«Chiesa peregrinante verso la Gerusalemme celeste» | Rendete a Cesare 5

«Essi non sono del mondo, come Io non sono del mondo» (Gv 17,16)

Distinzione netta e separazione

Di distinzione netta e separazione efficace, non nella storia, ma nei criteri di valutazione, si parla nel racconto della passione nel IV vangelo. In Gv 18,36 davanti a Pilato, che ribadisce il suo potere politico perché ha l’autorità di giudicare e di mettere a morte, Gesù afferma: «La regalità, quella mia, non è di questo mondo». Il greco usa l’espressione «hē basiléia, hē emê» che deve essere tradotta in forza del contesto e non materialmente, trasponendo solo le singole parole. «Basiléia» può significare «regno» e «regalità». Nel senso di «regno» si riferisce a un territorio in cui il «re» può esercitare la sua autorità; ma anche «il popolo» su cui la regalità si esercita, oppure la dignità regale in se stessa. Il senso da dare in ogni traduzione dipende dal contesto. Pilato crede che esista un solo «re» in tutto il mondo e quindi è preoccupato che qualcuno diverso da Cesare possa definirsi «re» in concorrenza, e per questo interroga Gesù: per valutare la portata di questa asserita «basiléia». Non può essere riferita ai Romani che riconoscono solo Cesare; resta il senso etnico, quasi razziale di Gv 18,33: «Tu sei il re dei Giudei?».

Pilato non può ammettere altra «basiléia» che non sia riconosciuta da Cesare, il quale ha già nominato Erode «re dei Giudei», cioè suo rappresentante/suddito, pur essendo estraneo al popolo d’Israele: un altro che vuole essere re, o è pazzo o è pericoloso. La domanda, infatti, è densa di preoccupazione squisitamente politica, perché l’orizzonte di Pilato è solo sul piano di quello che vede e sperimenta, non può andare oltre. In bocca al procuratore romano l’espressione può essere anche dispregiativa, mentre in bocca a un giudeo ha un valore nobile, anzi teologico perché corrisponde a «Re d’Israele» come nel grido della folla che lo acclama in Gv 12,13: «Benedetto nel nome del Signore colui che viene, il re d’Israele».

Nel contesto, però, avviene un fatto nuovo, imprevedibile: le autorità religiose giudaiche davanti all’affermazione di Gesù, inorriditi, rifiutano il Messia, «il re dei Giudei», e scelgono Cesare, un idolo con cui sostituiscono il «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe», il Dio dei Padri: «Non abbiamo altro re che Cesare» (Gv 19,15). Con questa scelta, cessano di essere «il popolo d’Israele» al quale era stato mandato Gesù-Messia, e diventano un popolo qualsiasi, qualificato etnicamente come «Giudei», i quali si accontentano di un re provvisorio, nuovo idolo in sostituzione del Dio del Sinai.

La differenza di regalità

Nell’intervista di Pilato a Gesù è in discussione la natura della regalità/regno di questi: se egli si dichiara «re», in che cosa si differenzia nell’esercizio della regalità da Cesare Augusto, dal faraone o dall’imperatore di Persia o Babilonia? Gli stessi soldati che l’hanno catturato e si sono attardati a divertirsi, burlandosi di lui, lo hanno fatto con gli strumenti del mestiere dei re: il mantello rosso (la clamide), la corona, seppure di spine, lo scettro e infine l’adorazione burlesca (cf Gv 19,2-3). Tutti questi ingredienti, pur in un contesto di burla, mettevano Gesù sullo stesso piano dei re ufficiali e quindi ve lo equiparavano. Questo è un punto nevralgico e decisivo per stabilire la veridicità di quanto abbiamo asserito. La distinzione tra potere politico e potere di Cristo (e di conseguenza della Chiesa) sta nell’affermazione netta e decisa di Gesù: «La mia regalità/il mio regno non è di questo mondo/di questa natura» (Gv 18,36).

L’espressione di Gesù, tradotta alla lettera è questa: «La regalità, quella mia, non è di questo mondo/ordinamento/natura (cioè: non proviene da esso; non è il mondo che dà l’origine a Gesù); se da questo mondo provenisse la regalità, quella mia, le guardie mie avrebbero lottato affinché io non venissi consegnato ai Giudei; ora, dunque, la mia regalità non è di qui [di questo posto]». Esaminiamo il senso profondo. Ci troviamo di fronte a due concetti di «regalità»:

  1. Cesare Augusto, attraverso il suo procuratore Pilato, esercita un dominio che ha usurpato. / Gesù si pone su un altro piano e non contesta Pilato, il quale invece, sentendo odore di «pericolo», indaga per scongiurare qualsiasi equivoco.
  2. Il procuratore romano, in nome di Cesare, riceve Gesù nel pretorio, cioè nel luogo simbolo del potere imperiale, da dove esercita il suo potere, sedendo «in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà» (Gv 19,13). / Gesù si è lasciato condurre e sballottare dai soldati dipendenti del tempio e ora resta in balia dei soldati romani che usano la forza e la violenza come metodo ordinario di tortura e sevizia.
  3. Cesare Augusto va fiero delle sue legioni, immagine stessa di Roma, con le quali va alla conquista del mondo per imporre il suo ordine e la «pax romana» che è sudditanza, spogliazione e tasse a favore dell’occupante. / Gesù che dovrebbe essere il prigioniero e condannato, sta in mezzo, e tutto il potere negativo (Romani e Giudei) ruota attorno a lui.
  4. Senza i soldati, Cesare è nulla e non avrebbe alcuna autorità perché il suo potere si basa solo sulla forza, cioè sull’esercito e quindi sul dominio. / Gesù è disarmato e ha due soli strumenti: la parola e il silenzio con cui fronteggia quello che si crede il potere.

Su questo ultimo punto, Gesù è chiaro e senza equivoci, perché è la sintesi di tutto: «La mia regalità non appartiene a questo ordine di cose». La prova di questa «diversità» sta nel fatto che non si presenta a Pilato con un esercito per difendere il suo diritto regale, né si oppone ai soldati con altri soldati.

Dio impotente e senza forza

Il «senso di onnipotenza» non appartiene alla logica di Gesù; egli non riconosce alla forza, tanto meno alla violenza, la dignità di strumento regale o di autorità. Egli è un re che si pone su un altro piano, un livello che Pilato non può capire e non capisce; nemmeno «i Giudei» capiscono e, infatti, fanno confusione fino ad arrivare alla falsità e all’omicidio pur di togliere di mezzo uno di cui non conoscono nulla, se non il pericolo che rappresenta per il loro potere.

Sta tutta qui la differenza: il potere del «cesare di tuo» usa la forza e la violenza e impone se stesso con le armi e la soppressione della libertà, perché occupa e domina esteriormente. Il potere di Gesù è mite, si accosta con dolcezza a ogni singola persona e si rivolge alla coscienza per svegliarla, se dorme, o per rafforzarla, se veglia. Egli rifiuta violenza e forza come strumenti di regalità fino al punto di subire violenza fino alla morte, fallendo apparentemente, ma senza mai rinnegare la propria «modalità» di essere regale. Per questo e solo per questo può essere «universale», cioè, non si assomma ai regni della terra e al tempo stesso si estende a tutti i popoli fino agli estremi confini dell’umanità (cf At 1,8), cioè fin dove c’è una persona con una coscienza attenta e attiva.

Il regno di Cristo non può essere, infatti, una gestione diretta del potere politico, economico e sociale, ma la convocazione di ogni singola persona alla corresponsabilità del servizio come dimensione del «Regno di Dio». L’autorità di Cristo non esige tassazione e imposizione di tributi, non comporta presenza fisica di dominio con strutture opprimenti. Se così fosse, avrebbe bisogno di militari per imporre e mantenere nel tempo il dominio del suo potere, la sottomissione dei popoli dominati. C’è in Luca un esempio illuminante a riguardo. Un tale ha problemi di divisione di eredità col fratello e chiede a Gesù di intervenire ma Gesù risponde: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?» (Lc 12,13-14). Anche questo semplice racconto è nella linea dell’esercizio del potere: Gesù ne rifiuta l’esercizio come è svolto dagli uomini, come è strutturato nell’ordinamento umano.

La coerenza di Gesù

Due fratelli non avrebbero dovuto nemmeno porsi il problema; se ricorrono a un estraneo è segno che qualsiasi intervento di qualsiasi potere non potrà più risanare la frattura che si colloca a livello interiore, nemmeno se risolve in modo equo la questione materiale dell’eredità. Al tempo di Gesù, l’eredità non poteva essere frantumata per cui solo il maggiore ereditava l’intero, mentre il fratello minore ereditava un terzo, in linea teorica, ma ricevendone l’usufrutto. Forse è il minore che si rivolge a Gesù (sulla questione v. P. Farinella, Il Padre che fu madre, Gabrielli editore). Gesù distingue nettamente tra due «mondi» o «ordinamenti» che diventano due prospettive, due opposizioni, due visioni di vita e di destino. Il mondo di Cesare è «questo mondo/ordinamento» in forza del quale egli comanda, prende, impone. La logica di Gesù non è «di questo mondo/ordinamento», cioè proviene «dall’alto» (Gv 8,23), da un’altra dimensione, cioè, da un altro progetto di vita.

Gesù non si è adeguato al mondo del suo tempo, e tanto meno alla sua logica; se fosse stato un uomo di buon senso, se si fosse preoccupato di rapportarsi con le autorità «in modo istituzionale», ne avrebbe accettato anche la logica e si sarebbe posto a livello di Cesare, ma egli viene «dall’alto» e resta in alto e non scende in basso, ma chiama chi vuole seguirlo a salire in alto: egli promuove, non mortifica e non umilia.

Cristianesimo ed egoismo non possono coesistere, così come Cristianesimo e interesse personale sono antitetici. I credenti in Cristo gestiscono il potere, ma con criteri assolutamente disinteressati, avendo a cuore i destini dei poveri e degli emarginati in forza della prospettiva delle Beatitudini di quanti la società mette al bando (cf Mt 5,1-9). È un capovolgimento totale della prospettiva. È una contestazione radicale di quanto il mondo ha acquisito come proprio «specificum». È il rifiuto intimo del modo di vedere, di giudicare e di scegliere: «La mia regalità/il mio regno non è di questo mondo» significa che non ha come obiettivo il dominio, ma la coscienza consapevole e libera delle persone che servono i propri simili con gli stessi sentimenti di Dio, in forza del principio paolino: «Portate i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2; cf Fil 2,1-8). È l’affermazione che Dio è «servo», non più onnipotente. Rifiutando l’esercito e la difesa, Gesù veste la sua nudità di non-violenza come statuto del suo essere e afferma un nuovo ordine di cui i suoi discepoli devono essere portatori sani e profeti consapevoli.

In altre parole, la distinzione tra Gesù e Cesare non è solo una questione di competenze o ruoli d’influenza, come generalmente si usa, sbagliando, l’altra espressione (date a Cesare… date a Dio), ma si tratta di premesse che esigono conseguenze coerenti. È la prospettiva stessa del potere che in Gesù si scontra con quella di qualsiasi altro potere che vuole essere «politico». Con l’affermazione netta e inequivocabile: «La mia regalità non appartiene alla logica di “questo” mondo», Gesù pone un atto politico estremo perché stravolge il concetto di potere, di organizzazione, economia, relazione tra gli individui, senso dello stato. Egli non intende spiritualizzare il suo «regno», che tra l’altro deve instaurarsi anche sulla terra e coinvolgere l’umanità intera. E dal contesto non si può evincere la contrapposizione tra cielo e terra, tra spirituale e materiale. Non significa che Gesù ci ha invitato a rivolgerci alle «cose del cielo», come una certa mistica ha interpretato esulando dal testo; al contrario, egli c’invita a piantarci nel cuore degli eventi, a essere come il Lògos, «incarnati» nella vita e nella storia, piena di contraddizioni, e di starvi con criteri di discernimento «opposti» a quelli di Cesare e di chi esercita il potere.

Gesù il politico

La prova di quanto affermiamo sta anche nella preghiera al Padre del capitolo 17, dove Gesù stesso equipara i suoi discepoli a sé, perché, come lui, «sono nel mondo»:

«9Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. 10Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. 15Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. 16Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; 19per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. 20Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: 21perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,9-20).

L’espressione «non prego per il mondo» accentua la separazione dal mondo inteso come il complesso delle forze ostili al Regno di Dio, cioè il male (cf Gv 15,18). Non è un rifiuto degli uomini, o un disincarnarsi dall’umano, ma un rifiuto del «mondo» dell’ingiustizia e prevaricazione, del potere basato sulla forza e corruzione. In Gv (vangelo e lettere) il termine «mondo – kòsmos» ricorre circa 100x e ha almeno quattro significati (cf Gv 1,10-11):

  1. a) il mondo geografico, ambiente materiale;
    b) il mondo come umanità;
    c) il mondo dell’incredulità;
    d) il mondo della fede.

La separazione tra trono e altare sta tutta nella dialettica «sono nel mondo… non sono del mondo», per cui si afferma la natura provvisoria della Chiesa e quindi la sua condizione di «sacramento», cioè di segnale, di indicatore stradale. Qui si fonda la teologia della natura «nomade» della Chiesa che per definizione e per vocazione non può non esprimere, nella storia, la prospettiva messa in evidenza dal concilio Vaticano II che descrive l’«indole escatologica della Chiesa peregrinante e sua unione con la chiesa celeste» (Lumen Gentium 48-51). L’indole sta a significare che la peregrinazione non è un atteggiamento passeggero, ma uno stato costitutivo della natura dell’ekklesìa. I cristiani non sono mandati nel mondo per gestire il potere perché più bravi o competenti, ma per servire il Regno di Dio, cioè per creare le condizioni affinché tutti i figli di Dio vivano in condizioni di figli e non siano ridotti a vivere da schiavi.

Un Esodo al contrario

Il compito dei cristiani e a maggior ragione della gerarchia non è quella di tramare per spartirsi il potere e l’economia, corrompendo e contrattando secondo reciproci interessi, ma unicamente quello di impedire che sia sperperata la ricchezza del creato e fare in modo che venga distribuita secondo giustizia perché a ciascuno non manchi il necessario e anche un po’ di superfluo. Nel 2010 in Italia, il governo nelle mani di Berlusconi e di Bossi che si fregiavano a ogni piè sospinto di ispirarsi agli insegnamenti della Chiesa cattolica, regalò alla Libia 6 motovedette per pattugliare il mare contro gli immigrati e 5 miliardi per impedire che gli immigrati africani attraversassero il mare, ben sapendo che migliaia di persone sarebbero fatte morire nel deserto libico. Se quei soldi fossero stati spesi per l’integrazione ne avrebbe beneficiato l’Italia e gli immigrati e avremmo costruito un ponte di civiltà verso l’Africa che invece piange i suoi figli. Il Signore della Bibbia gettava «nel mare cavallo e cavaliere» che opprimeva i poveri facendoli schiavi, sedicenti cristiani esercitano il potere per uccidere i poveri, amati da Dio, per una manciata di voti.

Questa è la differenza: chi cerca il proprio interesse è «di questo mondo», chi sta dalla parte di chi non ha voce, chi si prende cura degli immigrati e li sfama, secondo la logica del giudizio finale (cf Mat 25,31-46), viene «dall’alto». I primi trasformano la «Politica» in interesse, tornaconto, ingiustizia e, se cristiani, in peccato grave; i secondi invece mettono la «Politica» sul piano dell’Eucaristia e spezzano il Pane per tutte le genti come fece Gesù, come deve fare la Chiesa. I credenti non cercano cariche o incarichi o posti di rendita, ma consapevoli di essere nel mondo senza appartenere alle logiche e ai metodi del mondo, accettano di immischiarsi nella politica, nell’economia, nella cultura, nel sociale per contribuire allo sviluppo della creazione dando corpo al mandato di Dio di custodire il giardino di Eden e quanti vi abitano.

Quando coloro che si definiscono sempre cristiani o credenti e poi, per anni, appoggiano governi e politiche disumane, contrarie ai principi elementari della dottrina sociale della Chiesa, anzi diventano complici e còrrei di corrotti e corruttori, immorali e amorali, siamo non più nel Regno di Dio, ma nell’inferno di Satana che istiga a fare affari, cadendo nella trappola dell’immoralità costitutiva. Sono quelli che papa Francesco, il 16 maggio 2013 ha definito «cristiani da salotto», per i quali il fine giustifica i mezzi. I cristiani, al contrario, «devono dare fastidio», come ha urlato lo stesso papa Francesco il giorno di Pentecoste ai gruppi ecclesiali provenienti da tutto il mondo in piazza san Pietro, il giorno 19 maggio 2013. Se il cristiano «non dà fastidio» a chi esercita il potere in nome della dignità dei poveri, inevitabilmente diventa complice del potere malvagio che appartiene a «questo mondo», il mondo per cui Gesù non ha pregato. Possiamo illuderci di pregare, svolazzando tra le nuvole, ma se non ci coinvolgiamo, sulla terra, con il destino di chi è senza futuro e presente, possiamo essere spiritualisti e magari esserlo molto, ma non saremo mai persone spirituali perché non sapremo mai riconoscere i corpi dolenti dei Lazzari che popolano la terra (cf Lc 16,19-31). Qui è la vera chiave: è Lazzaro che fa la differenza tra Cesare e Gesù. A noi la scelta.

(5 – continua)

Paolo Farinella




Natale, ancora Natale, ma quale Natale?

Potrebbe sembrare strano, eppure di Gesù, sul piano storico,
sappiamo poco, e quel poco che i vangeli riportano per noi è molto, anzi
tantissimo. I vangeli non sono «una storia di Gesù», ma una catechesi per chi
crede già in lui come Figlio di Dio e Messia. Di conseguenza i quattro libretti
sono un catechismo, originariamente predicato in forma orale dagli apostoli,
dai catechisti, dai predicatori e da chi aveva conosciuto Gesù (famiglia,
paesani, amici, ecc.). A distanza di 40-80 anni dalla sua morte, sono stati
messi per iscritto per due motivi: per conservare la memoria di quanto accaduto
e suscitare la fede in lui anche nelle generazioni future e per poterli usare
come «Scrittura» di compimento dell’Antico Testamento nell’Eucaristia delle
Chiese, ormai diffuse in tutto l’oriente fino a Roma.

Di
Gesù sappiamo …

Marco, il
primo degli evangelisti scrittori, non parla affatto della nascita di Gesù; in
compenso Giovanni, l’ultimo degli evangelisti scrittori, accenna all’eternità
del Lògos che per volere di Dio «s’incarna», cioè diventa uno di noi in un
preciso paese (Israele), in una determinata cultura (Giudaismo), in una
specifica religione (Ebraismo), in un tempo ben definito (fine del sec. I a.C.
e sec. I d.C.), nel cuore di specifici eventi (occupazione romana della
Palestina). Chi, invece, parla della nascita di Gesù in maniera esplicita, sono
i due evangelisti Matteo (capp. 1-2) e Luca (capp. 1-2), ma non dicono le stesse
cose perché hanno prospettive diverse e si rivolgono a comunità diverse.

Un elenco
schematico di ciò che sappiamo di Gesù, potrebbe essere il seguente:

• è nato
intorno al 6/7 a.C. (v. Box) da una ragazza-madre, appena adolescente,
di nome Miriàm/Maria;

• non si
conoscono il giorno, il mese e neanche le condizioni della nascita;

• è nato a
Betlemme, a sud d’Israele, patria di Davide da cui discende Giuseppe, il padre
legale di Gesù;

• è nato in
una zona periferica, considerata dalla religione «impura» perché abitata da
pastori;

• è stato
circonciso all’ottavo giorno dalla sua nascita ed e stato chiamato «Joshua-Gesù»
dopo 40 giorni;

• ha
trascorso la sua vita a Nàzaret, nel Nord della Palestina;

• a
compimento del 12° anno di età (inizio del 13°), nel tempio di Gerusalemme ha
celebrato il rito della «Bar-mitzvàh – Figlio del comandamento», che per gli
Ebrei è l’inizio della maggiore età (cf Lc 2,41-50);

• ha
predicato per la Palestina e anche fuori i confini per circa un anno, un anno e
mezzo, all’età di 34-35 anni;

• non
apparteneva alla casta sacerdotale, ma era un laico;

• si è
scontrato con il potere religioso e il potere politico che alla fine si sono
coalizzati e lo hanno fucciso, condannandolo a morte come «rivoluzionario»: il
Sinedrio ha emesso la sentenza di crocifissione e i Romani, nemici alleati per
l’occasione, l’hanno eseguita;

• è morto
all’età di circa 36 anni (30/33 d.C.?), la stessa età di Isacco quando fu
legato sul monte Moria per essere sacrificato (cf Gen 22,1-23);

• è risorto
da morte alle prime luci dell’alba del giorno dopo il sabato, dando inizio
all’avventura della nuova Alleanza;

• non ha
lasciato nulla di scritto, ma solo undici apostoli e altre apostole che inviò
nel mondo;

• il suo
insegnamento è stato raccolto in quattro vangeli che persone innamorate di lui
hanno scritto per i loro contemporanei e per noi che li ascoltiamo e vogliamo
tramandare a chi verrà dopo di noi.

