Cana (30): Storia d’Israele in sei giare di pietra

«I giusti sono le colonne del mondo posate su basi d’oro puro:
sono infatti i precetti della Legge che studiano»  (Targum Ct 5,15)

Gv 2,6 (a): «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei,
collocate/giacenti [per terra], contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri ciascuno)»

Le giare distese per terra sono in numero di «sei» e ciascuna può contenere «due/tre» metrète. Se si moltiplica 2×3 si ha ancora il risultato di sei. Che significato hanno questi numeri, ammassati tutti nello stesso versetto? Perché le giare sono «sei» e non cinque o quattro o tre? Perché non si parla genericamente di «alcune giare», ma si specifica esattamente che sono «sei»? Perché, invece, la loro capienza non è precisa, ma oscilla tra «due o tre» misure che se moltiplicate tra loro fanno sempre «sei»?
Proviamo a scoprirlo interrogando il vangelo di Giovanni che, come ormai sappiamo, gioca con il doppio senso delle singole parole, obbligandoci a non fermarci mai alla superficie, cioè al senso ovvio delle parole. Quando poi si tratta di numeri bisogna essere ancora più circospetti, perché in ebraico, cioè nella mentalità semita, i numeri corrispondono alle lettere dell’alfabeto e quindi possono assumere significati particolari, applicando una delle leggi dell’esegesi giudaica che è la «ghematrìa» o «scienza dei numeri» (su questo argomento cf P. Farinella, Bibbia, Parole, segreti, misteri 49-60).

Il numero «sei» nel vangelo di Giovanni
Il numero «sei», che è molto importante nell’economia del racconto delle nozze di Cana, in tutto il vangelo di Giovanni ricorre 7x (x sta per «volte»):
1.    È ripreso all’inizio del racconto di Cana dove si dice: «Nel terzo giorno vi fu uno sposalizio a Cana di Galilea» (Gv 1,1) che, come spiegato a lungo, corrisponde al «sesto giorno» della prima settimana di Gesù descritta da Giovanni nel cap. 1°, perché segue il triplice «il giorno dopo… il giorno dopo… il giorno dopo», cadenzato come un ritornello (Gv 1,29.35.43).
2.    È ripetuto in Gv 2,6 per indicare il numero delle giare: «Vi erano là sei giare di pietra».
3.    È ripreso nell’incontro con la Samaritana al pozzo di Giacobbe dove Gesù arriva «circa l’ora sesta» (Gv 4,6). Purtroppo ll’ultima traduzione della Bibbia-Cei (2008) traduce con un banale «era circa mezzogiorno», spezzando in un sol colpo tutta la pregnanza di quell’«ora sesta», evocativa della storia del mondo e della storia di Israele. Peccato, perché così si priva il popolo di Dio di una parte importante della rivelazione.
4.    Nello stesso incontro, Gesù dice alla Samaritana che ha «cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito» (Gv 4,18), per cui siamo di fronte a una donna che ha avuto «sei mariti».
5.    La settimana prima della passione inizia con il riferimento ai «sei giorni prima della Pasqua».
6.    La proclamazione della regalità di Gesù da parte di Pilato davanti al popolo d’Israele avviene «circa l’ora sesta» (cioè mezzogiorno) (Gv 19,14).
7.    Gesù muore nel giorno della «Parascève», cioè il giorno precedente la Pasqua ebraica, quindi il venerdì, cioè il «sesto giorno» (Gv 19,31.42).
In questo contesto, che riguarda tutto il vangelo, il numero «sei», come spesso abbiamo sottolineato, ha un chiaro, formale riferimento ai «sei giorni» che precedono il fatto di Cana (prima settimana di predicazione pubblica di Gesù) descritti in Gv 1, ai «sei giorni» prima della Pasqua dell’ultima settimana di Gesù, descritti in Gv 12ss., ai «sei giorni» del Sinai, nei quali Israele «è creato» come popolo e ai «sei giorni» della creazione come narrata in Genesi 1.

Il numero «sei»
ritma le tappe della storia religiosa
Se ciò è vero, allora Cana è parte di un processo che abbraccia tutta la storia di Israele e tutta la storia di Dio. A Cana non si consuma un banale matrimonio, ma si rinnova la creazione dell’universo, simboleggiato nel vino; a Cana si rinnova l’alleanza del Sinai, rappresentata dalla madre; a Cana si anticipa la Pasqua come compimento non solo della vita terrena di Gesù, compresa tra due «sei giorni» (settimana iniziale e settimana finale), ma anche come compimento della speranza di Israele, purificato non più dall’acqua antica, ma dal sangue del Figlio che dona la sua vita per il mondo nuovo, abitato da Giudei e da Greci, da Ebrei e da Romani (cf Gv 19,23-25).
Nella puntata 17a «Simbologia del terzo giorno» in MC dicembre 2010, abbiamo accennato alla questione del numero «sei» e ad essa rimandiamo. Qui ci accingiamo ad approfondire più dettagliatamente, senza ripetere quanto detto. Sia il giudaismo antico che tutta la tradizione giudaica (dal Targum Ct al Talmud) come pure la tradizione cristiana antica, hanno interpretato «le sei giare» come simbolo delle «sei età/epoche» in cui sarebbe diviso il mondo, dall’inizio della creazione alla venuta di Gesù Cristo, il cui schema, con modulazioni diverse, si avvicina al seguente:
1a età:  da Adamo a Noè;
2a età:  da Noè ad Abramo;
3a età:  da Abramo a Davide;
4a età:  da Davide all’esilio di Babilonia;
5a età:  dall’esilio di Babilonia a Giovanni il Battista;
6a età:  da Giovanni Battista a Gesù con la sua nascita,       morte e risurrezione.
(Poiché è impossibile dare conto di tutti i testi e autori, per chi volesse approfondire in modo esaustivo queste tematiche, appena sussurrate, consigliamo di A. Serra, Nato da Donna Gal 4,4, 141-191; Le nozze di Cana Gv 2,1-12, 128-133).
A chi potrebbe scuotere la testa davanti a queste applicazioni, che, ce ne rendiamo conto, sembrano molto lontane dal testo che siamo soliti leggere in una qualsiasi traduzione, quello che possiamo dire è semplice: il contesto culturale, letterario e religioso, in cui si muove l’autore è questo ed è dentro di esso che bisogna cercare i riferimenti che a noi sfuggono perché, come abbiamo già sottolineato molte volte, abbiamo perso ogni riferimento al mondo giudaico, limitandoci a leggere il vangelo in latino.
Ancora oggi, infatti, il testo ufficiale della Bibbia nella Chiesa cattolica non è il testo ebraico/greco, ma il testo latino della «Neo vulgata»: ci pare che tutto sia detto. D’altra parte, i Padri della Chiesa leggevano l’Antico Testamento in chiave cristologica e andavano alla ricerca di riferimenti «tipologici» da mettere a confronto tra loro, evidenziando come Gesù fosse il «compimento» di tutta la storia patriarcale.
Tutto l’Antico Testamento veniva letto come «profezia», nel senso di anticipazione velata, di Cristo (vedi il vangelo di Mt, in cui questo rapporto «profetico» è costante e ricercato: Mt 1,22; 2,5.15.17; 3,3; 4,1, ecc.; cf Gv 12,38).

Il numero perfetto
che esprime l’imperfezione creata
Nel racconto di Cana, il riferimento così preciso alle «sei giare» pronte per la purificazione e che su ordine di Gesù saranno riempite d’acqua, hanno una prima e diretta connessione simbolica ai «sei giorni» della creazione, che avviene appunto in «sei giorni» (Gen 2,2 secondo la versione greca della LXX), quando tutto emerge dalle acque «covate» dalla «ruàch» di Dio (Gen 1,2). A questa conclusione ci porta anche l’annotazione, strana in un racconto se non avesse un obiettivo preciso, che ogni giara conteneva «due o tre» metrète.
In riferimento alla creazione, lo scrittore ebreo di cultura greca, Filone di Alessandria (20 a.C. – 50 d.C.) spiega che il numero «sei» è il primo numero «perfetto». Esso, infatti, dopo il numero 1 che è il punto di partenza della numerazione, è il primo numero perfetto perché è uguale alla somma delle parti che lo compongono che sono: la metà (6:2 = 3), il terzo (6:3 = 2) e il sesto (6:6 = 1).
Il «sei» dunque è la somma di 1+2+3 = 6, ma è anche il prodotto della moltiplicazione di 2×3 = 6, cioè del numero pari (il 2) e del numero dispari (il 3), per cui nel «sei» si comprendono e si fondono insieme il dispari e il pari che, secondo lo stesso Filone e la scuola dei Pitagorici, esprimono il maschio (il numero dispari) e la femmina (il numero pari).
Lo stesso riferimento alle giare che contengono «2 oppure 3» metrète ci riportano allo stesso risultato: 2×3 = 6. Tutto ruota attorno a questo numero che sintetizza molti pensieri e riflessioni nel mondo giudaico e cristiano. In questo senso la creazione doveva avvenire in «sei giorni» perché questo numero è il primo numero perfetto, in quanto esprime il senso profondo di tutta la creazione che nasce dal congiungimento di maschio e femmina (Gen 1,27; cf Filone, De opificio Mundi, 13; Legum allegoriae I,3).

Il numero «sei» è il simbolo dei giusti
Il Targum Ct 5,15 aggiunge un elemento importante. Descrivendo il corpo dell’innamorato, l’autore del Cantico dei cantici dice: «Le sue gambe, colonne di marmo (ebraico: shèsh), posate su basi d’oro puro». Poiché in ebraico il numero sei è «shèsh», il Targum così traduce: «E i giusti sono le colonne del mondo posate su basi d’oro puro: sono infatti i precetti della Legge che studiano» (cf anche i Midràshim Nm Rabbàh 10,1 a 6,2 e Ct Rabbàh 5,15.1). In ebraico dunque la stessa parola «shèsh» significa tanto «sei» (numero) quanto «marmo», che il Targum identifica con il «mondo», sorretto dalle colonne del Cantico dei cantici che sono i giusti: essi, infatti, stanno solidi sui precetti della Toràh, che è pertanto il fondamento del mondo intero.
Una tradizione giudaica attestata nel Talmud (Sanhedrin 97a-b; Souk 45b) afferma che ogni generazione è tenuta in piedi da «36» giusti, i cui meriti, a loro insaputa, garantiscono la Shekinàh sulla terra; anzi la presenza di un solo giusto garantisce la sopravvivenza del mondo (TB,Yoma 38b).
Mettendo insieme queste reminiscenze, vediamo allora che le «sei giare» di Cana richiamano la Toràh del Sinai come fondamento del mondo e la giustizia dei giusti che sorgono come conseguenza dell’osservanza dei comandamenti del Signore e che ne garantiscono la sopravvivenza. Poiché uno dei giusti che sorreggono le sorti del mondo è il Messia, la presenza di Gesù a Cana è la garanzia che la nuova alleanza poggia sulla solida colonna della sua persona e del suo messaggio. I giusti sono le colonne di «marmo» (Targum CT) come le giare sono «di pietra», sempre pronte a purificare la sposa/Israele prima di presentarsi al cospetto del suo Sposo/Signore.
Il numero «sei», collegandosi ai «sei giorni» del Sinai, sempre secondo Filone (Questiones in Exodum II,46), è anche il simbolo dell’elezione di Israele, popolo dell’alleanza, quell’alleanza che ora Gesù manifesta a Cana.
L’elezione d’Israele è considerata come una seconda creazione, perché lo statuto della prima fu distrutto da Adam, mentre al Sinai Israele riceve un nuovo ordine e una nuova identità, espressi nella Toràh, cioè sulla volontà proclamata e scritta di Dio. Non è un caso che la risposta d’Israele sia: «Faremo e ubbidiremo quanto il Signore ha detto» (Es 24,7), perché al Sinai ha origine «il principio» d’Israele, come nella Genesi è «il principio» delle acque e della terra (Gen 1,1).
Sul monte Sinai apparve «la gloria del Signore» (Es 24,16-17); allo stesso modo il vangelo di Giovanni comincia contemplando il «principio» del Lògos che a Cana compie «il principio dei segni» con cui «manifestò la sua gloria» (Gv 2,11).

A Cana è data la nuova Toràh che è il Vangelo   
Il rapporto tra la creazione, il Sinai e le sei giare è dato anche dal fatto che Adam è stato creato nel sesto giorno, ma sullo sfondo del giardino di Eden di cui poteva mangiare i frutti «di tutti gli alberi» (Gen 2,16); il monte Sinai è equiparato a un albero di melo che produce mele che sono le singole parole della Toràh, come insegna il Targum di Ct 2,3. Dove il testo ebraico dice: «Come un melo tra gli alberi del bosco, così l’amato mio tra i giovani. Alla sua ombra desiderata mi siedo, è dolce il suo frutto al mio palato», il Targum traduce: «Come il melo, bello e pregiato fra quegli alberi che producono frutti, è da tutti elogiato e prediletto, così il Sovrano dell’universo fu lodato dalle Creature celesti quando si rivelò sul monte Sinai, quando dette la Toràh al suo popolo. Allora ardentemente desiderai di rimanere sotto l’ombra della sua Shekinàh, perché i precetti della sua Toràh erano come profumo al mio palato».
Il Liber Antiquitatum Biblicarum 11,15 (SC 229,124, 230,113), attribuito allo (Pseudo) Filone, paragona l’albero della vita piantato al centro dell’Eden alla Toràh che Dio dona a Israele sul monte Sinai per mezzo di Mosè.
In conclusione, potremmo dire che le «sei giare» (come la madre in Gv 2,1) sono il simbolo del tempo prima di Cristo e ciascuna delle sei giare rappresenta una delle sei epoche che lo compongono fino ad arrivare al Sinai, dove inizia il tempo nuovo con il dono della Toràh.
Poiché ogni giara contiene «2 / 3» metrète, la cui moltiplicazione dà sempre «sei», significa che ogni epoca tendeva naturalmente a Cristo, come la stessa Toràh è protesa verso la sua pienezza che è il Messia Gesù di Nàzaret.
Tutte le «sei giare», infatti, sono di pietra (lo stesso materiale delle tavole) e sono giacenti per terra, in attesa del tempo nuovo, della nuova Alleanza (pronte per la purificazione).
In Giovanni 1,17 l’autore ci aveva preavvertito: «La Legge/Toràh fu data per mezzo di Mosè; ma la grazia della verità venne per mezzo di Gesù Cristo».
È in questa prospettiva che Paolo, applicando l’esegesi giudaica, nel commento a Gen 12,7, può dire: «Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Non dice la Scrittura: “E ai discendenti”, come se si trattasse di molti, ma: E alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo». È il discendente di Abramo, anticipato nella Toràh del Sinai, che ora si rivela a Cana per annunciare la nuova Toràh, cioè il suo Vangelo, sulla cui stabilità è fondata la nuova alleanza, qui rappresentata dalle nozze di due anonimi sposi.
(30 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (29): Le giare di pietra e le tavole in pietra della legge

Il racconto delle nozze di Cana (29)

Gv 2,6 (a): «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei,
collocate/giacenti [per terra],
contenenti ciascuna due o tre metrète (= barili da 80 a 120 litri ciascuno)»

Con il v. 6 siamo arrivati al cuore del racconto dello sposalizio di Cana. Nella puntata Otto personaggi in cerca di simboli (MC 9 – 2009, pp. 20-22), presentando lo schema dell’intero racconto, che per noi è costruito a chiasmo, cioè a forma incrociata, dove si corrispondono il primo e l’ultimo elemento, il secondo e il penultimo, il terzo e il terzultimo fino a un punto centrale come al proprio cuore (per lo schema v. MC 9), abbiamo rilevato che l’autore con quello che precede e quello che segue vuole condurre il lettore a questo versetto, che è quindi la chiave più importante della narrazione.
Se questo è vero bisogna prestare molta attenzione non solo alla lettera del testo, ma alla «mens» dell’autore e cercare di capire quale messaggio vuole trasmetterci. Mettendoci in ascolto silenzioso e dinamico della Parola, cerchiamo di scoprirlo.

Dalla grammatica e sintassi …
Da un punto di vista testuale vediamo subito che la prima parte è costruita con un «ipèrbato», che è una figura letteraria per cui due termini che dovrebbero stare insieme sono interrotti da una o più parole: qui i termini «hydrìai – giare» e «kèimenai – collocate/giacenti [per terra]» sono separate dalla frase «per la purificazione dei Giudei», dando all’intero versetto un empito di suspence.
Alcuni codici antichi, sia importanti che meno importanti, eliminano il participio presente passivo «kèimenai – collocate/giacenti» per un evidente fine di semplificare e rendere il testo più scorrevole: «Vi erano poi là sei giare di pietra collocate/giacenti [per terra, pronte] per la purificazione dei Giudei». Invece l’autore, usando la costruzione che tecnicamente si chiama «perifrastica passiva», pone l’accento non sulla posizione delle giare, e cioè che erano per terra, ma sulla materia con cui sono fatte (sono di pietra) e sulla loro funzione e scopo, cioè «per la purificazione dei Giudei». La costruzione perifrastica è frequente nel quarto vangelo: cf, p. es., Gv 3,27; 6,65; 13,23; 16,24; 20,30 (cf BDR § 3522-3; M. Zerwick, Il greco 154 §362).
In altre parole, in questo modo, l’autore ci obbliga a considerare ancora una volta il rapporto che c’è tra lo sposalizio di Cana e ciò che è avvenuto ai piedi del Sinai: per ricevere la Torah, Israele tutto deve «purificarsi per tre giorni»; allo stesso modo per ricevere il compimento della Toràh, che è lo sposo-Gesù, bisogna che tutto il popolo nuovo si purifichi prima di accedere alle nozze.
Questo invito è dato in modo plastico e forte dalla presenza delle giare: «Vi erano poi là sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei»: la funzione delle giare è «permanete» perché esse non sono là occasionalmente, ma restano, anzi devono restare lì «collocate/giacenti per terra». Il loro immobilismo, quasi inerte come cadaveri, esprime la loro funzione permanente: c’è sempre bisogno di purificazione prima di accedere al cospetto di Dio.
C’è un altro elemento che ci porta alla stessa conclusione ed è l’uso della preposizione propria «katà» che noi abbiamo tradotto, semplificando, con «per». In greco questa preposizione si costruisce con il caso accusativo e indica una relazione, per cui si dovrebbe tradurre letteralmente con «in relazione alla purificazione dei Giudei», oppure «secondo la purificazione dei Giudei», oppure ancora «destinate alla purificazione dei Giudei».
Se si guarda dalla parte del soggetto, cioè le giare, la preposizione indica finalità/scopo: ci dice che le giare hanno come scopo proprio di essere sempre pronte per la purificazione dei Giudei. Se invece si guarda dal punto di vista della purificazione, cioè del complemento, allora si sottolinea la necessità della purificazione stessa. In questo senso si può anche tradurre: «Vi erano poi là, sei giare di pietra, destinate la purificazione dei Giudei»; oppure: «Vi erano poi là, sei giare di pietra, per la purificazione necessaria/obbligatoria dei Giudei».

