Gesù», che corrisponde a «vi erano poi là, sei giare di pietra» e che simboleggiano tutta l’economia dell’antica alleanza; Maria in rappresentanza del suo popolo e le giare per la purificazione dei giudei in rappresentanza della Toràh.
La prospettiva dunque dell’evangelista non si esaurisce nell’angusto confine di uno sposalizio, ma valica i confini di Cana per stagliarsi su tutta la storia della salvezza, specie dell’esodo, di cui il racconto delle nozze di Cana è una ripresa nella forma di un midràsh cristiano. Di questo parleremo la prossima volta.  

di Paolo Farinella

(continua – 6)

Paolo Farinella




Cana (5) Un vangelo, moltissime prospettive: dall’ora alla gloria

Il racconto delle nozze di Cana (5)

Facciamo ancora un passo avanti per raggiungere l’obiettivo che ci siamo dati con la rubrica della nostra rivista «Così sta scritto», e cioè aiutare i lettori a vincere l’approccio superficiale alla Bibbia con un’attenzione più rispettosa del testo che per noi è Parola di Dio.
Ogni volta che prendiamo in mano la Bibbia dobbiamo avere lo stesso atteggiamento e la stessa sensazione che ebbe Mosè quando vide il roveto di fuoco e scoprì di trovarsi davanti a Dio: si tolse i calzari, abbassò la testa fino a terra e stette in adorazione (Es 3,1-6). Noi invece siamo stati abituati a leggere la Bibbia come un libro di racconti edificanti o come un codice etico, da cui prendere quello che serve all’occasione, perdendo di vista la visione globale del disegno di Dio che la Bibbia descrive: un progetto di alleanza inserito nella storia dell’umanità.
Ne deriva che la Bibbia è una prospettiva di vita e bisogna impararla frequentandola assiduamente e mettendo in connessione tra loro fatti, eventi e parole per potee cogliere la portata unitaria. Nessun fatto narrato nel vangelo o in qualsiasi altra parte della Bibbia può essere preso da solo e staccato dal suo contesto naturale, perché significa sfalsae il senso: vale per le nozze di Cana, le parabole o i miracoli.

In ginocchio davanti al trono della Gloria
Alla luce di quanto appena detto, foiamo di seguito una visione d’insieme dello schema di tutto il vangelo di Giovanni, che ci serve anche come consultazione quando vogliamo leggee un brano o un passo: vedere dove è collocato, quale posto occupa all’interno del progetto dell’autore. In questo modo capiremo meglio e più profondamente. Forse all’inizio ci costerà un po’ di fatica, ma siamo sicuri che i lettori conoscono il proverbio «non c’è rosa senza spine».
Sul IV vangelo sono state fatte molte proposte di divisione e di strutture, segno della complessità e forse anche dell’irriducibilità del testo: possiamo sfiorarlo, ma non possederlo, possiamo intuirlo, ma non dominarlo perché la Parola di Dio è, sì, scritta con parole dell’uomo che usa le regole delle grammatiche delle lingue umane, ma è anche la Parola di Dio che emerge dal limite in tutto il suo splendore superandoci in sovrabbondanza.
Gli stessi disaccordi tra gli studiosi non sono alternativi, ma angolature diverse, di cui ognuno coglie un aspetto che non necessariamente nega gli altri, ma semmai si integra con essi che espongono altri punti di vista. Di fronte alla Parola di Dio bisogna essere «umili» e bisogna stare anche «in ginocchio» perché essa è il trono della gloria del Lògos che diventa fragilità per mettersi al nostro livello: «E il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14).

a)  Cana punto di arrivo e punto di partenza
Tra tutte le proposte di divisione del vangelo di Gv, ci sembra più interessante quella dello studioso Frédéric Manns (cf bibliografia della 1a puntata: L’Évangile 12-17), specialista del vangelo di Gv e di letteratura giudaica che insegna a Gerusalemme allo Studium Biblicum Franciscanum. La particolarità della sua proposta (e di tutta la sua impostazione esegetica) sta nel fatto che egli, più di ogni altro, mette in rapporto il IV vangelo con la letteratura giudaica e i testi di Qumran, con l’obiettivo espresso di ricercare il sottofondo originario della predicazione di Gesù e della presentazione che ne fa l’autore del vangelo.
È vero: poiché noi non conosciamo il giudaismo, non capiamo il 90% del significato del vangelo. Lo schema sintetico del IV vangelo, suggerito da Frédéric Manns, che riportiamo sotto, ci aiuta a rilevare subito che il racconto delle nozze di Cana non è un masso erratico, ma è inserito dentro una visione teologica che ha come epicentro geografico la cittadina di Cana dove Gesù compie «due segni»: uno rivolto ai Giudei con le nozze di Cana (Gv 4,1-12) e l’altro rivolto ai Pagani con la guarigione del figlio del funzionario regio (Gv 4,43-51).

b) Da Cana a Cana: due rivelazioni di una sola Gloria
A Cana quindi avvengono due rivelazioni che riguardano il mondo intero: i giudei e i pagani, i credenti e i non credenti, il mondo biblico e il mondo estraneo alla Bibbia. Questi due segni sottolineano già nel loro stesso annuncio, l’universalità del messaggio di Gesù che l’evangelista mette in evidenza, perché la rivelazione del monte Sion fu riservata al solo popolo ebraico, mentre ora, nell’èra messianica, Dio parla al mondo intero, senza più distinzione di popolo, lingue, tribù e nazioni (cf Ap 7,9). Troviamo pertanto qui un primo velato accenno all’alleanza del monte Sinai che svilupperemo più avanti perché intimamente connesso con il racconto delle nozze di Cana.
I due segni di Cana (nozze e guarigione) sono in relazione tra loro e non solo perché avvengono nello stesso luogo, ma perché è lo stesso autore che li collega anche dal punto di vista letterario. Infatti se guardiamo lo schema, nella sezione «2,1-4,59: I primi due segni ovvero da Cana a Cana», vediamo subito un procedimento circolare o come si suole dire a «chiasmo», cioè a incrocio, dove al 1° punto corrisponde l’ultimo, al 2° il penultimo, al 3° il terzultimo e via di seguito fino a un incrocio che costituisce la parte centrale comune.

Da Cana al monte Sinai
Il punto centrale della sezione che comprende i «due segni di Cana» è un duplice dialogo: il primo quello con Nicodemo riguarda la nuova nascita nello Spirito, mentre il secondo comprende quello di Giovanni Battista con i discepoli sulla identità del Cristo, quasi a dire che per conoscere il Cristo e incontrarlo è necessario «rinascere dallo Spirito Santo». Non basta fare una passeggiata per andare a trovare Gesù, bisogna stare dalla parte dello Spirito, cioè dall’alto, per potere diventare discepoli del messia (cf Gv 3,3).
I due segni di Cana sono una forma di preparazione perché pongono le condizioni per accedere alla nuova rivelazione. Sul monte Sinai Dio rivelò il suo «Nome, Yhwh» e lo affidò a Israele perché lo custodisse e lo testimoniasse nel mondo. A Cana Gesù manifesta la sua gloria, rivelandosi a Israele e a tutte le genti, per riproporre all’umanità il disegno originario della creazione: una sola famiglia, un solo popolo, un solo Dio creatore.
Il racconto delle nozze, cioè il 1° segno di Cana, è dunque il punto di partenza di questo nuovo processo di rinnovamento della creazione intera, mentre la guarigione dalla morte del figlio del funzionario pagano, cioè il 2° segno di Cana, è il punto di arrivo: nelle nozze di Cana si riprende il tema del Monte Sinai, che fonda l’identità attraverso la Legge (le regole), mentre nel segno della guarigione, troviamo il germe della nuova creazione e della nuova vita che risorge, nonostante Adamo: se il peccato di Adam consistette nel rifiutare di somigliare al Lògos, cioè al Figlio, ora il Figlio, il nuovo Adam, accetta di riflettere in sé il volto del Padre e di essergli obbediente, anche fino alla morte, anche oltre la morte (cf Fil 2,8-11).
Di seguito lo schema generale del vangelo di Giovanni, proposto da Frédéric Manns in una nostra traduzione dal francese e con qualche modifica da noi apportata:

Struttura del Vangelo di Giovanni
1,1-51: Introduzione:
1,1-18: prologo
1,19-51: vocazione dei discepoli
2,1-4,59: I due primi segni ovvero da Cana a Cana:
a) 2,11-12: 1° segno: manifestazione della gloria ai Giudei a Cana
  b) 2,13-25: il segno del tempio e l’annuncio del nuovo tempio
   c) 3,1-21: dialogo con Nicodemo: rinascita dall’acqua e dallo Spirito
   c’) 3,22-36: dialogo di Giovanni Battista con i suoi discepoli
  b’) 4,1-42: dialogo con la Samaritana sul nuovo culto
 a’) 4,43-51: 2° segno: manifestazione della gloria ai pagani a Cana
5,1-6,71: Due segni ovvero da Gerusalemme a Cafaao:
5,1-15: guarigione del paralitico
5,16-47: discorsi
6,1-15: moltiplicazione dei pani
6,16-25: transizione
6,26-71: discorso sul pane di vita
7,1-10,42: Dalla festa delle Tende alla festa della Dedicazione:
7,1-53; 8,12-59: festa delle Tende [8,1-11: adultera: aggiunta]
9,1-41: guarigione del cieco nato
10,1-21: Gesù bel pastore e porta delle pecore
10,22-42: l’identità del Cristo
11,1-12,50: Da Betania a Gerusalemme:
11,1-57: resurrezione di Lazzaro
12,1-11: unzione di Betania
12,12-18: ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme
12,20-36: Annuncio della glorificazione attraverso la morte
12,37-50: Conclusione
13,1-17,26: Discorsi di addio:
a) 13,1-38: lavanda dei piedi
  b) 14,1-31: primo discorso di addio
   c) 15,1-17: la vite e i tralci
   c’) 15,18-16, 4: persecuzione dei discepoli
  b’) 16,5-33: secondo discorso di addio
a’) 17,1-26: preghiera di Gesù
18,1-20,29: Passione e risurrezione:
a) 18,1-14: arresto al giardino
  b) 18, 28-19,16b: processo davanti a Pilato
a’) 19, 16c-42: morte e sepoltura di Gesù
  c) 20,1-18: Pietro e il discepolo al sepolcro. Apparizione a Maria
  c’) 20,19-29: Apparizioni ai discepoli e a Tommaso
20,30-31: Conclusione
21,1-25: Appendice

La Gloria ricama tutto il vangelo di Giovanni
Questo schema ha il pregio di tenere presente non un solo metodo di lettura, ma di integrare metodologie diverse: lo schema geografico (da Cana a Cana; da Gerusalemme a Cafaao; da Betania a Gerusalemme) s’inserisce in quello liturgico (festa delle Tende e festa della Dedicazione) e questo, a sua volta, in quello tematico (segni, tema della gloria, discorsi di addio, passione, ecc.) e tutti all’interno di un progetto di fondo dell’evangelista, che ruota attorno al termine «gloria» e a quello dell’«ora», due parole che ricorrono da cima a fondo come due tessiture che tengono in piedi tutto l’ordito del vangelo con la loro ricorrenza che potremmo definire «ostinata».
Gv vuole costringere il lettore a prendere coscienza di queste due parole: «gloria» che in greco si dice «dòxa» e «ora» che in greco si dice «hôra». Di ciascuna diamo una breve e sintetica descrizione.

a) Ogni pagina trasuda gloria
La parola «gloria – dòxa» si trova in Gv 1,14 (2 volte), nel racconto delle nozze di Cana (Gv 2,11), a metà del vangelo (Gv 12,41) e alla fine (Gv 17,1.5.22.24), formando così una inclusione, cioè un termine non casuale, ma volutamente immesso (incluso) nel testo per racchiudere tutto ciò che c’è in mezzo e poterlo leggere alla luce del significato di questo termine. Non si può capire il vangelo e tanto meno il racconto delle nozze di Cana se non comprendiamo bene quale sia il significato della parola «gloria – dòxa» che diventa così una chiave d’interpretazione di tutto il vangelo e non solo delle nozze di Cana.
Lo stesso termine infatti, oltre alle 8 volte sopra citate, si trova nel IV vangelo altre 15 volte, costituendo così un mosaico che racchiude tutto il vangelo (Gv 5,41.44 [2x]; 7,18; 8,50; 9,24; 11,4.31.40; 12,23.28.43; 13,32; 16,14; 21,19) per un totale di 23 volte. Si potrebbe dire che non c’è pagina del vangelo di Gv che non riporti la parola «gloria» oppure un verbo che indica l’azione gloriosa del «manifestarsi» (phaneròō: 1,31; 3,21; 9,3; 21,1). È questo che intendiamo dire con  l’espressione «parola ostinata», cioè martellante, ricorrente: una parola senza della quale l’intero disegno del vangelo si perde e si smarrisce.