Nota storica
sulla data di Natale

Nei sec. II-III dell’èra
cristiana in tutto l’Oriente, alla data del 6 gennaio, si celebrava una festa
generica detta Epifania (manifestazione) che inglobava tre memoriali: Natale
(manifestazione agli Ebrei), Magi (manifestazione ai Pagani) e Sposalizio di
Cana (manifestazione nel segno dell’alleanza universale). In Spagna nel sec. IV
si celebrava il Festum Nativitatis Domini Nostri Jesu Christi. San
Giovanni Crisostomo (345 ca.-407) in un’omelia sul Natale, pronunciata nel 386,
dichiarava che nella chiesa di Antiochia già da dieci anni vi era l’uso di
celebrare la Nascita del Salvatore il 25 dicembre. Anche nella chiesa di Roma,
come in quella di Milano, fin dal 336 si celebrava il Dies natalis Domini
sempre al 25 dicembre, considerato il giorno genetliaco di Gesù. Papa Liberio
nel 354 scorporò la festa in due, assegnando Natale al 25 dicembre e l’Epifania
al 6 gennaio. Nella chiesa ortodossa e armena, invece, le due feste sono ancora
accorpate al 6 gennaio (cf Dictionnaire de Spiritualité, f.
LXXII-LXXIII, Paris 1981, 385). I cristiani del Nord del mondo celebrano il
Natale in inverno, mentre i cristiani del Sud lo celebrano d’estate. Il 25
dicembre è una data convenzionale perché in relazione al 25 marzo, giorno in
cui, secondo la tradizione, nella casa di Nazaret l’Angelo annunciò a Maria il
concepimento di Gesù. Maria partorì il Figlio nove mesi dopo, cioè il 25
dicembre. è il Natale.

Il 25 dicembre è anche il
solstizio d’inverno, in cui si ha il giorno più corto dell’anno e la notte più
lunga. Sia in Oriente che a Roma questo giorno era dedicato al «dio Mitra»,
divinità di origine persiana, venerato come il «Sole Invitto». La festa,
centrata sul simbolismo della luce, ebbe una diffusione enorme nell’impero
romano tra i sec. I-III d.C., tanto che l’imperatore Diocleziano (284-305 d.C.)
dovette proclamare il dio-Mitra «sostegno del potere imperiale»,
incrementandone il culto. Durante i giorni di festa, tutto diventava lecito
perché veniva meno ogni freno inibitore e si scatenava ogni sorta di
trasgressione specialmente sessuale che si concretizzava in riti magici,
baccanali e orge, in cui avevano un posto privilegiato le «vergini» che
sacrificavano al dio della luce la loro verginità. Non di rado la festa era
occasione per vendette personali fino all’omicidio. I cristiani opposero a
queste licenziosità l’austera memoria del Lògos incarnato che nacque in una
stalla, nella povertà più estrema, fissando il Natale appositamente al 25
dicembre, compimento esatto dei nove mesi della gestazione di Maria, dal 25
marzo, giorno dell’annunciazione, equinozio di primavera. Per contrastare i riti
delle vergini che offrono la loro integrità al «dio Mitra» in baccanali
orgiastici, i cristiani esaltarono la
nascita «verginale» di Gesù, «sole che mai tramonta», offerto al mondo
da una «vergine» che si abbandona al disegno di Dio.Nello stesso periodo,
almeno da oltre due secoli, il 25 del mese di Kislèv, corrispondente a
una data tra il 15 e il 25 dicembre ca., i Giudei celebravano (ancora oggi
celebrano) la festa ebraica di Chanukkàh (= inaugurazione/dedicazione),
detta anche Chàg Haneròth (Festa dei lumi), Chàg Haurìm (Festa
delle luci) e Chàg Hamakkabìm (Festa dei Maccabei), per fare memoria
della riconsacrazione del tempio che Antioco IV dissacrò con una statua di Zeus
e che Giuda Maccabeo con la sua famiglia riconquistò nell’anno 165 a.C., ricostruendo
e riconsacrando l’altare del sacrificio. La Chiesa per non isolare i cristiani
accerchiati dal culto pagano del dio-sole/Mitra e dalla ebraica Festa delle
luci, inventò la celebrazione del Natale del Signore, il Sole che sorge e mai
tramonta. A Natale non domina solo il simbolismo della luce che contrasta il
buio della notte, ma si celebra Cristo stesso, «Luce che illumina le genti» (Lc
2,32), «Stella luminosa del mattino» (Ap 22,16), sapienza di splendore «che non
tramonta» (Sap 7,10). Celebrare il Natale in pieno inverno è anche un atto di
coraggio e di speranza, un invito a guardare oltre le apparenze: il seme appare
morto e perduto nei solchi, le giornate sono brevi e buie, il senso di morte
tutto pervade; al contrario, la nascita di un bimbo è una grande profezia che
illumina il mondo e anticipa la primavera, quando la vita danzerà e sconfiggerà
la morte in vista dell’estate che porterà la gioia del raccolto e
dell’abbondanza, simbolo di pienezza di vita.

Nota:
L’autore di uno scritto anonimo, Adversus Judaeos/Contro i
Giudei (8,11-18, CCL 2, 1954, pp. 1360-64) attribuito da alcuni a Tertulliano
(150/160-220), già nella seconda metà del sec. II, riteneva che Cristo fosse
nato il 25 marzo e fosse anche morto lo stesso giorno. Doveva essere così perché
la perfezione della natura divina di Cristo esigeva che gli anni della sua vita
sulla terra fossero anni interi senza frazioni. è evidente che siamo
in piena speculazione teologica fuori da ogni spiegazione storica. Clemente
d’Alessandria (160-240) testimoniò che i cristiani copti celebravano non solo
l’anno, ma anche il giorno della nascita del Salvatore e cioè il 25° giorno del
mese di Pachòn (15 maggio) o il 25 del mese Pharmùth (20 aprile)
e sostenne che non esisteva una tradizione univoca e condivisa sulla data
esatta della nascita del Salvatore (Stromates I, 21, PG 8,888).

Sul culto
misterico di Mitra

Il culto del
dio Mitra, raffigurato con in mano una fiaccola e un coltello, sviluppa una
forma religiosa riservata agli iniziati per cui è caratterizzato dalla
segretezza; per questo i rituali, che si chiamavano «culti misterici», si
celebravano in luoghi sotterranei, detti mitrei, cui potevano accedere
solo gli adepti, ammessi dopo prove e cerimonie che comprendevano sette gradi
per essere ammessi al mistero della conoscenza: corvo, ninfo, soldato, leone,
persiano, corriere del sole, padre. Pare che lo stesso imperatore Nerone fosse
uno di questi iniziati. Il culto di Mitra fu introdotto nel mondo greco-romano
dai pirati di Cilicia, deportati da Pompeo nel 67 a.C. in Grecia. Da qui al
seguito delle legioni romane (molti soldati erano iniziati) si diffuse
velocemente in Italia, in Dacia (Romania-Moldavia), Pannonia (parte di
Ungheria, Austria e Slovenia), Mesia (Bulgaria), Britannia e Germania.

Mitra è
circondato da «miracoli»: con il lancio di una freccia fa scaturire acqua da
una roccia, segno di vitalità e purificazione; stipula un patto con il dio
Sole, a cui è associato fino a identificarsi con esso. Anche il dio Veruna (il
greco Urano) è associato a Mitra, e insieme personificano la notte e il giorno:
Veruna castiga i malvagi (notte) e Mitra protegge la giustizia e gli uomini
onesti (giorno). Il centro del culto è la tauroctonìa (il sacrificio del
toro), simbolo della fecondità universale e sempre presente in tutti i mitrei.
Accanto al toro vi sono altre figure simboliche: il serpente che beve il sangue
del toro, lo scorpione che gli punge i testicoli (per impedire la fecondità
della terra), il cane che bevendone il sangur acquista energia e vitalità che
trasferisce alla terra perché dalla sua coda germoglia il grano (simbolo della
risurrezione della terra) e un corvo che fa da tramite tra il sole-Mitra e la
terra. Il dio Mitra è accompagnato da altre due divinità, Catèus e Cautòpates,
raffigurati sempre con le fiaccole, simbologia plastica di una trinità solare
che raffigura il ciclo quotidiano del sole all’aurora, a mezzogiorno e al
tramonto.

Il
mitraismo, pur con tante somiglianze cristiane (verginità, trinità,
luce-tenebra; sangue-vita, visione apocalittica, ecc.), fu uno dei principali
antagonisti del cristianesimo sul quale sicuramente avrebbe prevalso senza
l’apostolo delle genti, Paolo di Tarso e la sua opera di evangelizzazione e di
diffusione del Cristianesimo in forma capillare in tutto il Medio Oriente, la
Grecia, parte dell’Asia fino Roma, cuore dell’impero, segnando così il declino
del mitraismo. Il Cristianesimo, infatti, nato come «sètta giudaica», tale
sarebbe rimasto, senza l’impeto paolino che di fatto creò la religione
cristiana come «sistema» teologico e organizzativo. Il sec. I d.C. fu un secolo
di passaggio, segnato dalla decadenza di ogni sistema ideologico, morale e
religioso, frutto inevitabile della fine di un millennio e inizio di uno nuovo.
In un contesto di «pensiero debole» e di corruzione che aveva minato lo stato
in ogni suo ambito, forte era il bisogno di spiritualità e «pulizia», di aria
pulita e di rinnovamento. In questo contesto, Paolo predicò la verginità come
misura del provvisorio (il mondo sta per finire, bisogna prepararsi e restare
liberi), il matrimonio come comunità stabile e regolata, la Chiesa come
orizzonte escatologico, cioè come compagna di viaggio che stabilisce le regole
in vista della fine del mondo. Ebbe successo perché proponeva un ideale forte e
controcorrente. Gesù ne era il modello, ma la sua predicazione e le sue parole
furono adattate e adeguate alle nuove circostanze. Gesù aveva annunciato il
Regno di Dio, Paolo dava vita alle «Chiese locali»; Gesù agì da profeta, Paolo
operava da uomo dell’istituzione.

Nota:
Mitraismo e il
Cristianesimo
sono due religioni
apocalittiche: rappresentano l’eterno combattimento del bene contro il male,
dei figli della luce contro i figli delle tenebre. L’imperatore Aureliano
(270-275 d.C.) eleva il culto del Sole a religione di stato. Costantino che
deve la sua prima vittoria ai cristiani, ribalta la situazione con l’editto del
313 d.C. a favore del Cristianesimo. Giuliano l’Apostata (361-363 d.C.) cerca di
riportare in auge il culto di Mitra, ma inutilmente perché  nel 394 d.C. con la vittoria di Teodosio su
Eugenio, il Cristianesimo diventa religione di stato e i mitrei  saccheggiati e distrutti per fare posto alle
nuove chiese e basiliche cristiane. Famosi in Roma sono i mitrei del Circo
Massimo e S. Clemente ancora oggi visitabili.

Natale:
il capovolgimento di Dio

Natale per
i cristiani di routine è la festa civile del buonismo a buon mercato, risolto
in una prassi scontata di regali, odiati da chi li fa. Per chi crede, Natale è
la contraddizione di Dio che non potendo essere visto e conosciuto, decide di
farsi conoscere: egli stesso diventa esegeta di sé (Gv 1,18). A Natale Dio
spiega Dio nell’unica maniera che a noi è possibile capire: facendosi uno di
noi e rivelando il volto nascosto di Dio Padre nel volto visibile dell’Uomo. E
perché nessuno possa avere anche la minima possibilità di avere paura, sceglie
la forma più indifesa e più disarmante: il bambino. Nella cultura del tempo di
Gesù, il bambino non ha alcun titolo e conta nulla perché senza valore
giuridico; per questo egli lo assume come «metro» del Regno: «Se non vi
convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei
cieli» (Mt 18,3). Non basta. Dio vuole svelarci il suo volto di bambino povero
e perseguitato, profugo, straniero, emigrante, clandestino: nessuno nel Regno
di Dio ha le carte in regola per essere accreditato, nessuno è più in regola di
un altro. Una sola condizione è necessaria: essere figli di Dio. Questo è il
Natale, questa la nostra speranza. Diventiamo anche noi esegeti di Dio,
manifestando in pieno la sua umanità, riconoscendo negli altri la loro dignità
di esseri umani e figli di Dio.

A Natale
tutto si capovolge. La logica umana non regge quella divina perché Dio è capace
di sorprenderci sempre, oltre ogni aspettativa, rovesciando i criteri e i «valori»
del mondo: all’imperatore potente, contrappone 
una ragazza inerme; a chi pretende di «contare» (censimento) l’umanità
contrappone un uomo, una donna incinta e un bambino appena nato;
all’onnipotenza della religione, contrappone la fatica di vivere la volontà di
Dio; allo splendore della reggia e del tempio, contrappone la povertà e
l’autenticità della vita. Per questo a Natale bisogna sapere e avere coscienza
che il Bambino che chiede di nascere ancora:

• è un
extracomunitario perché è un palestinese di Nazaret;

• è un
emigrato in Egitto, perché perseguitato politico e religioso fin dalla nascita;

• è vittima
delle leggi razziali e razziste delle politiche di espulsione, perché senza
permesso di soggiorno;

• è ebreo
di nascita e ricercato per essere eliminato;

• è un
fuorilegge perché clandestino e ricercato dalla polizia;

• è un poco
di buono perché figlio di una ragazza-madre, appena adolescente;

• è
oppositore del potere religioso e politico ed è ammazzato per vilipendio della
religione;

• è povero
dalla parte dei poveri e «deve» essere eliminato;

• è un
laico, credente atipico e controcorrente;

• è poco
raccomandabile perché frequenta lebbrosi e prostitute;

• è Dio
perché i suoi pensieri non sono mai i pensieri dei benpensanti (Is 55,8).

È Natale! La speranza di essere uomini e donne nuovi per
un mondo nuovo è possibile perché Natale è l’annuncio profetico che la
Resurrezione è la mèta della Storia. Anche oggi, anche adesso. Anzi è già
compiuta e noi possiamo rinascere e risorgere ogni giorno, perché Gesù non ha
bisogno di nascere di nuovo, essendo eterno, ma noi abbiamo necessità di
rinascere anche oggi a vita nuova. Questo è Natale: Dio-con-noi-Emmanuel (cf Mt
1,23). Buon Natale a tutte e a tutti i lettori e le lettrici di MC.
Paolo Farinella

Avviso importante:
Con questo articolo don Paolo Farinella sospende temporaneamente
la sua collaborazione con la rivista Missioni Consolata e, quindi, anche la
rubrica «Così sta scritto» con cui, fedelmente, ci ha accompagnati per otto
anni, dal febbraio 2005. Don Paolo ha chiesto una pausa per preparare un «Corso
biblico» che esporrà nella sua città, Genova, e che pubblicherà anche sulla
nostra rivista, molto presumibilmente dalla primavera del 2014, a partire da
maggio. Nell’attesa, lo ringraziamo e salutiamo frateamente e, su sua
esplicita richiesta, abbracciamo con affetto ciascun lettore e lettrice di MC,
nei cui confronti si sente debitore e grato perché lo hanno costretto a «stare
sulla Parola». Chi volesse, può consultare sul nostro sito www.rivistamissioniconsolata.it tutti gli articoli di don Paolo già
pubblicati, o andare sul suo sito www.paolofarinella.eu
per leggere o stampare la liturgia della domenica, cliccando prima su blog e poi su Liturgia.

 

Paolo Farinella




La speranza della chiesa non sta nei privilegi offerti dall’autorità civile | Rendete a Cesare (4)

«Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi le tasse, le tasse; a chi il rispetto, il rispetto» (Rm 13,7)

All’interno del contesto di fede, che emerge dalle puntate precedenti in cui abbiamo esaminato i testi biblici, si pone il problema del rapporto tra il potere politico/economico e l’ambito religioso e spirituale, rapporto che tocca sempre nervi scoperti, data la delicatezza e il rischio insito in esso, perché coinvolge la vita di ogni giorno che impone scelte e valutazioni. In questa puntata non possiamo quindi esimerci dal fare riferimento all’attualità e a quale deve essere l’atteggiamento interiore del credente, alla luce della Parola di Dio che, diversamente, rischia di restare astratta e avulsa dalla realtà.

Rito e vita sono indissolubili

L’individuo non vive sulle nuvole, ma sulla terra, dove nulla è così netto da spaccarsi con l’accetta, per cui è necessaria una vigilanza costante per non porre in atto un «sistema di confusione», una struttura di connivenze che, inevitabilmente, portano a gestire benefici e utili, smarrendo la dovuta coerenza. Non bisogna mai perdere di vista la parabola del grano e della zizzania (cf Mt 13,24-30) che «crescono insieme» fino alla mietitura; oppure la parabola della rete da pesca che raccatta ogni sorta di pesce, sia buono che cattivo (cf Mt 13,47-50).

Gesù nel vangelo non si stanca di invitare ed esortare alla «vigilanza» come condizione essenziale e previa dell’agire credente, sintetizzato nella massima riportata da Mc: «Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mc 14,38). La debolezza della «carne» non è riferita alla sessualità, ma alla condizione umana in sé, alla fragilità dell’individuo e della struttura in cui vivono le persone e che inducono alla lussuria del potere che è la tentazione più satanica contro cui il credente deve combattere.

Nessuno può essere parcellizzato: in chiesa si è cristiani, nel partito si è politici, negli affari si è economisti e trafficanti, nel sindacato si è sindacali. Un individuo che è padre, e al tempo stesso figlio, amico, marito, impiegato, letterato, studioso, sportivo, volontario, non può vivere a compartimenti, ma è sempre lo stesso mentre svolge ruoli diversi. Purtroppo la realtà dei cristiani è diversa: essi separano volentieri gli ambiti della loro vita con il risultato che si ritrovano smembrati, divisi «dentro» se stessi, mentre dovrebbero essere un «tutto» in ogni istante della vita, senza distinzione di luogo, condizione e scelta.

Il battesimo consacra «figli di Dio», membri del popolo sacerdotale, profetico e regale: lo siamo realmente e lo siamo per sempre, anche quando ce ne scordiamo. Da questo dipende l’attendibilità nostra e di Dio perché se negli affari, nella politica, nel sindacato, nell’economia non portiamo il nostro «essere credenti», non serve a nulla «andare in chiesa»; anzi rischiamo di aggiungere peccato a peccato. Nello stesso tempo, non possiamo «stare in chiesa» come se questo luogo fosse avulso dalla vita che si snoda fuori, perché la preghiera e la fede senza la vita sono solo ritualità morta, droga dello spiritualismo che illude artificialmente.

O la vita dà contenuto al rito o il rito è solo scenografia che dura lo spazio di un sospiro. Ogni volta che celebriamo un’Eucaristia, compiamo l’atto più politico che esista al mondo perché diciamo che Dio si spezza come il pane e si offre come cibo, e del «Dio spezzato» noi siamo gli strumenti provvidenziali con cui si manifesta il volto di Dio, anzi la sua «immagine», che non è quella impressa sulle monete di Cesare, ma quella ben più intima e profonda del Dio creatore e padre.

Il vescovo di Recífe, dom Hèlder Cámara, un grande profeta del sec. XX, soleva dire: «Quando dico che bisogna aiutare i poveri sono un “santo”, quando dico perché esistono i poveri sono “comunista”». Se uno si limita a fare l’elemosina, magari coinvolgendo i ricchi, riciclatori ed evasori, ma senza interferire, tutti lo aiutano; se invece grida contro le ingiustizie che creano l’elemosina, contro l’evasione fiscale che ruba e depreda la collettività dei servizi primari (scuola, sanità, stato sociale), è facile che resti solo e sia tacciato di sovversivismo. Per molti cristiani, vescovi e prelati, spesso Dio è un alibi, un modo comodo per girarsi dall’altra parte e non vedere, come il sacerdote e il levita della parabola del Samaritano nel vangelo di Luca (cf Lc 10,25-37).

Quando il silenzio è complicità

Se si accettano i benefici economici (denaro, leggi su misura o peggio ancora leggi di scambio), non si può contestare lo stato o il governo di tuo, i quali hanno il diritto di emanare le proprie leggi e di pretendere che siano osservate. Lo stato può esigere obbedienza da chi usufruisce dei vantaggi della sua protezione (cf Rm 13,1-8; Tt 3,1-3; 1Pt 2,13-14). È quello che è successo in Italia negli ultimi venti anni: parte della gerarchia cattolica ha appoggiato governi e politici che sono stati (lo sono di natura) l’opposto della legalità, della moralità privata e pubblica come del «bene comune», pagando il prezzo di un silenzio assordante e l’allontanamento di molti credenti anche dalla fede. Non si può essere profeti e legati alla mangiatornia del potente, come i veggenti di corte combattuti dal profeta Amos nel sec. VIII a. C. (cf Am 7,10-16).

Persone di pensiero che non possono essere considerate «rivoluzionarie» e che hanno svolto funzioni e ruoli di prestigio all’interno della Chiesa cattolica, non esitarono, «voce che grida nel deserto», a parlare apertamente e ufficialmente di fronte «al silenzio dei vescovi». Il gesuita padre Bartolomeo Sorge, già direttore de «la Civiltà cattolica», la rivista quindicinale dei gesuiti italiani che nulla pubblica senza l’approvazione della Segreteria di Stato vaticana, direttore del «Centro Studi Pedro Arrupe» di Palermo negli anni ’80 del secolo scorso e ultimamente direttore della prestigiosa rivista «Aggiogamenti sociali» di Milano, stretto collaboratore di Paolo VI e della Cei per i convegni a cadenza decennale e uomo di grande prudenza, nel marzo del 2004 scriveva:

«Il rimanere in silenzio di fronte alla gravità della situazione italiana non appare motivato. I vescovi non possono esimersi dall’illuminare le coscienze dei fedeli sulla coerenza o meno con la Dottrina sociale della Chiesa dei programmi politici che nel Paese si confrontano. È sempre valido l’ammonimento di san Gregorio Magno: come “un discorso imprudente trascina nell’errore, così un silenzio inopportuno lascia in una condizione falsa coloro che potevano evitarla. Spesso i pastori malaccorti, per paura di perdere il favore degli uomini, non osano dire liberamente ciò ch’è giusto” (in Regola pastorale, Lib. 2, 4; PL 77, 30)». (B. Sorge, Il silenzio dei vescovi sull’Italia, in «Aggiogamenti sociali», Vol. 55, n. 3, marzo 2004, pp. 161-166).