… al significato pregnante dei simboli e parole
Ci soffermiamo su questi aspetti linguistici che a qualcuno possono apparire noiosi o pignoli, per fare notare ai nostri lettori che nella Parola di Dio, ogni sfumatura ha un senso e mai dovremmo cedere alla tentazione della superficialità o del pressappochismo. Se l’autore usa una frase piuttosto che un’altra non è per capriccio o perché ininfluente per la comprensione del testo. Quanti dei nostri lettori, infatti, nelle innumerevoli volte che hanno letto questo racconto, non hanno pensato che esso avesse come finalità di edificarci con un pensiero spirituale sul sacramento del matrimonio, mentre al contrario, prendendo lo spunto da un banale sposalizio, ci costringe a pensare all’alleanza del monte Sinai per concludere che ora davanti a noi non c’è un profeta, seppur grande come Mosè, ma c’è il Lògos in persona, il Figlio di Dio che è l’Alleanza del Padre?
Diciamo questo anche perché il Gv 2,6 che descrive le giare corrisponde nella costruzione sintattica a Gv 2,1, che abbiamo già esaminato nella puntata C’era là la madre di Gesù (MC 4 – 2011, pp. 30-32), dove avevamo già proposto il parallelo linguistico, osservando che la costruzione è tipicamente giovannea, riportando i testi di riferimento e mettendo in evidenza che la costruzione in Gv 2,1 e 2,6 è voluta espressamente dall’autore per creare un parallelo tra la madre e le giare secondo lo schema seguente:

– Gv 2,6:     «Vi erano poi là sei giare di pietra» 
    (êsan dè ekêi lìthnai hydrìai).
– Gv 2,1:    «Ed era la madre di Gesù là»
    (kài ên hē mêtēr toû Iēsoû ekêi).

Abbiamo anche messo in evidenza che la costruzione «era/erano… là», avverbio locativo + verbo «essere», si trova circa una decina di volte nel quarto vangelo (cf Gv in 2,1.6; 3,23; 4,6; 5,5; 6,22.24; 11,15; 12,9.26); per cui rileviamo che l’autore vi attribuisce una certa importanza: il tempo imperfetto del verbo «essere» ha un valore «qualitativo» nella linea secondaria della narrazione: da una parte fornisce informazioni circostanziali, cioè in più, per permettere al lettore di farsi un’idea più completa del racconto, e dall’altra ci descrive la qualità dello «stare», che non è solo una presenza occasionale, come potrebbe essere la partecipazione a un matrimonio, ma sottolinea e mette in evidenza che tale «presenza» è determinante, in quanto «doveva essere là»: quasi uno stato di necessità.
In altre parole, Giovanni informa il lettore sul contesto del racconto, offrendo dati supplementari che in questo caso mettono in relazione la madre con le giare. Dicendo che sia la madre che le giare «stavano… là», ci suggerisce l’idea che esse dovevano essere là fin dall’inizio: sia la madre che le giare rappresentano quello che «c’era da sempre», cioè tutta la storia d’Israele che s’identifica nell’alleanza data sul Sinai e scritta su tavole di pietra, come le giare sono di pietra (di questo parleremo nella prossima puntata).

Le giare, la madre, la Toràh e Israele
La madre rappresenta Israele e le giare la Toràh incisa nelle tavole di pietra che segnano la storia costante del popolo di Dio. Il tempo imperfetto, infatti, indica un’azione continuativa e duratura nel passato. In parole più semplici: con quella costruzione «era/erano… là» l’autore ci dice che sia la madre che le giare sono il passato che cedono il passo al nuovo che è Gesù. Non si tratta però di sostituzione, quasi che l’alleanza del Sinai fosse superata dall’avvento di Gesù, ma di un superamento nell’ordine della pienezza: il passato che era inerte (le giare giacciono per terra) e che non ha più speranza (manca il vino che tanto preoccupa la madre), ora può riprendere vita e attingere linfa dal nuovo perché Gesù non è «venuto ad abolire la Legge o i Profeti… ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17).
Se Giovanni annette molta importanza al confronto «madre – giare», significa che le due presenze e le modalità del loro essere presenti non sono casuali: la madre non è venuta alle nozze solo perché ha ricevuto un invito, ma «era necessario» che fosse «là», perché essa è rappresentativa dell’attesa di Israele. Nella madre Giovanni condensa tutta l’attesa messianica di tutta la storia del suo popolo; ella è la personificazione di tutto Israele da cui si distingue nettamente.
Da un lato Israele, pur possedendo la Toràh, non ha accolto il Lògos (Gv 1,11), preferendo il buio della sua chiusura anche alle novità di Dio; dall’altro la madre che rappresenta l’Israele che attende si apre al nuovo, prende coscienza che manca il vino e chiede il nuovo vino del Messia, quello che inaugurerà gli ultimi tempi con una abbondanza senza misura.
Allo stesso modo deve dirsi delle giare di pietra, perché anche esse «erano là, distese per terra/che giacevano» e c’erano prima ancora che le nozze avessero inizio. Anche queste hanno uno scopo, che è «la purificazione dei Giudei», ma sono inerti, tanto inerti che devono ripetere all’infinito il rito purificatorio, allo steso modo delle tavole di pietra della Toràh, che dopo essere state spezzate, devono essere riscritte e riconsegnate.
Anche le giare dicono che sono ormai inadeguate a ricevere «la pienezza del tempo» (Gal 4,4) che si apre al Regno definitivo. Bisogna aprirsi al nuovo, la tradizione e le tradizioni non servono più, possono essere qualche volta un rifugio di sicurezza, ma non sono quasi mai una spinta a cogliere «il presente di Dio». A volte invece possono essere deleterie e pericolose: «Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (Mc 7,13).

La funzione ripetitiva delle giare
Le giare sono il simbolo visibile della Toràh scritta e orale, incisa su tavole di pietra (Es 24,12; cf Mateos – Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 133 e 137), che sono diventate il «sacramento» del cuore di pietra di Israele descritto dal profeta Ezechiele e in attesa del trapianto del cuore di carne (cf Ez 11.19; 36,26). La madre e le giare sono il simbolo della sinagoga che attende il Messia:
    a)    Le giare sono pronte per la purificazione dei Giudei, quasi un prolungamento di quanto avvenne ai piedi del Sinai, dove Dio stesso impose che il popolo si purificasse per essere pronto e degno a ricevere la Toràh: «Il Signore disse a Mosè: “Va’ dal popolo e santificalo, oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo”» (Es 19,10-11).
    b)    La madre/nuovo popolo è già sulla scena perché deve accogliere sia lo sposo, il Figlio, sia i figli che tornano dall’esilio, ponendo fine alle lacrime di Rachele che piange i suoi figli esiliati (cf Ger 31,15). La madre assume un connotato dirompente di profezia, perché annuncia l’arrivo del Messia e, al tempo stesso, chiude il tempo dell’attesa: il vino conservato nella cantina del monte Sinai, il vino della Parola di Dio sta per scorrere abbondante e senza misura inaugurando i tempi del Messia.

Un dato è certo, nella prima parte del v. 6, l’attenzione deve porsi sul tema della purificazione, che quindi è una idea importante e che bisogna approfondire, entrando più intimamente nel testo, da cui scopriamo che l’aggettivo di materia «líthinai – di pietra» è esclusivo di Giovanni (in tutto il NT ricorre solo altre due volte: in 2Cor 3,3 e in Ap 9,20). Gli elementi che Giovanni mette nel versetto sono molteplici e interessanti: le giare sono di pietra, sono in numero di «sei», sono inerti perché giacciono distese per terra e sono sempre in attesa di servire i Giudei per la purificazione. Sono così importanti che anche la quantità del loro contenuto (l’acqua) è misurata: ognuna di esse è «chōroûsai – contenenti due o tre metrète».

Una misura senza misura
Il participio presente attivo femminile che concorda con le giare forma una seconda coniugazione perifrastica, qui attiva. Anche in questo caso, invece di dire che «le giare contengono due o tre metrète», l’evangelista dice che «le giare erano contenenti due o tre metrète». È evidente che l’autore con questa scelta sintattica sottolinea non la normalità, ma l’abbondanza del contenuto, perché in un certo senso prolunga le parole «erano contenenti», che richiama l’attenzione meglio e maggiormente del banale e semplice «contenevano». Nella prima forma, uno è costretto a fermarsi, nella seconda uno prende solo atto e passa avanti.
La metrèta, infatti, è una misura che indica qui una quantità considerevole (vedi riquadro), segno che le giare erano usate da molte persone. In questo contesto, però, è quasi obbligo pensare alla contrapposizione di due fatti: da una parte il vino è «poco», tanto che deve intervenire la madre, dall’altra l’acqua della purificazione è abbondante, anzi sovrabbondante. Il «poco vino» è insufficiente e sottolinea anche la povertà della condizione dei partecipanti al matrimonio, espressione dell’antica alleanza, se rimane chiusa in se stessa; dall’altra parte, «l’acqua che diventa vino» è in quantità incommensurabile e indica l’abbondanza dei tempi messianici, di cui abbiamo parlato a lungo in due puntate precedenti: Un protagonista delle nozze: il vino del Messia, MC 2- 2010, pp. 24-26) e Un protagonista delle nozze: il vino dell’abbondanza, MC 3 – 2010, pp. 22-24). 
Ancora una volta, attraverso la struttura letteraria, i particolari e i personaggi, l’autore del racconto ci riporta ai piedi del Sinai per riprendere in mano di nuovo il codice dell’alleanza e risciacquarlo nel vino delle nozze di Cana che continuano ad essere sempre  di più un «midràsh» di Es 19, mettendoci in guardia che se non ci apriamo al nuovo, simboleggiato dal «vino bello», anche noi rischiamo di chiuderci nelle nostre sicurezze di una religione di comodo, con il rischio di vanificare la Parola di Dio. Delle giare di pietra e del fatto che fossero «sei» parleremo nella prossima puntata.
(29 – continua).

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (28): Gesù il figlio di Giuseppe

Il racconto delle nozze di Cana (28)

Gv 2,5: [e] dice sua madre ai diaconi/servitori: «Quello che vi dirà, fate[lo]»

Al versetto 5 abbiamo dedicato già le precedenti due puntate, ma è necessario dedicarvene ancora una terza e una quarta, data la pregnanza e la profondità dei rimandi che il testo impone. Non possiamo, infatti, leggere il vangelo in fretta e non dobbiamo conseguire un premio a scadenza. Bisogna prendersi il tempo necessario, quando si tratta della Parola di Dio.
L’amore esige tempo
Tutte le cose importanti hanno bisogno di tempo, di intimità profonda. Lo esige l’autore del vangelo che ci dà gli indizi giusti perché noi possiamo fare il nostro lavoro di ricerca oltre le apparenze. Una persona superficiale si ferma a osservare la funzione della madre di Gesù, che prende l’iniziativa, preoccupata della festa che potrebbe andare in crisi per la mancanza di vino. Da qui poi si parte con una speculazione sulla mediazione della Madonna che si prende cura di due poveri sposini sfortunati per non far fare loro brutta figura.
Una persona un po’ più attenta «all’ascolto» percepirà le assonanze, per cui le basta ricordare il parallelo con Giuseppe, il figlio del patriarca Giacobbe, e così affermare la continuità tra la storia di Israele e quella del Nuovo Testamento.
Tutto ciò a noi non basta. Perché la Parola è esigente «spada a doppio taglio» (Eb 4,12) che vuole solo penetrare la carne viva della fede sincera. Se siamo Uditori della Parola1, dobbiamo «rimanere» su di essa (cf Gv 8,31) e assaporarla sillaba per sillaba, lettera per lettera e «ascoltare» intimamente l’eco di tutte le parole della Bibbia, che risuonano o che richiamano o semplicemente sussurrano. L’uditore diventa profeta perché mentre ascolta mangia la Parola con lo stesso atteggiamento e la stessa disposizione del profeta Ezechiele:

«1Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele». 2Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, 3dicendomi: «Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo». Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele. 4Poi egli mi disse: «Figlio dell’uomo, va’, rècati alla casa d’Israele e riferisci loro le mie parole» (Ez 3,1-4).
Il dramma del nostro tempo è la superficialità che non assapora, ma tutto macina e butta via. Un amore senza tempo a sua disposizione è solo furto di un attimo di consolazione, ma il vuoto resta integro e tragico. Se l’amore di prostituzione calcola il tempo in funzione del guadagno, noi che ci troviamo davanti alla Parola, possiamo passare in fretta rincorrendo magari il nulla?  Noi credenti nel «Dio [che] è Amore» (1Gv 4,8) dobbiamo imparare a essere maestri dell’amore a perdere, quello che nasce solo dall’innamoramento che si nutre di desiderio e presenza, di progetto e attesa come di passione e fisicità. Tutto oggi è veloce e frenetico e spesso si ha la sensazione che si corra a vuoto, verso dove non si sa, in tondo o a zonzo, in omaggio a una velocità che alla fine obbliga all’immobilismo.
Oltre il significato immediato
Non basta fare un collegamento tra le parole della madre che invita a obbedire a Gesù e quelle del faraone che invita a obbedire a Giuseppe per avere «una bella immagine». Bisogna anche domandarsi perché l’autore del vangelo esige questa connessione; perché l’evangelista ci obbliga a riflettere sulla figura del patriarca Giuseppe nel contesto delle nozze di Cana, attraverso un richiamo verbale e letterario che certamente avrà da svelarci qualcosa di nuovo sulla figura di Gesù.
Matteo in tutto il suo vangelo ci presenta Gesù come nuovo Mosè e, infatti, gli fa pronunciare cinque discorsi corrispondenti ai cinque libri mosaici, cioè il Pentateuco (cf Mt 5-6; 10; 13; 18; 24-25). Nei vangeli dell’infanzia lo stesso evangelista presenta Gesù come nuovo Salomone, che attira i sapienti dell’Oriente (cf Mt 2,1-2) come il grande re d’Israele aveva attirato la visita della regina di Saba (cf 1Re 10,1; 2Cr 2,1). Luca da parte sua ci fa contemplare Gesù a cui rendono testimonianza Mosè ed Elia, in rappresentanza di tutta la Toràh e di tutta la Profezia (cf Lc 9,28-34). Giovanni ora ci mostra Gesù come nuovo Giuseppe, il patriarca «salvatore» dei figli d’Israele esuli in Egitto a causa della carestia (cf Gen 42,1-5), che non colpì solo il popolo dell’alleanza, ma fu un flagello per tutta la terra. L’Egitto così, per la lungimiranza di Giuseppe, figlio di Israele, fu la «terra promessa» dei popoli colpiti dalla carestia. Allo stesso modo il patriarca non fu solo il salvatore di Israele, ma colui che distribuì frumento e cibo a tutti i popoli, venuti a chiedere asilo e assistenza all’Egitto, espletando quindi una funzione salvifica universale, come Gesù, «il pane disceso dal cielo» che supera addirittura la manna che mangiarono i padri nel deserto (Gv 6,58; cf Es 16,35; Sal 78/77,24).
Gli evangeli non fanno cronaca, ma teologia e noi abbiamo il dovere di scendere dentro i fiumi carsici degli evangeli e lasciarci trasportare in profondità che forse non abbiamo mai sognato o abbiamo potuto solo immaginare. Per questa riflessione ci affidiamo in modo prevalente ad Aristide Serra, il più grande esegeta cattolico che ha dedicato tutta la sua vita a sviscerare la figura della madre di Gesù nel vangelo di Giovanni, esaminando, tra gli altri, il racconto delle nozze di Cana in ogni direzione, con profondità e prospettive veramente insuperabili. I testi a cui attingiamo sono diversi, ma in modo particolare ci rifacciamo a «Le nozze di Cana: Gv 2,1-12».
Giuseppe nella Bibbia
Del patriarca Giuseppe si parla in quattordici capitoli della Genesi in modo sparso, dal 30 al 50. Poi si hanno due reminiscenze nel libro dell’Esodo: al cap. 1 per giustificare la presenza degli Ebrei in Egitto e al cap. 13 per dire che Mosè, prima di partire dall’Egitto verso la terra promessa, «prese con sé le ossa di Giuseppe» (Es 13,19) per rispettare un desiderio dello stesso patriarca che, mentre da vivo fu esule in Egitto, da morto volle ritornare in mezzo al suo popolo, nella terra di Dio.
Di Giuseppe nell’Antico Testamento si parla complessivamente in otto passaggi, mentre in quarantuno passi si fa menzione dei suoi discendenti o della tribù che porta il suo nome (cf Gs 14,4;17,4;18,11 et passim). Nel Nuovo Testamento un solo passo parla, non direttamente di Giuseppe, ma della tribù che porta il suo nome.
Del grande patriarca, invece, si hanno altre testimonianze. Il diacono Stefano, prima di essere lapidato, fa una breve sintesi della storia della salvezza dal patriarca Abramo fino al re Salomone. All’interno di questa catena, vi è la figura di Giuseppe (cf At 7,9-18) che si lega a quella di Gesù in un nesso che supera la storia, per collocarsi in quell’ambito simbolico che apre a prospettive teologiche: Giuseppe è l’antesignano di Gesù Cristo attraverso le sue parole e i suoi gesti.
Anche la Lettera agli Ebrei, nella lunga galleria dei testimoni della fede, cita il patriarca Giuseppe che diede ordini agli Israeliti di portare con sé le proprie ossa, quando avrebbero lasciato l’Egitto (cf Eb 11,22).
Infine nell’Apocalisse, anche «la tribù di Giuseppe» ha dodicimila rappresentanti tra coloro che sono «segnati dal sangue dell’agnello», insieme alle altre undici tribù (cf Ap 7,8). Qui è la riprova che il Nuovo Testamento non nasce in contrapposizione all’Antico Testamento, ma si situa nel suo alveo e ne assume la linfa feconda, perché anche la Chiesa, lungi dal sostituire e soppiantare il popolo d’elezione, nasce e cresce come figlia d’Israele da cui nessuna potrà mai sradicarla.
Giuseppe sullo stesso piano di Mosè
Da parte sua Giovanni, oltre a mettere sulla bocca della madre di Gesù quasi le stesse parole del patriarca Giuseppe, poco più avanti, nel racconto della Samaritana (cf Gv 4), mette in evidenza, quasi con noncuranza che la città di Sìcar, da cui proveniva la donna samaritana, è l’antica Sìchem dei patriarchi: «Giunse così a una città della Samarìa chiamata Sìcar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe» (Gv 4,5; cf Gen 33,18-20; 48,21-22; Gs 24,32). Tra i Samaritani e i Giudei non correva buon sangue. «La donna samaritana gli dice: “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?”. I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani» (Gv 4,9).
I Giudei disprezzavano i Samaritani perché si erano contaminati con altri popoli, soprattutto sul piano religioso (cf 2Re 17,24-41; Esd 4,1-5). Ciononostante, secondo la testimonianza di Giuseppe Flavio, anche i Samaritani avevano una venerazione altissima del patriarca biblico, posto sullo stesso piano di Mosè, fino al punto che, in alcune circostanze, si definivano «Giudei» perché si ritenevano discendenti di Èfraim e Manasse, cioè i due figli di Giuseppe (cf Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche XI,8.6).
In un testo importante della tradizione samaritana, il codice «Memàr Marqàh – Parola/Insegnamento di Marco», databile tra il sec. II e IV d. C., ma che riflette insegnamenti molto più antichi, come tutti i testi che riportano la tradizione orale, si può leggere:

«Non c’è nessuno come Giuseppe il re, e non c’è nessuno come Mosè il profeta. Ambedue hanno conseguito una posizione elevata: Mosè ha posseduto la profezia, Giuseppe ha posseduta la Buona Montagna [= il monte Garìzim]. Non v’è nessuno più grande di loro due» (Testo e bibliografia in A. Serra, Le nozze di Cana Gv 2,1-12, 354 n. 608).
C’è però ancora qualcosa nel quarto vangelo, il quale per ben due volte sottolinea che il rabbi di Nàzaret è «Gesù, il figlio di Giuseppe» (Gv 1,45; 6,42a). Diverse volte abbiamo detto che in Giovanni quando una parola, un’espressione, un fatto, un nome, una circostanza, ecc. ricorrono due volte è segno che l’autore ci vuole invitare a non passare oltre, ma a fermarci per cogliere il senso nascosto (senso pieno) che c’è oltre il significato ovvio e immediato. È evidente che da un punto di vista ordinario, con l’espressione «Gesù, figlio di Giuseppe» si dice che Gesù è proprio il figlio di Giuseppe, il carpentiere di Nàzaret, perché di quel nuovo rabbi che percorre la Palestina tutti conoscono «il padre e la madre» (Gv 6,42b). Questo è il senso ovvio, il significato primo, quello delle parole così come sono pronunciate e comprese. Noi diremmo il senso materiale.
Il Messia discendente di Giuseppe
Oltre questo, però, Giovanni ci dice dell’altro nel contesto della mentalità, della cultura e delle attese del tempo di Gesù, dove era viva e vigile l’attesa di un doppio Messia: uno discendente di David e l’altro «figlio di Èfraim» o anche «figlio di Giuseppe» (cf Dt 33,17; per la letteratura giudaica invece cf TJI Es 40,9.11; Targum Ct 4,5; Gen Rabbàh 75,6 a Gen 32,6; Pesiktà Rabbati 30,4, ecc.).
Dal punto di vista letterario è interessante notare anche il già citato Gv 1,45: «Filippo trovò Natanaèle [= Bartolomeo] e gli disse: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, quello di Nàzaret”». L’ultima parte del versetto «quello di Nàzaret» in greco è al caso accusativo ed è una apposizione che non si riferisce a Giuseppe (complemento denominativo di specificazione e quindi collocato al caso genitivo), ma deve attribuirsi, «apporsi», al nome «Gesù», che è complemento oggetto e quindi va collocato al caso accusativo. Tradotto in modo più chiaro si direbbe: «Gesù di Nàzaret, figlio di Giuseppe».
Questa semplice annotazione di analisi logica ci dice due cose:
1° – Gesù è di Nàzaret; quindi, se ne conosciamo la città, sappiamo da dove viene: è un uomo, un rabbino che abita nella città di Nàzaret, figlio del carpentiere, è un essere umano, uno di noi.
2° – Con l’espressione «figlio di Giuseppe», l’evangelista afferma che quell’uomo, uno di noi, è anche il Messia, discendente del patriarca, che viene a convocare il suo popolo, non più per organizzarlo a superare la carestia, ma per ricevere «il pane disceso dal cielo» che è lui stesso (Gv 6,41.51.58). Mentre il patriarca dispensa il grano che aveva raccolto nei silos, Gesù dona semplicemente se stesso, senza riserve.
Poiché lo spazio a nostra disposizione per questa puntata è terminato, sarà necessario dedicarvi ancora la prossima per analizzare la figura del patriarca in rapporto sia alla sua funzione «universale» sia in rapporto in modo particolare al racconto dello sposalizio di Cana.
(28 – continua).

Paolo Farinella

Note

1 – K. Rahner, Uditori della Parola, Borla, Roma 1988.

Paolo Farinella




Cana (26) La «donna» sacramento dell’abbandono credente

Il racconto delle nozze di Cana (26)

Gv 2,5: [e] dice sua madre ai diaconi/servitori: «Quello che vi dirà, fate[lo]»
[lèghei hē mêtēr autoû toîs diakònois: Hò ti an lèghēi hymîn poiêsate]

Per capire questo versetto in tutta la sua portata è necessario ritornare indietro brevemente per sottolineare ancora il pensiero di fondo che stiamo cercando di dimostrare: il racconto delle nozze di Cana è un midràsh (commento attualizzante) del racconto dell’alleanza di Es 19. Come il Sinai fu «l’inizio» di Israele in quanto nazione, perché l’alleanza lo costituisce «popolo» a tutti gli effetti, così Cana è per l’autore «il principio» del nuovo popolo che nasce dall’antico. La madre di Gesù è il simbolo dell’Israele/sposa dell’alleanza nuova, che aspetta la redenzione del Messia, e i discepoli sono la premessa/promessa del nuovo popolo messianico che partecipa al banchetto nuziale, proiettato verso il futuro delle genti.
Il paradosso: prima fare e poi ubbidire
Sappiamo che l’evangelista vuole mettere in parallelo Mosè e Gesù: il primo come mediatore, il secondo come autore dell’alleanza. L’alleanza annunciata da Gesù non è un’altra alleanza, diversa da quella del Sinai, ma è la continuità di essa, anzi ne è lo sviluppo naturale. Con buona pace dei fautori della «teologia della sostituzione» che ancora oggi, dopo il concilio Vaticano II, propugnano ancora che la Chiesa è subentrata a Israele, eliminandolo dalla storia di salvezza, iniziata con l’esodo. La Chiesa è «dentro» Israele, da cui si discosta perché porta a compimento la sua fede in Gesù Messia.
È evidente che nel v. 5 la frase importante è: «Quello che vorrà dirvi, fate[lo]», che immediatamente richiama quanto gli Ebrei dicono ai piedi del Sinai, prima ancora di conoscere il contenuto dell’alleanza: «Quanto il Signore ha detto, noi [lo] faremo!». Il confronto tra i testi è sorprendente, si direbbe che Giovanni copia direttamente dalla Bibbia ebraica (non dalla versione greca della LXX che traduce in modo diverso, come vedremo):

Es 19,8 (cf 24,3)           Gv 2,5
Quanto il Signore          Quello che [egli = Gesù]
ha detto,                        vorrà dirvi
noi [lo] faremo               fatelo

Da una parte c’è Yhwh che ordina, dall’altra c’è Gesù che deve essere obbedito, per cui Gesù è posto dall’autore sullo stesso piano di Yhwh. Un modo per porre l’accento discretamente sulla divinità del figlio di Maria? Non possiamo spingerci oltre, ma il quarto vangelo non è nuovo a questo metodo (cf, per es., Gv 18,4-5). Questo parallelo, quasi fotocopia, tra i due testi si colloca all’interno del più generale confronto tra il Sinai e Cana:

Es 19,11.9                        Gv 1,11
Il terzo giorno                    Il terzo giorno
Yhwh rivelò                       Gesù rivelò
la sua gloria a Mosè         la sua gloria
e il popolo                         e i suoi discepoli
credette anche in lui         credettero in lui

Anche qui Gesù non è posto sullo stesso piano di Mosè, ma al livello di Yhwh perché Gesù nella nuova alleanza che ha in Cana il suo «principio» ripete e rinnova esattamente quello che Yhwh ha fatto e ha detto sul Sinai. Lo scenario è lo stesso, e i temi sono identici: il terzo giorno, la rivelazione, la gloria, il popolo/discepoli, la fede.
La madre impregnata del passato
Su tutti questi temi però quello che domina è quello della «obbedienza»: a Yhwh nel Sinai e a Gesù a Cana. L’obbedienza qui è espressa con due verbi «faremo» e «credettero». Da ciò possiamo rilevare che «obbedire» non è un atteggiamento passivo di sottomissione, ma una scelta attiva di adesione a una alleanza, a un progetto da realizzare («faremo») che si basa su un rapporto di intimità e di confidenza reciproca («credettero»). C’è una differenza tra i due testi: al Sinai il popolo ascolta il Signore e crede in lui, ma anche in Mosè; a Cana i discepoli/nuovo popolo ascoltano e credono in Gesù.
Il raffronto tra Mosè e Gesù, come spesso abbiamo detto, non è mai alla pari: a Cana Gesù supera notevolmente il grande condottiero, perché l’evangelista lo colloca sempre allo stesso livello del Signore. Infatti al Sinai non parla Yhwh, ma Mosè che riceve da Dio le parole da riferire al popolo nella sua funzione di mediatore; a Cana non c’è mediatore perché Gesù parla e agisce direttamente.
Le parole della madre di Gesù non sono una novità, ma riecheggiano una storia lunga e articolata, pro-vengono dal cuore della storia di Israele che si esprime in varie circostanze. Riportiamo solo qualche esempio: la risposta di Israele è così importante che la Bibbia la ripete quasi uguale tre volte (Es 19,8; 24,3.7). Dopo Mosè, il suo «attendente» Giosuè [in greco è sinonimo di Gesù – Yoshuà], prima di entrare e prendere possesso della terra promessa, rinnova l’alleanza a Sìchem in modo simile: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce» (Gs. 24,24).
La madre di Gesù è Israele
A Cana ci troviamo di fronte a un evento che non si può ridurre a un semplice matrimonio di circostanza. L’autore infatti con questo racconto ripropone, rinnova e celebra «il fatto» più importante di tutta la storia di Israele, quello che è la sorgente della sua stessa esistenza come «popolo/sposa di Yhwh», l’esodo, letto nella sua duplice valenza storica: di liberazione dalla schiavitù e di costituzione di una comunità ordinata e organica, l’assemblea di Israele nata dall’alleanza del Sinai.
Le parole del Signore dette tramite Mosè e la risposta del popolo detta tramite gli anziani, costituiscono la formula sponsale che sancisce le nozze definitive d’amore e di obbedienza. A Cana è la madre che in rappresentanza dell’Israele antico, introduce il nuovo invitandolo a entrare nel circuito salvifico del suo popolo che ora esce dal suo particolarismo e si apre al mondo intero. Sono infatti presenti i discepoli, dodici secondo la tradizione, un numero simbolico delle dodici tribù d’Israele, costituite da Giosuè prima dell’ingresso in terra promessa (cf Gs 14-19; Es 24,4; 28,21; Gen 49,28; Sir 44,23):

«3Mosè salì verso Dio, e il Signore lo chiamò dal monte,
dicendo: “Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai
agli Israeliti: 4“Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto
all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho
fatto venire fino a me. 5Ora, se darete ascolto alla mia
voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me
una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è
tutta la terra! 6Voi sarete per me un regno di sacerdoti e
una nazione santa”. Queste parole dirai agli Israeliti.
7Mosè andò, convocò gli anziani del popolo e riferì loro
tutte queste parole, come gli aveva ordinato il Signore.
8Tutto il popolo rispose insieme e disse: “Quanto il Signore
ha detto, noi lo faremo!”» (Es 19,3-8).

L’obbedienza incondizionata che il popolo di Israele mette in atto, secondo la versione greca della LXX ha dell’inaudito perché il popolo accetta di coinvolgersi nell’avventura di Dio prima ancora di conoscere il contenuto dell’alleanza che esprime il sentimento di abbandono tipico dell’innamoramento. Chi è innamorato non ragiona, ma «si butta», non fa calcoli, ma ama, non teme le conseguenze, ma sperimenta l’inatteso con trasporto e abbandono fiduciosi. «Faremo e ascolteremo» infatti esprime non l’ubbidienza a un ordine ricevuto, ma la libera e spontanea adesione della volontà che rende la scelta ancora più importante.
La tradizione giudaica, commentando questo comportamento di Israele, arrivava a paragonarlo al melo del Cantico dei cantici, dove l’amante donna dice del suo innamorato: «Come un melo fra gli alberi del bosco, così l’amor mio tra i giovani» (Ct 2,3). Il Talmud babilonese, a nome di Rabbì Chama figlio di Rabbì Chanina (260 ca.), commenta: «Perché gli Israeliti sono paragonati a un melo? Per insegnarti che come il melo mette fuori il frutto prima delle foglie, così anche i figli d’Israele dissero “faremo” prima di “ascolteremo”» (TB, Shabbat 88a).
Lo stesso testo del TB riporta l’insegnamento di Rabbì Simai (210 ca.) che immagina come nel momento della professione di fede di Israele che si abbandona al Signore, senza alcun calcolo, «seicentomila angeli del servizio scesero a deporre due corone sopra ogni membro del popolo eletto: l’una come premio del “fare” e l’altra dell’”ascoltare”» (in A. SERRA, Le nozze di Cana, 314).
Si capisce perché immediatamente prima (cf Gv 2,4), Gesù si rivolge alla madre con l’appellativo di «donna», assolutamente inconsueto in un dialogo tra madre e figlio. Anche Gesù sa che la madre non è la sua madre naturale, ma a Cana è il simbolo della sposa/Israele che qui svolge il ruolo di mediazione che al Sinai fu proprio di Mosè. Ella si indirizza ai «diaconi/servi», ma è come se parlasse per se stessa e per tutto Israele: «Quello che egli eventualmente vi dirà, noi dobbiamo farlo». Non un semplice invito esortativo, ma una constatazione obbligante: non possiamo esimerci da «quello che egli dirà» perché la sua parola è creatrice, prima di trasformare l’acqua in vino trasforma le persone che vi sono coinvolte assumendo un ruolo preciso: non sono servi dipendenti di un padrone per svolgere lavori di fatica, ma diventano «diaconi», ministri di una comunità che si appresta a celebrare le nozze con il suo Signore.
La madre di Gesù è la sposa fedele
Se l’evangelista fa dire alla madre di Gesù la stessa professione di fede del popolo d’Israele, ci sembra logico pensare che egli voglia porre una relazione tra i due e forse anche una identificazione. Nella letteratura profetica e sapienziale, Israele è spesso identificato con l’immagine della «donna» che il quarto vangelo usa cinque volte, e sempre a una svolta nella vita di Gesù: qui a Cana, con la donna samaritana (Gv 4,21), con la donna adultera (Gv 8,10), dalla croce di nuovo alla madre con «Donna, ecco tuo figlio» (Gv 19,26) e, infine, con Maria di Magdala (Gv 20,15), cinque pietre miliari che segnano la salvezza che si fa storia nell’immagine della «donna», figura del nuovo credente nella comunità nuova. L’uso di questo appellativo è anche diffuso nell’At e basta leggere i profeti (Os 1-3; Ger 2,2; 31,4.15; Ez 16,8; 23,4) o anche la letteratura extra-biblica (Il Targum del Ct; Sal-LXX 86,5; Apocalisse di Baruc 10,7; IV libro di Esdra 9,38-10,57; Qumran: 1QH III,3-12, ecc.).
Luca esporrà questa idea sviluppando il tema della «Figlia di Sion» del profeta Sofonia e applicandola a Maria nel saluto dell’angelo che annuncia il «vangelo della nascita» non a Maria di Nàzaret in quanto singola persona, ma a lei, espressione della «Figlia di Gerusalemme» cioè Israele (cf Lc 1,28; Sof 3,14).
Anche Luca non chiama Maria con il suo nome, ma la descrive come «piena di grazia – chekaritomēnē» che corrisponde alla qualifica di «graziosa» come Giuditta (Gdt 11,23), come Ester (Est 2,7), come la donna del Cantico (Ct 1,5; 6,4), come Susanna (Dn 13,31), come Sara, moglia di Tobia (Tb 6,12).
Anche Matteo tocca il tema in chiusura del suo vangelo, quando Gesù sul monte di Galilea si accomiata dai suoi e lascia loro il suo testamento per il futuro:

«16Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul
monte che Gesù aveva loro indicato. 17Quando lo videro,
si prostrarono. Essi però dubitarono. 18Gesù si avvicinò e
disse loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla
terra. 19Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli
nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito
Santo, 20insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho
comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino
alla fine del mondo”» (Mt 28,16-20).