b) Il peso della Gloria
La parola «gloria – dòxa» traduce il termine ebraico «kabòd» che gli ebrei del tempo di Gesù utilizzavano come sostituto del Nome di Dio «Yhwh», Nome che nessuno poteva pronunciare. Essa è dunque un sinonimo di «Signore», usato nella preghiera e nelle conversazioni, ma c’è dell’altro.
In ebraico la parola «kabòd» deriva dalla radice «k_b_d», che contiene in sé il senso di «peso», per cui una cosa gloriosa è una realtà pesante, in quanto cioè è consistente; «la gloria» infatti esprime il valore e la consistenza esistenziale e sociale di una realtà, di una persona, di una funzione. L’uomo orientale ama «il grasso» perché indica più peso e quindi più consistenza, cioè maggiore autorità, significato, importanza. Dio è «glorioso» perché è l’essere più «pesante» che esista, in quanto è la pienezza stessa dell’esistenza: è il Creatore.
La «Gloria» riferita a Dio non è qualcosa di astratto o di pomposamente rituale, ma indica il «Nome» stesso di Dio, cioè la sua natura e la sua vita, che è solida, consistente, piena. «Dare gloria a Dio» significa riconoscee la «signoria» e la maestà e riconoscersi suoi figli ubbidienti.

c) L’ora della gloria
L’altra parola che abbiamo è «hôra – ora», nel senso di «momento» e quindi riguarda il tempo, che nella Bibbia ha sempre due valenze: una riguarda l’aspetto ordinario ed è la successione degli eventi come capitano e che in genere ognuno di noi subisce (il giorno, la notte, ieri, oggi, ecc.) e che nella Bibbia si chiama «chrònos – tempo»;  l’altra riguarda la «qualità» del tempo, perché mentre scorre porta qualcosa di nuovo e di coinvolgente. Questo secondo aspetto è chiamato da Paolo «kairòs – occasione favorevole» (cf Rm 5,6; 8,18; 9,9; 13,11;Gal 6,10, ecc.). È il tempo che è testimone della conversione; è il tempo in cui si svela lo Spirito come azione di amore; ecc.
Il 1° tempo, il «chrònos», è segnato dal sole, dalla meridiana, dalla clessidra e oggi dall’orologio; mentre il 2° tempo, il «kairòs», è segnato dall’anima che vive gli eventi e di cui si rende conto: è la presenza di sé all’evento di cui si coglie la portata, la qualità e la novità.
Giovanni con il termine «ora» si riferisce a questo secondo aspetto, davanti al quale anche Sant’Agostino s’interroga a modo suo e, in modo magistrale, dà anche la sua risposta: «Che cosa dunque è il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so. Se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più» (Le Confessioni, XI,XIV,2).
È veramente così, noi viviamo esperienze interiori che possiamo contemplare dentro di noi, ma non possiamo spiegare agli altri, perché ogni tentativo di spiegazione potrebbe banalizzarle.
L’«ora» di Gesù, che nelle nozze di Cana «non è ancora giunta» (Gv 2,4), è il tempo della rivelazione nuova, il tempo che svela la luce e per contrasto le tenebre (cf Gv 1,4.5.8.9), l’occasione favorevole per fare una scelta di fondo: «Chi crede in lui non è condannato; chi non crede in lui è già stato condannato» (Gv 3,18.36). L’«ora in-compiuta» delle nozze di Cana giunge a compimento, a maturazione nel momento della morte: «Padre è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te» (Gv 17,1).
In poche parole l’autore unisce l’ora (il tempo) e la gloria (il peso consistente della rivelazione). Per Gv, l’ora della morte è l’occasione, il «kairòs» di una duplice «gloria»: del Padre verso il Figlio e del Figlio verso il Padre. L’uno e l’altro rivelano la propria consistenza di vita: il Figlio nella risurrezione vissuta come obbedienza al Padre e il Padre perché nel Figlio rivela la nuova Toràh che è lo Spirito Santo, cioè la sua stessa vita, perché nel momento in cui il Figlio muore come uomo, vive da risorto e in tutti coloro che accettano il dono del suo Spirito di risorto: «E, chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).    (continua-5)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (4) Segni e indizi per imparare a crescere

Il racconto delle nozze di cana (4)

Il racconto delle nozze di Cana è un brano chiave di tutto il vangelo perché ci offre la prospettiva da cui l’autore ci obbliga a guardare alla vita di Gesù, alle sue parole e ai «segni» che compie. Se vogliamo capire quello che l’autore intende farci capire, dobbiamo cercare di entrare nella sua mentalità e nel suo cuore. Troppo spesso «usiamo» il vangelo come un «prontuario» superficiale o come lettura spirituale edificante, in base al principio che «tanto male non fa», perdendo così la carica esplosiva della potenza della Parola di Dio che in quelle pagine propone un «Patto di alleanza» e offre un progetto di vita che è «eversivo» per la logica del mondo.
Per questo non si può liquidare con due battute e, a costo di apparire esagerati, vogliamo insistere nel leggere il racconto di Cana non come racconto autonomo, ma «dentro» la visione globale del IV vangelo. È l’unico mo-do serio che abbiamo per non fare dire al vangelo quello che vogliamo noi. Il vangelo di Giovanni è come l’orizzonte: più uno s’innalza più l’orizzonte si allarga. Nessuno può imprigionare Dio in una formula o una tesi e allo stesso modo nessuno può contenere il volto di Gesù che il IV vangelo dipinge. Dobbiamo accontentarci di approssimazioni, sapendo che dopo avere fatto enormi sforzi per dividere, comprendere e definire, il IV vangelo resta un «mistero» nel vero senso della parola: un mondo che sfuggendo alla curiosità ne suscita altre e più profonde.

A tutto tondo
Non c’è che l’imbarazzo della scelta: ogni commentatore offre una soluzione o proposta, ma nessuna riesce ad esaurire in modo soddisfacente la pienezza che il IV vangelo porta in sé. Ogni proposta ha un aspetto interessante che si adatta al vangelo, ma senza esaurirlo: il vangelo di Giovanni sfugge a ogni definizione e divisione, perché ci costringe a seguire Gesù passo dopo passo, centellinando un’esperienza che conduce lentamente, ma progressivamente alla scoperta della sua personalità. Nessuno può afferrare il vangelo di Giovanni illudendosi di poterlo costringere entro categorie ristrette.
Ogni parola ha sempre un duplice significato: uno immediato che corrisponde al senso comune che ha nel vocabolario; l’altro, nascosto nel ventre della parola stessa perché aspetta che il lettore, come una levatrice, ne faccia venire alla luce il volto nascosto nella trama silenziosa del suo profondo, che può manifestarsi solo se il significato segreto può risuonare nel silenzio dell’ascolto.
Sul vangelo di Giovanni bisogna «stare» (Gv 8,31) con assiduità, coscienti di dedicargli non avanzi di tempo, ma di perdere il tempo migliore. Bisogna perdersi dentro le pagine, dentro le frasi e singole parole, assaporarle una dopo l’altra, sorseggiando e gustando il senso che si svela e che ci manifesta a noi stessi, perché solo immergendoci dentro la Parola noi scopriamo che lui conosce quello che c’è dentro ciascuno di noi (cf Gv 2,25).
L’autore del IV vangelo come un vero genio della narrativa non racconta una vita cronologica di Gesù, ma descrive dettagliatamente la prima (Gv 1,19-2,1) e l’ultima settimana (Gv 12,1) di vita pubblica. Nella mentalità orientale gli «estremi» (qui prima e ultima settimana) indicano la totalità dell’insieme che sta in mezzo, come «entrare e uscire; cielo e terra; sedere e camminare». L’autore sembra dire ai suoi lettori: è inutile che vi descriva tutta la vita di Gesù, vi basti conoscere la prima e l’ultima settimana per avere la chiave di senso della sua vita.
La prima settimana anticipa tutti i temi che verranno trattati nel resto del vangelo; mentre l’ultima settimana registra l’epilogo che si snoda come un dramma che non lascia respiro: lavanda dei piedi, discorsi di addio, tradimenti, processi, notte, ombre della notte, morte ignominiosa di sangue e violenza e croce, trasformata da supplizio di vergogna in trono della gloria dove sta assisa la maestà di Dio. All’interno dell’ultima settimana si trovano i capitoli 18 e 19 di Gv, che narrano la passione, morte e glorificazione con uno schema in 5 atti, più una premessa e una conclusione, per formare un dramma in 7 parti: il dramma di Dio, il dramma dell’uomo.

Prima settimana: ritorno al «principio»
La prima settimana della vita di Gesù, descritta dal IV vangelo, è un evidente richiamo alla settimana della creazione (Genesi cap. 1), di cui mantiene la struttura letteraria e la potenza dell’attacco con quell’«In principio» (Gen 1,1; Gv 1,1) che cattura testa e cuore: chiunque capisce che non si tratta di «inizio temporale», ma di un «fondamento» che riguarda la consistenza stessa dell’esistenza.
In Genesi i sei giorni della creazione sfociano nel «settimo», lo shabàt, il giorno riservato a Dio; nel IV vangelo, invece, l’enumerazione minuziosa, quasi contabile, dei sei giorni nei quali Gesù, come un nuovo creatore compie i «segni» che lo manifestano all’esterno, sfocia pacatamente nel racconto delle nozze di Cana che forma così un blocco con ciò che precede (e diventa anche la premessa di quanto segue, come vedremo).
Dopo il solenne «In principio» (Gv 1,1), infatti, per tre volte segue l’espressione «il giorno dopo» (Gv 1.29.35.43) che sommati fanno tre giorni. Il racconto delle nozze di Cana che segue immediatamente comincia con l’indicazione di tempo: «Il terzo giorno» (Gv 2,1), dando corpo così a una struttura di «sei giorni». Il giorno sesto è il giorno della creazione di Adam che ora diventa il giorno dell’uomo nuovo, che invita non solo Israele, ma l’umanità tutta all’alleanza con Dio, simboleggiata nel racconto di Cana dalle anfore di pietra che giacciono inerti per terra (Gv 2,6) e dal vino abbondante che annuncia l’era messianica già cominciata. Questo sesto giorno costituisce «il principio dei segni compiuti da Gesù» con cui «manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui» (Gv 2,11). Con tale schema letterario temporale, entro i confini di una settimana, l’autore ci dice che Gesù è il «nuovo creatore» di una nuova umanità: il Regno di Dio.

Ultima settimana: il Servo pasquale
Se la prima settimana della vita pubblica di Gesù è la «settimana della creazione» che ritrova il suo senso nel Lògos incarnato, l’ultima settimana (Gv 12,1), quella che precede la morte, è dentro un contesto pasquale e l’insistenza con cui l’evangelista annota questa dimensione, è indice dell’importanza che egli stesso vi annette: «Era vicina la pasqua dei giudei» (Gv 11,55); «sei giorni prima della pasqua» (Gv 12,1); «durante la festa (di pasqua)» (Gv 12,20); «prima della festa di pasqua» (Gv 13,1).
Nell’ultima settimana ha luogo la lavanda dei piedi che per l’autore del IV vangelo è l’equivalente del racconto dell’istituzione dell’eucaristia (cf Gv 13,1-20; cf Mc 14,22-25; Mt 26,26-29; Lc 22,15-20; 1Cor 11,23-25). L’autore mette così il servizio sullo stesso piano dell’eucaristia, riconoscendovi pari dignità di sacramento: Pane/Vino e Parola e Servizio, che fa abbassare per amore, manifestano la vera natura di Dio e lo rendono visibile nella vita della chiesa. Anche i discorsi di addio (cf Gv 13,31-16,33) durante la cena pasquale avvengono nell’ultima settimana: in essi Gesù pone le condizioni e determina le cornordinate per il futuro. Chiudono l’ultima settimana: la preghiera sacerdotale di Gesù (Gv 17,1-26), cattura, processi, condanna, morte e risurrezione (Gv 18-20).
Le due settimane, poste una all’inizio della vita e l’altra alla fine, formano come due pietre miliari che servono da riferimento a chi vuole addentrarsi dentro la fitta vegetazione del vangelo di Giovanni. Esse costituiscono come due fari che illuminano la dimensione di «tutta» la vita di Gesù: egli è il nuovo creatore, ma è anche il redentore; è il Dio che chiama dal nulla tutte le cose, ma è anche il Dio che si annulla per essere fedele a se stesso; è onnipotente nella creazione ed è impotente nell’incarnazione; è il Lògos/Sapienza che modella tutte le cose ed è la carne fragile della mortalità umana; è l’eterno che regola il tempo ed è anche ritmato dal tempo che condiziona la sua vita; egli è «in principio presso Dio», ma viene anche «tra i suoi» che lo rifiutano; è la luce che illumina il mondo, ma sta anche nelle tenebre che cercano di sopraffarlo.
La prima settimana culmina nel racconto di Cana, l’ultima nell’«ora» della glorificazione: le due settimane si tengono insieme come l’arco di un ponte, perché Cana anticipa l’«ora della Gloria», mentre questa fa vedere, manifesta l’abbondanza messianica che sgorga dalla croce con la consegna dello Spirito Santo (Gv 19,30).

