Il cristiano mescola in sé il profumo di Dio e l’odore del mondo | Rendete a Cesare – 8

«Siate pastori con l’odore delle pecore»

(Papa Francesco, Messa Crismale, Omelia, 23-03-2013)

Con questo numero, concludiamo la riflessione sul significato esegetico dell’espressione «Date a Cesare … Date a Dio» (Mc 12,13-17 e paralleli), facendo una sintesi di quanto abbiamo espresso nelle sette puntate precedenti.

Il punto di partenza è un testo1, apparentemente innocuo, ma molto interessante:

13 Uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». 14 Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15 E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». 16 Poi disse loro una parabola … (Lc 12,13-16).

Di fronte a una questione di eredità, Gesù rivendica il suo diritto di non intervento, ritenendola «di poco conto» di fronte all’urgenza profonda del suo cuore: il Regno è vicino, o meglio «il Regno di Dio [che] è dentro di voi» (Lc 10,9). Dio è già qui, compagno di vita e di viaggio verso la morte che introduce nella pienezza della vita. Tutto è provvisorio e il tempo di cui disponiamo è corto. La grandezza della vita è profonda e bisogna scalarla, scansando le banalità e la perdita di tempo che è il peccato più grave che si possa compiere. Anche per Dante, sul piano culturale, vale lo stesso atteggiamento: «Ché perder tempo a chi più sa più spiace» (Purg. III,78). I due fratelli, per Gesù, perdono tempo su un’eredità che devono comunque lasciare (cf Lc 12,13-31): litigano per un bene per cui non hanno faticato e che a loro volta lasceranno ad altri, se non riusciranno a dilapidarlo2. La prospettiva di Gesù è escatologica, cioè vede le cose dal punto di vista «della fine», della prospettiva dell’esito; quasi dicesse: non perdete tempo in quisquilie di poco conto, andate al cuore della vita che vi sfugge, mentre voi litigate per beni che non vi appartengono perché con la morte sarete costretti ad abbandonarli. È il criterio dell’essenzialità e della prospettiva. Un altro esempio illustre si trova in Lc 15,11-32 nella parabola del «Padre che fu madre», dove il figlio più giovane chiede espressamente di disporre di ciò che non è suo: la vita del padre che, infatti, egli sperpera a suo piacimento per ritornare al punto di partenza, dopo avere perso tempo, denaro e dignità3. È il criterio del discernimento.

In mezzo a diatribe giuridiche o all’interesse privato, Gesù afferma la propria libertà e dichiara la sua «non ingerenza» perché non di sua competenza. Egli non si occupa di affari e transazioni. Non è un sensale. È il criterio del rispetto delle competenze e della laicità nella gestione diretta degli affari del mondo. C’è un diritto, c’è un codice, c’è una giurisprudenza o una consuetudine: a quelli bisogna rivolgersi perché hanno la competenza di dirimere diversità di opinioni. Sottraendosi alla richiesta di fare il giudice, Gesù riconosce che anche per lui c’è un limite che non vuole superare, perché sconfinerebbe in un mondo non suo: superare il limite comporta un rischio, quello di diventare «tuttologi», ma di non essere professionalmente adeguati. Qui abbiamo un «principio» importante: la creazione ha in sé le sue regole e le sue leggi e non occorre battezzare ogni cosa per riconoscerne la liceità. Tutto è lecito nel rispetto della laicità che è l’ambito dove ogni evento, persona o circostanza o atto religioso devono essere riconosciuti con verità, senza pregiudizio di sorta.

Il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) affermava che «più avanza la luce elettrica, più Dio perde terreno»: l’autonomia del creato che cresce con il tempo e con la scienza, è insita nella creazione stessa perché è il dinamismo che vi ha immesso lo Spirito creatore. Dio stesso, creando, si è limitato, infliggendosi un confine da rispettare che, dal punto di vista etico, è la libertà della coscienza personale. In una parola le decisioni di scelta sono demandate alla responsabilità e alla dignità di ciascuno. Più avanza la conoscenza umana di sé e del mondo, inteso come «cosmo», più aumenta il «limite» di Dio che non è geloso delle conquiste e delle scoperte sempre più portentose degli uomini e delle donne, ma ne è così rispettoso che lascia sempre più spazio, in forza del mandato originale di crescere, soggiogare la terra, dominare sul creato (cf Gen 1,28-29). È la teologia del Dio che si svuota completamente di se stesso per essere prossimo e vicino a ogni essere umano. La limitatezza di Dio è così decisiva e così definitiva che Gesù stesso si sottomette alla legge in modo irrevocabile: «Nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4). Possiamo mai avere paura di un «Dio limitato»?

Sull’esempio di Dio che si è auto-condizionato al limite, nessuno può imporre nulla «in nome di Dio». Anche le crociate furono indette in nome di Dio e sappiamo quello che sono state e cosa sono costate al mondo e alla Chiesa: le conseguenze di quelle scelte avventate, le paghiamo ancora oggi. Dalla logica delle crociate solo un uomo del suo tempo, Francesco di Assisi, nel 1229, si differenziò coscientemente perché nel pieno del conflitto della quinta crociata, andò da solo a trovare il «nemico», il sultano ayyubide Malik al-Kamil, presentandosi disarmato. Ricevette così l’incarico di «custodire» per sempre i luoghi santi del Signore Gesù in Terra Santa, come ancora oggi avviene, dopo ben nove secoli.

Il concetto di «onnipotenza» che affibbiamo alla divinità, mal si concilia con il Dio di Gesù Cristo, il quale «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,6-7; cf Mt 27,40). Legandosi indissolubilmente alla natura umana, ha scelto il metodo umano per rivelarsi e manifestarsi e dunque si è sottomesso alla «paidèia» (pedagogia) umana, adeguandosi al passo degli uomini e delle donne, radicato sulla ricerca che a sua volta nasce ed emerge dalla logica e dalla legge dell’incarnazione.

Dopo l’incarnazione di Cristo, vale anche per lui, in modo diretto e puntuale, quello che Publio Terenzio Afro affermava per ogni essere umano: «Homo sum, humani nihil a me alienum puto – Sono uomo, nulla di ciò che è umano mi può essere estraneo»4. Nulla è estraneo a Dio, non solo come creatore, ma specialmente come Redentore. In questa prospettiva deve collocarsi l’invito, anzi il mandato: «Voi siete il sale» (Mt 5,13). Compito del sale, infatti, non è separarsi dalla minestra, cioè «disincarnarsi» dalla storia, dalla politica, dall’economia, ma, al contrario, perdersi e scomparire per realizzare la sua «missione». Allo stesso modo, compito del cristiano non è estraniarsi dalle cose mondane, che sono l’habitat naturale della sua esistenza, ma immergersi nel mondo e nella storia dell’umanità, perdendo la propria vita in compagnia di tutti quelli, credenti e non credenti, tutti figli e figlie di Dio, che costruiscono la «città dell’uomo» perché ognuno possa essere se stesso. In breve significa: vivere a servizio del «bene comune». L’evangelista Luca lo dice al mondo ebraico, ponendo in evidenza l’assoggettamento alla legge psicologica e a quella della fede: «Cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52; cf 2,40). Inchiodandosi sulla croce, Dio ha rinunciato alla sua onnipotenza e si è sottomesso alla legge del limite che gli impedisce di scendere dalla croce e fare un portento clamoroso a beneficio di poveri increduli.

Il processo d’incarnazione, descritto nella Bibbia, raggiunge il vertice nel vangelo di Giovanni quando, con un ardimento linguistico senza precedenti, l’autore osa affermare l’impensabile e l’indicibile: «Hò Lògos sarx egèneto». Tradotto alla lettera, rispettando la posizione delle singole parole si ha: «Il Lògos-carne fu fatto» (Gv 1,14). L’autore vuole mettere quasi a contatto fisico i due termini antitetici, irriducibili, l’uno all’altro, «Lògos-sàrx» è un ossimoro intraducibile in italiano, senza dovere ricorrere a una circonlocuzione. Il Trascendente diventa Immanente, l’Impalpabile si fa «Cae», che nel linguaggio semitico significa «fragilità/mortalità/limite/caducità». L’Assoluto diventa Relativo per «incarnazione» e rivelazione. Nel momento in cui sceglie di essere «Cae», cessa per sempre di essere «Onnipotente» (Cesare) e s’identifica indissolubilmente con la fragilità, la caducità, il frammento, la mortalità, il corpo, propri dell’essere umano, segnato costitutivamente dalla temporalità e dallo spazio. San Paolo fu il primo a parlare di « lògon syntelôn – Verbum breviatum – Parola ritagliata/accorciata»: «Il Signore, infatti, realizzerà sulla terra il Lògos che si compie e che si accorcia/si taglia» (Rm 9,28) che purtroppo anche l’ultima versione della Cei (2008) traduce con «pienezza e rapidità il Signore compirà la sua parola sulla terra», travisando il senso dell’espressione greca, che è molto più pregnante e dirompente. Il concetto, data la sua importanza scandalosa, è ripreso dai Padri della Chiesa e da san Francesco di Assisi. Quest’ultimo poi, fedele alla tradizione patristica, allestendo il primo presepe a Greccio nel 1223, parlò della notte in cui Dio si è accorciato, si è fatto «verbum abbreviatum»5.

L’accorciamento di Dio è verificabile nelle sue manifestazioni: nella creazione, «in principio» (Gen 1,1), Dio ha parlato con l’azione, pronunciando solennemente «dieci parole» cui corrispondono «dieci realizzazioni» o dieci fatti. C’è quindi una sovrabbondanza di parola, distribuita in sei interi giorni: «Disse Dio … e così fu». La creazione in tutta la sua complessità di cielo e di terra, di «acque superiori e inferiori», di uccelli e animali e, infine, con la coppia umana è l’universale e molteplice Parola di Dio. Nell’incarnazione, invece, tutto si riduce a una sola Parola, un Nome perché possa essere contenuta da ciascuno e nessuno possa dire di non essere in grado di portarne il peso perché la Parola/le parole sono parte intima di noi stessi con cui realizziamo il nostro bisogno di comunicazione cioè di relazione. Tutto accade nel «profondo silenzio [che] avvolgeva tutte le cose» (Sap 18,14). Nella creazione la Parola esplode, nell’incarnazione il Silenzio regna, quasi a esprimere il pudore di Dio che viene in punta di piedi.

Alla luce di questo processo d’incarnazione, l’espressione «date a Cesare … date a Dio» acquista una configurazione ben precisa, perché non si tratta di «opposizione inconciliabile» tra due «mondi», o ordini, ma d’invito al discernimento per leggere la realtà della storia con gli occhi di Dio. Dopo l’incarnazione di Gesù e la sua morte, «quella» morte (cf Mc 15,39), che causò lo squarcio del «velo del tempio, da cima a fondo» (Mc 15,38), rendendo accessibile allo sguardo pagano il «santo dei santi», non può esistere più la separatezza tra «sacro» e «profano» perché con Gesù tutto è sacro e tutto resta profano. Queste categorie sono ormai desuete, incompatibili con il Vangelo che porta la nuova logica dell’umanità di Dio risorta, ad assumere in sé le contraddizioni degli eventi e della storia.

Bisogna, però, stare attenti a non costruirsi «idoli» provvisori o definitivi, come possono essere la religione, il denaro, il potere, il successo, il proprio interesse. «Dare a Cesare» significa chiamare per nome ogni cosa, secondo verità e rettitudine, senza pregiudizi o applicando categorie e sistemi che contrabbandano la verità. In ognuno di noi c’è un «Cesare» che veglia, pronto a prendere il sopravvento. Gesù rivolge quella frase ai farisei e ai capi del popolo (cf Lc 20,19), cioè ai responsabili della religione, in una parola alla gerarchia ecclesiastica che, contravvenendo alla legge che vietava di riconoscere idoli di divinità (Es 20,4), portava addosso, cioè sempre con sé, l’immagine dell’imperatore Tiberio che si fregiava del titolo di Divinità. Le monete coniate dall’imperatore, infatti, portavano la sua effigie con la scritta o epigrafe che nel caso era: «Tiberius Caesar Divi Augusti Filius Augustus Pontifex Maximus – Tiberio Cesare Augusto Sommo Sacerdote, Figlio del Divino Augusto», con cui si dichiara la natura divina dell’imperatore. Usare quella moneta, pertanto, dal punto di vista giudaico significava non solo riconoscere l’autorità civile dell’imperatore romano che pure era un invasore, ma anche avallare la sua pretesa divinità, ponendolo sullo stesso piano di Dio. La questione è grave perché la Toràh vieta di farsi immagini di Dio, ma perché più energicamente vieta il riconoscimento degli idoli (Es 20,4; Dt 4,16).

Se i capi religiosi si contaminano senza problemi con l’idolatria, essi sono responsabili delle conseguenze del loro «cattivo» esempio: essi corrompono il popolo, inducendolo in peccato; per questo devono tornare a «rendere a Dio quello che è di Dio». Gesù non affronta un problema di natura socio-politico, come la separazione dei poteri, ma affronta un tema squisitamente teologico che riguarda l’essenza stessa di Dio: chi è Dio per i capi religiosi? Un idolo tra gli idoli o il Dio unico di Abramo, Isacco e Giacobbe? Dio geloso! «Non ti prostrerai davanti a loro [gli idoli] e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso» (Es 2014). È l’invito alla conversione, a riprendere la propria vocazione di servi del «Signore», unico Dio, che ha creato Adamo, ha chiamato Abramo, ha guidato Giacobbe, ha salvato Isacco, ha redento Israele. «Dare a Cesare … dare a Dio» diventa così la discriminante tra autenticità e vacuità della fede. Non si può mettere Cesare sullo stesso piano di Dio e non si può abbassare Dio a livello di un capo di stato, come due autorità alla pari che si spartiscono i rispettivi ambiti d’influenza. Non è lecito fare confusioni. Purtroppo è triste sentire preti e anche vescovi e cardinali dare della frase di Gesù letture superficiali, senza alcun riferimento al testo nel suo contesto.

La giustizia di Gesù raggiunge la radice del cuore umano, là dove ciascuno prende coscienza di essere giustificato per grazia. L’esempio di Gesù deve essere illuminante per noi: nella Chiesa l’autorità non ha il privilegio di legiferare su tutto, anche sulle realtà più insignificanti o su questioni che non sono di sua pertinenza perché anch’essa ha il «limite» che le deriva direttamente dal Signore. La Chiesa, e in essa l’autorità, ha una funzione escatologica, deve cioè non dare soluzioni, ma indicare la strada, la mèta da raggiungere sapendo che per giungervi vi sono tante strade quante sono le persone. In una parola semplice: nelle questioni che riguardano le «realtà terrestri» il discepolo di Cristo non può mai parlare in nome di Dio che, invece, è tenuto a testimoniare e a rendere visibile con la coerenza nella verità della propria vita e delle proprie scelte. Sul senso di questa autonomia delle realtà terrestri, il concilio ecumenico Vaticano II ha scritto uno dei documenti più belli dell’ultimo secolo: la costituzione pastorale «Gaudium et Spes», oggi poco frequentata da quei cattolici che preferiscono la leggerezza irresponsabile dell’obbedienza passiva alla fatica del discernimento e della ricerca che rende appassionati del mondo, quel mondo che Dio ama così tanto da mandargli il suo Figlio unigenito: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1Tes 5,21) e ancora: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).

Conclusione

Dichiarandosi incompetente di fronte a una questione di eredità, Gesù dice che i suoi seguaci, sul suo esempio, devono avere il senso del limite e non pretendere di avere sempre l’ultima parola su tutto e sempre in nome di Dio. Compito della Chiesa nel mondo è invitare uomini e donne a vivere la propria vita come «immagine e somiglianza» del Creatore, come missione a servizio degli altri, questa volta sì, per conto di Dio, perché tutti partecipino al banchetto della giustizia che è la premessa della pace.

«Date a Cesare quello che già appartiene a Cesare» è l’invito a non smarrire l’immagine di Dio che lui stesso ha deposto in noi perché fossimo nel mondo «la statua», il segno, cioè «il sacramento» della sua visibilità e della sua provvidenza, rendendolo credibile attraverso la credibilità delle nostre scelte e delle nostre azioni. Non è l’invito a separare la politica dalla fede, ma a coniugare l’una e l’altra nella visione finale del Regno di Dio alla luce della Carta costituzionale che per noi sono le «Beatitudini» (cf Lc 6,20-26; Mt 5,1-12), il «Padre nostro» (cf Lc 11,2-4; Mt 6,9-13) e il «Magnificat» (cf Lc 1,46-55) di Maria. Solo così i credenti possono essere «sale della terra e luce del mondo» (cf Mt 5,13.14), camminando in compagnia degli uomini e delle donne del loro tempo, agendo politicamente in modo disinteressato protesi a raggiungere la perfezione dell’immagine e della somiglianza radicale di Dio: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48).

[8 – fine]

____________________________________

 

1 Nella Liturgia è il vangelo della domenica 18a del tempo ordinario dell’anno C.

2 Al tempo di Gesù il patrimonio era indivisibile: doveva restare unito per cui, alla morte del titolare, il responsabile primo della proprietà era il primogenito, mentre agli altri figli era riconosciuto l’usufrutto. Con ogni probabilità, la domanda fu rivolta a Gesù da un figlio minore che voleva la sua parte per spenderla a suo piacimento.

3 Sulla parabola lucana che è il «culmen et fons» di tutta la Scrittura, non ci attardiamo oltre, dal momento che proprio su MC  l’abbiamo commentata nell’arco di oltre tre anni: cf P. Farinella, Il Padre che fu madre. Una lettura modea della parabola del Figliol Prodigo, Il Segno dei Gabrielli Editore, San Pietro in Cariano (VR) 2010.

4 Heautontimorùmenos – Il punitore di se stesso, I, 1, 25 [165 a.C].

5 Orìgene parla di «lògos abbreviato» sia nell’incarnazione che nella morte (Perì Archon I,2,8); Gregorio di Nazianzo di «Lògos condensato» (Or. in Epiph. [Oratio in Epiphaniam] PG 36, 313 B); cf ancora Massimo il Confessore, in Ambigua [Ambiguorum liber] 91, 1285 C/1288 A, e Cent. Gnost. [Centuriae Gnosticarne] 2,37, PG 90, 1141 C); per Francesco di Assisi, cf Regola Bollata (1223), IX, 2 in Fonti 1977, n. 98.

Paolo Farinella




La politica di Dio (che è laico) | Rendete a Cesare – 7

«Non sei lontano dal Regno di Dio» (mc 12,34)

Un esodo al contrario

Il credente che sta nel mondo, sa di doverci stare come tutti gli altri, senza pretendere per sé alcun spazio particolare, alcun privilegio speciale, alcuna legge di favore. Anche se tutte queste cose fossero buone, o addirittura ottime, anche in vista di una migliore organizzazione del mondo, il credente dovrebbe avere in sommo grado il senso della varietà, tanto da rinunciare a ogni forma di privilegio, anche se fosse maggioranza e avesse la forza e i numeri di legiferare la società. Il credente nel Dio Creatore è colui che assume l’ultimo, il piccolo, il debole come «valore» supremo e ne garantisce non solo la sopravvivenza, ma la piena dignità. Anche se una società fosse tutta cristiana e al suo interno vi fosse una sola – soltanto una – persona non cristiana con usi e sistemi diversi, il credente dovrebbe essere il primo a tutelare il diritto di quella singola persona che è minoranza, prima ancora di affermare il diritto di sé come maggioranza. In questo deve essere esclusa qualsiasi forma di «tolleranza» perché il credente in Dio non può tollerare, può solo accogliere in nome di Dio «Padre Nostro». «Tollerare» significa sopportare per necessità ed è per questo che chi tollera è di norma «intollerante» e lo dimostra appena gli è permesso o pensa di poterlo fare.