Al Sinai, Israele impegna se stesso nel professare la propria fede indiscussa in Yhwh; a Cana la madre di Gesù crede preventivamente per sé, in quanto Israele, e per i diaconi, in quanto Chiesa; in Matteo la professione di fede diventa la missione da portare in tutto il mondo fino alla fine della Storia. Il rapporto tra gli eventi non è casuale, perché in Matteo Gesù non incontrerà i discepoli «da qualche parte», ma esattamente «sul monte che Gesù aveva loro indicato» (Mt 28,16), così come Dio incontrerà il futuro popolo liberato non in un deserto senza vita, ma «su questo monte» dove Dio è già presente e aspetta una massa di schiavi che trasformerà in popolo a cui darà la carta costituente, la Toràh, cioè la coscienza di essere comunità.
Anche nell’esodo, il monte è indicato da Yhwh stesso a Mosè come segno di liberazione e di libertà: «Rispose: “Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte”» (Es 3,12).
Israele sul monte Sinai dovrà «servire» Dio, secondo il testo ebraico («’abad») e «fare un servizio liturgi-co», secondo il greco della LXX («latrèuō»). In Mt abbiamo gli stessi atteggiamenti: i discepoli «si prostrarono» (in greco: proskynèō) in un gesto di servizievole adorazione liturgica.
Al Sinai, Israele si consacra in una professione di fede senza ambiguità; in Mt è il Signore che prospetta la loro fede futura che assume la forma della missione universale, «insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,20).
Al Sinai Dio è con il condottiero Mosè: «Io sarò con te» (Es 3,12), sul monte di Galilea è Gesù che assicura la sua perenne Shekinàh/Dimora/Presenza: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Al Sinai, Dio dichiara la ragione del suo intervento: «Voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra!» (Es 19,5), mentre in Matteo è Gesù che dichiara: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra» (Mt 28,18). Anche in Matteo come in Giovanni, la figura e l’opera di Yhwh sono appannaggio personale di Gesù di Nàzaret, ora risorto.
Alla luce di queste finestre che si aprono davanti ai nostri sguardi per la nostra contemplazione della parola di Dio in tutta la sua ampiezza, possiamo dire che il mandato missionario non consiste in altro che nell’invitare tutti i popoli «a fare e obbedire quanto il Signore ha ordinato»: il Signore dell’esodo e Gesù di Nàzaret.
Tutto questo può realizzarsi solo in un modo, sull’esempio della madre di Gesù: testimoniare con la pro-pria vita, la propria parola, la propria speranza che come discepoli crediamo veramente nella Persona di Gesù e accettiamo la sua Parola come criterio di vita prima ancora che come conoscenza razionale.
È in fondo quello che avviene nella celebrazione dell’Eucaristia che è il «luogo» privilegiato dove l’Assemblea di Dio «fa tutto quanto il Signore ha detto», memoriale perenne dell’esodo di Gesù, lungo tutto il cammino della Storia.
(26- continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (27) Ubbidire è imitare

Il racconto delle nozze di Cana (27)

Gv 2,5: [e] dice sua madre ai diaconi/servitori: «Quello che vi dirà, fate[lo]»

Riprendiamo il versetto cinque che abbiamo iniziato ad analizzare nella puntata precedente, dove abbiamo visto che il rapporto tra Sinai e Cana è intenso e profondo, ma non si esaurisce, perché l’autore del vangelo vuole portarci a spaziare anche nella storia prima dell’esodo: la storia dei patriarchi, che è come il preambolo all’epopea dell’Esodo e quindi anche premessa della rivelazione di Gesù Cristo «figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1).

«Vergine madre, figlia del tuo Figlio»
Dopo la risposta di Gesù («Donna, che c’è tra te e me», Gv 2,4) che abbiamo spiegato a lungo, la madre non si rivolge a Gesù per supplicarlo di intervenire, ma ai «diaconi». Ella sa di non avere alcun potere sul figlio, perché da questo momento mutano i rapporti precedenti e la relazione di sangue lascia il passo a quella della fede: «Che c’è tra me e te?». O meglio, il rapporto naturale madre-figlio si trasforma, arricchendosi, nel rapporto tra Figlio e madre/figlia, tra il Signore e la Chiesa. La fede, infatti, non elimina la natura, ma, inglobandola, la trasforma: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? … chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre» (Mc 3,33-35). Solo Dante Alighieri, ispirato dallo Spirito Santo, ha colto la profondità di questa relazione unica: «Vergine madre, figlia del tuo Figlio» (Par. XXXIII,1).
Le parole che la madre rivolge ai diaconi/servi sono prese alla lettera dalle parole che il faraone di Egitto rivolge al suo popolo all’inizio della siccità che durerà sette anni. Al popolo che ha fame e chiede da mangiare, il faraone non dà pane, ma un invito ad andare oltre di lui. L’onnipotente faraone si mette in seconda fila e lascia il posto a Giuseppe, l’ebreo schiavo divenuto governatore, che aveva previsto la carestia e aveva indicato la soluzione per superarla (Gen 41,53-57).
La madre conosce la Scrittura e, forse, è a Giuseppe che volge lo sguardo del cuore quando garantisce alla parente Elisabetta che il Signore «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52). La madre non è il faraone, ma la voce di un popolo affamato del Messia e della sua liberazione, è la figlia di Israele che geme nella morsa della fame, dell’emarginazione e dell’impurità cultuale; la madre è il simbolo dell’abbandono desolato in cui versa il suo popolo:

«6Dalla figlia di Sion è scomparso ogni splendore…7Gerusalemme ricorda i giorni della sua miseria e del suo vagare… 9 e nessuno la consola… 11Tutto il suo popolo sospira in cerca di pane; danno gli oggetti più preziosi in cambio di cibo, per sostenersi in vita… 17Gerusalemme è divenuta per loro un abominio… 19cercavano cibo per sostenersi in vita. 20Guarda, Signore, quanto sono in angoscia; le mie viscere si agitano, dentro di me è sconvolto il mio cuore» (Lam 1,6.7.9.11.17.19.20).
La figura di Giuseppe è l’àncora di salvezza che viene in soccorso dal passato e indica la prospettiva futura. Davanti alla madre che invoca i giorni della salvezza per il suo popolo, ora c’è il nuovo patriarca Giuseppe, «colui che aggiunge/aumenta» e che inaugura il nuovo tempo, il «kairòs» dell’abbondanza senza fine, come il patriarca antico salvò Israele dalla carestia, salvando l’Egitto dalla fame: «Tutta la terra d’Egitto cominciò a sentire la fame e il popolo gridò al faraone per avere il pane. Il faraone disse a tutti gli egiziani: “Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà”» (Gen 41,55). L’autore di Genesi ci tiene a sottolineare che «Giuseppe aveva trent’anni quando entrò al servizio del faraone, re d’Egitto» (Gen 41,46). Anche Gesù ha circa la stessa età quando la madre invita i servitori a ubbidirgli.
Purtroppo nella lingua italiana non si coglie il nesso stretto tra le parole, che invece per l’autore ha un’importanza capitale, perché fa vedere e sentire il rapporto stretto tra le parole dette e le idee e i personaggi che stanno dietro.
A questo scopo, per rendere più comprensibile il testo e per farlo gustare in tutta la sua profondità, riportiamo lo schema in greco della LXX, traslitterato, con relativa traduzione (il testo ebraico della Genesi dice esattamente il contenuto letterale del testo greco):

Come può vedere anche chi non conosce il greco, dalla trascrizione emerge che la corrispondenza tra i due testi è totale: siamo certi che l’autore metta «apposta» le parole del faraone in bocca a Maria.
Nella colonna 2a la particella dell’eventualità (an/ean) esprime indeterminatezza e quindi apertura a ogni evenienza (le due forme an o ean sono equivalenti): «Qualunque cosa vorrà dirvi, fatelo».
Nella colonna 3a si ha lo stesso verbo (lègō – dire) con due radici diverse perché le due forme sono di tempi differenti: in Gv si ha il presente congiuntivo attivo (lèghēi – nell’eventualità che dica), mentre in Genesi si ha l’aoristo (un tempo proprio del greco) congiuntivo dello stesso verbo.

Il bacio dell’ubbidienza
Le somiglianze tra i due testi, oltre a quelle letterali, sono di contenuto: a Cana manca il vino, in Egitto manca il pane; in Egitto è il faraone, cioè il capo assoluto che indica Giuseppe come la soluzione del problema; a Cana è la madre, in rappresentanza di Israele, che indica Gesù come la soluzione per risolvere la mancanza del vino messianico e dare corpo all’alleanza.
Da una parte il faraone, come abbiamo già accennato, pur essendo il capo assoluto dell’Egitto, dichiara la sua impotenza di fronte alla fame di pane e invia il suo popolo da Giuseppe, riconoscendone così l’autorità indiscussa; dall’altra parte la madre, rinviando i servi/diaconi da Gesù, preparandoli ad ogni evenienza, in quanto rappresentante del popolo d’Israele fedele all’alleanza sinaitica, invita tutti a riconoscere l’autorità indiscussa di Gesù, il solo che possa aprire la nuova alleanza e sfamare e dissetare il nuovo popolo, la Chiesa, che è la casa di tutti i popoli.
Lo studioso Frédéric Manns (L’Évangile, 102) sostiene che nel testo di Genesi, manca il tema dell’«obbedienza» e quello della «rivelazione», espliciti invece nel testo di Esodo: «Quanto il Signore ha detto, noi [lo] faremo!», che in Es 24 si trasforma in «noi faremo e ubbidiremo» (Es19,8; 24,3). Giovanni mette in evidenza – continua Manns – che l’alleanza nuova è basata sull’obbedienza alla Parola di rivelazione portata da Gesù.
La corrispondenza, quando si applica la tecnica del midràsh, non deve necessariamente essere espressa al millesimo, ma può anche essere allusiva, anche se riteniamo che nel testo di Gen 41,55 il tema dell’obbedienza non è solo implicito, ma abbastanza evidente. Inviando il popolo da Giuseppe, con l’invito esplicito «fate quello che vi dirà», è evidente che il faraone sottende il tema di «ubbidire» all’uomo che dovrà cornordinare i sette anni di siccità, specialmente se si tiene conto delle parole che egli pronuncia davanti alla sua corte, appena Giuseppe finisce di spiegare i sogni: «38Il faraone disse ai ministri: Potremo trovare un uomo come questo, in cui sia lo spirito di Dio?… 40Tu stesso sarai il mio governatore e ai tuoi ordini si schiererà tutto il mio popolo» (Gen 41,38.40).
La traduzione di questo versetto non esprime l’intensità dell’ebraico; il confronto con la versione greca della LXX serve a dare al lettore anche il senso armonico dell’immaginazione linguistica: il testo ebraico di Gen 41,40 dice letteralmente: «Tu stesso sarai il governatore della mia casa e sulla tua bocca ti bacerà tutto il mio popolo»; la versione greca della LXX invece traduce, interpretando (come fa il midràsh): «Tu sarai [governatore] sulla mia casa e alla tua bocca obbedirà tutto quanto il mio popolo» (anche la Vulgata traduce dalla LXX).
Il IV vangelo, come tutto il NT, dipende dalla Bibbia greca della LXX, per cui il tema dell’obbedienza è evidente. Baciare sulla bocca qualcuno in occidente significa avere intimità e quindi reciprocità di dipendenza. L’espressione biblica invece è propria della cultura egiziana faraonica ed esprime l’idea di una dipendenza totale e significa «al tuo comando»: al comando di Giuseppe tutto il popolo egiziano deve prostrarsi, bocconi a terra, pronto a obbedire senza alcuna remora.
Quanto al secondo tema, quello della rivelazione, riteniamo che sia il faraone con tutta la sua autorità solenne a «manifestare» Giuseppe come «il salvatore» dell’Egitto, colui che impedirà al popolo di morire di fame e di sete; e lo stesso Giuseppe si manifesta: «Giuseppe partì per visitare l’Egitto» (Gen 41,46) per mostrarsi a tutto il paese e dare ordini e prepararsi in vista della carestia. Attraverso Giuseppe l’Egitto e lo stesso faraone sanno che non è Giuseppe «il salvatore», ma il Dio di Israele perché «non io, ma Dio darà la risposta» (Gen 41,16).
Giuseppe e Gesù sono «pieni dello spirito di Dio»: come il faraone vide lo spirito di Dio su Giuseppe (cf Gen 41,38), anche Giovanni Battista vede scendere lo Spirito di Dio su Gesù (cf Gv 1,32).
Citando le parole del faraone, la madre di Gesù, o meglio l’Israele fedele all’alleanza, vuole mettere espressamente in rapporto Giuseppe e Gesù, presentando quest’ultimo come il nuovo patriarca che si prende cura della fame e della sete, cioè della vita del popolo. In ebraico Giuseppe si dice «yasàph» e vuol dire «Dio aggiunge/aumenta» e in questa circostanza Giuseppe, il patriarca, aumenta il pane e fa arretrare la carestia. Gesù in ebraico si dice «Joshuà» e significa «Dio è salvezza». Nel loro risultato finale i due nomi s’incontrano, perché ambedue sono la salvezza dei rispettivi popoli: danno la vita.
Come tutto il popolo di Egitto deve schierarsi agli ordini di Giuseppe, ora a Cana i servi/diaconi devono eseguire tutto quello che Gesù dirà loro di fare.

Ubbidire è imitare nella testimonianza
Non solo i servi/diaconi, ma anche la madre di Gesù non sa quello che egli farà; infatti l’invito ai diaconi è fatto nella forma dell’eventualità («qualunque cosa vorrà dirvi»). I servi somigliano ai discepoli che partecipano alla lavanda dei piedi, ma non sanno quello che egli fa, fino al punto che Gesù stesso deve chiarirlo per due volte:

«7Rispose Gesù [a Simon Pietro]: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo”… 12Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: “Capite quello che ho fatto per voi? 13Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. 14Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. 15Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,7-15).
L’episodio citato si trova all’inizio della seconda parte del vangelo di Gv, esattamente nel «libro dell’ora», quello della rivelazione definitiva sulla croce, che è il trono della gloria del Messia. Si usa sempre lo stesso verbo di Cana «poièō – io faccio/opero/creo». Se consideriamo l’insieme del vangelo, possiamo concludere che l’invito della madre non è solo quello di ubbidire senza condizione, «fate quello che vi dirà», ma anche di «fare quello che lui stesso fa», cioè di imitarlo come Gesù medesimo richiede: «Vi ho dato l’esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15).
Non basta ubbidire, bisogna imitare. Senza imitazione l’obbedienza può essere alienazione, deresponsabilità. Nessuno può abdicare da se stesso, creato «a immagine e somiglianza di Dio» (Gen 1,27). Ubbidire imitando è il modo per mettere sempre più a fuoco l’immagine divina che c’è in ciascuno di noi e mantenerla sempre nitida e trasparente.
A questo punto si può aprire un capitolo sull’obbedienza religiosa vincolata anche con un voto: il monaco, la suora, il religioso sono chiamati non a rinunciare alla loro volontà, ma a conformarla a quella del Signore, imitandolo nelle scelte e nell’impegno della vita: cosa farebbe Gesù se fosse adesso, qui e ora presente e al mio posto? Qui sta il cuore dell’alleanza sia del Sinai che di Cana: è la rivelazione e la manifestazione dell’esempio che si fa profezia di evangelizzazione.
Oggi nella Chiesa abbondano le parole, le esortazioni, le prediche, estrapolate dalla vita e per questo sono parole deboli, fragili e di conseguenza vuote. Domina il principio di autorità che si basa sull’obbedienza passiva e senza intelligenza: bisogna obbedire perché lo dice chi comanda. Il fondamento della fede in questo contesto non è la persona di Dio o la sua Parola rivelata, ma il culto della personalità, che in termini biblici è idolatria peccaminosa.
La vera profezia del Regno, il vero «vangelo dell’alleanza» si esprime nella testimonianza della vita, nella profezia dell’esempio, che s’impone da se stesso prima ancora di esigere una spiegazione. L’esempio/testimonianza prima della parola è l’esatta incarnazione del principio dell’alleanza dell’Esodo: «Faremo prima e obbediremo dopo».
Fare quello che egli dice e compiere quello che egli fa è la sintesi perfetta della fede adulta e libera, perché ciascuno dei credenti diventi a sua volta «Dabàr», una parola ebraica molto importante nella logica biblica. Essa ha due significati, apparentemente contrapposti, ma intimamente connessi e identici. Significa «parola/detto», ma ha anche il senso di «fatto/evento». È ciò che avviene nella creazione: «Dio disse… E così avvenne» (Gen 1, passim). In Dio mai la Parola è separata dall’evento, perché Dio parla agendo e agisce parlando. In lui parola e azione s’identificano.
A Cana obbedienza, rivelazione e testimonianza sono sinonimi, perché sono l’anticipo e la premessa dell’evento degli eventi: «Il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14), la Parola diventa Pane, il Pane rivela la fragilità di Dio che è il «luogo» privilegiato, l’arca dell’alleanza dell’incontro con gli uomini e le donne, i fragili dell’umanità.
(27- continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (24) «Vino non hanno»

Il racconto delle nozze di cana (24)