Povertà di parole, pienezza di parola
Dal punto di vista della narrazione, cioè come racconto che tramanda una «vicenda», il vangelo è simile a quelli sinottici (Marco, Matteo e Luca); dopo la presentazione di Giovanni Battista (Gv 1), anche il IV vangelo descrive prima l’attività di Gesù in Galilea e infine in Giudea, a Gerusalemme dove conclude con la sua morte e risurrezione. Esso si compone di circa 15.000 parole greche, di cui solo 1.100 sono parole diverse: un vocabolario povero, essenziale, se circa 13.900 parole si ripetono continuamente. Tale dato deve metterci in allarme, perché alla povertà del vocabolario materiale corrisponde un’immensa ricchezza concettuale e simbolica che travalica ogni singola parola per obbligarci a scendere nel pozzo profondo del significato nascosto.
Mai presumere di capire Giovanni: quando abbiamo creduto di averlo capito, egli è già pronto per portarci a un altro livello, a un senso più alto. La tradizione ne ha raffigurato l’autore con il simbolo dell’aquila, che rappresenta il quarto vivente dell’Apocalisse (Ap 4,7), e a buon diritto, perché il IV vangelo vola ad altezze vertiginose che solo chi è equipaggiato bene può sperare di raggiungere.
Le 15.000 parole di cui si compone il vangelo che canta il Lògos sono distribuite in 20 capitoli (il capitolo 21, l’intervista di Gesù a Pietro è un’aggiunta posteriore). Il modello narrativo ormai quasi da tutti accettato, divide questi 20 capitoli in due parti, abbastanza omogenee:
– 1a parte, cap. 1-12, detta Libro dei segni;
– 2a parte, cap. 13-20 (+21), Libro dell’ora o della gloria.

a) Il libro dei segni
La prima parte si chiama «libro dei segni» perché descrive l’attività pubblica di Gesù che compie alcuni gesti o «segni». Bisogna fare molta attenzione nell’uso delle parole, perché nel IV vangelo non ricorre mai la parola «miracolo, dýnamis, téras», abbondanza frequente nei sinottici. In Gv ricorre sempre e solo il termine «sēmèion, segno», che non ha nulla di eclatante o miracoloso, come lo intendiamo noi razionalisti occidentali, perché esso è soltanto un «indicatore»: un segno è qualcosa che rimanda a una realtà diversa. I «segni» che Gesù compie rimandano tutti al pozzo profondo della sua personalità.
I segni più importanti che l’evangelista registra per farci conoscere la persona Gesù sono i seguenti che formano anche uno schema di catechesi catecumenale:

–    1° segno di Cana (2,1-11): le nozze (progetto per Israele);
–    segno dell’acqua (4,1-42): la samaritana (etica dell’incontro);
–    2° segno di Cana (4,46-54 ): figlio del centurione (progetto per il mondo);
–    segno del liberatore (5,1-18): paralitico alla piscina (la persona è il valore assoluto);
–    segno del pane (6,1-66): moltiplicazione pani (nuova manna);
–    segno della luce (9,1-41): cieco nato (cammino della fede);
–    segno del «pastore bello» (10,1-21): attrazione di Dio (metodo di Dio);
–    segno della vita (11,1-44): risurrezione di Lazzaro (anticipo della morte di Gesù);
–    segno dell’olio (12,1-11): unzione a Betània (anticipo della sepoltura).
Compito del vangelo è farci incontrare l’uomo Gesù per farcelo conoscere come Figlio di Dio e aiutarci a scoprirlo come Dio redentore, attraverso i «segni» che egli compie nella sua vita e che ci offre come indizi: per scoprire questi indizi, è necessaria la fede. È interessante notare come la parola «segno» solo nel vangelo di Giovanni ricorre 17 volte (Gv 2,11.18.23; 3.2; 4,48.54; 6,2. 14.26.30; 7,31; 9,16;10,41 11,47; 12,18.37; 20,30) e 7 volte nell’Apocalisse (Ap 12,1.3; 13,13.14; 15,1; 16,14; 19,20), mentre non si trova nelle lettere, per un totale complessivo nell’opera giovannea di 24 volte che è una percentuale sufficiente a farci capire l’importanza che l’autore vi annette.

b) Il libro dell’ora della gloria
La seconda parte è detta «libro dell’ora» o «libro della gloria», perché in Giovanni la «gloria» di Gesù si manifesta nell’«ora della morte». Attoo alla parola «ora», l’autore tesse tutto un reticolato teologico di straordinaria intensità. La parola ricorre in tutto il vangelo 19 volte, di cui 9 nella prima parte e 10 nella seconda, stabilendo così un equilibrio distributivo perfetto in tutto il vangelo. Ciò significa che la parola «ora» tesse la trama del testo.
Non si può capire il vangelo di Giovanni se non si comprende il significato di questa piccola parola «ora», che non indica un tempo, ma l’evento della salvezza che stravolge la logica e capovolge le priorità.
Il racconto delle nozze di Cana riporta l’espressione chiave: «Donna, … non è ancora giunta la mia ora» (Gv 2,4), che idealmente e realmente si ricollega con la preghiera finale di Gesù: «Padre, è venuta l’ora» (Gv 17,1). Il racconto di Cana apre e proietta lo sguardo del lettore sulla fine, passando dall’ora ancora assente all’ora finalmente giunta: l’ora della morte che coincide con l’ora della glorificazione del Figlio di Dio: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te» (Gv 17,1). Pateità e figliolanza s’intersecano e si fondono nell’unica «gloria» che rispecchia nel Figlio il volto del Padre e nel Padre manifesta il volto del Figlio.

Il peso della «gloria»
La parola «gloria» non significa rendere onore a qualcuno con deferenza, riconoscendone l’autorità e anche la vanità esteriore che diventa vanagloria di individui inconsistenti. In ebraico il termine «Kabòd», tradotto in greco con «Dòxa», indica la natura stessa di Dio. Il termine infatti veniva usato come «Nome alternativo» di Dio.
Gli ebrei non pronunciano mai il nome YHWH e, infatti non sappiamo quale ne sia l’esatta pronuncia. Ancora oggi nella preghiera e leggendo la Scrittura, ogni volta che un ebreo con gli occhi incontra la parola «YHWH», con le labbra pronuncia un nome alternativo, come «Adonai, Signore», «Elion, Onnipotente», «Shem, Nome», «Maghèn, Scudo», «Maqòm, Luogo», «Shekinàh, Dimora-Presenza», oppure «Kabòd, Gloria». Il Targum usa anche il termine aramaico «Memràh, Parola».
«Gloria» in ebraico ha attinenza con l’idea di «peso» che indica il «valore» della persona: il riferimento è alla «consistenza», perché in Oriente ciò che è pesante ha più valore di ciò che è leggero. Un uomo grasso vale più di un magro, perché il suo «essere» è consistente, pesante, cioè solido e stabile. Da questo punto di vista, Dio è l’essere glorioso per eccellenza perché trabocca del peso dell’esistenza: ne è anzi il creatore. Dare gloria a qualcuno significa, quindi, riconoscee il valore, validità, consistenza e importanza.
I banchetti dei re orientali sono confezionati prevalentemente con vivande grasse, espressione della «pesantezza», cioè dell’importanza, della «gloria» (cf Gb 36,16; Is 26,6). Il racconto delle nozze di Cana termina infatti con una nota del redattore che esprime esattamente tale idea: «Questo, a Cana di Galilea, fu il principio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria (dòxa, kabòd) e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui» (Gv 2,11).
Esegeti e commentatori sono d’accordo nel dare rilievo specifico a questa parola pregnante che racchiude in sé la sintesi teologica di tutto il vangelo, che già nel prologo si apre con questa parola ripetuta due volte nello stesso versetto (Gv 1,14 per 2 volte) e si chiude con l’annuncio della morte di Pietro che deve glorificare il Signore (Gv 21,19). Lo stesso termine si trova a metà esatta del vangelo, quando l’evangelista, di fronte alla incredulità dei giudei, cita il profeta Isaia «perché vide la sua gloria e parlò di Lui» (Gv 12,41; cf Is 6,1-4).
In tal modo la parola «gloria» segna le nozze di Cana, discrimina la fede dall’incredulità e trasforma la morte in testimonianza gloriosa. Ancora una volta troviamo la struttura orientale: inizio e fine per indicare che il termine «gloria» è la chiave di volta di tutto il vangelo: tecnicamente si dice che questi due testi all’inizio e alla fine, formano «una inclusione», quasi un abbraccio che comprende quello che c’è nel mezzo: tutta la vita di Gesù.
Se dovessimo sintetizzare il IV vangelo in una parola, sarebbe lecito presentarlo come vangelo «dell’ora della gloria». Qual è il contenuto, valore, peso dell’«ora» e della «gloria» lo vedremo facendo l’esegesi del racconto di Cana, parola per parola.        
                                    (continua 4)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (3) Un vangelo, tanti autori

Il racconto delle nozze di Cana (3)

Il racconto delle nozze di Cana è un momento centrale del quarto vangelo perché annuncia, anticipandola, «l’ora della glorificazione» di Gesù, cuore della teologia di Giovanni. Il racconto si colloca nella tradizione profetica, perché Gesù moltiplica il vino, come Elia moltiplicò la farina e l’olio per la vedova di Sarepta (1Re 17,7-16) e come Eliseo moltiplicò l’olio per una vedova (2Re 4,1-7) e i pani per il popolo (2Re 4,42-44).
Scopo di questa rubrica biblica è aiutare i lettori a leggere la parola di Dio in modo più approfondito, anche se in un linguaggio semplice, che tenga conto dei risultati della scienza esegetica, senza scadere nel tecnicismo, è importante che prima percorriamo le stesse tappe, attraverso le quali il vangelo si è formato fino a raggiungere il testo che oggi abbiamo in mano, e in secondo luogo cerchiamo di individuare la figura dell’autore, che ci aiuterà a capire il motivo e la finalità del racconto delle nozze di Cana, il «primo dei segni» che Gesù fece all’inizio della sua carriera di rabbi, riportato solo nel quarto vangelo.
Per il vangelo di Giovanni, come persinottici, l’identificazione dell’autore o degli autori è sempre un problema aperto, anche se ormai, alla luce di studi complessi, si possono tirare se non tutte, almeno alcune conclusioni definitive. Oggi la critica biblica attribuisce con sufficiente certezza la redazione finale dei rispettivi scritti a Marco e Luca; la questione si complica un po’ per Matteo e Giovanni, due opere particolari, che hanno visto un processo formativo complicato, che è impossibile solo sfiorare nello spazio di un articolo divulgativo. Prima però è necessaria una parentesi che apriamo e chiudiamo con la nota.
Imparare a pensare come gli antichi
Quando parliamo dell’«autore» di un libro, oggi siamo spinti a immaginare una persona seduta alla scrivania intenta a comporre a mano, o al computer, una storia «ordinata», organizzata sulle fonti con puntiglioso riferimento alle date, ai luoghi e alle persone. Oggi si dispongono anche delle video registrazioni che fanno vedere «quel momento» passato come se fosse contemporaneo: si possono ascoltare le parole e pure «vedere» la persona che parla, anche se morta.
Dobbiamo dimenticare tutto questo, quando prendiamo in mano un vangelo o un libro antico; al contrario dobbiamo cercare di documentarci sui metodi di trasmissione delle opere. Per noi è difficile immaginare che, al tempo dei vangeli, solo pochissime persone sapevano leggere e scrivere e che non esisteva la stampa, né la carta come la possediamo oggi. Nei tempi antichi i testi scritti erano pochi e per di più su materiale fragile e costoso come il coccio, papiro, pelli di capra, ecc.
I vangeli canonici, compreso quello di Giovanni, nella loro stesura definitiva non sono opera di un solo autore, ma sono il risultato di un lungo processo e anche di molte mani di persone di generazioni diverse. È evidente che nello spazio di un articolo non possiamo dare conto di tutte le ipotesi e di tutti gli studi che sono sterminati, ma possiamo garantire di offrire una sintesi onesta e corretta dei risultati condivisi dalla quasi totalità degli studiosi.
Per dare una risposta alla domanda «chi è l’autore del quarto vangelo?», bisogna procedere per gradi e percorrere i singoli momenti con attenzione, ripercorrendo brevemente le diverse tappe.