Qui si fonda la teologia della natura «nomade» della Chiesa che per definizione e per vocazione non può non esprimere, nella storia, la prospettiva messa in evidenza dal concilio Vaticano II che descrive, come abbiamo visto nella puntata precedente, l’«indole escatologica della Chiesa peregrinante e la sua unione con la chiesa celeste» (Lumen Gentium, cap. VII [nn. 48-51]). Indole significa che la peregrinazione non è un atteggiamento passeggero, ma uno stato costitutivo della natura dell’ekklesìa. I cristiani non sono mandati nel mondo per gestire il potere perché più bravi o competenti, ma per servire il Regno di Dio che è presente nei regni degli uomini, pur non identificandosi con alcuno di essi. L’obiettivo del servizio «nel» mondo cioè mira a creare le condizioni affinché i figli di Dio vivano in condizioni di figli e non di schiavi.

Il compito dei cristiani e, a maggior ragione dei vescovi e della gerarchia cattolici, non è tramare per spartirsi il potere e l’economia, corrompendo e contrattando secondo reciproci interessi da spartire con i politici complici. Al contrario, obiettivo primario e fine supremo della presenza dei cattolici in politica è unicamente quello di impedire che sia sperperata la ricchezza del creato e sia distribuita secondo giustizia perché a ciascuno non manchi il necessario e anche un po’ di superfluo.

La politica prolungamento della creazione

Chi cerca il proprio interesse è «di questo mondo»; chi sta dalla parte di chi non ha voce, chi si prende cura degli immigrati e li sfama, secondo la logica del giudizio finale (cf Mat 25,31-46), viene «dall’alto» ed è guidato dallo Spirito di Dio. I primi trasformano la «Politica» in interesse, tornaconto, ingiustizia e, se cristiani, in peccato grave; i secondi invece mettono la «Politica» sul piano dell’Eucaristia e spezzano il Pane per tutte le genti come fece Gesù, come deve fare la Chiesa. I credenti non cercano cariche o incarichi o posti di rendita, ma consapevoli di essere nel mondo senza appartenere alle logiche e ai metodi del mondo, accettano di immischiarsi nella politica, nell’economia, nella cultura, nel sociale per contribuire allo sviluppo della creazione dando corpo al mandato di Dio di custodire e ascoltare il giardino di Eden e quanti vi abitano.

Quando coloro che si definiscono cristiani o credenti, per anni, appoggiano governi e politiche disumane, contrarie ai principi elementari della dottrina sociale della Chiesa, anzi diventano complici e correi di corrotti e corruttori, immorali e amorali, non siamo più nel Regno di Dio, ma nell’inferno di Satana che istiga a fare affari, cadendo nella trappola dell’immoralità costitutiva. Sono quelli che papa Francesco, il 16 maggio 2013 ha definito «cristiani da salotto», per i quali il fine giustifica i mezzi. I cristiani, al contrario, «devono dare fastidio», come ha urlato lo stesso papa Francesco il giorno di Pentecoste (19 maggio 2013) ai gruppi ecclesiali provenienti da tutto il mondo in piazza san Pietro. Se il cristiano «non dà fastidio» a chi esercita il potere in nome della dignità dei poveri, inevitabilmente diventa complice del potere malvagio che appartiene a «questo mondo», il mondo per cui Gesù non ha pregato. Possiamo illuderci di pregare, svolazzando tra le nuvole, ma se non ci coinvolgiamo sulla terra, con il destino di chi è senza futuro e presente, possiamo essere spiritualisti e magari esserlo molto, ma non saremo mai persone spirituali perché non sapremo mai riconoscere i corpi dolenti dei Lazzari che popolano la terra (cf Lc 16,19-31). Qui è la vera chiave: è Lazzaro che fa la differenza tra Cesare e Gesù. Cesare non si cura di Lazzaro e lo abbandona alla pietà dei cani, mentre i figli di Abramo lo accolgono alla loro mensa e lo nutrono. A noi la scelta.

Dio è laico

Una forma concreta di attuazione di questa prospettiva evangelica di separazione integrata senza opposizione tra fede e mondo, si trova in un testo anonimo del sec. II, una lettera indirizzata ad un certo Diogneto, da cui prende nome (vedi i due box qui sotto).

Il cristiano è nel mondo per vocazione e missione; egli è il cultore della relativizzazione e l’assertore dell’Assoluto che è Dio. La Chiesa non può vivere in competizione con il mondo né può pretendere di esercitare il suo dominio sul mondo profano e/o secolarizzato. Essa non è chiamata a trasformare il mondo da profano in mondo cristiano perché rischia di ritornare a quella infausta «cristianità» che tanti mali ha arrecato alla Chiesa e al mondo e tanti ne arreca oggi, in cui il mondo clericale è abbagliato dalla ricchezza, dal compromesso e dall’alleanza con i potenti, pensando che saranno i potenti ad aiutarla a cristianizzare le istituzioni. Il mondo clericale deve rassegnarsi perché il Dio di Gesù Cristo è laico per natura e per essenza e laiche sono le istituzioni del mondo verso il quale la Chiesa ha il dovere e il diritto di osservare alla lettera il comando del Signore: «Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche» (Lc 9,3), perché solo la povertà e la fragilità dell’inviato può rendere testimonianza credibile al Signore della Storia e rendere visibile il suo volto per farlo apparire credibile attraverso la credibilità del proprio operato e della propria testimonianza, suscitando così il desiderio di Dio e la conseguente conversione.

Politica e carità

La prospettiva posta da Gesù con la questione del tributo a Cesare, è una prospettiva soprannaturale all’interno del criterio d’incarnazione la quale è la logica del chicco di grano che deve cadere in terra e morire se vuole portare frutto (cf Gv 12,24). Il cristiano non lotta per avere uno strapuntino di potere nel mondo, ma lascia ogni potere per assumere in pieno ciò che gli compete e gli appartiene di diritto: la testimonianza del servizio disinteressato. Alla luce di quanto detto, ancora oggi sono valide le parole di Pio XI in un discorso tenuto alla Fuci: la politica è «il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null’altro, all’infuori della religione, essere superiore». Ecco il punto di partenza che è anche il punto di arrivo: per i credenti, per i cristiani che credono in Dio, la politica è «il campo più vasto della carità», cioè dell’amore gratuito che è l’esatto contrario di ogni intrallazzo, compromesso, accordo a favore di pochi e a danno di molti.

[7 – continua con la prossima e ultima puntata]

 

Dalla lettera a Diogneto – 1

V.  1I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. 2Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. 3La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. 4Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. 5Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. 6Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. 7Mettono in comune la mensa, ma non il letto. 8Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. 9Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. 10Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. 11Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. 12Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. 13Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. 14Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. 15Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. 16Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati giorniscono come se ricevessero la vita. 17Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio (A Diogneto, V,1-17).

 

Dalla lettera a Diogneto – 2

VI. 1A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. 2L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. 3L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. 4L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. 5La carne odia l’anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cristiani li odia perché si oppongono ai piaceri. 6L’anima ama la carne che la odia e le membra; anche i cristiani amano coloro che li odiano. 7L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. 8L’anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l’incorruttibilità nei cieli. 9Maltrattata nei cibi e nelle bevande l’anima si raffina; anche i cristiani maltrattati, ogni giorno più si moltiplicano. 10Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare (A Diogneto, VI,1-10).

 

Paolo Farinella




La Politica del cristiano | Rendete a Cesare – 6

«Perché il mondo sia salvato per mezzo di lui…» (Gv 3,17)

«Non prego perché tu li tolga dal mondo» (Gv 17,15)

Cattolici finti e politica evangelica

Ogni volta che tra i cattolici, e oggi tra chiunque, si accenna a «politica» o, peggio ancora, ai «politici», ci si trova di fronte a un senso di ribrezzo e di nausea, perché «politica» è diventata sinonimo di corruzione, di sporcizia, di malaffare, e nel caso più benevolo di furbizia. Il merito principale è dei politici professionisti che si professano cattolici, ma i cui comportamenti e le cui scelte sono sistematicamente in contraddizione con la loro asserita appartenenza religiosa. Essi non hanno scelto di servire il loro popolo in nome di una superiore carità che ha come obiettivo il «bene comune», al contrario, essi si servono del loro stato di credenti per approfittare dei benefici ideologici e materiali che la loro condizione di eletti offre loro senza che essi facciano alcuna fatica. La cronaca è piena di questi cultori di «sistemi di peccato» che trafficano tra il diavolo e l’acqua santa con noncuranza e senza problemi di coscienza: la maggior parte degli inquisiti, dei condannati con sentenze di tribunali sono cattolici dichiarati. Cattolici che si vantano di essere tali e non perdono occasione di mettersi in mostra come praticanti e osservanti religiosi, che addirittura fanno parte di associazioni e movimenti religiosi «impegnati», qualcuno anche con «voti» espliciti, e che al tempo stesso militano alacremente in partiti dove la corruzione scorre con dovizia, sostengono governi che legiferano a favore di mafiosi e delinquenti, votano contro gli arresti di camorristi, rubano direttamente e sostengono sistemi perversi, dove l’economia è a favore dei più forti e potenti e a danno dei più poveri e indifesi.

Per un cristiano, «la Politica» dovrebbe essere il prolungamento del Vangelo, l’ambito e l’obiettivo della propria azione di testimone del Regno, perché è strettamente legata all’Eucaristia, dove il Pane indiviso è «spezzato» sull’altare che convoca tutti i popoli della terra per realizzare la profezia del «sentiero di Isaia» (cf Is 2,1-5). Tutte le volte che il credente celebra l’Eucaristia, prima di partecipare la comunione al Pane, si ferma e guardando negli occhi chi gli sta vicino, di fronte e dietro, proclama «Padre Nostro», dove l’aggettivo possessivo «nostro» diventa o profezia o condanna. La teologia che il «Padre Nostro» esprime, infatti, riguarda l’orizzonte della ecclesialità, perché Gesù non ci ha insegnato a pregare dicendo «Padre Mio», ma sempre e solo «Padre Nostro», forma inclusiva dei singoli individui, senza esclusione di alcuno. La paternità di Dio, infatti, per definizione è reale solo se include la fraternità, senza condizione. Anzi, la fraternità totale è segno e sacramento della presenza della paternità di Dio, altrimenti questa può essere un’illusione. Don Lorenzo Milani traduceva tutto questo principio in una affermazione lapidaria di altissima pedagogia: «Politica è sortirne tutti insieme. Sortirne da soli è l’avarizia» (Lettera ad una professoressa, Lef Firenze 1966, 14). Il Cristianesimo è per sua natura «assemblea», cioè il contrario di individualismo; è progetto d’insieme, che è il contrario dell’interesse privato; è convenire insieme, che è il contrario di vagare da soli.

Celebrare l’Eucaristia è dunque l’atto più politico e rivoluzionario del credente sulla terra perché da un lato esprime la missione senza confini propria della proclamazione della Parola e dall’altro enuncia la profezia dei segni del pane e del vino che non sono «dati» per essere mangiati in santa pace, ma perché a chi li mangia diano il vigore e la forza di spezzarsi e distribuirsi a loro volta con la stessa volontà e libertà del Signore Gesù. «Mangiare» insieme è la prima forma di religiosità basilare e in tutte le religioni, il cibo ha una valenza sovrumana perché accomuna il cielo e la terra e in terra convoca i diversi per farne un «solo corpo e un solo Spirito» (Preg. eucar. II). I cristiani dovrebbero amare «la Politica» e custodirla dai predatori che per tornaconto e interesse personale o di gruppo la scempiano e la deturpano in modo inverecondo. «La Politica» per il credente è l’azione santificatrice dello Spirito del Risorto che fa emergere l’identità di figli di Dio che converte alla condivisione. Politica è pregare agendo e agire pregando. Tra i cattolici, solo chi ha un altissimo senso di Dio e della propria insufficienza, solo chi ha sperimentato l’incontro con il Signore, solo chi è immerso nello Spirito missionario del risorto dovrebbe e potrebbe spingersi a operare in politica, come sacramento visibile della Presenza di Dio che pone la sua tenda in mezzo al mondo di ogni tempo e cultura.

Gesù politico-servo

Gesù fu un grande politico perché non guardò mai al suo interesse, ma ad esso antepose sempre il benessere materiale e spirituale delle folle che lo cercavano. Gesù esercita in sommo grado la politica come servizio e disponibilità verso i bisogni della povera gente, come sfamare gli affamati, guarire i malati, consolare i dubbiosi, prendersi cura dei piccoli e dei deboli. Nello stesso tempo, egli prende le distanze dai potenti che fanno della politica lo strumento della loro sete di onnipotenza per avere sempre più potere per i propri interessi. In tutto il Vangelo, Gesù opera prevalentemente lontano dalle grandi città, specialmente se sono centri di potere e predilige i villaggi, anche non ebrei, ma abitati da pagani, ai quali offre lo stesso servizio e gli stessi segni che opera per i Giudei. è il criterio della «Politica generale», quella che non fa preferenze, ma guarda all’umanità nella sua globalità di creatura del Padre.

Le beatitudini nella versione di Luca sono una chiara e inequivocabile «scelta preferenziale per i poveri» (cf Lc 6,20-26). Gesù non è il Messia adattabile a tutte le stagioni o l’uomo per tutti: egli esige non solo la conversione interiore, come atteggiamento morale personale, ma impone l’obbligo di una scelta radicale, come fa con l’uomo ricco, al quale impone di «vendere» le ricchezze per diventare suo discepolo. Sappiamo com’è andata a finire e sappiamo anche perché: «Aveva molte ricchezze» (Mc 10,21-22).

Gesù non prende mai le difese dei ricchi e quando li incontra li obbliga a prendere coscienza del valore sociale e comunitario dei loro beni (ricco epulone, Zaccheo, uomo ricco, ecc.). Nessuna ricchezza è individuale perché la creazione non può mai essere privata, avendo ricevuto fin dalle origini una destinazione universale. Gesù si differenzia sempre da chi esercita il potere con i quali non cerca mai il conflitto diretto e se può opera in periferia, mai a Cesarea, sede del governatore romano. Affronta però il conflitto, quando è inevitabile. In questo modo egli afferma la sua prospettiva che non è mai confusione di ruoli o di competenze.

La prova che la distinzione tra la «regalità» di Gesù e il «potere» di qualsiasi Cesare non è questione di aree d’influenza o di gestione di leggi, ma di prospettive e quindi, in conseguenza, di logiche che comportano decisioni, scelte, valutazioni, discernimento, sta anche nella preghiera al Padre del capitolo 17 di Giovanni, dove  Gesù stesso equipara  i suoi discepoli a sé, perché, come lui, «sono nel mondo»:

«9Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. 10Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. 15Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. 16Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; 19per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. 20Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: 21perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,9-20).

«Essere nel mondo» significa vivere la stessa sorte di tutti gli esseri viventi, partecipare all’esistenza dell’umanità. Null’altro. Infatti, essere cristiani o credenti non implica diritti particolari o privilegi o «statuti» diversi da quelli di chiunque altro. L’espressione «non prego per il mondo» accentua la separazione dal mondo, inteso come complesso delle forze ostili al Regno di Dio, cioè il male (cf Gv 15,18). Non è un rifiuto degli uomini o un disincarnarsi dall’umano, ma il rifiuto del «mondo» dell’ingiustizia, della prevaricazione, del potere basato sulla forza o, peggio ancora, del potere che nasce dalla corruzione e che genera corruzione. Dove c’è corruttela, infatti, c’è lo spirito del mondo che è opposizione al mondo di Dio. I cristiani non sono speciali, ma vivono in modo speciale perché stare nel mondo è un servizio che nasce dal senso della giustizia animato dall’agàpē e nello stesso tempo portano nel mondo «un metodo» di presenza e di «utilizzo» che esprime la gratuità di Dio che si rapporta con tutti e chiama tutti al suo convito. Se, sul piano della mistica, si ostenta fino all’esasperazione l’immagine del cristiano, «alter Christus», occorre che la stessa immagine diventi visibile sul piano delle scelte economiche, sociali, quando tocca interessi diretti e impone scelte che esigono separazione da metodi e sistemi che nulla hanno a che vedere con Cristo.

La politica come credibilità di Dio

Un credente che evade le tasse, che non svolge con competenza e impegno il proprio lavoro, che approfitta delle proprie conoscenze per prevaricare sugli altri, che usa la religione per avere contatti «importanti» o leggi o denaro o qualsiasi altro vantaggio per sé e la propria istituzione, tradisce il Regno di Dio e allontana la città degli uomini dal volto divino di Dio perché solo con la propria non coerenza rende visibile l’incredibilità di Dio. Questo, infatti, è il compito della religione: rendere credibile Dio, che non si vede, attraverso le azioni, le scelte, le parole (pensieri, parole, opere e omissioni) di chi dice di credere. La persona religiosa è una persona condannata a essere coerente fino allo spasimo perché ogni suo gesto, ogni suo respiro testimonia Dio o lo nega.

«Nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti, nella misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione» (Conc. Ecum. Vatic. II, Gaudium et Spes, n. 19).

C’è mondo e mondo

In Gv (vangelo e lettere) il termine «mondo – kòsmos» ricorre circa 100x e ha almeno quattro significati (cf Gv 1,10-11):

a) Il mondo geografico, ambiente materiale, il contenitore dove l’umanità vive.
b) Il mondo come genere umano considerato nel suo complesso, senza alcuna qualificazione.
c) Il mondo dell’incredulità o delle tenebre: coloro che combattono Dio e lo negano «a prescindere».
d) Il mondo della fede o della luce: coloro che avendo visto la «Gloria di Dio» nel Figlio, lo rendono ancora più visibile nella loro vita e nel loro operato.