«La nuova alleanza nel mio snague, che è versato per voi»

Gv 2,3: «Venuto a mancare il vino, dice la madre di Gesù a lui: “Vino non hanno”».
(kài hysterêsantos òinou lèghei hē mêtēr toû Iēsoû pros autòn: Ôinon oùk èchousin)

Fatti i preparativi per lo sposalizio, preso atto che le nozze di Cana sono le sole in tutta la storia dell’umanità che si celebrano senza sposa, del tutto assente; conosciuti gli invitati importanti ai fini del IV vangelo, con il v. 3 entra in scena uno dei protagonisti eccellenti: «il vino», in greco «òinos». Nel racconto ricorre ben 5 volte: al v. 3 (2x), al v. 9 (1x) e al v. 10 (2x). Questa «abbondanza» di vino non solo materiale (sei giare per una capienza totale da un minimo di 240 a un massimo di 480 litri), ma anche letteraria (5 occorrenze) è indice di importanza e ci invita a prestare attenzione se vogliamo cogliere il significato inteso dall’autore.
Al «protagonista vino» abbiamo dedicato ben due puntate da due angolature diverse:
    – Il vino dalla prospettiva del Messia nel suo simbolismo cristologico (cf MC 10 [2010] 24-26).
    – Il vino dalla prospettiva di abbondanza nel suo simbolismo escatologico (cf MC 11 [2010] 21-24).
Rimandiamo a queste due puntate per non ripeterci. Sarebbe bene che i lettori interessati ad un approfondimento rileggessero i due testi perché sono utili per capire quanto diremo ancora. Chi avesse smarrito i nn. 10 e 11 del 2010 sopra citati, può consultare il sito della rivista MC on line sempre disponibile: https://www.rivistamissioniconsolata.it/cerca.php?cat=25  (consigliamo anche per chi ne avesse la possibilità di aggiungere l’exursus «Il vino nell’Antico Testamento e nella tradizione giudaica» in Aristide Serra, Le nozze di Cana, 249-273.
Un significato universale
Il testo del vangelo annota semplicemente che a un certo punto è «venuto a mancare il vino» (v. 3a). Qualcuno ha fatto male i conti o gli invitati ne hanno approfittato e quindi, nel pieno della festa, sorge un problema. Fermarsi a questa lettura però sarebbe molto banale. Il testo così come lo abbiamo è testimoniato dalla maggior parte dei codici e in particolare dai papiri Bodmer P66 (tra i sec. II e III) e P75 (tra i sec. VI e VII). Vi sono però alcune varianti che fanno capire l’importanza del tema. Il codice «Alpha*», risalente al sec. IV, legge: «E vino non avevano perché il vino delle nozze era stato terminato», che è una forma più estesa, esplicativa: vuole cioè chiarire il pensiero e spiegando allunga. Una regola della critica testuale è che tra due testi, in genere, è da scegliere quello più breve e più difficile, perché brevità e difficoltà sono segnali di maggiore antichità. Chi vuole spiegare le cose per chiarirle, certamente è successivo al testo.
Di fronte a questo fatto, la madre di Gesù che avevamo incontrato al versetto precedente per la prima volta prende la parola e fa notare la situazione: «Vino non hanno». Anche qui lo stesso codice «Alpha*» riporta un’altra variante che dice: «Vino non c’è». Apparentemente non c’è differenza tra i due testi, ma solo apparentemente, perché la variante semplifica molto e dal punto di vista teologico pone l’accento solo sul vino che è il soggetto della frase, mentre il testo accettato pone l’accento sulle persone, in questo caso, gli sposi in quanto sono essi che «non hanno vino», anche se la sposa è assente e lo sposo è figura secondaria che compare solo per essere rimproverato dal maestro del cerimoniale (architriclino). Proprio la particolarità di uno sposalizio senza sposa e con lo sposo che c’è e non c’è, ci apre a prospettive nuove e ci fa dire che essi sono espedienti per andare oltre le apparenze come molto spesso Giovanni ci costringe a fare. L’espressione «venuto a mancare il vino» in greco è un genitivo assoluto (funziona esattamente come l’ablativo assoluto in latino) che assume un valore generale, fuori dal contesto stesso in cui si trova. Il verbo «ysteré» in greco se riferito al tempo indica «essere ultimo/venire per ultimo»; se riferito allo spazio significa «venire dopo»; se riferito a persone o cose indica mancanza e privazione e quindi «manco/ho bisogno/sono escluso». L’uso di questo verbo in Gv è un «hàpax» cioè un termine usato una sola volta in tutto il vangelo per cui non si possono fare confronti, ma dobbiamo cogliee il senso solo in questo contesto.
Il genitivo assoluto, «venuto a mancare il vino», che in se stesso esula dal testo perché se ne potrebbe anche fare a meno senza modificare la struttura sintattica della frase, ha invece un valore importante perché l’autore lo usa fuori contesto e quindi con un senso universale, così universale che si può applicare a tutta l’umanità: non solo gli sposi, che hanno fatto male i calcoli, ma è l’umanità intera che è carente, manca, ha bisogno del vino nuziale.
Per questo motivo rifiutiamo le varianti testuali; «vino non c’è» è solo una costatazione povera del fatto che non si può continuare a fare baldoria perché manca il vino e non ha quindi la stessa forza del testo che sottolinea la tragedia della situazione: nessuno ha più vino, come a dire «non c’è il Messia» tanto atteso.
La madre/Israele non è in grado di dare la gioia della vita (il vino) ai suoi figli. Anche in un’altra circostanza e contesto il popolo sperimenta la mancanza di pane, quando di fronte alle folle che lo seguono, Gesù prende atto che «non hanno di che mangiare» (Mc 8,2) e più avanti i discepoli discutono che «pani non hanno» (Mc 8,16). Pane e vino sono gli alimenti esclusivi del banchetto messianico, secondo la regola della comunità di Qumran: «E quando (preparano la mensa per mangiare, o il) mosto (per bere, il sacer)dote sten(derà per primo la mano per benedire le primizie del pane) e del mosto (…)» (4Q258[4QSd], fr. I col. II [=1QS, V,21-VI,7]).
Il vino della Sapienza eucaristica
Sia la tradizione biblica che quella giudaica avevano identificato il vino con la Parola di Dio; Donna Sapienza, infatti, «ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola» alla quale invita «chi è privo di senno: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato (per voi”» aggiunge la LXX) (Pr 9,2.5). Il Sapiente è colui che si nutre della Parola del Signore perché «nella Toràh del Signore trova la sua gioia, la sua Toràh medita giorno e notte» (Sal 1,2; cf Dt 4,5-6; Sal 107,43; 119/118,99…; Gdt 8,26-27.29, ecc.).
Il pane e il vino della Sapienza sono quindi la Parola del Signore. Anche nell’Eucaristia, la Chiesa prepara la duplice mensa del Lògos che carne diventa (cf Gv 1,14) e del vino, alimenti che significano la Shekinàh/Dimora/Presenza della santa Trinità. Il vino preparato dalla Sapienza è quindi il vino della Toràh, cioè la natura stessa di Dio.
Nel libro del Siracide la Sapienza che parla in prima persona s’identifica con la vite: «Io come vite ho prodotto splendidi germogli» (Sir 24,17) per concludere che «tutto questo è il libro dell’alleanza del Dio altissimo, la Toràh che Mosè ci ha prescritto, eredità per le assemblee di Giacobbe» (Sir 24,23).
Anche Gesù si identifica con la vite: «Io-Sono la vite vera» (Gv 15,1) e il frutto che egli porta è «l’eucaristia della nuova alleanza (Mt 26,29 e parr.)» (Bibbia-Cei 2008, nota a Gv 15,1) dove si manifesta la volontà del Padre, cioè la sua Parola, cioè ancora il Figlio come progetto per l’umanità attraverso Israele e la Chiesa: «In principio era il Lògos e il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14). L’immagine della vite e della vigna è classica nella Bibbia e si riferisce abitualmente a Israele (cf Is 5,1; Ger 2,21; Ez 15,2-6; Ez 19,10-14; Sal 80,9-16).
I rabbini amano raccontare che quando il sacerdote Melchisedek, uomo senza origini e senza ascendenti, accolse Abramo con i doni del pane e del vino (cf Gen 14,18), lo istruì anche nella Toràh del Signore Dio (cf Gen R 43,6 a 14,18). In questa ampia gamma di simbologia, è logico condividere la conclusione della tradizione giudaica che vede nel monte Sinai la cantina dove Dio ha conservato il vino della Toràh in vista dell’alleanza con Israele quando uscì dall’Egitto.  L’espressione della donna del Cantico dei Cantici: «Egli mi ha introdotto nella cella del vino» (Ct 2,4) è interpretata dal Targum (cf Tg Ct 2,4) e dal Midrash (Ct R 1,2.5; 2,4.1; 6,10.1) come il monte Sinai che Yhwh ha adibito a cantina del vino della Toràh. A riguardo abbiamo già scritto nella settima rubrica dedicata alle nozze di Cana:
«Il quinto personaggio è il “vino” che è il segno messianico per eccellenza. Il midràsh ebraico (Cantico Rabbà 2,4) equipara la Toràh, cioè la Parola di Dio al vino e il monte Sinai è descritto come la cantina dove Dio, prima ancora della creazione del mondo, ha conservato il vino-Toràh per la festa delle nozze messianiche: “Il Sinai è la cantina dove fin dalla creazione del mondo è stato tenuto in serbo per Israele il vino delizioso della Toràh. Disse l’Assemblea d’Israele: Il Santo – benedetto egli sia – mi ha condotto alla grande cantina del vino, cioè al Sinai” (Ct R 2,12; cf Nm R 2,3; Pr 9,5). In Gv 2,10 vi è un accenno a questa cantina, quando il maestro di tavola rimprovera lo sposo di avere conservato il vino eccellente fino ad ora  (“tu hai conservato il vino buono [= bello] fino ad ora – sý tetêrekas tòn kalòn òinon éôs àrti”)» (MC 9 (2009), 22).
A questo punto, prima di andare avanti, non è inutile una riflessione attualizzante sullo stato della Chiesa di oggi in rapporto a quanto detto sopra. Dal testo del vangelo apprendiamo che l’espressione assoluta «venuto a mancare il vino» ha un valore universale e quindi può e deve essere applicato anche a noi e al nostro tempo. L’AT aveva il Sinai come «cantina del vino della Parola», preparato prima ancora che Israele uscisse dall’Egitto; secondo altri testi che abbiamo esaminato nelle puntate precedenti, il vino delle nozze di Cana richiama il «vino del Messia», perché i suoi tempi saranno segnati da una abbondanza senza misura. Tutte queste tipologie di vino sono proiettate nel futuro, cioè aprono una dimensione non solo di speranza, ma spingono a procedere con lena e passione verso i tempi di domani, perché ci avvicinano sempre di più all’incontro con «Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1,1-2).
(24 – continua)

Paolo Farinella




Cana (23) «Ecco lo sposo»

Il racconto delle nozze di Cana (23)

«Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato (meta-kalèô) mio figlio»  (Os 11.1)

Gv 2,2: «Fu chiamato/invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli»
(Eklêthē de kài ho Iēsoûs kài hoi mathētài autoû eis ton gàmon)
Parte seconda
Dall’Esodo a Cana, il verbo della vocazione: «kalèô – io chiamo»
Il capitolo 19 dell’Esodo è il capitolo dell’alleanza sul monte Sinai, dopo l’uscita dall’Egitto: è l’atto di nascita di Israele in quanto popolo che Gv 2 commenta con il racconto delle nozze di Cana: questo intendiamo affermare dicendo che le nozze di Cana sono un midràsh di Es 19,1-2a (Alleanza del Sinai) e di Es 7,14-25 (l’acqua del Nilo cambiata in sangue).
In questo contesto si capisce bene che la prima parola portante del racconto di Cana è lo stesso verbo «kalèō – io chiamo/invito/convoco» che mette in relazione due personaggi: Mosè e Gesù. Il primo perché è il mediatore delle nozze tra Dio e Israele ed «è convocato/chiamato» da Dio a salire sul monte, il secondo perché è lo Sposo dell’alleanza nuova che ha il suo «principio» a Cana di Galilea (cf Gv 2,11), dove «è convocato/chiamato/invitato» per «rivelare» il senso della sua presenza non tanto in un fatterello di un villaggio, quanto piuttosto nel cuore della «Storia»: egli è il Lògos divenuto carne (cf Gv 1,14).
Il rapporto tra Mosè e Gesù non è una forzatura perché è lo stesso evangelista che ci obbliga a leggere in questa chiave il racconto, sia perché è il primo verbo principale che scandisce la narrazione di Cana, sia perché troviamo altri riferimenti supplementari che accenniamo soltanto.
a) Vocazione come rivelazione
Il verbo «kalèō – io chiamo/invito/convoco» ha un valore di rivelazione e di investitura (vocazione) e quindi assume un significato specifico teologico, perché in Gv 2,9, quando il capo del cerimoniale (architriclino) deve riprovare lo sposo anonimo per la questione della scelta tra vino buono e vino gramo, «chiama lo sposo», usando non il verbo «kalèō», ma il verbo che si usa ordinariamente per chiamare qualcuno: «phonèō». È lo stesso evangelista, dunque, a distinguere il significato dei due verbi.
Scrive l’esegeta francese, Marc Girard:
«Fermiamoci su un solo dettaglio: il verbo kalein, “chiamare” (v. 2). Di solito gli si attribuisce un significato banale: invito, convocazione. A fronte del vero “terzo giorno”, quello che è simboleggiato in tutto il racconto, c’è molto di più: l’espressione dell’appello fondamentale di Gesù – la sua vocazione –, consacrato sposo con la sua morte e risurrezione, e anche dei discepoli, rappresentanti e immagine della futura Chiesa-sposa» (M. Girard, Cana ou l’«heure» de la vraie noce …, 108).
Il verbo è nella forma passiva e gli studiosi rilevano che nella Bibbia molte forme di questi verbi vengono definiti come «passivi divini» ovvero «passivi teologici», perché esprimono un pensiero che va oltre il significato ordinario. Giovanni e Paolo sono maestri in questo uso. Il soggetto logico (o agente) del verbo passivo «eklêthē – fu chiamato» è Dio per cui non si tratta soltanto di un «invito» a un banale matrimonio, ma della «chiamata» di Dio che convoca Gesù, il Figlio, appositamente per inviarlo a celebrare le nuove nozze con Israele (sull’uso del «passivo divino» cf altri casi in Mt 5,4.6.7.9; 25,29.32; Lc 6,37-38, Rm 6,4; 11,17-24; Col 3,1.3 ecc.).
In base allo schema giovanneo, a cui siamo ormai abituati, dietro ogni parola vi sono di norma due significati: quello ovvio, ordinario, e quello nascosto, più importante. Le nuove nozze s’impongono perché le prime sono fallite sotto il peso del tradimento (cf Os 2,4-23). Infatti, il rapporto tra le due nozze è dato dal confronto tra i personaggi protagonisti dei due eventi, collocati entrambi «nel terzo giorno»: Mosè e Gesù.
Se la dinamica del «terzo giorno» è lecita, e noi crediamo che sia anche logica, allora il confronto tra Mosè e Gesù non solo è lecito, ma è necessario.
Il ruolo che svolge Gesù è simile a quello del responsabile (architriclino) della festa: è lui che procura il vino, è lui che dà ordini ai servi/diaconi, è lui che consente con il suo intervento lo svolgimento delle nozze. Non occorre più un architriclino, perché adesso è lo stesso sposo che prepara le nozze affinché vadano a buon fine. Mosè è chiamato sul Sinai per ritornare al popolo e consegnare le tavole della Toràh, Gesù è chiamato a Cana per «manifestare/rivelare» da sé la «Gloria – Dòxa/Kabòd» di Dio attraverso i suoi «segni» e il suo volto.
b) Il Padre è la sorgente della vocazione
Al Sinai è Dio che convoca (ekàlesen – chiamò: aoristo/passato remoto indicativo attivo del verbo kalèō) Mosè sulla montagna dell’alleanza (Es 19, 3.20); a Cana è Gesù ad essere invitato (eklêthē – fu chiamato: aoristo/passato remoto indicativo, passivo del verbo kalèō) alle nozze.
Il rapporto tra le nozze del Sinai e quelle di Cana è ancora più stringente se si considera anche che dopo avere ricevuto la Toràh, «Mosè scese verso/dal popolo» (Es 19,25; cf anche vv. 10.21.24); allo stesso modo a Cana, dopo il dono dell’abbondanza del vino nuziale del Messia, anche «[Gesù] scese a Cafàao» non più verso il popolo, ma «insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli» (Gv 2,12). In tutti e due i testi sia per Mosè sia per Gesù troviamo, in greco, lo stesso verbo: «katèbē – discese».
Gesù era arrivato solo «con i suoi discepoli», ora scende dal monte della nuova alleanza con un popolo numeroso: sua madre, i fratelli e i discepoli. Il confronto con Mosè continua ancora, come vedremo a suo tempo. Qui basti per sottolineare da un lato la convergenza tra Mosè e Gesù e dall’altro anche le grandi differenze che si possono sintetizzare in una: Mosè è sempre e solo il grande mediatore delle nozze, «l’amico dello sposo» che sovrintende alla riuscita del patto nuziale (cf Gv 3,29); Gesù è lo Sposo atteso nella notte e desiderato dalla sposa e finalmente giunto (cf Mt 25,6).
«Mosè è chiamato da Dio, che gli affida una promessa e un compito per il popolo. Gesù, il Figlio di Dio, è mandato da Dio e chiamato dagli uomini in mezzo a loro per adempiere e rivelare tra di loro la promessa e il compito che Dio gli ha affidato… L’arrivo a questo matrimonio non potrebbe essere segno di un nuovo matrimonio, fondato sulla rivelazione della gloria di Gesù e sulla fede obbediente dei suoi discepoli, un nuovo Sinai, il momento della nascita della Chiesa di Gesù Cristo?» (B. Dolna, Le nozze di Cana, 48.49).
c) La vocazione come «progetto di catechesi»
Il primo verbo del racconto sulla linea narrativa, cioè il verbo più importante, lo abbiamo già detto diverse volte, è il verbo «fu chiamato» che è lo stesso di Mosè «chiamato» sul monte Sinai. Il penultimo verbo, sempre sulla linea narrativa, del brano delle nozze di Cana è il verbo «katèbē – discese» (cf Gv 2,12). Abbiamo quindi lo schema: «Fu chiamato – discese / eklêthē – katèbē» corrispondente allo schema identico che descrive la consegna della Toràh a Mosè secondo il binomio «Salì – discese / anèbē – katèbē» (cf Es 19,3.20.25).
Gesù non sale a Cana, ma discende a Cafàao, la città immersa nella «Galilea delle genti» (Mt 4,15). Questi movimenti fanno vedere la natura intrinseca della Parola di Dio, che non è solo una relazione di fatti, ma una chiave di comprensione del senso degli stessi fatti.
In Esodo, «Mosè salì (gr.: anèbē) verso Dio e il Signore lo chiamò (ekàlesen) dal monte» (Es 19,3); a Cana Gesù non deve salire «verso Dio» perché egli è il Lògos che «in principio era presso Dio e il Lògos era Dio» (Gv 1,1).
Ricevuta la missione sul monte Sinai, «Mosè scese – katèbē verso il popolo» (Es 19,25); a Cana, Gesù «sta» in mezzo al popolo e «scese – katèbē» a Cafàao per allargare l’orizzonte dell’alleanza del Sinai.
Sul monte dell’esodo, Mosè è in relazione esclusivamente con il popolo di Israele, il solo eletto per ricevere la Toràh come distintivo della propria identità: nessun altro popolo è presente. A Cana Gesù scende in una città che appartiene ad un territorio che è considerato alla stessa stregua di un territorio pagano, cioè impuro.
Il Sinai è per Israele, Cana è il monte del mondo, perché Gesù «scese» nel cuore dell’impurità per incontrare gli uomini direttamente.
Sul Sinai Mosè «sale e scende» come mediatore tra Dio e il popolo che resta al di fuori del recinto (cf Es 19,21.23); a Cana Gesù «prende in mano» le nozze e le porta a compimento e quando scende non porta le tavole di una legge di pietra, ma compie due fatti: «manifesta» la sua «gloria» ai discepoli, che così diventano testimoni ufficiali della vita del nuovo rabbi Joshuà, e contemporaneamente «consegna» se stesso all’umanità in attesa e ignara in una terra laica, quasi estranea alla religione ufficiale.
La chiamata di Dio a cui Gesù ubbidisce non è nuova nella sua vita, perché egli è intriso della volontà del Padre, di cui ha fatto la struttura portante della sua vita. Come Isacco, secondo la tradizione giudaica, incita il padre Abramo ad ucciderlo per ubbidire al volere di Dio, così Gesù fa dell’obbedienza al Padre la sua pietra angolare, l’asse portante della sua vita: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34; 5,30; 6,38); «Non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42; Mt 26,42). Gesù non comunica parole sue, ma quelle del Padre (cf Gv 7,16; 8,26.40; 17,8.14); allo stesso modo le opere che egli compie sono quelle che gli ha affidato il Padre (cf Gv 5,17; 8,28; 10,25.37; 14,10; 17,4).
Ciò non vuol dire che Gesù si trova il progetto della sua vita impacchettato con fiocco, quasi che la sua venuta sia solo un adempiere passivamente la missione ricevuta; al contrario, egli, come chiunque altro vivente che vuole essere in comunione con Dio, deve «cercare» la sua volontà negli avvenimenti della sua vita e nelle persone che incontra, altrimenti non potrebbe crescere «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52; cf 2,40), non sarebbe un vero uomo, ma un Dio che finge di fare l’uomo.
È questo il motivo per cui Gesù, specialmente in Lc, a ogni tornante importante della sua vita sta sempre in preghiera (cf Lc 3,21; 5,16; 6,12; 9,18.29; 11,1; 22,41.44; cf Mt 26,36). Egli prega per illimpidirsi lo sguardo del cuore e per capire gli eventi della storia come luoghi dell’incontro con il disegno del Padre.
Gesù corrisponde alla vocazione della sua chiamata cercando il senso della sua vita che il Padre gli ha affidato, ma che lui deve scoprire come ogni altro essere umano nella ricerca, con fatica e spesso anche nel dubbio.
È qui la grandezza della incarnazione che fa di Gesù l’uomo per eccellenza, perché Figlio di Dio. È profeta Pilato nel presentarlo al popolo nella pienezza della sua umanità: «Ecco l’uomo» (Gv 19,5).
Gv non usa il verbo «salire», ma «chiamare/invitare» per sottolineare, oltre alla somiglianza, anche la differenza, pur nel loro reciproco influsso, tra Gesù e Mosè: c’è il paragone, ma anche la «singolarità» di Gesù, che non ha bisogno di «salire» perché già «è disceso» per restare fino alla fine del mondo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo» confida Gesù a Nicodemo nell’incontro notturno (Gv 3,13), perché la logica della «kenòsi – svuotamento/abbassamento» (cf Fil 2,7) esige un «discendere dal cielo» permanente, definitivo: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6,38.41.42.51.58).
Se però in Gv 2,12 Gesù «scese a Cafàao», vuol dire che egli procede dall’alto verso il basso, da Cana a Cafàao per cui l’evangelista considera il villaggio come l’equivalente del monte Sinai, anche per via, come abbiamo già visto, del nome di «Cana» che significa «egli si è acquistato». Al Sinai Dio «si è acquistato un popolo», come cantano Mosè e gli Israeliti (cf Es 15,1.6), a Cana il Padre «acquista» il popolo del Regno nella persona del Signore Gesù che è la nuova Toràh dell’alleanza eterna (Per approfondire il tema della vocazione alla luce delle nozze di Cana e degli altri passi del vangelo [Gesù al tempio in Lc 2; il discorso della montagna in Mt 5, la scelta dei Dodici in Lc 6 e la trasfigurazione sul monte in Mc 9], cf A. Serra, Le nozze di Cana, 208-214).
Oltre Cana: le nozze paradigma della storia
Concludiamo l’esame di Gv 2,2 affermando con certezza che non è lo sposalizio di Cana l’evento di cui si vuole parlare, ma l’annuncio dell’autore che inizia una èra nuova sotto il segno e il sigillo delle «nozze» come  ripresa del tema e dell’esperienza dell’Esodo: come Israele si legò a Dio con un patto nuziale che nulla, nemmeno i tradimenti successivi, avrebbe potuto intaccare, allo stesso modo, «quando giunse la pienezza del “kairòs”» (Gal 4,4), cioè il tempo del Messia, non c’è più bisogno di un intermediario sponsale perché lo Sposo è presente direttamente, di persona per rinnovare le nozze con la Sposa/Israele – Chiesa. Israele infatti resta sempre Israele, ma ora include anche la Chiesa che si apre ai Gentili. La differenza tra l’alleanza del Sinai e quella che inizia a Cana sta in questo: al Sinai si tratta di una alleanza esclusiva con Israele, successivamente inviato ai popoli della terra; a Cana invece, che è già nella «Galilea delle Genti» (Mt 4,15), le nozze di Dio avvengono direttamente con Israele e con i Gentili: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39).
A Cana si compie il desiderio e l’anelito della sposa del Cantico: «Il mio amato è mio e io sono sua» (Ct 2,16), che secondo il Targum a Ct 2,8 è anche l’anelito di Dio che sospira di vedere il volto della sposa orante, presente/chiamata nell’assemblea: «Fammi vedere il tuo volto, fammi sentire la tua voce nella santa Assemblea». Dio non può fare a meno di «vedere e sentire/contemplare e ascoltare» la sposa che «si è acquistato» al Sinai e a Cana nelle nozze dell’alleanza.
In questo contesto, la preghiera non è solo un elevare l’anima a Dio, ma una vera e propria «vocazione» per rispondere al bisogno di Dio di vedere il volto e ascoltare la voce di Israele/Chiesa che si raduna perché Dio possa compiere il suo anelito sponsale.
Quanto deve cambiare la nostra preghiera, confinata e limitata alla lode, alla domanda e al perdono! La Bibbia e la tradizione giudaica ci aprono invece alla preghiera come «vocazione» per consentire a Dio di esercitare il suo diritto di Sposo. Questa visione attraversa tutta la salvezza che cammina nella storia e si proietta nel futuro messianico, quando, al compimento del pellegrinaggio terreno, compiute le nozze e bevuto il vino del Messia, «lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni! … Sì, vengo presto! … Vieni Signore Gesù – Maranà thà”» (Ap 22,17.20; 1Cor 16,22).

Paolo Farinella
(23 – continua)

Paolo Farinella




Cana (22) «Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli»

Il racconto delle Nozze di Cana (22)

Gv 2,2: «Fu chiamato/invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli»
(Eklêthē de kài ho Iēsoûs kài hoi mathētài autoû eis ton gàmon)»
Parte prima

Il versetto 2 del capitolo 2 di Gv è molto importante dal punto di vista narrativo perché si colloca sul primo livello del racconto e vuole darci una informazione decisiva, molto più importante di quella contenuta nel versetto precedente, che parla di un matrimonio dove «c’era là anche la madre»; capiremo il motivo più avanti. Il vangelo di Giovanni inizia con il grande prologo (Gv 1,1-18) in cui si descrive non la nascita carnale, come fanno i Sinottici (Mt 1-2 e Lc 1-2), ma la «preesistenza» del Lògos, considerato in se stesso, cioè nella sua eternità che però si relativizza nel mondo in cui «il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14). Poi prosegue con l’attività di Giovanni il battezzante che culmina nel battesimo nel Giordano (cf Gv 1,19-34) e prosegue con la presentazione dei discepoli di Giovanni, che sono curiosi di conoscere chi è Gesù fino al punto che alcuni lo frequentano e infine lo seguono (cf Gv 1,35-51).
Prepararsi a un ingresso
Per tutto il capitolo primo del quarto vangelo, Gesù appare nello sfondo, dapprima come invisibile nella condizione di «Lògos» e poi nella storia come figura incerta, non definita: è un assente presente. Tutto il capitolo primo, infatti, è solo una preparazione all’ingresso ufficiale di Gesù che viene a inaugurare la sua attività di rabbi itinerante, portatore di una novità e un senso nuovo. Gesù infatti entra in scena, anzi irrompe nel racconto evangelico in Gv 2,2: «Fu chiamato/invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli». Ecco il primo passo della rivelazione nuova della nuova alleanza che, a sua volta, è ancora preceduto da Gv 2,1, che ci offre due informazioni circostanziali, cioè secondarie, per predisporci più profondamente e intimamente al solenne ingresso di Gesù nella storia della salvezza.
L’autore indugia a lungo, parte da lontano, quasi avesse timore di precipitare gli eventi e rallenta la scena perché vuole mettere in contrasto due presenze e due funzioni: da una parte lo sposalizio e la madre, dall’altra il Figlio con i discepoli. Il greco usa il verbo aoristo indicativo passivo, che in italiano corrisponde al passato remoto passivo: «Fu chiamato/invitato anche Gesù». È la prima notizia importante che l’autore vuole comunicarci dall’inizio del vangelo. Qualcuno potrebbe obiettare che anche in Gv 2,1 c’è un aoristo indicativo medio che in italiano si rende sempre con il passato remoto. Anche qui il verbo dovrebbe indicare la linea principale della narrazione: «Nel terzo giorno uno sposalizio avvenne a Cana di Galilea» (Bibbia-Cei 2008: «vi fu»). L’obiettore avrebbe ragione se non fosse per il fatto che il passato remoto di Gv 2,1 non è a inizio di frase, ma in greco è collocato esattamente dopo «sei» parole e quindi perde il valore di narrativo verbo principale, cioè non si colloca nella linea primaria del racconto che avrebbe mantenuto, se fosse stato collocato all’inizio della frase. La notizia dello sposalizio pertanto è di natura secondaria e si pone sullo stesso piano di quella che descrive la presenza della madre per la quale si usa il verbo all’indicativo imperfetto: «C’era là la madre».  
L’importanza della lingua e delle parole
Dal punto di vista linguistico, il passato remoto «avvenne», posto dopo sei parole e l’imperfetto «c’era» hanno lo stesso valore temporale, perché le due notizie hanno lo scopo di preparare l’esplosione del primo verbo principale assoluto che fa entrare solennemente in scena Gesù come agente principale: «eklêthē de kài ho Iēsoûs – fu chiamato poi anche Gesù»: è questa l’affermazione solenne e principale a cui l’autore vuole arrivare. Tutto il capitolo primo è una preparazione per questo ingresso che è l’inizio formale del Nuovo Testamento. Sia l’informazione che a Cana si stava celebrando uno sposalizio sia quella che lì c’era anche la madre servono a circostanziare, a spiegare, a rendere più chiara e anche contrastante la presenza di Gesù: le due notizie sono cioè a servizio dell’irruzione di una presenza che nessuno poteva immaginare.
Poiché questo è un punto importante per capire il racconto di Cana, facciamo un esempio, forse più evidente, tratto dai primi tre versetti della Genesi con cui si apre la Bibbia. Se prendiamo le traduzioni in italiano noi leggiamo così:

«1In principio Dio creò il cielo e la terra. 2La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. 3Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu» (Gen 1,1-3).
Da questo testo così tradotto, emerge che le informazioni principali sono tre: «Dio creò il cielo e la terra»,  «Dio disse» e «la luce fu»; invece Gen 1,1-2 è solo circostanziale per spiegare le condizioni dell’intervento di Dio perché la vera notizia è «disse Dio». La traduzione ordinaria, anzi banale e letterariamente anche piatta e senza sentimento, travisa il testo ebraico e snatura anche il senso del messaggio teologico, perché l’autore sacerdotale che ci informa sulla creazione, in verità vuole mettere in evidenza e in modo forte e solenne che la creazione avviene attraverso la «Parola» e non con azioni materiali per cui è molto importante che la prima parola narrativa del testo arrivi con Gen 1,3 con l’energico e dirompente: «Disse Dio». Solo in Dio la Parola diventa Fatto e per questo al «disse Dio» corrisponde una esecuzione immediata: «E fu luce». Non è un caso che in ebraico si usa il verbo «’amàr – dire» che nella forma sostantivata «dabàr» significa tanto «detto» quanto «fatto». Per esprimere questa impostazione che solo la linguistica può mettere in evidenza, è necessario, nel rispetto del testo ebraico, tradurre in questo modo:

«1Quando “nel principio del-Dio-creò-il cielo-e-la-terra” 2e la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque, 3disse Dio: “Sia la luce!”. E la luce fu».
Il punto di partenza del racconto è Gen 1,3 e deve essere messo in evidenza perché tutto il resto, cioè le quattro informazioni che formano il contesto dei vv. 1-2, potrebbero non esserci e il racconto filerebbe lo stesso dal punto di vista della narrazione principale.
L’autore del quarto vangelo usa lo stesso sistema: prepara il terreno, narra le circostanze, espone le condizioni, crea il contesto per portarci al momento iniziale che coincide emozionalmente con il primo incontro con la persona del Signore Gesù, sulla cui identità tutto il vangelo si interroga: «Chi è Gesù?». Anticipiamo la risposta: Gesù è lo Sposo dell’alleanza nuova, perché egli giunge a Cana, terra pagana (cf Mt 4,15), per annunciare la nuova alleanza, come Israele giunse nel deserto ai piedi del Sinai per ricevere l’alleanza nelle tavole di pietra. Un grande evento sta avvenendo davanti a noi e noi abbiamo il privilegio di essere protagonisti insieme ai discepoli che sono la sorgente dei nuovi credenti.
Uno schema di linguistica testuale
Se consideriamo il testo greco dal punto di vista della linguistica testuale, cioè della narrazione come l’ha concepita l’autore e delle informazioni che intende darci, ci accorgiamo subito che la presenza della madre è una notizia complementare, secondaria, che serve come informazione di supporto per mettere in evidenza la linea principale del racconto che è scandita dai verbi al passato remoto o dal presente indicativo (spesso usato nel racconto come «presente storico», cioè al posto del passato remoto, come vedremo). Usando però il presente, l’autore rende ciò che comunica immediatamente contemporaneo al lettore che così è più coinvolto anche emotivamente. Se proviamo a sistemare in forma grafica questa struttura teologica, mettendo a sinistra la linea narrativa principale e in rientro, più a destra, le frasi secondarie con un verbo finito, abbiamo il seguente schema:

    1° livello    2° livello    3° livello     
linea principale    linea secondaria    discorso diretto (imperativo)
        «1E nel terzo giorno, quando uno sposalizio             avvenne in Cana della Galilea ed era
        la madre di Gesù là,    
2allora fu chiamato/invitato anche Gesù e i suoi discepoli allo sposalizio.    
Allo stesso modo se usiamo lo schema per l’esempio che abbiamo preso dalla Genesi, vediamo il seguente schema, che è copia perfetta di quella del vangelo:

    1° livello    2° livello    3° livello     
linea principale    linea secondaria    discorso diretto (imperativo)
        «Quando “nel principio del-Dio-creò-il     
        cielo-e-la-terra”, e la terra era informe
        e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso
        e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque,
3disse Dio:         “Sia la luce!”. E fu luce ».    