Nota
Il problema della ricerca biblica sui vangeli si è complicata da quando, nel 2007, la Rizzoli ha pubblicato il primo volume di una riflessione biblico-teologica di papa Benedetto xvi dal titolo «Gesù di Nazaret». Il papa ripassa i momenti salienti della vita di Gesù attraverso i vangeli, collocandosi sul binario tranquillo della tradizione e facendo alcune riserve su alcuni metodi di esegesi. È importante dire una parola su questo libro, che sta generando molti problemi nella chiesa, anche a livello di studio e di ricerca.
Fin dalla sua comparsa il libro è diventato un «testo di riferimento» per la catechesi nelle parrocchie e la predicazione dei preti, che si sentono tranquilli dal punto di vista dell’ortodossia, in forza dell’assunto «se lo dice il papa!», nonostante il papa stesso abbia scritto che il «libro non è in alcun modo un atto magisteriale, ma unicamente espressione della mia ricerca personale del “volto del Signore” (Sal 27,8). Perciò ognuno è libero di contraddirmi» (p. 20).
Ci troviamo di fronte a una confusione enorme: il papa dice che il suo è un libro «qualsiasi», che può essere criticato come qualsiasi altro libro; dall’altra parte molti fedeli e operatori pastorali lo prendono come «testo sicuro», anche in contrapposizione ad altri libri di persone più competenti del papa, che non è esegeta o teologo biblico. Il fatto che in Italia nessun biblista o teologo abbia recensito criticamente il testo del papa, la dice lunga sul condizionamento che esso sta producendo. Sarebbe opportuno che si ritornasse al vecchio codice (1917) che per queste ragioni vietava ai papi di scrivere libri opinabili: i papi, infatti, devono parlare per magistero.
A quanto mi risulta solo il cardinale Carlo Maria Martini, biblista di fama internazionale e già direttore del Pontificio istituto biblico, ne ha parlato in una conferenza a Parigi, dichiarando con molta schiettezza che dal punto di vista esegetico, il libro è pieno di inesattezze e anche errori e che comunque non vi si trova il Gesù dei vangeli, ma il Gesù che piace al papa, che «non è esegeta, ma teologo… non ha fatto studi di prima mano per esempio sul testo critico del Nuovo Testamento». Secondo Martini, c’è un problema fin dalla copertina, dove sono abbinati il nome di Joseph Ratzinger e quello, a caratteri cubitali, di Benedetto xvi che sovrasta l’altro: «È il libro di un professore tedesco e di un cristiano convinto, oppure è il libro di un Papa, con il conseguente rilievo del suo magistero?» (Sede dell’Unesco a Parigi, 23 maggio 2007; cf testo integrale su Il Corriere della Sera 24-5-2007). Lo stesso concetto egli ribadisce in una recensione su La Civiltà Cattolica (C. M. Martini “Gesù di Nazaret” di Joseph Ratzinger – Benedetto xvi in La Civiltà Cattolica, quaderno 3768, II [2007] 533-537).
Per quanto ci riguarda, il libro del papa si pone anche la questione dell’autore del quarto vangelo e quindi sul suo valore storico. Egli rifiuta alcune interpretazioni (Rudolf Bultmann), ne condivide parzialmente altre (Martin Hengel), non ne prende in considerazione molte altre, ma giunge a una «sua» conclusione: «Lo stato attuale della ricerca ci consente perfettamente di vedere in Giovanni, il figlio di Zebedeo, il testimone che risponde con solennità della propria testimonianza oculare identificandosi anche come il vero autore del Vangelo» (p. 252).
Accogliendo l’invito del papa stesso a una critica serena, rilevo, per quanto mi concee, che questa è l’opinione di Joseph Ratzinger, ma non è affatto una certezza nel campo degli studi, anzi è una tesi ormai superata. Nella nostra ricerca non terremo conto del «Gesù di Nazaret» secondo il credente Ratzinger, perché appartiene più al versante della meditazione spirituale edificante che della esegesi biblica. Con ogni dovuto rispetto. (Fine Nota)

Prima tappa: da Gesù agli apostoli
a) Gesù vive in Palestina tra il 6/7 a.C. e il 30 d.C. per un totale di circa 36 anni, di cui gli ultimi tre o due pubblici, perché li impiega predicando come un rabbino itinerante dentro e fuori la Palestina. Egli non lascia scritto nulla, anzi l’unica volta in cui abbiamo testimonianza che scrisse qualcosa, scrisse sulla polvere per terra, durante il processo alla donna adultera (Gv 8,8).
b) Dopo la morte di Gesù e la sua risurrezione, gli apostoli, superata la paura e lo smarrimento, si mettono a «predicare» in pubblico per convincere che Gesù di Nazaret è il messia atteso da Israele (cf At 2,1-47). La prima predicazione degli apostoli si rivolge agli ebrei e il contenuto di essa è solo e quasi esclusivamente il «mistero pasquale», cioè la passione, morte, risurrezione, ascensione (glorificazione) di Gesù e il dono dello Spirito Santo. Gli apostoli non si preoccupano di scrivere.
c) Qui si colloca la prima tappa della «tradizione/trasmissione» del vangelo: la tradizione orale che si tramanda da persona a persona, da generazione a generazione. Chi parla descrive quello che crede e la propria esperienza con la passione di chi vuole convincere gli ascoltatori, non con la freddezza dello studioso a tavolino.
Anche l’apostolo Giovanni ha cominciato a predicare in Palestina, da dove con ogni probabilità si è trasferito in Asia Minore, nell’attuale Turchia, con epicentro Efeso, dove c’era un gruppo di giudeo-cristiani che viveva all’interno di una comunità di origine greca. Qui infatti aveva operato l’apostolo Paolo circa 30 anni prima, dimorando per quasi tre anni a Efeso (dal 53/54 al 56/57).
In questo contesto «plurale», l’apostolo Giovanni è l’iniziatore, il primo anello di partenza della tradizione giovannea, che lentamente si andrà formando sul suo insegnamento e sulla sua predicazione. È probabile che a Efeso, dopo la distruzione di Gerusalemme e l’espulsione dei giudei (70 d. C.) si costituisca un’autentica «scuola giovannea», che riflette e sviluppa la predicazione che fa riferimento all’apostolo Giovanni, che è così l’iniziatore di una corrente o scuola, ma non l’autore materiale del vangelo come oggi lo possediamo.

Seconda tappa:
dagli apostoli alla vita della comunità
La comunità è una realtà viva, che si struttura attorno alla fede in Cristo: essa celebra la liturgia, testimonia con la vita, subisce persecuzioni e naturalmente raccoglie testimonianze su Gesù o liste parziali di miracoli, insegnamenti, parabole per scopi immediati come la liturgia o la catechesi. Nel vangelo di Giovanni, per esempio, si trovano solo sette miracoli (già il numero sette è emblematico, perché simbolico), che l’autore preferisce chiamare «segni», per riportarsi a un livello più profondo che non sia quello esteriore del miracolistico eclatante. Tutti questi «sette segni» sono costruiti in modo diverso da quelli narrati nei vangeli sinottici. Ecco di seguito l’elenco:
1. le nozze di Cana (Gv 2,1-11);
2. guarigione del figlio del funzionario romano (Gv 4,46-54);
3. guarigione del paralitico alla piscina di Betesda (Gv 5,1-18);
4. moltiplicazione dei pani (Gv 6,1-14);
5. guarigione del cieco nato (9,1-41);
6. risurrezione di Lazzaro (11,1-42);
7. pesca miracolosa (Gv 21,1-14).
Tutti questi «segni» hanno lo stesso schema: sono dialogati, c’è sempre un’azione, un crescendo che si sviluppa a volte in discorso lungo e articolato come nella moltiplicazione dei pani, un intermezzo e infine una lenta risoluzione verso la conclusione positiva. È evidente anche al lettore più sprovveduto che non ci troviamo più di fronte al «fatto storico» nudo e crudo, come possiamo intenderlo noi oggi.
Bisogna capire che le prime comunità cristiane hanno avuto una vita travagliata anche sul piano della fede e non hanno capito chi fosse Gesù da subito, ma hanno elaborato lentamente una «cristologia» che ha fatto fatica a prendere piede, in mezzo a eresie, rifiuti, contrapposizione di gruppi, di idee che spesso culminavano in reciproche scomuniche o esclusioni. Dai testi possiamo rilevare, e gli studi lo confermano, che la comunità che fa capo all’apostolo Giovanni, è una comunità divisa, frantumata, lacerata da divisioni, come lo sono anche quelle di Paolo (v. 1Gv 2,18-27; 4,1-6; 2Gv 7-11; 3Gv 9-11; per Paolo: 1Cor 1,10-16). Non bisogna lasciarsi ingannare da quanto scrive Luca: «Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune» (At 2,44), perché non rispecchia la realtà primitiva, ma idealizza ciò che dovrebbe essere la comunità.
Negli ultimi decenni del sec. I d.C. (80-90) le comunità sono abbastanza strutturate e hanno una vita propria e sviluppano un livello di riflessione avanzata, dove ormai  il dato storico è, se non abbandonato, per lo meno superato. Ciò è logico anche perché non c’è più il contesto originario, che all’evangelista non interessa più. Con ogni probabilità, indipendentemente dal contesto storico e geografico originario, tutti questi «segni» sono stati raggruppati in una raccolta «pronto uso» per la catechesi o per la liturgia.
In Giovanni, per esempio, a differenza dei sinottici che riportano decine di parabole (basta pensare a Matteo che sul tema del «Regno di Dio» ne riporta sette e tutte raggruppate nel capitolo 13), ne troviamo solo due che non si trovano negli altri vangeli: la parabola del «Pastore bello» (Gv 10,1-16) e quella della vite e i tralci (Gv 15,1-8): tutte e due queste parabole sono legate alla formula di auto rivelazione divina «Io-Sono», di cui parleremo in altra rubrica. A questo secondo livello della trasmissione, si cominciano, dunque, a possedere scritti parziali, omogenei e indipendenti per uso personale o comunitario, senza ancora un progetto organico.

Terza tappa: la 1a edizione scritta del vangelo
La terza tappa del lungo cammino formativo del vangelo è quella che gli studiosi, unanimemente, chiamano la tappa della prima edizione del vangelo scritto. Fino ad ora ci siamo trovati di fronte a figure singole o collettive anonime, che identifichiamo genericamente con il termine «comunità», non avendo altri riferimenti precisi. Da questo momento, da quando cioè il vangelo appare nella prima stesura scritta si può parlare di un singolo autore, cioè dell’evangelista che comunemente indichiamo con un nome: «Vangelo secondo Giovanni».
Tra gli studiosi c’è unanimità su questo punto: nella comunità giovannea vi erano due persone con lo stesso nome: uno è l’apostolo Giovanni che possiamo definire la «fonte» da cui ha origine il fiume della tradizione orale; e l’altro è Giovanni l’evangelista, presbitero dell’Asia Minore, figura eminente di teologo, a cui risale la prima edizione del vangelo scritto che è all’origine del vangelo attuale. L’esistenza di due persone con lo stesso nome ha creato una grande confusione d’identità, come testimonia anche lo storico antico sant’Eusebio (Storia ecclesiastica 2,31,3; 3,39,6) che parla dell’esistenza a Efeso di due tombe diverse per due Giovanni distinti.

Quarta tappa: la 2a edizione scritta del vangelo
La quarta tappa della trasmissione del vangelo di Giovanni è la pubblicazione della seconda edizione di un nucleo di scritti, più ampia e più organica della prima con aggiunte che riflettono situazioni nuove di epoche più recenti. Sembra, per esempio, che nella comunità giovannea vi fossero problemi ad accettare la figura di Pietro come autorità: il quarto vangelo, infatti, presenta la fede del discepolo prediletto sempre come superiore a quella di Pietro (cf Gv 13,23; 20,4.8; 21,7). Anche san Paolo ha conflitti spesso feroci con Pietro (cf Gal 2,11-14).
All’interno di questa dialettica, in epoca posteriore una mano diversa dalla prima aggiunse il capitolo 21, dove a Pietro si attribuisce la funzione di «pastore» che non ha riscontro in tutto il vangelo precedente (cf Gv 21,5-7).
Un altro esempio si trova nel racconto del cieco nato (Gv 9): l’evangelista annota che i genitori prendono le distanze dal figlio guarito «perché avevano paura dei giudei» (Gv 9,22), annotazione che non fa alcun problema, ma ciò che segue immediatamente sì, perché l’evangelista aggiunge una spiegazione di natura storica: «Infatti, i giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come Cristo, venisse espulso dalla sinagoga» (Gv 9,22-23). Questa notizia non può che essere di molti anni dopo, posteriore al 90 d.C., quando i giudei espulsero definitivamente i cristiani dalla sinagoga. Un autore diverso dall’evangelista ha aggiunto queste parole, proiettando al tempo di Gesù una situazione drammatica del suo tempo.
La tensione tra giudei e cristiani alla fine del sec. I era tale che gli ebrei composero una apposita «maledizione» (in ebr. birkat hamminìm – benedizione [contro] gli eretici) aggiunta alla preghiera ufficiale, detta delle «diciotto benedizioni» per stanare i giudei che erano diventati cristiani e che erano considerati eretici.

Quinta tappa: la 3a edizione scritta del vangelo

L’ultima tappa della trasmissione del testo del vangelo di Giovanni corrisponde alla terza edizione scritta del vangelo come testimonia un papiro datato intorno al 120-130, trovato in Egitto vicino al Cairo in una casa privata (papiro Rylands, scoperto nel 1896) che riporta due piccoli brani della passione: Gv 18,31-33 e 37-38). Questo piccolo papiro è di somma importanza perché ci dice che all’inizio del sec. II il vangelo di Giovanni come lo abbiamo oggi circolava anche in Egitto, fuori della Palestina, lontano da Efeso, segno che il testo era ormai definito e utilizzato; ne consegue che il testo definitivo, cioè la terza edizione scritta, deve collocarsi come data probabile negli ultimi due decenni del sec. I.
Nel frattempo anche gli altri tre vangeli si sono affermati, sedimentati nella tradizione e nella liturgia, viaggiando insieme, ma sviluppando quattro prospettive degli stessi eventi, quattro angoli di visuale per uno stesso progetto: la fede nel Signore Gesù. Intoo al 150 d.C. i quattro libretti che camminavano separati, furono messi insieme, cuciti in un solo volume e da quel momento la comunità dei credenti, fino a noi, hanno tra le mani un solo libro con cinque volumi: i quattro vangeli canonici e gli Atti degli Apostoli.
Fin qui la storia complessa, che abbiamo semplificato oltre ogni umana tolleranza, per dire che il vangelo di Giovanni non si può attribuire alla mano di un solo autore, ma alla vita, alla testimonianza, alla liturgia e alla fede di una comunità, dove vivevano alcune personalità di spicco, autorevoli e degni di stima che ci hanno tramandato non la vita di Gesù, che è impossibile scrivere, ma solo quei fatti sufficienti «per la nostra salvezza» (Dei Verbum, 11; cf Gv 20,30-31; 21,24-25).