Consapevole che le sue parole sarebbero apparse forti se non dissacratorie alle orecchie degli interessati e delle persone pie di professione in qualche gruppo interessato perché connivente, egli fece ricorso all’appoggio di un vescovo e cardinale della statura e della caratura di Carlo Maria Martini, unica voce fuori del coro nel panorama della diaspora episcopale italiana. Egli il 6 dicembre 1995 (già nel millennio scorso!), in occasione della festa di Sant’Ambrogio, nel discorso alla città dal titolo C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare, disse testualmente:

«La Chiesa non deve tacere perché [in Italia] è in gioco la sopravvivenza dell’ethos politico. Non è la Chiesa come tale a essere in pericolo; è la natura stessa della politica e quindi della democrazia. Non è dunque questo un tempo di indifferenza, di silenzio e neppure di distaccata neutralità o di tranquilla equidistanza».

Padre Sorge, forte di questo assist, espresse tutta la sua preoccupazione per la situazione esplosiva che si era prodotta in ambito ecclesiale.

«La necessaria equidistanza dagli schieramenti partitici non significa neutralità di fronte alle implicazioni etiche e sociali dei diversi programmi politici. Infatti, il silenzio in tal caso potrebbe indurre i fedeli a credere che tutti i modelli di società, per il solo fatto di essere formalmente «democratici», si equivalgano e che i cristiani possano indifferentemente aderire all’uno o all’altro, purché si comportino con coerenza di fronte alle singole scelte. Il sospetto che la profezia sia frenata dalla diplomazia, cioè dalla speranza di vantaggiose contropartite per il bene della comunità ecclesiale e in difesa di alcuni valori etici, si tratti dei sussidi alle scuole cattoliche o dei finanziamenti agli oratori o dei buoni-famiglia» (Sorge B., ivi).

Quale rapporto tra fede e politica?

Il cristiano, sia esso vescovo o semplice credente, vive nella prospettiva del Regno di Dio e sa che nella gestione delle realtà terrestri deve essere «prudente», senza cercare scorciatoie e protezioni o favori e raccomandazioni perché il suo agire è prova diretta del suo essere e della sua fede. Mai deve dimenticare che ovunque egli sta, porta sempre con sé «l’immagine di Dio», di cui è custode e responsabile.

Nessun governo sulla terra potrà mai essere «adeguato» alle esigenze del Vangelo, per questo il credente starà a casa sua all’opposizione di ogni potere come coscienza critica del diritto dei poveri e degli emarginati a partecipare alla condivisione della mensa sociale e civile della «polis». Se il credente si schiera con il «potere», qualunque esso sia, finisce per essere complice delle sue scelte e delle conseguenze che esse comportano. Ciò esige, come dice padre Sorge, profezia e lungimiranza e comporta la rinuncia ai privilegi e ai vantaggi importanti o anche irrisori che lo stato può garantire. In altre parole la separazione totale: non può esserci commistione e confusione di sorta tra la fede e la gestione immorale del potere politico ed economico.

Credere in Dio esige integrità di vita e trasparenza di pensiero che devono vedersi negli atti quotidiani e nelle scelte della vita. Su questo punto anche il magistero supremo della Chiesa, che si esprime nel concilio ecumenico Vaticano II, è inequivocabile. Insegna il concilio (sottolineature mie):

«Gli apostoli e i loro successori con i propri collaboratori, essendo inviati ad annunziare agli uomini il Cristo Salvatore del mondo, nell’esercizio del loro apostolato si appoggiano sulla potenza di Dio, che molto spesso manifesta la forza del Vangelo nella debolezza dei testimoni. Bisogna che tutti quelli che si dedicano al ministero della parola di Dio, utilizzino le vie e i mezzi propri del Vangelo, i quali differiscono in molti punti dai mezzi propri della città terrestre… la Chiesa… tuttavia non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall’autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni» (Gaudium et Spes, n. 76).

Pronti a rinunciare anche ai diritti

Il concilio invita a rinunciare addirittura ai «diritti legittimamente acquisiti» per non dare motivo di nessun dubbio o parvenza di privilegio. Oggi, invece, il privilegio è la norma e la rinuncia una chimera.

«Sembra proprio venuto il momento che la Chiesa cattolica recuperi la propria dimensione costitutiva, la dimensione escatologica. E ritrovi la forza della profezia, del coraggio, sradicando per sempre dal suo corpo quel male micidiale, il clericalismo, che ne corrode l’anima» (Svidercoschi G. F., Il ritorno dei chierici. Emergenza Chiesa tra clericalismo e concilio, Dehoniane, Bologna 2012, 10).

Queste parole hanno un peso più grave perché sono scritte da un giornalista, Gian Franco Svidercoschi, già vicedirettore de L’Osservatore Romano, coautore con Giovanni Paolo II del libro «Dono e Mistero» (1966) e autore del libro «Verso il 2000 rileggendo il concilio», commissionatogli nel 2000 dalla Santa Sede. Egli arriva a parlare «del progressivo decadimento di una certa classe episcopale, tanto nella dottrina quanto nel governo della pastorale» (Id., 27). Gli scandali che hanno coinvolto il Vaticano in questi anni, dallo Ior alla pedofilia fino alle dimissioni di papa Benedetto XVI, non solo sono sintomi, ma anche causa del degrado ecclesiale giunto ormai a livelli insopportabili.

È in questo contesto che deve essere letta la scelta di papa Francesco, «il papa venuto dalla fine del mondo», il quale con i suoi primi atti e gesti è stato eloquente e dirompente, per non dire «rivoluzionario»: non ha mai usato la «mozzetta rossa», residuo della «clamide rossa» (mantello) dell’imperatore romano che la usava come segno del suo potere regale. Rinunciando a essa, papa Francesco ha voluto distinguere il servizio del vescovo di Roma da quello del capo di stato, cioè del politico. Con un solo gesto ha detto al mondo intero: Cesare è Cesare. Dio è Dio. Vengo a voi come «immagine di Dio» non come potente tra i potenti.

Il Vangelo di per sé non pone un’opposizione tra «Cesare» e «Dio», né determina i confini tra le due sfere, né tanto meno dice che c’è una sfera d’influenza di Dio e una d’influenza di Cesare. Questo ragionamento è estraneo al pensiero di Gesù perché illogico: il regno di Dio, infatti, pur non confondendosi con il regno di Cesare, non è fuori dal territorio e dall’umanità su cui governa Cesare. Gesù non parla di separazione tra «stato e Chiesa»: questa è un’indebita conclusione estranea al testo, come se vi fossero due autorità equipollenti, distinte, ma convergenti che si dividono la torta umana. La parte spirituale alla Chiesa e la parte materiale allo stato, come si è tentato di fare nel Medioevo attraverso le investiture dei re da parte del papa, fino a quando Bonifacio VIII, nel giubileo del 1300, non pretese di assumere per sé le due funzioni (la teoria delle «due spade»).

Questo ragionamento è tipico di una concezione della società come «cristianità», in cui la visione teologica e la morale di una confessione religiosa diventano patrimonio esclusivo di quella società che le impone anche con la forza o con la semplice legge. È la prospettiva cristiana della vita e del mondo applicate alle realtà terrestri senza distinzione di sorta; in questo senso la Chiesa detta le regole e i laici le applicano come «braccio secolare» come si è manifestato nel regime di «cristianità» di stampo medievale, quando il potere religioso appaltava al potere politico parte dei propri compiti scellerati. Poiché il comandamento ordina: «Tu non ucciderai» (Es 20,13), l’Inquisizione non si sporcava le mani, ma appaltava le uccisioni al braccio secolare, così si ammazzavano lo stesso le persone, quasi sempre innocenti, ma non erano i preti a farlo materialmente. È il vero regno della confusione tra stato e Chiesa che storicamente tanti guai ha portato e alla Chiesa e allo stato.

In quanto cittadini credenti, noi abbiamo diritti e doveri che sono sanciti dalla Carta costituzionale e li dobbiamo esigere non perché credenti, ma perché cittadini. Essi, infatti, non sono una concessione benevola del governo di tuo. Al di fuori di ciò, dobbiamo essere attenti, come esige il Vangelo: se ci avvaliamo di un condono, significa che abbiamo compiuto un illecito e quindi ci collochiamo dentro un clima d’immoralità. In secondo luogo, diventiamo complici del degrado ambientale o sociale, anche se ne possiamo avere un beneficio immediato. Di conseguenza, non possiamo contestare il governo per immoralità o, in caso di disastro ambientale, gridare contro Dio o la fatalità, se per esempio abbiamo costruito abusivamente, violentando ambiente ed equilibrio ecologico. Se frodiamo il fisco, noi riduciamo i benefici dello stato sociale, rubiamo a noi stessi, alla scuola dei nostri figli, eliminiamo risorse per la sanità, e di conseguenza perdiamo il diritto di parlare di poveri e di stato inadempiente, né possiamo andare in piazza a gridare contro gli evasori perché saremmo complici.

La fede è esigente, perché impone la coerenza. Nella prossima puntata, termineremo questa lunga digressione sul rapporto tra «Cesare e Dio», riflettendo sul testo fondamentale della distinzione «Chiesa e stato» e che è Gv 18,36: «Il mio regno non è di questo mondo».

(continua – 4).

Paolo Farinella




Dalla Signoria di Dio alla Sudditanza a Cesare | Rendete a Cesare (3)

«Un servitore non può servire due padroni» (Gv 19,15; Es 20,3)

Durante la passione di Gesù, secondo la versione di Giovanni (cf Gv 18-19), gli stessi che presentano la moneta con l’effige dell’imperatore si trovano davanti a una scelta, come i loro antenati al tempo di Samuele: scegliere tra Dio e Cesare. Consapevolmente e senza esitazione essi rinnegano Dio come re e riconoscono Cesare come loro signore e padrone. Quando Pilato, in rappresentanza dell’imperatore, li obbliga a scegliere, essi non hanno esitazione:

«13Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare… 14Pilato disse ai Giudei: “Ecco il vostro re!”. 15Ma quelli gridarono: “Via! Via! Crocifiggilo!”. Disse loro Pilato: “Metterò in croce il vostro re?”. Risposero i capi dei sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”» (Gv 19,12.14-15).

Una questione antica

Nel secolo VI a.C., quando furono redatti i libri di Samuele, gli antenati degli scribi e dei farisei, agirono allo stesso modo, rinnegarono Dio come loro re e chiesero a Samuele un imperatore che li giudicasse: «Stabilisci per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli» (1Sam 8,5). A Dio dispiacque questa richiesta perché «non si può servire due padroni» (Lc 16,13). Con quella risposta, essi annullarono la specificità d’Israele che fu scelto tra tutti i popoli, come «popolo di Dio»; essi invece vollero essere «come avviene per tutti i popoli».

In forza della Scrittura e in nome della loro storia privilegiata, storia di elezione e di alleanza sponsale, gli Ebrei dovrebbero farsi ammazzare piuttosto che contaminarsi con l’immagine dell’imperatore, che pretende di usurpare la regalità di Dio. Essi, al contrario, fanno una professione pubblica di fede davanti a Cesare: «Non abbiamo altro re che Cesare», che è l’opposto esatto del primo comandamento: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3). Ci troviamo in piena apostasia, allo stesso modo che nel deserto del Sinai, quando gli Ebrei sostituirono il Dio di Mosè con un vitello d’oro fuso, che invocarono come loro liberatore (Es 32,4.8).

Le parole dei suoi correligionari, per di più pronunciate davanti al rappresentante del potere romano, che era potere di occupazione, devono essere risuonate amare e scandalose nelle orecchie di Gesù. La questione era talmente delicata che al tempo di Gesù, lo stesso procuratore romano, Pilato, per non urtare la sensibilità degli Ebrei, la cui religione vietava le immagini sacre, aveva fissato la propria residenza a Cesarea Marittima, cioè lontano dal tempio, centro religioso della vita degli Ebrei. A Cesarea, egli può tenere le insegne con le effigi dell’imperatore, ma quando andava a Gerusalemme evitava di portarle con sé, per rispetto degli Ebrei, ma anche per paura di sommosse popolari.

Il rappresentante dell’imperatore ha, per la religione ebraica, quel rispetto che gli stessi membri del sinedrio dimostrano di non avere. Essi sanno bene che portare le monete romane significa macchiarsi di contaminazione e d’impurità, perché con le monete portano con sé l’effige di Cesare. Essi usano il denaro di Cesare nei loro traffici e con questo si dichiarano sudditi e schiavi, abdicando non solo dalla loro condizione di figli, ma anche dal loro ruolo di guide del popolo. Se l’autorità stessa rinnega il Dio della creazione, come può pretendere di guidare il popolo verso l’autorità di Dio? Gli stessi che portano con sé l’immagine di Cesare, proibiscono ai Giudei di entrare nel tempio con la moneta romana, proprio perché riproduce l’effige dell’imperatore romano che si considerava e veniva considerato «divino», cioè figlio di Giove e a lui bisognava prestare culto.

La questione è molto grave e lo si deduce anche da un altro fatto: poiché il denaro romano portava l’effige dell’imperatore, non poteva essere versato nel tesoro del tempio perché sarebbe stato un sacrilegio. Per ovviare a ciò nel portico del tempio vi erano i cambiavalute, che scambiavano la moneta romana con lo shèkel, la moneta ufficiale israeliana. È questo il motivo per cui Gesù nel tempio scaccia i cambiavalute e i venditori con l’accusa di avere trasformato la casa di preghiera di Dio in un covo di ladri (cf Gv 2,13-19): essi per interesse trafficano l’«immagine di Cesare» nel tempio di Gerusalemme, il trono della Gloria di Dio che aveva posto la sua «immagine» nella carne di ogni uomo e donna, sacramento della sua presenza nella storia.

La moneta romana, «sacramento imperiale»

Portando con sé e trafficando negli affari con la moneta dell’imperatore, i capi dei sacerdoti, gli scribi e i farisei, cioè la gerarchia religiosa nel suo complesso, dichiarano pubblicamente di avere sostituito «l’immagine» di Dio (cf Gen 1,27), di cui erano custodi, con quella mercantile del re pagano che, come un novello faraone, tiene sotto sequestro il popolo eletto.

Per affermare la propria autorità, Roma aveva tolto al sinedrio il diritto di comminare la morte (ius gladii) e, contemporaneamente, custodiva le vesti solenni del sommo sacerdote, che erano consegnate ogni volta che servivano. I due fatti erano il segno clamoroso e umiliante della sottomissione totale, giuridica e religiosa. Doveva essere chiaro chi era «il re d’Israele».

La conseguenza logica che si deduce dai testi e dai fatti è semplice: i rappresentanti della religione ufficiale, i capi responsabili del popolo, quelli che hanno in mano i mezzi di governo e anche dell’economia, rinnegano Dio come loro Re e Signore. Essi si adeguano alle convenienze e vogliono essere «come tutti gli altri popoli»: cioè schiavi di un dittatore che li spreme come limoni, perché fa loro pagare le tasse per sé, per il senato e concede anche, bontà sua, che paghino una tassa supplementare per il tempio. Gesù aveva messo in guardia: «Coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni [perché] dominano su di esse e i loro capi le opprimono» (Mc 10,41).

Senza rendersene conto, chi pone la domanda a Gesù se sia lecito pagare le tasse, mette in evidenza una questione che riguarda la persona di Dio e il rapporto che ogni Israelita ha con lui. Gesù, con la sua risposta, mette a nudo il loro dramma e li richiama alla responsabilità della «teshuvàh – conversione».

«Gesù il Nazareno, il Re dei Giudei» (Gv 19,19)

Utilizzare la moneta dell’imperatore significa riconoscerne formalmente l’autorità, in cambio della possibilità di usarne i benefici per il commercio, lo scambio economico e la vita quotidiana. In questo modo chi detiene la moneta porta con sé l’immagine dell’imperatore e ne favorisce il potere. Quando vivevo in Palestina, vedendo i miei amici palestinesi che spesso manifestavano contro Israele e gli Usa, facevo loro notare una contraddizione: non era possibile contestare gli Usa, bruciandone la bandiera, vestiti con i jeans americani e calzando le scarpe nike! Nemmeno potevano andare all’assalto d’Israele con in tasca lo «shèkel», la moneta ufficiale ebraica. La prima rivoluzione deve essere morale, rifiutando i simboli del nemico, specialmente se tornano utili.

La rivoluzione di Gandhi contro il dominio inglese cominciò dal rifiuto di indossare i vestiti confezionati in Inghilterra e dal rifiuto di usare la moneta con l’effige della regina. In pochi mesi crollò l’industria tessile inglese e con essa il protettorato sull’India.

Cesare: l’idolo dei capi dei sacerdoti

Nel rispondere che l’immagine   è «di Cesare», i capi religiosi si sono condannati da soli, svelando il loro doppiogioco, fatto di compromessi e interessi: da un lato difendono la «purità» della loro religione, il cui Dio non ammette «altri dèi di fronte a me» (Es 20,3); dall’altro, essi non esitano a contaminarsi nella vita di ogni giorno, corrompendosi con l’uso della moneta come strumento di scambio per l’acquisto di beni. Nel rispondere a Gesù, infatti, essi hanno dovuto prendere una moneta dalla loro sacca, testimoniando così che non solo accettano l’autorità di un re usurpatore, ma che usufruiscono anche dei suoi benefici, senza rendersi conto delle conseguenze: usare le monete coniate da un re straniero e invasore, significa legittimare anche l’invasione della loro terra, che è terra di Dio, e dichiararsi sudditi di chi li ha privati della libertà e della loro dignità. Il procuratore romano, infatti, per affermare la suprema autorità dell’imperatore «divus Caesar», su tutto Israele, teneva in custodia la veste solenne del sommo sacerdote, il quale la riceveva dalle mani imperiali tutte le volte che era necessario; alla fine del servizio liturgico la veste doveva essere riconsegnata. Un’umiliazione totale: anche il «dio straniero d’Israele» doveva inchinarsi davanti al «divino Cesare». La risposta di Gesù è duplice. «E pertanto/di conseguenza, restituite [una volta per tutte] le cose di Cesare a Cesare» (per la morfosintassi v. la 1a puntata in MC 3, 2013, 33-34): se accettate l’autorità di Cesare, pur essendo un usurpatore dei diritti di Dio e del popolo e se ne beneficiate perché trafficate con il suo denaro che utilizzate a vostro vantaggio per i vostri affari, è vostro obbligo obbedirgli, pagando anche le tasse che la sua autorità impone, perché non fate altro che restituire a Cesare ciò che gli appartiene. In altre parole, Gesù condanna scribi e sacerdoti che, servilmente e liberamente si sottomettono a un’autorità che hanno accettato, ben sapendo che essa non avrebbe potuto imporre tributi se non ai propri sudditi che controlla e domina perché li gestisce come estranei e non come figli: «I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli estranei? Rispose [Simone]: “Dagli estranei”» (Mt 17,25-26).

Se i Giudei utilizzano i benefici di Cesare, non possono lamentarsi se pagano il pedaggio sui servizi che l’uso della moneta comporta. Fare pagare le tasse, infatti, è un diritto di Cesare perché esse sono il «prezzo» dei servizi esercitati. Gesù, in questo modo, con una risposta lapidaria, mette sul banco degli accusati l’autorità religiosa del suo tempo perché si è posta fuori dell’autorità di Dio per passare alla sudditanza di Cesare di cui accetta il denaro come strumento sociale e comunitario. Il possesso di «quella» moneta è un’apostasia perché contravviene il comandamento del divieto delle immagini: «Non vi farete idoli, né vi erigerete immagini scolpite o stele, né permetterete che nella vostra terra vi sia pietra ornata di figure, per prostrarvi davanti ad essa; poiché io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 26,1). La conseguenza è tragica: chi accetta l’autorità di un’immagine scolpita nel bronzo che raffigura l’«idolo» Cesare, significa che ha trasmigrato dal Dio che non può essere raffigurato e che «i cieli e i cieli dei cieli non possono contenere» (2Cr 6,18). La conseguenza è logica: chi usa la moneta con l’immagine di Cesare rinnega la regalità di Dio perché «un servitore non può servire due padroni» (Lc 16,2).

Amare Dio con tutto il cuore

Gesù non si lascia scappare l’occasione per richiamare i capi religiosi alla verità della loro coerenza e li invita a ritornare «al principio», cioè all’autorità di Dio da cui si sono allontanati per sottomettersi a Cesare. Egli, infatti, con la seconda parte della sua risposta, li porta di peso nel cuore dell’Eden, quando Dio inventò l’umanità, costruendola «a sua immagine e a sua somiglianza» nella prospettiva di Genesi 1,27: «e [ridate/restituite] le cose [che sono] di Dio a Dio». Gesù non ha alcun orizzonte politico con questa frase, perché il contesto in cui si muove è solo ed esclusivamente religioso, anzi teologico. Qui si tratta di antropologia teologica e non di una banale distinzione di poteri tra «Chiesa e Stato», un concetto estraneo a Gesù, almeno nella portata che noi oggi attribuiamo a esso, alla luce dei concordati pattizi.