Se dallo schema di Gv 2,1-2 che abbiamo presentato, togliamo il versetto 1, il senso del racconto scorre pieno perché la notizia che interessa è che Gesù fu invitato. Per capire la portata di questo invito, al lettore si foiscono alcune notizie di corredo che servono ad ambientare l’azione e a metterla in contrasto con le altre due notizie: l’occasione di un matrimonio e la madre di Gesù che era già presente «prima» dell’arrivo di Gesù. Traduciamo il testo come abbiamo fatto per l’esempio della Genesi, al fine di fae capire i problemi di linguistica che ci permettono di cogliee il senso profondo:

«Nel terzo giorno, mentre a Cana di Galilea si celebrava uno sposalizio e c’era la madre sua, fu invitato alle nozze anche Gesù insieme ai suoi discepoli».
Discepoli, non apostoli
Tutti comprendono subito che l’intento dell’autore è mettere in contrasto e stridore le nozze già in corso e la presenza della madre da una parte con l’arrivo e la presenza di Gesù con i suoi discepoli dall’altra. Per la prima volta infatti, dal vangelo di Giovanni, veniamo a sapere che Gesù ha alcuni discepoli perché nel capitolo precedente non è detto da nessuna parte, mentre sappiamo che alcuni discepoli di Giovanni il battezzante vanno da Gesù e s’interessano alla sua vita (cf Gv 1,35-51). È interessante questa osservazione perché l’autore parla di «discepoli – mathētài» e non di «apostoli – apòstoloi», termine che per altro Gv nel vangelo non usa mai tranne una volta (cf Gv 13,16), a differenza degli altri Sinottici, specialmente Luca per il quale invece è un termine abituale (cf Lc 6,13; 9,10; 11,49; 17,5; 22,14; 24,10).
Il vocabolo «discepolo» in tutto il NT ricorre almeno 266 volte di cui 77 volte solo nel vangelo di Giovanni, cioè quasi un terzo. L’uso di questo termine è una spia che l’evangelista si colloca sul versante della storia, perché intende raccontarci non una riflessione, ma un «fatto», perché il termine «apostolo» è di uso postpasquale, mentre il discepolo è una realtà storica molto diffusa al tempo di Gesù, che pullulava di rabbi seguiti da discepoli: il termine «apostolo» pertanto appartiene alla funzione del dopo pasqua che i discepoli riceveranno dal Cristo risorto (cf Brown, Giovanni, 127).
In questo modo è evidente che il personaggio principale è Gesù e che entra per la prima volta in scena con la solennità quasi di un ingresso trionfale. La frase infatti mette bene in evidenza che sposalizio e madre sono momenti di contorno alla figura centrale di Gesù e, come vedremo fra poco, diventa il peo attorno a cui tutto ruota. È questo il punto centrale del racconto: come il Lògos ha fatto irruzione nella Storia, diventando «carne» cioè fragilità e debolezza, così ora Gesù di Nàzaret entra nella storia di Israele alla guida di un popolo rinnovato, simboleggiato dai «discepoli». In questo modo l’autore mette in evidenza per contrasto un altro fatto: la madre era già «nello» sposalizio che appartiene al tempo dell’AT.
L’arrivo di Gesù è uno spartiacque tra un «prima» e un «dopo». Ciò che è «prima» era una preparazione, perché quello che accade «dopo», cioè adesso, è una novità che dà inizio a una svolta irreversibile. La madre vive e agisce «dentro» le antiche nozze perché appartiene all’alleanza sinaitica, simbolo ed emblema di Gerusalemme, «vedova» dello sposo. Nel racconto non si fa alcun accenno a Giuseppe che probabilmente era già morto, per cui la madre è «veramente vedova», senza sposo, in attesa della redenzione del suo popolo.
Gesù è il Messia che entra nelle nozze del popolo d’Israele, le nozze dell’alleanza del Sinai che sono state tradite innumerevoli volte. Egli non appartiene a queste nozze perché «è chiamato/invitato», è solo un ospite che non viene dal passato, ma giunge dal futuro, insieme ai suoi discepoli che assumono la simbologia del nuovo popolo nuziale che si prefigura nei Gentili che lo accoglieranno, a differenza dei «suoi» che lo rifiuteranno (cf Gv 1,11), mentre Gesù viene a portare «una nuova ed eterna alleanza» (Ger 31,31) che non avrà mai fine. La madre rappresenta la sposa/popolo che ha finito il vino del patto e della speranza, vedova e con i figli lontani dal cuore della Toràh, anche se pieni di precetti e di osservanze e rituali. Gesù invece viene da un «altro mondo», il mondo del Padre che lo ha «mandato alle pecore perdute della casa di Israele» (Mt 15,24).
Bisogna stare attenti quando leggiamo la Scrittura perché in essa anche «uno iota» ha 70 significati che non devono essere lasciati cadere nella banalità o peggio nel vuoto (cf Mt 5,18). Per questo è necessario prestare attenzione anche alla collocazione delle singole parole del testo se vogliamo cogliere l’intenzione dell’autore. Quanto abbiamo espresso nello schema non è un capriccio, ma è provato da altri elementi che lo stesso autore ci suggerisce, perché per introdurre Gesù nella scena della storia della nuova alleanza non usa un verbo qualsiasi, ma lo prende in prestito dalla Bibbia greca della LXX, quando presenta Mosè che «il Signore chiamò/convocò» sul monte Sinai e che abbiamo già illustrato nella 7a puntata (MC 9/2009, p. 21) e che riprenderemo in parte per comodità.

Paolo Farinella
 (22 – continua)

Paolo Farinella




Cana (21) «C’era là la madre di Gesù»

Il racconto delle nozze di Cana (21)

Gv 2,1c: «[Uno sposalizio avvenne a Cana di Galilea] ed era la madre di Gesù là»
(kài ên hē mêtēr toû Iēsoû ekêi)
Sapevamo già che Gesù ha relazioni parentali particolari o almeno interessanti: è il «Figlio unigenito che viene dal Padre» di cui viene a farci «l’esegesi» (Gv 1,14.17); è «il Figlio di Dio» testimoniato da Giovanni il battezzante (cf Gv 1,34) e riconosciuto da Natanaele che lo va a cercare di notte (cf Gv 1,49). Sapevamo anche che Gesù stesso si autopresenta come «Figlio dell’uomo» (Gv 1,51) e dai «vangeli dell’infanzia» sia di Mt che di Lc sappiamo anche che ha due genitori: Giuseppe e Maria che egli tratta abbastanza malamente quando ricorda loro che devono stare al loro posto: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49), non considerando l’angoscia e il dolore dei due malcapitati che credendolo scomparso si sono disperati a cercarlo. Si rivolge ai genitori contrapponendoli a un altro «Padre». Il testo di Lc è interessante perché probabilmente è la versione cristiana del rito ebraico della «Bar Mitzvàh – Figlio del Comandamento», il rito del passaggio alla maggiore età di ogni ebreo maschio al compimento del dodicesimo anno e all’ingresso nel tredicesimo. Da questo momento ogni Ebreo diventava maggiorenne e poteva leggere la seconda lettura (i profeti) nella liturgia della sinagoga. Noi ora non possiamo occuparcene.
Dalla sposa alla madre
L’autore del IV vangelo a sua volta ci informa che c’è una «madre» (cf Gv 2,1) che partecipa alle nozze: non sappiamo se come semplice invitata o come parente. Anche questa «madre» però in Gv ha una particolarità: è sempre senza nome perché non viene mai indicata ed è un altro indizio che ci costringe a salire di livello. Una precisazione è necessaria: nella letteratura Giovannea quando si parla di «madre» indica sempre Maria di Nàzaret definita secondo il costume orientale con la sua funzione (cf Gv 2.1.3.5.12; 19,25.26.27); quando si parla di «sposa» si indica invece sempre la Chiesa (Gv 3,29; Ap 18,23; 21,2.9; 22,17). È importante sottolinearlo, perché nel racconto di Cana abbiamo «la madre», ma non «la sposa», nonostante si tratti di «uno sposalizio»; bisogna intendere cosa vuole dirci l’autore.
Riguardo alla parentela, Gesù è descritto da Gv come «unigenito del Padre» (Gv 1,14.18), «Figlio di Dio» (Gv 1,34.49) e «Figlio di Giuseppe» (Gv 1,45), per cui ora abbiamo un nuovo rapporto di parentela, preludio dei tempi nuovi: inizia l’èra della mateità della Chiesa, la sposa che genera la nuova umanità, immagine del Figlio.
Dal punto di vista delle relazioni umane, c’è chi pensa che la presenza della «madre di Gesù» sia dovuta a legami di parentela. Scrive a questo proposito Raymond E. Brown: «Esiste una tradizione apocrifa che Maria fosse la zia dello sposo, che un prefazio latino dei primi del III secolo identifica come Giovanni figlio di Zebedeo» (Giovanni, I,126). Un fatto è certo: la Madre è presente alla festa di nozze; anzi «doveva» esserci (v. più sotto la spiegazione dell’uso dell’imperfetto del verbo «essere»), ma anche perché da nessuna parte si dice che era stata invitata, come invece si afferma nel versetto seguente per Gesù e per i suoi discepoli.
Se il motivo della presenza fosse stata la parentela, anche Gesù avrebbe dovuto essere trattato come parente e avrebbe dovuto essere già là. Non si capisce perché per lui l’evangelista sente la necessità di dire che «era stato invitato» (Gv 2,2), mentre non sente questa necessità per la madre. Gesù e i suoi discepoli possono essere stati invitati da qualche conoscente, come Natanaele che era di Cana, il quale poteva avere interesse che la presenza di Gesù, personaggio noto, avrebbe dato certamente lustro e importanza al matrimonio.
Il motivo però della differenza tra la madre, che è «già» sul luogo delle nozze, e Gesù, che giunge all’inizio della festa, non bisogna cercarlo nel grado di parentela o in un invito interessato, perché ci porremmo sempre al livello immediato delle banalità; bisogna invece andare oltre le apparenze e penetrare il simbolismo che Gv ha inteso esprimere.
La semplice constatazione che «la madre di Gesù era là» potrebbe essere solo una notizia di cronaca, ma in Gv nulla è scontato e infatti dietro il senso domestico di una presenza materiale a una festa nuziale come tante altre, c’è la dimensione teologica che l’autore vuole mettere in evidenza.
Abbiamo detto spesso, e lo sottolineiamo di nuovo, che Gv usa lo stile della duplicità di significato: dietro le parole materiali di uso comune si nasconde la teologia cristologica. Non si tratta più dell’importanza del senso comune delle singole parole, ma del fatto straordinario che ciascuna di esse ha «settanta significati» per affermare la ricchezza inesauribile della Parola di Dio che nessun linguaggio, nessuna parola possono pretendere di contenere.
Qui ci troviamo espressamente di fronte a una «rivelazione» della personalità di Gesù, il Figlio di Dio. Se dal Sinai scendeva una Legge pietrificata, a Cana avviene la «manifestazione», l’epifania della persona stessa di Dio che si presenta alle nozze dell’alleanza nuova, come lo sposo atteso dall’amante del Cantico dei Cantici, e questo sposo è Gesù.
Significato dell’imperfetto «era»
L’abbinamento del verbo essere con l’avverbio «era … là» è tipica di Gv, che in tutto il vangelo la usa dieci volte, di cui due nel racconto di Cana (cf Gv in 2,1.6; 3,23; 4,6; 5,5; 6,22.24; 11,15; 12,9.26). L’uso, infatti dell’avverbio locativo «là – ekêi» con il verbo «essere» al tempo imperfetto, ritorna anche in 2,6: «C’erano poi là sei giare di pietra» (Gv 2,6). Questo richiamo ravvicinato, e identico sintatticamente, è fatto apposta per creare un parallelo tra la madre e le giare:
– Gv 2,1: «Ed era la madre di Gesù là»
                (kài ên hē mêtēr toû Iēsoû ekêi).
– Gv 2,6: «Poi erano là sei giare di pietra»
                (êsan dè ekêi lìthnai hydrìai).

Il verbo «essere» al tempo imperfetto ha valore qualitativo e indica una azione continuativa e duratura nel passato e intende dire che la madre stava «là» fin dall’inizio, come dire che «c’era da sempre».
Ogni volta che l’autore del IV vangelo deve introdurre un personaggio importante con un ruolo particolarmente significativo, usa sempre il tempo imperfetto:
– Gv 2,1: «C’era la madre di Gesù».
– Gv 3,1: «C’era tra i farisei un uomo di nome
                Nicodemo».
– Gv 4,46: «C’era un funzionario del re».
– Gv 5,5: «C’era lì un uomo che da 38 anni era malato».
– Gv 11,1: «C’era un malato, Lazzaro».
– Gv 12,20: «C’erano dunque tra quelli che erano saliti
                    per il culto, alcuni greci».

L’uso dunque dell’imperfetto del verbo «essere» è costante in Gv e forma quasi uno schema di presentazione importante (cf SERRA, Le nozze di Cana, 202-204).
La madre  e le giare
La sua presenza non è casuale: non è venuta per le nozze, ma c’era già come se aspettasse quelle nozze che sono il motivo della sua attesa. Lo stesso si deve dire delle giare di pietra, perché anche esse «erano là, distese per terra/che giacevano» prima ancora che le nozze iniziassero. È evidente che Gv ci vuole comunicare un simbolismo particolare sia della madre che delle giare, perché l’una e le altre non sono coreografiche, ma hanno un ruolo preciso e una funzione determinante. La madre e le giare «erano là», cioè aspettavano che finalmente avesse luogo lo sposalizio. La madre rappresenta il popolo d’Israele in attesa di essere ripreso come «sposa» dell’alleanza nuova rinnovata, perché è reduce dalle nozze dell’antica alleanza sinaitica finita in esilio, cioè in corruzione.
Le giare sono il segno visibile della Toràh scritta e orale, incisa su tavole di pietra (Es 24,12; cf Mateos – Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 133 e 137) che sono diventate il «sacramento» del cuore di pietra di Israele descritto dal profeta Ezechiele e in attesa del trapianto del cuore di carne (cf Ez 11.19; 36,26). La madre e le giare sono il simbolo della sinagoga che attende il Messia:
a) le giare sono pronte per innovare la purificazione che il popolo dovette fare ai piedi del Sinai: «Il Signore disse a Mosè: “Va’ dal popolo e santificalo, oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo”» (Es 19,10-11).
b) la madre è già sulla scena perché deve accogliere sia lo sposo, il Figlio, sia i figli che tornano dall’esilio, ponendo fine alle lacrime di Rachele che piange i suoi figli esiliati (cf Ger 31,15). La madre qui assume un connotato di dirompente profezia, perché annuncia l’arrivo del Messia e, al tempo stesso, chiude il tempo dell’attesa: il vino coservato nella cantina del monte Sinai, il vino della Parola di Dio ora scorre abbondante e invade la Chiesa, l’Israele fedele, il nuovo popolo che non è sostitutivo del primo Israele, ma ne è la continuazione nel segno del compimento.

L’espressione «la madre di Gesù» è una costruzione con un soggetto (la madre) e un genitivo (di Gesù) che tecnicamente si chiama «genitivo adnominale», perché riceve senso compiuto e pieno dal nome da cui dipende (cf R. Cantarella – C. Coppola, Nozioni di Sintassi Greca, Milano 1971, § IX,II,1). Senza il nome sarebbe semplicemente «la madre di…» nessuno.
Madre, Israele e Messia
Maria è chiamata sempre «la madre di…» Gesù, espressione che ricorre ben dieci volte su undici occorrenze (cf Gv 2,1.3.5.12; 6,42;19,25[2x].26[2x].27). La sola volta in cui ricorre il termine «madre» non riferito a Gesù è nelle parole di Nicodemo, alle prese con il tentativo di rientrare da adulto nel grembo di sua madre (cf Gv 3,4). Il motivo dell’anonimato è di due ordini: la madre è conosciuta e tutti sanno chi è, ma anche perché non è importante la sua persona, ma ciò che rappresenta, il simbolo che rappresenta. Approfondiremo questo aspetto nel commento al v. 4, quando Gesù si rivolge alla «madre» con l’appellativo di «donna».
Ancora oggi in oriente presso gli Arabi, «madre di…» è titolo onorifico, perché la mateità dà alla donna un nome nuovo, facendole assumere una personalità nuova che le fa perdere il nome proprio e subordinandola all’esistenza del figlio (G. Segalla, Giovanni, 160). Nel Cantico dei Cantici, lo sposo [il re Salomone], nel giorno delle nozze, è incoronato dalla madre (cf Ct 3,11; cf Manns, Jésus 72).
A Cana la madre «era là» per incoronare il figlio, l’«amato del Padre», che con le sue nozze conclude l’alleanza annunciata dal profeta Geremia (cf Ger 31,31) e porre fine al lutto di Rachele perché inizia la nuova vita dei suoi figli che tornano dall’esilio della morte. La madre deve incoronare il figlio nel segno dell’acqua-vino e accompagnarlo fino all’ora suprema delle nozze, l’ora del sangue e dell’acqua (cf Gv 19,34) quando sulla croce sarà spremuto come l’uva matura fino a dare il suo Spirito vitale all’umanità nuova rappresentata dalla madre/nuova Eva e dal discepolo/ nuovo Adam, consegnando loro lo Spirito (cf Gv 19,30).
In questo senso, per Gv «Madre di Gesù» è un titolo cristologico, come cristologica è la prospettiva di tutta la scena. Maria, figura del popolo nuziale dell’antica alleanza, ora è presente alle nuove nozze di Dio con l’umanità, simboleggiate nelle nozze di Cana.
Maria è la personificazione del popolo d’Israele che attende lo sposo e Gesù, suo figlio, è lo sposo che giunge per «prendere possesso» legittimamente del suo popolo. Il nome del villaggio «Cana», in ebraico «Qanàh», significa «acquistare/comprare»: il luogo geografico dell’intervento di Gesù è profetico perché esprime già il valore teologico dell’azione. Non si tratta di un matrimonio di routine, ma di un evento salvifico perché il Messia viene nel mondo «per acquistare» (redimere) non più Cana, ma la «madre» che rappresenta il popolo di Israele. Rachele era rimasta sepolta sulla via di Betlemme a piangere per i suoi figli che andavano esuli in Egitto (cf Ger 31,15; Mt 2,18). A Cana invece «c’è la madre» che accoglie il Figlio/ Messia per essere nuovamente resa feconda di figli.
Madre e popolo messianico
A Cana inizia la nuova mateità nella persona della madre, «consacrata» genitrice del popolo Israele rinnovato. Questo processo troverà il suo compimento ai piedi della croce, quando non sarà più simbolo di un Israele, ormai realtà troppo esigua, ma in rappresentanza di Eva, «la madre di tutti i viventi» (Gen 3,20), riceverà dal Figlio suo, «l’amato dal Padre», la consegna del secondo figlio, «il discepolo che egli amava» (cf Gv 19,26; 20,2; 21,7.20), immagine e figura di Adamo e della nuova umanità «“ri-”creata». Ciò che comincia a Cana si perfeziona al Calvario, che è il vertice del vangelo, ai piedi della croce, là dove «l’ora» che a Cana vide «il principio dei segni» (Gv 1,11) esplode nella manifestazione/rivelazione al mondo della «gloria di Dio» nell’uomo crocifisso. Come a Cana la madre era già lì per consumare l’attesa del popolo orfano, così anche al Calvario, la madre è ancora già e sempre lì: «Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre …» (Gv 19,25).
Sinai, Cana e Gòlgota stanno insieme e si richiamano a vicenda: l’uno non può sussistere senza gli altri. Cana sta tra i due monti «salvifici» a fare da legame teologico. Al Sinai si celebra la nuzialità come promessa: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto» (Es 24,7), sintetizzato dal profeta nella formula sponsale: «Voi sarete il mio popolo ed io sarò il vostro Dio» (Ger 11,4). Dal monte Sinai con le tavole di pietra discende, la volontà di Dio si essere il «Dio di Israele», l’identità di Israele, l’unità della nazione come popolo e il fondamento di questa unità che è la Toràh, la Legge come coscienza e come compito.
A Cana si compiono le nozze: lo sposo è accolto dalla madre. Cessa il lutto, finisce la vedovanza, inizia la nuova storia di Israele.
Al Gòlgota la Toràh non è più scritta sulla pietra, ma sulla carne viva del Figlio che versa il sangue della vita per dare vita all’acqua dell’umanità arsa dalla fame e sete della Parola di Dio (cf Am 8,11): «Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscirono sangue ed acqua» (Gv 19,34). Come Eva uscì dal fianco di Adamo, così la nuova umanità esce dal fianco di Cristo, attraverso l’acqua del battesimo e il sangue dell’eucaristia che compiono quanto è stato visto e sperimentato a Cana con l’acqua trasformata in vino.
Il Sinai, come abbiamo già visto nel capitolo dedicato al vino, era considerato dagli Ebrei come la cantina di Dio, dove era conservata fin dalla creazione del mondo il vino messianico di cui la Toràh era la premessa e la promessa. Sulla croce il sangue di Cristo è versato tutto, consumando ogni riserva come aveva profetizzato il gesto di Cana, quando i servi riempiono le giare di pietra «fino all’orlo».
 (21 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (20) Tre villaggi per una sposa assente

Il racconto delle nozze di Cana (20)

Gv 2,1b: «[Uno sposalizio] avvenne a Cana di Galilea»
La Bibbia-Cei, ultima edizione (2008) fa spesso una scelta semplificativa nella traduzione, perché ha come obiettivo la proclamazione liturgica, e predilige quindi la comprensione immediata (orecchiabile) all’esattezza semantica del testo. Questo fatto crea problemi di notevole rilievo: da un lato esprime la coscienza che il popolo di Dio ha poca dimestichezza con la «Parola»; dall’altro rivela espressamente che si fa un uso strumentale della Bibbia che diventa così «supporto», ora della liturgia, come ieri lo fu della teologia. Sarebbe opportuno, anzi necessario, che la Bibbia fosse «incontrata» in se stessa indipendentemente dalla teologia o dalla liturgia o spiritualità. Sono queste che devono nutrirsi e «fondarsi» sulla Bibbia, non questa giustificare quelle. Se «il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14), noi ci troviamo non davanti a un libro, ma a una Persona che deve essere incontrata, frequentata e conosciuta.
Un esempio di questa scelta poco lungimirante è proprio Gv 2,1 che la Bibbia-Cei traduce con «Il terzo giorno “vi fu” una festa di nozze a Cana di Galilea». Dire che «vi fu» uno sposalizio significa dire una banalità, affermare il fatto in sé, neutro e senza alcuna incidenza nella vita di chi legge. Il testo della Cei guarda al fatto delle nozze come un fatto passato, occasionale, di quel tempo senza alcuna connotazione o conseguenza.
L’evangelista invece connota lo sposalizio e dice con solennità che vi sono conseguenze che ci riguardano. Il testo greco, infatti, riporta: «kài thê(i) hēmèra(i) thê(i) trìtēē gàmos eghèneto en Kanà thês Galilàias – E nel terzo giorno uno sposalizio “avvenne/accadde” in Cana della Galilea». Anche un lettore che conosce poco il greco si accorge immediatamente che il verbo «eghèneto – avvenne/accadde», in italiano un passato remoto, ha qualcosa di grandioso in sé, perché è la spia che qualcosa di nuovo e non previsto sta per accadere. Dal punto di vista della morfologia il verbo è una 3a persona singolare del tempo aoristo indicativo medio del verbo «ghìnomai – divento» che in forma impersonale si traduce con «accade/avviene». Si trova in due costruzioni: «kài eghèneto» e «eghèneto dé» che traducono l’ebraico «wayehî», espressione frequentissima nella Bibbia. Spesso è usata all’inizio di frase sia in ebraico che in greco per dare importanza narrativa alla frase che segue, che altrimenti sarebbe una frase secondaria.
Nella doppia forma l’espressione ricorre circa 60 volte nel NT (greco); si trova 619 volte nell’AT greco (versione della LXX), mentre nella Bibbia ebraica si conta 816 volte. L’espressione è pregnante, perché si trova sempre a inizio di frase compiuta e ha un valore narrativo, cioè, mette in primo piano quello che segue immediatamente, rendendolo necessario per la comprensione dei lettori o ascoltatori. Una cosa è dire: «Vi fu una festa di nozze» e altra cosa è affermare: «Avvenne uno sposalizio»; oppure, non è lo stesso dire: «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse un censimento su tutta la terra» (Lc 2,1), perché è ben diverso dire o scrivere: «Avvenne che in quei giorni, un decreto di Cesare Augusto …».
La seconda forma annuncia con solennità che non si tratta di un fatto banale, ma di un evento portatore di senso e mette in guardia il lettore/uditore che qualcosa di unico e straordinario sta succedendo. Questo fatto spiega anche perché la Scrittura ne fa uso ricorrente, quasi costante: è un modo letterario per rendere imminenti, contemporanei e vivaci gli interventi di Dio che in questo modo entra nella storia con un passo che imprime cambiamenti e suscita eventi rilevanti: «Il Dio biblico imprime le orme del suo passaggio nell’argilla della nostra ferialità» (Serra, Le nozze di Cana, 191). Se lo sposalizio «storico» di Cana è un fatto banale in se stesso, non lo è più nella penna dell’autore del vangelo di Giovanni che ci avverte che quel fatto banale è portatore di un senso nuovo che bisogna scoprire.
La geografia di Dio
L’avvenimento che «accade», cioè lo sposalizio, si compie in una località geografica: Cana della Galilea, sulla cui identificazione da secoli si discute con altee posizioni. L’espressione «Cana della Galilea» nel vangelo di Giovanni ricorre 4 volte (cf Gv 2,1.11; 4,46; 21,2) e viene a formare una inclusione, trovandosi sia all’inizio del vangelo (2 volte nel racconto delle nozze di Cana) sia alla fine (apparizione del risorto ai discepoli). In mezzo ritroviamo la stessa espressione «Cana della Galilea» all’inizio del racconto della guarigione del figlio del centurione romano (cf Gv 4,46), per cui potremmo dire che i primi quattro capitoli del vangelo si svolgono «da Cana a Cana», passando per Gerusalemme (cf Gv 2,13.23; 5,1), il Giordano (cf Gv 3,23), la Samaria (v. la donna dai cinque mariti + uno; cf Gv 4,4) e Cafaao (cf Gv 2,12).
È la geografia della salvezza perché senza geografia Dio non parla e non agisce: l’incarnazione e la rivelazione dell’alleanza deve avvenire nella «storia» cioè in «un luogo» che diventa sacramento dell’incontro con Dio. Nessun credente può vivere senza geografia, perché questa segna i confini della propria esperienza, unita alla storia come sviluppo degli eventi. Nessuna spiritualità è possibile al di fuori della geografia della storia individuale e di popolo perché il Dio di Gesù Cristo è «Emmanuel, Dio-con-noi», cioè Dio verificabile in un tempo e in uno spazio. Gv non cita questi luoghi per curiosità o per amore di cronaca, ma per ragioni teologiche: è il Lògos che vive «presso Dio, rivolto verso Dio, che era Dio» che opera da «Cana a Cana», che «sale a Gerusalemme», oppure «parte per la Galilea» oppure ancora si sposta «nella regione della Giudea».
È il Lògos eterno, la Sapienza esistente prima della creazione che «pianta la sua tenda» nella geografia e nella storia di Israele, il nuovo Tempio dove possiamo incontrare Dio faccia a faccia senza il terrore di dovere morire (Gen 33,31; Es 33,11).
Cana: una o tre?
Il villaggio di Cana, nel IV Vangelo, è sempre accompagnato dal complemento denominativo/specificazione «della Galilea», quasi un accorgimento necessario per distinguerlo da altre omonimie. Ancora oggi essa indica la località, custodita dai francescani e frequentata dai pellegrini che la tradizione indica come il luogo del «segno» dell’acqua trasformata in vino. Le ricerche archeologiche e gli studi delle fonti hanno però riproposto la problematica della sua identificazione, per la quale addirittura si sono ipotizzate tre località:
1- Qana: 12 km a sud-est di Tiro, di cui si parla nel libro di Giosuè, collocata nella tribù di Aser (cf Gs 19,28), nel Libano meridionale (antica Fenicia), che non ha nulla da spartire con la Cana del IV vangelo, anche se il Libano la sfrutta per motivi turistici.
2 – Kefr/Kafr Kenna: 6 km a nord di Nàzaret, a est di Sèfforis, nella regione della Galilea e che, ancora oggi, corrisponde alla Cana tradizionale.
3 – Khirbet Qana: 14 km a nord di Nàzaret nella valle di Battòf o Bet Netòfa, ai piedi del monte Asamòn.
Schematicamente si può affermare che le fonti antiche sono incerte; fino al Medio Evo i pellegrini conoscono e frequentano Khirbet Qana; dal XVII secolo i pellegrinaggi dirottano verso Kefr/Kafr Kenna, specialmente per impulso del francescano Francesco Quaresmi, uomo di grande cultura che, come responsabile della Custodia di Terra Santa, visitò tutti i luoghi scrivendo tra il 1619 e il 1626 l’opera «Historica Teologica et Moralis Terrae Sanctae Elucidatio» (Descrizione storica, teologia e morale della Terra Santa, in 2 volumi), ancora oggi considerata dagli studiosi l’opera più considerevole sui luoghi della memoria del Signore. In modo particolare, la tradizione di Kefr/Kafr Kenna si diffonde dal XIX secolo con l’edificazione di una chiesa, forse su una sinagoga preesistente. Per quest’ultima si schierano archeologi e studiosi di matrice francescana come padre Bellarmino Bagatti e il biblista, suo confratello, Emmanuele Testa1.
Secondo Eusebio di Cesarea (265-340, che riporta la testimonianza di Giulio Africano, morto nel 240)2 a 4 km a ovest da Khirbet Qana, esisteva al suo tempo un villaggio, Kaukàb, dove risiedevano ancora parenti di Gesù. Ancora oggi, è questa località a mantenere il monopolio di mèta indiscussa di pellegrinaggi identificata come la Cana delle nozze evangeliche.
Sulla identificazione archeologica, si crede che la parola definitiva sia stata detta dall’ultimo lavoro scientifico dovuto a un prete spagnolo, Júlian Herrojo3; non è un archeologo, ma ha svolto un lavoro straordinario di ricerca, analizzando criticamente tutti i testi letterari esistenti, pervenendo a una conclusione obbligata: la Cana evangelica non è quella dei pellegrinaggi abituali o Kefr/Kafr Kenna, ma è Khirbet Qana, nascosta ancora in parte sotto il terreno e che nascosta resterà, perché sarà difficile scalzare una tradizione ultramillenaria che continua a guidare i pellegrini all’altra Cana.
Fonti bibliche
L’esame delle fonti bibliche non è complicato in se stesso, ma pone qualche problema, perché l’interpretazione che ne danno i documenti posteriori di epoca cristiana non sempre sono univoci e chiari. Nell’AT il lemma «Qānāh» ricorre solo nel libro di Giosué: due volte per indicare il nome di un torrente (Gs 16.8; 17,9 che il greco della LXX traduce rispettivamente con «Chelkàna e Karàna») e una volta per indicare una località della tribù di Aser, localizzata in Libano: «La quinta parte (della terra) sorteggiata toccò ai figli di Aser… Il loro territorio comprendeva: …Cammon e Qānāh fino a Sidone la Grande» (Gs 19,25-30, qui vv. 24.25 e 28). Il nome Qānāh appare in una lista di località conquistate da Ramses II (ANET, 256; LOB, 181) e, con buona probabilità, corrisponderebbe al villaggio arabo di Qāna, 10 km a sud est di Tiro, cioè la Cana fenicia o del Libano (ABEL, Géographie II, 412), come accennato sopra. L’ortografia ebraica, Qānāh, è nota anche da una lista di località sacerdotali che, dopo la rivolta di Bar Kochba nella terza guerra giudaica (132-135), attesta la presenza a Cana della famiglia del sacerdote Eliasib (cf. GEIB, 244; DALMAN, Les Itinéraires 110). Lasciando da parte il Libano che dista non meno di 100 km dal luogo che ci interessa, restano le altre due località che sono contese dagli studiosi (v. nota 1).
Nel NT il villaggio di Cana è menzionato 4 volte e sempre nel IV vangelo (cf Gv 2,1.11; 4,46; 21,2) e in tutte le 4 occorrenze, probabilmente per distinguerla dall’altra, è chiamata «Cana della Galilea».
Gv 2, 1.11: inizio e chiusura (inclusione) del racconto delle nozze di Cana.
Gv 4, 46: guarigione a distanza del figlio del centurione di servizio a Cafaao (cf Gv 4,46b).
Gv 21, 2: qui si dice che l’apostolo Natanaele è originario di «Cana della Galilea».
Nel racconto dello sposalizio di Cana, l’attenzione è centrata sulla trasformazione dell’acqua in vino: fatto così importante che l’autore sente la necessità di ricordarlo come evento quando parla della guarigione del figlio del centurione romano: «Andò di nuovo (dalla Samarìa) a Cana della Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino» (Gv 4,46). Subito dopo l’autore aggiunge che il centurione romano si trovava (in missione?) a Cana, ma viveva di norma a Cafaao, la città dove Gesù era sceso con sua madre e i suoi discepoli subito dopo le nozze (cf Gv 2,12). Gesù dunque scende a Cafaao, va in Samarìa dove incontra la donna samaritana al pozzo (cf Gv 4,1-42) e risale a Cana. Qui incontra il centurione romano che è di Cafaao: questi indizi non ci dicono dove sia Cana, ma affermano che deve essere vicina a Cafaao se si verifica questo «via-vai» frequente.
In tutti e 4 i testi, quando l’evangelista nomina la località usa sempre l’articolo individuante: non dice «Cana “di” Galilea», ma è più preciso perché non vuole sbagliare né ingannare i suoi lettori; egli parla di «Cana “della” Galilea», con una denominazione specifica che indica una località ben conosciuta nelle vicinanze di Cafaao o comunque del lago di Tiberiade. Tutte e due le località sono vicine, se consideriamo che le distanze al tempo di Gesù non erano quelle odiee che seguono vie asfaltate e tortuose, ma erano più contenute perché strade che si percorrevano a piedi o mulattiere. C’è un diario di viaggio dell’«Anonimo Piacentino» (560-594) che è interessante perché ancora nel VI secolo accenna a una liturgia rituale di due idrie usate per offrire vino e all’usanza diffusa nei luoghi santi e in tutto il mondo di scrivere i nomi di chi si vuole ricordare sul tavolo di legno:
«Da Tolemaide (Akko), lasciammo il litorale e giungemmo ai confini della Galilea, nella città di Diocesarea, in cui adorammo in molti il cestello (testo incerto) della santa Maria. Nello stesso posto c’era la sedia di quando l’angelo venne a lei. Quindi, dopo 3 miglia, giungemmo a Cana, dove il Signore partecipò alle nozze, e ci sedemmo sullo stesso sedile, dove, indegnamente, scrissi il nome dei miei genitori. Delle due idrie che sono qui, una la riempii con vino e così piena la caricai sul collo e l’offrii sull’altare e nella stessa fonte ci lavammo in benedizione» (Recensio Prior Rhenaugiensis 73) .
L’excursus letterario, archeologico e geografico che abbiamo fatto potrebbe sembrare arido ed eccessivo nell’economia di una rubrica «giornalistica», ma solo ai superficiali, perché la Parola di Dio è sempre «Parola» sia in chiesa, sia in un libro, sia in una rivista e dovunque deve essere onorata e approfondita con lo stesso zelo e ardore. La geografia non è estranea alla fede, perché è il luogo dove ciascuno di noi ha incontrato il Signore e come gli innamorati conservano memoria viva dei luoghi e tempi del primo innamoramento, anche noi dovremmo conservare «memoria innamorata» degli spazi fisici dove il Signore a ciascuno di noi «manifestò la sua Gloria». La Bibbia ci insegna come fare.
 (20 – continua)

Paolo Farinella