Chi è l’autore del quarto vangelo?
Alla luce di quanto abbiamo detto, dobbiamo superare la nostra convinzione che autore e scrittore siano la stessa persona. Per quanto ci riguarda possiamo dire:
1. L’apostolo Giovanni, il figlio di Zebedeo, è l’autore del quarto vangelo come l’antenato sta al pronipote. Egli è autore perché la sua predicazione e testimonianza stanno all’origine della tradizione giovannea; prima in Palestina e poi in Turchia, a Efeso; qui altri hanno ripreso contenuti e testimonianza di Giovanni e l’hanno sviluppata, integrando, arricchendo e incarnandolo.
2. L’apostolo Giovanni non è autore come possiamo intenderlo noi oggi, perché non ha confezionato alcun libro e non vi ha messo il sigillo del copyright. La sua testimonianza di e su Gesù si è diluita nel tempo, diventando vita di una comunità, che non ha mai pensato di tramandarci un testo da museo, ma l’annuncio giornioso che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio (cf Mc 1,1). Di lui, come autore nel senso che abbiamo spiegato, parlano sette testimonianze al di fuori del NT (Ireneo di Lione, Papia di Geràpoli, il Canone muratoriano, il Prologo monarchiano, Clemente Alessandrino e tutti sono databili tra il II e III secolo).
3. Il quarto vangelo in cinque testi parla di un «discepolo che Gesù amava» (Gv 13,23; 19,26; 20,2; 21,7.20) e in altri due di un «altro» discepolo non meglio identificato (Gv 1,35-40 e 18,15). Probabilmente si tratta di due persone diverse. Il primo appellativo potrebbe essere dato dallo scrittore del vangelo che ricordando il suo maestro, l’apostolo Giovanni, ne parla anche con affetto, mettendo in evidenza la sua familiarità particolare con il Signore. Nello stesso tempo «il discepolo che Gesù amava» può anche estendersi a tutti coloro che entrano in contatto con Gesù nella fede e lo accolgono come Figlio di Dio, per cui partecipano alla vita d’amore del Signore come i lettori che siamo noi. Le due interpretazioni si integrano a vicenda.
4. Avviandoci alla conclusione, possiamo dire che la «voce» che ha dato origine al vangelo, attraverso la predicazione, è quella di Giovanni l’apostolo; una voce così forte e potente che si estese presto in tutto l’Oriente dove, in Turchia, trovò un discepolo che la raccolse e la volle divulgare ancora di più, fissandola per iscritto perché molti altri ne potessero usufruire.
5. Egli non si limitò a riportare la «voce», ma insieme ad essa raccolse la sua eco, aggiunse testimonianze che integrò con altre fonti dando corpo al testo come è arrivato fino a noi. Questo evangelista scrittore non è palestinese, ma con ogni probabilità un greco che aveva assorbito la cultura multietnica di Efeso, si era imbevuto anche di un «sapere» giudaico, vivendo all’interno di una comunità mista fino al punto da fare del giudaismo lo sfondo culturale e ambientale del suo vangelo, come cercheremo di mettere in rilievo studiando il racconto delle nozze di Cana.
6. Questo vangelo è indirizzato sia ai cristiani provenienti dal giudaismo, sia a quelli che provengono dall’ellenismo, ai quali l’autore presenta un vangelo che educa alla maturità della fede. Chi ha incontrato Gesù per la prima volta come un catecumeno (vangelo di Marco), ed è poi diventato un discepolo di Gesù (vangelo di Luca), divenendo anche un catechista (vangelo di Matteo), ora può bere alla fonte spirituale e contemplativa del quarto vangelo. Senza fretta perché in Gv ogni parola ha un significato ovvio e uno nascosto, che bisogna cercare, ruminare, centellinare e assaporare, lasciando alla Parola, attraverso le singole parole, la possibilità di depositarsi nell’intelligenza e nel cuore, per diventare alimento e bevanda di vita: «Io-Sono il pane della vita; Io-Sono la vite, voi i tralci» (Gv15,5).  (continua – 3)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (2) Un fatto mille domande

Il racconto delle nozze di Cana (2)

Probabilmente qualche lettore è ansioso di sapere come va a finire il matrimonio di Cana senza sposa e con uno sposo puramente coreografico. Bisogna però rallentare la curiosità perché è necessario porre alcune premesse prima di entrare nel cuore del racconto e nella sua struttura.
Leggere un brano del vangelo non è leggere una favola che inizia e finisce senza particolari problemi. Troppo spesso abbiamo letto la Parola di Dio come raccontino, più vicino alle favole che al «mistero» dell’incontro con Dio. Questa rubrica ha lo scopo di avvicinare i lettori alla Parola di Dio in tutta la sua integrità, utilizzando gli strumenti dell’esegesi, spiegati in modo semplice e comprensibile, ma garantendo la serietà e la profondità. Un solo peccato dobbiamo temere riguardo alla bibbia: la superficialità che diventa inevitabilmente banalità.

Le nozze di Cana
come prospettiva di tutto il vangelo
Il racconto delle nozze di Cana si trova all’inizio del quarto vangelo, esattamente all’inizio del capitolo 2, e comprende i primi 11 versetti per un totale in greco di 185 parole, compresi articoli e particelle (209 parole se si considera anche il v. 12 come parte integrante del testo).
Posto all’inizio del vangelo, il racconto ha una certa importanza, perché potrebbe avere lo scopo d’introdurci in una prospettiva particolare come angolo di visuale di tutto quello che segue. In questo caso, si parlerebbe tecnicamente di «prolessi tematica», cioè di anticipazione (pro-lalèō – parlo/dico prima): le nozze di Cana sarebbero la chiave di lettura di tutto il vangelo.
Se non possediamo la chiave, non possiamo entrare e se non ci mettiamo dalla giusta prospettiva, rischiamo di vedere e leggere il resto del vangelo in modo annebbiato e confuso.
L’esegesi non è un’operazione da obitorio, che lavora su corpi morti, ma un incontro con le singole parole che sono «persone vive», che danzano di significato in significato, fino al cuore del senso ultimo che è (dovrebbe essere) il pensiero di Dio, che parla a noi attraverso le nostre parole.
L’esegesi è un cammino di domanda in domanda, spesso senza risposte, perché dietro una domanda si trova un’altra domanda. Nel cammino di fede, infatti, come in ogni percorso di ricerca, non sono importanti le risposte, ma le domande che aiutano a seguire la pista per allargare sempre più l’orizzonte in cui, nel nostro caso, si colloca la Parola di Dio.
Il racconto delle nozze di Cana è Parola di Dio per i credenti. Dio non parla mai a vuoto, ma a ogni sua «parola» corrisponde un «fatto»: Dio parla agendo e agisce parlando perché in lui parola e fatto sono la stessa cosa, fino al punto che Dio stesso diventa Lògos, cioè Discorso/Parola/Vangelo/Messaggio/Annuncio. Per questo motivo, ogni volta che si apre la bibbia, bisogna prepararsi: non ci accostiamo a un libro qualsiasi, ma entriamo nel «Santo dei Santi» del cuore di Dio.
Gli ebrei, prima di iniziare la preghiera, si preparano per almeno un’ora. Ci vuole un’ora di decantazione, un tempo congruo di ambientazione prima di cominciare a pregare. Nella preghiera i preliminari di preparazione sono più importanti dell’atto stesso della preghiera. Come nell’amore. Lo stesso criterio vale per la bibbia: non si deve mai improvvisare perché chi improvvisa o manipola la Parola di Dio a casaccio, è blasfemo.
Prepararsi a entrare nel significato profondo del racconto delle nozze di Cana, significa camminare in punta di piedi e percorrere lo spazio necessario che precede e che comprende una premessa come introduzione di metodo, di sentimento e di dati necessari per capire e vivere.

Tre contesti per un racconto
Il rispetto della Parola di Dio esige che ci lasciamo avvolgere da alcune premesse che hanno lo scopo di prepararci il terreno e l’ambiente che circonda il racconto. Ogni brano della scrittura, infatti, ogni racconto, ogni miracolo, ogni sentenza, ogni frase del vangelo (di tutti i vangeli) devono essere letti sempre all’interno di tre contesti.
Il primo contesto è quello «immediato», che esamina il brano che si legge in relazione a quanto lo precede e lo segue immediatamente. Questa operazione serve per verificare se il testo interessato è un brano a sé; se è la conclusione di qualcosa che precede oppure se è la premessa di quello che segue, o se invece è un raccordo tra ciò che precede e ciò che segue.
Il secondo contesto è quello «remoto», che riguarda l’intero libro da cui è tratto il brano interessato. A questo livello ci si chiese quale sia lo scopo del racconto nel «contesto» appunto del libro, oppure qual è l’obiettivo che l’autore si propone nel riportare quel fatto.
Nel caso in esame, ci domandiamo: il racconto delle nozze di Cana quale significato o scopo ha per l’autore considerando tutto l’insieme del quarto vangelo?
Il terzo contesto è quello che possiamo definire «globale», perché legge il fatto o il racconto in un contesto ancora più ampio che è la visione unitaria e d’insieme di tutta la scrittura. La bibbia non è una sfilza di eventi, fatti, insegnamenti messi uno accanto all’altro, quasi a casaccio, ma è la «visione d’insieme» del piano di Dio, del suo disegno di alleanza che, per noi cristiani, trova in Gesù Cristo la sua chiave di volta.
Ugo di San Vittore ci offre in modo chiaro questa prospettiva «globale»: «Tutta la divina scrittura è un libro unico, e questo libro unico è Cristo; infatti, tutta la divina scrittura parla di Cristo e in lui trova compimento» (Ugo di San Vittore, De Arca Noe, 2,8: PL 176,642; cf Ibid. 2,9: PL 176, 642-643).
A questo livello, la domanda è: nell’economia della storia della salvezza scritta nella bibbia, quale significato o quale posto occupa il racconto delle nozze di Cana? Se non ci poniamo questa domanda, sarà difficile capire che il racconto delle nozze di Cana non parla di matrimoni, ma è un midràsh della rivelazione al Sinai e della prima piaga che colpisce l’Egitto, l’acqua del Nilo trasformata in sangue (cf Es 19,1-25; 7,14-25).

La Bibbia non è un ricettario
Accanto al contesto l’altra grande domanda è capire l’ambiente dove il vangelo ha trovato forma definitiva. Il testo che abbiamo oggi del quarto vangelo (ciò vale anche per tutta la bibbia, sia Antico che Nuovo Testamento) è il testo del redattore finale, cioè il frutto dell’ultimo autore che lo ha fissato nella forma in cui noi oggi la leggiamo. Noi però sappiamo che esso è il frutto di un lungo processo di trasmissione prima orale, poi anche liturgica, quindi parzialmente scritta e infine il frutto maturo di un testo finale e conclusivo.
Uno dei lavori più impegnativi (e a volte anche più noiosi) è l’analisi critica o «critica testuale» di un testo, attraverso cui, confrontando i codici esistenti, si sceglie il testo tra tutte le varianti possibili e se ne offrono le ragioni mediante un criterio di valutazione ormai attestato nelle università e nei centri di studi biblici.
Come si vede, il vangelo non può essere letto come un ricettario di cucina, dove ognuno estrae o confeziona la ricetta che vuole e come vuole. La bibbia tutto sopporta tranne la superficialità e la banalità, che spesso si trovano abbondanti tra i credenti che abitualmente frequentano la chiesa. Essi ricevono una formazione morale quando va bene, liturgica se va un po’ meglio, ma quasi nessuno riceve a livello istituzionale una formazione biblica sistematica come caratteristica fondamentale della vita del credente. Questo compito è relegato a gruppi spontanei di appassionati che magari sulla loro strada hanno trovato la disponibilità di un biblista.
La catechesi oggi nella chiesa è in funzione della dottrina come è codificata nel Catechismo della chiesa cattolica (Ccc) che, di fatto, ha più rilevanza della bibbia che porta in seno la Parola di Dio. Poiché anche i preti non conoscono la bibbia, ma la leggono come possono, di norma la vita delle comunità ecclesiali ruota attorno all’ortodossia dei contenuti e delle formule che, una volta acquisite, danno maggiori sicurezze e tranquillità tra ciò che «si deve» credere e ciò che non si può credere.
La Parola di Dio per sua natura è interrogativa, cioè stimola al cammino, alla ricerca, allo studio e non si ferma mai sulle conclusioni, ma alimenta la fame e sete di ricerca, perché Dio non si esaurisce mai e una volta raggiunto, vuole essere cercato ancora, come insegna Sant’Agostino: «Signore mio Dio, mia unica speranza, esaudiscimi e fa’ sì che non cessi di cercarti per stanchezza, ma cerchi sempre il tuo volto con ardore. Dammi tu la forza di cercare, tu che hai fatto sì di essere trovato e mi hai dato la speranza di trovarti con una conoscenza sempre più perfetta» (Agostino, Trinità 15,28,51).