Quando si legge la risposta di Gesù, non bisogna correre, ma avere attenzione e fare una lunga pausa tra i due imperativi uniti e separati dalla congiunzione copulativa di valore avversativo «e»: rendete a Cesare quello che gli appartiene, perché è suo di diritto (la moneta con la sua effige), e/piuttosto… [lunga pausa] convertitevi/ritornate a Dio che vi ha creato a sua immagine e somiglianza perché siete voi l’effige che rende visibile il Creatore nel mondo. È un invito a ritornare alla dignità di figli di Dio da cui essi hanno abdicato perché si sono venduti come schiavi a un’autorità illegittima. È l’appello radicale alla conversione, spezzando la confusione tra un «Cesare», che pretende di essere di natura divina, e «Dio», che esige «l’immagine» del suo popolo come segno visibile della sua presenza nel creato. Cesare si faceva chiamare «Divus» per cui accettarne l’autorità e trafficare con il suo denaro che lo raffigura, è un atto di ribellione al Creatore perché pone Cesare sullo stesso piano di Dio. L’Ebreo che vi si sottomette contravviene al precetto tassativo di non farsi idoli (Es 20,4; Dt 4,16): «Gli idoli delle nazioni sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono; no, non c’è respiro nella loro bocca» (Sal 135/134, 15-17).

L’opposizione che Gesù pone tra Cesare e Dio è di natura religiosa, non politica. Si tratta di scegliere tra due regalità: quella del Dio creatore e liberatore oppure quella di Cesare imperatore. È una scelta tra due prospettive di vita: da una parte sta Dio che crea a sua immagine per la libertà e dall’altra sta Cesare che con la sua immagine conia un impero di schiavitù. È in gioco la scelta radicale della vita tra il Dio che regna in Israele e Cesare che occupa illegalmente la terra d’Israele. Cesare non può pretendere l’adesione interiore, che, invece, scribi e sacerdoti gli concedono, usando la sua moneta. Non si tratta della gestione del potere tra due ordini diversi, ma dell’opposizione radicale tra due irriducibili: o Dio o Cesare. Non è in gioco «una parte» ma «tutta» l’esistenza perché riguarda due mondi: quello di Dio che stipula l’alleanza con i figli di Abramo e Cesare che impone le tasse ai sudditi che vivono in Palestina.

Nota di attualità. Questo brano è un appello alla Chiesa in ogni tempo, e, nella Chiesa, specialmente a chi esercita il servizio dell’autorità perché stia sempre attento nella scelta delle cose che riguardano questo mondo. Il cristiano vive il mondo con distacco perché il suo cuore è teso al Regno di Dio. Ricchezza, potere, successo, denaro non sono obiettivi primari e nemmeno secondari, perché l’impegno del credente è di avere sempre coscienza di essere custode e garante del giardino di Eden che deve consegnare alle generazioni future, fino alla fine del mondo. Quando l’autorità religiosa si rapporta con i potenti della terra, mai deve dimenticare le parole di Gesù che mette sull’avviso di non tradire mai l’immagine di Dio per nessun interesse, perché Dio vien prima di tutto: è lui e solo lui che bisogna amare con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Il resto viene dal maligno.

Ritorno al principio: l’uomo «immagine di Dio»

Quella di Gesù è una risposta ad hominem, cioè puntuale, connessa alla domanda con cui argomentano «scribi e sommi sacerdoti» (cf Lc 20,19).

Nota STORICA. Gli scribi erano i letterati dell’epoca, coloro che spiegavano la Scrittura al popolo, che davano indicazioni di vita e di condotta, che dirimevano interrogativi d’interpretazione della Parola di Dio; cioè svolgevano la funzione di maestri. Il sommo sacerdote era uno solo e svolgeva il compito di capo del sinedrio, composto da settanta membri comprendenti sacerdoti, anziani e scribi. Il sommo sacerdote emerito vi partecipava di diritto. Al tempo di Gesù vi era il sommo sacerdote Caifa, eletto nell’anno 18 dal procuratore romano Valerio Grato e rimasto in carica fino al 36. Egli era subentrato al suocero, Anna (o Anano o Ananiah) che pertanto era membro attivo del Sinedrio. Per questo il vangelo parla di «sommi sacerdoti».

Come massima autorità in Israele essi avrebbero dovuto avere il discernimento per valutare le «cose di Dio», avendone gli strumenti adeguati che sono la Scrittura e la tradizione dei padri. Invece, non solo inducono il popolo nell’errore, ma essi stessi si rendono colpevoli perché, contravvenendo agli insegnamenti della Toràh, si adeguano a portare monete con l’effige dell’imperatore. La risposta di Gesù non è pacifica e superficiale e tanto meno si può ridurre a una pronuncia sulla legittimità del potere o dell’autorità. Gesù non dice se l’autorità di Cesare è lecita o illegittima, se ha diritto o no. Egli si limita a prendere atto della situazione descritta dall’immagine della moneta: «Di chi è questa immagine»? La questione in gioco è molto più radicale e parte da un dato di fatto: scribi e sacerdoti sono coinvolti nel riconoscimento di un’immagine che non è quella di Dio. Di fronte all’inchiesta che fa Gesù, essi affermano e confermano che quella immagine è «di Cesare». Gesù non ha dubbi perché essi sanno quello che fanno: Preso atto che voi state parlando di Cesare, il romano, ebbene io vi dico: dategli quello che gli appartiene; ma a voi dico io, di mia iniziativa: ritornate a Dio che vi ha creato come sua immagine. Nelle parole di Gesù si trovano due risposte.

  1. a)    Una diretta (ad hominem) alla constatazione ovvia di scribi e sommi sacerdoti che l’immagine è di Cesare, per cui se essi stessi dicono che «è di Cesare», allora è giusto che la moneta sia restituita al legittimo proprietario perché è impropria nelle mani degli scribi e dei sommi sacerdoti.
  2. b)    La seconda parte della risposta è un’affermazione «teologica», autorevole e autoritativa di Gesù che richiama i suoi interlocutori alla «teshuvàhmetànoia» che non è solo un cambiamento di comportamento, ma un radicale capovolgimento del criterio di pensare e scegliere. La conversione cui si appella Gesù comporta una decisione esistenziale che parte dall’intimo per avviarsi verso una prospettiva di vita che abbia come orizzonte solo il Regno di Dio. È l’invito al ritorno al Dio della creazione di cui, essi, guide liturgiche e morali del popolo, hanno usurpato l’immagine rendendola impura. Usando il denaro con l’immagine di Cesare, essi hanno apostato dalla fede e hanno commesso un sacrilegio.

L’immagine e il progetto di Dio

Per comprendere la risposta di Gesù bisogna rifarsi a Genesi 1,27, secondo cui Dio «creò Adam (= genere umano) a immagine di Dio (ebr.: bezelèm ‘elohim)» che la Bibbia greca della Lxx, usata dalla prima comunità cristiana, traduce con il termine «èikon» (gr: κατ΄ εικόνα θεου – kat’eikòna theû; lett.: secondo l’immagine di Dio». Con questa espressione l’autore biblico, circa cinque secoli prima di Cristo, definisce il fondamento ontologico della consistenza di Adam, inteso come genere umano, composto di uomini e donne. La persona umana, in quanto natura relazionale, è «immagine» di Dio, nel senso che «uomo-donna» è intimamente legato non nell’apparenza, ma nella sostanza. In altre parole, è il genere umano come tale che è «immagine» e, in esso, ogni individuo in quanto persona, compresi gli scribi e i sommi sacerdoti. Da tale struttura antropologica esistenziale nessuno può abdicare, pena l’inconsistenza, la morte.

Nella cultura orientale (assira, sumera, babilonese, ecc.) ogni sovrano segnava i confini del proprio regno con «statue» raffiguranti la sua «immagine»: chiunque la vedeva doveva riverirla in segno di accettazione dell’autorità del re che rappresentava. Allo stesso modo, ogni sovrano incideva la propria immagine nelle monete di uso corrente sia per farsi meglio riconoscere da chiunque ne venisse in possesso, sia per affermare il diritto della propria autorità su chiunque le utilizzasse come moneta di scambio.

Anche il Dio biblico della creazione si comporta come un re orientale: in Gen 2, secondo il racconto jahvista, egli crea con la polvere del suolo, come un vasaio o un artista della creta, la sua «statua» bifronte, Adam ed Eva, che pone nel giardino di Eden come suo luogotenente e fiduciario, come sua «Presenza». La coppia è il rappresentante di Dio nel creato perché esso, guardando l’immagine del creatore, possa essere riportato al fondamento della propria esistenza. In Gen 1, il racconto sacerdotale lo afferma espressamente come «dottrina»: l’essere umano, in quanto sessuato, è «immagine» di Dio creatore. La terra e il cosmo, cioè l’ordine della creazione, sono lo scenario di sfondo, dove Dio colloca il riferimento alla sua autorità: l’uomo-statua, richiamo permanente alla «signoria» di Dio.

L’immagine di Dio posta sulla terra non ha un compito passivo, ma riceve il potere delegato di «dare il nome» agli animali; in oriente «dare il nome» significa avere il potere di vita e di morte su ciò di cui si conosce il «nome», cioè la natura intima e profonda (Gen 2,19-20). La statua/immagine, però, ha un limite strutturale: esercita solo un potere vicario che esige l’ascolto e la tensione all’altro. Gen 2,15 è esplicito a riguardo: «Dio pose l’uomo nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse» secondo la traduzione del greco della LXX. L’ebraico, invece, usa due verbi straordinari: «Dio pose Adam nel giardino di Eden perché lo servisse e l’osservasse/custodisse»1. Non padroneggio, ma dipendenza umile e attenta.

Il primo verbo indica il servizio liturgico, cioè la dipendenza affettiva e vitale, per cui l’uomo compie un atto sacro da cui dipende progresso o regresso. Il secondo verbo è squisitamente giuridico perché è riservato all’«osservanza» della Toràh e dei precetti. Il rapporto che c’è tra l’uomo e le realtà terrestri è un rapporto che lega giuridicamente e costringe l’uomo ad «ascoltare» il mondo e le cose (in ebraico c’è assonanza tra «shama’ – ascoltare» e «shamàr – osservare/custodire». Da ciò nasce l’unione indissolubile tra l’individuo e l’ambiente naturale.

Liberando Israele dalla schiavitù di Egitto, Dio è diventato l’unico re e la sola autorità da cui il popolo dipende, e in esso ogni Israelita. Mosè e i profeti sono luogotenenti, intermediari portavoce. Nulla di più. L’istituto del regno non è mai attecchito in Israele e, infatti, è durato solo due secoli. Israele ha Dio come re di cui è «immagine» rappresentativa o come si direbbe oggi, garante di credibilità. La credibilità di Dio, infatti, passa attraverso la «sua immagine» che è l’uomo non in quanto maschio, ma in quanto essere vivente in relazione. Il testo ebraico usa un’espressione forte, descrittiva della natura umana: «zakàr we neqebàch = pungente e perforata» che le traduzioni rendono più poveramente con «maschio e femmina»2.

È questo il contesto in cui si svolge l’intervista tra Gesù e «gli scribi e i sommi sacerdoti». Se Gesù avesse risposto che non è lecito pagare le tasse, lo avrebbero denunciato all’autorità romana e sarebbe stato messo a morte per insubordinazione e attentato allo stato; se avesse risposto che bisogna pagare le tasse all’imperatore e al senato di Roma, lo avrebbero denunciato al popolo che odiava i Romani e i gabellieri giudei che considerava alla stessa stregua dei pagani. Nell’un caso e nell’altro Gesù sarebbe stato comunque «morto», ma senza porre la questione teologica ed esistenziale di fondo: la natura dell’umanità e la sua funzione all’interno del creato e della società.

Riconoscendosi «immagine» dell’imperatore, di cui accettano la moneta simbolo della sua autorità, essi sconvolgono l’ordine del creato, capovolgendo la natura umana e il fine dell’esistenza. Non è solo una questione banale di separazione tra poteri politici, ma la questione radicale se Dio è il Creatore e se l’uomo, nella sua natura di «pungente e perforata», ne è il segno e la presenza di garanzia nel mondo.

(continua – 3).

 1 Sull’esegesi del versetto in tutta la sua valenza cf il nostro: Bibbia, parole, segreti, misteri, Gabrielli Editore, 2008, 67-75. 2    Sull’esegesi dell’espressione in tutto lo splendore del testo ebraico, cf Ibidem, 61-65.

Paolo Farinella

 




Quale Cesare abbiamo scelto come nostro Dio? | Rendete a Cesare (2)


Per leggere la prima parte

Rendete a Cesare quel che è di Cesare | Rendete a Cesare (1)


«Un servitore non può servire due padroni» (Gv 19,15; Es 20,3)

Durante la passione di Gesù, secondo la versione di Giovanni (cf Gv 18-19), gli stessi che presentano la moneta con l’effige dell’imperatore si trovano davanti a una scelta, come i loro antenati al tempo di Samuele: scegliere tra Dio e Cesare. Consapevolmente e senza esitazione essi rinnegano Dio come re e riconoscono Cesare come loro signore e padrone. Quando Pilato, in rappresentanza dell’imperatore, li obbliga a scegliere, essi non hanno esitazione:

«13Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare… 14Pilato disse ai Giudei: “Ecco il vostro re!”. 15Ma quelli gridarono: “Via! Via! Crocifiggilo!”. Disse loro Pilato: “Metterò in croce il vostro re?”. Risposero i capi dei sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”» (Gv 19,12.14-15).

Una questione antica

Nel secolo VI a.C., quando furono redatti i libri di Samuele, gli antenati degli scribi e dei farisei, agirono allo stesso modo, rinnegarono Dio come loro re e chiesero a Samuele un imperatore che li giudicasse: «Stabilisci per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli» (1Sam 8,5). A Dio dispiacque questa richiesta perché «non si può servire due padroni» (Lc 16,13). Con quella risposta, essi annullarono la specificità d’Israele che fu scelto tra tutti i popoli, come «popolo di Dio»; essi invece vollero essere «come avviene per tutti i popoli».

In forza della Scrittura e in nome della loro storia privilegiata, storia di elezione e di alleanza sponsale, gli Ebrei dovrebbero farsi ammazzare piuttosto che contaminarsi con l’immagine dell’imperatore, che pretende di usurpare la regalità di Dio. Essi, al contrario, fanno una professione pubblica di fede davanti a Cesare: «Non abbiamo altro re che Cesare», che è l’opposto esatto del primo comandamento: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3). Ci troviamo in piena apostasia, allo stesso modo che nel deserto del Sinai, quando gli Ebrei sostituirono il Dio di Mosè con un vitello d’oro fuso, che invocarono come loro liberatore (Es 32,4.8).

Le parole dei suoi correligionari, per di più pronunciate davanti al rappresentante del potere romano, che era potere di occupazione, devono essere risuonate amare e scandalose nelle orecchie di Gesù. La questione era talmente delicata che al tempo di Gesù, lo stesso procuratore romano, Pilato, per non urtare la sensibilità degli Ebrei, la cui religione vietava le immagini sacre, aveva fissato la propria residenza a Cesarea Marittima, cioè lontano dal tempio, centro religioso della vita degli Ebrei. A Cesarea, egli può tenere le insegne con le effigi dell’imperatore, ma quando andava a Gerusalemme evitava di portarle con sé, per rispetto degli Ebrei, ma anche per paura di sommosse popolari.

Il rappresentante dell’imperatore ha, per la religione ebraica, quel rispetto che gli stessi membri del sinedrio dimostrano di non avere. Essi sanno bene che portare le monete romane significa macchiarsi di contaminazione e d’impurità, perché con le monete portano con sé l’effige di Cesare. Essi usano il denaro di Cesare nei loro traffici e con questo si dichiarano sudditi e schiavi, abdicando non solo dalla loro condizione di figli, ma anche dal loro ruolo di guide del popolo. Se l’autorità stessa rinnega il Dio della creazione, come può pretendere di guidare il popolo verso l’autorità di Dio? Gli stessi che portano con sé l’immagine di Cesare, proibiscono ai Giudei di entrare nel tempio con la moneta romana, proprio perché riproduce l’effige dell’imperatore romano che si considerava e veniva considerato «divino», cioè figlio di Giove e a lui bisognava prestare culto.

La questione è molto grave e lo si deduce anche da un altro fatto: poiché il denaro romano portava l’effige dell’imperatore, non poteva essere versato nel tesoro del tempio perché sarebbe stato un sacrilegio. Per ovviare a ciò nel portico del tempio vi erano i cambiavalute, che scambiavano la moneta romana con lo shèkel, la moneta ufficiale israeliana. È questo il motivo per cui Gesù nel tempio scaccia i cambiavalute e i venditori con l’accusa di avere trasformato la casa di preghiera di Dio in un covo di ladri (cf Gv 2,13-19): essi per interesse trafficano l’«immagine di Cesare» nel tempio di Gerusalemme, il trono della Gloria di Dio che aveva posto la sua «immagine» nella carne di ogni uomo e donna, sacramento della sua presenza nella storia.

La moneta romana, «sacramento imperiale»

Portando con sé e trafficando negli affari con la moneta dell’imperatore, i capi dei sacerdoti, gli scribi e i farisei, cioè la gerarchia religiosa nel suo complesso, dichiarano pubblicamente di avere sostituito «l’immagine» di Dio (cf Gen 1,27), di cui erano custodi, con quella mercantile del re pagano che, come un novello faraone, tiene sotto sequestro il popolo eletto.

Per affermare la propria autorità, Roma aveva tolto al sinedrio il diritto di comminare la morte (ius gladii) e, contemporaneamente, custodiva le vesti solenni del sommo sacerdote, che erano consegnate ogni volta che servivano. I due fatti erano il segno clamoroso e umiliante della sottomissione totale, giuridica e religiosa. Doveva essere chiaro chi era «il re d’Israele».

La conseguenza logica che si deduce dai testi e dai fatti è semplice: i rappresentanti della religione ufficiale, i capi responsabili del popolo, quelli che hanno in mano i mezzi di governo e anche dell’economia, rinnegano Dio come loro Re e Signore. Essi si adeguano alle convenienze e vogliono essere «come tutti gli altri popoli»: cioè schiavi di un dittatore che li spreme come limoni, perché fa loro pagare le tasse per sé, per il senato e concede anche, bontà sua, che paghino una tassa supplementare per il tempio. Gesù aveva messo in guardia: «Coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni [perché] dominano su di esse e i loro capi le opprimono» (Mc 10,41).

Senza rendersene conto, chi pone la domanda a Gesù se sia lecito pagare le tasse, mette in evidenza una questione che riguarda la persona di Dio e il rapporto che ogni Israelita ha con lui. Gesù, con la sua risposta, mette a nudo il loro dramma e li richiama alla responsabilità della «teshuvàh – conversione».

Le parole svelano le intenzioni del cuore

Tenendo conto di questo quadro, vediamo il testo. Alla luce di questa panoramica contestuale che tiene conto di tutta la Scrittura, il contesto immediato dei tre Sinottici, e particolarmente in Lc, è di complotto e di tensione:

– Lc 20,19: «Gli scribi e i capi dei sacerdoti cercarono di mettergli le mani addosso, ma ebbero paura del popolo». È in atto una macchinazione per perseguire un fine ingiusto.

– Lc 20,20: «Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore». È evidente una collusione/ complicità con il potere pagano e impuro, con l’obiettivo esplicito di servirsi del potere pagano.

– Lc 20,25: «Egli disse: “Rendete dunque quello che è di Cesare a Cesare e quello che è di Dio a Dio”». La risposta di Gesù, tecnicamente, si configura come risposta ad hominem, cioè diretta. Egli non fa un discorso generale sulle tasse, ma riprende, strettamente parlando, la risposta da essi data: poiché l’immagine della moneta appartiene a Cesare, come essi stessi ammettono, è un suo diritto, dice Gesù, averla indietro.

Se Gesù si fosse limitato a questa prima parte, tutto sarebbe finito con un insegnamento esemplare e coerente: poiché voi vi servite del denaro di Cesare che vi offre un servizio, è giusto che vi chieda un qualche corrispettivo. Se volete contestare l’autorità di Cesare, non usate il suo denaro, cioè siate voi stessi coerenti. La novità di Gesù sta nella seconda parte della risposta, con la quale riprende quello che i suoi interlocutori avevano omesso o dimenticato: Dio. Il testo greco dice alla lettera:

«E pertanto, dunque/di conseguenza, restituite (una volta per tutte) le cose di Cesare a Cesare e (= nello stesso tempo) le cose [che sono] di Dio [restituite] a Dio – Ho de eîpen pròs autoús: Toìnuyn apòdote ta Kàisaros Kàisari kài ta toû theoû tōi theōi».

Le parole hanno un senso oltre le apparenze

La parola «toínyn», in greco è una congiunzione cornordinante consecutiva o conclusiva (cf Blass-Debrunner §451,9) e per questo traduciamo in modo da dare alla risposta un tono definitivo e conclusivo. In questo modo, Gesù afferma che con la loro risposta sono essi stessi a darsi la risposta. Gesù si limita a trarre la conclusione logica e coerente di quanto affermato da loro. In altre parole, la risposta di Gesù non è una sua conclusione, ma quella cui essi stessi obbligano con il loro agire e con il loro pensare.

Per la restituzione (restituite), l’evangelista usa il tempo imperativo aoristo «apòdote» che indica un’azione compiuta in se stessa, avulsa dal tempo. Non può avvenire a rate o a spizzichi perché non lascia spazio per un tempo di riflessione. Deve essere un fatto unico, conseguenza di una decisione e di una conversione radicale: «Restituite una volta per tutte».

Infine, l’espressione «le cose di Cesare» ha il genitivo di origine o di appartenenza (Blass-Debrunner §162,9 e § 266, 5a): le cose in generale, qui la moneta, che sono «già» proprietà di Cesare. In altre parole Gesù dice che il possesso della moneta romana da parte dei Giudei è illegittimo, per cui restituirla al proprietario significa restaurare l’ordine della legittimità e della verità.

La questione non riguarda le tasse, come volevano gli scribi; Gesù sposta la discussione sul possesso della moneta, da parte di chi professa una religione che impone il divieto assoluto delle immagini della divinità. Questo divieto è così grave che viene codificato addirittura nel comandamento (Es 20,3). Poiché l’imperatore si considera «dio», è grave che la sua moneta, la sua «insegna», si trovi nelle mani di chi si appella al Dio di Mosè.

Si direbbe che l’autore usi la struttura della lingua greca per affermare con più forza il senso del pensiero che vuole esprimere. È straordinario come Gesù non si fermi mai alle apparenze, ma obblighi ad andare al cuore della questione. I farisei e i capi dei sacerdoti pensavano di metterlo in imbarazzo; invece, si ritrovano davanti a loro stessi, alla loro superficialità o, ancora più grave, alla loro religione di finzione, perché parlano in nome di Dio, ma ne disattendono i comandamenti.

Contesto prossimo: il complotto

Non è sufficiente, però, tradurre le parole del vangelo, bisogna anche collocarle nel contesto immediato e prossimo, se vogliamo afferrarne il senso profondo. È quello che facciamo, osservandolo da vicino.

Il capitolo 20 di Luca si apre con due polemiche fortissime:

– Lc 20,1-8: Gesù si oppone ai «capi dei sacerdoti e gli scribi con gli anziani» (v. 1) che pretendono di limitare la sua autorità; Gesù li mette all’angolo con una domanda trabocchetto: il Battesimo di Giovanni viene da Dio o dagli uomini? Se rispondono che viene da Giovanni, corrono il rischio che la folla si ribelli, perché Giovanni aveva la fama di profeta; se rispondono da Dio, si autoaccuserebbero perché non gli hanno creduto. Non hanno più alibi. In questo modo Gesù raggiunge il suo obiettivo: li mette alle strette e con le spalle al muro. Infatti, essi si rifiutano di rispondere perché non possono.

– Lc 20,9-19: la parabola dei contadini omicidi obbliga gli uditori a trarre le conclusioni, o come si dice, la morale. Infatti, gli interessati capiscono subito: «Avevano capito che aveva detto quella parabola contro di loro» (Mc 12,12). A questo punto, non si può andare tanto per il sottile, perché uno che mette in difficoltà il sommo sacerdote, che costringe all’angolo i membri del sinedrio, che contesta la loro autorità e mette in dubbio la loro moralità di trafficanti con il denaro immondo, non può restare libero. È un pericolo per l’istituzione religiosa che si sente screditata. L’autorità non si può discutere, perché s’indebolisce e si delegittima.

I capi religiosi vogliono però umiliare Gesù a ogni costo; per loro la questione delle tasse è strumentale, perché il loro vero obiettivo è il complotto per mettere Gesù fuori gioco, in modo definitivo. Il clima da servizi segreti con spie e travestimenti è descritto da Luca 20,20, in modo impressionante e preciso: «Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore».

È il metodo del tranello e del fango, dell’inganno, della manipolazione della verità e realtà. C’è lo spionaggio che significa una scelta cosciente: pur di raggiungere il fine qualsiasi mezzo è lecito. L’atteggiamento e la perversione dei capi religiosi ha fatto scuola nella storia fino ai nostri giorni anche nella Chiesa. Un papa che si dimette, come Benedetto XVI, perché non è stato in grado di fermare «individualismi e rivalità» che hanno generato «le divisioni che deturpano la Chiesa», come egli stesso ha ammesso (Omelia delle ceneri, 13 febbraio 2013, in San Pietro), mettono in luce che, quando prende il sopravvento la religione d’interesse, gravi sono le conseguenze sul piano della fede; possono arrivare anche a produrre le dimissioni come ipotesi di soluzione del conflitto.

La risposta di Gesù: la coerenza nella verità

Gesù sventa il tranello e va alla radice della questione. Chiedendo retoricamente di chi è l’«immagine», come se lui non lo sapesse, sposta la riflessione sul problema radicale: quale autorità governa su Israele? In altre parole, più esplicite: chi è il «Dio» di Israele? È il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Mosè, oppure è il «divino Cesare», imperatore di Roma?

Tutti, al tempo di Gesù sapevano che gli imperatori romani, come qualsiasi altro potente, facevano imprimere la propria effige sulle monete di metallo per due motivi di ordine pratico. In un tempo senza macchine fotografiche e senza tv, un modo per farsi riconoscere era la divulgazione dei lineamenti imperiali su tutto il regno. Il secondo motivo, più politico, era di affermare la propria autorità sui propri sudditi, perché chiunque avesse usato la moneta con l’effige, di fatto ne riconosceva la legittimità e quindi si sottometteva alla sua autorità giuridica e fiscale.

I capi religiosi che avrebbero dovuto guidare il popolo, il cui re è il Dio d’Israele (cf Sal 144/143,15), invece, riconoscono l’autorità di un imperatore che non può godere di alcun diritto di governo su Israele. In questo modo essi conducono il popolo nella schiavitù di un pagano e straniero, usurpatore della legittimità di Dio. Essi sono responsabili della decadenza religiosa e della devianza etica del loro popolo perché confondono Dio con Cesare.

(continua – 2)

Paolo Farinella




Rendete a Cesare quel che è di Cesare | Rendete a Cesare (1)


Per andare al secondo articolo su Rendete a Cesare:

Quale Cesare abbiamo scelto come nostro Dio? Rendete a Cesare (2)


(Mc 12,13-17; Mt 22,15-22; Lc 20,19-26)

«Non abbiamo altro re che Cesare …Non avrai altri dèi di fronte a me» (Gv 19,15; Es 20,3)

 

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Premessa

Con MC di gennaio-febbraio 2013 abbiamo concluso il commento del racconto dello sposalizio di Cana, riportato nel vangelo di Giovanni al capitolo 2. In totale appena undici versetti che ci hanno impegnato per quattro anni, avendo iniziato nel febbraio 2009. È la prova che una vita sola non basta per leggere in profondità tutta la Bibbia o anche una parte di essa. Se fossimo solo riusciti a suscitare un po’ più di rispetto per la Parola di Dio, il nostro obiettivo, come autore e come rivista, è stato raggiunto. Di fronte ad ogni singola parola di Dio dobbiamo avere un sentimento di «ascolto» interiore perché essa non si esaurisce nel significato immediato, ma esige di scendere in profondità perché Dio è inesauribile. Se poi fossimo anche riusciti a suscitare un atteggiamento di rispetto che ci impedisce di «improvvisare», allora siamo proprio contenti e pensiamo di avere reso un servizio a noi e alla Chiesa. Il nemico più pericoloso della Scrittura è l’improvvisazione e il pressapochismo.
Ora cominciamo un nuovo ciclo. Per la verità avevo pensato anche di sospendere per un po’ questo servizio, per me molto impegnativo sotto ogni punto di vista (e anche costoso per l’aggiogamento); ne ho parlato anche con qualche amico che legge MC. Per poco non mi scomunicava, dicendomi che parlava anche a nome di altri. Ho ricevuto, infatti, segnali e suggerimenti dai nostri lettori per continuare. Li ringrazio tutti per le loro parole affettuose e riconoscenti. Mi ritengo un servo della Parola e nulla di più. Ho riflettuto molto, prima di prendere una decisione, e ora sono in grado di comunicare il mio progetto ai lettori di MC che pur non conoscendo, sono parte di me e del mio popolo con cui condivido l’Eucaristia e la ricerca di Dio.
Con la prossima primavera, dopo Pasqua, verso la fine di aprile, inizierò nella mia parrocchia di Genova una «Scuola di Sacra Scrittura», un Corso biblico organico e al contempo elementare, partendo dal presupposto che non conosciamo la Bibbia. Noi cattolici siamo soliti «sentire» la Parola di Dio quasi esclusivamente nella Liturgia, quindi in forma discontinua, ma poco sappiamo del «libro» in sé, la sua storia, il travaglio della sua formazione, i tempi della sua scrittura, dopo la sedimentazione della trasmissione orale. Molti dicono che si sono cimentati nella lettura della Bibbia, ma poi si sono dovuti arrendere perché «non ci capisco niente». È ovvio che ciò accada perché ai cattolici manca la conoscenza delle chiavi di lettura, gli strumenti storici, letterari e religiosi per capie la mentalità, il contesto storico, l’ambiente geografico e le circostanze delle varie fasi. Non possiamo leggere la Scrittura con la nostra mentalità occidentale perché è un libro, sintesi di una grande esperienza, nato in oriente e sviluppatosi in una cultura diversa dalla nostra, con linguaggi diversi dai nostri e con strumenti che bisogna conoscere. Diceva Pio XI ai seminaristi del Seminario Lombardo, già negli anni ’20 che «spiritualmente noi siamo semiti» ed è pertanto necessario acquisire una mentalità semitica, se vogliamo cogliere il senso proprio della Scrittura e dei suoi singoli libri.
Alla luce di questa premessa, sollecitato, pressato e minacciato dalla mia comunità, ho deciso di mettermi all’opera, iniziando un percorso che non so quando finirà, ma spero di riuscire ad offrire almeno gli strumenti necessari perché ciascuno possa cominciare a leggere e a pregare la Bibbia come il libro-codice della fede. Dopo una introduzione sulla composizione della Bibbia e la sua divisione, il corso prevede la lettura esegetica, centellinata, cioè approfondita dei primi 11 capitoli della Genesi, la storia dei Patriarchi nomadi da Abramo a Giacobbe, la grande epopea dell’esodo, che è l’atto fondativo di Israele come popolo, i profeti, l’esilio, la letteratura sapienziale, la preghiera sedimentata nei Salmi per giungere al dominio romano e diaspora d’Israele. In un secondo momento si passerà al Nuovo Testamento. Tutto questo esige preparazione, studio e tempo, molto tempo.
Poiché le richieste di partecipazione sono oltre ogni aspettativa, ho deciso che scriverò tutto il corso per poterlo pubblicare in un secondo momento. Per non privare i lettori di MC di questa opportunità, ho pensato che dal mese di giugno questa rubrica potrebbe ospitare il corso a puntate. Nel frattempo, per i mesi da marzo a maggio 2013, offro ai nostri lettori una lettura esegetica di un passo controverso del vangelo che spesso, anche dai vescovi, sento usare in modo maldestro e fuorviante, segno che nella Chiesa c’è bisogno non di catechismo, ma di «scuola della Parola», fatta in modo sistematico, continuo e progressivo. Spero di non essere andato fuori tema e mi auguro che i lettori di MC possano gradire questa proposta che ci impegnerà a lungo, finché il Signore ci darà la forza e la grazia di poterla realizzare. Passiamo quindi all’esegesi del testo sinottico: «Rendete dunque quello che è di Cesare a Cesare e quello che è di Dio a Dio» (Lc 20,25).

Rendete a Cesare … rendete a Dio»

(Mc 12,13-17; Mt 22,15-22; Lc 20,19-26)

Per comprendere il brano del vangelo è necessario capirne la portata, altrimenti lo si usa a sproposito, come comunemente fanno tutti, anche vescovi e cardinali, dimostrando così una strutturale «ignoranza delle Scritture» e fomentando interpretazioni che col vangelo non hanno nulla a che fare. San Girolamo già nel sec IV ci metteva in guardia: «Ignoratio Scripturarum ignoratio Christi est – L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (S. Girolamo, Commento al profeta Isaia, Prologo; citato nella Dei Verbum 25). Il testo del versetto appartiene alla triplice tradizione sinottica (in Gv è assente), segno di una tradizione attestata a cui la comunità primitiva ha attribuito molta importanza: il testo si trova in Mt 22,15; Mac 12,21 e Lc 20,17. Di solito quando si cita questo versetto lo si applica senza alcuna mediazione alla separazione tra Stato e Chiesa: CesareDio come due dirimpettai antagonisti, stabilendo una forma di idolatria perché pone Cesare sullo stesso piano di Dio. In questo modo si fa «eis-egesi», si mette cioè dentro il testo la nostra comprensione (o se si vuole la nostra ideologia contemporanea, che però è estranea alla Scrittura) e non «es-egesi» che invece è la scienza che estrae dal testo il senso genuino nel rispetto della «mens» dell’Autore. Proviamo a lasciarci guidare dal testo nel suo contesto per capire che cosa i sinottici (Mc, Mt e Lc) vogliono dire con l’espressione citata. Leggiamo il testo

Il testo

Da un punto di vista critico le varianti testuali, abbastanza notevoli (segno di un percorso travagliato) specialmente in Mc e Lc non sono decisive per quanto concerne il contenuto perché riguardano prevalentemente la forma. In più il versetto decisivo, cioè la risposta di Gesù, è riportato dai tre sinottici in modo uniforme con piccole varianti di tipo stilistico. Nella nostra riflessione ci facciamo guidare dal testo di Lc che meglio esprime il contesto di complotto e di tensione. Leggiamo però in forma di sinossi i tre testi, avendo presente quando si parla di «erodiani» ci si riferisce al partito di cortigiani e sostenitori di Erode, favorevoli ai Romani; e il «denaro» che Gesù chiede di vedere è il denaro d’argento di Tiberio che recava l’immagine dell’imperatore, il quale in questo modo affermava la propria autorità su chiunque avesse avuto in mano la sua moneta.

Mc 12,(12).13-17
Mt 22,15-22
Lc 20,19-26
12E cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla; avevano capito infatti che aveva
detto quella parabola contro di loro [contadini omicidi: cf Mc 12,1-12]. Lo lasciarono e se ne andarono.
15Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 19In quel momento gli scribi e i capi dei sacerdoti cercarono di mettergli le mani addosso, ma ebbero paura del popolo. Avevano capito infatti che quella parabola l’aveva detta per loro.
13Mandarono da lui alcuni farisei ed erodiani, per coglierlo in fallo nel discorso. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, 20Si misero a spiarlo e mandarono informatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore.
14Vennero e gli dissero: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?”. a dirgli: “Maestro, sappiamo che sei veritiero
e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”.
21Costoro lo
interrogarono: “Maestro, sappiamo che parli e insegni con rettitudine e non
guardi in faccia a nessuno, ma insegni qual è la via di Dio secondo verità. 22È
lecito, o no, che noi paghiamo la tassa a Cesare?”.
15Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: “Perché volete mettermi alla prova?
Portatemi un denaro: voglio vederlo”. 16Ed essi glielo portarono.
18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: “Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo”. Ed essi gli presentarono un denaro. 23Rendendosi conto della loro malizia, disse: 24“Mostratemi un denaro:
Allora disse loro: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?”. 20Egli domandò loro: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?”.
di chi porta l’immagine e l’iscrizione?”.
Gli risposero: “Di Cesare”.
21Gli risposero: “Di Cesare”.
Risposero: “Di Cesare”.
17Gesù disse loro: “Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio”. Allora disse loro: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. 25Ed egli disse: “Rendete dunque quello che è di Cesare a Cesare e quello che è di Dio a Dio”.
E rimasero ammirati di lui.
22A queste parole rimasero meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono. 26Così non riuscirono a coglierlo in fallo nelle sue parole di fronte al popolo e, meravigliati della sua risposta, tacquero.

–      Il testo di Mc 12,17 che sta alla base degli altri due (cf Mt 22,21 e Lc 20,25) tradotto alla lettera, è il seguente: «16Di chi è l’immagine (eikôn) e l’iscrizione? Ed essi risposero: “Di Cesare”. 17Gesù, quindi, disse loro: “Le cose [che sono] di Cesare restituite a Cesare, «e»  le cose [che sono] di Dio [restituite] a Dio”».

–      Luca a differenza di Mc aggiunge: «E disse quindi [Gesù] a loro: “Pertanto dunque/di conseguenza ri-date/restituite le cose [che sono] di Cesare a Cesare «e» le cose [che sono] di Dio [restituite] a Dio”».

Si capisce subito che la questione è solo una trappola perché qualunque risposta Gesù possa dare, lo metterebbe a mal partito: in caso di risposta affermativa, Gesù sarebbe stato additato al popolo come fautore dell’imperatore pagano; in caso di risposta negativa, poteva essere accusato presso l’autorità romana come sobillatore antigovernativo.

Osservazione morfologica: tra la prima parte e la seconda troviamo la congiunzione coordinante copulativa «kài – e» che qui ha valore fortemente «avversativo» perché Gesù intende riportare i suoi ascoltatori davanti alla loro responsabilità di avere messo sullo stesso piano «Dio» e «Cesare», cadendo così nell’apostasia. La congiunzione quindi non ha valore coordinante, ma oppositivo: non quindi «a Cesare quello che è di Cesare e (= allo stesso modo, contemporaneamente) a Dio quello che è Dio», ma «a Cesare quello che è di Cesare e (= ma al contrario, ritornate a restituire a Dio quello che è Dio», segno che i Giudei avevano confuso Cesare e Dio. Tutta la questione, come vedremo, riguarda non il potere, ma «l’immagine», cioè la propria identità in relazione al Creatore.

Una questione antica

Per capire il brano del vangelo bisogna andare indietro, ad uno scritto del sec. VII a. C. che a sua volta descrive con ogni probabilità eventi avvenuti nel sec. XIII a. C. di cui però è difficile se non impossibile stabilire la cronologia. Il testo appartiene al ciclo dei «Giudici di Israele», qui l’ultimo di essi, Samuele, a cui la tradizione biblica attribuisce due libri, il 1 e 2 Samuele che nella Bibbia ebraica corrispondo al 1 e 2 libro dei Re.

 «1Quando Samuele fu vecchio, stabilì giudici d’Israele i suoi figli. 2Il primogenito si chiamava Gioele, il secondogenito Abia; erano giudici a Bersabea. 3I figli di lui però non camminavano sulle sue orme, perché deviavano dietro il guadagno, accettavano regali e stravolgevano il diritto. 4Si radunarono allora tutti gli anziani d’Israele e vennero da Samuele a Rama. 5Gli dissero: “Tu ormai sei vecchio e i tuoi figli non camminano sulle tue orme. Stabilisci quindi per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli”. 6Agli occhi di Samuele la proposta dispiacque, perché avevano detto: “Dacci un re che sia nostro giudice”. Perciò Samuele pregò il Signore. 7Il Signore disse a Samuele: “Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di loro”» (1Sam 8,8).

La richiesta di un re su Israele è illegittima perché il popolo scelto da Dio per la sua epopea di salvezza dovrebbe essere solo Yhwh, il Dio liberatore e creatore (cf 1Cr 16,31; Sal 93/92,1; 96/95,10; 97/96,1; 99/98,1Gv 12,13). Da questo momento comincia un tempo burrascoso per Israele e la monarchia non attecchirà mai, ma sopravvivrà solo per un paio di secoli e sarà causa di distruzione, di morte e di afflizione per tutto il popolo. Non bisogna perdere di vista questo testo quando leggiamo il racconto dello scontro tra i capi dei sacerdoti e Gesù perché di questo si tratta: stabilire chi è il re d’Israele, anzi chi è il Dio dei capi dei sacerdoti e degli scribi.

Il popolo esige un re come giudice «come avviene per tutti i popoli» (1Sam 8,5). Il popolo sa che il re lo dissanguerà, che ruberà i loro figli e li manderà in guerra, che rapirà le loro figlie per farne schiave nel suo harem, che farà solo gli interessi di sé, della sua famiglia e di coloro che lo adulano, eppure il popolo vuole un re per essere governato da un aguzzino, avverando la Parola di Dio detta per mezzo di Samuele:

«10Samuele riferì tutte le parole del Signore al popolo che gli aveva chiesto un re. 11Disse: “Questo sarà il diritto del re che regnerà su di voi: prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, li farà correre davanti al suo cocchio, 12li farà capi di migliaia e capi di cinquantine, li costringerà ad arare i suoi campi, mietere le sue messi e apprestargli armi per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri. 13Prenderà anche le vostre figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie. 14Prenderà pure i vostri campi, le vostre vigne, i vostri oliveti più belli e li darà ai suoi ministri. 15Sulle vostre sementi e sulle vostre vigne prenderà le decime e le darà ai suoi cortigiani e ai suoi ministri. 16Vi prenderà i servi e le serve, i vostri armenti migliori e i vostri asini e li adopererà nei suoi lavori. 17Metterà la decima sulle vostre greggi e voi stessi diventerete suoi servi. 18Allora griderete a causa del re che avrete voluto eleggere, ma il Signore non vi ascolterà”. 19Il popolo rifiutò di ascoltare la voce di Samuele e disse: “No! Ci sia un re su di noi. 20Saremo anche noi come tutti i popoli; il nostro re ci farà da giudice, uscirà alla nostra testa e combatterà le nostre battaglie”» (1Sam 8,10-20).