I primi due significati sono abbastanza neutri, mentre gli ultimi due acquistano una valenza morale e teologica alternative, anzi contrapposte. Non possono coesistere, anche se possono convivere nel mondo come ambiente o come umanità. La separazione tra trono e altare sta tutta nella dialettica «sono nel mondo … non sono del mondo» perché il valore semantico della parola «mondo» è molteplice: il primo indica il mondo come creazione, come «luogo» della vita; il secondo, invece, indica il mondo come condizione di vita, come prospettiva di esistenza e quindi di scelte morali. Con questa espressione, Gesù intende affermare la natura provvisoria della Chiesa e quindi la sua condizione di «sacramento», cioè di segnale, di indicatore stradale. La Chiesa non può gestire potere mondano perché è destinata a scomparire, una volta instaurato il Regnum Dei. «Nel», ma non «del» mondo: è il rapporto tra lo stato in luogo e l’appartenenza interiore. Se Gesù è/sta «nel mondo», è una creatura che ha in comune con tutte le creature l’esistenza, la ricerca, la fatica, la riuscita, il fallimento, la condivisione, il conflitto, tutto ciò che fa umanità, nel bene e nel male. Questo esige la coscienza che il mondo è sinonimo di diversità: uomo/donna; ricco/povero; giusto/ingiusto; credente/non credente; religioso/indifferente; osservante/non osservante. Stare «nel mondo» vuol dire acquisire questi binomi e assumerli nella propria vita, come condizione esistenziale «previa». «Nel mondo» deve prevalere quello che unisce, cioè l’umanità e la fragilità, su quello che può differenziare come, ad es., essere credente o non credente.

 [6 – continua]

Tasse

L’esempio delle tasse è devastante. Si è diffusa la mentalità che siccome la tassazione è alta, in un certo senso, sarebbe «morale» autodetassarsi, cioè evadere, come ha addirittura incitato a fare un presidente del consiglio dei ministri in campagna elettorale per guadagnare qualche voto in più (Il Corriere della Sera, 17-02-2004). Nessuna reazione da parte del mondo cattolico a questo invito che guardava con benevolenza agli evasori costringendo gli onesti a pagare sempre di più. Chi sta al governo dovrebbe educare al senso dello stato e della partecipazione come condivisione dei servizi per lo sviluppo della personalità, la tutela della famiglia, il progresso ordinato e congruo della comunità. Quando manca il senso di Dio, è fortemente carente anche l’etica dello stato. Si ha un bel dire di essere cristiani o d’ispirarsi alla dottrina sociale della Chiesa, ma se si evadono le tasse, ci si mette fuori dall’amore di Dio, che s’incarna nell’amore del prossimo, e dal diritto di pretendere dallo stato servizi essenziali (sanità, scuola, assistenza, trasporti, pensioni, ecc.).

Chi non paga le tasse, non solo costringe chi le paga onestamente a pagarne sempre di più, ma non ne ha nemmeno lui stesso un beneficio diretto, in quanto alla fine deve pagare di più i servizi che lo stato non può erogare per mancanza di fondi. Pagare le tasse è condivisione evangelica oltre che dovere civile di altissima responsabilità. Per questo bisogna mandare al governo persone oneste che garantiscano non i privilegi in nome della religione, ma che amministrino con grande senso di responsabilità il denaro di tutti, verso il quale dovrebbero, se credenti, avere lo stesso rispetto che hanno per il Corpo di Cristo perché sono chiamati a servire e curare i corpi e gli spiriti di coloro con i quali Cristo si è identificato in tutti i tempi (cf Mt 25, 31-46). Il mondo del diritto e della trasparenza, dell’onestà e della condivisione è il mondo proprio dei credenti che devono anche farlo diventare il mondo proprio della politica e dello stato.

Paolo Farinella




(Cana 35) E io dissi: «Chi sei, o Signore?»

«E il Signore rispose: “Io sono Gesù, che tu perseguiti”»  (At 26,15)

Gv 2,9b: «L’architriclìno… non sapeva da dove è (il vino), ma sapevano i diaconi/servitori…».

Siamo quasi alla fine del nostro lungo pranzo nuziale, durato non alcune ore come è tradizione, ma più di due anni; prima di riflettere sugli ultimi due versetti, è necessario aggiungere ancora qualche tassello alla puntata precedente e capire il pensiero dell’autore che è sfuggente come un anguilla, costringendoci a inseguirlo «dove» lui sa di volerci portare. L’obiettivo del racconto infatti non è cronachistico né agiografico.
Sarebbe ben strano se il racconto fosse agiografico, perché di Gesù nulla sappiamo se non le poche e scarne notizie essenziali, funzionali in Giovanni alla sua personalità di Figlio di Dio: sappiamo che naque a Betlemme (ma non sappiamo quando), che ebbe una madre di Nàzaret e un padre legale; che svolse la professione di falegname prima e «rabbino» nell’ultimo tratto della sua vita, ma non sappiamo se per uno o due o tre anni; sappiamo che fu molto polemico con il potere religioso, con il quale cercò di evitare lo scontro finché poté, defilandosi in località lontane dai palazzi che contavano; sappiamo che alla fine dovette accettare lo scontro frontale e non si tirò indietro, correndo il rischio della sua stessa vita senza scendere a compromessi; sappiamo che morì a causa della instabilità istituzionale che la sua esistenza e le sue parole rappresentavano per la religione formale, alleata con il potere politico per farlo fuori e riuscendoci in modo illegittimo e illegale.
Valore teologico del racconto
Il racconto e l’importanza che assume, collocato al «principio» del «libro dei segni» (Gv 2-12), hanno valore «teologico» nella prospettiva dell’intero vangelo che la tradizione attribuisce alla scuola di Giovanni. Esso serve a mostrare la personalità di Gesù e ad aiutarci a scandagliare la sua «identità». Tante volte abbiamo detto che il IV vangelo (ma anche Marco) ruota attorno alla domanda: «Chi è Gesù?». In altre parole: come «conoscere/sapere» la sua identità? «Dove» incontrare la sua straordinaria personalità? Il racconto di Cana anticipa i temi di tutto il vangelo dalla prospettiva dell’alleanza del Sinai, che l’autore non considera superata, ma la condizione per un rinnovamento radicale che passi di nuovo attraverso il tema profetico della nuzialità (cf Os 2), del ritorno di Dio in mezzo al suo popolo dopo l’esilio e l’abbondanza della vita come ritorno al giardino di Eden (cf Is 40) dopo la siccità della separazione e abbandono.
Per questo, alla fine del racconto, che termina col versetto 10, l’autore si riserva di annotare che l’architriclino, cioè il rappresentante ufficiale della religione formale, non sapeva di «dove» veniva il «vino bello», qui simbolo della presenza di Dio, visibile in Gesù. Sul «dove» ci siamo soffermati nella puntata precedente, qui vediamo in breve il senso cristologico dell’avverbio «dove – pòthen», che nel IV vangelo ricorre 13 volte, su 29 occorrenze in tutto il NT, quasi la metà, per cui si può dire che è un termine importante nella teologia giovannea. In Gv 1,48 Natanaèle chiede a Gesù: «Dove mi conosci?» e Gesù risponde: «Ti conoscevo già prima che Filippo ti chiamasse». Qui il dove per due volte si relaziona con la conoscenza per fare emergere la vera consistenza del capo del popolo (Natanaèle è membro del sinedrio) che non ha una consuetudine con «i segni dei tempi» (Sir 42,18; Mt 16,3), ma si barcamena nella banalità dell’ordinario, standosene sotto il fico. Incontrare Gesù significa scoprire il proprio dove, affinare la propria prospettiva, orientare la direzione della propria vita per riconoscere da dove egli viene e accogliere i doni che egli offre, in primo luogo la «alleanza nuova» (Ger 31,31).
Sapere da dove viene il Signore
Il primo aspetto riguarda «l’origine» di Gesù e quindi la sua relazione col Padre: gli abitanti di Gerusalemme, disorientati di fronte al comportamento dei loro capi, sono perplessi sulla persona e l’operato di Gesù, ma hanno una certezza: «Costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia» (Gv 7,27); per due volte ricorre l’avverbio «dove – pòthen». Gesù risponde loro di non illudersi, perché possono arrivare a conoscere il «luogo» della sua nascita, ma senza attitudine spirituale non potranno mai scoprire la «sua origine», quella che lo mette in relazione con «chi mi ha mandato… e voi non conoscete» (Gv 7,28). Ancora una volta il «dove» è intimamente legato alla «conoscenza», che non è cognizione di dati, ma esperienza di vita.
Da parte sua Gesù conosce il suo «dove» d’origine e anche quello del suo compimento, a differenza dei farisei che invece si ostinano nel loro limite, impedendosi da soli qualsiasi conoscenza e qualsiasi prospettiva: «So da dove sono venuto e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado» (Gv 8,14).
Gli avversari di Gesù non possono accettare di non avere sotto controllo anche Dio perché per avere il monopolio della religione devono imbrigliare Dio nei loro schemi e nei loro riti: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato» (Gv 9,16). Essi arrivano ad addomesticare alle loro mire e pensieri anche la tradizione dietro la quale si rifugiano per fuggire dalle novità di Dio: «Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia» (Gv 9,28-29).
A essi pensava il profeta nel riportare le parole del Signore: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Solo l’esperienza salvifica (la guarigione dalla cecità) libera l’anima e il cuore da ogni condizionamento prevenuto e legge la realtà per quello che è, chiamandola per nome: «Voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi» (Gv 9,30). È la religione del dovere che si contrappone alla fede della ricerca. Scomodano anche Mosè, senza rendersi conto che se avessero ascoltato il condottiero, avrebbero fatta propria la sua preghiera e oggi la sperimenterebbero compiuta: «Mosè disse al Signore: “Il Signore, il Dio della vita di ogni essere vivente, metta a capo di questa comunità un uomo che li preceda nell’uscire e nel tornare, li faccia uscire e li faccia tornare, perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore”. Il Signore disse a Mosè: “Prenditi Giosuè, figlio di Nun, uomo in cui è lo spirito”» (Nm 27,15-18)1.
Il Profeta pari a Mosè
In ebraico il nome «Yehosuàh» nella forma lunga, oppure «Yoshuàh» nella forma corta, significa «Giosuè/ Gesù». La Bibbia greca della Lxx, traduce sempre con «Iēsoûs – Gesù». Il nome è come di solito «teofòrico» perché ha il significato di «Dio salva»2. Nel libro dei Numeri, Giosuè è successore di Mosè, ma nel libro del Deuteronomio c’è la promessa al popolo e a Mosè di suscitare un profeta «pari a» Mosè stesso, il profeta più grande di tutti i tempi: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto» (Dt 18,15).  
Ecco, il profeta di Dio è ora davanti a Israele, al popolo di Gerusalemme, ai capi, agli scribi e farisei e costoro prendono per sé il Mosè accomodato ai loro bisogni e non si rendono conto che la sua preghiera è stata esaudita nella persona di Gesù che parla «in mezzo a loro»; ma essi perduti nel deserto della loro religiosità senza Dio, non sanno «di dove sia».
Si spiega così perché non possono accogliere i doni dell’abbondanza che egli annunzia: il vino bello delle nozze dell’alleanza rinnovata (Cana in Gv 2,9), l’acqua viva della coscienza delle proprie scelte (Samaritana in Gv 4,11) e il pane che sfama (il pane/eucaristia dell’abbondanza in Gv 6,5). Essi sono ciechi pur vedendo, miscredenti pur praticando la religione, sazi di sé, nella presunzione di credersi i rappresentanti della volontà di Dio. A loro è precluso il soffio dello Spirito che «soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove (pòthen) viene né dove va» (Gv 3,8). Per cogliere lo Spirito e il suo «dove» bisogna essere disposti a staccarsi dalle proprie sicurezze per correre tra le spire del vento e lasciarsi portare in luoghi e «dove» inesplorati e forse mai sognati.
Nel IV vangelo pare che l’unico interessato a sapere il «dove» di Gesù sia l’uomo più lontano da lui, per compito e per stato: Pilato, il procuratore romano, rappresentante di quel potere antagonista con il servizio annunciato e vissuto da Gesù ed espressione di una potenza deificata, tanto che il suo imperatore è «divino» per antonomasia. Incuriosito dal mistero che circonda quell’uomo che si trova di fronte, non esita a chiedere, disarmante: «“Di dove sei tu?”. Ma Gesù non gli diede risposta» (Gv 19,9). Non è tempo di discussione tra concezioni di vita e di poteri: il dramma è agli sgoccioli e anche Pilato è nelle mani di un gioco più potente di lui, perché la sua legittima domanda è immediatamente stritolata nelle maglie dell’alleanza tra la religione e il potere, la spada e l’altare: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare!» (Gv 19,12).
Se Cesare prende il posto di Dio
Ai capi dei sacerdoti interessa non l’amicizia di Cesare né tantomeno quella di Pilato, ma che non si rompa il patto di stabilità tra il potere religioso e quello politico, pagando il prezzo della consegna di Gesù che afferma di essere «Figlio di Dio», anzi proprio per questo. Qui si svela il «dove» dei capi dei sacerdoti, cioè delle guide, coloro che si vantavano di essere discepoli di Mosè, il padre dell’esodo e il maestro del Sinai, il profeta dell’alleanza sponsale, colui che guidò il suo popolo, gli antenati dei capi di oggi, a scegliere Dio come proprio Re, trasformandolo in popolo regale (cf Es 19,6; 1Pt 2,9). Essi sono apostati perché rinnegano il Dio del Sinai e danno nome al vitello d’oro chiamandolo Cesare, il come di un imperatore qualsiasi, una caricatura di re, di norma pazzo e assassino: «Risposero i capi dei sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”» (Gv 19,15) che è il capovolgimento della promessa unica e solenne: «Quanto ha detto il Signore, lo faremo e lo ascolteremo» (Es 24,7). È l’apostasia totale.
Solo in questa prospettiva si può capire l’economia del racconto di Cana come midràsh dell’alleanza del Sinai: Cana è l’invito, anzi l’appello alla coscienza di Israele ad abbandonare la teoria dei Cesari che hanno dominato la sua vita e il suo cuore per tornare al Dio di Abramo, al Dio di Isacco, al Dio di Giacobbe, al Dio dei Padri (cf Es 3,16), lavandosi e purificandosi non già nell’acqua delle giare che sono vuote e abbandonate, ma nel sangue, cioè nella vita di Dio stesso che non esita a darsi per amore (cf Gv 15,13). Il racconto delle nozze di Cana è un affresco mite e seducente di un Dio prossimo che viene a cercare chi si era smarrito nei patti scellerati con il potere, aderendo a una religione di comodo che fa a meno di Dio, pur servendosene peccaminosamente, perché non può vivere senza il guinzaglio del «cesare» di tuo.
Per questo l’architriclino non ha saputo o potuto riconoscere il vino bello dell’alleanza sinaitica nuova perché non aveva il collirio adatto (cf Ap 3,18) per vedere e contemplare che «lo sposo di quelle nozze (Cana) raffigurava la persona del Signore» (Sant’Agostino, In Johannis Evangelium. Tractatus cxxiv 9,2). Abbiamo qui una prova del metodo di Giovanni: il significato materiale delle singole parole o dei personaggi (la figura dello sposo, più allusa che reale) è simbolo di un altro Sposo che solo chi possiede o è posseduto dallo Spirito può cogliere e assaporare (cf 1Cor 2,11).
L’apparenza, il simbolo e la realtà
Nelle nozze degli umani, il vino buono si spreca all’inizio perché l’obiettivo è fare «bella figura» con gli ospiti e, alla fine, quando tutti sono ubriachi e nessuno è più in grado di distinguere il vino dall’acqua, si mette in tavola vino scadente; nelle nozze del Regno, al contrario, poiché si guarda all’evento in sé, quando il Messia porterà a compimento la storia e il suo senso, che oggi può apparire confuso e complicato, allora, e solo allora si gusterà il «vino bello» della comprensione di ciò che si è vissuto. Nella prospettiva del Regno non si guarda alla «figura», cioè all’apparenza, ma si è proiettati verso la dimensione escatologica, «in quel tempo» unico e assoluto, quando contempleremo la Sposa di Dio, la Gerusalemme del cielo «adoa per il suo Sposo» (Ap 21,2), pronta a riscattare il pianto di «Rachele (che) piange i suoi» (Ger 31,15; Mt 2,18), perché ora accoglie l’umanità intera invitata a prendere parte alle «nozze dell’Agnello» (Ap 19,7), sigillo definitivo e supremo dell’alleanza aperta e conclusa nel segno della Parola sul monte Sinai, quando Dio scelse Israele e Israele si consacrò al suo Signore (cf Es 19,8; 24,3.7).
Il racconto di Cana s’interrompe in modo brusco, senza conclusione, restando in sospeso, perché ogni lettore sia costretto a fermare il suo pensiero e a immaginare ciò che non è scritto, perché lo riguarda direttamente: qual è il mio posto di lettore in questo racconto? Quale personaggio descrive il mio stato d’animo, la condizione della mia fede, il mio «dove» nel cammino della mia ricerca?
In altre parole, il racconto di Cana resta «sospeso» perché aspetta la risposta all’interrogativo di fondo: a che punto sono della mia storia della salvezza? Sono seduto al banchetto delle nozze dell’Agnello o sono ancora nel giardino di Eden alla ricerca dell’albero «gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (Gen 3,6)? Sono schiavo in Egitto, in attesa dell’irruzione di Dio, nella quale forse non spero più? Sono forse nel deserto a rimpiangere il passato, preferendo la schiavitù alla fatica del cammino verso la libertà? Ho preferito il «dio facile», rappresentato dal vitello d’oro, o il Dio esigente della coscienza sulla cima del monte che consegna le «dieci parole» di responsabilità? Non è affatto scontato che ciascuno di noi sia nel NT, accanto a Gesù Cristo, Messia e garante. No, non è proprio scontato.
Chi è Gesù per me?
Si può essere papi, vescovi, preti, consacrati, cristiani, studiosi della Bibbia da generazioni e generazioni e si può essere benissimo fuori della stanza nuziale, senza abito della festa (cf Mt 22,10-14), lontani dall’alleanza e dal Dio dal volto umano manifestato in Gesù di Nàzaret. La domanda cruciale è solo una e non può essere posta in altro modo: «Chi è Gesù per me?».
A questa domanda si deve rispondere e non si può rimandare; non è neppure sufficiente dare risposte prefabbricate, come fanno gli apostoli che riportano le «opinioni» degli altri: Giovanni Battista, Elia, Geremia, un profeta (cf Mt 16,14) o come fa Pietro stesso che crede di risolvere tutto affidandosi all’attesa messianica: «Tu sei il Cristo!» (Mt 16,16). Anche la sua risposta, che poteva venire dallo Spirito, è invece così generica e imprecisa che Gesù si sente in dovere di snudare la superficialità e doppiezza fino a chiamarlo satana: «Satana! Tu sei a me di scandalo» (Mt 16,23).
La domanda «Chi è Gesù per me?» impone al lettore di andare oltre il racconto di Cana, di scendere tra le pieghe delle parole che lo descrivono e di immergersi nel cuore dei sentimenti nascosti nel pozzo dello spirito. È il momento supremo della coscienza, che non può ingannarsi davanti a un evento che attende solo di essere vissuto: lo Sposo è giunto, le nozze possono cominciare! Si accendano le lampade (cf Mt 25,6).
È il momento della verità senza sconto: Gesù è un sistema di conoscenze catechetiche? Una struttura di dogmi o di etica? Un marcatore di civiltà da contrapporre ad altre? La chiave di un codice di potere? Lo strumento per esigere privilegi e «valori», magari non negoziabili? Oppure è una Persona che vuole essere incontrata, accolta, amata e frequentata?
Se è una Persona, c’è spazio per i sentimenti profondi fino all’innamoramento che fa sì che «quella Persona» diventi l’asse portante, il referente, il punto di arrivo e di partenza della vita, delle scelte, degli eventi, della morale, del pensiero, della fede e della speranza: «Il Dio della mia vita» (Sir 23,4).
(35 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Cana (25) Da madre a donna

Il racconto delle nozze di Cana (25)

«Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse:
“Ecco mia madre e i miei fratelli!”»  (Mc 3,34)

Gv 2,4a: «[E] dice a lei Gesù: “Che cosa a me e a te, o donna?”»
[(kài) lèghei ho Iesoûs: Tí emòi kaì soí, gýnai?]

Questioni letterarie
La prima parte del versetto ha fatto scrivere migliaia e migliaia di commenti di cui qui non possiamo dare ragione1. L’ultima versione della Bibbia-Cei (2008) traduce: «E Gesù le rispose: “Donna, che vuoi da me?”». La traduzione rispetta il senso, ma elimina la pregnanza misteriosa del testo, che preferiamo riportare alla lettera per sottolineare alcune osservazioni importanti, utili alla comprensione del testo nel suo complesso e nella sua interezza e anche per potere fare confronti con testi analoghi dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Tutti sanno che la traduzione-Cei non è tra le migliori, perché i vescovi alla fedeltà letteraria del testo originario (ebraico, aramaico e greco), hanno preferito la comprensione immediata del testo proclamato nella liturgia. Possiamo dire che la Cei, consapevole che i cattolici non hanno dimestichezza con la Parola di Dio a causa di una catechesi più dottrinale che biblica, hanno voluto facilitare la comprensibilità immediata piuttosto che la problematicità del testo. Hanno operato una traduzione liturgica.
Da un punto di vista della critica del testo, rileviamo due elementi: la congiunzione d’inizio versetto messa tra parentesi quadre [«e»] è omessa dal papiro 75 (175-225) e pochi altri, mentre è riportata dal papiro 66 (200 ca.) e dal codice sinaitico (sec. IV) e da quasi tutti gli altri per cui la si mantiene, ma per prudenza si mette tra parentesi.

Nota filologica. La «e» è una congiunzione cornordinante e copulativa, cioè lega il precedente al seguente con un nesso stretto. Nel versetto precedente troviamo: «Venuto a mancare il vino, dice la madre di Gesù a lui: “Vino non hanno”» (Gv 2,3), a cui corrisponde immediatamente con la congiunzione «e» la risposta istantanea di Gesù: «[E] dice a lei Gesù…» (Gv 2,4). Senza la congiunzione «e» si avrebbe la stessa risposta, ma con meno simultaneità, quasi vi fosse un tempo intermedio di riflessione; invece non c’è respiro tra la costatazione della madre che «vino non hanno» e la risposta di disapprovazione e fastidio data da Gesù.
Qualcuno potrebbe pensare che queste osservazioni siano di «lana caprina» o «spezzare il capello in quattro», mentre per noi esprimono la necessità di non essere mai superficiali con la Parola di Dio, anche perché Gesù ci ha detto espressamente: «Finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto» (Mt 5,18). In ebraico le parole in corsivo suonano così: «Lò’ yòd echàt ‘ò qòtz echàd» che potremmo tradurre in italiano con la nota frase: «Non si cambia neppure una virgola», quando vogliamo definire l’immodificabilità di un fatto o di un documento.
Cogliamo questa osservazione di Gesù per imparare qualcosa di più della Bibbia e del suo mondo. Lo iota (gr.: iôta) è la più piccola lettera dell’alfabeto ebraico, la decima lettera, che in italiano corrisponde alla «y/i»; il termine italiano «trattino» traduce in modo comprensibile il termine greco «keràia» che significa alla lettera «corno» e a sua volta traduce l’ebraico «qòtz» che significa «spina» e corrisponde a un piccolissimo oamento che hanno molte lettere dell’alfabeto ebraico, quindi un elemento quasi insignificante. Gesù in questo modo esprime un pensiero diffuso al suo tempo. Il midràsh Genesi Rabbà afferma: «Tutto ha una fine – cielo e terra hanno una fine –, solo una cosa non ha fine. Cos’è? La Toràh» (Gen R. 10,1) a cui fanno eco Esodo Rabbà: «Nessuna lettera sarà mai abolita dalla Torah» (Es R., 6,1) e Levitico Rabbà: «Se tutte le nazioni del mondo si radunassero per eliminare una parola della Toràh, esse non sarebbero in grado di farlo» (Lv R., 19,2). Con questa espressione Gesù esprime l’intenzione che anche i segni apparentemente insignificanti hanno un senso nell’economia dell’intera Bibbia: tutto anche le «congiunzioni» hanno il loro valore e devono essere prese come Parola di Dio.

Dal passato al presente
La seconda osservazione riguarda il verbo «lèghei – dice». Essendo l’autore a parlare, dovrebbe usare il passato remoto (in greco il tempo aoristo) che è il tempo narrativo per eccellenza, invece usa quello che tecnicamente si chiama «presente storico», nel senso che, pur riferendosi a un fatto passato, usa il presente, rendendolo vivacemente attuale, quasi contemporaneo al lettore, che così è coinvolto nello sviluppo degli eventi. Il tempo passato (remoto/aoristo) lascia il lettore spettatore distaccato, mentre il presente storico lo immerge in quello che accade e da osservatore neutro lo trasforma in attore.
Sia la «madre» del versetto precedente, sia «Gesù» adesso, usano lo stesso presente storico, come se tutti e due fossero, come sono, davanti al lettore che ascolta, quasi con il desiderio di volere interloquire. Non si tratta di un fatto passato, ma di qualcosa che accade «adesso» e riguarda ciascuno di noi.
Spesso la nostra superficialità di vita e di approccio alla Parola di Dio ci fa perdere di vista le «congiun-zioni» e molti «presenti storici», isolandoci e impedendoci così di assaporare la Presenza di Dio che parla «ora» e non ieri, perché la sua Parola non è uno strumento di narrazione di fatti passati da osservare acriticamente, ma è Parola di salvezza che risuona «oggi» per noi: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,20).
Spesso ci nutriamo di parole morte perché le usiamo come proiettili per dimostrare, per separare, per colpire, finendo per rompere l’unità interiore che è la condizione essenziale della nostra vita di persone e di persone credenti.
Senza le «congiunzioni cornordinate e copulative» che la Parola di Dio ci offre, la nostra vita scorre slegata, separata, isolata. Viviamo smembrati in noi stessi, così disarticolati da arrivare all’obbrobrio di leggere la Parola in modo ovvio, accontentandoci del significato più esteriore che fa velo a quello nascosto e interiore, il significato «secondo» o altro, che, specialmente in Giovanni, è il vero senso e la vera misura.
Senza coniugare il verbo della nostra vita al «presente storico» della Scrittura, rischiamo di diventare «specialisti di Dio», addetti al sacro, tecnici della Bibbia che magari conosciamo a memoria, maneggiandola con sapere e disinvoltura, illudendoci di «conoscere» Dio, mentre in effetti siamo solo acculturati di Dio.
Se sappiamo coniugare il nostro presente storico davanti alla Shekinàh/Dimora/Presenza, possiamo aspirare a diventare «Parola incarnata», lettere viventi dell’alfabeto di Dio che attraverso di noi scrive ancora oggi la sua Bibbia e la legge al mondo in un linguaggio comprensibile perché «presente» e visibile.

Una espressione ordinaria
L’espressione, per noi enigmatica: «Che cosa a me e a te, o donna?», tecnicamente si definisce un «idioti-smo» (dal gr.: idiôttēs = particolare/privato), cioé costruzione tipica di una specifica lingua, in questo caso quella semitica; si trova anche nella letteratura greca extrabiblica, come in Euripide, Erodoto, Aristofane (sec. V a.C.), Demostene (sec. IV a.C.), Epitteto (sec. I-II d.C.)2. L’espressione evangelica «che cosa a me e a te – a tí emòi kaì sói?», tradotta in ebraico è «mah lî walàk» (aramaico: mah laî welàk). Nell’AT si trova circa 15 volte ma, a nostro avviso solo 11 casi possono essere equiparati al testo del vangelo per forma sintattica e vocabolario. Di seguito riportiamo i testi:

a) Nell’Antico Testamento:
1.    Gs 22,24: «L’abbiamo fatto perché siamo preoccupati che in avvenire i vostri figli potrebbero dire ai nostri: “Che avete in comune voi con il Signore, Dio d’Israele?” (mah lakèm weladonài ‘elohê Ysra’el?)».
2.    Gdc 11,12: «Iefte inviò messaggeri al re degli Ammoniti per dirgli: “Che cosa c’è tra me e te (mah lî walàk), perché tu venga contro di me a muover guerra nella mia terra?”».
3.    2Sam 16,10: «Il re rispose: “Che ho io in comune con voi (mah lî welakèm), figli di Seruià?”» (cf anche 2Sam 19,23 con l’identica espressione).
4.    1Re 17,18: [La vedova di Sarepta] «disse a Elia: “Che cosa c’è tra me e te (mah lî walàk), o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia colpa e per far morire mio figlio?”».
5.    2Re 3,13: «Eliseo disse al re d’Israele: “Che cosa c’è tra me e te? (mah lî walàk). Va’ dai profeti di tuo padre e dai profeti di tua madre!”».
6.    2Re 9,18: «Uno a cavallo andò loro incontro e disse: “Così dice il re: ‘Tutto bene?’”. Ieu disse: “Che c’è tra te e la pace? [cioè il «tutto bene»] (mah lek ulshalòm)”». (cf. 2Re 9,19 con la stessa identica espressione).
7.    2Cr 35,21: «Quegli [Necao, re d’Egitto] mandò messaggeri a dirgli: “Che c’è fra me e te (mah lî walak), o re di Giuda? Io non vengo oggi contro di te”».
8.    Os 14,9: «Che ho ancora in comune con gli idoli (mah lî ’ôd la’zabîm), o Èfraim?».
9.    Gl 4,4: «Anche voi, Tiro e Sidone, e voi tutte contrade della Filistea, che cosa siete per me? (mah ‘attèm lî)».

b) Nel NT l’espressione idiomatica ricorre appena 5 volte:
1.    Mc 1,24: «Un uomo posseduto da uno spirito impuro cominciò a gridare, dicendo: “Che cosa a noi e a te (tí hēmîn kài sói), Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”».
2.    Mc 5,7: «Un uomo posseduto da uno spirito impuro, urlando a gran voce, disse: “Che cosa a me e a te (tí emói kài sói), Gesù, Figlio del Dio altissimo?”».
3.    Mt 8,28-29: «Due indemoniati… si misero a gridare: “Che cosa a noi e a te (tí hēmîn kài sói), Figlio di Dio?”».
4.    Lc 4,33-34: «Un uomo che era posseduto da un demonio impuro… cominciò a gridare forte: “Che cosa a noi e a te (tí hēmîn kài sói), Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”».
5.    Lc 8,27-28: «Un uomo posseduto dai demòni … vide Gesù, gli si gettò ai piedi urlando, e disse a gran voce: “Che cosa a me e a te (tí emói kài sói), Gesù, Figlio del Dio altissimo?”» (cf. anche Mt 27,19, ma solo in senso lato).

Mancanza di vino, eccesso mariano
Abbiamo riportato tutti i testi chiari per fare vedere «visivamente» che l’espressione di Gesù a sua madre non è strana e non è oscura, come si vorrebbe far credere, ma è una espressione «tipica» del parlare del suo tempo per indicare, a seconda del contesto, disapprovazione, dissuasione, non condivisione del punto di vista, non gradimento, discontinuità tra due situazioni, disinteresse e chiusura di qualunque rapporto tra due interlocutori.
Probabilmente a complicare le cose gioca un ruolo determinante l’eccessiva devozione mariana con cui si è letto e, in certi ambienti fondamentalisti, si legge ancora il racconto delle nozze di Cana. Al di fuori del contesto ebraico, si fa fatica ad ammettere una risposta sgarbata di Gesù a sua madre che, da questo punto di vista è considerata la protagonista per eccellenza del racconto perché è lei che, apparentemente, risolve un caso di opportunità sociale: la vergogna degli interessati che non hanno calcolato il vino necessario per la festa.
Spesso è visto, errando, il racconto delle nozze di Cana come un piedistallo mariano, da cui domina la Vergine Maria che viene in soccorso dei bisogni dei suoi figli, memori delle parole sublimi di Dante nella preghiera di San Beardo nell’ultimo canto del Paradiso: «La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fïate / liberamente al dimandar precorre» (DANTE, Divina Commedia, Par., XXXIII, 15-18).
Senza nulla togliere a Maria, nel contesto delle nozze di Cana, una simile interpretazione è ben povera perché annega in un «bicchiere di vino» (è il caso di dirlo!) la prospettiva storico-salvifica di Giovanni, che guarda le nozze nella prospettiva dell’alleanza del Sinai e non alla devozione mariana, totalmente estranea all’evangelista.
Il popolo cattolico in particolare per la sua strutturale «ignoranza delle Scritture», è indotto a leggere e commentare la Bibbia con le proprie precomprensioni teologiche o peggio devozionali, per cui, nel nostro caso, la Madonna diventa la figura di primo piano nel racconto delle nozze di Cana, facendo così piazza pulita di tutti i sensi simbolici che l’autore del IV vangelo vi ha posto e ci obbliga ad indagare.
Da questa prospettiva mariana, e la catechesi spicciola vi è egregiamente riuscita, bisognava ridurre l’impatto della contrapposizione tra Gesù e sua madre, arrivando fino a dire che l’appellativo «donna» è un titolo onorifico e di rispetto, travisando così il senso anche ovvio del vangelo.
Rivolgendosi a sua madre, Gesù la chiama «donna» (nel testo greco senza articolo e senza alcuna qualifi-ca), esprimendo un passaggio epocale nella storia di Gesù. La «madre» dei versetti precedenti (cf. Gv 1,1-2) e seguenti (cf. Gv 2,12; 19,25-27) diventa ora solo «donna», creando un nuovo rapporto nella vita della madre e in quella del figlio, Gesù. Nel momento in cui Gesù entra in scena, saltano tutti i rapporti di parentela precedenti e si stabiliscono relazioni nuove per un orizzonte nuovo.
La «madre» era alle nozze in rappresentanza di Israele/sposa, e ambedue, madre e popolo, giacciono là «giare di pietra», simbolo dell’alleanza sinaitica che ora è chiamata da Gesù a salire di senso: dal vino materiale al vino messianico. «Che c’è fra te e me, donna?» sta a significare: popolo d’Israele, mia sposa e madre, non perdere tempo con le cose insignificanti, ma guarda in alto e in avanti ed entra nella nuova prospettiva del Regno di Dio.
La madre/Israele deve prendere coscienza che è arrivato il rinnovatore: «Ecco, io faccio nuove tutte le co-se» (Ap 21,5), colui che supera le cose passate e proietta verso il Regno del futuro, la nuova economia della salvezza: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa» (Is 43, 18-19).
Chiamando la madre «donna», in maniera assoluta, senza alcuna qualifica e articolo, Gesù la scaraventa dal piano affettivo/familiare a quello storico salvifico identificando in modo assoluto la madre/donna a Israele/sposa del Messia/sposo che inaugura la «nuova alleanza» preannunciata dal profeta (cf. Ger 31,31) che concluderà definitivamente nella «sua ora», l’ora della morte e risurrezione. 
(25 – continua)

di Paolo Farinella

1.    Per una bibliografia abbastanza completa cf. A. SERRA, Le nozze di Cana, 273-303, special. le note).
2.    Cf. i testi per esteso riportati da A. SERRA, Le nozze di Cana, 274-275 alle note 468-472, specie la nota 472, che riporta i testi di Epitteto, i quali per tempo e forma sintattica sono più vicini al vangelo rispetto agli altri autori che hanno espressioni simili, ma non uguali.

Paolo Farinella




Storia del Giubileo 1. Francesco, papa profeta


C
on la Bolla «Misericordiae Vultus»
(MV) dell’11 aprile 2015, Papa Francesco ha indetto un
Giubileo Straordinario dedicato alla Misericordia. Il
Giubileo durerà un anno, dall’8 dicembre 2015, cinquantesimo anniversario della
chiusura del concilio Vaticano II, al 20 novembre 2016, memoria liturgica della
festa di «Cristo Re dell’universo». Il Papa ha esteso a tutte le chiese
cattedrali diocesane e a quelle più significative di tutto il mondo le stesse
prerogative delle Basiliche vaticane di Roma, per cui – e questo è anche il
desiderio di Papa Francesco – non sarà necessario andare a Roma, come per tutti
gli altri Giubilei, ma si potrà partecipare intimamente anche dalle proprie
città e diocesi.

Questa
scelta è importante perché il Papa, in questo modo, afferma «l’ekklesìa»
universale che si realizza ovunque si celebri la Misericordia di Dio che lo
stesso Francesco nella Bolla di indizione definisce «l’architrave che sorregge
la vita della Chiesa» (MV, n. 10), la quale «vive un desiderio inesauribile di
offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del
Padre e la sua forza diffusiva».

La
rivista MC ha deciso di predisporre dieci puntate (una al mese e quindi per
l’intero anno giubilare) per approfondire il significato del Giubileo nella
Bibbia, quali sono i suoi contenuti, e quale ne è stato lo sviluppo nella
storia della Chiesa, che vide il primo Giubileo nel 1300, indetto da Papa
Bonifacio VIII con intenzioni ben diverse da quelle di Papa Francesco.
Cercheremo di capire meglio – almeno lo speriamo – le ragioni e le motivazioni
interiori che hanno spinto il Papa a fare questo gesto e con modalità diverse
da quelle degli altri Giubilei. Sono grato a MC di avermi affidato questo
compito che, pur essendo impegnativo, mi permette di compiere un atto di
devozione e di ossequio ai nostri lettori, verso i quali MC non può che nutrire
sentimenti di gratitudine.

Non
possiamo però cominciare il racconto della storia del Giubileo senza domandarci
chi sia Papa Francesco. Se è vero, come lui stesso ha detto la sera della sua
elezione a vescovo di Roma (13 marzo 2013), che i «cardinali sono andati a
prenderlo quasi alla fine del mondo», è anche vero che fin dall’inizio egli ha
compiuto gesti e ha detto parole incisive per le persone, per lo stesso papato
e anche per chi non crede. Questo Papa non lascia indifferenti.

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */
table.MsoNormalTable
{mso-style-name:"Tabella normale";
mso-tstyle-rowband-size:0;
mso-tstyle-colband-size:0;
mso-style-noshow:yes;
mso-style-priority:99;
mso-style-parent:"";
mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt;
mso-para-margin:0cm;
mso-para-margin-bottom:.0001pt;
mso-pagination:widow-orphan;
font-size:10.0pt;
}

 

 

Una profezia scontata

 

Devo iniziare con un riferimento personale. Me ne scuso, ma è
necessario. Nel 1999, quando vivevo a Gerusalemme, pubblicai un romanzo dal
titolo «Habemus Papam, Francesco». Alla vigilia del Giubileo che segnava il
passaggio tra il II e il III Millennio, immaginavo l’arrivo di un papa che
prendesse il nome «Francesco» e cominciasse a riformare sul serio la Chiesa che
già allora, nel declino del pontificato di Giovanni Paolo II, viveva i sintomi
di un sistema ecclesiastico che iniziava a precipitare.

Nel 2012, a richiesta dei lettori, il romanzo fu ripubblicato
dall’Editore Gabrielli con il titolo «Habemus Papam. La leggenda del Papa che
abolì il Vaticano». Questa seconda edizione fu aggiornata al pontificato di Papa
Ratzinger, durante il quale il Vaticano fu teatro di fatti scandalosi e di
corruzione, così gravi da portare lo stesso Papa a rassegnare le dimissioni, le
prime dopo quelle del 1294 di Celestino V, il Papa che con l’istituzione della «Perdonanza»
di Collemaggio (L’Aquila), anticipò di quattro anni il primo Giubileo della
Chiesa Cattolica, proclamato per l’Anno Santo del 1300 dal suo successore, Papa
Bonifacio VIII della famiglia «Cajetani».

L’idea di un papa che prendesse il nome Francesco, anticipata di
tredici anni e poi ribadita l’anno precedente la sua realizzazione, non fu una
preveggenza perché il cristiano non ha bisogno di arti magiche per leggere il
futuro, gli è sufficiente avere gli strumenti adatti alla lettura dei «segni
dei tempi» (Mt 16,2-3; cf Lc 12,54-56; Vangelo [apocrifo] di Tommaso,
n. 91) che sono il Vangelo e la Storia, accostati senza prevenzioni. Usare
questi strumenti è il modo «ordinario» per conoscere il senso e la profondità
di ciò che accade e anche di quello che verrà.

Oggi, ascoltando il papa, spesso gli sento pronunciare le stesse
parole del Papa del romanzo o vedo che compie gesti simili al Francesco
letterario, e non mi meraviglio perché il Papa crede che lo Spirito Santo guidi
la storia e le ragioni profonde dell’agire. Non ha quindi idee o interessi o
privilegi da difendere. Con il cuore libero sa disceere le esigenze del Regno
di Dio, distinte dagli schemi dei propri convincimenti. Papa Francesco è
isolato all’interno del «sistema clericale» e alcuni non lo nascondono nemmeno:
sono gli stessi che prima difendevano il «primato del Papa», ma solo perché il
pensiero del Papa di tuo coincideva con il loro. È sufficiente che un Papa
pensi secondo Dio con spirito di servizio, combattendo la perversione del
potere e lo spirito di casta, che di solito degenera nella corruttela, ed ecco
montare un muro di resistenza strisciante.

Papa Francesco ha il senso di Dio perché è affamato di umanità e
sa di rappresentare sulla terra quel Cristo, che è «Lògos [che] carne fu fatto»
(Gv 1,18). Si presenta all’umanità non come maestro di princìpi e dispensatore
di dottrina, difensore di tradizioni passate e fustigatore di costumi, ma
semplicemente come il servo del Dio incarnato che viene a misurarsi con il
passo delle persone alle quali prospetta e offre un orizzonte che solo nella
libertà e nell’amore è possibile.

Si può dire che Papa Francesco esprima l’anelito e l’ansia
pascaliani di non preoccuparsi del Dio della filosofia e delle dimostrazioni
apologetiche, ma unicamente del Dio incontrato e sperimentato nella sua storia
e in quella dei suoi compagni e compagne di viaggio: «Fuoco. Dio di Abramo, Dio
di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti … Dio di Gesù Cristo»
(B. Pascal, Memoriale; cf anche Pensieri, 5, 362, 366, 556; 602,
730).

Qualche giorno dopo la morte di Blaise Pascal (1623-1662), un domestico trovò
cucito nella fodera di un suo indumento, un foglio autografo in cui filosofo e
scienziato faceva riferimento a un’esperienza, forse mistica, avvenuta nella
notte del 23 novembre 1654. Il breve documento è conosciuto come «Memoriale» e
riporta la celebre frase: «Fuoco. Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di
Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti … Dio di Gesù Cristo».



 


Da sommo pontefice a «servo
dei servi»

 

Per capire Papa Francesco e la scelta d’indire un Giubileo
Straordinario sulla Misericordia, bisogna ritornare a quella sera straordinaria
del 13 marzo 2013, quando dopo la fumata bianca e l’annuncio del cardinale
protodiacono: «Habemus Papam … Franciscum», il primo latinoamericano della
storia e il primo gesuita papa, si è affacciato alla loggia delle benedizioni.
Da subito gli addetti del mestiere hanno capito che molto era cambiato, già
solo al vederlo vestito di bianco e senza la mozzetta scarlatta e la stola
cosiddetta di «Pietro e Paolo». Accanto al Papa, alla sua sinistra, stava
terreo e sudato il cerimoniere pontificio che sul braccio teneva piegata la
stola pontificia.
È
stata una scena indimenticabile perché ha segnato il confine irreversibile tra un
«prima» e un «poi» (cf V. Gigante – L. Kocci, La Chiesa di tutti,
prefazione di Paolo Farinella, Altraeconomia, Milano 2013). Per la prima volta
nella storia, un Papa appena eletto non si presentato come «pontefice», ma come
Vescovo di Roma e ha voluto mostrarlo in modo visibile perché nella Chiesa i
simboli sono essenziali. Egli ha rinunciato alla «mozzetta rossa, oata di
ermellino», residuo della clamide rossa indossata l’imperatore come simbolo
della sua autorità di massimo magistrato dello stato. Rinunciando all’indumento
imperiale, il Papa rinunciava a presentarsi come «Sommo Pontefice», titolo
riservato all’imperatore e simbolo del potere temporale. Non indossando la
stola che di solito i Papi portano quando esercitano la loro funzione di capi
di stato, il Papa si è offerto al suo popolo «nudo» come Francesco di Assisi e
ha trasformato in un colpo solo il potere in servizio.

L’ultimo gesto sconvolgente è stata la richiesta al popolo
romano, cioè il «suo» popolo ecclesiale, d’invocare la benedizione di Dio su di
lui vescovo, prima che questi benedicesse il popolo, dando corpo alle parole di
sant’Agostino che nell’anniversario della sua ordinazione diceva ai cristiani
di Ippona: «Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano» (Sermones,
340, 1 PL 38, 1483). La sera del 13 marzo 2013 dalla loggia centrale del
Vaticano non si è presentato il rappresentante del potere temporale, anche se
stilizzato, il Papa-Re, anche se di un minuscolo Stato di 0,44 km
2, ma «il servo
dei servi di Dio». Non si è presentato soltanto. Ne ha anche avuto coscienza.

 

L’appellativo «Servus servorum Dei» fu utilizzato per la prima volta da Papa
Gregorio I (1145-1241) in risposta al Patriarca di Costantinopoli Giovanni IV Nesteutés,
che significa Digiunatore (582-595), che nel 587 aveva assunto il titolo di
Patriarca «Ecumenico». Papa Gregorio si definì «Servo di Dio» che nell’Amtico
Testamento è un titolo onorifico, sinonimo di ambasciatore/rappresentante, e
per sottolineare l’umiltà del ministero aggiunse «dei servi di Dio», cioè il
Popolo santo dei credenti. L’appellativo, per le circostanze in cui è nato, ha
un richiamo esplicito al profeta Samuele: «Parla, Signore, perché il tuo servo
ti ascolta» (1Sam 3,9-10).



 

La misericordia nel sangue

Francesco di Assisi andava in giro per la città predicando
il Vangelo «sine glossa», cioè senza alcun commento, ma testimoniandolo con la
vita e l’esempio e assumendo la povertà assoluta come misura della sequela di
Cristo. Papa Francesco, che prende il nome del poverello di Assisi, si condanna
da sé a essere inchiodato a una vita di austerità e povertà, anche esteriore,
perché quel nome non è un nome qualsiasi, ma quello di uno che «fece sul serio».
Papa Francesco è coerente e due anni di servizio petrino lo dimostrano: egli è
quello che appare e fa quello che dice (cf Mt 23,3).

Nell’esortazione apostolica «Evangelii Gaudium», Papa
Francesco scrive facendo eco al Santo suo ispiratore e facendo suo il metodo
del «sine glossa»:

«È vero che, nel nostro rapporto con
il mondo, siamo invitati a dare ragione della nostra speranza, ma non come
nemici che puntano il dito e condannano. Siamo molto chiaramente avvertiti: “Sia
fatto con dolcezza e rispetto” (1 Pt 3,16), e “se possibile, per quanto dipende
da voi, vivete in pace con tutti” (Rm 12,18). Siamo anche esortati a cercare di
vincere “il male con il bene” (Rm 12,21), senza stancarci di “fare il bene”
(Gal 6,9) e senza pretendere di apparire superiori ma considerando “gli altri
superiori a se stesso” (Fil 2,3). Di fatto gli Apostoli del Signore godevano “il
favore di tutto il popolo” (At 2,47; cfr. 4,21.33; 5,13). Resta chiaro che Gesù
Cristo non ci vuole come principi che guardano in modo sprezzante, ma come
uomini e donne del popolo. Questa non è l’opinione di un Papa né un’opzione
pastorale tra altre possibili; sono indicazioni della Parola di Dio così
chiare, dirette ed evidenti che non hanno bisogno di interpretazioni che
toglierebbero ad esse forza interpellante. Viviamole sine glossa, senza
commenti. In tal modo sperimenteremo la gioia missionaria di condividere la
vita con il popolo fedele a Dio cercando di accendere il fuoco nel cuore del
mondo» (EG, 271).

Questo è l’uomo che ha indetto il Giubileo Straordinario
della Misericordia, parola che segnava la vita di Bergoglio già prima di essere
eletto. Quando nel 1992 era stato eletto Vescovo, secondo la tradizione come
suo motto episcopale scelse il motto latino: «Miserando atque eligendo». La
frase è tratta dalle Omelie di san Beda, detto il Venerabile (672-735),
il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo,
scrisse: «Vide Gesù un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore
[in latino: miserando = avendone misericordia] e lo scelse, gli disse:
Seguimi» (Omelia 21; CCL 122, 149-151).

Non è più tempo di difendere i princìpi a forza di
manifestazioni o urla, oggi è l’umile tempo del sacramento della testimonianza
con la vita, che è il vero martirio che il Vangelo chiede a quanti vogliono
avventurarsi per questa via, senza esaurirsi in una religiosità esteriore e di
convenienza. Annunciando il Giubileo, Papa Francesco, come novello Giona,
attraversa la Ninive della storia, annunciano a tutti non la «Misericordia di
Dio», ma che «Dio è Misericordia». In questo modo egli resta fedele alla sua
storia personale e alla sua vocazione, dando spazio alla Dimora/Shekinàh dello
Spirito nella sua vita. Da Papa ha coscienza di dovee testimoniare la realtà
davanti al mondo e davanti a chiunque incontri. D’altra parte anche Gesù ha
iniziato il ministero pubblico nella sinagoga di Nàzaret, scandalizzando i
cultori del Dio «castigamatti», annunciando per tutti un Dio dal Volto non solo
umano, ma amorevole e carico di tenerezza e di amore a perdere:

«18Lo Spirito del Signore è sopra di me; / per questo mi ha
consacrato con l’unzione / e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto
annuncio,/ a proclamare ai prigionieri la liberazione/ e ai ciechi la vista;/ a
rimettere in libertà gli oppressi,/
19a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 1,18-19).


Ogni tempo è «anno di grazia» perché il tempo di ciascuno è
diverso dal tempo degli altri, ma il tempo di Dio è sempre un «kairòs
occasione propizia» da afferrare, perché Dio ha tutta l’eternità per perdere il
suo tempo con noi, suoi figli e figlie, oggi e domani. Sempre.

 

Paolo Farinella, prete

Paolo farinella




Storia del Giubileo 2. Riscoprire il senso delle parole


Nella puntata precedente (cf MC 10/2015) ho presentato il Papa che ha indetto il Giubileo della Misericordia e ho anche accennato alle novità che egli ha portato con semplicità e mitezza, venendo «dalla fine del mondo» per assumere lo stesso stile pacato e «buono» di Papa Giovanni XXIII che, l’11 ottobre 1962, inaugurò il concilio ecumenico Vaticano II col medesimo programma di Gesù nel Vangelo di Luca: «L’anno di grazia» (cf Lc 4,19):

«Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odiee, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando» (Gaudet Mater Ecclesia, 7.2).

«La medicina della misericordia» è il commento cristiano al «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). È il vino e l’olio che il Samaritano versò sulle ferite dell’uomo incappato nei briganti e lasciato per strada mezzo morto (Lc 10,34). In altre parole è la medicina per curare le ferite e ridare dignità a chi è stato umiliato.

Maschile, femminile e neutro

Papa Francesco su questo punto non ha dubbi:

«Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso. La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ha salvato!”. E i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia» (A. Spadaro, Sj, «Intervista a Papa Francesco», in La Civiltà Cattolica, 2013 III, pp. 449-477 | 3918 [19 settembre 2013], qui pp. 461-462).

È insegnamento comune della Chiesa (e anche del buon senso), sintetizzato da san Tommaso in una massima di grande effetto: «Prima la vita, poi la dottrina – Prius autem est bene vivere quam bene docere» (san Tommaso d’Aquino, Catena in Mt, cap. 5,1-11). La «misericordia» dice che la Chiesa non può andare nel mondo alla conquista di proseliti, ma deve stare «nel» mondo sapendo di non essere «del» mondo (cf Gv 17,11.15-16) per affermare con la vita e le sue scelte la «signoria» di Dio e il primato di Cristo, anzi della sua «Agàp?» che è amore a perdere, cioè donarsi senza chiedere in cambio nulla.

Papa Francesco ha intitolato la Bolla d’indizione del Giubileo «Misericordiae Vultus», parole che meritano una riflessione non superficiale, un’attenzione di stampo esegetico. Sono tre parole: «Giubileo» (in latino Iubiléum), «Misericordiae – della Misericordia» e, infine, «Vultus – Volto/faccia/viso»; tre parole, tre sostantivi: uno neutro (Iubiléum), uno femminile (Misericordiae) e uno maschile (Vultus), quasi ad assommare l’intera creazione, ciò che è animato (maschile e femminile) e ciò che è inanimato (neutro), perché l’istituto del Giubileo riguarda non solo le persone e le relazioni tra loro, ma anche la terra, le piante, le cose. Nulla può essere escluso dalla sua sfera di giustizia e di grazia.

Se, infatti, il maschile e femminile fanno riferimento alle due componenti essenziali alla vita e alla conservazione della specie, il neutro ci porta nel cuore della terra che la norma del Giubileo tratta come «una persona» dal momento che non può essere sfruttata senza limiti, ma solo per lo stretto necessario alla vita. Il Giubileo riguarda tutti e tutto, senza distinzione di ruoli, di sessi, di funzioni. Riguarda gli animali, e quella che Papa Francesco chiama la «casa comune», la Madre Terra, cui ha dedicato la sua ultima enciclica «Laudato si’», che ha come sottotitolo appunto «Enciclica sulla cura della casa comune», non a caso pubblicata il 24 maggio 2015, giorno in cui la liturgia cattolica ha fatto memoria solenne del giorno di Pentecoste, il giorno dell’esplosione dello Spirito che secondo la profezia di Gioele «è effuso su ogni carne – ‘al kol basàr» cioè su tutto ciò che ha una qualsiasi forma di alito di vita (Gl 3,1).

Per approfondire in modo sistematico il termine «misericordia», suggeriamo la lettura di Paolo Farinella, Il Padre che fu Madre. Una lettura modea della parabola del Figliol Prodigo, Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano (VR) 2010, dove la parola è rintracciata in tutta la Bibbia e nei diversi contesti, ed è sviscerata in modo particolare in Lc 15, pericope in cui si espone la parabola appunto del Padre che fu Madre nei confronti di un figlio senza ritegno e senso della vita. Si consiglia inoltre di leggere il testo della Bolla d’indizione del Giubileo, «Misericordiae Vultus», di Papa Francesco (reperibile sul sito https://w2.vatican.va).
È anche opportuno leggere l’ultima enciclica di Francesco, «Laudato si’» che con parole semplici e ragionamenti non specialistici fa un’impressionante fotografia della situazione reale della Terra, e quindi del genere umano, richiamando ciascuno alle proprie responsabilità (il testo della lettera enciclica è reperibile in qualsiasi libreria, pubblicata da diverse case editrici o, anche questo, nel sito del Vaticano).

Dare senso alle parole

Esamineremo nelle prossime puntate di questa rubrica i tre termini, giubileo, misericordia e volto, allo scopo di scoprire su quale orizzonte ci vogliono collocare. Anche a costo di sembrare pedante, non rinuncerò ad assaporare le singole parole, in contrasto con un ambiente culturale superficiale che sta svuotando la lingua del suo significato, che sta facendo correre all’umanità di oggi il rischio di trovarsi in futuro – sempre che già non si trovi – in una nuova Babele dove nessuno può comunicare con gli altri perché ciascuno dà a ogni parola significati diversi (cf Gen 11,1-9).

Oggi le parole sono trattate in modo violento e osceno, in un inverecondo «usa e getta». Dicono le statistiche che ogni giorno in Italia, tramite cellulare (solo messaggi) si trasferiscono non meno di un miliardo di parole, dando ragione all’anelito del poeta indiano Rabíndranáth Thákhur, occidentalizzato in Tagore (1861-1941): «La polvere delle morte parole ti copre, lavati l’anima nel silenzio».

Penso che solo gl’innamorati sappiano valorizzare il silenzio come comunicazione del profondo, perché solo essi sanno superare la barriera del tempo e vivere una dimensione di eternità stando insieme, e comunicare «senza parlare» perché la pienezza dei sentimenti vissuti e condivisi non possono essere espressi in insufficienti parole. Vi sono momenti ed emozioni che solo nell’estasi possono esprimersi ed essere compresi.

Se la parola non ha come contorno il silenzio, essa è solo un suono vuoto, o peggio perduto, e dovrebbero saperlo bene i cristiani che affermano di essere i testimoni del Lògos – la Parola per eccellenza – che diventa fatto/evento, in termine evangelico «carne», cioè fragilità (cf Gv 1,14). Per definire, oggi, Ebraismo, Cristianesimo e Islam, si ricorre all’espressione «religioni del Libro», cioè della parola, non solo detta, ma sigillata nello scritto perché rimanga fissata a dare senso di marcia a chi ascolta e alle generazioni future. La parola scritta è garanzia e promessa verso il futuro perché trasmette lo stesso «significato» per dare un legame intimo alle generazioni distanti tra loro.

Dice la Mishnàh giudaica (VI, 1) che al crepuscolo della creazione, cioè la sera di venerdì, un momento prima che entrasse lo Shabàt . Sabato, giorno in cui «Dio si riposò», egli creò le lettere dell’alfabeto e le conservò con cura perché con esse avrebbe scritto sul monte Sinai la Toràh con i comandamenti e le norme dell’alleanza sponsale. Che idea geniale! Dio conclude la settimana della creazione con l’alfabeto e inaugura il riposo festivo conservando, anzi custodendo le parole del futuro. Si sottolinea così la preziosità non solo delle parole, ma anche delle singole lettere che non possono essere sciupate perché con esse possiamo dire chi siamo e possiamo andare oltre noi stessi comunicando con gli altri. Per questo motivo gli Ebrei usano scrivere il testo della Bibbia in ebraico, ponendo coroncine decorative su ogni singola lettera, pratica che in campo cristiano si è evoluta nell’arte dei codici miniati.

Il silenzio, parola suprema

Ascoltare il silenzio è la premessa per potere parlare quando ve n’è bisogno. I monaci che vivono nel silenzio sanno distinguere ogni minimo segnale, ogni piccolo fruscio, ogni suono infinitesimale perché nel silenzio il loro animo è educato all’importanza di ogni singola eco, come magistralmente mostra il film del regista tedesco Philip Gröning, «Il grande silenzio» (2005, girato nel monastero della Grand Chartreuse certosina di Grenoble).

Per approfondire, suggeriamo: H. J. Nouwen, Ho ascoltato il silenzio. Diario da un monastero trappista, Queriniana, Brescia 2008. Philip Gröning, Il grande silenzio – Die Große Stille (2005), durata 162 m., durante i quali lo spettatore è immerso in una giornata monastica, partecipandovi attivamente, condotto per mano a immedesimarsi nei passi lenti e pacati dei monaci che di notte si avviano al coro e di giorno alle loro attività consuete. Il regista è capace di fare comprendere come la Parola diventa Regina perché vive sul trono del Silenzio.

Il Sapiente biblico che rivive la prima Pasqua dei suoi antenati, partecipa al terrore della Parola che, nel cuore del silenzio attonito dell’universo, piomba come una spada di morte per sterminare la desolazione della schiavitù:

«14Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo rapido corso, 15la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale,  guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo decreto irrevocabile» (Sap 18,14-15).

Il Popolo di Dio redento dal Figlio, sperimenta invece «la pienezza del tempo» (Gal 4,4) e riceve il «Lògos-Cae» da cui ascolta l’esegesi del Padre (Gv 1,14.18) perché è giunto il tempo in cui «una voce grida nel deserto» di preparare la via del Signore che viene (Mc 1,2). E davanti al Signore che parla e agisce sanando i malati si resta in silenzio, contempliamo la Parola che risana (Lc 14,4), e davanti a noi «si apre il settimo sigillo» della rivelazione dell’amore di Dio (Ap 8,1).

Nell’eco del silenzio interiore, proviamo a fare risuonare le tre parole della storia che stiamo raccontando: Giubileo, «Il Volto della Misericordia». Se saremo capaci di penetrare l’anima del Giubileo, saremo anche in grado di fare un cammino di grazia che ci aiuterà a rapportarci meglio con Dio, e forse a purificare lo stesso nome di Dio che spesso usiamo impropriamente, come arma contundente. Il Giubileo non è acquisire qualche «indulgenza» e mettersi l’anima in pace o assicurarsi un posto al sole, ma è un esodo faticoso e purificante che conduce dal deserto della schiavitù dell’individualismo e dell’egoismo alla terra promessa della comunione con gli uomini e le donne e con Dio. È un cammino di fede che esige la «conversione» nel senso espresso dal Vangelo di Mc: «Metanoèite kài pistèuete en t? euanghelìou – cambiate modo di pensare e credete “nel” Vangelo» (Mc 1,15).

La «conversione» di cui parla Marco non è un tocco di belletto, ma una radicale incisione nei criteri del pensiero, là si formulano le ragioni del nostro agire e delle nostre scelte: è un ribaltamento, una inversione a «U» del nostro modo di ragionare per immergerci nell’acqua fresca del Vangelo che qui è sinonimo della Persona di Gesù. Non si crede in un libro o in una teoria, ma si crede in una Persona perché essa garantisce con la propria esistenza e con la propria vita, vissuta quotidianamente.

L’occasione del Giubileo della Misericordia è l’occasione propizia per ciascuno di noi di scoprire il senso della propria «parola», della propria esistenza, di «stare in silenzio», coltivando il silenzio interiore, riducendo la dispersione e la vacuità (tv, chiacchiere, letture inutili, ecc.) e fare spazio all’alito dello Spirito che c’invita alla circoncisione del cuore. Nella prossima puntata esamineremo le prime tre parole chiave: Giubileo, Misericordia e Volto.

Paolo Farinella prete

(2, continua)

Paolo farinella




«Chiesa peregrinante verso la Gerusalemme celeste» | Rendete a Cesare 5

«Essi non sono del mondo, come Io non sono del mondo» (Gv 17,16)

Distinzione netta e separazione

Di distinzione netta e separazione efficace, non nella storia, ma nei criteri di valutazione, si parla nel racconto della passione nel IV vangelo. In Gv 18,36 davanti a Pilato, che ribadisce il suo potere politico perché ha l’autorità di giudicare e di mettere a morte, Gesù afferma: «La regalità, quella mia, non è di questo mondo». Il greco usa l’espressione «hē basiléia, hē emê» che deve essere tradotta in forza del contesto e non materialmente, trasponendo solo le singole parole. «Basiléia» può significare «regno» e «regalità». Nel senso di «regno» si riferisce a un territorio in cui il «re» può esercitare la sua autorità; ma anche «il popolo» su cui la regalità si esercita, oppure la dignità regale in se stessa. Il senso da dare in ogni traduzione dipende dal contesto. Pilato crede che esista un solo «re» in tutto il mondo e quindi è preoccupato che qualcuno diverso da Cesare possa definirsi «re» in concorrenza, e per questo interroga Gesù: per valutare la portata di questa asserita «basiléia». Non può essere riferita ai Romani che riconoscono solo Cesare; resta il senso etnico, quasi razziale di Gv 18,33: «Tu sei il re dei Giudei?».

Pilato non può ammettere altra «basiléia» che non sia riconosciuta da Cesare, il quale ha già nominato Erode «re dei Giudei», cioè suo rappresentante/suddito, pur essendo estraneo al popolo d’Israele: un altro che vuole essere re, o è pazzo o è pericoloso. La domanda, infatti, è densa di preoccupazione squisitamente politica, perché l’orizzonte di Pilato è solo sul piano di quello che vede e sperimenta, non può andare oltre. In bocca al procuratore romano l’espressione può essere anche dispregiativa, mentre in bocca a un giudeo ha un valore nobile, anzi teologico perché corrisponde a «Re d’Israele» come nel grido della folla che lo acclama in Gv 12,13: «Benedetto nel nome del Signore colui che viene, il re d’Israele».

Nel contesto, però, avviene un fatto nuovo, imprevedibile: le autorità religiose giudaiche davanti all’affermazione di Gesù, inorriditi, rifiutano il Messia, «il re dei Giudei», e scelgono Cesare, un idolo con cui sostituiscono il «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe», il Dio dei Padri: «Non abbiamo altro re che Cesare» (Gv 19,15). Con questa scelta, cessano di essere «il popolo d’Israele» al quale era stato mandato Gesù-Messia, e diventano un popolo qualsiasi, qualificato etnicamente come «Giudei», i quali si accontentano di un re provvisorio, nuovo idolo in sostituzione del Dio del Sinai.

La differenza di regalità

Nell’intervista di Pilato a Gesù è in discussione la natura della regalità/regno di questi: se egli si dichiara «re», in che cosa si differenzia nell’esercizio della regalità da Cesare Augusto, dal faraone o dall’imperatore di Persia o Babilonia? Gli stessi soldati che l’hanno catturato e si sono attardati a divertirsi, burlandosi di lui, lo hanno fatto con gli strumenti del mestiere dei re: il mantello rosso (la clamide), la corona, seppure di spine, lo scettro e infine l’adorazione burlesca (cf Gv 19,2-3). Tutti questi ingredienti, pur in un contesto di burla, mettevano Gesù sullo stesso piano dei re ufficiali e quindi ve lo equiparavano. Questo è un punto nevralgico e decisivo per stabilire la veridicità di quanto abbiamo asserito. La distinzione tra potere politico e potere di Cristo (e di conseguenza della Chiesa) sta nell’affermazione netta e decisa di Gesù: «La mia regalità/il mio regno non è di questo mondo/di questa natura» (Gv 18,36).

L’espressione di Gesù, tradotta alla lettera è questa: «La regalità, quella mia, non è di questo mondo/ordinamento/natura (cioè: non proviene da esso; non è il mondo che dà l’origine a Gesù); se da questo mondo provenisse la regalità, quella mia, le guardie mie avrebbero lottato affinché io non venissi consegnato ai Giudei; ora, dunque, la mia regalità non è di qui [di questo posto]». Esaminiamo il senso profondo. Ci troviamo di fronte a due concetti di «regalità»:

  1. Cesare Augusto, attraverso il suo procuratore Pilato, esercita un dominio che ha usurpato. / Gesù si pone su un altro piano e non contesta Pilato, il quale invece, sentendo odore di «pericolo», indaga per scongiurare qualsiasi equivoco.
  2. Il procuratore romano, in nome di Cesare, riceve Gesù nel pretorio, cioè nel luogo simbolo del potere imperiale, da dove esercita il suo potere, sedendo «in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà» (Gv 19,13). / Gesù si è lasciato condurre e sballottare dai soldati dipendenti del tempio e ora resta in balia dei soldati romani che usano la forza e la violenza come metodo ordinario di tortura e sevizia.
  3. Cesare Augusto va fiero delle sue legioni, immagine stessa di Roma, con le quali va alla conquista del mondo per imporre il suo ordine e la «pax romana» che è sudditanza, spogliazione e tasse a favore dell’occupante. / Gesù che dovrebbe essere il prigioniero e condannato, sta in mezzo, e tutto il potere negativo (Romani e Giudei) ruota attorno a lui.
  4. Senza i soldati, Cesare è nulla e non avrebbe alcuna autorità perché il suo potere si basa solo sulla forza, cioè sull’esercito e quindi sul dominio. / Gesù è disarmato e ha due soli strumenti: la parola e il silenzio con cui fronteggia quello che si crede il potere.

Su questo ultimo punto, Gesù è chiaro e senza equivoci, perché è la sintesi di tutto: «La mia regalità non appartiene a questo ordine di cose». La prova di questa «diversità» sta nel fatto che non si presenta a Pilato con un esercito per difendere il suo diritto regale, né si oppone ai soldati con altri soldati.

Dio impotente e senza forza

Il «senso di onnipotenza» non appartiene alla logica di Gesù; egli non riconosce alla forza, tanto meno alla violenza, la dignità di strumento regale o di autorità. Egli è un re che si pone su un altro piano, un livello che Pilato non può capire e non capisce; nemmeno «i Giudei» capiscono e, infatti, fanno confusione fino ad arrivare alla falsità e all’omicidio pur di togliere di mezzo uno di cui non conoscono nulla, se non il pericolo che rappresenta per il loro potere.

Sta tutta qui la differenza: il potere del «cesare di tuo» usa la forza e la violenza e impone se stesso con le armi e la soppressione della libertà, perché occupa e domina esteriormente. Il potere di Gesù è mite, si accosta con dolcezza a ogni singola persona e si rivolge alla coscienza per svegliarla, se dorme, o per rafforzarla, se veglia. Egli rifiuta violenza e forza come strumenti di regalità fino al punto di subire violenza fino alla morte, fallendo apparentemente, ma senza mai rinnegare la propria «modalità» di essere regale. Per questo e solo per questo può essere «universale», cioè, non si assomma ai regni della terra e al tempo stesso si estende a tutti i popoli fino agli estremi confini dell’umanità (cf At 1,8), cioè fin dove c’è una persona con una coscienza attenta e attiva.

Il regno di Cristo non può essere, infatti, una gestione diretta del potere politico, economico e sociale, ma la convocazione di ogni singola persona alla corresponsabilità del servizio come dimensione del «Regno di Dio». L’autorità di Cristo non esige tassazione e imposizione di tributi, non comporta presenza fisica di dominio con strutture opprimenti. Se così fosse, avrebbe bisogno di militari per imporre e mantenere nel tempo il dominio del suo potere, la sottomissione dei popoli dominati. C’è in Luca un esempio illuminante a riguardo. Un tale ha problemi di divisione di eredità col fratello e chiede a Gesù di intervenire ma Gesù risponde: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?» (Lc 12,13-14). Anche questo semplice racconto è nella linea dell’esercizio del potere: Gesù ne rifiuta l’esercizio come è svolto dagli uomini, come è strutturato nell’ordinamento umano.

La coerenza di Gesù

Due fratelli non avrebbero dovuto nemmeno porsi il problema; se ricorrono a un estraneo è segno che qualsiasi intervento di qualsiasi potere non potrà più risanare la frattura che si colloca a livello interiore, nemmeno se risolve in modo equo la questione materiale dell’eredità. Al tempo di Gesù, l’eredità non poteva essere frantumata per cui solo il maggiore ereditava l’intero, mentre il fratello minore ereditava un terzo, in linea teorica, ma ricevendone l’usufrutto. Forse è il minore che si rivolge a Gesù (sulla questione v. P. Farinella, Il Padre che fu madre, Gabrielli editore). Gesù distingue nettamente tra due «mondi» o «ordinamenti» che diventano due prospettive, due opposizioni, due visioni di vita e di destino. Il mondo di Cesare è «questo mondo/ordinamento» in forza del quale egli comanda, prende, impone. La logica di Gesù non è «di questo mondo/ordinamento», cioè proviene «dall’alto» (Gv 8,23), da un’altra dimensione, cioè, da un altro progetto di vita.

Gesù non si è adeguato al mondo del suo tempo, e tanto meno alla sua logica; se fosse stato un uomo di buon senso, se si fosse preoccupato di rapportarsi con le autorità «in modo istituzionale», ne avrebbe accettato anche la logica e si sarebbe posto a livello di Cesare, ma egli viene «dall’alto» e resta in alto e non scende in basso, ma chiama chi vuole seguirlo a salire in alto: egli promuove, non mortifica e non umilia.

Cristianesimo ed egoismo non possono coesistere, così come Cristianesimo e interesse personale sono antitetici. I credenti in Cristo gestiscono il potere, ma con criteri assolutamente disinteressati, avendo a cuore i destini dei poveri e degli emarginati in forza della prospettiva delle Beatitudini di quanti la società mette al bando (cf Mt 5,1-9). È un capovolgimento totale della prospettiva. È una contestazione radicale di quanto il mondo ha acquisito come proprio «specificum». È il rifiuto intimo del modo di vedere, di giudicare e di scegliere: «La mia regalità/il mio regno non è di questo mondo» significa che non ha come obiettivo il dominio, ma la coscienza consapevole e libera delle persone che servono i propri simili con gli stessi sentimenti di Dio, in forza del principio paolino: «Portate i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2; cf Fil 2,1-8). È l’affermazione che Dio è «servo», non più onnipotente. Rifiutando l’esercito e la difesa, Gesù veste la sua nudità di non-violenza come statuto del suo essere e afferma un nuovo ordine di cui i suoi discepoli devono essere portatori sani e profeti consapevoli.

In altre parole, la distinzione tra Gesù e Cesare non è solo una questione di competenze o ruoli d’influenza, come generalmente si usa, sbagliando, l’altra espressione (date a Cesare… date a Dio), ma si tratta di premesse che esigono conseguenze coerenti. È la prospettiva stessa del potere che in Gesù si scontra con quella di qualsiasi altro potere che vuole essere «politico». Con l’affermazione netta e inequivocabile: «La mia regalità non appartiene alla logica di “questo” mondo», Gesù pone un atto politico estremo perché stravolge il concetto di potere, di organizzazione, economia, relazione tra gli individui, senso dello stato. Egli non intende spiritualizzare il suo «regno», che tra l’altro deve instaurarsi anche sulla terra e coinvolgere l’umanità intera. E dal contesto non si può evincere la contrapposizione tra cielo e terra, tra spirituale e materiale. Non significa che Gesù ci ha invitato a rivolgerci alle «cose del cielo», come una certa mistica ha interpretato esulando dal testo; al contrario, egli c’invita a piantarci nel cuore degli eventi, a essere come il Lògos, «incarnati» nella vita e nella storia, piena di contraddizioni, e di starvi con criteri di discernimento «opposti» a quelli di Cesare e di chi esercita il potere.

Gesù il politico

La prova di quanto affermiamo sta anche nella preghiera al Padre del capitolo 17, dove Gesù stesso equipara i suoi discepoli a sé, perché, come lui, «sono nel mondo»:

«9Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. 10Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. 15Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. 16Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; 19per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. 20Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: 21perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,9-20).

L’espressione «non prego per il mondo» accentua la separazione dal mondo inteso come il complesso delle forze ostili al Regno di Dio, cioè il male (cf Gv 15,18). Non è un rifiuto degli uomini, o un disincarnarsi dall’umano, ma un rifiuto del «mondo» dell’ingiustizia e prevaricazione, del potere basato sulla forza e corruzione. In Gv (vangelo e lettere) il termine «mondo – kòsmos» ricorre circa 100x e ha almeno quattro significati (cf Gv 1,10-11):

  1. a) il mondo geografico, ambiente materiale;
    b) il mondo come umanità;
    c) il mondo dell’incredulità;
    d) il mondo della fede.

La separazione tra trono e altare sta tutta nella dialettica «sono nel mondo… non sono del mondo», per cui si afferma la natura provvisoria della Chiesa e quindi la sua condizione di «sacramento», cioè di segnale, di indicatore stradale. Qui si fonda la teologia della natura «nomade» della Chiesa che per definizione e per vocazione non può non esprimere, nella storia, la prospettiva messa in evidenza dal concilio Vaticano II che descrive l’«indole escatologica della Chiesa peregrinante e sua unione con la chiesa celeste» (Lumen Gentium 48-51). L’indole sta a significare che la peregrinazione non è un atteggiamento passeggero, ma uno stato costitutivo della natura dell’ekklesìa. I cristiani non sono mandati nel mondo per gestire il potere perché più bravi o competenti, ma per servire il Regno di Dio, cioè per creare le condizioni affinché tutti i figli di Dio vivano in condizioni di figli e non siano ridotti a vivere da schiavi.

Un Esodo al contrario

Il compito dei cristiani e a maggior ragione della gerarchia non è quella di tramare per spartirsi il potere e l’economia, corrompendo e contrattando secondo reciproci interessi, ma unicamente quello di impedire che sia sperperata la ricchezza del creato e fare in modo che venga distribuita secondo giustizia perché a ciascuno non manchi il necessario e anche un po’ di superfluo. Nel 2010 in Italia, il governo nelle mani di Berlusconi e di Bossi che si fregiavano a ogni piè sospinto di ispirarsi agli insegnamenti della Chiesa cattolica, regalò alla Libia 6 motovedette per pattugliare il mare contro gli immigrati e 5 miliardi per impedire che gli immigrati africani attraversassero il mare, ben sapendo che migliaia di persone sarebbero fatte morire nel deserto libico. Se quei soldi fossero stati spesi per l’integrazione ne avrebbe beneficiato l’Italia e gli immigrati e avremmo costruito un ponte di civiltà verso l’Africa che invece piange i suoi figli. Il Signore della Bibbia gettava «nel mare cavallo e cavaliere» che opprimeva i poveri facendoli schiavi, sedicenti cristiani esercitano il potere per uccidere i poveri, amati da Dio, per una manciata di voti.

Questa è la differenza: chi cerca il proprio interesse è «di questo mondo», chi sta dalla parte di chi non ha voce, chi si prende cura degli immigrati e li sfama, secondo la logica del giudizio finale (cf Mat 25,31-46), viene «dall’alto». I primi trasformano la «Politica» in interesse, tornaconto, ingiustizia e, se cristiani, in peccato grave; i secondi invece mettono la «Politica» sul piano dell’Eucaristia e spezzano il Pane per tutte le genti come fece Gesù, come deve fare la Chiesa. I credenti non cercano cariche o incarichi o posti di rendita, ma consapevoli di essere nel mondo senza appartenere alle logiche e ai metodi del mondo, accettano di immischiarsi nella politica, nell’economia, nella cultura, nel sociale per contribuire allo sviluppo della creazione dando corpo al mandato di Dio di custodire il giardino di Eden e quanti vi abitano.

Quando coloro che si definiscono sempre cristiani o credenti e poi, per anni, appoggiano governi e politiche disumane, contrarie ai principi elementari della dottrina sociale della Chiesa, anzi diventano complici e còrrei di corrotti e corruttori, immorali e amorali, siamo non più nel Regno di Dio, ma nell’inferno di Satana che istiga a fare affari, cadendo nella trappola dell’immoralità costitutiva. Sono quelli che papa Francesco, il 16 maggio 2013 ha definito «cristiani da salotto», per i quali il fine giustifica i mezzi. I cristiani, al contrario, «devono dare fastidio», come ha urlato lo stesso papa Francesco il giorno di Pentecoste ai gruppi ecclesiali provenienti da tutto il mondo in piazza san Pietro, il giorno 19 maggio 2013. Se il cristiano «non dà fastidio» a chi esercita il potere in nome della dignità dei poveri, inevitabilmente diventa complice del potere malvagio che appartiene a «questo mondo», il mondo per cui Gesù non ha pregato. Possiamo illuderci di pregare, svolazzando tra le nuvole, ma se non ci coinvolgiamo, sulla terra, con il destino di chi è senza futuro e presente, possiamo essere spiritualisti e magari esserlo molto, ma non saremo mai persone spirituali perché non sapremo mai riconoscere i corpi dolenti dei Lazzari che popolano la terra (cf Lc 16,19-31). Qui è la vera chiave: è Lazzaro che fa la differenza tra Cesare e Gesù. A noi la scelta.

(5 – continua)

Paolo Farinella




Natale, ancora Natale, ma quale Natale?

Potrebbe sembrare strano, eppure di Gesù, sul piano storico,
sappiamo poco, e quel poco che i vangeli riportano per noi è molto, anzi
tantissimo. I vangeli non sono «una storia di Gesù», ma una catechesi per chi
crede già in lui come Figlio di Dio e Messia. Di conseguenza i quattro libretti
sono un catechismo, originariamente predicato in forma orale dagli apostoli,
dai catechisti, dai predicatori e da chi aveva conosciuto Gesù (famiglia,
paesani, amici, ecc.). A distanza di 40-80 anni dalla sua morte, sono stati
messi per iscritto per due motivi: per conservare la memoria di quanto accaduto
e suscitare la fede in lui anche nelle generazioni future e per poterli usare
come «Scrittura» di compimento dell’Antico Testamento nell’Eucaristia delle
Chiese, ormai diffuse in tutto l’oriente fino a Roma.

Di
Gesù sappiamo …

Marco, il
primo degli evangelisti scrittori, non parla affatto della nascita di Gesù; in
compenso Giovanni, l’ultimo degli evangelisti scrittori, accenna all’eternità
del Lògos che per volere di Dio «s’incarna», cioè diventa uno di noi in un
preciso paese (Israele), in una determinata cultura (Giudaismo), in una
specifica religione (Ebraismo), in un tempo ben definito (fine del sec. I a.C.
e sec. I d.C.), nel cuore di specifici eventi (occupazione romana della
Palestina). Chi, invece, parla della nascita di Gesù in maniera esplicita, sono
i due evangelisti Matteo (capp. 1-2) e Luca (capp. 1-2), ma non dicono le stesse
cose perché hanno prospettive diverse e si rivolgono a comunità diverse.

Un elenco
schematico di ciò che sappiamo di Gesù, potrebbe essere il seguente:

• è nato
intorno al 6/7 a.C. (v. Box) da una ragazza-madre, appena adolescente,
di nome Miriàm/Maria;

• non si
conoscono il giorno, il mese e neanche le condizioni della nascita;

• è nato a
Betlemme, a sud d’Israele, patria di Davide da cui discende Giuseppe, il padre
legale di Gesù;

• è nato in
una zona periferica, considerata dalla religione «impura» perché abitata da
pastori;

• è stato
circonciso all’ottavo giorno dalla sua nascita ed e stato chiamato «Joshua-Gesù»
dopo 40 giorni;

• ha
trascorso la sua vita a Nàzaret, nel Nord della Palestina;

• a
compimento del 12° anno di età (inizio del 13°), nel tempio di Gerusalemme ha
celebrato il rito della «Bar-mitzvàh – Figlio del comandamento», che per gli
Ebrei è l’inizio della maggiore età (cf Lc 2,41-50);

• ha
predicato per la Palestina e anche fuori i confini per circa un anno, un anno e
mezzo, all’età di 34-35 anni;

• non
apparteneva alla casta sacerdotale, ma era un laico;

• si è
scontrato con il potere religioso e il potere politico che alla fine si sono
coalizzati e lo hanno fucciso, condannandolo a morte come «rivoluzionario»: il
Sinedrio ha emesso la sentenza di crocifissione e i Romani, nemici alleati per
l’occasione, l’hanno eseguita;

• è morto
all’età di circa 36 anni (30/33 d.C.?), la stessa età di Isacco quando fu
legato sul monte Moria per essere sacrificato (cf Gen 22,1-23);

• è risorto
da morte alle prime luci dell’alba del giorno dopo il sabato, dando inizio
all’avventura della nuova Alleanza;

• non ha
lasciato nulla di scritto, ma solo undici apostoli e altre apostole che inviò
nel mondo;

• il suo
insegnamento è stato raccolto in quattro vangeli che persone innamorate di lui
hanno scritto per i loro contemporanei e per noi che li ascoltiamo e vogliamo
tramandare a chi verrà dopo di noi.

Nota storica
sulla data di Natale

Nei sec. II-III dell’èra
cristiana in tutto l’Oriente, alla data del 6 gennaio, si celebrava una festa
generica detta Epifania (manifestazione) che inglobava tre memoriali: Natale
(manifestazione agli Ebrei), Magi (manifestazione ai Pagani) e Sposalizio di
Cana (manifestazione nel segno dell’alleanza universale). In Spagna nel sec. IV
si celebrava il Festum Nativitatis Domini Nostri Jesu Christi. San
Giovanni Crisostomo (345 ca.-407) in un’omelia sul Natale, pronunciata nel 386,
dichiarava che nella chiesa di Antiochia già da dieci anni vi era l’uso di
celebrare la Nascita del Salvatore il 25 dicembre. Anche nella chiesa di Roma,
come in quella di Milano, fin dal 336 si celebrava il Dies natalis Domini
sempre al 25 dicembre, considerato il giorno genetliaco di Gesù. Papa Liberio
nel 354 scorporò la festa in due, assegnando Natale al 25 dicembre e l’Epifania
al 6 gennaio. Nella chiesa ortodossa e armena, invece, le due feste sono ancora
accorpate al 6 gennaio (cf Dictionnaire de Spiritualité, f.
LXXII-LXXIII, Paris 1981, 385). I cristiani del Nord del mondo celebrano il
Natale in inverno, mentre i cristiani del Sud lo celebrano d’estate. Il 25
dicembre è una data convenzionale perché in relazione al 25 marzo, giorno in
cui, secondo la tradizione, nella casa di Nazaret l’Angelo annunciò a Maria il
concepimento di Gesù. Maria partorì il Figlio nove mesi dopo, cioè il 25
dicembre. è il Natale.

Il 25 dicembre è anche il
solstizio d’inverno, in cui si ha il giorno più corto dell’anno e la notte più
lunga. Sia in Oriente che a Roma questo giorno era dedicato al «dio Mitra»,
divinità di origine persiana, venerato come il «Sole Invitto». La festa,
centrata sul simbolismo della luce, ebbe una diffusione enorme nell’impero
romano tra i sec. I-III d.C., tanto che l’imperatore Diocleziano (284-305 d.C.)
dovette proclamare il dio-Mitra «sostegno del potere imperiale»,
incrementandone il culto. Durante i giorni di festa, tutto diventava lecito
perché veniva meno ogni freno inibitore e si scatenava ogni sorta di
trasgressione specialmente sessuale che si concretizzava in riti magici,
baccanali e orge, in cui avevano un posto privilegiato le «vergini» che
sacrificavano al dio della luce la loro verginità. Non di rado la festa era
occasione per vendette personali fino all’omicidio. I cristiani opposero a
queste licenziosità l’austera memoria del Lògos incarnato che nacque in una
stalla, nella povertà più estrema, fissando il Natale appositamente al 25
dicembre, compimento esatto dei nove mesi della gestazione di Maria, dal 25
marzo, giorno dell’annunciazione, equinozio di primavera. Per contrastare i riti
delle vergini che offrono la loro integrità al «dio Mitra» in baccanali
orgiastici, i cristiani esaltarono la
nascita «verginale» di Gesù, «sole che mai tramonta», offerto al mondo
da una «vergine» che si abbandona al disegno di Dio.Nello stesso periodo,
almeno da oltre due secoli, il 25 del mese di Kislèv, corrispondente a
una data tra il 15 e il 25 dicembre ca., i Giudei celebravano (ancora oggi
celebrano) la festa ebraica di Chanukkàh (= inaugurazione/dedicazione),
detta anche Chàg Haneròth (Festa dei lumi), Chàg Haurìm (Festa
delle luci) e Chàg Hamakkabìm (Festa dei Maccabei), per fare memoria
della riconsacrazione del tempio che Antioco IV dissacrò con una statua di Zeus
e che Giuda Maccabeo con la sua famiglia riconquistò nell’anno 165 a.C., ricostruendo
e riconsacrando l’altare del sacrificio. La Chiesa per non isolare i cristiani
accerchiati dal culto pagano del dio-sole/Mitra e dalla ebraica Festa delle
luci, inventò la celebrazione del Natale del Signore, il Sole che sorge e mai
tramonta. A Natale non domina solo il simbolismo della luce che contrasta il
buio della notte, ma si celebra Cristo stesso, «Luce che illumina le genti» (Lc
2,32), «Stella luminosa del mattino» (Ap 22,16), sapienza di splendore «che non
tramonta» (Sap 7,10). Celebrare il Natale in pieno inverno è anche un atto di
coraggio e di speranza, un invito a guardare oltre le apparenze: il seme appare
morto e perduto nei solchi, le giornate sono brevi e buie, il senso di morte
tutto pervade; al contrario, la nascita di un bimbo è una grande profezia che
illumina il mondo e anticipa la primavera, quando la vita danzerà e sconfiggerà
la morte in vista dell’estate che porterà la gioia del raccolto e
dell’abbondanza, simbolo di pienezza di vita.

Nota:
L’autore di uno scritto anonimo, Adversus Judaeos/Contro i
Giudei (8,11-18, CCL 2, 1954, pp. 1360-64) attribuito da alcuni a Tertulliano
(150/160-220), già nella seconda metà del sec. II, riteneva che Cristo fosse
nato il 25 marzo e fosse anche morto lo stesso giorno. Doveva essere così perché
la perfezione della natura divina di Cristo esigeva che gli anni della sua vita
sulla terra fossero anni interi senza frazioni. è evidente che siamo
in piena speculazione teologica fuori da ogni spiegazione storica. Clemente
d’Alessandria (160-240) testimoniò che i cristiani copti celebravano non solo
l’anno, ma anche il giorno della nascita del Salvatore e cioè il 25° giorno del
mese di Pachòn (15 maggio) o il 25 del mese Pharmùth (20 aprile)
e sostenne che non esisteva una tradizione univoca e condivisa sulla data
esatta della nascita del Salvatore (Stromates I, 21, PG 8,888).

Sul culto
misterico di Mitra

Il culto del
dio Mitra, raffigurato con in mano una fiaccola e un coltello, sviluppa una
forma religiosa riservata agli iniziati per cui è caratterizzato dalla
segretezza; per questo i rituali, che si chiamavano «culti misterici», si
celebravano in luoghi sotterranei, detti mitrei, cui potevano accedere
solo gli adepti, ammessi dopo prove e cerimonie che comprendevano sette gradi
per essere ammessi al mistero della conoscenza: corvo, ninfo, soldato, leone,
persiano, corriere del sole, padre. Pare che lo stesso imperatore Nerone fosse
uno di questi iniziati. Il culto di Mitra fu introdotto nel mondo greco-romano
dai pirati di Cilicia, deportati da Pompeo nel 67 a.C. in Grecia. Da qui al
seguito delle legioni romane (molti soldati erano iniziati) si diffuse
velocemente in Italia, in Dacia (Romania-Moldavia), Pannonia (parte di
Ungheria, Austria e Slovenia), Mesia (Bulgaria), Britannia e Germania.

Mitra è
circondato da «miracoli»: con il lancio di una freccia fa scaturire acqua da
una roccia, segno di vitalità e purificazione; stipula un patto con il dio
Sole, a cui è associato fino a identificarsi con esso. Anche il dio Veruna (il
greco Urano) è associato a Mitra, e insieme personificano la notte e il giorno:
Veruna castiga i malvagi (notte) e Mitra protegge la giustizia e gli uomini
onesti (giorno). Il centro del culto è la tauroctonìa (il sacrificio del
toro), simbolo della fecondità universale e sempre presente in tutti i mitrei.
Accanto al toro vi sono altre figure simboliche: il serpente che beve il sangue
del toro, lo scorpione che gli punge i testicoli (per impedire la fecondità
della terra), il cane che bevendone il sangur acquista energia e vitalità che
trasferisce alla terra perché dalla sua coda germoglia il grano (simbolo della
risurrezione della terra) e un corvo che fa da tramite tra il sole-Mitra e la
terra. Il dio Mitra è accompagnato da altre due divinità, Catèus e Cautòpates,
raffigurati sempre con le fiaccole, simbologia plastica di una trinità solare
che raffigura il ciclo quotidiano del sole all’aurora, a mezzogiorno e al
tramonto.

Il
mitraismo, pur con tante somiglianze cristiane (verginità, trinità,
luce-tenebra; sangue-vita, visione apocalittica, ecc.), fu uno dei principali
antagonisti del cristianesimo sul quale sicuramente avrebbe prevalso senza
l’apostolo delle genti, Paolo di Tarso e la sua opera di evangelizzazione e di
diffusione del Cristianesimo in forma capillare in tutto il Medio Oriente, la
Grecia, parte dell’Asia fino Roma, cuore dell’impero, segnando così il declino
del mitraismo. Il Cristianesimo, infatti, nato come «sètta giudaica», tale
sarebbe rimasto, senza l’impeto paolino che di fatto creò la religione
cristiana come «sistema» teologico e organizzativo. Il sec. I d.C. fu un secolo
di passaggio, segnato dalla decadenza di ogni sistema ideologico, morale e
religioso, frutto inevitabile della fine di un millennio e inizio di uno nuovo.
In un contesto di «pensiero debole» e di corruzione che aveva minato lo stato
in ogni suo ambito, forte era il bisogno di spiritualità e «pulizia», di aria
pulita e di rinnovamento. In questo contesto, Paolo predicò la verginità come
misura del provvisorio (il mondo sta per finire, bisogna prepararsi e restare
liberi), il matrimonio come comunità stabile e regolata, la Chiesa come
orizzonte escatologico, cioè come compagna di viaggio che stabilisce le regole
in vista della fine del mondo. Ebbe successo perché proponeva un ideale forte e
controcorrente. Gesù ne era il modello, ma la sua predicazione e le sue parole
furono adattate e adeguate alle nuove circostanze. Gesù aveva annunciato il
Regno di Dio, Paolo dava vita alle «Chiese locali»; Gesù agì da profeta, Paolo
operava da uomo dell’istituzione.

Nota:
Mitraismo e il
Cristianesimo
sono due religioni
apocalittiche: rappresentano l’eterno combattimento del bene contro il male,
dei figli della luce contro i figli delle tenebre. L’imperatore Aureliano
(270-275 d.C.) eleva il culto del Sole a religione di stato. Costantino che
deve la sua prima vittoria ai cristiani, ribalta la situazione con l’editto del
313 d.C. a favore del Cristianesimo. Giuliano l’Apostata (361-363 d.C.) cerca di
riportare in auge il culto di Mitra, ma inutilmente perché  nel 394 d.C. con la vittoria di Teodosio su
Eugenio, il Cristianesimo diventa religione di stato e i mitrei  saccheggiati e distrutti per fare posto alle
nuove chiese e basiliche cristiane. Famosi in Roma sono i mitrei del Circo
Massimo e S. Clemente ancora oggi visitabili.

Natale:
il capovolgimento di Dio

Natale per
i cristiani di routine è la festa civile del buonismo a buon mercato, risolto
in una prassi scontata di regali, odiati da chi li fa. Per chi crede, Natale è
la contraddizione di Dio che non potendo essere visto e conosciuto, decide di
farsi conoscere: egli stesso diventa esegeta di sé (Gv 1,18). A Natale Dio
spiega Dio nell’unica maniera che a noi è possibile capire: facendosi uno di
noi e rivelando il volto nascosto di Dio Padre nel volto visibile dell’Uomo. E
perché nessuno possa avere anche la minima possibilità di avere paura, sceglie
la forma più indifesa e più disarmante: il bambino. Nella cultura del tempo di
Gesù, il bambino non ha alcun titolo e conta nulla perché senza valore
giuridico; per questo egli lo assume come «metro» del Regno: «Se non vi
convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei
cieli» (Mt 18,3). Non basta. Dio vuole svelarci il suo volto di bambino povero
e perseguitato, profugo, straniero, emigrante, clandestino: nessuno nel Regno
di Dio ha le carte in regola per essere accreditato, nessuno è più in regola di
un altro. Una sola condizione è necessaria: essere figli di Dio. Questo è il
Natale, questa la nostra speranza. Diventiamo anche noi esegeti di Dio,
manifestando in pieno la sua umanità, riconoscendo negli altri la loro dignità
di esseri umani e figli di Dio.

A Natale
tutto si capovolge. La logica umana non regge quella divina perché Dio è capace
di sorprenderci sempre, oltre ogni aspettativa, rovesciando i criteri e i «valori»
del mondo: all’imperatore potente, contrappone 
una ragazza inerme; a chi pretende di «contare» (censimento) l’umanità
contrappone un uomo, una donna incinta e un bambino appena nato;
all’onnipotenza della religione, contrappone la fatica di vivere la volontà di
Dio; allo splendore della reggia e del tempio, contrappone la povertà e
l’autenticità della vita. Per questo a Natale bisogna sapere e avere coscienza
che il Bambino che chiede di nascere ancora:

• è un
extracomunitario perché è un palestinese di Nazaret;

• è un
emigrato in Egitto, perché perseguitato politico e religioso fin dalla nascita;

• è vittima
delle leggi razziali e razziste delle politiche di espulsione, perché senza
permesso di soggiorno;

• è ebreo
di nascita e ricercato per essere eliminato;

• è un
fuorilegge perché clandestino e ricercato dalla polizia;

• è un poco
di buono perché figlio di una ragazza-madre, appena adolescente;

• è
oppositore del potere religioso e politico ed è ammazzato per vilipendio della
religione;

• è povero
dalla parte dei poveri e «deve» essere eliminato;

• è un
laico, credente atipico e controcorrente;

• è poco
raccomandabile perché frequenta lebbrosi e prostitute;

• è Dio
perché i suoi pensieri non sono mai i pensieri dei benpensanti (Is 55,8).

È Natale! La speranza di essere uomini e donne nuovi per
un mondo nuovo è possibile perché Natale è l’annuncio profetico che la
Resurrezione è la mèta della Storia. Anche oggi, anche adesso. Anzi è già
compiuta e noi possiamo rinascere e risorgere ogni giorno, perché Gesù non ha
bisogno di nascere di nuovo, essendo eterno, ma noi abbiamo necessità di
rinascere anche oggi a vita nuova. Questo è Natale: Dio-con-noi-Emmanuel (cf Mt
1,23). Buon Natale a tutte e a tutti i lettori e le lettrici di MC.
Paolo Farinella

Avviso importante:
Con questo articolo don Paolo Farinella sospende temporaneamente
la sua collaborazione con la rivista Missioni Consolata e, quindi, anche la
rubrica «Così sta scritto» con cui, fedelmente, ci ha accompagnati per otto
anni, dal febbraio 2005. Don Paolo ha chiesto una pausa per preparare un «Corso
biblico» che esporrà nella sua città, Genova, e che pubblicherà anche sulla
nostra rivista, molto presumibilmente dalla primavera del 2014, a partire da
maggio. Nell’attesa, lo ringraziamo e salutiamo frateamente e, su sua
esplicita richiesta, abbracciamo con affetto ciascun lettore e lettrice di MC,
nei cui confronti si sente debitore e grato perché lo hanno costretto a «stare
sulla Parola». Chi volesse, può consultare sul nostro sito www.rivistamissioniconsolata.it tutti gli articoli di don Paolo già
pubblicati, o andare sul suo sito www.paolofarinella.eu
per leggere o stampare la liturgia della domenica, cliccando prima su blog e poi su Liturgia.

 

Paolo Farinella




La speranza della chiesa non sta nei privilegi offerti dall’autorità civile | Rendete a Cesare (4)

«Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi le tasse, le tasse; a chi il rispetto, il rispetto» (Rm 13,7)

All’interno del contesto di fede, che emerge dalle puntate precedenti in cui abbiamo esaminato i testi biblici, si pone il problema del rapporto tra il potere politico/economico e l’ambito religioso e spirituale, rapporto che tocca sempre nervi scoperti, data la delicatezza e il rischio insito in esso, perché coinvolge la vita di ogni giorno che impone scelte e valutazioni. In questa puntata non possiamo quindi esimerci dal fare riferimento all’attualità e a quale deve essere l’atteggiamento interiore del credente, alla luce della Parola di Dio che, diversamente, rischia di restare astratta e avulsa dalla realtà.

Rito e vita sono indissolubili

L’individuo non vive sulle nuvole, ma sulla terra, dove nulla è così netto da spaccarsi con l’accetta, per cui è necessaria una vigilanza costante per non porre in atto un «sistema di confusione», una struttura di connivenze che, inevitabilmente, portano a gestire benefici e utili, smarrendo la dovuta coerenza. Non bisogna mai perdere di vista la parabola del grano e della zizzania (cf Mt 13,24-30) che «crescono insieme» fino alla mietitura; oppure la parabola della rete da pesca che raccatta ogni sorta di pesce, sia buono che cattivo (cf Mt 13,47-50).

Gesù nel vangelo non si stanca di invitare ed esortare alla «vigilanza» come condizione essenziale e previa dell’agire credente, sintetizzato nella massima riportata da Mc: «Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mc 14,38). La debolezza della «carne» non è riferita alla sessualità, ma alla condizione umana in sé, alla fragilità dell’individuo e della struttura in cui vivono le persone e che inducono alla lussuria del potere che è la tentazione più satanica contro cui il credente deve combattere.

Nessuno può essere parcellizzato: in chiesa si è cristiani, nel partito si è politici, negli affari si è economisti e trafficanti, nel sindacato si è sindacali. Un individuo che è padre, e al tempo stesso figlio, amico, marito, impiegato, letterato, studioso, sportivo, volontario, non può vivere a compartimenti, ma è sempre lo stesso mentre svolge ruoli diversi. Purtroppo la realtà dei cristiani è diversa: essi separano volentieri gli ambiti della loro vita con il risultato che si ritrovano smembrati, divisi «dentro» se stessi, mentre dovrebbero essere un «tutto» in ogni istante della vita, senza distinzione di luogo, condizione e scelta.

Il battesimo consacra «figli di Dio», membri del popolo sacerdotale, profetico e regale: lo siamo realmente e lo siamo per sempre, anche quando ce ne scordiamo. Da questo dipende l’attendibilità nostra e di Dio perché se negli affari, nella politica, nel sindacato, nell’economia non portiamo il nostro «essere credenti», non serve a nulla «andare in chiesa»; anzi rischiamo di aggiungere peccato a peccato. Nello stesso tempo, non possiamo «stare in chiesa» come se questo luogo fosse avulso dalla vita che si snoda fuori, perché la preghiera e la fede senza la vita sono solo ritualità morta, droga dello spiritualismo che illude artificialmente.

O la vita dà contenuto al rito o il rito è solo scenografia che dura lo spazio di un sospiro. Ogni volta che celebriamo un’Eucaristia, compiamo l’atto più politico che esista al mondo perché diciamo che Dio si spezza come il pane e si offre come cibo, e del «Dio spezzato» noi siamo gli strumenti provvidenziali con cui si manifesta il volto di Dio, anzi la sua «immagine», che non è quella impressa sulle monete di Cesare, ma quella ben più intima e profonda del Dio creatore e padre.

Il vescovo di Recífe, dom Hèlder Cámara, un grande profeta del sec. XX, soleva dire: «Quando dico che bisogna aiutare i poveri sono un “santo”, quando dico perché esistono i poveri sono “comunista”». Se uno si limita a fare l’elemosina, magari coinvolgendo i ricchi, riciclatori ed evasori, ma senza interferire, tutti lo aiutano; se invece grida contro le ingiustizie che creano l’elemosina, contro l’evasione fiscale che ruba e depreda la collettività dei servizi primari (scuola, sanità, stato sociale), è facile che resti solo e sia tacciato di sovversivismo. Per molti cristiani, vescovi e prelati, spesso Dio è un alibi, un modo comodo per girarsi dall’altra parte e non vedere, come il sacerdote e il levita della parabola del Samaritano nel vangelo di Luca (cf Lc 10,25-37).

Quando il silenzio è complicità

Se si accettano i benefici economici (denaro, leggi su misura o peggio ancora leggi di scambio), non si può contestare lo stato o il governo di tuo, i quali hanno il diritto di emanare le proprie leggi e di pretendere che siano osservate. Lo stato può esigere obbedienza da chi usufruisce dei vantaggi della sua protezione (cf Rm 13,1-8; Tt 3,1-3; 1Pt 2,13-14). È quello che è successo in Italia negli ultimi venti anni: parte della gerarchia cattolica ha appoggiato governi e politici che sono stati (lo sono di natura) l’opposto della legalità, della moralità privata e pubblica come del «bene comune», pagando il prezzo di un silenzio assordante e l’allontanamento di molti credenti anche dalla fede. Non si può essere profeti e legati alla mangiatornia del potente, come i veggenti di corte combattuti dal profeta Amos nel sec. VIII a. C. (cf Am 7,10-16).

Persone di pensiero che non possono essere considerate «rivoluzionarie» e che hanno svolto funzioni e ruoli di prestigio all’interno della Chiesa cattolica, non esitarono, «voce che grida nel deserto», a parlare apertamente e ufficialmente di fronte «al silenzio dei vescovi». Il gesuita padre Bartolomeo Sorge, già direttore de «la Civiltà cattolica», la rivista quindicinale dei gesuiti italiani che nulla pubblica senza l’approvazione della Segreteria di Stato vaticana, direttore del «Centro Studi Pedro Arrupe» di Palermo negli anni ’80 del secolo scorso e ultimamente direttore della prestigiosa rivista «Aggiogamenti sociali» di Milano, stretto collaboratore di Paolo VI e della Cei per i convegni a cadenza decennale e uomo di grande prudenza, nel marzo del 2004 scriveva:

«Il rimanere in silenzio di fronte alla gravità della situazione italiana non appare motivato. I vescovi non possono esimersi dall’illuminare le coscienze dei fedeli sulla coerenza o meno con la Dottrina sociale della Chiesa dei programmi politici che nel Paese si confrontano. È sempre valido l’ammonimento di san Gregorio Magno: come “un discorso imprudente trascina nell’errore, così un silenzio inopportuno lascia in una condizione falsa coloro che potevano evitarla. Spesso i pastori malaccorti, per paura di perdere il favore degli uomini, non osano dire liberamente ciò ch’è giusto” (in Regola pastorale, Lib. 2, 4; PL 77, 30)». (B. Sorge, Il silenzio dei vescovi sull’Italia, in «Aggiogamenti sociali», Vol. 55, n. 3, marzo 2004, pp. 161-166).

Consapevole che le sue parole sarebbero apparse forti se non dissacratorie alle orecchie degli interessati e delle persone pie di professione in qualche gruppo interessato perché connivente, egli fece ricorso all’appoggio di un vescovo e cardinale della statura e della caratura di Carlo Maria Martini, unica voce fuori del coro nel panorama della diaspora episcopale italiana. Egli il 6 dicembre 1995 (già nel millennio scorso!), in occasione della festa di Sant’Ambrogio, nel discorso alla città dal titolo C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare, disse testualmente:

«La Chiesa non deve tacere perché [in Italia] è in gioco la sopravvivenza dell’ethos politico. Non è la Chiesa come tale a essere in pericolo; è la natura stessa della politica e quindi della democrazia. Non è dunque questo un tempo di indifferenza, di silenzio e neppure di distaccata neutralità o di tranquilla equidistanza».

Padre Sorge, forte di questo assist, espresse tutta la sua preoccupazione per la situazione esplosiva che si era prodotta in ambito ecclesiale.

«La necessaria equidistanza dagli schieramenti partitici non significa neutralità di fronte alle implicazioni etiche e sociali dei diversi programmi politici. Infatti, il silenzio in tal caso potrebbe indurre i fedeli a credere che tutti i modelli di società, per il solo fatto di essere formalmente «democratici», si equivalgano e che i cristiani possano indifferentemente aderire all’uno o all’altro, purché si comportino con coerenza di fronte alle singole scelte. Il sospetto che la profezia sia frenata dalla diplomazia, cioè dalla speranza di vantaggiose contropartite per il bene della comunità ecclesiale e in difesa di alcuni valori etici, si tratti dei sussidi alle scuole cattoliche o dei finanziamenti agli oratori o dei buoni-famiglia» (Sorge B., ivi).

Quale rapporto tra fede e politica?

Il cristiano, sia esso vescovo o semplice credente, vive nella prospettiva del Regno di Dio e sa che nella gestione delle realtà terrestri deve essere «prudente», senza cercare scorciatoie e protezioni o favori e raccomandazioni perché il suo agire è prova diretta del suo essere e della sua fede. Mai deve dimenticare che ovunque egli sta, porta sempre con sé «l’immagine di Dio», di cui è custode e responsabile.

Nessun governo sulla terra potrà mai essere «adeguato» alle esigenze del Vangelo, per questo il credente starà a casa sua all’opposizione di ogni potere come coscienza critica del diritto dei poveri e degli emarginati a partecipare alla condivisione della mensa sociale e civile della «polis». Se il credente si schiera con il «potere», qualunque esso sia, finisce per essere complice delle sue scelte e delle conseguenze che esse comportano. Ciò esige, come dice padre Sorge, profezia e lungimiranza e comporta la rinuncia ai privilegi e ai vantaggi importanti o anche irrisori che lo stato può garantire. In altre parole la separazione totale: non può esserci commistione e confusione di sorta tra la fede e la gestione immorale del potere politico ed economico.

Credere in Dio esige integrità di vita e trasparenza di pensiero che devono vedersi negli atti quotidiani e nelle scelte della vita. Su questo punto anche il magistero supremo della Chiesa, che si esprime nel concilio ecumenico Vaticano II, è inequivocabile. Insegna il concilio (sottolineature mie):

«Gli apostoli e i loro successori con i propri collaboratori, essendo inviati ad annunziare agli uomini il Cristo Salvatore del mondo, nell’esercizio del loro apostolato si appoggiano sulla potenza di Dio, che molto spesso manifesta la forza del Vangelo nella debolezza dei testimoni. Bisogna che tutti quelli che si dedicano al ministero della parola di Dio, utilizzino le vie e i mezzi propri del Vangelo, i quali differiscono in molti punti dai mezzi propri della città terrestre… la Chiesa… tuttavia non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall’autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni» (Gaudium et Spes, n. 76).

Pronti a rinunciare anche ai diritti

Il concilio invita a rinunciare addirittura ai «diritti legittimamente acquisiti» per non dare motivo di nessun dubbio o parvenza di privilegio. Oggi, invece, il privilegio è la norma e la rinuncia una chimera.

«Sembra proprio venuto il momento che la Chiesa cattolica recuperi la propria dimensione costitutiva, la dimensione escatologica. E ritrovi la forza della profezia, del coraggio, sradicando per sempre dal suo corpo quel male micidiale, il clericalismo, che ne corrode l’anima» (Svidercoschi G. F., Il ritorno dei chierici. Emergenza Chiesa tra clericalismo e concilio, Dehoniane, Bologna 2012, 10).

Queste parole hanno un peso più grave perché sono scritte da un giornalista, Gian Franco Svidercoschi, già vicedirettore de L’Osservatore Romano, coautore con Giovanni Paolo II del libro «Dono e Mistero» (1966) e autore del libro «Verso il 2000 rileggendo il concilio», commissionatogli nel 2000 dalla Santa Sede. Egli arriva a parlare «del progressivo decadimento di una certa classe episcopale, tanto nella dottrina quanto nel governo della pastorale» (Id., 27). Gli scandali che hanno coinvolto il Vaticano in questi anni, dallo Ior alla pedofilia fino alle dimissioni di papa Benedetto XVI, non solo sono sintomi, ma anche causa del degrado ecclesiale giunto ormai a livelli insopportabili.

È in questo contesto che deve essere letta la scelta di papa Francesco, «il papa venuto dalla fine del mondo», il quale con i suoi primi atti e gesti è stato eloquente e dirompente, per non dire «rivoluzionario»: non ha mai usato la «mozzetta rossa», residuo della «clamide rossa» (mantello) dell’imperatore romano che la usava come segno del suo potere regale. Rinunciando a essa, papa Francesco ha voluto distinguere il servizio del vescovo di Roma da quello del capo di stato, cioè del politico. Con un solo gesto ha detto al mondo intero: Cesare è Cesare. Dio è Dio. Vengo a voi come «immagine di Dio» non come potente tra i potenti.

Il Vangelo di per sé non pone un’opposizione tra «Cesare» e «Dio», né determina i confini tra le due sfere, né tanto meno dice che c’è una sfera d’influenza di Dio e una d’influenza di Cesare. Questo ragionamento è estraneo al pensiero di Gesù perché illogico: il regno di Dio, infatti, pur non confondendosi con il regno di Cesare, non è fuori dal territorio e dall’umanità su cui governa Cesare. Gesù non parla di separazione tra «stato e Chiesa»: questa è un’indebita conclusione estranea al testo, come se vi fossero due autorità equipollenti, distinte, ma convergenti che si dividono la torta umana. La parte spirituale alla Chiesa e la parte materiale allo stato, come si è tentato di fare nel Medioevo attraverso le investiture dei re da parte del papa, fino a quando Bonifacio VIII, nel giubileo del 1300, non pretese di assumere per sé le due funzioni (la teoria delle «due spade»).

Questo ragionamento è tipico di una concezione della società come «cristianità», in cui la visione teologica e la morale di una confessione religiosa diventano patrimonio esclusivo di quella società che le impone anche con la forza o con la semplice legge. È la prospettiva cristiana della vita e del mondo applicate alle realtà terrestri senza distinzione di sorta; in questo senso la Chiesa detta le regole e i laici le applicano come «braccio secolare» come si è manifestato nel regime di «cristianità» di stampo medievale, quando il potere religioso appaltava al potere politico parte dei propri compiti scellerati. Poiché il comandamento ordina: «Tu non ucciderai» (Es 20,13), l’Inquisizione non si sporcava le mani, ma appaltava le uccisioni al braccio secolare, così si ammazzavano lo stesso le persone, quasi sempre innocenti, ma non erano i preti a farlo materialmente. È il vero regno della confusione tra stato e Chiesa che storicamente tanti guai ha portato e alla Chiesa e allo stato.

In quanto cittadini credenti, noi abbiamo diritti e doveri che sono sanciti dalla Carta costituzionale e li dobbiamo esigere non perché credenti, ma perché cittadini. Essi, infatti, non sono una concessione benevola del governo di tuo. Al di fuori di ciò, dobbiamo essere attenti, come esige il Vangelo: se ci avvaliamo di un condono, significa che abbiamo compiuto un illecito e quindi ci collochiamo dentro un clima d’immoralità. In secondo luogo, diventiamo complici del degrado ambientale o sociale, anche se ne possiamo avere un beneficio immediato. Di conseguenza, non possiamo contestare il governo per immoralità o, in caso di disastro ambientale, gridare contro Dio o la fatalità, se per esempio abbiamo costruito abusivamente, violentando ambiente ed equilibrio ecologico. Se frodiamo il fisco, noi riduciamo i benefici dello stato sociale, rubiamo a noi stessi, alla scuola dei nostri figli, eliminiamo risorse per la sanità, e di conseguenza perdiamo il diritto di parlare di poveri e di stato inadempiente, né possiamo andare in piazza a gridare contro gli evasori perché saremmo complici.

La fede è esigente, perché impone la coerenza. Nella prossima puntata, termineremo questa lunga digressione sul rapporto tra «Cesare e Dio», riflettendo sul testo fondamentale della distinzione «Chiesa e stato» e che è Gv 18,36: «Il mio regno non è di questo mondo».

(continua – 4).

Paolo Farinella