Una sola mensa per scrittura ed eucaristia
Lo stesso Ccc, citando la costituzione dogmatica del Vaticano II «Dei Verbum» (Dv), sulla Parola di Dio, espone la necessità che la scrittura sia alla portata di tutti: «È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla Sacra Scrittura» (Ccc 131; cf Dv 22) e ci invita espressamente «con forza» a conoscere le scritture che non sono altro che la Persona di Gesù, il Lògos incarnato: «La chiesa esorta con forza e insistenza tutti i fedeli (…) ad apprendere “la sublime scienza di Gesù Cristo” (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine scritture. “L’ignoranza delle scritture, infatti, è ignoranza di Cristo”» (cf Dv 25; San Girolamo, Commento di Isaia, Prologo; Ccl 73, 1 [Pl 24, 17]).
Il Concilio ecumenico Vaticano II va ancora oltre e pone sullo stesso piano la scrittura e l’eucaristia: «La chiesa ha sempre venerato le divine scritture come ha fatto per il Corpo stesso del Signore» (Dv 21); e il Ccc continua: «In ambedue le realtà tutta la vita cristiana trova il proprio nutrimento e la propria regola» (cf Ccc 141).
Ne deriva una serie di conseguenze non equivoche, di cui ne sottolineiamo due soltanto. La prima: la celebrazione dell’eucaristia assume la forma di una duplice mensa, sulla quale per primo ascoltiamo la Parola, quella stessa che diventerà Pane/Corpo. La seconda: nell’eucaristia facciamo due volte la comunione; la prima volta attraverso le orecchie, ascoltando la Parola che è il Lògos, cioè Gesù Cristo, il Signore; la seconda facciamo la comunione con la bocca, mangiando la Parola che «carne fu fatta» (Gv 1,14).
Per fare tutto questo sono necessari strumenti adeguati come la conoscenza delle lingue bibliche, l’ambiente vitale dove i testi si sono formati, sviluppati e dove infine sono stati scritti nella forma giunta fino a noi. Occorre conoscere la storia collaterale, la geografia dei luoghi e degli eventi, l’archeologia là dove può essere di aiuto.
Per quanto riguarda l’individuazione della località delle nozze, dal punto di vista dell’archeologia, per esempio, si parla di tre località bibliche col nome di «Cana». Quale delle tre è quella di cui parla il quarto vangelo? Escludiamo la località Qana, che si trova a km 12 a sud-est di Tiro, nel Libano, sulla costa del Mediterraneo e quindi fuori dei confini d’Israele; restano le altre due che si disputano la primogenitura.
I pellegrini che vanno in Terra Santa, non mancano, dopo Nazaret di fare una visita anche a Khirbet Kana (rovine di Cana), dove la tradizione francescana fa memoria delle nozze evangeliche fin dal medioevo. Già nel 570 ne parla l’anonimo Pellegrino di Piacenza, che visita il luogo e lo descrive nel suo diario. L’attuale chiesa è stata costruita dai francescani solo nel 1883 nel luogo dove sorgeva una moschea.
Con ogni probabilità, però, il luogo del racconto evangelico è Kafr Kenna (villaggio di Kenna), distante circa km 7 dalla Cana ufficiale. Le fonti letterarie oggi sono tutte propense per questo secondo sito, anche se i pellegrini continueranno a frequentare la Cana di sempre.  

Chi ha scritto il «vangelo di Giovanni»?
Oltre al luogo, un altro problema gigante riguarda la questione dell’autore del quarto vangelo. Da secoli siamo abituati ad ascoltare «dal vangelo secondo Giovanni» e con questo nome s’intende «quel» Giovanni di cui si parla nello stesso vangelo e che viene identificato con il «discepolo che Gesù amava» (Gv 19,26; 20,2; 21,7.20) e che nell’ultima cena ha posto il suo capo sul petto di Gesù, in segno di familiarità e di predilezione (cf Gv 13,25).
Tutti parlano di «discepolo prediletto», testimone attendibile, perché spettatore oculare di fatti. Noi sappiamo che i vangeli non sono opere scritte a tavolino, in modo asettico, ma sono frutto di un lungo percorso comunitario, quasi mai opera di un singolo individuo. Essi, dopo lunga gestazione nell’uso liturgico e nella predicazione, hanno assunto la forma con cui sono giunti fino a noi.
È probabile che Giovanni, il discepolo della prima ora, abbia influenzato con la sua predicazione il clima entro il quale è nato e si è sviluppato il vangelo che poi la tradizione ha attribuito a lui. È quasi certo ormai che il «discepolo che Gesù amava» non sia l’apostolo Giovanni, ma un suo discepolo che è diventato una figura autorevole di primo piano nella comunità giovannea abitante a Efeso nell’Asia Minore, attuale Turchia.
A questo punto le domande inevitabili sono: chi è l’autore del quarto vangelo? Chi ha potuto lambire vertici simili a quelli descritti in questo libretto di appena dodicimila parole, di cui essenziali non più di due mila? È il problema dell’identità dell’autore dello scritto che è altrettanto «enigmatico» come il vangelo che ci propone, simile ai vangeli sinottici (Mc, Mt e Lc), ma anche completamente diverso da essi.
«Gli interrogativi che lo riguardano sono assai numerosi e alcuni di essi si possono formulare così: chi sarà all’origine della cosiddetta tradizione giovannea? In quali ambienti si è sviluppata? Quali tensioni intee ha dovuto affrontare? Ha forse subito influssi da altri settori del cristianesimo primitivo, quali san Paolo e i sinottici? Come è maturato il suo rapporto con il giudaismo, tenendo conto della cesura segnata dall’anno 70? E come si può delineare più in generale l’innegabile influenza dell’ampio contesto religioso-culturale del tempo?» (R. Penna, Il giovannismo).
Per lungo tempo il vangelo di Giovanni fu considerato così «spirituale» da non considerarlo affidabile dal punto di vista storico, o come dice lo stesso Penna: «In quanto prodotto del mondo ellenistico, lo si considerò talmente privo di valore storico e con pochi rapporti con la Palestina di Gesù di Nazaret» (R. Penna, Il giovannismo).
Il processo che vede la nascita e lo sviluppo del quarto vangelo è molto complesso e articolato e non si è ancora arrivati alla conclusione definitiva. Allo stato attuale, esistono alcune ipotesi, ragionevoli e probabili, fantasiose e inconsistenti. Con la prossima puntata, cominceremo a dipanare la questione dell’autore e della sua comunità, esaminando alcune ipotesi per scegliee una che a noi sembra la più consona.
Nella terza puntata faremo una presentazione succinta di tutto il quarto vangelo, facendone emergere l’unità e la dinamica strepitosa. Infine collocheremo il racconto delle nozze di Cana nel suo contesto prossimo e remoto per passare poi all’esegesi parola per parola, frase per frase per assaporae, con l’aiuto dello Spirito Santo, la profondità e la vertigine.              (continua-2)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (1) Un matrimonio senza sposi

Il racconto delle nozze di Cana (1)

D opo avere concluso la lettura e il commento della parabola del «figliol prodigo» di Lc 15 che ci ha accompagnato per oltre un anno, con questo numero iniziamo la presentazione e il commento del racconto delle «Nozze di Cana» riportato solo nel vangelo di Giovanni nei primi undici versetti del capitolo secondo.  

Immettere ed estrarre
Spesso il testo del racconto viene sfalsato perché letto fuori dal suo contesto originario che noi invece vogliamo recuperare e rispettare. Di solito il brano viene usato nei matrimoni perché, si dice, è il testo che fonda il matrimonio come sacramento a motivo della presenza di Gesù. Diciamo subito che questa lettura è superficiale e non rispecchia affatto il testo in sé, né l’intenzione dell’autore, il quale non intende esporre una riflessione articolata del matrimonio cristiano come si è sedimentato dal sec. x d.C. nella teologia della chiesa e nella cultura occidentale, per altro, ovviamente, inesistente al tempo di Giovanni.
Non ribadiremo mai abbastanza il pericolo che corriamo sempre di far dire alla Scrittura quello che è frutto della nostra mentalità e della nostra esperienza, invece di estrarre fuori il senso proprio dai testi come sono e letti nel loro naturale contesto, che è semitico, orientale, greco-ellenistico. Il primo modo di leggere la Scrittura, di norma basato solo sulle traduzioni che sono quasi tutte addomesticate, si chiama «eis-egèsi» perché «immette dentro» significati che il testo non ha; il secondo metodo invece è quello corretto e si chiama «ex-egèsi», perché studia il testo come è e «tira fuori» da esso, quanto più è possibile, il senso vicino alla mentalità e all’intenzione dell’autore.
Per questo lavoro è necessario trovare tempo, non avere fretta, ruminare le parole, assaporarle, quasi una centellinazione di un bicchiere di un vino d’annata fino a percepie il colore, la densità, la trasparenza, il retrogusto, la corposità, la vivacità: in una parola «la bellezza».
Viviamo in un tempo in cui le parole sono inflazionate (si parla di 90 milioni di sms al giorno solo in Italia) e mai come in questi tempi si è vista una carenza di comunicazione: abbondano e straripano le parole morte, manca il silenzio che dà corpo e vita al suono delle parole vitali. All’eccesso di parole corrisponde una deficienza di attenzione e di profondità: tutto scorre e rotola in superficie, pochi ormai si fermano a leggere in profondità. Dilaga la stupidità, che nasce dalla superficialità, e viene meno «l’intelligenza», cioè la capacità di «intus-lègere – di leggere dentro» gli avvenimenti, i fatti, le persone, i sentimenti, le emozioni, la preghiera, la liturgia, Dio.

Un modo nuovo per leggere la Storia
Entriamo subito nel cuore delle questioni, tanto per dare un saggio, mettendo in fila, anche in modo disordinato, le prospettive che il racconto racchiude per farcene un’idea e superare almeno il livello della superficialità sapendo che dobbiamo riprenderle tutte, fino ad esaminare il racconto parola per parola se vogliamo cogliee l’intensità e i riferimenti ai testi dell’AT di cui il racconto vuole essere un commento cristologico.
L’autore intende presentare la persona di Gesù e lo fa da ebreo che conosce l’AT, il Targum come ascoltato nella sinagoga e l’esegesi giudaica del «midràsh». Lo sposalizio di Cana è solo un espediente che permette di conoscere più profondamente la personalità di Gesù di Nazaret. Il racconto, infatti, è carico di una cristologia elevata: la posta in gioco non è un banale matrimonio, ma la risposta alla domanda cruciale che attraversa tutto il IV vangelo: «Chi è Gesù?».
L’autore del vangelo ci accompagna per mano e ci conduce in un viaggio di «conoscenza» dentro la storia ebraica, dentro il cuore stesso di Dio che si rivela e si manifesta nella stessa storia, la storia del suo popolo Israele, e lo fa da giudeo che ha creduto in Gesù e lo ha riconosciuto come Messia. Nel racconto di Cana vuole mettere in rilievo l’alleanza del Sinai che tutta la letteratura biblica presenta come uno sposalizio (cf p. es., Is 54,5; 62,5; Jer 2,2; 3,1; Ez 16,23; Os 1-3 e tutta l’allegoria del Cantico dei Cantici) per dirci che Gesù riprende il tema della nuzialità come dimensione della nuova alleanza nel suo sangue.

Un matrimonio senza la sposa
Rileviamo subito che nel racconto si parla di uno sposalizio, come ve ne saranno stati tanti al tempo di Gesù e come ve ne sono tanti anche ai nostri giorni. Tutti hanno lo stesso schema, gli stessi elementi, lo stesso andamento: festa, sposa al centro dell’attenzione, sposo nervoso, invitati, regali, organizzazione e infine banchetto con ubriacatura finale.
Nel racconto del quarto vangelo, però c’è qualcosa che non quadra. Anche il lettore più superficiale si accorge subito che manca la «sposa»: essa addirittura non è nemmeno nominata. Lo sposo poi è citato di passaggio e solo per rilevare la brutta figura che ha fatto nel non sapere prevedere il numero degli invitati e l’esito del banchetto. La stessa collocazione a «Cana» è problematica perché sono tre i villaggi con questo nome, di cui uno anche nel Libano meridionale, che si contendono le nozze: tre villaggi per una sposa assente. L’archeologia e specialmente lo studio delle fonti letterarie hanno dimostrato, ormai definitivamente che il villaggio delle nozze di Cana non è quello che usualmente i pellegrini visitano, ma un oscuro posto distante circa sette km, abbandonato e dimenticato.
L’intervento della madre di Gesù è centrale e non può essere solo la preoccupazione di una donna di buon senso che cerca di rimediare a una difficoltà. Per questo non era necessario scrivere un vangelo. La madre che chiede di porre rimedio alla brutta figura è fuori luogo, perché sia lei che il figlio sono invitati e non responsabili del banchetto. L’intervento di Maria viene spesso interpretato come una intercessione «matea» che si fa carico dei bisogni degli altri, dimostrando così come si possa manipolare un testo con la teologia mariana «di poi», immessa a piene mani nel vangelo che invece vuole dire tutt’altro.
Dietro la richiesta della madre ci deve essere un altro motivo logico, un motivo profondo che tenteremo di scoprire. Le giare di pietra sono un altro «enigma»: perché sei? perché «di pietra»? In Gv nulla è superfluo, perché tutto ha un senso preciso e puntuale. Se non lo comprendiamo, è per nostra ignoranza.