Gli anziani d’Israele chiedono al profeta un re «come avviene per tutti i popoli» e Dio li accontenta, consapevole che hanno rifiutato lui, loro liberatore e creatore. La storia di ripete, perché i loro discendenti, faranno lo stesso aggravando la situazione. Non più davanti ad un profeta, ma davanti al procuratore romano, rappresentante dell’imperatore pagano che occupa la terra santa d’Israele, essi proclamano ufficialmente di non avere altro Dio che Cesare e quindi consegnano la loro fedeltà ad un re usurpatore in sostituzione di Dio. [Continua – 1]

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Paolo Farinella




(Cana 38 – ultimo) DAL MIRACOLO AL SEGNO

«Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra» (Gen 9,135)
Gv 2,11: «Mentre faceva questo principio dei segni Gesù in Cana di Galilea,
manifestò la sua gloria e credettero in lui i suoi discepoli».
(Tàutēn epòiēsen archên tôn sēmèiōn ho Iēsoûs en Kanà tês Galilàias
kài ephanèrōsen tên dòxan autoû kài epìsteusan eis autòn hoi mathētài autoû).

Ci fermiamo ancora su Gv 2,11 perché è un versetto inesauribile e pregnante. Nella puntata precedente lo abbiamo tradotto mettendo in seconda linea l’aspetto «miracolistico» (mentre faceva questo principio dei segni) e ponendo in risalto «la rivelazione» della gloria di Gesù che suscita la fede dei discepoli (cominciarono a credere in lui). Se questo, come crediamo, è il punto focale di tutto il racconto di Cana, significa che la narrazione ha come scopo e obiettivo due momenti: la manifestazione della gloria e la fede, come conseguenza della rivelazione. Di nuovo siamo proiettati nell’esodo, ai piedi del Sinai, dove il popolo per mezzo di Mosè «vide» la Gloria di Dio che suscitò la fede che si espresse nella professione: «Quanto il Signore ha detto, noi faremo e ubbidiremo» (Es 24,7).
Il Sinai è il monte principe, anzi «il principio» della rivelazione, la prima manifestazione «spettacolare» di Yhwh a cui partecipa tutta la natura con «tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno» (Es 19,16). Cana è un villaggio anonimo, dove Gesù pone «il principio» della sua personalità che si manifesta come ripresa del tema dell’alleanza che deve essere rinnovata. Sul Sinai Dio espose il suo Nome attraverso la Toràh; a Cana Gesù toglie il velo alla sua «Gloria», cioè alla sua personalità e consistenza ed esige un’adesione di fede.

Il «principio» dalla Genesi a Cana
A conclusione del racconto di Cana, quasi a darcene la chiave, Gv presenta il primo gesto pubblico di Gesù come «principio dei segni» (archên tôn sēmèiōn), cioè fondamento, radice, profondità di quanto segue. La conclusione del racconto di Cana richiama l’inizio del IV vangelo: «In principio era il Lògos» (en archêi ên ho Lògos) che a sua volta richiama il «principio» assoluto della Bibbia, la prima parola della Scrittura, in Genesi 1,1 nell’atto di Dio creatore: «Nel principio del “Dio creò il cielo e la terra”…» (ebraico: bereshìt barà ‘èlohim hashammàim we’et ha’arez; greco: en archê1 epòiēsen ho thèos ton ouranòn kài epì ghên).
Ci troviamo di fronte a tre «principi»: al fondamento della creazione, all’origine del Lògos e sua relazione col Padre, alla svolta della vita di Gesù che inaugura il Regno. Il primo «principio» genera la vita, il secondo «principio» svela la natura di Dio, il terzo rivela la persona di Gesù.
Nel primo «principio» Dio fa alleanza con il creato e il cosmo, umanità compresa; nel secondo «principio» è Dio stesso che prende dimora nella caducità creata (il Lògos carne fu fatto di Gv 1,14); il terzo «principio», di Cana, riporta il creato e l’umanità, attraverso il Lògos, all’«origine» della vita di relazione: all’alleanza garantita dalla Toràh del Sinai. Il creato fa da sfondo superbo all’azione di Dio, Israele fa da sfondo all’ingresso del Lògos nel tempo, l’anonimato di un comune sposalizio a Cana, villaggio senza storia, fa da sfondo alla rivelazione di Gesù, che inaugura, come è suo costume, la nuova logica di Dio, il quale sceglie «quello che è stolto per il mondo… quello che è debole… quello che è disprezzato… quello che è nulla» (1Cor 1,27-28).
A Cana, forse, la madre ha appreso l’esultanza dello spirito perché vi ha trovato «il principio» dell’umiltà della sua serva (Lc 1,47-48). La logica dell’incarnazione porta inevitabilmente il Figlio ad accettare radicalmente la prospettiva umana fino al punto di «svuotare se stesso» (Fil 2,7) della divinità, cioè della sua natura. Paolo infatti usa il verbo «ekènōsen» che ha il senso della privazione/mancanza/impoverimento. Nel momento in cui Gesù mette piede a Cana e dà inizio al «principio dei segni», Dio rinuncia per sempre alla sua onnipotenza per essere il Dio svuotato che può essere conosciuto solo nella rivelazione del volto del Figlio, volto umano e non più divino, volto opaco che bisogna indagare, scrutare, riconoscere e amare.

Dio è «pesante»
La «Gloria» che egli manifesta a Cana è solo un altro «principio» che si compirà alla fine del suo percorso, sulla croce, dove l’impotenza di Dio diventerà il fondamento della salvezza universale, quando Dio rinuncia per sempre a dare «spettacolo» a buon prezzo, scendendo dalla croce, per essere per sempre «uomo tra gli uomini», umano tra gli umani con la fatica di sopportare il limite, la ricerca e la morte. La «Gloria» che comincia a manifestarsi a Cana si compirà a Gerusalemme, cuore della fede e dell’alleanza di Israele che è il tempio della Città Santa.
In ebraico «Gloria» si dice «kabòd» (in greco dòxa) e l’idea originaria di fondo è «il peso», cioè la consistenza, la stabilità. Una persona è «gloriosa» se ha «peso», cioè se ha un essere consistente e solido; per questo l’orientale ama il «grasso»: la persona grassa è più pesante e ha più consistenza e quindi è più «gloriosa». La persona mingherlina è senza valore perché non ha «peso/essere», o quanto meno ne ha poco.
Gesù a Cana manifesta per la prima volta il suo «peso», cioè fa intravvedere la sua profonda personalità, che è solida e stabile perché suscita la reazione dei discepoli, che a loro volta si mettono in moto perché «cominciarono a credere».
La Gloria del Dio dell’alleanza nuova non può non manifestarsi sulla croce, quando l’ora di Gesù segna il tempo di Dio, perché «bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria» (Lc 24,26). Mosè visse per poter vedere la Gloria del Dio del Sinai: «Mostrami la tua gloria» (Es 33,18), ma dovette accontentarsi di sentire Dio di striscio, anzi per «intuizione» perché non era ancora arrivata «l’ora della croce» che è la sola che segna la Shekinàh nuova di Dio in mezzo all’umanità:

«19Rispose: “Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te… 20Soggiunse: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”. 21Aggiunse il Signore: “… 22quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. 23Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere”» (Es 33,19-23).

Da Cana alla Croce, il desiderio di Mosè è compiuto perché, nel suo abitare in mezzo a noi, il Lògos si rende sperimentabile e palpabile (1Gv 1,1-4) e si offre alla nostra contemplazione: «…e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno della grazia della verità» (Gv 1,14). In altre parole, Cana è «il principio», cioè il punto fondamentale e iniziale della nuova rivelazione, che non si sostituisce a quella del Sinai, ma la riprende per portarla a compimento (Mt 5,17).
Si potrebbe dire che Cana è la chiave di lettura di tutto il vangelo e senza Cana non si può comprendere quello che segue. Tutte le parole, i discorsi, le azioni di Gesù riportate dal IV vangelo devono essere lette alla luce di quanto avviene a Cana dove Gesù apre la cantina del monte Sinai che custodisce il vino messianico e lo distribuisce a quanti sono disponibili per la purificazione e ricevere la nuova Toràh che non è più una coppia di pietre scritte, ma la persona stessa del Figlio che abolisce la distanza che impediva a Mosè di vedere la Gloria.
Ora chiunque può vedere la Gloria e misurae la consistenza e il peso, basta che «cominci a credere», cioè si apra all’incontro che segna «il principio» dell’alleanza nuova per dare inizio a un nuovo esodo che porterà non tanto a una terra da possedere, ma al Calvario, a un Dio che offre la sua vita come «principio e fondamento» del nuovo tempio di Dio: l’umanità stessa di Dio e di ogni creatura.

Il «segno» non è un miracolo
Abbiamo tante volte fatto riferimento al termine «segno», distinguendolo dal termine «miracolo» per evitare confusioni. Oggi, nonostante siamo nel terzo millennio, indugiamo facilmente al miracolistico, spesso banalizzando anche il comportamento di Dio che viviamo come proiezione del nostro agire. Per la nostra cultura, «miracolo» è qualcosa che avviene contro o almeno superando le leggi di natura e quando non abbiamo risposte immediate a situazioni o eventi, diciamo con superficialità «è un miracolo», per dire di cosa inattesa, improvvisa, impossibile.
Non solo, usiamo il «miracolo» e lo esigiamo come «prova». Per la beatificazione o la santificazione di qualcuno, si chiede «un miracolo» come prova che Dio è dalla sua parte. Se vogliamo entrare nella mente dell’autore del vangelo, dimentichiamo questo modo di ragionare «ragionieristico» che appartiene alla religione dell’efficienza e siamo disponibili a entrare nel mondo della fede che non chiede prove o miracoli da mostrare, ma cerca il Volto da contemplare.
L’autore del IV vangelo usa il termine «sēmèion» che vuol dire «segno», dove ricorre 17 volte: 8 volte nel racconto dell’evangelista che narra (Gv 2,11.23; 4,54; 6,2.14; 12,18.37: 20,30), 7 volte lo usano i Giudei per giustificarsi nella loro incredulità verso Gesù (Gv 2,18; 3,2; 6,30; 7,31; 9,16; 10,41; 11,47) e 2 volte soltanto lo usa Gesù (Gv 4,48; 6,26). Se osserviamo bene, escluso uno (Gv 20,30), tutte le altre 16 volte il termine è utilizzato solo ed esclusivamente nella prima parte del vangelo, quella che appunto viene chiamata e distinta come «Vangelo dei segni», mentre la seconda parte è detta «Vangelo dell’ora». La prima parte del vangelo è propedeutica, è introduttiva alla seconda e ci aiuta a penetrare il momento drammatico della «morte di Dio», che paradossalmente diventa la vita degli uomini: è un atto creativo del nuovo Adam ed Eva che è il Regno di Dio, la Chiesa, la nuova Umanità.
Il «segno» non è un miracolo, tanto meno un gesto con cui si vuole dimostrare qualcosa. Se Giovanni avesse voluto parlare di dimostrazione avrebbe usato un altro vocabolario, come «dýnamis – potenza» o «tèras – miracolo/prodigio», anche perché in Gv 4,48 è Gesù stesso che rimprovera questo tipo di religiosità: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete» e usa i due termini «sēmêia kài tèrata», distinguendo così le due parole anche da un punto di vista semantico.
Il «segno» è un indirizzo, un’indicazione, una direzione, un simbolo, una prospettiva, un modo di vedere e di pensare. Esso esige attenzione più che meraviglia, perché l’attenzione prestata al «segnale» deve condurre eventualmente a scelte di vita.
Se il «miracolo» ha l’obiettivo di colpire l’immaginario e lasciare storditi, per cui è indirizzato all’emotività, il «segno», al contrario, si rivolge alla coscienza e alla ragione, cioè al pensiero e quindi alla decisione.

Il segno, il segnale, la contemplazione
Il «segno di Cana» ci svela l’inganno delle apparenze: quello che sembrava non è e quello che non appariva si manifesta: lo sposo non è il malcapitato del racconto che resta senza vino, ma lo «Sposo» è Gesù, che dà inizio al tempo delle nozze dell’umanità sulla scia dell’alleanza incompiuta del monte Sinai.
Nel secondo «segno» che Gesù compie (Gv 4, 46-54) e cioè la guarigione del figlio del centurione romano «il segnale» sta nel fatto che Gesù si presenta non più come sposo, ma come il Dio creatore che dà la vita. Le nozze e il figlio del centurione sono i primi due «segni» e avvengono tutti e due «a Cana di Galilea», cioè nella regione che era considerata pagana. Un «segno» (le nozze) si compie in ambito ebraico e uno (guarigione) in ambito pagano.
Lo stesso paradigma avremo ai piedi della croce, dove «stanno» quattro donne ebree/credenti e quattro soldati romani/non credenti (Gv 19,23-25). È evidente che l’evangelista vuole mandarci «un segnale» di grande valenza: Gesù non è venuto solo per i Giudei, ma per tutti, e fin dal primo momento (Cana) nessuno ha escluso dalla sua prospettiva e dalla sua azione. Si afferma così il principio della fede universale.
«I segni» che Gesù compie hanno il compito di rivelarci le diverse angolature della complessa personalità di Gesù. Si potrebbe dire che «i segni» sono il nuovo monte Sinai che «svela» la vera natura di Gesù, il volto nuovo di Dio divenuto accessibile; per renderci più facile il cammino ci lascia indizi e segnali perché non ci smarriamo.
Un segno infatti rimanda sempre a una realtà ulteriore che non è sperimentabile e quantificabile. Nel vangelo di Giovanni sono riportati solo «sette segni», più uno verso cui convergono i primi sette, quasi a dire che essi sono sufficienti a esprimere la totalità (= il numero 7) della personalità del Signore. Basta avere la pazienza di «ascoltare» i segni e di seguie le tracce per imparare a conoscerlo.

Sette segni più uno
Il primo segno, l’acqua/vino delle nozze di Cana, è il «prototipo» di quelli che seguiranno e ci presenta Gesù come sposo nella nuova alleanza (cf Gv 3,29). Non ha ancora finito di porre «il primo segnale» del nuovo tempo nuziale, che già lo stesso Gesù sente l’esigenza di anticipare l’ultimo segno, «il segno dei segni»: la morte e risurrezione; scacciando i venditori del tempio che avevano trasformato la casa di preghiera in spelonca di latrocinio, Gesù sfida: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,18-19). Il segno/tempio di cui parla Gesù è il suo corpo, il luogo dove Dio viene annientato e dove l’umanità viene fecondata. Per questo possiamo dire che la morte e risurrezione di Gesù sono «il segno ottavo», l’ultimo, il compimento della storia della salvezza o meglio della salvezza che si è fatta storia.
Il secondo segno che svela Gesù è la guarigione del figlio del funzionario regio (Gv 4,46-54). Lo sposo ha fecondato la sposa e dona la vita al figlio che ne era privo.
Il terzo segno è la guarigione del paralitico, compiuta di sabato (Gv 5,1-9), atto sacrilego e bestemmia per la religione. È il segno che Dio si riappropria della sua prerogativa di creatore e non esita a sconfinare i limiti della religione.
Il quarto e il quinto segno sono la moltiplicazione dei pani e Gesù che cammina sulle acque (Gv 6,1-12). Il segno è duplice: per un verso Gesù si presenta come il creatore che nutre Adam e domina le acque della creazione, e dall’altra è colui che dà la nuova manna discesa dal cielo e attraversa il nuovo Mare Rosso per l’esodo verso il Regno di Dio. È per noi il segno dell’Eucaristia che è la sintesi dell’esperienza dell’esodo, ma anche l’anticipazione del Regno che viene.
Il sesto segno è la guarigione del cieco nato (Gv 9,1-41); siamo invitati a vedere in Gesù la «luce del mondo» per non fare la fine «dei suoi» che come le tenebre lo hanno rifiutato (cf Gv 1,3-5).
Il settimo segno è l’anticipo dell’ottavo: la risurrezione di Lazzaro dopo la sua putrefazione; erano infatti trascorsi quattro giorni dalla sua morte (Gv 11,17-44). È Gesù stesso che ne spiega il significato nel dialogo con Marta: «Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?» (Gv 11, 25-26).
Alla fine della prima parte del vangelo (Gv 1-12), se abbiamo seguito i «segni» senza sperperarli in miracoli e prodigi, giungiamo a scoprire che «l’uomo che si chiama Gesù» (Gv 9,11) è lo stesso che sulla croce, morendo, «chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30), riportando l’umanità «al principio» della creazione, quando Adam ed Eva offuscarono lo spirito insufflato da Dio. Ora tutto è ripristinato, lo Spirito di Gesù anima ogni Adam perché scende da quella croce sulla madre e sul discepolo, su un uomo e una donna, sui soldati romani e sugli Ebrei, sull’umanità tutta. Ora veramente la nuova storia può cominciare. 

Paolo Farinella




Cana (33): «Gustate e vedete come è buono il Signore»

Il racconto delle nozze di Cana (33)

Gv 2,8-10: 8E dice loro: «Adesso cominciate ad attingere e continuate a portae all’architriclìno.
9Come poi l’architriclìno gustò l’acqua divenuta vino – e non sapeva da dove è, ma sapevano i diaconi/servitori, loro che avevano attinto l’acqua -, l’architriclìno chiama lo sposo 10e gli dice: «Chiunque prima mette il vino “eccellente” (lett. «vino bello») e, quando sono ubriachi, il peggiore; tu hai custodito il vino “eccellente” fino ad ora».

Nella puntata precedente abbiamo volutamente omesso l’ultima parola di Gv 2,8 dove per la prima volta interviene un nuovo personaggio, fin qui assente: l’architriclino (gr.: architrìklinos) che la Bibbia Cei (2008) traduce con la circonlocuzione «colui che dirige il banchetto». Questo personaggio ritorna altre due volte nel testo greco di Gv 2,9, mentre la Bibbia-Cei (2008) ne elimina una, lasciandola sottintesa, modificando così la portata voluta dall’autore. Dice la Bibbia-Cei: «Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse».
Dice il testo greco: «Come poi l’architriclino gustò l’acqua… l’architriclino chiamò lo sposo e gli disse», ripetendo per la terza volta il riferimento esplicito al personaggio che è l’architriclino.
Più volte abbiamo detto che la traduzione Cei privilegia non l’esegesi, ma l’immediata comprensione perché la Bibbia viene «ascoltata» prevalentemente nella liturgia. Per questo motivo, sceglie una traduzione immediata, «orecchiabile» in italiano, ma in molti casi a danno della particolarità del testo e quindi, secondo noi, della sua stessa comprensione che non è quello che appare, come in questi versetti di Giovanni.
Usi per il matrimonio ebraico
La figura del personaggio «architriclino» è citata tre volte di seguito in due versetti (cf Gv 2,8-9). Sappiamo che quando Gv ripete due volte una parola o un nome vuole richiamarci ad andare oltre il testo scritto, a un senso più profondo, nascosto e impegnativo. Cerchiamo di immergerci nel profondo del pensiero dell’autore per scoprire chi è l’architriclino e quale significato abbia.
Le nozze ebraiche si svolgevano di norma in casa del padre dello sposo e duravano alcuni giorni, anche una settimana. Il matrimonio avveniva il terzo giorno, cioè il martedì, perché nel terzo giorno Dio crea due cose: le acque del mare e la terra e per due volte «vide che era cosa buona» (Gen 1,10.12): il martedì quindi è il giorno della doppia benedizione, della duplice fecondità del mare, che produce i pesci, e della terra, che produce alberi e frutti.
Un secondo motivo per cui il matrimonio si celebra il martedì (terzo giorno) consiste nel fatto che il quarto giorno, cioè il mercoledì, si riuniva il tribunale a cui si poteva presentare eventuale accusa di non-verginità della donna e dichiarare subito invalido il patto nuziale. Durante la prima notte di nozze, gli amici dello sposo vegliavano fino all’alba, quando le lenzuola sporche di sangue erano esposte con orgoglio al pubblico come prova della verginità della donna, la quale le conservava per tutta la vita.
La festa del matrimonio era complessa; svolgendosi in casa del padre dello sposo, occorreva un’organizzazione sostenuta per fare fronte all’approvvigionamento delle vettovaglie per molti ospiti e per diversi giorni. Il compito del responsabile delle nozze, che l’evangelista qui chiama «architriclino», era delicato perché doveva calibrare le necessità e fare in modo che tutti potessero mangiare, bere e divertirsi senza problema.
Gli sposi erano separati dagli invitati e stavano sotto un baldacchino: la sposa oata come una regina e lo sposo come un re, assisi sul trono regale del matrimonio, simbolo delle nozze tra Dio e Israele. Uomini e donne erano separati e stavano in spazi distinti con servizi indipendenti, per cui non si capisce come la madre e suo figlio abbiano potuto dialogare tra loro, dovendo stare in ambienti diversi e distinti, a meno che non si accetti l’ipotesi che ci troviamo di fronte a un aneddoto, cioè a un midràsh, con finalità teologiche, e quindi non di fronte ad un fatto storico.
Un personaggio nuovo e il suo simbolo
Il richiamo alla figura dell’architriclino, nominato tre volte in appena due versetti, nel contesto del racconto, indica una figura usuale nel matrimonio ebraico di famiglie abbienti che si potevano permettere un’organizzazione e una festa nuziale di grande partecipazione. In questo senso la sua presenza ci dice soltanto che le nozze erano di una famiglia benestante; la figura del responsabile delle nozze quindi, se ci trovassimo davanti alla cronaca di un fatto, avrebbe un valore narrativo senza un particolare significato: c’è un matrimonio di una famiglia benestante con molti invitati e necessita un organizzatore della festa che si protrae per giorni.
Nell’intenzione dell’autore del vangelo, però, il fatto storico cede il passo al valore simbolico, che esige da noi una particolare attenzione. Crediamo sia importante, infatti, sottolineare ancora una volta che in tutto il racconto, la sposa non è nemmeno menzionata, mentre lo sposo è citato una sola volta (cf Gv 2,9) e solo per essere rimproverato, mentre l’architriclino è nominato tre volte di seguito (cf Gv 8-9). Non può assolutamente essere una casualità. Dietro vi è una intenzione specifica, che il lettore deve scoprire su indicazione dello stesso Gv che lascia l’indizio delle tre citazioni. 
Sul valore simbolico dell’architriclino diverse sono le posizioni degli esegeti. Alcuni (Mateos-Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 143; F. Manns, L’Evangile, 103) partono dall’analisi filologica e accostano «architriclino» al sostantivo «àrchōn-capo/responsabile», che nel IV vangelo ricorre 4 volte (cf Gv 3,1; 12,31; 14,30; 16,11) e una volta in Ap 1,5, con cui si fa riferimento alle autorità giudaiche. Il riferimento dunque sarebbe a «capi dei giudei-àrchōntes» (cf Gv 3,1; 7,26.48) o anche al «sommo/i sacerdote/i-archierèus» (cf Gv 11,47.51; 18,10.13.15.16.19.22.24.26.35; 12,10; 19,15.21) a cui si collegano di solito anche i «farisei» che fanno parte dei «capi» (cf Gv 7,32.45; 11,47.57; 18,3).
In questo contesto e nell’economia del racconto, l’architriclìno rappresenterebbe i responsabili del popolo che si sono dimostrati inadatti a cogliere la novità dell’alleanza e la svolta intervenuta con l’ingresso di Gesù nelle nuove nozze rinnovate a Cana. I capi assaggiano il vino eccellente, ma non sanno di dove proviene e, fatto ancora più grave, non sanno leggere il suo significato. Essi si fermano alla banalità dell’evento come appare ai loro occhi ciechi.
Bibbia e giornale, Parola e vita
Il vino estratto dalle giare di pietra, vino «eccellente» (in greco è kalòs: «vino bello»), non è dato direttamente al popolo, ma per primo viene offerto ai capi, a coloro che hanno il compito di constare gli eventi e sancire l’intervento di Dio (cf Lc 17,14) per il semplice fatto che avevano gli strumenti adeguati per «vedere» Dio operare nella storia: essi, infatti, «ascoltano» la Parola e «verificano» i fatti, gli eventi; hanno quindi i due strumenti principi per il discernimento profetico: gli eventi della storia e i criteri della Parola o, come direbbe Karl Barth, il giornale e la Bibbia. Eppure, pur essendo così privilegiati, sono inadeguati e anche inadempienti, perché si fermano alla superficie delle cose: ai fenomeni appariscenti e non sono capaci di scendere nel pozzo profondo della realtà per incontrare le correnti della vita e le dinamiche dello Spirito. Sono talmente tronfi di se stessi e della loro funzione, anzi ubriachi del loro ruolo, che identificano il loro stesso pensiero, limitato e limitante, con la volontà di Dio.
Gli architriclini sono chiamati non a contrabbandare il loro volere con quello di Dio, ma a riconoscere il vino eccellente, portato dai diaconi e attinto alle giare della vita e delle circostanze. Dio è il miracolo permanente che sta nelle pieghe dell’ordinario più usuale e bisogna avere ascolto fine e sguardo attento per coglierlo oltre il consueto e il banale: non si valuta infatti una opinione, ma si contempla l’evento straordinario della salvezza che si fa storia. Compito dell’autorità non è comandare, ma «ascoltare» la Presenza di Dio dovunque essa si nasconda e dovunque voglia riposare.
L’architriclino del racconto, invece, si limita a osservare che vi è stata una variazione di programma, lo scambio nell’ordine della presentazione dei vini: ha assaggiato il vino eccellente, ma non ha gustato né ha assaporato la novità di quel vino, né si è chiesto come mai fosse capitato proprio lì. Per lui quel vino che pure chiama «eccellente», doveva essere servito «prima», riservando a «dopo» quello scadente. Non si è reso conto che la successione tra «prima e dopo» è saltata, perché quando Dio interviene, non è più il tempo, il «chrònos», a regolare gli eventi, ma solo e unicamente il «kairòs», cioè l’occasione propizia che porta novità e cambiamento.
Se l’architriclino rappresenta i «capi/sommi sacerdoti», egli come questi, non solo non sa riconoscere il senso del vino nuovo, ma vuole impedire che il «secondo vino», cioè Gesù, entri nell’otre del «primo vino» che è quello dell’alleanza del Sinai, perché «non [è] venuto ad abolire la Legge o i Profeti…, ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17). Per la religione ufficiale il passato è inamovibile, è sicurezza, è l’utero del caldo riposo dove ci si può crogiolare in attesa del nuovo che non arriverà mai, perché cuore, occhi e gusto sono tutti fermi e imbalsamati in un tempo addietro, senza vita e senza prospettiva: una fotocopia sbiadita di qualcosa che non saprà mai suscitare gli spasmi dell’amore che vive di attesa e di sospiri, di paura e di speranza. Bloccati nel passato, vivono del passato, fuori del presente, morti al futuro.
Oltre il passato, l’oggi
L’architriclino «e i capi del popolo sanno che Dio ha parlato a Mosè, e questo basta loro per restare suoi discepoli» (cf Eraldo Tognocchi, Le nozze di Cana, 168). Per essi è fuori di ogni logica che vi possa essere qualcuno più grande di Mosè, sebbene lo stesso profeta lo abbia previsto: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto» (Dt 18,15). Anche la Parola di Dio viene vanificata dai cultori del passato che così mettono una ipoteca sulla stessa volontà salvifica di Dio, riducendola a mero strumento di esercizio di potere: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione» (Mc 7,9). Gesù stesso dunque distingue tra una tradizione «vostra» e il «comandamento», perché aveva già previsto che gli uomini di chiesa avrebbero sacrificato volentieri il secondo sull’altare della presunzione della prima perché dimentica sempre che ogni tempo è tempo di Dio.
Un’altra posizione, sempre sulla linea della simbologia, è espressa dallo studioso Xavier Léon-Dufour (Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, I,308), secondo il quale, l’architriclino è una figura positiva, il cui compito è constatare che finalmente è arrivato il «vino eccellente» e le parole allo sposo, lungi dall’essere parole di rimprovero sono solo una battuta scherzosa, quasi una celia, come dire: Ah, bricconcello, hai voluto cogliere tutti di sorpresa, dando all’inizio vino scadente e portando in tavola solo alla fine vino eccellente! Ci sei riuscito, bravo! (cf Ibidem, 300). Su questo stesso versante si colloca anche Aristide Serra (Le nozze di Cana, 384-389), che riconosce il valore simbolico del personaggio, ma lo colloca sulla linea dello «stupore/sorpresa» e non già su quella dell’incapacità, che è conseguenza dell’ignoranza di quanto è accaduto: l’architriclino, «il maestro (o incaricato) di mensa, constata, si direbbe con lieta sorpresa, che il vino offerto alla fine, da lui “gustato”, è di qualità superiore, e non sembra biasimare lo sposo per questo. Semplicemente, egli “non sa da dove venga” quella sorpresa. La sua meraviglia rimane senza risposta» (Ibidem, 384). Serra poi nella nota 667 (p. 384) mette in relazione Gv 2,9-10 con Eb 6,4-5 che usano gli stessi vocaboli nello stesso senso e con lo stesso scopo:

Sia in Gv che in Eb si trovano tre pensieri espressi: il verbo gèuō-io gusto; l’aggettivo kalòs-bello/buono/ eccellente e la parola di Dio, rhêma theoû, esplicita in Eb e simboleggiata nel vino in Gv. A. Serra conclude la nota con il riferimento a 1Pt 2,3 che ricorre alla metafora del latte per indicare la stessa Parola di Dio. In conclusione lo stupore dell’architriclino non è altro che l’anticipo di tutti gli altri «stupori» che s’incontrano nel vangelo di fronte ai «segni» operati da Gesù, suscitando così la domanda sulla sua persona e sulla sua identità: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?» (Gv 6,42; cf Mt 13,54-57; Mc 4,41; 6,1-6; Lc 5,21).
Quale Dio per quale Umanità?
Le due interpretazioni simboliche non si escludono né sono alternative, semmai si integrano, perché da un lato è vero che gli «architriclini-sommi sacerdoti e capi» non sono stati all’altezza della novità che la storia portava e dall’altra è pure vero che «anche tra i capi, molti credettero in lui, ma, a causa dei farisei, non lo dichiaravano, per non essere espulsi dalla sinagoga» (Gv 12,42). Da un lato, quindi, c’è l’incapacità di cogliere la novità da parte di un’autorità, lenta per sua natura e anche paurosa di aprirsi al nuovo, che è sempre una incognita di destabilizzazione del potere acquisito, e dall’altra c’è lo stupore/meraviglia che nasce dal «gusto» di un vino mai assaggiato prima. C’è la coscienza, ma non è avvertita perché si ferma al dato e non va oltre.
Gesù non è rappresentabile con l’immagine pietistica del «sacro cuore», bonaccione e melenso con gli occhi stralunati come se fosse reduce da un party a base di cocaina o con i capelli biondi intrisi di brillantina al gel per farlo apparire più come un hippy ante litteram che come un ebreo-palestinese, assolato e olivastro. Tutto ciò serve ad alienare e a estrapolare il senso di Dio dalla realtà e trasferirsi in un limbo nebuloso di spiritualismo separato dalla vita e dalla storia, disincarnando la sua incarnazione, trasformata in un accidente di cui si sarebbe fatto volentieri a meno.
Al contrario, Gesù porta lo scisma e, dove arriva, impone una scelta e, infatti, dovunque va esercita un magistero che esige una risposta: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada» (Mt 10,45); sulla stessa linea il vangelo apocrifo di Tommaso: «Gesù disse, “Ho appiccato fuoco al mondo, e guardate, lo curo finché attecchisce… Forse la gente pensa che io sia venuto a portare la pace nel mondo. Non sanno che sono venuto a portare il conflitto nel mondo: fuoco, ferro, guerra”» (Vangelo Tommaso nn. 10 e 16).
Di conseguenza, nel popolo molti lo accolgono con entusiasmo, altri lo rifiutano con consapevolezza (cf Gv 7,43; 10,19); lo stesso avviene tra i farisei (cf Gv 9,16) e tra i soldati del tempio che arrivano a disobbedire agli ordini ricevuti perché «mai un uomo ha parlato così!» (Gv 7,46). Da qui attraverso il misterioso personaggio dell’architriclino giunge fino a noi la domanda a cui non possiamo sfuggire: chi è Gesù per me? Oggi, adesso e qui?
(33 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




(Cana 36) «A mezzanotte si alzò un grido: Ecco lo sposo!» (Mt 25,6)

«A mezzanotte si alzòun grido: Ecco lo sposo!» (Mt 25,6)


«La nuova Gerusalemme… pronta come una sposa»   (Ap 19,7 e 21,25)


Gv 2,9d-10: «L’architriclìno… chiama lo sposo 10e gli
dice: “Chiunque all’inizio/dapprima offre il vino ‘bello’/eccellente e quando
[tutti] sono ubriachi, quello scadente; tu, [invece] hai voluto conservare il
vino ‘bello’/eccellente fino ad ora”».

Siamo alle battute finali del racconto delle nozze di Cana,
che ci ha svelato una prospettiva nuova, proiettata verso il contesto della
storia già accaduta, ma che deve ancora avvenire in maniera compiuta. Giunti
alla fine prendiamo atto che, come abbiamo detto più volte, non vi è cenno alla
sposa che è la grande assente del racconto. Ma la sua assenza è ingombrante,
perché parla più ancora che se fosse presente: la finalità del racconto, nell’ottica
dell’autore, non è la cronaca di un matrimonio o la santificazione anticipata
dello sposalizio cristiano, come se Gesù stesse istituendo «il sacramento»
nuziale; al contrario, l’obiettivo specifico, che ora dovrebbe essere certo per
noi che abbiamo vissuto questo percorso insieme a tutti i personaggi del
racconto, è il rinnovo dell’alleanza del Sinai nella persona di Gesù, il vero
sposo, atteso dall’umanità.

In mezzo a voi c’è uno che non conoscete

Per la terza volta consecutiva in due versetti, l’autore
nomina l’«architriclino», il responsabile organizzativo dei rifoimenti per la
festa perché tutto si svolga senza problemi. Egli però non è riuscito a gestire
«l’evento», perché è stato travolto dalla mancanza di vino, di cui non si è
nemmeno accorto, perché ha provveduto «la madre».

Nell’ottica dell’evangelista, costui non è un organizzatore
qualsiasi; egli, al contrario, è il rappresentante ufficiale dell’«archierèus/capo
dei sacerdoti», cioè dell’autorità ufficiale d’Israele, che avrebbe dovuto garantire
la realizzazione dell’alleanza, mentre invece si è affaccendata in tutt’altro
(cf Gv 18,13). Finalmente troviamo lo «sposo», che è una figura secondaria,
quasi inutile, anzi inesistente, se non fosse per l’incidente del vino mancato,
che «l’autorità» presente interpreta in maniera banale come un errore di
organizzazione. Quando l’autorità manca di prospettiva, finisce sempre per
essere un ostacolo. Ad andare più in profondità, però, scorgiamo che
l’«architriclino», senza nemmeno rendersene conto, dice due cose importanti:

a) il vino nuovo, quello che viene dopo, è superiore a
quello che c’era prima: è eccellente;

b) manifesta la sua sorpresa per la superiorità del vino
nuovo, quasi a volere dire che in tutta la sua vita non ne aveva assaggiato uno
come questo. Nonostante questa constatazione e il suo «stupore», egli non
riesce ad andare oltre: l’espressione che rivolge allo sposo, «fino ad ora»,
lascia intendere che ci troviamo di fronte a due epoche, a due tempi, a due
mondi: il mondo «fino ad ora» e il mondo che comincia da «adesso in poi». Egli
non si rende conto della presenza di Gesù e dell’azione da lui compiuta, per
cui non si apre al fatto nuovo accaduto sotto i suoi occhi, che spacca in due
la storia e il tempo, in «prima di Cristo» e «dopo di Cristo».

Per l’autorità religiosa il «nuovo» è prigioniero del
passato, una integrazione nella continuità della tradizione per cui nulla
cambia, anche se tutto si trasforma. Oggi si direbbe «l’ermeneutica della
continuità» che spiega certamente una linea teologica o, se si vuole, anche
religiosa, nel senso di dare sicurezze e tranquillità a chi magari soffre di
cuore e non vuole scomporsi più di tanto, restando fermo al calduccio
dell’utero materno. Per questa logica, però, nulla può succedere di decisivo e
dirompente, perché tutto deve avvenire in forma programmata e lineare.

La storia, come la vita, mai è lineare, ma è sempre protesa
verso il futuro, con andamento in parte lineare, in parte storto, in parte
aggrovigliato e a volte anche senza senso. È l’esperienza che ognuno di noi fa
ogni giorno e non si capisce perché questo criterio debba valere per ciascuno
di noi e non può valere per la storia degli eventi, considerata in sé.

L’uomo religioso creò Dio sua immagine e somiglianza

Con il cambiamento dell’acqua in vino, Gesù opera una
rottura: c’è un prima e c’è un poi, esattamente come prima c’era l’acqua e dopo
c’è il vino: non si può fare finta che gli eventi debbano adattarsi a noi;
semmai siamo noi che dobbiamo entrare nel cuore degli avvenimenti per scoprire,
lì, il comandamento di Dio. Quando vogliamo interpretare i «kairòi – le
occasioni» di Dio con i nostri criteri, non dovremmo mai dimenticare il monito
di Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono
le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le
mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri»
(Is 55,8-9).

Spesso, anche noi, come l’architriclino del racconto,
vogliamo insegnare a Dio il suo mestiere e pretendiamo che agisca secondo i
nostri canoni e le nostre mentalità. La Bibbia, la Parola ci è data non per
fae una lettura spirituale, ma per imparare a conoscere la «mens» di Dio e
inserirci in essa per sposarla, condividerla e praticarla.

A volte si ha l’impressione che i credenti, e anche gli
addetti specifici alla vita religiosa, dicano di credere in «un Dio a loro
immagine e somiglianza» e non nel Dio di Gesù Cristo, il quale è venuto a
rivoluzionare ogni sistema religioso che pretende di incatenare Dio in schemi
precostituiti. Ci fermiamo, come l’architriclino, solo a un «assaggio» e non
siamo in grado di andare oltre, perché abbiamo paura di oltrepassare il confine
che ci siamo imposto. Invece di alzarsi in piedi, abbandonando la comodità
oziosa del banchetto, e chiedere ai presenti che cosa fosse quella novità,
perché sconvolgeva la «tradizione» usuale, si limita a chiamare lo sposo per
dargli un buffetto sulla guancia. Non si accorge che lo Sposo è un altro e non
si rende conto che ben altre nozze si stanno celebrando, né prende coscienza
che un tempo è finito e tutti, lui e noi, siamo entrati in un’altra dimensione.

L’autorità che avrebbe dovuto guidare il popolo in attesa
alla scoperta dei «segni dei tempi» per cogliere la Shekinàh – Dimora/Presenza
del Signore, resta seduto al suo tavolo ad assaggiare il vino, comunque arrivi,
facendo perdere anche ai presenti «la novità» della presenza eccezionale e
decisiva del Signore: «Stolti e ciechi! Voi … trasgredite il comandamento di
Dio in nome della vostra tradizione?» (Mt 23,17; 15,3).

Cana, il simbolo della nuova alleanza

Solo a questo punto, in Gv 2,10, dopo ben 10 versetti,
riusciamo a capire, come per uno squarcio, che ci troviamo di fronte a un
evento straordinario, inaspettato: lo sposo non è il pover’uomo rimproverato
dall’autorità per avere fatto male i conti, ma è un Altro, è colui che è
annunciato nella notte alle vergini sia stolte che prudenti, cioè a tutta la
comunità: «A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”»
(Mt 25,6). Egli ha in mano la chiave del Sinai, la cantina in cui è custodito
il vino del Messia e finalmente lo distribuisce all’umanità invitata a
partecipare alle nozze dell’alleanza.

Solo ora scopriamo che «Cana» è un simbolo, un richiamo
appena velato che ci rimanda a una realtà ben più significativa e corposa:
l’irruzione di Dio nella storia che ora si compie nella persona del Signore
Gesù. Per questo la «madre», in rappresentanza di Israele, può chiedere al
Figlio di dare finalmente questo vino, perché i figli da lungo tempo ne sono
privi; il suo «vino-non-hanno-più» non è la mesta constatazione di un disagio
momentaneo a un matrimonio di amici, ma l’anelito di tutte le attese e speranze
d’Israele, degnamente rappresentato dalla «madre» che funge anche da sposa,
anzi da vedova, che apre le porte di Sion ai figli lontani, invitandoli a
ritornare da ogni esilio, dolore, smarrimento e sedersi alla mensa delle nozze,
perché «è il Signore!» (Gv 21,7).

Finalmente scopriamo il ruolo dei personaggi: la «madre» è
la sposa d’Israele in attesa del suo Signore e il Figlio svolge il ruolo dello
Sposo atteso, del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, quello rivelatosi sul
monte Sinai al profeta Mosè che, nella funzione di «amico dello Sposo»,
consegnò in nome di Dio a Israele radunato intorno al monte le tavole nuziali
del patto d’amore.

Di fronte alla scoperta del vino «bello», superiore a quello
già esistente, tutto cambia e tutto acquista un senso nuovo. Possiamo con
certezza dire che tutto il racconto è un simbolo per metterci in guardia, per
dirci di fare attenzione al vero Sposo che è presente e che rischiamo di non
riconoscere se ci fermiamo alle apparenze del gusto e dell’ovvio. Ora ci appare
anche chiaro perché, immediatamente dopo il racconto del «segno di Cana»,
Giovanni il Battezzante presenta Gesù come lo Sposo (cf Gv 3,25-30), riservando
per sé la funzione tipica dell’uso giudaico di «amico dello sposo». In questo
modo vediamo Giovanni Battista come l’antitesi perfetta dell’architriclino:
questi non si accorge nemmeno dello Sposo che inaugura gli «ultimi tempi» del
compimento nel segno del vino «bello»; il Battista invece ha coscienza di
esistere solo per indicare agli altri, al mondo, chi è lo Sposo atteso,
accettando per sé la funzione di paraninfo, cioè di amico, impegnato a
preparare le nozze senza fine (cf Gv 3,39).

La sposa è chiunque crede che Gesù è il Signore

A questo punto è necessario uscire dal simbolismo per
entrare nel cuore dell’annuncio. Gesù è stato «chiamato» alle nozze, come Mosè
è stato «chiamato» in cima al monte Sinai. Gesù si presenta «per» le nozze con
i suoi discepoli. Alcuni di questi gli erano stati mandati da Giovanni il
Battista, quando nel capitolo precedente aveva indicato «l’Agnello di Dio» e
due erano voluti andare a «vedere» dove Gesù abitasse, fermandosi fino alle ore
16 (cf Gv 1,35-39), cioè l’ora in cui nel tempio di Gerusalemme, il sommo
sacerdote (archierèus) uccideva l’Agnello, versando il suo sangue come sangue
dell’alleanza tra Dio e Israele.

Se Gesù è lo Sposo e Giovanni il Battista «conduce» i
discepoli a lui, con cui poi si fermano insieme alla «madre» alle nozze, fuori
metafora, ecco la realtà: Gesù è lo Sposo e i discepoli con la madre sono la
sposa, cioè il popolo d’Israele nella nuova versione della comunità ecclesiale.
In altre parole, la madre e i discepoli sono il modello di coloro che credono,
il «segno» visibile della nuova Chiesa che riprende in mano e nella vita
l’alleanza del Sinai, affinché guidata dal nuovo Mosè, Gesù, possa
intraprendere il nuovo pellegrinaggio verso il regno.

Chiunque crede diventa la sposa. Ecco perché nel racconto
non può essere presente una sposa qualsiasi: perché sono sufficienti la madre,
gli apostoli e tutti coloro che sul loro esempio crederanno nel Figlio che apre
i tempi nuovi e i cieli nuovi dell’alleanza nuova. Questa idea si trova anche
nell’Apocalisse, che appartiene alla letteratura giovannea, ed è descritta come
sposalizio tra l’Agnello/Sposo e Gerusalemme/sposa: «Sono giunte le nozze
dell’agnello; la sua sposa è pronta… vidi la città santa, la nuova
Gerusalemme, scendere, da Dio, pronta come una sposa adoa per il suo sposo»
(Ap 19,7 e 21,2).

Dio, senza passato né tradizioni

Da un punto di vista strettamente esegetico, possiamo
rilevare che l’espressione di Gv 2,10 da noi tradotta con «chiunque», e da
altri con «tutti», alla lettera sarebbe «ogni uomo» (pâs ànthrōpos). Noi preferiamo il senso
indeterminato per due motivi: indica una consuetudine di tradizione, quindi
anonima e può coinvolgere ciascuno, cioè «chiunque»; in secondo luogo, si
determina in modo più forte il contrasto tra l’indeterminatezza della tradizione
di «chiunque» e la personalizzazione estrema del «tu» con cui l’architriclino
si rivolge allo sposino: «tu, [invece]». Ci troviamo quindi di fronte a uno
schema letterario di forte contrasto teologico: «chiunque – tu». Chiunque è il
passato, la tradizione, la consuetudine, l’usanza; potremmo dire l’abominevole
«si è sempre fatto così», che tarpa le ali a qualsiasi afflato di novità in
nome della pigrizia e grettezza. Tu, invece, è un appello alla coscienza
individuale che s’immerge nella storia, ne coglie il senso appena velato e lo
svela in tutto il suo spessore, senza paura del nuovo e dell’imponderabile che
nasconde nel suo grembo il seme di Dio.

Sì, possiamo dirlo: Dio non ha tradizioni da difendere,
perché egli è sempre nuovo e parla ogni giorno la lingua del momento,
altrimenti parlerebbe inutilmente. Dio non ha passato, perché egli è «il Fine»,
quello che Teihallard de Chardin chiamava «il Cristo, il punto omèga», colui
che attrae a sé tutto e tutti dalla prospettiva della fine e del compimento.

Conservare per scoprire sempre più

Il verbo usato dall’architriclino «tetêrēkas» (in greco, perfetto
indicativo alla seconda persona singolare) è preceduto dal pronome rafforzativo
«sy – tu» che in greco potrebbe essere omesso. Se però c’è, come qui, acquista
forza e valenza più forti e profonde; come abbiamo visto, quel «tu» è
essenziale e necessario perché si contrappone al «chiunque» dell’inizio del
versetto. Non si tratta più di interpellare lo sposino improvvido, ma il
lettore, cioè «tu» che leggi, che accetti l’invito di partecipare alle nozze,
di condividere la fede della madre e dei discepoli e quindi di volere fare
parte della nuova comunità, che è la Chiesa.

Essa, sulla scia di Israele, popolo di Dio, nasce sulle
falde del monte Sinai, ma giunge ai piedi del monte Calvario, il monte della
rivelazione, la rivelazione dell’«ora», l’ora della discesa non più della
Toràh, ma dello Spirito di Dio che porta a pienezza la Toràh e la forza di
adempierla: «Reclinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).

Il verbo «terèō
– custodisco/conservo» al perfetto indica un’azione passata, i cui effetti
continuano nel presente. La forma italiana «hai custodito», al passato
prossimo, che è troppo povera, anche perché il perfetto greco ripete una parte
del tema («te-te»), che in qualche modo deve essere percepito anche nel suono
oltre che nel concetto. Ci pare che, in questo passo, la forma più corretta
possa essere: «Tu hai continuato a conservare/custodire». All’inizio di questa
puntata, riportando il versetto nel titolo, abbiamo tradotto con «tu (invece)
hai voluto conservare», dove si mette in evidenza la volontà che persegue
l’atto della conservazione, come se fosse un progetto in fase di esecuzione e
quindi continuativo.

Ci troviamo di fronte a un comportamento simile a quello del
servo che ha ricevuto «un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi
nascose il denaro» (Mt 25,8) in attesa che gli eventi maturassero. Qui è
evidente che l’autore vuole farci capire che è finito il tempo dell’attesa,
individuato in quel «fino ad ora», segno di uno spartiacque e di un cambiamento
di scena e di tempo. «Ora» comincia un tempo «altro»: quello che troverà
compimento sulla croce, la vera Cana dove si celebra lo sposalizio tra Dio e
l’umanità e dove viene distribuito a piene mani il vino della vita di Cristo;
il sangue del suo costato è dato fino all’ultima goccia: «Subito ne uscì sangue
e acqua» (Gv 19,34). Acqua e sangue, esattamente come a Cana, che vide l’acqua
trasformata in vino.

L’accenno alla nuova economia sacramentale ci pare evidente
perché la prospettiva è quella della vita donata senza riserva con uno scopo
puntuale, perché tutti quelli che vogliono «abbiano la vita e l’abbiano in
abbondanza» (Gv 10,10).

(36 – continua)

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Paolo Farinella




(Cana 37) Cana di Galilea e i luoghi del cuore innamorato

«Mio Signore e mio Dio!»
(Gv 20,28) Gv 2,11: «Mentre faceva questo principio dei segni Gesù in
Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e credettero in lui i suoi
discepoli» (Tàutēn
epòiēsen archên tôn sēmèiōn ho Iēsoûs
en Kanà tês Galilàias kài ephanèrōsen
tên dòxan autoû kài epìsteusan eis autòn hoi mathētài
autoû
).

Tecnicamente, Gv 2,11 conclude il racconto del «segno di
Cana», anzi del «principio dei segni in Cana della Galilea», il racconto delle
nozze dove i personaggi svolgono ruoli che hanno significati «altri», rispetto
a una lettura superficiale. Manca la sposa, mentre lo sposo appare solo per
essere rimproverato; assume una funzione importante, anche se negativa,
l’architriclino che pur partecipando a una occasione unica (kairòs), non è in
grado, come spesso accade all’autorità ufficiale, di cogliere la portata
profetica e cristologica dell’evento: è presente «fisicamente» alle nozze, ma
il suo cuore è distratto dalla differenza superficiale tra i «due vini». Con
questo versetto redazionale, prima conclusione del narratore, veniamo a sapere
qual è stato lo scopo del racconto, perché è l’autore stesso che ce lo comunica
affinché possiamo custodirlo come un momento importante.

Il testo difficile

Dal punto di vista della critica testuale, cioè della ricostruzione
del testo greco attraverso i papiri e gli altri manoscritti più antichi, il
versetto ha tre varianti importanti: il testo che noi riportiamo è attestato
dalla maggioranza dei manoscritti sia maggiori che minori. Considerata la
natura divulgativa del nostro studio tralasciamo le due varianti che hanno un
cambiamento di posizione tra le prime due parole (prima variante) e la
sostituzione di un aggettivo con un altro (seconda variante) che ci
porterebbero a considerazioni troppo tecniche per chi non è attrezzato
scientificamente. Ci limitiamo a dire che le due varianti, anche se la seconda
è molto antica, sono «miglioramenti stilistici» e quindi cercano di
«aggiustare» il testo.

Noi scegliamo, secondo la migliore regola esegetica, il
testo più difficile, certamente più vicino all’originale. Per capire il senso
di questo versetto, che, a nostro parere, è il più importante di tutto il
brano, bisogna soffermarsi sulle singole parole, dove sono collocate, e,
infine, sul loro significato nel contesto di tutto il vangelo di Giovanni prima
e di tutta la Bibbia in secondo luogo.

Abbiamo già anticipato che il versetto è di mano del
redattore finale, che così rivela il suo pensiero sul significato di quanto
precede: solo ora veniamo a sapere che nel racconto di Cana vi è un concentrato
fantastico di teologia giovannea. In questo versetto, infatti, troviamo cinque
parole che esprimono cinque temi che attraversano tutto il vangelo di Giovanni,
costituendone la spina dorsale: «Principio (richiama l’archètipo)/segno-segni/manifestare/gloria/credere».

Centellinare la Parola respirandola

Chi pensava di leggere un racconto edificante, arrivato al
versetto 11 deve ricredersi e ricominciare daccapo, centellinando parola per
parola, respiro per respiro. Normalmente le traduzioni vanno per le spicce,
come la Bibbia-Cei (1974): «Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di
Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui»; la
nuova edizione (2008) cerca di aggiustare, ma senza osare troppo: «Questo, a
Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua
gloria e i suoi discepoli credettero in lui». Si vede dietro la fatica di fare
concordare il testo greco con un significato accessibile a prima vista, ma non
sempre è possibile. Tentativi lodevoli, ma insufficienti.

La Bibbia-Cei (2008) aggiunge anche una nota al versetto per
spiegare ulteriormente che: «Questo… fu l’inizio dei segni: non solo il primo
dei segni, ma il modello di tutti (questo è il significato della parola greca
tradotta con inizio). Difatti il miracolo di Cana ha rivelato la divinità (gloria)
di Gesù e ha aperto ai suoi discepoli il significato delle opere prodigiose
(che Giovanni preferisce chiamare segni)».

Tutte le traduzioni, anche in altre lingue, che qui
risparmiamo, si fermano alla grammatica tradizionale greca secondo la quale il
primo verbo, «epòiēsen –
fece», essendo un tempo aoristo, deve tradursi con il passato remoto o in
alcuni casi anche con il passato prossimo.

Verbi e traduzioni «diaconi» della Parola

Le versioni Cei rendono «fece» con «fu» e «diede», sempre al
tempo aoristo/passato remoto, esattamente come gli altri due verbi: «ephanèrēsen-manifestò» (Gesù) ed «epìsteusan-credettero»
(i discepoli). Noi invece pensiamo che sia meglio applicare la linguistica
testuale che guarda la funzione dei verbi (la parte più importante in un
testo), scopriamo allora che il loro significato dipende dal posto in cui essi
sono collocati e quindi bisogna valutare di volta in volta. Nel nostro caso,
vediamo che «epòiēsen –
fece», il primo aoristo, è preceduto da un pronome dimostrativo «tàutēn – questa», il quale a sua
volta è riferito a «archên – principio» che in greco è femminile: «Tàutēn epòiēsen archên».

Abbiamo quindi la seguente costruzione greca: «Tàutēn epòiēsen archên tôn sēmèiōn ho Iēsoûs» che tradotta, fuori dal contesto, in se
stessa, alla lettera e mantenendo le stesse posizioni delle parole che hanno in
greco, suona: «Questo fece (il) principio dei segni Gesù in Cana di Galilea».

La parola «inizio», usata dalla traduzione della Cei, è
fuorviante perché esprime un valore temporale, mentre al contrario «principio»
richiama una prospettiva globale e senza tempo. Le nozze di Cana non sono solo
il «primo» segno cronologico, ma il «segno fondamentale», quello che apre gli
occhi della fede verso ciò che accadrà da cana a Gerusalemme.

Il versetto 11 è composto da tre frasi o proposizioni,
perché vi sono tre verbi, che però non sono sullo stesso piano: il primo «epòiēsen – fece» è preceduto da un
altro termine, cioè dal pronome dimostrativo «tàutēn questa/questo», per cui il verbo, pur essendo
al tempo aoristo, che è il tempo primario della narrazione, è declassato a
tempo secondario. Gli altri due, invece, mantengono la struttura narrativa primaria,
che è propria del greco, e infatti sono preceduti tutti e due dalla
congiunzione «kài – e», che è uno dei segnali greci per indicare il verbo
aoristo nella posizione importante e quindi deve essere tradotto con il passato
remoto: «kài ephanèrēsen…
kài epìsteusan – e manifestò/rivelò… e cominciarono a credere». Alla luce di
queste osservazioni, la traduzione del versetto «deve» essere la seguente:

«Mentre faceva questo principio dei segni,
manifestò Gesù in Cana di Galilea la sua gloria
e cominciarono a credere in lui i suoi discepoli». 
La fede ha un principio e un inizio

L’autore intende porre l’accento su «manifestò» e
«cominciarono a credere»: le due informazioni che vuole comunicare al lettore,
perchè le più importanti e fondamentali di tutto il racconto. A differenza
dell’architriclino, rappresentante della religione ufficiale, che è cieco e
sordo, il lettore deve essere pronto a cogliere e «vedere» la manifestazione,
cioè la rivelazione di Gesù nella trama degli eventi ordinari che in se stessi
possono apparire insignificanti, mentre sono portatori di un senso nascosto e
nuovo che solo chi è predisposto sa cogliere. Per questo, ed è il secondo
messaggio, i discepoli «cominciarono a credere», perché la fede è conseguenza
di una visione e di una esperienza.

Traduciamo il terzo verbo «kài epìsteusan» con «cominciarono
a credere» e non con «credettero» perché pensiamo che l’aoristo greco, qui,
abbia valore «ingressivo», cioè descrive l’inizio di un’azione che è in cammino
e che sarà lungo prima di giungere al suo compimento. D’altra parte Gv parla di
«l’inizio dei segni» e ci sembra esagerato dire che i discepoli «credettero» al
primo colpo, senza alcun processo o elaborazione. Anch’essi si aprono al «vino
nuovo» interrogandosi sui fatti, come Cana, e si affidano all’alleanza del
Sinai che ritrovano e rinnovano nella persona di Gesù. D’altra parte, in
Giovanni, la figura del «discepolo/discepoli» oltre al significato dei seguaci
«storici» di Gesù, ha il significato del «discepolo-tipo», cioè del credente di
ogni tempo che s’incontra con la personalità di Gesù di Nàzaret il «rivelatore»
del Padre.

Non miracolo, ma segnale per non smarrirsi

Nello studio della Bibbia nel suo insieme o di un brano o di
un versetto non si può andare subito al significato «spirituale» per cogliee
subito il frutto. La Parola di Dio rifugge dalla fretta, pressappochismo,
superficialità e spiritualismo. Essa esige spazio, tempo, studio prolungato,
sapore, gusto… in una parola, la Bibbia esige «perdere tempo» come l’amore.

Come i nostri lettori avranno percepito, se hanno avuto la
pazienza di arrivare a questo punto, la riflessione sul versetto undici non è
conclusiva, ma è tutta centrata sulle questioni letterarie e in parte anche
sintattiche. Qualcuno potrebbe dire che sono superflue; se così fosse, passi
pure avanti, anzi ad altro, perché la Bibbia non fa per lui: legga fumetti o
faccia enigmistica. Noi riteniamo che la Bibbia debba essere assaporata nella
sua struttura letteraria, grammaticale e sintattica: più l’approccio è
scientifico e più si riesce a penetrare, attraverso il significato ordinario
delle parole comuni, il senso nascosto che lo Spirito può svelare a coloro che
lo cercano per le vie indicate dall’autore e quindi dallo stesso Spirito, e più
nutre l’anima.

Quando «si legge» la Bibbia o si riflette su un brano della
Scrittura, alla fine bisogna essere «stanchi» perché ascoltare, studiare e
vivere la Parola è lavorare nel e per il Regno di Dio. Altre volte abbiamo già
detto che per i rabbini ebrei, lo studio della Parola di Dio equivaleva al
sacrificio compiuto nel tempio di Gerusalemme. Sarebbe lo stesso per noi dire
che equivale alla celebrazione comunitaria dell’Eucaristia. Ecco perché è
necessario «stare sul» versetto 11, perché da esso dipende la comprensione di
tutta la narrazione. Vogliamo evidenziare la grandezza e la lungimiranza del
redattore finale che, scegliendo le frasi e mettendole in un certo ordine, ha
pensato a noi che le avremmo lette oggi, domani, sempre. Prendiamo in esame la
frase in se stessa, fuori del suo contesto, per approfondie il senso
cristologico. L’autore ha posto in greco il pronome dimostrativo «questo»
all’inizio di frase, cioè in posizione enfatica, di rilievo, addirittura prima
del verbo che così è relegato in seconda linea. Il pronome dimostrativo «tautēn – questa/questo» concorda per
attrazione con «principio» che in greco è femminile e in italiano è maschile.
In questo modo, l’autore ingloba tutto ciò che precede e comprende l’intero racconto.
Tutto quello che è avvenuto a Cana di Galilea è «un principio», cioè il
fondamento, la prospettiva, la chiave di lettura di tutto ciò che segue.

Non è casuale che l’autore nel IV vangelo non usi mai il
termine «miracolo», ma sempre e solo il lemma «segno». Non si tratta, infatti,
di descrivere interventi superiori, ma di indicare la direzione della fede
verso cui incamminarsi: bisogna stare attenti ai «segni» e i «miracoli» sono
«segnali» per non smarrirsi.

Anche la geografia segna la via di Dio

Quanto abbiamo appena detto, lo constatiamo anche dalla
citazione geografica «in Cana di Galilea». L’espressione nella morfologia greca
si analizza come due complementi: a) di stato in luogo (in Cana) e b) genitivo
corografico (di Galilea). Questo genitivo, in greco, vuole sempre l’articolo «della
Galilea», che in italiano però non si mette e quindi non diciamo, alla lettera,
«in Cana della Galilea», ma correttamente traduciamo con «Cana di Galilea».

L’espressione «Cana di Galilea» l’abbiamo già incontrata nel
primo versetto, Gv 2,1, quando l’autore ci ha dato la prima informazione: «Nel
terzo giorno uno sposalizio avvenne in Cana di Galilea». Se la stessa frase è
all’inizio e poi anche alla fine, concludiamo che l’intero racconto è uniforme;
esso, infatti, è contenuto – si dice tecnicamente – in una «inclusione», cioè
tra due espressioni uguali che formano una specie di cerchio che racchiude
tutto l’insieme. Siamo partiti da Cana di Galilea e siamo arrivati a Cana di
Galilea e andando avanti nella lettura del vangelo, la incontriamo ancora in Gv
4,46, all’inizio del racconto della guarigione a distanza del figlio del
funzionario regio. È lo stesso autore che connette i due racconti di Cana per
cui è evidente che c’è un legame profondo che bisogna rilevare: «Venne quindi
di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua (in) vino. E c’era un
funzionario regio il cui figlio era malato in Cafàao». La stessa espressione
ritroviamo alla conclusione del vangelo (Gv 21,2): «Erano insieme Simon Pietro
e Tommaso, detto “gemello”, e Natanaele, che era di Cana di Galilea e i figli
di Zebedeo e altri due dei suoi discepoli». La vita pubblica di Gesù si apre a
Cana, passa per Cana e termina a Gerusalemme, ma con la citazione di Cana di
Galilea: un modo letterario per dirci due cose.

La prima riguarda il «segno» di Cana che così riguarda tutto
il vangelo: in altre parole, non si può capire il vangelo in tutta l’integrità
se non si capisce «il principio dei segni» avvenuto a Cana. Il secondo riguarda
noi, lettori: la geografia è parte integrante della salvezza e della fede. I
luoghi, infatti, e i posti dove avviene ciò che ci riguarda non sono
indifferenti ed è nostro obbligo ritornare, come in pellegrinaggio, ai luoghi
dove abbiamo vissuto e «visto» e «manifestato» a noi e ad altri ciò che abbiamo
capito, intuito, desiderato, promesso.

Un pellegrinaggio giornioso

Spesso noi andiamo in pellegrinaggio ai santuari, a volte
con l’illusione di incontrare Dio, senza renderci conto che vi sono anche altri
«luoghi» importanti e altri «santuari» necessari per noi:

dove abbiamo incontrato l’amore,
dove abbiamo dato il primo bacio,
dove abbiamo concepito il figlio/a,
dove abbiamo sognato un ideale,
dove abbiamo percepito la chiamata,
dove abbiamo fatto la promessa di fede o matrimonio,
dove abbiamo pianto,
dove avremmo voluto morire,
dove abbiamo riso spensieratamente,
dove abbiamo incontrato un amico/amica,
dove abbiamo preso qualcuno per mano,
dove abbiamo asciugato lacrime di dolore,
dove abbiamo condiviso lacrime di gioia,
dove ci siamo abbandonati alla pateità di Dio,
dove abbiamo ricevuto un regalo inatteso,
dove abbiamo spezzato il pane dell’amicizia,
dove abbiamo ritrovato quanto avevamo smarrito,
dove abbiamo mutato la disperazione in pacificazione,
dove abbiamo vissuto la Shekinàh come Abramo,
dove abbiamo assaggiato il vino nuovo di un nuovo progetto
di vita con Dio,

dove abbiamo deciso di dare la nostra vita a perdere senza
chiedere in cambio nulla. Sorge spontanea una domanda: «Qual è la mia Cana di
Galilea dove ho visto e vissuto le nozze dell’alleanza?». Ritornare «al
principio» significa ritornare ad assaporare «il vino messianico», quello che
porta con sé il sapore dell’eternità e resta per sempre. Da principio alla
fine.

(37 – continua)

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Paolo Farinella