Una rilettura cristiana dell’Esodo
Cercheremo di dimostrare che il racconto delle nozze di Cana è un «midràsh» cristiano che ha lo scopo di svelarci una parte della complessa personalità di Gesù, riprendendo alcuni testi dell’AT che acquistano così il valore di eventi premonitori e anticipatori. Scopriremo così che i primi cristiani leggevano gli eventi nuovi riguardanti Gesù di Nazaret come «Scrittura» all’interno dell’altra grande «Scrittura» giudaica, che era la Toràh scritta (Pentateuco) e orale (Targum, Midràsh).
Due sono i fatti più importanti della storia biblica a cui il racconto delle nozze di Cana si riferisce: l’alleanza stipulata ai piedi del monte Sinai, descritta nel capitolo 19 dell’Esodo, e il «segno» della prima piaga (le acque del fiume Nilo trasformate in sangue) che colpì l’Egitto come è descritta in Esodo al capitolo quarto. In questo contesto si capisce la prospettiva di Giovanni.
Nei testi dell’AT si parla di confronto tra fede e incredulità, tra il faraone ostinato e Mosè il credente, allo stesso modo, a conclusione del racconto delle nozze di Cana, l’autore ci svela il suo obiettivo: l’intervento di Gesù che muta l’acqua in vino durante un banchetto nuziale «fu il principio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui» (Gv 2,11).
Questa conclusione è la chiave interpretativa di tutto il racconto e di tutto il vangelo: il rapporto tra incredulità e fede, tra accoglienza di Gesù e rifiuto della sua persona, il conflitto tra luce e tenebra, come si esprime lo stesso autore nel «prologo» (Gv 1,1-8). Dalla banalità di uno sposalizio a una prospettiva universale della vita.

Gesù e Mosè: la discriminante della fede
Per l’autore del quarto vangelo, Gesù si trova nella stessa situazione di Mosè appena dopo l’esperienza del roveto ardente (Es. 3), quando Dio ha intenzione di rimandarlo in Egitto a portare il suo messaggio al Faraone perché liberi il popolo d’Israele. Mosè oppone una difficoltà: «E se non mi credono e non ascoltano la mia voce?» (Es 4,1). Dio allora istruisce Mosè che in questo caso deve fare tre «segni» in un crescendo drammatico culminante nell’acqua del Nilo trasformata in sangue (Es 4,9), come nelle nozze di Cana l’acqua è trasformata in vino.
Un altro elemento importante è il tema del vino, perché in tutta la tradizione biblica e giudaica è simbolo della Toràh e anche dell’alleanza in prospettiva messianica, come testimoniano alcuni apocrifi dell’AT, di cui parleremo più avanti. Narrando il «fatto» di Cana, l’autore ci scaraventa di peso nel cuore stesso della storia della salvezza, che ha il suo fulcro e il suo epicentro nell’alleanza del Sinai a cui Israele è giunto dopo avere attraversato tutte le fasi dell’incredulità del faraone e della sua corte: fu un confronto titanico tra la non-fede e la fede, tra la lettura dei «segni» come accaduti nella storia e la cocciutaggine di volerli addomesticare a proprio vantaggio come fa il faraone, tra la libertà dei figli di Dio e la schiavitù dei figli degli uomini.
Le nozze di Cana ci svelano il volto autentico del Dio che Gesù è venuto a mostrarci: il volto di un Dio innamorato che non smette mai di innamorarsi.
Quanto detto finora ci sembra sufficiente a stuzzicare la curiosità su un brano del vangelo, le nozze di Cana, molto conosciuto, ma poco approfondito a livello popolare. La nostra intenzione è di fare un commento che tenga conto di tutte le ricerche bibliche più aggiornate, espresse in un linguaggio non specialistico, ma divulgativo: per questo motivo diamo in questo numero una bibliografia essenziale, per fare anche capire che dietro ogni puntata vi è la giorniosa fatica di un lavoro di ricerca e di confronto e dare anche lo spessore dell’impegno che testimonia l’importanza della Parola e la serietà con cui deve essere accostata e mangiata (cf Ez 2,8; 3.1). Solo così anche per noi essa sarà «dolce come il miele» (Ez 3,3).
Lo scopo nostro è divulgare la Parola di Dio, in obbedienza all’invito di donna Sapienza a quanti sono inesperti: «Venite mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato» (Pr 9,4-5).

Il quarto vangelo: una fittissima foresta
Prima però di cominciare la presentazione e il commento del brano che riporta il racconto delle nozze di Cana (Gv 2,1-11), è necessario dire qualcosa sul quarto vangelo e sul suo autore, così non navigheremo a vista, ma avremo una panoramica di riferimento, una coice che per necessità sarà essenziale, ma sufficiente a darci il quadro generale entro cui ci muoveremo.
Il quarto vangelo, attribuito dalla tradizione a un certo Giovanni, è come un bosco fittissimo, dove una volta entrati se non si conoscono bene i sentirneri, si rischia di girare a vuoto senza andare da nessuna parte o anche di andare nella direzione opposta: «Solo quando noi, dopo aver percorso a lungo un sentirnero, ci rendiamo conto che i nostri passi non portano da nessuna parte, oppure in una direzione che non è quella che vogliamo, cominciamo a maturare in noi la convinzione di dover fare a ritroso il cammino, per riguadagnare il punto da cui sia possibile ritrovare l’orientamento. Questa osservazione non si applica solo a coloro che attraversano un bosco o iniziano a scalare una montagna» (G. Ruggieri, Cr St 21 [2000] 1), ma anche a chi si avventura a entrare nella selva di sentirneri e percorsi, incastonati nel quarto vangelo come innumerevoli e fitti alberi di una immensa foresta. Per entrarvi bisogna essere dotati di una mappa minuziosa ed essere attenti a ogni minimo particolare, che, a volte, all’occhio dell’inesperto sembra futile o insignificante, mentre è la chiave per capire l’insieme.

Il iv vangelo: un enigma dietro l’altro
«Il Vangelo di Giovanni è una collezione di enigmi»  (G. Ravasi, Il Vangelo 5) e «ha un qualcosa di enigmatico, che non trova riscontro in nessun altro libro del Nuovo Testamento» (H. Strathmann, Il Vangelo 9). Enigma ed enigmatico sono un sostantivo e un aggettivo molto pertinenti a definire il quarto vangelo, per sintetizzae in una parola il fascino e le difficoltà di approccio. Mano a mano che ci si addentra al suo interno, più che le certezze aumentano gli interrogativi.
Un’altra espressione, ormai corrente «vangelo spirituale», espressione antica e divenuta ormai abituale. Di «vangelo spirituale», infatti, parla Eusebio di Cesarea (Storia Ecclesiastica, VI,14,7) che, a sua volta, riferisce la testimonianza di Clemente Alessandrino, morto verso il 200: «“…Da ultimo Giovanni, vedendo che negli altri vangeli era messo in luce l’aspetto umano della vita di Cristo, obbedendo all’invito dei discepoli e divinamente ispirato dallo Spirito Santo, compose un vangelo che è spirituale”. Questo riferisce Clemente» (cf anche G. Ravasi, Il Vangelo 5).
L’esegeta olandese H. van den Bussche e l’americano R. E. Brown pongono ambedue l’espressione addirittura come sottotitolo al rispettivo commento che porta lo stesso titolo: Giovanni. Commento al Vangelo spirituale (v. bibliografia).
Un’altra definizione è «vangelo del presbitero, quello che al cristiano maturo e contemplativo dà una visione unitaria dei vari misteri della salvezza» (C. M. Martini, L’itinerario 8). Ognuna di queste definizioni è vera, ma incompleta, perché nessuna di esse esaurisce la profondità e l’intensità del pensiero dell’autore espresso nelle parole del vangelo.
Ogni parola ha un significato diretto e immediato che è quello del vocabolario, ma dietro il senso ovvio ognuna di esse nasconde un significato misterioso o «significato secondo» che bisogna cercare e scoprire con pazienza, preghiera e passione.
Lo stesso evangelista ci invita a rimanere sulla sua Parola per essere suoi discepoli, conoscere la verità e diventare liberi (cf Gv 8,31). Rimanere sulla Parola significa essere saldi e radicati su di essa come la casa costruita sulla roccia (cf Mt 7,24-25) per penetrae l’anima e il cuore che solo con lo studio si può realizzare: la Parola di Dio è come un’innamorata che esige tempo e attenzione, riguardo e passione.

Attenti ai segni
Abbiamo già accennato che il versetto conclusivo del racconto delle nozze di Cana ci informa che ciò che accadde allo sposalizio fu «il principio dei segni» (Gv 1,11) e un lettore attento non può non restare stupito di fronte alla prima conclusione del vangelo dove leggiamo: «Gesù in presenza dei suoi discepoli fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,30-31).
Il vangelo prende l’avvio dal «principio dei segni» che è anche l’inizio della fede dei discepoli e si conclude con l’accenno ad alcuni «segni» finalizzati alla fede del lettore che così inizia a diventare discepolo che testimonia colui in cui crede.
Nel vangelo di Giovanni non bisogna mai fermarsi alle apparenze, perché esse sono sempre occasione per un trabocchetto, dove ci si impiglia facilmente. Per impedire di inciampare dal prossimo numero cominceremo con una presentazione sintetica del quarto vangelo e cercheremo di capire chi ne è l’autore.    (continua – 1)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




«DIO È AMORE»

la parabola del «figliol prodigo» (24)

Concludiamo il nostro lungo cammino in compagnia dell’evangelista Luca, il quale da par suo ci ha fatto conoscere profondamente cinque personaggi: un padre sconfinato che non esita a dare la vita per i figli; il figlio minore, sognatore e irrequieto, ma senza una propria progettualità tanto da finire subito in fallimento; il figlio «anziano», apparentemente tutto dolce e obbediente, ma nel suo cuore è tragico senza possibilità di redenzione; la persona di Gesù, che non smentisce la sua natura di rivoluzionario delle convenzioni religiose e sociali del suo tempo; e infine noi stessi, noi lettori, che dopo questo viaggio «dentro» la parabola del cosiddetto «figliol prodigo», non possiamo rimanere gli stessi di quando abbiamo cominciato.

Punto di arrivo e di partenza: domande personali
La parabola del figlio prodigo, infatti, penetra nel midollo della nostra anima e ci scaifica fino all’osso come una spada tagliente (cf Eb 12,4). La lettura e il commento che abbiamo fatto ci obbligano a una presa di posizione personale nei confronti di Dio e dei nostri stili di vita. Le domande sono individuali. Chi è Dio «per me?». Il comportamento del padre che perdona senza chiedere in cambio nulla, un perdono gratuito, senza condizione mi scandalizza oppure mi rivela un «volto nuovo» di Dio che prima non immaginavo? Ritengo che il comportamento del padre sia «ingiusto» secondo i miei criteri della giustizia che spesso si avvicina fino a confondersi con la vendetta? A quale dei personaggi della parabola mi trovo più vicino? Per quali motivi? Ha senso la mia pratica religiosa, dopo avere vissuto questa parabola dal punto di vista del padre/Dio?
Tutte queste domande e molte altre ancora tracimano dentro di noi perché la parabola lucana è uno spartiacque tra il «dio-idolo», che a volte ci costruiamo per giocare a fare i religiosi, e il «Dio-Misericordia» che trancia la logica umana, esigendo da noi uno stile di vita divino, in forza del principio evangelico: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48).
Il cristianesimo è tutto qui: non è una morale, né un sistema di pensiero, né un’organizzazione, né una religione, ma è solo una «imitazione» che si trasforma in simbiosi di vita e prospettiva con una Persona. Se non impariamo nei nostri rapporti, contatti, pensieri, parole, ideali, atteggiamenti, ad agire come Dio, la nostra religiosità è un francobollo da cui è evaporata la colla.
Ripercorriamo brevemente il cammino fatto con Luca e la sua parabola. Siamo partiti da alcune domande poste da un lettore: «Da dove Lc ha attinto questa parabola, non essendo apostolo? Come spunta questa meravigliosa “perla”, visto che è esclusiva di Lc e non compare negli altri evangelisti? L’ha pronunciata veramente Cristo?».
Le domande sono radicali e dimostrano la poca frequenza, oltre la lettura di prassi, con la complessità della formazione dei vangeli e del NT. Un dato è certo: i cattolici conoscono poco, pochissimo, quasi niente le sacre scritture, che dovrebbero essere il fondamento della loro fede. Essi, infatti, sono molto religiosi, ma scarseggiano di fede e di conoscenza. Officiano, senza amare.

Conoscere la scrittura e il suo cammino
Di fronte a tali presupposti abbiamo proposto una carrellata veloce sulla formazione dei vangeli, spiegando che i vangeli non sono nati per tramandare aneddoti su Gesù, ma sono stati «predicati» per fare conoscere Gesù ai propri contemporanei. Da questa predicazione orale, fatta da persone innamorate di Gesù, sono nati i primi scritti come elenchi di miracoli, di parabole, di detti o sentenze ad uso in genere dei catechisti e dei predicatori.
Questi documenti sparsi giravano per le chiese e cominciarono a essere abbinati come «Parola di Dio» alla lettura dell’AT nelle assemblee eucaristiche. A circa 30 anni dalla morte di Gesù, quando ormai Paolo aveva valicato i confini della Palestina e fondava chiese nell’attuale Turchia e in Grecia, l’evangelista Marco, per primo, inventa un genere letterario nuovo che chiama «vangelo», preso più tardi a modello da altri due progetti pensati da Matteo e da Luca. Nascono così i vangeli «sinottici» perché se si mettono in colonne affiancate Marco, Matteo e Luca, si possono leggere simultaneamente o, come si dice in gergo biblico, in «sinossi» che significa «con un colpo d’occhio».
Lo schema dei vangeli «sinottici» è semplice: a) predicazione di Giovanni Battista; b) predicazione e attività di Gesù, prima in Galilea e poi in Giudea/Gerusalemme; c) passione, morte e risurrezione di Gesù. A questo schema, in epoca successiva, Mt e Lc aggiungono i primi due capitoli dei rispettivi vangeli che si chiamano in blocco «vangeli dell’infanzia», perché trattano di Gesù Bambino, ma visto e descritto alla luce della pasqua già avvenuta.
L’evangelista Gv non segue questo schema, ma si pone su un piano più teologico, perché fa emergere una «cristologia» alta: Gesù infatti fa lunghi discorsi che sono inverosimili storicamente, mentre sono essenziali per il progetto di Gv che ci presenta Gesù, l’uomo di Nazaret, come il «Lògos» eterno incarnato nella storia.
Dopo questa premessa essenziale e didascalica, abbiamo parlato del capitolo 15 di Lc, che riporta tre parabole secondo le bibbie ordinarie, mentre abbiamo dimostrato che le parabole sono due, di cui la prima quella del pastore è ripetuta anche in versione femminile (la donna che perde e trova la moneta). Il capitolo 15 di Lc è uno spartiacque, il vertice di tutta la rivelazione del NT, dopo l’affermazione giovannea che «Il Lògos-carne/fragilità fu fatto» (Gv 1,14). Successivamente abbiamo presentato i protagonisti della parabola con una breve scheda storica dei pubblicani, scribi, farisei e sinedrio che fanno da sfondo e da pretesto alla parabola.

Luca 15: una nuova prospettiva
Infine, abbiamo avanzato l’ipotesi, che ci sta a cuore e di cui siamo convinti: il capitolo 15 di Luca, compresa quindi la parabola del figliol prodigo, non è una invenzione di Lc, ma è un «midràsh» del capitolo 31 di Geremia. Abbiamo spiegato che il midràsh è un modo giudaico di esegesi che si basa sul principio che la scrittura si spiega con la scrittura. Lc prende il testo del profeta Geremia che appartiene all’AT e lo commenta non con un altro testo dell’AT, ma con due parabole messe in bocca a Gesù, dicendoci così che la parola di Gesù è sullo stesso piano dell’AT: è Parola di Dio.
Gesù ha parlato ai suoi uditori di pecore, di monete e di figli: ne abbiamo molti esempi nei vangeli; ma nella forma espressa da Lc, l’intero capitolo è una costruzione per tradurre in forma cristiana il capitolo 31 di Geremia che parla di un pastore, di una donna e di due figli.
Il contesto di Geremia è «la nuova alleanza» (Ger 31,31) che è la chiave di comprensione di tutta la vita di Gesù. Egli porta la novità di un Dio che trasforma la vendetta in perdono, l’esclusione in inclusione, l’emarginazione in elezione, il peccato in grazia, il rifiuto in accoglienza. La novità riguarda anche la religione: dagli atti estei di culto pubblico o privato si passa all’adesione del cuore, all’etica dell’intenzione, alla purezza del cuore, al perdono senza condizione.
In MC (Luglio/agosto 2006) scrivemmo: «Lc 15 è dunque un midràsh di Ger 31 o, se si vuole, una omelia che commenta il testo profetico. La comunità cristiana delle origini prima e Lc successivamente hanno riletto il capitolo 31 del profeta Geremia con gli occhi fissi su Gesù, tanto che l’evangelista nel redigere il capitolo, ha mantenuto lo stesso ordine dei personaggi come si trovano nel profeta: un pastore, una donna, un padre con un figlio. Per potersi rendere pienamente conto di quanto profondo e attualizzante sia il rapporto tra Lc 15 e Ger 31, è necessario leggere il testo del profeta Geremia e quello di Lc in sinossi, cioè in modo speculare»: nello stesso numero mettemmo a disposizione dei lettori i due testi a confronto per vedee somiglianze e differenze.
Noi cattolici siamo abituati a leggere il vangelo e il NT in genere con la nostra mentalità occidentale latina, senza alcun riferimento, se non in forme marginali, all’ambiente vitale dove questi scritti sono nati, sono stati pensati e sono stati messi su pergamena.

Il giudaismo, ambiente vitale del vangelo
A questo scopo, abbiamo insistito molto nel dire che corriamo il rischio di non capire il 90% del vangelo se ci limitiamo a leggerlo con le nostre categorie culturali e non ci sforziamo di situarlo nel suo ambiente vitale, culturale e religioso del suo tempo. Gesù è un ebreo, Maria è un’ebrea, Giuseppe è un ebreo della stirpe di Davide, gli apostoli sono ebrei osservanti, i primi cristiani sono ebrei figli di Abramo: non possono non pensare e non esprimersi da ebrei. Essi conoscono non solo la scrittura ebraica, che è Toràh, i Profeti e gli Scritti (corrispondenti ai nostri Sapienziali), essi conoscono anche e specialmente la «bibbia orale», che è tramandata solo oralmente attraverso la predicazione e la sinagoga con i Targum e i Midràsh.
Affinché non andasse perduta, la maggior parte della predicazione orale fu messa per iscritto durante la diaspora tra il sec. II e il sec. VI d.C., ottenendo così i testi che conosciamo con il nome di Mishnàh, Talmud, Tosèphta, Ghemarà, che riportano i commenti alla scrittura di tutti i saggi d’Israele dal sec. III a.C. al sec. VI d.C. È un materiale immenso, certamente tardivo, ma che contiene materiale anche antico da valutare di volta in volta. Noi cattolici non conosciamo quasi nulla di tutto questo e spesso ci scandalizziamo, perché consideriamo il NT un frutto del tutto avulso dal mondo che lo ha generato e partorito. Finché non si ritoerà alla bibbia come libro fondamentale della nostra fede, basato nel contesto giudaico, il nostro cristianesimo sarà molto superficiale e anche falsato.
Abbiamo presentato la parabola, cercando di evidenziae il vocabolario peculiare, mettendo in risalto il comportamento del padre che riflette il modo di essere di Dio nei nostri confronti. S’è scoperto che il figlio maggiore è rappresentativo del mondo farisaico, che rigetta Gesù per difendere il proprio potere, e che il figlio minore ha tutte le caratteristiche dei pubblicani. Come questi, anche il minore non è giustificabile, ma nella logica della parabola non è determinante che egli chieda perdono, come spesso si legge nei commenti e negli usi liturgici di questa parabola, perché il cuore della pagina non è il figlio minore o maggiore, ma è l’accoglienza del padre/Dio, che previene i figli al di là dei loro meriti.
In sostanza abbiamo visto che il significato ultimo della parabola è la tenerezza di Dio, che si commuove fino alle viscere se vede un figliolo che si sta perdendo in «un paese lontano»: egli allora spinto dal suo viscerale amore senza fondo e senza confini, perde se stesso pur di guadagnare il figlio/figli. Alla fine abbiamo scoperto con amarezza che riesce nel caso del figlio minore, ma fallisce nel caso del figlio maggiore.

Lettura scientifica e insegnamento spirituale
Abbiamo impegnato 15 puntate per commentare i singoli versetti della parabola lucana, mettendo in evidenza anche aspetti psicologici, oltre che esegetici, pastorali e spirituali: il nostro commento infatti non voleva essere solo un rendiconto asettico delle questioni letterarie o testuali, ma un momento di valutazione anche della nostra vita alla luce della parola di Dio, più profondamente compresa. Lo studio della bibbia più è scientifico più diventa spirituale, perché dandoci il senso genuino del testo scritto, ci permette di entrare nel messaggio autentico della rivelazione.
All’interno del commento abbiamo imparato il significato del vitello grasso, il cui sacrificio ristabilisce i termini dell’alleanza qui tra figlio e padre e in termini più generali l’alleanza che in Gesù si stipula tra l’umanità e Dio, fermo restando il mestiere per eccellenza di Dio che è la misericordia. «I sandali, la tunica e l’anello» ci hanno svelato il senso nascosto nella tradizione giudaica di reintegro nell’eredità materiale, nella dignità personale e nell’identità filiale; siamo così arrivati a scoprire il capovolgimento delle situazioni di partenza: il figlio che ha chiesto la vita del padre per poterla sperperare nella dissolutezza e nell’impurità (paese lontano) ora si ritrova immerso in quella stessa vita che lo ha salvato dall’inferno della dannazione (porci) e dalla presunzione di se stesso.

La conversione interessata
Troppa retorica si è fatto attorno al figlio prodigo e alla sua conversione, tanto che è diventato un classico, durante la quaresima, imbastire una liturgia penitenziale dove lo si prende a modello di conversione e di pentimento. Il figlio minore invece è motivato dalla «necessità di sopravvivere» e la sua conversione, se c’è, avviene dopo, nel silenzio della parabola, quando il padre lo fa entrare nella sala del banchetto con la veste nuziale che gli cambia l’aspetto e quello che più conta il cuore. Ancora una volta è il padre il peo di ogni movimento.
Abbiamo anche ridimensionato drasticamente il figlio maggiore, verso il quale si è di solito più indulgenti, perché apparentemente non ha mai dato dispiaceri al padre, restando sempre in casa. Il commento ha evidenziato la natura perversa di questo figlio, simbolo del fariseismo e dell’opportunismo, del comportamento cioè di chi trama nell’acqua senza mai esporsi. Egli ha goduto, almeno crediamo di averlo bene chiarito, della partenza del figlio e già faceva i calcoli della «sua roba» alla morte del padre che aspettava con ansia. La sua vita è rovinata dal padre che accoglie il fratello e, come è stato assente per tutta la sua vita dalla vita del padre, così alla fine egli resta fuori del banchetto e non può indossare l’abito delle nozze. Egli che è rimasto sempre in casa, di fatto era partito da un pezzo ed era rimasto lontano, molto più lontano del paese dove è andato a gozzovigliare il fratello; il minore invece, andato fisicamente via da casa, è tornato perché nel suo cuore, anche a sua insaputa, era rimasto legato al padre di cui aveva inconsciamente nostalgia.

Gli ultimi precedono i primi
Abbiamo pure visto concretizzarsi la «legge» biblica del ribaltamento delle posizioni codificato nel Magnificat di Maria e la «legge della sostituzione» che percorre la bibbia dalle origini alla fine: l’ultimo prende il posto del primo e il secondogenito subentra nell’asse ereditario al primogenito. Strano e illogico, secondo i parametri umani, il Dio che è delineato nella parabola del figlio prodigo!
Egli è un Dio senza dignità e senza rispetto per se stesso, perché, travolgendo ogni costume sedimentato e ogni razionalità, si «mette a correre» per venire incontro a chi non ha più speranza, a chi è morto e bandito dalla società e dalla religione. Egli è un Dio senza pudore che abbandona il tempio, le chiese, conventi e monasteri, dove i figli sono al sicuro e corre per le strade del mondo a cercare la pecora smarrita, la moneta perduta e il figlio traviato. A buon diritto il lettore può dire: egli viene per me.
Un’attuazione pratica della parabola si ha nell’eucaristia, che è il commento sacramentale, o «midràsh sacramentale», della parabola della tenerezza del Padre che trasforma la vita del Figlio unigenito in parola, pane e vino perché i figli dispersi e smarriti possano rifocillarsi nell’ascolto, nel cuore e nel corpo per ritrovare il Volto di Dio, che in Gesù si manifesta e rivela a noi come Padre/Madre.
È questo il senso ultimo della parabola della pateità sconfinata che sa rigenerare, perché ama senza scopo e senza interesse. Se dovessimo sintetizzare il capitolo 15 di Lc in una parola, non avremmo dubbi perché c’è una sola parola, come ci suggerisce Paolo in 1Cor 13, e questa parola è «Agàpēē», il nome nuovo del Dio di Gesù Cristo: «Dio è Agàpēē» (Gv 1Gv 4,8) che tradotto alla lettera si può rendere con «Dio è Amore a perdere».

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella