Una sosta per capire (Gv 7)


Il settimo capitolo del Vangelo secondo Giovanni a prima vista non è di quelli che restino impressi nella memoria dei lettori. Parrebbe quasi un momento di passaggio, interlocutorio, come una pausa per prendere respiro.

E invece non è così. L’evangelista non vuole lasciarci riposare, e ce lo dice sottolineando più volte che ci troviamo alla festa delle Capanne. Si trattava, soprattutto al tempo di Gesù, di una festa autunnale molto sentita. La sua origine era contadina, legata agli ultimi racconti dell’anno, soprattutto quello dell’uva. Nel tempo, però, era stata collegata, come lo è ancora oggi, agli anni vissuti da Israele nel deserto, quando pur nella precarietà, il popolo era comunque nelle mani affidabili di Dio. Il dormire in capanne di frasche, anche solo simboliche, voleva richiamare quel tempo in cui gli ebrei vivevano in tende e non avevano altra certezza che la presenza protettrice di Dio.

Precarietà e fiducia

E Giovanni sembra proprio costringerci a muoverci in quello spazio incerto. Così, nel capitolo 7, ci descrive un Gesù «rifugiato» in Galilea, a causa delle minacce di morte dei giudei, che dice di non voler tornare in Giudea per la festa delle capanne, ma che poi ci va di nascosto. Un Gesù che a metà dei giorni di festa si mette a predicare nel tempio suscitando attorno a sé dibattiti e divisioni sulla sua identità. La gente discute anche sulla veridicità delle parole di Gesù che affermano esserci chi vuole la sua morte (v. 20), mentre invece c’è proprio chi attivamente cerca di procurargliela (vv. 1.30.32.45).

La gente si domanda: chi è costui? È vero che spiega con profondità e autorevolezza la Bibbia, ma non ha studiato (v. 14-15). Qualcuno crede che Gesù sia il messia, altri invece no, perché quando il messia verrà «nessuno saprà di dove sia» (v. 27). Qualcun altro ricorda che la Scrittura dice che il messia forse verrà da Betlemme (v. 42). Non può quindi essere Gesù: tutti, infatti, sono sicuri che lui è di Nazaret (v. 41). Altri pensano: se le autorità religiose lo lasciano parlare in pubblico, di certo deve dire cose giuste (v. 26), ma non sanno che in realtà proprio quelle stesse autorità stanno cercando di imprigionarlo. C’è chi vede che è buono e fa gesti grandiosi (vv. 12.31) e chi lo ritiene indemoniato (v. 20).

Di Gesù sembra potersi dire tutto e il contrario di tutto. A chi credere?

Anche alcuni di quelli che più sono vicini a Gesù, che lo conoscono meglio, non credono in lui; ma, nello stesso tempo, i gesti che compie, e soprattutto le parole che condivide, sembrano aprire prospettive di profondità, di vita, di nutrimento e acqua fresca. Come ha detto Pietro a nome dei dodici poco prima: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,69).

La testimonianza del Padre (Gv 7,14-25)

È Gesù stesso a offrire una chiave di comprensione, anche se potrebbe sembrarci persino più astrusa. Dice, infatti, che è il Padre ad avergli mostrato tutto, e che, se si vuole vagliare la sua credibilità, è al Padre che bisogna guardare (vv. 16-18).

Da una parte, come dicevamo, questo ci complica le cose. Finora era sembrato che fosse Gesù a farci conoscere il Padre, a mostrarcelo, e che si potesse guardare a Gesù esattamente per conoscere meglio il Padre. Ora però Gesù ci dice che, per credere al Figlio, si deve fare riferimento alla testimonianza del Padre… che però noi conosciamo tramite il Figlio. Sembra di annodarci in un ragionamento senza uscita.

Se ci pensiamo, però, è proprio questa la logica delle relazioni umane. Gesù sostanzialmente dice che se si guarda a ciò che il Padre ha fatto nella storia, e che si conosce dal Primo Testamento, si può cogliere la coerenza con ciò che insegna lui. Non siamo di fronte a un ragionamento filosofico o matematico (da A si ricava B, da B si ottiene C), ma di coerenza intima: «Ciò che insegno non è forse coerente con ciò che Dio ha sempre fatto?». Di fronte a questo appello, chi ascolta non può più semplicemente mettersi alla finestra come un giudice che stabilisce se il ragionamento tiene, ma deve coinvolgersi, decidere, schierarsi. È come trovarsi di fronte a un’opera d’arte: magari non siamo artisti, ma per capire un quadro dobbiamo seguire i suggerimenti del pittore, ripercorrere la sua intuizione, dobbiamo farci un po’ artisti.

Ecco perché così tanti discepoli e persone vicine a Gesù, in questa parte del vangelo, non credono più in lui. Perché non si tratta più solo di ascoltare e valutare, ma di prendere posizione, di credere o no. Come in un’amicizia, come in una relazione, ci può essere un tempo in cui provare a vagliare se quei segni di vicinanza sono affidabili, ma poi arriva il momento in cui non si può più stare alla finestra, perché bisogna scommettere se quella relazione può essere autentica, e quindi conviene darle fiducia e farla crescere, o se invece la riteniamo ingannevole o pericolosa e allora va abbandonata (cfr. il v. 12, dove si ipotizza proprio che Gesù «inganni la folla»). Tenersi neutrali non è possibile, è come rifiutarla.

Da qui in poi, allora, il discorso sul Padre da parte di Gesù si farà più intimo e complesso, perché non potremo più semplicemente porci come spettatori e ascoltatori. Dobbiamo entrare in gioco.

Tra afferrare e lasciare scorrere (Gv 7,30-39)

Cogliamo così il legame che c’è tra due temi che noi, forse, non avremmo messo vicini.

Da una parte c’è chi cerca di afferrare Gesù, invano (vv. 30.32.45), per arrestarlo: le autorità, i sommi sacerdoti e i farisei. Cercano di zittirlo, non di controbattere o di entrare in dialogo, di provare a capire e a rispondere, ma di farlo tacere, così come sono riusciti a mettere a tacere chi si interrogava su Gesù (v. 13).

E qui entra prepotente la mano dell’evangelista, che afferma che si potranno mettere le mani su Gesù soltanto quando sarà il momento. Giovanni non è interessato a scrivere una cronaca, e quasi non ci spiega perché le autorità non riescano ad arrestare Gesù. Ci dice solo, verso la fine del capitolo, che le stesse guardie, persone abituate a ubbidire senza farsi domande, affermano che «mai un uomo ha saputo parlare così!» (v. 46). L’attenzione non è sulle azioni di Gesù, ma sulla sua sapienza, sulle sue parole che sanno evocare un desiderio umano profondo.

Giovanni, che non a caso chiama «segni» i miracoli, insiste sul fatto che non è lo stupore o l’interesse a portarci stabilmente verso Gesù, ma le parole di vita che sa donare, la vita promettente che sa evocare.

Dall’altra parte, infatti, contro coloro che vorrebbero «afferrarlo» e rinchiuderlo, Gesù si erge in piedi, solenne, a gridare, nell’ultimo giorno della festa, che chiunque ha sete è chiamato ad andare a dissetarsi da lui. «Fiumi d’acqua viva fluiranno dalle sue viscere!» (v. 38), dice Gesù affermando di citare la Scrittura, anche se non si capisce di preciso a quale passo stia pensando (Ezechiele? Zaccaria? I salmi?). Non si capisce quindi di preciso se l’intimo, il cuore, le viscere da cui scaturiranno fiumi d’acqua viva siano di Gesù o di chi va a lui. Ma in realtà questa ambiguità è probabilmente voluta. È Gesù che dona acqua viva, ma sarà anche chi si affida a lui che potrà fare come Gesù. L’acqua, ciò che non si può restringere, non si può chiudere in confini, non può essere «afferrata» e rinchiusa. Acqua viva, che continua a scorrere, che sa dissetare senza risparmio, senza paura, che purifica e rinfresca.

Da una parte c’è chi pretende di chiudere la fedeltà a Dio in regole, silenzio e ubbidienza; dall’altra ci sono parole che evocano la libertà e l’appagamento di acque vive. E il Padre, dice Gesù, è da questa seconda parte.

Germi di ascolto (Gv 7,40-52)

Non è allora per ripetizione che Giovanni torna a recuperare sia la domanda sull’origine di Gesù (vv. 40-43), sia il tentativo di afferrarlo e rinchiuderlo (vv. 44-47). Questi due temi, apparente-
mente slegati, sono invece intrecciati, e l’evangelista, ripetendoli, ci suggerisce che dobbiamo connetterli e non dimenticarli.

Perché, sembra dirci, è giusto farsi domande su Gesù, sulla sua pretesa di comunicarci il Padre e sul suo legame con Lui. È giusto perché non è una realtà evidente, che si imponga. Non è una dimostrazione matematica, che ci costringa a riconoscerne la verità. È invece un’intuizione profonda, autentica, esistenziale che ci chiede di prendere posizione, di decidere da che parte stare.

Assomiglia alle relazioni umane, perché ciò che Dio cerca è esattamente una relazione. Non ci sono infatti parole dure, nei vangeli, nei confronti di chi fatica a credere. Perché l’incertezza, l’insicurezza, sono comprensibili. I giudizi pesanti, invece, sono verso chi vorrebbe far tacere Gesù e le domande, anche a costo di mentire.

Alle guardie che, contro la loro natura e la loro etica, mandate ad arrestare Gesù, si fermano perché «mai un uomo ha saputo parlare così», i capi religiosi ribattono che soltanto gli stupidi, «la folla, ignorante della Legge», si è lasciata sedurre da Gesù. È l’obiezione dei presuntuosi, che guardano i titoli di merito («dove ha studiato, costui?», v. 15) e non si lasciano coinvolgere dalla possibilità di parole di vita. E che mentono, affermando che solo gli ignoranti si farebbero ingannare da questo presunto messia.

Giovanni lo fa subito notare, perché uno del sinedrio, quel Nicodemo «che prima era andato a lui di notte» (v. 50), non prende posizione netta a favore di Gesù, ma si rifiuta di condannarlo senza prima ascoltarlo, peraltro facendo appello proprio alla Legge.

Nicodemo è una figura incantevole del Vangelo di Giovanni, perché, pur non prendendo posizione, si mette in ascolto: va a parlare a Gesù, pur con molte diffidenze e senza volersi far notare (Gv 3,1-21), e sarà tra coloro che si prenderà cura del corpo del crocifisso (Gv 19,39). Non un discepolo in senso pieno, ma una persona che si lascia coinvolgere, che vuole ascoltare e capire, che si lascia scomodare.

È uno di quei discepoli «in spirito e verità» (Gv 4,23-24) che il Padre cerca e spera. Non necessariamente persone che abbiano già deciso definitivamente e con fermezza, ma che si lasciano mettere in discussione, che ascoltano e meditano, che non hanno verità preconcette.

Perché, come nelle nostre relazioni, nel nostro orientamento di vita, in tutte le questioni più profonde, Gesù e il Padre sanno che non è facile affidarsi, decidersi, scegliere, e comprendono chi fatica, chi è incerto. Perché il messaggio di Gesù sul Padre non è un teorema matematico incontrovertibile, ma una parola di vita, promettente ma senza garanzie previe. L’unica risposta sbagliata è quella di chi non vuole neppure ascoltare.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 09 – continua)




Volete andarvene anche voi? (Gv 6,59-71)


Nella scorsa puntata abbiamo interrotto la lettura del lunghissimo sesto capitolo del Vangelo secondo Giovanni al versetto 58. Ora la riprendiamo per vedere quanto lontano vuole portarci l’evangelista che ci aveva narrato la moltiplicazione dei pani, seguita da una lunga riflessione su quale sia il cibo che davvero ci fa vivere. Questo ha portato il discorso sul tema della centralità di Gesù, «io sono il pane vivente, disceso dal cielo» (Gv 6,51), autentico cibo e bevanda (v. 55) che chiede di affidarsi a lui solo, e di nutrirsi di lui.

La fatica di fidarsi (Gv 6,60-62)

Addomesticati da secoli di formule liturgiche, è possibile che a noi sfugga la portata rivoluzionaria e scandalosa di ciò che Gesù sosteneva e incentivava: al posto di sacrifici animali per chiedere perdono a Dio, Gesù proponeva solo un banchetto, incentrato sul nutrirsi del suo stesso corpo e sangue offerti come sacrificio, seguito dalla celebrazione della comunione con Lui. Ossia sanciva l’abolizione dei sacrifici animali (centrali per il culto nel tempio sostenuto dal Primo Testamento), sostituiti simbolicamente dal sacrificio del suo corpo (nella religione ebraica è sempre stato considerato un abominio toccare la vita umana) e dall’offerta del suo sangue come bevanda (cosa assolutamente vietata dalla legge, già da Gen 9,4)). Così facendo, Gesù metteva al centro del culto sé stesso, sostituendosi a Dio.

Non stupisce quindi che alcuni, anche tra i discepoli di Gesù, abbiano pensato che «questo discorso è duro» (Gv 6,60), ossia faticoso da capire e da fare proprio. Hanno mormorato tra loro, ma non l’hanno detto a Gesù.

A dire la verità, persino per noi oggi alcuni dettagli del discorso di Gesù risultano ostici, tanto che moltissimo inchiostro è stato usato per renderne ragione. Tra i molti tentativi di spiegazione, ne scegliamo uno che può forse sembrare più lineare. Tra l’altro, è un tentativo di spiegazione che si lascia guidare dal fluire del discorso evangelico.

È infatti Gesù a reagire all’obiezione che i suoi discepoli non gli fanno esplicitamente (possiamo immaginare che gli sia stata svelata dallo Spirito, o che Gesù fosse particolarmente attento e acuto riguardo a ciò che si muoveva intorno a lui). E dice, più o meno: «Ciò che ho detto vi fa inciampare (vi scandalizza), non vi aiuta a fidarvi? Figuratevi quando mi vedrete salire al cielo!».

Qui possiamo domandarci per quale motivo l’ascensione avrebbe dovuto causare scandalo. Non sarebbe stata la certificazione che Gesù aveva detto il vero?

Sì, la sarebbe stata, ma, nello stesso tempo e più in profondità, avrebbe attestato che il Padre voleva eliminare la divisione tra divino e umano, che è quindi coerente guardare a un uomo per guardare a Dio, e che fosse Dio stesso a suggerire qual è il volto umano più autentico. Quindi è coerente che, per guardare a Dio, si guardi a un uomo, e che sia Dio a suggerirci il volto umano più autentico. D’altronde, il divieto di cibarsi di sangue era dovuto alla convinzione che nel sangue risiedesse la vita, e che la vita appartenesse a Dio. Ma Dio può donare ciò che è suo. E, lo si noti, il Dio biblico è quello che, piuttosto che chiedere sacrifici agli altri, li fa in prima persona, già dalla relazione con Abramo.

Tutto, logicamente, può tornare. Ma per farlo occorre fidarsi di Gesù.

Spirito vivificatore (Gv 6,63-65)

A volte la logica del vangelo di Giovanni ci sembra strana, ma se ci lasciamo coinvolgere, spesso la troviamo più profonda e autentica di quanto non avessimo colto in prima battuta.

Ciò che segue, infatti, e che ci aspettiamo sia una spiegazione più approfondita, appare invece come un cambio di discorso: «Colui che dona la vita è lo Spirito, la carne non serve a niente» (v. 63). A molti è sembrata un’affermazione illogica e che, tra l’altro, sembra negare il valore dell’eucaristia («mangiate il mio corpo»). In realtà la contrapposizione non è tra la «carne» da una parte e l’«anima» o la «sapienza» o la «conoscenza» dall’altra, ma tra la «carne» e lo «Spirito». Non, quindi, tra una realtà tangibile e una non visibile, bensì tra ciò che dipende semplicemente da una sicurezza esteriore, formale, quella che san Paolo chiamerà la «lettera» (Rm 2,29; 2 Cor 3,6), e ciò che ha e garantisce il senso in profondità.

Qui siamo di nuovo pienamente nel flusso del pensiero di Gesù, che ci ha invitati a metterci in una relazione di fiducia con lui, a cibarci di lui e a lasciarci guidare solo da lui per arrivare al Padre. Non come chi segue una regola e quindi si sente «a posto» (si può anche mangiare il corpo di Cristo con questo stato d’animo…), ma come chi fà proprio un gesto simbolico fidandosi di ciò che significa, affidandosi alle parole di chi ha promesso di essere presente in quel segno. Gesù ci invita a credere che il valore autentico di quel cibarsi, ciò che ai gesti e alle parole umane può «donare vita», sta nella fiducia in lui, assistiti dallo Spirito. D’altronde, ogni forma di dedizione umana autentica si lega non in primo luogo a ciò che concretamente si fa, ma alle intenzioni che ci muovono. Gesù si pone al livello delle nostre intuizioni di vita più profonde, che ci chiedono di valutare e discernere con attenzione le opzioni che abbiamo di fronte, per arrivare alla fine a decidere di che cosa vogliamo fidarci. Se stiamo solo a misurare con il bilancino i pro e i contro, non ci muoveremo mai e non vivremo. Gesù invita ad affidarci a lui, a entrare in quella prospettiva di fiducia che promette che la separazione tra divino e umano non si farà più, come in lui già non esiste più.

E Gesù può dire che ciò è stato «dato dal Padre» perché Dio è davvero superiore a noi, e non possiamo essere noi ad abolire la separazione, ma solo Lui può donare la comunione.

Gesù non sta pensando a dei compiti che noi dobbiamo fare per essere all’altezza dell’esame divino, ma a un incontro di comunione. Questo però, siccome non è tra due pari, non può che partire dall’alto, dal Padre ed è, allo stesso tempo, affidato alla risposta umana, proprio perché avviene tra due libertà.

Volete andarvene? (Gv 6,66-71)

Si può però comprendere che «molti dei discepoli» (v. 66) rinuncino a seguire Gesù. È un discorso troppo «duro», è un discorso che non ci permette di sentirci «a posto» quando facciamo ciò che ci è richiesto (come succede agli schiavi disciplinati), ma ci chiede di entrare in una relazione personale profonda, di dedizione e fiducia. Una relazione che non lascerà mai comodi, perché mai potremo dire di aver fatto abbastanza né di avere in mano certezze. Nello stesso tempo, se si imposta così il discorso non saremo mai esclusi dalla comunione, perché ciò che è richiesto è di aprirsi e fidarsi, non di raggiungere un livello minimo di realizzazione pratica.

Siccome però stiamo parlando di un dialogo, persino Dio non può anticipare come andrà a finire. Da parte sua, Lui ha aperto un credito illimitato, come è chiaro da ogni pagina dei Vangeli: il Padre vuole la comunione con gli esseri umani. Non vuole essere servito, ma incontrato, scoperto e amato.

E l’amore non sopporta forzature, neppure da parte di Dio. Quindi, di fronte allo «scandalo» di molti discepoli (non estranei, ma gente che ha voluto seguirlo), Gesù fa la domanda diretta, che in tutti i Vangeli prima o poi arriva: «E tu? Che dici? Volete andarvene anche voi?» (v. 67). La domanda è ancora più sorprendente perché è fatta ai «dodici», che noi sappiamo chi sono, ma dei quali finora nel vangelo di Giovanni non si è mai parlato.

L’evangelista ci sorprende, ci costringe a ripensare se li aveva già presentati, e così ci fermiamo, rileggiamo, facciamo ancora più attenzione a quella che è una domanda fondamentale, diretta, che chiede coinvolgimento, che interroga sulla comunione possibile. Perché non si tratta di ubbidire a un ordine, ma di aderire a un’offerta.

E la risposta di Pietro è esemplare: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna!» (v. 68). È una reazione che si pone sullo stesso tono di Gesù. Non dice di avere le prove che Gesù sia chi pretende di essere, non introduce doveri o responsabilità. Parla invece di «parole di vita eterna». Ciò che Gesù dice, spiega, fa intuire, ha il gusto dell’eterno, prospetta e promette un senso. Non dà le soluzioni definitive, che nella vita, nelle questioni esistenziali più profonde, non esistono, perché nessuno può dire con certezza matematica di aver fatto bene a fidarsi di questa persona, di questo stile di vita, di questa vocazione. Ma può sentire che dentro a una certa situazione è già presente una promessa di vita autentica, una parola che chiama, che non dà certezze, ma offre una relazione.

E allora, da chi altri andare?

Una volta che si è iniziato a gustare quel profumo di senso, non se ne può più fare a meno. E nessun altro lo offre, anche se persino Pietro non può dire di aver capito tutto, di avere tutto chiaro. Però sai che quel gusto di senso, altrove non c’è.

E il Padre?

Sembrerebbe quasi che il Padre, questa volta, resti sullo sfondo.

Ma dopo tutti i discorsi già fatti è chiaro che Gesù non parla di sé senza coinvolgere anche il Padre, che si mostra e rivela in lui.

Riscopriamo ancora, quindi, un Padre che desidera una relazione di fiducia con gli esseri umani, che abbatte la separazione che esiste tra sé e l’umanità e la abolisce nella speranza, nella promessa, in attesa dell’ascensione al cielo. Come tutte le promesse, non si basa su una garanzia legale, su minacce di punizioni, ma sull’affidabilità della relazione, sulla fiducia: «Ti credo solo perché sei tu a promettermelo».

È una costante talmente regolare che potremmo non notarla più: il Padre di Gesù non imposta la sua relazione con l’uomo sulla base di regole e punizioni, come siamo abituati a veder fare dai potenti e come l’umanità solitamente immagina che faccia Dio, ma sulla base di una relazione personale di comunione e fiducia. Su promesse e affidabilità. E quindi sulla libertà.

Il Padre di Gesù vuole essere amato, e non sopporta quindi costrizione. Non esiste amore senza libertà di andarsene. «Volete andarvene? Andate, non vi trattengo». Non a caso, in questi tempi in cui ancora ci sono persone che ne mantengono altre legate a sé con ricatti morali, con catene economiche o con la violenza, non fatichiamo ad ammettere che quello che loro chiamano amore, amore proprio non è.

Il Padre di Gesù lascia libero chi vuole andarsene. Quando, nella storia della nostra Chiesa, non si sono lasciate le persone libere di scegliere, al di là delle ragioni storiche e culturali, si è tradito lo spirito del cristianesimo.

Come un innamorato, anche il Padre vuole lasciarci liberi di andarcene, sperando però che non vogliamo farlo, che restiamo assetati delle parole di vita eterna, che Lui continua a offrirci tramite Gesù.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 08 – continua)




Solo e in compagnia (Gv 6,1-59)

Con il sesto capitolo, il Vangelo di Giovanni ci stimola ad accelerare e approfondire il cammino. Lo fa innanzi tutto segnalando che ci troviamo a Pasqua (6,4), osservazione che può sembrare inutile se si dimentica che proprio a Pasqua dell’anno precedente Gesù aveva espresso il suo giudizio sul culto nel tempio (2,13-17) e che in quella dell’anno successivo morirà in croce.

Lo fa anche con un racconto, quello della moltiplicazione dei pani, che, a differenza dei Vangeli sinottici, qui fa da preludio a una riflessione sull’eucaristia che ci saremmo aspettati di trovare più avanti, ossia durante l’ultima cena (dove invece è assente).

Infine, l’evangelista inizia a parlare con insistenza del rapporto di Gesù con il Padre, e per la seconda volta nel suo percorso ricorre a un «Io sono» (6,20) su cui torneremo presto.

Si arriverà a un certo punto nel capitolo a esplicitare che nessuno ha visto Dio e solo Gesù lo può far conoscere (6,46), un tema che percorre sottotraccia tutto il Vangelo fin dall’inizio. Ciò che fa Gesù è ciò che farebbe il Padre. Guardare il Figlio, dunque, significa guardare anche chi lo ha mandato.

Diventa allora significativo il gioco di Gesù che un po’ si ritira in solitudine, un po’ si mostra ai suoi e alle folle.

Il capitolo 6 si apre con Gesù che si ritira con gli apostoli sul monte (6,2-3) per evitare le folle che lo seguono per le sue guarigioni. Ma da lì le vede venire verso di lui, e non solo non le scaccia, ma si chiede come fare a dare loro da mangiare. A quel punto Gesù intuisce che la gente vuole «prenderlo per farlo re» (6,15), quindi si ritira sul monte da solo. Mentre lui è sul monte, i discepoli passano senza di lui dall’altra parte del lago, ma vengono colti da una tempesta. D’improvviso Gesù compare camminando sulle acque, e li porta a destinazione invitandoli a non avere paura (6,16-21).

Infine, Giovanni si avventura in una descrizione abbastanza contorta dello stupore della gente, che cerca Gesù faticando a trovarlo (6,22-25). Il fatto che la descrizione non sia lineare non è un errore dell’evangelista. Anzi, egli, proprio in questo modo attira lì la nostra attenzione, perché ci rendiamo conto ancora una volta che Gesù, che è cercato, potrebbe sottrarsi alla folla, e un po’ lo fa, ma si lascia anche trovare, per commozione e perché vede che gli altri hanno bisogno di lui.

Il volto del Padre

Abbiamo già detto che l’«Io sono» è uno degli elementi che ci suggeriscono un «cambio di marcia» di Giovanni. Il momento è quello in cui Gesù, camminando sulle acque, compare ai discepoli che stanno faticando a gestire la barca nel mare in tempesta. Loro, come è comprensibile, al vederlo si spaventano, ma Gesù li rassicura dicendo «Io sono» (6,20). Si tratta di una formula che potrebbe essere banale, il nostro «sono io», ma già nel Primo Testamento sono parole che richiamano la rivelazione del nome divino a Mosè: «Dirai agli israeliti: “Io sono mi ha mandato a voi”» (Es 3,14). Nel Vangelo di Giovanni la formula diventa solenne. Gesù, infatti, dice molte volte «io sono»: il pane di vita (nel capitolo 6), la luce del mondo (8,12), la porta delle pecore (10,7.9), il buon pastore (10,11.14), la risurrezione e la vita (11,25), la vera vite (15,1.5). Addirittura, in alcuni casi non aggiunge nulla, ma si limita a dire «Io sono» (8,24.28.58; 13,19), che sicuramente ha un tono solenne e divino.

Già una volta Gesù nel Vangelo aveva usato questa formula, parlando con la samaritana (4,26), ma là poteva sembrare un uso più semplice e «banale»: la donna parla del messia, Gesù le svela «Sono io, che parlo con te». Nell’episodio di Gesù che cammina sulle acque in tempesta, invece, le stesse cominciano a sembrare qualcosa d’altro, anche perché sono dette da chi sta compiendo un’impresa sovrumana.

In queste righe del Vangelo di Giovanni, Gesù inizia ad alludere alla propria dignità divina, e nello stesso tempo continua a dichiararsi inferiore e in comunione con il Padre, del quale è la visibilità.

Quello che mostra in questo capitolo è allora il volto di un Padre che non avrebbe bisogno della compagnia degli umani, eppure sceglie di mettersi a disposizione, di lasciarsi trovare, sapendo che sono loro ad aver bisogno di lui. Il volto di un Dio che è padrone degli elementi (moltiplica i pani, calma la tempesta facendo arrivare subito a riva), ma non si sostituisce alla libertà e alla fatica degli esseri umani: sfama cinquemila persone, ma a partire non dal nulla, bensì da cinque pani d’orzo e due pesciolini (pasto scarno anche per chi lo aveva portato, ma che intanto deve essere messo a disposizione, deve essere perduto per essere ritrovato), e fa giungere a riva marinai che però intanto avevano provato a remare. Un Dio al servizio degli uomini, ma senza sostituirsi a loro.

Quello che Gesù mostra è un Dio che non usa mai gli elementi di cui è Signore per arrecare un danno, ma sempre e soltanto per il bene.

Un Padre che, come Gesù, sarebbe autosufficiente, ma sceglie di non stare da solo. E un Padre che interviene poco, per salvaguardare la libertà degli umani, ma quando lo fa interviene solo salvando, sfamando, mai punendo.

 

Che cosa dobbiamo fare? (Gv 6,26-35)

Negli Atti degli Apostoli la reazione al primo discorso di Pietro in cui si racconta la vicenda di Gesù è «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?» (At 2,37). Al versetto 28 del capitolo 6 di Giovanni, anche la folla che cerca Gesù sull’altra riva del lago e lo trova, gli domanda: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». È comprensibile, umano e anche ammirevole: di fronte alla scoperta di una interpretazione diversa della nostra vita, chiedersi in che cosa cambiare è generoso e onesto. Gli interlocutori di Gesù, insomma, non sono né superficiali né ipocriti. Ma la risposta di Gesù spiazza, sulla linea di ciò che aveva lasciato intuire nel dialogo con la donna di Samaria (Gv 4,23-24): «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato» (6,29).

A essere significativi e sorprendenti sono almeno due aspetti. Il primo è che il «da fare» non sia qualcosa che deve essere fatto. Se è vero che le parole senza azioni sono vuote, è però ancora più vero che a essere significative nelle relazioni umane sono le intenzioni: il bambino che vuole aiutare la mamma provando a farle trovare al rientro a casa una pietanza che però è immangiabile non verrà rimproverato, ma probabilmente la farà commuovere. E orientando il rapporto con Dio non nel fare, ma nel credere (pisteuete), nell’affidarsi, nel confidare (questo è il senso profondo di un verbo che resta un po’ ambiguo), Gesù riorienta il rapporto degli esseri umani con Dio sull’unica cosa che conta, ossia la relazione. Vuoi fare l’opera di Dio? Fidati di lui, affidati a lui, vivi in una relazione di amicizia, di affetto, dove a essere decisivo non è ciò che fai, ma l’intenzione con cui vivi. Questo sembra essere per Gesù il cuore della morale religiosa: vivere una relazione autentica, profonda, di affetto con Dio. Quello che si fa, di conseguenza, è frutto di questa relazione.

Ma c’è anche un altro aspetto decisivo, perché in realtà Gesù non invita a credere in Dio, ma «in colui che egli ha mandato», ossia in Gesù stesso. In modo chiaro si afferma ciò che era già stato intuito prima e che ora diventa più esplicito: il Dio invisibile si può vedere e incontrare in Gesù.

Di fronte alla comprensibile perplessità degli interlocutori («Che segno compi perché ti crediamo?»), Gesù, alludendo alla manna del deserto, donata ogni giorno da Dio al suo popolo nel tempo dell’Esodo, parla del pane. Non solo i pani moltiplicati, ma un cibo che possa nutrire. Gesù, cioè, non si limita a dire: «Guarda che miracoli faccio, guarda come sono potente!», ma invita a cogliere che quello che lui fa è al servizio della vita di chi incontra, è destinato a nutrire, a sfamare. Gesù mostra un Padre che non vuole essere adorato e riverito, ma che si dona perché i suoi amici non patiscano fame o sete. Colui che può sfamare e dissetare, sulla linea dell’incontro con la donna samaritana, è Gesù. Poi, dalla dimensione fisica siamo invitati a passare a quella esistenziale, perché non viviamo soltanto di pane, ma di relazioni e senso della vita che sono ciò di cui abbiamo più bisogno.

Non si tratta di qualcosa a cui Gesù arrivi marginalmente o di recupero: «La volontà del Padre mio è che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna» (6,40).

Si parla della risurrezione nell’ultimo giorno, ma se ne parla al presente. Perché Gesù e il Padre vogliono la vita degli esseri umani, e questo desiderio non distinguerà tra il futuro e l’adesso.

Il cristiano non faticherà a capire che qui in fondo si parla dell’eucaristia, ma, persino più che nei sinottici, è chiaro che non la si potrà più intendere semplicemente come rito, bensì come gesto che rimanda a tutta l’esistenza di Dio: l’eucaristia raccoglie in un punto ciò che il Padre e Gesù fanno sempre, donare la vita per far vivere gli esseri viventi.

Figlio di Giuseppe o del Padre? (Gv 6,36-59)

Quello che Gesù afferma è pesante, intenso. Svela un volto di Dio che forse fatichiamo a immaginre: talora abbiamo la tentazione di pensare a un Dio giudice severo che castiga in modo durissimo chi si comporta male (cioè, gli altri). Invece, qui Giovanni ci mostra un Dio amante della vita e pronto a donarsi per nutrire l’umanità. Ma svela anche un Gesù che pretende di far conoscere il Padre, che si pone come tramite indispensabile: «Il pane della vita sono io!» (6,35).

Anche noi avremmo probabilmente reagito come gli interlocutori: «Costui non è Gesù, il figlio di Giuseppe, di cui conosciamo il padre e la madre?» (6,42). C’è un primo livello di contestazione che capiamo immediatamente: «Chi ti credi di essere? Sappiamo chi sei!». Ma questo tradisce un sottinteso più profondo: ci aspettiamo che Dio sia completamente diverso dall’uomo, non abbia rapporti con la nostra quotidianità. È un pensiero che percorre gran parte dell’umanità, non solo cristiana: vedendosi limitati e imperfetti, gli uomini pensano che Dio sia completamente diverso da loro. Ecco perché ci sembra convincente che Dio non si capisca, parli lingue strane, si nasconda misteriosamente in riti incomprensibili, dietro a muri o fumi di incenso. Quello che Gesù ha suggerito, che il Padre sia visibile in lui, e che Dio sia interessato a fare vivere e nutrire l’umanità, invece, contraddice questa lontananza e divisione.

Gesù mostra un divino che poteva anche rimanere lontano dall’umano, ma che ha voluto abbattere le distanze, è entrato nell’umanità fino in fondo, si occupa degli esseri umani non per farsi servire e riverire ed è pronto a farsi cibo e bevanda, per farli vivere, di bene (6,55-56).

Questo è possibile a Gesù perché a tale scopo è stato inviato dal Padre, di cui è immagine (6,57). Gesù è così perché è il Padre a essere così, pronto a donare se stesso perché gli esseri umani abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza. Non a caso Gesù può dire che chi si nutre di questo cibo, vivrà in eterno (6,58).

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 07- continua)

© Jesus Mafa




Un malato alla piscina di Betzatà (Gv 5,1-9)


L’evangelista Giovanni ci dice che a Gerusalemme c’era una piscina dove si radunavano tanti malati. Si credeva, infatti, che la sua acqua potesse compiere guarigioni miracolose. Il primo che vi si fosse immerso quando l’acqua prendeva ad agitarsi, sarebbe stato guarito.

Già guardando questo quadretto, potremmo fare qualche considerazione. Intanto, non siamo nella crema della società: storpi e zoppi non possono entrare nel tempio, e non hanno solitamente corpi da copertina… Gesù si trova qui, non alle terme o in palestra, tra i rifiutati della società civile e religiosa.

Sapendo già quello che sta per accadere, potremmo essere tentati di domandarci per quale motivo Gesù guarirà uno solo tra tanti malati. E poi, ancora, perché Gesù si scomoda se lì c’è già l’acqua che guarisce? Il malato, prima o poi ce la farà a immergersi per primo.

Ma intanto concentriamoci su Gesù che, arrivato alla piscina, si guarda intorno, e vede. Chi ama le persone, non potrà che amarne qualcuna, quelle che vede e incontra. È la prima obiezione che si muove a chi si sforza di alleviare le sofferenze altrui: «Non puoi farlo per tutti». Gesù pare pensare che però è sempre meglio farlo almeno per qualcuno. Lo sguardo di Gesù, lo sguardo di Dio, è quello di chi vede che cosa ha davanti, e non se ne tira fuori, si lascia coinvolgere. Anche se questo significa rassegnarsi a non raggiungere, contemporaneamente, tutti.

La prima reazione (Gv 5,9-18)

Come reagiremmo di fronte a una guarigione inattesa? Come reagiamo davanti ai salvataggi dei migranti nel Mediterraneo? L’umanità rimane simile a sé stessa, chi si mette in gioco è come se costituisse una implicita provocazione o rimprovero per chi avrebbe potuto fare e non ha fatto.

E uno dei modi per lasciarsene disturbare meno è trovare delle obiezioni: «Non avrebbe dovuto». Le obiezioni più solide, poi, sembrano essere quelle che hanno ragioni legali, meglio ancora se la legge viene da Dio.

Gesù ha guarito di sabato! E allora la prima reazione di alcuni di fronte a un paralitico che non solo cammina, ma si porta in giro la propria misera brandina, è di fargli notare che sta svolgendo un lavoro proibito in quel giorno.

Essi non vedono la persona, la sua situazione, la sua gioia e vita capace di esprimersi ora appieno, ma solo il caso legale. E siccome il guarito spiega che cosa gli è successo, il nuovo e più importante bersaglio diventa Gesù, che inizia a essere perseguitato (v. 16).

Gesù viene quindi interrogato, e lui risponde sostenendo di fare semplicemente ciò che fa il Padre. Gesù si conferma immagine di Dio, testimone affidabile del cuore del Padre, di ciò che Dio pensa e prova. Quel creatore che potevamo conoscere nella sua legge, nelle testimonianze antiche, scende nelle vie polverose e tra le malattie che sono tipiche del nostro vivere.

Ma di fronte a questa rivelazione, quella di un cuore di Dio che si commuove per le sofferenze dei suoi figli, la reazione è una feroce difesa delle regole che pure dovrebbero parlare di Dio. Davanti a un uomo che «si mette alla pari con Dio» (v. 18) ci si poteva stupire, di certo anche interrogare e mantenersi scettici, provare a vagliare e capire. Ma ai Giudei non succede niente di tutto questo: «Cercavano di ucciderlo» (v. 18). L’incontro con l’umanità, che stimola e risana, va semplicemente rimosso.

Destino di vita (Gv 5,26-30)

Quando si leggono brani biblici, come quando si segue un romanzo o un film, sarebbe opportuno andare secondo l’ordine pensato da chi ha scritto, in quanto esso veicola un senso preciso. Per una volta, però, anticipiamo la lettura di alcuni versetti per poi tornare indietro, perché questo aiuta a capire meglio. Partiamo, infatti, da ciò che per noi è forse più facile da comprendere.

Come capita spesso nel Vangelo di Giovanni, e in misura sempre maggiore andando avanti con la lettura, Gesù prende spunto da episodi di vita per ragionarci sopra e approfondirne il senso.

Di fronte alle contestazioni dei suoi oppositori, scandalizzati dal fatto che si «mettesse alla pari con Dio», Gesù ribadisce che quella è la sua condizione. Anzi, insiste sul fatto di fare precisamente ciò che fa il Padre. E il cuore dell’attività del Padre, e quindi anche del Figlio, è dare la vita.

Dio vuole la vita, una vita piena, e già questo non era scontato per gli interlocutori di Gesù. Potevamo trovarci di fronte a un Dio tiranno capriccioso che gode nel farci soffrire. Invece no, l’intenzione ultima del creatore è che chiunque lo incontri viva, e viva bene.

Per questo anche Gesù, che condivide lo stesso cuore del Padre, vuole che chi lo incontra viva, e viva bene.

E siccome tutta la nostra esistenza si gioca sul rischio di una morte che incombe su di noi sempre (nelle malattie, nei limiti, persino nelle incomprensioni…) e che si fa inevitabile e definitiva alla fine della vita, Gesù mostra il volto di un Dio che ama la vita umana tanto da portarla a una risurrezione alla fine dei tempi. Altrimenti la promessa di vita sarebbe soltanto provvisoria e quindi illusoria.

E poiché, però, la risurrezione non è un semplice esito «naturale» della vita umana, bensì un dono ricevuto da Dio nel momento in cui la storia, lasciata libera di esprimere anche tutto il proprio male, non poteva più aggiungere niente a ciò che aveva fatto (dopo aver ucciso e fatto dimenticare una persona, non si può più aggravarne la sorte), anch’essa non sarà semplicemente un neutrale ritorno alla vita, ma un sottoporsi a un giudizio.

Dio, infatti, restituendo la vita potrebbe limitarsi a riportare la storia indietro, mettendoci in un circolo da cui non riusciremmo più a uscire. Oppure, nel risuscitare, Dio può offrirci un’esistenza secondo i nostri sogni più autentici, confermando la nostra tensione al bene e alla vita, alcuni atteggiamenti, alcune scelte. Nel venire alla vita definitiva, alcuni si troveranno quindi confermati nei loro desideri, per loro quella risurrezione sarà di vita, mentre per altri sarà di condanna. Il criterio di valutazione di questo processo sarà la storia di Gesù, uomo e Dio pieno, così che sarà anche lui il giudice, colui che farà da discrimine tra i buoni e i cattivi, e lo farà semplicemente rispecchiando l’intenzione del Padre.

Il giudice Gesù, essere umano capace di compassione e di vedere l’umanità all’opera, pare qui concentrarsi semplicemente sull’amore della vita umana. Chi ama la vita come Dio, verrebbe da dire, non può che trovarsi dalla stessa parte di Gesù, di chi sarà risorto.

Solo nel futuro? (Gv 5,19-25)

«So che risorgerà nell’ultimo giorno» (Gv 11,24), dice Marta a Gesù parlando del fratello Lazzaro morto da quattro giorni. Quella fiducia nella risurrezione alla fine della storia, pur nota e relativamente diffusa, non era condivisa da tutti i credenti al tempo di Gesù. Aveva senso, quindi, per Giovanni, ribadirlo.

Prima di questa frase di Marta, però, l’evangelista spiega l’amore divino per la vita degli uomini parlando di una risurrezione presente: «Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole» (v. 21).

La risurrezione che noi potremmo dare per scontata riguardo al futuro (anche se non ci pensiamo molto) è una realtà già oggi. Già adesso risorgiamo.

Potremmo dirlo così: ora sappiamo che la nostra vita è nelle mani di un Padre che la vuole tutelare. Egli se ne prenderà cura fino alla fine. Anzi, oltre la fine, aggiunge Giovanni in un passo di cui noi abbiamo anticipato la lettura (cioè, ai vv. 26-30).

Perché la morte non è solo quella della vita biologica. Muore, pur restando in vita, anche chi non vede un senso nelle cose che fa e nel suo impegno e fatica, chi si sente abbandonato e solo e destinato all’oblio. Anche su questo Gesù e il Padre intervengono, sanando e offrendo la possibilità di credere che la mia vita sia significativa, utile, e destinata a restare.

Dopo duemila anni di cristianesimo, siamo «abituati» alla promessa della risurrezione, ma quella prospettata dopo la nostra morte ha senso a partire dalla nostra «risurrezione» quotidiana, dalla nostra percezione che per Dio ciò che noi viviamo sia prezioso: «I passi del mio vagare tu li hai contati, nel tuo otre raccogli le mie lacrime» (Sal 55,9).

C’è chi ha discusso se Gesù avesse parlato solo della risurrezione futura o anche di quella attuale, interrogandosi se per caso qualcuno abbia aggiunto ai suoi detti un aspetto che per lui non c’era. È però chiaro che la risurrezione futura e quella attuale si danno in sintonia, l’una non solo non esclude l’altra, ma in qualche modo la esige perché la vita sia autentica.

Se dovessi elemosinare un po’ di vita e felicità in questo tempo sapendo che tutto sarà cancellato dalla morte, come potrei goderne appieno? Al contrario, se dovessi aspettarmi gioia e vita piena solo nell’aldilà, cosa vivrei a fare?

Il discorso che Giovanni mette in bocca a Gesù, nella sua apparente ripetizione ci dice esattamente che i due aspetti si danno insieme, e stanno ugualmente a cuore a Gesù e al Padre.

Il desiderio del Padre

Il discorso di Gesù prosegue (da Gv 5,31) insistendo sul fatto che lui e il Padre dicono la stessa cosa, e che è Dio stesso a dargli testimonianza. Da una parte questa è una pretesa da dimostrare: che, cioè, il Dio dell’Antico Testamento sia coerente con Gesù. Dall’altra e insieme, però, è un invito a leggere la Bibbia con lo sguardo di Gesù: non è forse vero che tutto, in quegli strani, incoerenti, a volte fastidiosi libri, parla dell’amore di Dio per la vita e della sua intenzione di tutelarla?

Il messaggio del Vangelo di Giovanni è questo: Gesù si mostra una persona amante della vita, di quella vera, autentica, concreta, che quindi è anche fatta di scelte (perché vedere proprio quel malato? Perché guarire lui?), precisamente perché è situata nella storia, come siamo noi. Ma Gesù, amando la vita, perché manifesta in modo trasparente il volto di Dio, che è innanzi tutto un innamorato dell’esistenza.

E anzi, si mostra amante di una vita che si esprime soprattutto nelle relazioni. Ecco perché Gesù parla di testimonianza, che comporta di suo le relazioni personali, in quanto nessuno può testimoniare su qualcuno che non conosce.

Ecco perché Gesù interviene a liberare una persona da un male che le impedisce di entrare in relazione non solo con le altre persone, ma persino con Dio, in quanto come paralitico non poteva entrare nel tempio.

Ed è qui l’ultima suggestione del brano che abbiamo provato a leggere: l’impossibilità di accedere a Dio non è un impedimento, perché sarà il Padre stesso a trovare le strade per farsi incontrare da coloro che al tempio non possono entrare.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 06-continua)




Al pozzo di Giacobbe (Gv 4)


Ci sono pagine evangeliche che conosciamo bene. È un vantaggio, perché diventa più semplice riprenderle per andare in profondità. Una di queste è l’incontro di Gesù con la donna samaritana, episodio giustamente famoso e noto. Vi troviamo infatti un racconto abbastanza comprensibile nelle sue dinamiche, interessante e profondo nei contenuti e pieno di quell’ironia che Giovanni utilizza spesso, per indicare che Gesù e i suoi interlocutori intendono, con le medesime parole, idee diverse.

Lo sfondo (Gv 4,1-6)

Può valere la pena situare questo incontro sullo sfondo di tutto il Vangelo di Giovanni. I primi versetti, infatti, ci spiegano che cosa ci facciano Gesù e discepoli in Samaria: stanno scappando dal Giordano, dove i farisei hanno cominciato a puntare Gesù che aveva iniziato a fare più discepoli e a battezzare più di Giovanni Battista (4,1.3).

L’evangelista, a dire il vero, sente il bisogno di precisare che «non era Gesù stesso che battezzava, ma i suoi discepoli» (Gv 4,2), quasi per scusare Gesù, facendo cadere la reponsabilità sui discepoli i quali avevano ripreso il gesto «inventato» dal Battista.

Viene da sospettare che Gesù tema di aver fatto troppo notizia, attirando dei rischi su di sé. Qualche maligno potrebbe accusarlo di avere paura, di volersi nascondere, anche perché dal Giordano alla Galilea, dove Giovanni dice che è diretto, certamente la via più corta non passa dalla Samaria.

In ogni caso questo trasferimento sembra un fallimento, o almeno un ripensamento profondo della missione di Gesù che, secondo Giovanni, è iniziata al Giordano.

Lungo la strada, la comitiva si ferma in un villaggio, Sicar, di cui non sappiamo niente di più di ciò che ci racconta il Vangelo. E ciò che ci dice rimanda alla vita dei patriarchi, ai rapporti tra Giuseppe e suo padre Giacobbe, che secondo la tradizione aveva scavato quel pozzo (cfr. Gen 33,18-19 e Gs 24,32).

La storia di Giacobbe e Giuseppe è zeppa di ingiustizie, violenze, ambiguità: Giacobbe inizia il suo percorso di vita ottenendo tutto con la violenza o con l’inganno, Giuseppe viene venduto dai suoi fratelli di cui poi si prenderà gioco quando diventerà viceré dell’Egitto. Allo stesso tempo, però, è una storia che ci parla di rapporti personali che, al di là dello sfruttamento, parlano di «gratuità». Giuseppe, infatti, è il figlio preferito dal padre nonostante sia l’undicesimo (quindi non il primogenito, ma neanche l’ultimo), ed è preferito perché figlio di Rachele, la moglie più amata tra le due che aveva, benché la meno «utile» per via della sua prolungata sterilità.

Il rimando ai patriarchi, insomma, sembra richiamare a una realtà umana ambigua ma anche capace di andare al cuore delle relazioni. E ciò che viene narrato accade quando Gesù potrebbe sentirsi almeno in parte sconfitto e, sicuramente, affaticato e assetato (Gv 4,6).

Creazione di Marco Francescato

Un dialogo inatteso (Gv 4,7-15)

I Vangeli ci chiariscono spesso quanto complicati fossero i rapporti tra samaritani ed ebrei. E sappiamo anche quanto fosse sconveniente che un uomo parlasse da solo con una donna. Aggiungiamo a questi elementi che era del tutto improbabile che qualcuno andasse ad attingere acqua al pozzo a mezzogiorno. Di solito ci si andava al mattino, perché l’acqua serviva già all’inizio della giornata per i lavori domestici, e perché si approfittava delle ore più fresche anche per incontrarsi con le altre donne. Insomma, di questa donna non  sappiamo niente, ma – a vederla recarsi al pozzo a metà giornata – viene da pensare che abbia anche qualcosa da nascondere e che non abbia tanta voglia di incontrare altre persone.

Eppure Gesù le parla. Sembra completamente fuori di sé, forse per la sete e la stanchezza, dimentico delle convenzioni sociali, che invece la donna conosce bene, perché di certo le aveva subite: «Come mai tu, uomo giudeo, chiedi da bere a me, donna samaritana?» (v. 9).

Il dialogo che segue, come tutti quelli di Giovanni, sembra andare avanti a salti, come se i due non si capissero fino in fondo. Un dato emerge in modo chiaro: Gesù chiede di essere dissetato e, allo stesso tempo, sostiene di avere un’acqua che potrebbe dissetare sempre. Si capisce l’interesse della donna (per non andare al pozzo, per non fare quella fatica ma anche evitare di vedere gente). Ma è chiarissimo, almeno a noi lettori, che Gesù sta parlando di altro.

Di che cosa abbiamo sete? Di acqua, quando siamo disidratati. Ma, certo, lo sappiamo che dovremo bere ancora. E poi? Abbiamo sete anche di qualche cosa d’altro? Che cosa desideriamo nel profondo, come quando siamo assetati? Di avere un senso, di essere amati, di essere in pace con noi stessi?

È di qualcosa del genere che sta parlando Gesù, e subito, immediatamente, presenta quell’acqua come qualcosa in grado di dissetare non solo chi beve, ma anche chi è intorno (v. 14), «per la vita eterna». Ecco un altro modo di indicare la nostra sete: la vita che viviamo è promettente, bella, attraente, ma ci delude anche con i suoi fallimenti, dolori, affanni, malattie. E poi finisce. E non mantiene quello che promette. Invece una vita che non finisce, una vita piena, è una promessa che non può non toccarci. Come se quell’acqua raccogliesse in sé tutto quello di cui sentiamo di aver sete. Non è difficile capire l’entusiasmo, quasi l’ansia della donna, che chiede di poter avere di quell’acqua (v. 15).

Cambiamo discorso?  (Gv 4,16-26)

Invece di rispondere alla richiesta della donna, Gesù sembra cambiare discorso, chiedendole di andare a chiamare il marito. Perché lo fa? Solo per mostrarsi ancora più capace di guardare in profondità nella vita della samaritana?

Anche chi passa con facilità da un partner all’altro, anche chi ha diverse separazioni e divorzi alle spalle o ha smesso di credere all’amore, sa comunque con certezza che nella relazione di coppia non si gioca una parte secondaria della vita umana. Posso trasferirmi, cambiare mestiere, ma certi legami personali sono più profondi, dicono troppo di me, mi smuovono nell’intimo. Fanno parte di quella sete di vita piena che posso anche soffocare, fingendo di star bene, ma che è la mia dimensione umana più autentica.

Alla domanda di Gesù, la donna, pur essendosi sposata più volte, dice di non avere marito. E Gesù, riconoscendole di aver risposto bene, ammette che la samaritana si è messa in gioco davvero, ha accettato di non rifugiarsi dietro alle certezze di ruolo o sociali (una donna non sposata, in quella società, era più esposta a ingiustizie e violenze). Ha accettato la sfida di un confronto senza filtri, senza reticenze, senza ruoli dovuti. E Gesù lo vede, se ne accorge, glielo indica: «Hai detto bene».

È a questo punto che si arriva a parlare di Dio. È la donna a spostare il discorso lì. E lo affronta dal punto di vista della legittimità rituale: il tempio giusto nel quale adorare Dio è quello di Gerusalemme o del Garizim?

La risposta di Gesù è stravolgente, perché da una parte suggerisce che non tutto è uguale, che c’è un centro più affidabile e corretto, ed è quello di Gerusalemme, ma dall’altra afferma che il vero luogo di adorazione non è in Giudea, né in Samaria, in quanto Dio non cerca zelanti esecutori di riti, ma adoratori «in Spirito e verità» (v. 23).

Che cosa intende dire Gesù? Oltre all’ascolto attento delle parole utilizzate, è utile che ci sintonizziamo con lo scorrere del discorso. Progressivamente ma anche velocemente i due interlocutori sono arrivati a cogliere che la sete più profonda dell’essere umano è intima. E Gesù ci svela che il Padre a questa sete è attento e le risponde.

Un Padre che, Gesù ce lo mostra, si accorge di chi ha davanti, non lo valuta in base a criteri formali, esteriori di integrità o ortodossia: esattamente come nella storia di Giacobbe e Giuseppe, anche nel caso di questa donna dai troppi mariti e dalla coscienza sporca, il Padre di Gesù guarda oltre, guarda all’interiorità, vede la domanda vera di vita che lei, come ogni altro essere umano, porta in sé, e a questa intende dare risposta. Non perché lei abbia il diritto di bere, non perché sia «a posto», ma perché ha sete.

Ci viene svelato un Padre insofferente per le etichette, le categorie, i diritti acquisiti, la correttezza formale, che poi in fondo sono ancora un modo per nascondersi dietro a una corazza, senza ammettere la propria debolezza, la propria imperfezione, la propria sete.

A chi è assetato, e lo ammette, il Padre è pronto a dare la sua acqua viva, tanto abbondante che disseterà anche chi è lì intorno.

La missione (Gv 4,27-42)

Il pozzo di Giacobbe come è oggi nella chiesa greco-ortodossa della città di Samaria. (Benedetto Bellesi)

Senza che Giovanni ce lo dica, l’acqua viva del Padre è già stata versata da Gesù nel cuore della donna, e ha iniziato a diffondersi.

Lei, infatti, proprio mentre arrivano i discepoli (stupiti, ma incapaci, per rispetto, di chiedere quei chiarimenti che invece la samaritana aveva chiesto, mettendosi in gioco), abbandona lì la sua brocca, e corre in paese. La donna che si nascondeva, che andava al pozzo a mezzogiorno, forse per non sentire le dicerie sul suo conto («cinque mariti!»), lascia il motivo che l’aveva portata lì, dimentica un oggetto che non era di poco valore e utilità, e va a raccontare ciò che le è accaduto.

Tra l’altro, lo fa con una grazia ed eleganza insospettata in lei. Non dà infatti per scontato quello che, lo intuiamo, deve essere stata la sua conclusione, ma la affida ai suoi ascoltatori come semplice possibilità: «Che sia lui il Cristo?» (v. 29). E infatti, alla fine del racconto, i samaritani stessi ammetteranno di credere per ciò che avranno visto, non semplicemente per la parola della donna (v. 42). Una parola però alla quale, evidentemente, avevano prestato fede, nonostante la reputazione di chi l’aveva pronunciata.

Poteva sembrare la destinataria meno probabile dell’acqua viva portata da Gesù, ma si è dimostrata una discepola pronta a mettersi in gioco, a rischiare, a uscire dalla propria area di comodità.

Quella stessa acqua, scopriamo, ha dissetato anche Gesù. Infatti, egli, che poco prima affaticato e assetato, ora non vuole più bere né mangiare, perché è stato nutrito dal vedere l’amore del Padre diffondersi per suo tramite (vv. 32-37).

Questa «sazietà» di Gesù possiamo capirla bene tutti: quando sperimentiamo che il nostro impegno porta frutti, quando ci accorgiamo che le persone amate traggono del bene dai nostri suggerimenti, quando vediamo camminare sulle loro gambe le persone che abbiamo aiutato, proviamo una gioia interiore difficile da spiegare in termini economici (di dare e avere).

Una delle tante scoperte di questo episodio evangelico è che sia Gesù che il Padre vedono questa profondità di relazione che sta proprio al cuore del loro pensiero. Una relazione con il Padre vissuta «in Spirito e verità», nella quale il Padre è fonte di vita che dona acqua viva.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 05 – continua)




Un clandestino (Gv 3,1)


Che cosa penseremmo di un uomo importante che, di fronte a una persona controversa, anziché prendere posizione aperta, cerchi di incontrarla di nascosto? Forse che è ambiguo, o un opportunista, o come minimo un pavido.

Il terzo capitolo del Vangelo di Giovanni ci presenta un personaggio del genere: Nicodemo, un fariseo influente, membro del sinedrio. Egli cerca Gesù di notte per confrontarsi con lui, dialogando e interrogandolo. Gesù, pur non mostrandosi per nulla intimidito, non sembra nemmeno trattarlo con durezza, anzi lo definisce «maestro d’Israele» (v. 10), sia pure mentre lo rimprovera perché non capisce quello che gli sta dicendo.

Peraltro, Nicodemo, riapparirà un poco più avanti nel Vangelo, mentre invita i capi dei sacerdoti e dei farisei a procedere con rispetto nei confronti di Gesù (Gv 7,50-53, e di nuovo si beccherà, questa volta dai suoi pari, dell’ignorante). Infine, Giovanni ne parlerà ancora nel capitolo 19 mentre si prende cura del corpo di Gesù e della sua sepoltura, quando, cioè, è ormai chiaro che Nicodemo non può aspettarsi nessun vantaggio dal prendere posizione in favore del Nazareno.

Insomma, Nicodemo è un personaggio rilevante, influente, che non diventa in modo chiaro un discepolo, ma che, con senso critico e autonomia, si sforza di capire Gesù e viene da lui apprezzato e rispettato. Un personaggio peculiare, soprattutto in un Vangelo che tende a dividere tutti coloro che ruotano intorno a Gesù in amici o nemici. E quindi un personaggio da ascoltare con maggiore attenzione.

Da dove parte la vita? (Gv 3,2-8)

Nel nostro percorso attraverso il Vangelo secondo Giovanni ci imbattiamo nel primo dei dialoghi di Gesù, che ci sembrano spesso strani perché, da una parte sembrano volerci dare l’impressione di essere autentiche trascrizioni di quanto è stato detto, dall’altra sono condotti in modo innaturale, con argomentazioni che ritornano sempre sugli stessi temi ma non sono ben coordinate. I dialoghi di Gesù proposti da Giovanni costringono i lettori a non perdere un solo particolare, per cercare di seguire il discorso. È probabile, infatti, che l’evangelista voglia in questo modo attrarre la nostra totale attenzione. Eppure, alla fine, restiamo con l’amaro in bocca, come se non fossimo riusciti a capire abbastanza. È il modo di procedere di Giovanni, che a sua volta significa e indica qualcosa.

Se non capiamo immediatamente i dialoghi, non è perché siamo diventati improvvisamente stupidi, ma perché ci troviamo davanti a una sfida seria. Affrontiamola con rispetto, sapendo che forse non riusciremo ad afferrare tutto, ma anche consapevoli che molto potremo gustare.

Nel testo in questione Nicodemo inizia ammettendo che Gesù è un maestro che conosce Dio (Gv 3,2). Non è poco, anche se pare solo un primo approccio, per introdursi. La risposta di Gesù, però, sembra supporre una domanda che non abbiamo letto: «Se uno non nasce di nuovo, non può vedere il regno di Dio» (v. 3). Il «regno di Dio» è il mondo come l’ha sognato Dio, che procede secondo i suoi piani. È l’obiettivo della vita di un credente, vedere finalmente il mondo immaginato da Dio, confidando che sia anche il mondo migliore in cui un essere umano possa vivere. Gesù afferma che per vederlo bisogna «rinascere».

Il verbo greco, in realtà, può significare sia «nascere di nuovo» che «nascere dall’alto», e le traduzioni a nostra disposizione ci restituiscono entrambi i significati, ovviamente alcune il primo e altre il secondo, dal momento che in italiano non abbiamo una parola con questo doppio significato.

L’evangelista, però, chiaramente vuole che entrambi i significati ci restino nella mente. Si nasce «di nuovo», perché si tratta di ricominciare a capire, a costruirsi un modello mentale, a scoprire il mondo come funziona. È la «nuova nascita» di chi si converte (Mc 1,15; Gv 12,40), di chi «stravolge» il proprio modo di pensare. Noi abbiamo già delle idee su Dio, pensiamo di sapere già chi è: Gesù ci chiede di mettere le nostre certezze in discussione, di provare a capire di nuovo. Questo perché forse il Padre è molto diverso da ciò che ci aspettiamo. Nello stesso tempo, «rinascere» è un seme che parla già di risurrezione, di un ritornare alla vita, anzi, a una vita nuova.

E allora qualcosa iniziamo a capire, perché così dicendo Gesù ci fa intuire che la vita promessa non giungerà sfuggendo alla morte, evitandola (come potevamo spontaneamente ma ingenuamente pensare), bensì attraversandola, andando oltre, in una condizione di vita nuova, dove la morte non ci minaccia più. Anche il «regno di Dio», allora e chiaramente, non sarà uno stato come gli altri, un regno politico instaurato nella storia e in qualche regione, ma potrà essere ricevuto come dono pieno solo oltre questa vita.

Questi chiarimenti, in effetti, si connettono bene con il nascere «dall’alto»: se dobbiamo cambiare il nostro modo di pensare su Dio, non può che essere Lui a mostrarcelo, a farcelo capire. E il dono di una vita «nuova», se ricevuto dopo la morte, non può che essere «dall’alto», da Dio, giacché nessun essere umano, mai, ha potuto ridarsi la vita dopo essere morto.

Lo Spirito

Nicodemo mostra di non aver capito l’affermazione di Gesù, e gli chiede come sia possibile ritornare, da vecchi, nel grembo della madre (Gv 3,4).

Gesù, nella risposta, sembra iniziare a spiegarsi di nuovo e meglio, ma in realtà sposta il discorso a un livello superiore. Come dicevamo, è il modo di procedere tipico di Giovanni: egli conduce il lettore a seguirlo in un ragionamento «a spirale» che ritorna sui temi già affrontati ma a un livello di profondità maggiore.

In questo modo, tra l’altro, il Vangelo di Giovanni trasmette anche l’idea che non potremo mai raggiungere una conoscenza teorica precisa di Gesù e di Dio, non perché siano incomprensibili, ma perché sono vivi. Come accade con tutti i viventi, benché riusciamo a intuire anche molto della loro interiorità, sappiamo che non sono un teorema matematico completamente sviscerabile. La conoscenza di Dio è un percorso esistenziale che mantiene sempre una quota di mistero e di sorpresa.

È comunque chiaro che Gesù introduce nel discorso lo Spirito: «Se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio» (Gv 3,5).

Su che cosa c’entri l’acqua, si discute da duemila anni e forse non si smetterà mai, non perché non ci sia un’idea di come spiegarlo, ma perché di idee ce ne sono troppe, e forse ognuna dice qualcosa di giusto: può darsi che Gesù, citando l’acqua, parli dei riti di purificazione che anche l’ebraismo conosceva (e che quindi rimandi a un aspetto liturgico, ecclesiale o pubblico), o del battesimo (ma se così fosse, davvero Nicodemo non poteva capirci niente), oppure del Battista di cui Gesù aveva ripreso il gesto, o forse di altro ancora.

Più chiara, di certo, ci risulta l’analogia con il vento, che non vediamo e non sappiamo da dove venga, ma che pure percepiamo, sapendo che può causare conseguenze anche grandi. Quasi Gesù dicesse che è vero che non riusciamo razionalmente a spiegare del tutto l’opera dello Spirito e la sua presenza, eppure la cogliamo al lavoro, nei suoi effetti, che sono autentici e reali.

Anzi, a voler essere ancora più precisi, si dice che a non essere prevedibile, eppure è reale, è «chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,8), come se entrasse in una comunione tanto stretta con Dio da comportarsi come Lui.

Il volto inafferrabile

Possiamo riprendere meglio che cosa già Gesù ci ha svelato sul Padre. Il «re» di quel «regno di Dio» di cui abbiamo parlato ci chiede di rinunciare alle immagini che di lui abbiamo già. Si tratta di rinascere, di ricominciare a imparare e a farci stupire dalla vita che ci ritroviamo e ritroveremo come dono. È quell’«alto» da cui rinascere, che ci invita alla sorpresa, alla vita piena e nuova, a ciò che intuiamo ma non riusciamo a prevedere o spiegare.

Perché chi è mosso dallo Spirito non è del tutto spiegabile, anche se i frutti della sua azione si colgono (Gv 3,8). E quello Spirito è inviato dal Padre di Gesù. Non si può pretendere di ingabbiare il Padre in definizioni rigide, ferme, inflessibili. Queste ultime, forse, ci renderebbe più sereni, perché ci darebbero l’impressione di poterlo tenere sotto controllo, di avere a che fare con qualcosa di prevedibile, ma sarebbe un’impressione falsa. Il Padre è vivo e ci chiede di scoprirlo come un vivente, pronto a sorprenderci.

Questo significa che per noi ci potrebbero essere in serbo anche sorprese brutte?

Amante della vita (Gv 3,16-21)

Di fronte a questa possibilità, l’evangelista si affretta a chiarire il principio di fondo dell’agire divino, in qualche modo certificato da un esempio che è ben più di un esempio.

Il principio è che il Padre non vuole condannare il mondo, ma salvarlo (v. 17), e questo viene dimostrato dall’offerta stessa del Figlio (v. 16), che il Padre ha consegnato agli uomini semplicemente per amore. L’amore di una persona può arrivare al punto che essa offra se stessa per qualcuno che ama (Gv 15,13), o addirittura per un uomo giusto (come dice Paolo in Rm 5,7: «Forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona»), ma quell’abisso tremendo di sacrificare chi si ama («Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio, che ami, Isacco, e offrilo in olocausto» Gen 22,2), esperienza che Abramo stava per vivere finché Dio non lo ha fermato, lo compie lui stesso. Come il padrone della vigna che, di fronte ai vignaioli ribelli, decide, illogicamente, di mandare il proprio figlio (Mc 12,6), così il Padre dona al mondo il suo Figlio unigenito, che mostra, con la sua vita e il suo sacrificio, fino a che punto Dio sia disposto ad arrivare per seguire il suo desiderio di vivere la comunione e l’amore con gli esseri umani.

Ecco perché chi non crede in lui viene condannato o, per dire meglio, si condanna da sé (Gv 3,18), come chi, di fronte alla luce che gli viene donata, decide di rifiutarla, di chiudersi al buio, per vivere nelle tenebre (v. 19: pare quasi che Gesù prenda bonariamente in giro Nicodemo, che di notte è andato a raggiungerlo).

Il Padre è imprevedibile e sorprendente, misterioso e stupefacente, ma tutto ciò che opera e inventa va nella stessa direzione, quella di tutelare la vita umana, di renderla più autentica e preziosa, migliore e difesa. È una tutela della vita non imposta a tutti i costi, ma sempre donata nel totale rispetto della libertà umana, che nella propria autonomia potrà rifiutare quell’amore, non accoglierlo, costringendosi nelle tenebre della morte.

Perché il Padre di Gesù, come un vero e autentico innamorato, è disposto a tutto per venire incontro agli esseri umani, tranne violare la loro libertà. È un Dio che cerca persone adulte che scelgano liberamente di amare e lasciarsi amare, non schiavi costretti a servire o addirittura a farsi servire.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 04 – continua)

Jesus Mafa




L’inizio della vita pubblica


Quando ci mettiamo sui Vangeli per ricostruire anni, durata e ordine degli eventi nella vita di Gesù, ci troviamo di fronte a poche informazioni e spesso contraddittorie: i Vangeli dicono poco e sovente non si mostrano d’accordo tra loro.

Nonostante questo, ci sono diversi motivi per fidarci dell’informazione di Giovanni secondo cui, pochi giorni dopo le nozze di Cana (cfr. Gv 2,12), Gesù si sarebbe recato a Gerusalemme insieme ai suoi discepoli. Anche se per i sinottici quel viaggio nella città santa è uno degli ultimi atti della sua vita, in realtà davvero Gesù potrebbe aver iniziato la sua missione proprio in quella Pasqua, a Gerusalemme: la festa e il luogo di pellegrinaggio consueta per i credenti ebrei, e soprattutto per i galilei, molto legati alla città e al Tempio.

Un esordio dirompente

Meno consueto è ciò che nella città santa succede: Gesù, infatti, entrato nel tempio, improvvisa una frusta e inizia a prendersela con venditori e cambiavalute cacciandoli fuori.

Per apprezzare appieno il senso del gesto, dobbiamo ricordarci che in quel luogo e tempo il culto consisteva quasi solo nel sacrificare animali. Questi, però, dovevano essere sani, perfetti e, tra gli ebrei, anche puri, ossia allevati, custoditi e macellati con regole che potevano essere difficili da rispettare se non si era particolarmente competenti. In più, sappiamo che al tempio molti andavano in pellegrinaggio, e portarsi da centinaia di chilometri di distanza gli animali da offrire non era per nulla pratico: molto più semplice avere con sé del denaro con cui comprarli direttamente sul posto. E così, tra l’altro, si poteva ottenere che fossero i sacerdoti a controllare e garantire che gli animali acquistati fossero puri.

Il problema, peraltro, non era neanche finito qui. La legge ebraica, poi, per quanto riguardava il denaro, considerava impure le mescolanze e le leghe di metalli. Non era un problema usare il denaro «impuro» al lavoro o nella vita quotidiana, bastava poi purificarsi e non usarlo almeno nelle feste. Ma come fare ad acquistare gli animali sul posto, nel tempio? La soluzione consisteva nel servirsi, all’interno del santuario, del siclo di Tiro, antica moneta di argento zecchino, cambiandolo, all’ingresso, con le monete portate da casa.

Quando Gesù si arrabbia contro chi commercia nel cortile del tempio, quindi, non se la prende con abusi, ma con una prassi indispensabile al servizio del culto per come era codificato nella legge ebraica. Non sarebbe stato strano prenderlo per matto o per blasfemo. Perché si comporta così?

Un Padre autentico

«Non fate della casa del Padre mio una casa di mercato» (Gv 2,16). Spesso pensiamo che queste parole di Gesù siano un invito a non mescolare la religione con il commercio, come avrebbe senso se non si conoscesse la pratica della religione ebraica antica. Tra l’altro, è un’interpretazione che ci tranquillizza: possiamo dirci che «da noi» di solito non succede. Quanto abbiamo appena spiegato, però, ci suggerisce che la questione probabilmente è un po’ diversa, in quanto quelle compravendite erano al servizio diretto dei sacrifici. Senza quei cambiavalute e venditori, non ci sarebbe stato culto nel tempio. E Gesù lo sapeva.

Questo ci aiuta a capire che sta pensando a qualcosa di più ampio. A che cosa servivano i sacrifici? In ubbidienza alla legge di Mosè, i sacrifici erano ciò che gli esseri umani offrivano per ottenere la remissione dei peccati e la comunione con Dio. Do qualcosa al creatore, per averne qualcosa in cambio. Sembrerebbe un rapporto rispettoso, perché non «pretendo» un aiuto gratuito di Dio, senza offrirgli niente in cambio.

Nello stesso tempo, però, è un’impostazione religiosa che potrebbe sembrare «da mercato»: dare per avere. È qualcosa su cui siamo molto più esposti, perché è facile che la nostra religiosità assomigli a questa compravendita: «Ho bisogno di un aiuto, di una grazia, e inizio a fare un’offerta, ad assumermi un “fioretto”, ad accendere una candela o fare una preghiera».

Sembra che sia questa dimensione del «dare per avere» che Gesù rifiuta. Il tempio deve essere una «casa di preghiera», e se i sacrifici non sono più accettabili, la preghiera deve essere pensata in modo completamente diverso. Sarà il resto del Vangelo di Giovanni a chiarire in modo più netto ciò che qui è implicito: «Il Padre vuole adoratori in spirito e verità» (Gv 4,23), perché è un Padre che vuole una relazione autentica con noi, intima, personale, svincolata da regole normative e riti, come pure da qualunque idea di commercio. Preghiera, sì, ma come dialogo di amicizia.

Il Padre

Un altro particolare ci dovrebbe colpire: con estrema scioltezza, senza bisogno di spiegarsi, Gesù definisce Dio come «il Padre mio».

Il tono dell’affermazione che accompagna il gesto duro di Gesù, dice una sua intimità unica con Dio: si può comportare come un figlio che conosce suo padre e ne vede violata la volontà. Chiaramente non intende una figliolanza come semplice essere creato, come siamo tutti noi: «figli di Dio». Gesù qui esprime una consapevolezza che è solo sua, e che può persino farsi ruvida. Non vuole difendere il proprio legame con il Padre, che è dato per scontato, indiscutibile, ma si offende per come il Padre è trattato. Solo lui è in questa intimità con il Padre, e la vive senza bisogno di spiegarla. Per Gesù questo rapporto non è una tesi da dimostrare, è una realtà già chiara.

Tre giorni

È inevitabile che questo gesto estremo susciti la reazione dei presenti. Anzi, per la prima volta nel Vangelo compaiono, come avversari di Gesù, «i giudei» (che già avevano vagliato le pretese del Battista: Gv 1,19). Strada facendo, nel Vangelo si capisce che questa è una formula, una specie di nome in codice, per indicare quegli ebrei che, per ruolo (dottori della legge, scribi, sadducei, sinedrio), per competenza (farisei, dottori della legge) o semplicemente per presa di posizione, intendono difendere la tradizione giudaica contro Gesù. Sono i suoi antagonisti, genericamente definiti con quell’appellativo che nella storia attirerà all’evangelista l’accusa di antisemitismo, benché Giovanni scriva in un tempo in cui di antisemitismo è prematuro parlare.

Questi «giudei», peraltro, fin qui fanno ciò che è giusto, e forse persino doveroso: interrogano Gesù riguardo all’autorità con cui si permette di criticare il culto nel tempio. A loro probabilmente non era per niente sfuggito che quel gesto eclatante era una contestazione del culto in sé e dell’intera interpretazione del ruolo del tempio nel giudaismo. Ma, nel chiedere una conferma, utilizzano una parola («segno») che per l’evangelista definisce i miracoli, gesti che rinviano a spiegare altro.

E Gesù risponde con un enigma, secondo uno stile che nel Vangelo tornerà spesso: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,19). Nel contesto della discussione, anche noi probabilmente avremmo capito che parlasse dell’edificio in cui si trovava, e per questo Gesù viene preso in giro (2,20), ma poi Giovanni ci spiega che parlava della propria risurrezione.

Se inteso così, tutto diventa più ragionevole e chiaro. Si parla infatti della risurrezione, che innanzitutto sembra un prodigio ma che, secondo l’evangelista, è un segno, serve a far capire altro. Gesù, contestando il culto del tempio, si attribuisce un’autorità divina: solo Dio può cambiare la legge di Mosè spiegando che cosa Dio pensa. La domanda dei «giudei» («con che autorità fai questo?») è giustificata. Ma se davvero Gesù risusciterà, mostrando così il suo pieno dominio sulla propria vita e la conferma divina, le sue pretese si dimostreranno fondate. E la sua parola sul tempio verrà confermata come uno sguardo definitivo e chiarissimo sul cuore di Dio, sull’intenzione del Padre, il quale non vuole riti o formalità, ma un incontro personale, vissuto nella preghiera.

E se così è, diventa anche più chiaro che l’allusione alla risurrezione del tempio in tre giorni poteva parlare più del corpo di Gesù che dell’edificio costruito da Erode, perché l’incontro autentico tra il Padre e l’uomo si dà nella vita umana vissuta nella sua carne, nel suo corpo. Un edificio sacro può essere al servizio di quell’incontro, ma non è nulla di indispensabile.

Testimonianza sull’uomo

Il brano si chiude con un’osservazione enigmatica: «Lui non aveva bisogno che qualcuno gli desse testimonianza sull’uomo: conosceva lui stesso, infatti, che cosa c’era nell’uomo» (Gv 2,24-25)

Succede spesso con Giovanni che, quando ci pareva di aver capito, troviamo un’altra affermazione, un gesto, una parola, che ci gettano di nuovo nell’incertezza, nella domanda. All’evangelista piacciono i lettori intelligenti, che si sforzano di capire, che non smettono di interrogarsi: in fondo, di testimonianza si stava già parlando. «I giudei» chiedevano a Gesù un segno per poter credere che la sua interpretazione del culto e del Padre fosse fondata. Dal momento che manca un dato oggettivo cui appoggiarsi (la scrittura, per «i giudei», avrebbe potuto esserlo, ma la scrittura di per sé parlava di riti per i sacrifici), bisogna capire se fidarsi di Gesù, appoggiarsi a lui, o alla legge. E, ci dice il Vangelo, «molti confidarono nel suo nome» (Gv 2,23), perché trovarono evidentemente che quanto detto e fatto da Gesù era promettente e credibile. Se avessero avuto conferme oggettive, esteriori, non avrebbero «creduto in lui», «confidato in lui». Lo fanno perché quello che Gesù svela non è disponibile altrimenti, non è lampante.

Quello che Gesù svela è il cuore del Padre, l’intenzione divina, che un uomo non può conoscere se non gli viene rivelata. Questo significa che Gesù è Dio? Giovanni, qui, non lo dice esplicitamente, ma è chiaro che la logica dell’episodio porta a questa conclusione. Ciò significa che Gesù non è umano ma solo divino? Se così fosse, avrebbe bisogno di qualcuno che gli sveli che cosa è l’uomo, che glielo spieghi come lui fa agli uomini per il Padre. Ma l’evangelista, come detto, afferma che Gesù conosceva quello che c’era nel cuore dell’uomo. Con un linguaggio severo ed enigmatico, Giovanni attesta la piena umanità e divinità di Gesù, sia pure in formule che non saranno quelle dei concili.

Per questo, perché ha le fondamenta saldamente radicate in entrambe le sponde, quella divina e quella umana, Gesù può costituire un ponte tra le due rive, e farci conoscere il Padre (suo, come insiste in questo brano) come nessun altro.

Il Padre divino che potremmo immaginare attento al rispetto delle regole da parte delle sue creature, tutto teso a un’ubbidienza rigorosa delle norme, invece, ci dice Gesù, vuole essere incontrato in intimità, in autenticità, senza la sicurezza ma anche l’esteriorità di riti e forme. Che possono essere utili, ma sono sempre solo al servizio dell’incontro dell’uomo con Dio e non possono sostituirvisi.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 03 – continua)

Da Jesus Mafa




Amante della gioia


Anche chi non conosce molto dei Vangeli, di certo sa che Gesù ha compiuto il suo «primo miracolo» trasformando l’acqua in vino a Cana (Gv 2,1-11).
Chiunque abbia frequentato un po’ il Vangelo di Giovanni, però, è ben consapevole che esso è un’opera complessa, dove il messaggio più immediato è vero, ma rimanda anche a qualcosa di più profondo. D’altronde, è l’evangelista stesso a suggerirlo quando definisce i miracoli di Gesù non «prodigi», come fanno spesso gli altri vangeli, ma «segni». Un segno, si sa, non ha valore soltanto per se stesso, ma perché rimanda anche ad altro.

È possibile, allora, che anche un racconto che in apparenza è molto semplice nasconda insegnamenti ulteriori, come peraltro la sua posizione all’inizio del Vangelo potrebbe farci sospettare. Per coglierli, lasciamo che sia il racconto a guidarci. Innanzitutto, dobbiamo capire che cosa dice a un primo livello (che resta autentico e significativo), e quali indizi ci dà lo scrittore per scendere al secondo livello.

Non troppo ascetico

Tutte le tradizioni religiose, ma in fondo tutte le scelte di vita, anche quelle politiche o sportive o dello spettacolo, ci insegnano che per raggiungere un risultato dobbiamo fare grosse rinunce. Una certa tendenza ascetica c’è in ogni scelta di vita seria.

Può quindi stupirci un po’ (ma probabilmente anche farci piacere) che il primo gesto pubblico di Gesù è di andare a una festa di nozze. Il tono del Vangelo, finora, è stato molto solenne, tanto che difficilmente ci saremmo aspettati una svolta di questo tipo. In più, in questo banchetto, sembra di cogliere non poca improvvisazione. Ci viene detto, infatti, che a Cana di Galilea c’è una festa di nozze alla quale è presente Maria, mentre Gesù con i suoi discepoli è invitato quasi come aggiunta, come recupero pensato all’ultimo momento (v. 1-2). Le feste nuziali del Vicino Oriente, spesso ancora oggi, non assomigliano tanto ai nostri pranzi di matrimonio con il numero e la disposizione esatta degli invitati programmati in anticipo, quanto più a una festa di paese, dove qualche posto si può sempre aggiungere. Sembra che questa sia la situazione di Gesù, che si unisce a Maria e si porta dietro anche i suoi nuovi discepoli. Se Gesù ci mostra il volto del Padre, la prima istantanea che ci regala in questo passo è di un Dio un po’ diverso da quello dei filosofi (o dei catechismi, a volte). Se abbiamo in noi l’immagine di Dio come di un vecchio severo con la barba bianca e mai un sorriso, ecco, qui ci troviamo di fronte a un Padre giocoso, a cui non dispiace il clima umano della festa, anche se un po’ improvvisata e approssimativa. Pronto a divertirsi in semplicità e calore.

Ma se abbiamo parlato di improvvisazione, è perché il racconto ce la fa intuire tramite le parole di Maria rivolte a Gesù: «Non hanno vino». Che idea ci si può fare di qualcuno che per delle nozze non mette a disposizione abbastanza vino? Pazienza per il cibo, alla fine ce n’è sempre troppo, ma non si può fare festa senza bere. In più, non sono neanche stati capaci di rimediare con discrezione: infatti deve intervenire Maria, un’invitata, che ne parla al figlio.

Un secondo livello?

La risposta di Gesù all’osservazione di Maria («Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora») è tanto strana da costringerci a fermarci, rileggerla e poi chiederci, perplessi, che cosa sia successo o se voglia dire qualcosa di particolare. Probabilmente questa nostra reazione è esattamente quello che lo scrittore voleva suscitare in noi lettori, ossia che ci fermiamo e notiamo i particolari con stupore, così che non ci sfuggano. Come l’autore di un giallo, Giovanni vuole farci notare che ci sta dando un indizio.

Intanto ci domandiamo: ma davvero Gesù può parlare così a Maria? Lo sappiamo tutti che non si risponde con quel tono a una mamma.

Quel secco «donna», di certo, non suona brutale solo a noi: avrà scioccato anche i primi lettori del Vangelo.

È una parola che richiama la nostra attenzione. Per questo vale la pena soffermarcisi: può essere l’indicazione per intuire più in profondità il senso del versetto. Usata come appellativo rivolto a Maria, la ritroviamo in Gv 19,26 quando Gesù sta per morire in croce, cioè quando è arrivata la sua ora, e sotto la croce si trovano «la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava». Non è certo un contesto nel quale ci si possa lasciare andare a espressioni fuori luogo.

Qui però ci sembra quasi di dover spiegare un enigma con un altro enigma: ad esempio, chi è «il discepolo che egli amava»? Di solito si risponde Giovanni l’evangelista, come ci dice la tradizione. Questo perché si parla di questo discepolo solo nel suo Vangelo, quindi deve trattarsi di lui. Se però fosse davvero l’autore del Vangelo a definirsi così, di certo non sarebbe segno di umiltà e, senza dubbio, avrebbe deciso di usare una formula un po’ ambigua che pare suggerire il fatto che Gesù non amasse gli altri discepoli. La tradizione, per provare a mettere ordine, l’ha intesa come il «discepolo prediletto», nel senso che sì, ovviamente amava tutti, ma a Giovanni era più legato, come può lecitamente succedere tra gli esseri umani. Il Vangelo, però, non parla di predilezione, ma proprio del «discepolo che Gesù amava»; un discepolo che, altrove, è caratterizzato dal fatto di essere veloce a intuire, pronto di riflessi ma in piena umiltà, un discepolo che non guida gli altri ma è rapido a giungere alla fede (pensiamo a Gv 20,1-8 e 21,7). C’è allora da pensare che in questa espressione si nasconda il discepolo ideale, il modello di discepolo, quello che ognuno di noi è chiamato a essere, che magari non ha incarichi particolari nella Chiesa ma vive nella fede il rapporto con Gesù. Se sotto la croce, quindi, quel discepolo è un simbolo dei credenti cristiani, di ciascuno di noi, allora anche «la madre» probabilmente è un simbolo. Ma di cosa? Se ci pensiamo, sarebbe ben curioso che Gesù si ricordasse solo in quel momento di affidare sua madre a qualcuno, dopo tre anni che se ne andava in giro e non badava a lei. È ben difficile che, nel contesto teso e solenne della crocifissione, Gesù pensi a non lasciare in giro bollette non pagate.

Maria è il «luogo» dal quale viene Gesù. Egli nasce, come tutti, da una donna, ma anche da una tradizione (che peraltro erano le donne a dover trasmettere). Gesù è figlio di tutta la storia religiosa del popolo di Israele (che è un nome femminile nella Scrittura), spesso presentato come una donna in attesa dello sposo (Dio), simbolicamente raccolta nell’immagine della «figlia di Sion» (nei profeti, e poi in 2 Re 19,21; Sal 9,15, e anche in Gv 12,15). Interpretate simbolicamente, quelle parole di Gesù sulla croce sono ricchissime: mentre muore, Gesù invita la tradizione religiosa del Primo Testamento a riconoscersi nella Chiesa, e questa a essere riconoscente nei confronti di colei da cui viene: «E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,26), proprio ciò che la Chiesa cristiana ha fatto accogliendo e onorando tra le proprie Scritture quelle ebraiche.

In continuità con il passato

Tutto questo ragionamento, ci riporta a Cana: già in quell’episodio la «madre di Gesù» è anche simbolo della comunità religiosa del Primo Testamento? Se così fosse, si capirebbe l’insistenza, altrimenti strana, sulle anfore in pietra (Gv 2,6), con l’allusione alla «purificazione rituale dei giudei»: a Giovanni sarebbe bastato scrivere che i servi avevano preso dell’acqua, ma l’evangelista voleva indirizzare lo sguardo del lettore sulla tradizione ebraica: è (anche) quella a segnalare che c’è una mancanza nell’umanità che fa festa, e a indicare Gesù come colui che è da ascoltare, per risolvere il problema. Non sa spiegare che cosa Gesù farà, ma sa dire che c’è da seguire lui.

I profeti e la legge contenuti nel Primo Testamento non «deducono» la figura di Gesù, ma sanno suggerire che Dio tornerà a prendersi cura dell’umanità, entrando nell’umanità stessa. Gesù compie le attese del Primo Testamento, pur in parte sorprendendole.

E non solo: è la madre a sollecitare Gesù a intervenire. Non pregandolo o comandandoglielo, perché non potrebbe. O meglio: Maria, madre fisica di Gesù, potrebbe chiederglielo o persino ordinarglielo (la tradizione ebraica è molto esigente per quanto riguarda i doveri dei figli, soprattutto maschi, nei confronti dei genitori), ma è evidente che qui Giovanni non sta pensando a lei, quanto al suo ruolo simbolico. La tradizione del Primo Testamento non è padrona di Gesù, che è totalmente libero di agire o astenersi dall’azione. Però lo inserisce in una storia in cui il Dio di Israele è pronto a commuoversi per la sofferenza umana, a farsi coinvolgere nella vita dei suoi e anche a violare le proprie norme per non perdere la relazione con l’umanità (ci porterebbe fuori strada affrontare questo tema, ma nel Primo Testamento accade spesso che Dio «minacci» il suo popolo di rompere la comunione con lui se non rispetta le sue «leggi», e che poi, però, faccia un passo indietro, preferendo perdere la faccia piuttosto che il rapporto con l’essere umano).

Non sarà ancora giunta la sua ora, ma Gesù, se vuole essere fedele a quel Dio del Primo Testamento, non può restare indifferente di fronte all’imbarazzo umano e, sia pure senza dire di aver cambiato idea (come pare umano anche in questo), di fatto si mette a disposizione di quella festa, «inventandosi» un modo di risolvere l’impaccio che è senza precedenti nella Bibbia.

Il volto del Padre

C’è qualcosa di nuovo che questo episodio ci mostra sul volto divino?

Prima di tutto Gesù ci mostra un Padre che non si vergogna dell’umanità anche nei suoi aspetti più «banali», di festa, di gioia semplice, persino disorganizzata e improvvisata. Non ci troviamo di fronte a un Dio rigidamente perfetto, che esige dei figli impeccabili, ma a un amante della vita, che ci potremmo immaginare sorridere al vedere il banchetto e le bevute e inquietarsi all’idea che la festa possa rovinarsi prima del tempo.

E poi ci troviamo di fronte a un Padre fedele e imprevedibile, che non abbandona mai la sua amicizia con l’umanità e, allo stesso tempo, sa anche inventare soluzioni nuove e impensate ai problemi che si presentano, anche quando, in sé, potrebbero non sembrare problemi vitali. Un amico capace di sorprese infinite, ma che gli amici non li abbandonerà mai.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 02 – continua)


Un dono specialissimo per voi

È disponibile in versione pdf la raccolta dei 38 articoli di Paolo Farinella su «Le nozze di Cana», pubblicati in questa rivista tra il febbraio 2009 e il gennaio 2013.

Un lavoro appassionante alla scoperta e approfondimento di uno degli episodi più belli e gioiosi dei Vangeli.
240 pagine da leggere con il cuore.

Cliccare sull’immagine per scaricare.

Augurandovi una proficua lettura, ci permettiamo di ricordarvi che un’eventuale donazione ci aiuterà a continuare a servirvi al nostro meglio.
Grazie.

 




Vedere il Padre


«Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). È la preghiera, quasi lo sfogo, di Filippo, uno dei Dodici discepoli, rivolta a Gesù. Dopo aver tanto sentito parlare del Padre, sembra quasi che il discepolo si spazientisca e chieda al suo Signore una risposta chiara e definitiva. Non è una preghiera molto diversa da quella di Mosè: «Mostrami la tua gloria!» (Es 33,18), ossia il volto di Dio (Es 33,20).

È una richiesta comprensibile: passiamo un’intera vita a cercare di cogliere il senso profondo di ciò che facciamo, viviamo, patiamo. I fedeli hanno creduto alla promessa che quel senso sta in una persona. Una persona che però non vedono, benché sappiano che sta loro di fronte, a fianco, alle spalle, come un sostegno (cfr. Salmo 139). E si può comprendere che, soprattutto in momenti di maggiore tensione (Mosè ha appena punito il popolo reo di essersi costruito un vitello d’oro, Filippo ha appena vissuto l’ultima cena con Gesù), si voglia avere una sentenza definitiva, uno sguardo ultimo, una risposta. La risposta di Dio a Mosè è parzialmente negativa: «Non puoi vedere il mio volto senza essere morto, ma passerò davanti a te e vedrai le mie spalle» (Es 33,20-23). Quella di Gesù a Filippo è apparentemente molto più positiva, benché in forma di domanda: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9).

Guardare a Gesù

Anche noi vogliamo vedere il volto di Dio, dobbiamo, allora, lasciarci condurre da Gesù che ci invita a guardare a lui. Senza fretta però. Ci predisponiamo ad accogliere l’invito avendo presente una domanda sempre più viva: in questi tempi confusi, duri, troppo spesso pessimisti, come possiamo vedere il volto di Dio, il senso di ciò che facciamo e subiamo?

Se Gesù ci invita a guardare a lui, noi proveremo a farlo in un percorso non breve, ma probabilmente affascinante, tramite il Vangelo di Giovanni, quello in cui con più costanza si parla del Padre, di cui il Figlio è l’immagine. Attraverso le parole e l’esempio di Gesù, secondo Giovanni, impareremo quindi, a scoprire e amare il vero volto di Dio Padre.

«Dio nessuno lo hai mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18).

Il Battista

Sappiamo che gli esseri umani sono capaci di imprese straordinarie, eroiche, se soltanto capiscono che queste sono utili, servono a qualcosa, hanno senso. Abbiamo bisogno di un senso quando guardiamo al nostro futuro, e abbiamo bisogno di sciogliere i nodi irrisolti, se guardiamo al nostro passato. Altrimenti non viviamo più, ma ci limitiamo a sopravvivere comodamente.

Le religioni si concentrano spesso su questo aspetto: sulla risoluzione della disarmonia che l’uomo sente con la propria vita, con le persone, con ciò che lo circonda, con l’orizzonte ultimo della sua vita che fatica a cogliere.

Anche il Battista si concentra su questo. Egli è venuto ad annunciare un battesimo per il perdono dei peccati. La saggezza religiosa ebraica aveva colto un aspetto psicologico profondo esprimendolo in termini rituali e simbolici. Aveva capito che una persona può anche essere pentita dei propri errori, averne chiesto e ottenuto il perdono, ma sentire che questo non basta, che il nodo resta e il peso non svanisce.

Nella tradizione e liturgia ebraica per sciogliere quel nodo, per espiare i peccati, era necessario un sacrificio nel tempio, un rito per dire che non poteva bastare il pentimento, pur indispensabile, ma era necessario un intervento divino.

Un incontro oltre i riti

Giovanni il Battista viene ad annunciare un modo diverso di ottenere quell’espiazione, non con i riti ben codificati e sanciti dalla Parola di Dio e dalle tradizioni rabbiniche, ma con un gesto nuovo, antico nell’aspetto (le abluzioni erano ben note nel mondo ebraico) ma originale nel senso. Un rito che il Battista non può giustificare con testi biblici, ma solo, profeticamente, con la sua intuizione della volontà divina. Le persone che vanno a farsi battezzare, così, incontrano un Dio fuori dagli schemi, dalle sicurezze legali, dai riti consolidati. Un incontro giocato tutto sulla fiducia: in Dio, ma anche nel profeta, e nell’affidabilità dell’intenzione.

Che si tratti di una strada promettente e sensata lo attestano tutti i vangeli: Gesù va a farsi battezzare da lui (Mt 3,1-6), lo dichiara il più grande tra «i nati da donna» (Lc 7,28) e, stando al vangelo di Giovanni, inizia a battezzare anche lui, o almeno i suoi discepoli (Gv 4,1-2). In linea molto generale, l’intuizione del Battista sarà una parte dell’orientamento suggerito da Gesù stesso, che si mostra sempre più attento al rapporto intimo e personale con Dio che alle norme e ai riti.

È un primo tocco di pennello sul ritratto del Padre, che, all’inizio, è dipinto non direttamente da Gesù (che pure lo confermerà) ma dal Battista: il Padre ama farsi trovare fuori dagli schemi, fuori dai percorsi già segnati e delineati, sicuri, garantiti.

Il Battista, però, sa anche con certezza di non essere lui la parola definitiva di Dio. «Io battezzo con acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo» (Gv 1,26-27). È una tentazione totalmente umana, presente persino in tutti i fondatori di grandi movimenti, quello di richiamare l’attenzione su di sé. Il Battista sa di dover resistere, e lo dice da subito: lui è (solo) un dito che indica il regno, non è il regno.

L’agnello di Dio (Gv 1,29-36)

È passato solo un giorno dal battesimo di Gesù per mano del Battista, ci dice il Vangelo (Gv 1,29), quando Giovanni vede passare Gesù e lo indica: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo».

Il sacrificio di un agnello, animale mite e docile, promessa di lana e di carne per il futuro, era sempre parso, e non solo al mondo ebraico, l’offerta più gradita a Dio, più trasparente e generosa. Non era l’unico animale che si poteva offrire per ottenere l’espiazione dei peccati, ma era quello più utilizzato, più significativo e legato peraltro alla festa di Pasqua.

L’accenno del Battista è simbolico, poetico, ma chiarissimo. L’espiazione piena dei peccati passa non da lui o dal battesimo, ma da Gesù. Giovanni indica il Signore come colui di cui ha detto che è più importante di lui (Gv 1,30-31), rimarca di aver visto lo Spirito Santo posarsi come una colomba su di lui (1,32-33) e addirittura lo definisce, in modo solenne, il «figlio di Dio» (1,34).

Dai figli ai genitori

La nostra cultura sottolinea l’importanza delle scelte e delle esperienze dei singoli e prova a sganciarsi dall’idea che i figli siano i continuatori dell’opera dei padri. Anche nel nostro mondo, però, chi nasce da un re sa già, fin da quando comincia a capire qualcosa, che sarà destinato a succedergli, e continuiamo spontaneamente a pensare che i figli riprendano la sensibilità e le attitudini dei genitori. Di certo, siamo consapevoli che quel legame non può essere sciolto mai, neppure se lo si rinnega.

Il mondo antico legava ancora di più genitori e figli, i quali non potevano immaginarsi su strade diverse da quelle del loro padre senza una grave crisi. Il mondo arcaico, addirittura, pensava che un figlio che non corrispondesse al padre potesse subire la pena di morte (Dt 21,18-21).

Additare Gesù come figlio di Dio, non implica descrivere con precisione che cosa possa fare, ma lo segnala come colui che potrà proseguire l’opera del Padre, anche nell’espiazione dei peccati, come è suggerito dalla vicinanza con la formula di «agnello di Dio».

Gesù, però, è innanzitutto un essere umano. E l’indicazione del Battista, tramite il battesimo di Gesù e le parole dette a suo riguardo, ci fa intuire qualcosa sul Padre: Egli non si lascia incontrare direttamente, in estasi mistiche o in rituali astrusi, ma vuole essere conosciuto e accolto tramite altri.

Il Padre ci invita a coglierlo così, nella nostra vita ordinaria, senza l’eccezionalità di un’esperienza stupefacente e unica. Ci stimola a cogliere lo straordinario nel quotidiano. Proprio perché il volto del Padre potrebbe svelarsi nel volto di chiunque incontriamo, siamo chiamati a mantenerci attenti, aperti, disponibili a farci da lui stupire. Come sono stupiti i primi discepoli di Gesù, così sono già stati discepoli del Battista.

Venite e vedrete (Gv 1,37-39)

Due dei discepoli del Battista, infatti, sono presenti quando Giovanni vede di nuovo passare Gesù e lo indica come «agnello di Dio» (1,37), allora si avvicinano a Gesù e, forse per l’imbarazzo, alla sua richiesta di chiarimenti, rispondono con una delle domande più superficiali e fuori luogo che potevano immaginare: «Dove abiti?» (1,38). Gesù aveva opportunamente chiesto loro che cosa cercassero, e questa non è la risposta corretta. Ma anche di fronte a questa reazione, colui che è stato salutato come «rabbì», ossia come «maestro», sa a che cosa chiamarli: «Venite e vedrete».

Non dà loro indicazioni teoriche, non suggerisce che cosa dovrebbero indagare o meditare. Li invita invece a mettersi in gioco, a entrare in relazione, a giudicare in prima persona.

È un’altra delle prime caratteristiche del Padre che il vangelo di Giovanni ci fa scoprire tramite Gesù e, in questo inizio, anche attraverso il Battista: il Padre si fa incontrare fuori dagli schemi, per mezzo di persone inserite nel mondo e, coerentemente, chiede di entrare in una relazione personale. I nostri rapporti significativi non nascono in un momento né senza fatica. Anche il «colpo di fulmine», se esiste, è soltanto il primo istante di un percorso di crescita, di conoscenza reciproca, di approfondimento, di scoperta, che, nelle cose umane, ha bisogno di un’apertura progressiva, di imparare a capirsi, ad ascoltarsi, ad accogliersi.

Il Padre non si muove fuori dalle dinamiche umane più profonde. Non chiede di fare delle cose, di sapere delle formule, ma di conoscerlo, gradualmente, progressivamente, come facciamo con tutte le persone per noi più significative. Chiede di stare con lui, per imparare come ragiona, come pensa, come ama, come soffre. Ci domanda di lasciarci coinvolgere, di tirare noi le conclusioni, di interpretarne noi il volto.

E quel Figlio, che mostra il Padre anche a noi oggi, non suggerisce di comportarci in un certo modo (con ascesi, esercizi o discipline iniziatiche speciali) o di credere certe verità (conosciute tramite iniziazione), ma di conoscerlo: «Vieni e vedi».

Angelo Fracchia
(Il volto di Dio 01 – continua)


Un cammino di due anni

  • √ marzo 2024, Gv 2, 1-11,
    Il Padre amante della gioia
  • √ aprile 2024, Gv 2, 13-25,
    Il Padre autentico
  • √ maggio 2024, Gv 3,
      Il Padre datore della vita
  • √ giugno 2024, Gv 4,
      Il Padre che disseta
  • √ luglio 2024, Gv 5,
    Il Padre che fa vivere
  • √ ago-sett 2024, Gv 6, 1-59,
    Il Padre che sfama
  • √ ottobre 2024, Gv 6, 60-71,
       Il Padre che dona senso
  • √ novembre 2024, Gv 7,
       Il Padre che è casa
  • √ dicembre 2024, Gv 8, 12-59,
    Il Padre che genera
  • √ gen-feb 2025, Gv 9,
      Il Padre che è libertà
  • √ marzo 2025, Gv 10, 1-21,
    Il Padre signore del gregge
  • √ aprile 2025, Gv 10, 22-42,
      Il Padre che opera il bene
  • √ maggio 2025, Gv 11,
       Il Padre che riporta in vita
  • √ giugno 2025, Gv 12,
      Il Padre che glorifica il Figlio
  • √ luglio 2025, Gv 13,
    Il Padre che dona l’amato
  • √ ago-sett 2025, Gv 14,
      Il Padre ospite
  • √ ottobre 2025, Gv 15,
      Il Padre vignaiolo
  • √ novembre 2025, Gv 16,
       Il Padre che accoglie
  • √ dicembre 2025, Gv 17,
      Il Padre (s)conosciuto



Il profeta senza nome


Il nostro percorso alla scoperta di personaggi biblici la cui fede esemplare e affascinante può insegnare qualcosa anche a noi, è iniziato a gennaio con Abramo, il più noto dei patriarchi benché la sua precisa esistenza storica non sia al di sopra di ogni dubbio. Lo concludiamo con un personaggio che, all’opposto, è sicuramente esistito, ma che ha cercato in tutti i modi di nascondersi, tanto che, in effetti, non ne conosciamo neppure il nome, anche se ci ha lasciato alcune delle pagine più luminose e toccanti di tutta la Bibbia: parliamo dell’autore dei capitoli 40-55 del libro del profeta Isaia.

Lo sfondo letterario

Nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. Gerusalemme e la Giudea avevano vissuto un momento di crisi e di gloria. Di crisi perché nella regione era arrivata la potenza terribile del nuovo impero assiro che aveva avuto ragione dei ben più agguerriti regni di Damasco e di Samaria. Quest’ultima, il regno di Israele del Nord, era stata conquistata e distrutta nel 721 a.C. con la conseguente deportazione della sua classe dirigente e di tutti coloro che, per abitudine o cultura, avrebbero potuto eventualmente guidare una rivolta.

Un gruppo di sacerdoti, probabilmente, si era rifugiato da Samaria a Gerusalemme portando con sé le proprie tradizioni religiose e profetiche, forse già in parte scritte. Essi, quindi, avevano contribuito alla gloria di quegli anni, perché da loro Gerusalemme era stata come rivitalizzata, prima che arrivasse anche su di lei l’ondata conquistatrice degli Assiri. Questi l’avevano sì assediata ma, distratti forse da disordini in patria o, più probabilmenti, delusi dalla povertà che comunque vedevano nella città (per cui lo scarso bottino non avrebbe giustificato l’enorme sforzo per conquistarla), avevano deciso di abbandonare l’assedio prima di dare l’assalto finale (701 a.C.).

In quegli anni operava a Gerusalemme un profeta dallo stile limpido e bellissimo, sicuro di sé e deciso, che esortava i giudei a confidare non in alleanze umane, ma solo in Dio. E, in effetti, si sarebbe potuto dire che, alla fine, la storia gli aveva dato ragione. Egli continuava a ripetere che «tempio del Signore è questo» e Dio non lo avrebbe lasciato conquistare mai. Questo suo ritornello negli anni si era conservato ed era stato rinfacciato, più di un secolo dopo, a Geremia, il quale invece sosteneva che, nel suo tempo, per fidarsi di Dio occorreva lasciare che i nemici conquistassero la città santa (Ger 7,4): infatti, mantenersi sulle vie del Signore non significava fare sempre le stesse scelte.

Un contesto nuovo

La storia poi darà ragione anche a Geremia.

A metà del vii secolo l’impero assiro va in crisi, e il suo posto viene preso da un altro impero, quello babilonese, che ricomincia a percorrere la strada di conquista e sopraffazione già nota, anche se con uno stile lievemente più mite.

Durante la conquista babilonese, Gerusalemme viene presa e la parte più capace e colta dei suoi abitanti deportata a Babilonia.

In quel periodo, o forse appena dopo, inizia a predicare un profeta nuovo, di cui non conosciamo né il nome, né la vita, né il motivo per il quale decide di fare ciò per cui ancora oggi restiamo ammirati.

Sarebbe infatti bello sapere se quello che noi oggi leggiamo lo abbia anche predicato, ma non possiamo fare altro che immaginare e fantasticare. Ciò che sappiamo è che prende il libro di Isaia, chiuso più di un secolo prima, e decide di proseguirlo.

L’autore del libro di Isaia cambia dal capitolo 40 in poi, perché cambiano lo stile, i temi, lo sfondo (si capisce benissimo che chi scrive è in esilio e scrive a esiliati). Ma lui decide di non iniziare un nuovo rotolo, di non dichiarare chi è. Si «limita» a proseguire uno scritto altrui. Così facendo, inevitabilmente, suggerisce la sua continuità con il «primo» Isaia (in realtà, l’unico di cui abbiamo il nome).

Questi, come abbiamo ricordato, aveva invitato a confidare in Dio, che avrebbe difeso il suo popolo anche politicamente e militarmente. Chi prende quel libro in mano e decide di proseguirlo, vuole invece suggerire che, anche se il popolo è stato sconfitto ed esiliato, Dio continua a essere al suo fianco, a essere affidabile. E già un messaggio del genere è sorprendente.

Avrebbe potuto decidere di nascondere e dimenticare il rotolo di Isaia, o dire che aveva parlato del passato, invece, dal fondo dell’abisso, dice che Dio è sempre lo stesso, continua ad assistere il suo popolo, continua a esserci e a sostenere i suoi.

Le parole nuove

«Consolate, consolate il mio popolo, parlate al cuore di Gerusalemme» (Is 40,1-2).

Le parole dei profeti, almeno in superficie, sono sempre state dure, di giudizio e castigo, anche quando poi, in fondo, parlavano di amore e misericordia. Il «secondo» Isaia, invece, non salva neanche la forma: Dio è un padre innamorato che corre in aiuto di sua figlia, ne giustifica persino gli errori, la abbraccia, la rincuora.

Se parole di giudizio ci sono, sono contro le nazioni intorno, che hanno esagerato nel punire Israele. Ma per il resto si parla di un Dio che vuole far sorridere d’affetto gli esiliati, che li accarezza, che li vuole riconfortare.

Certo, soprattutto a quel tempo, sarebbe stato facile contestare queste affermazioni: come è possibile dire che Dio vuole il bene di Israele che, invece, si ritrova battuto, umiliato e deportato dopo aver visto bruciare il suo tempio, «il luogo scelto da Dio per porre la sua dimora in mezzo agli uomini» (Dt 16,15, tra i tanti esempi)?

Per il mondo semitico, nel quale nasce anche questo testo, gli dèi difendono un luogo appartenente a loro popolo perché lo considerano proprio: se quel luogo viene conquistato è segno che quegli stessi dèi sono stati sconfitti. Dunque, qui si pone la questione: il Dio d’Israele ha abbandonato il suo popolo, oppure non è stato capace di difenderlo ed è stato sconfitto. Di fronte a questo dilemma verrebbe spontaneo abbandonare un simile Dio.

No, risponde il nostro profeta. E, per la prima volta con chiarezza assoluta, afferma quello che per il popolo ebraico diventerà il cuore della fede: Dio non è stato sconfitto e può decidere di non abbandonare il suo popolo, perché è l’unico Dio di tutta la terra, non uno dio tra i molti dèi. Egli  gestisce tutto come vuole, e ha vissuto la prova del suo popolo con angoscia, e non vuole più che soffra, come un padre che ha lasciato sbagliare suo figlio, ma ha vissuto con più dolore di lui le piaghe conseguenti ai suoi errori.

E siccome Dio è l’unico dio della terra, anche i salvatori che arriveranno per il suo popolo, come il re dei Persiani, Ciro, sono in realtà scelti e voluti e chiamati da lui, anche se loro non lo conoscono (Is 45,1.4). Addirittura, il nostro profeta dice che Ciro è il «suo pastore» (44,28) e il «suo messia» (45,1), con un coraggio che a volte persino le nostre traduzioni moderne faticano a seguire, preferendo renderlo con il «suo eletto» o il «suo unto».

E Dio può serenamente sognare e promettere, a questo punto, non che tutti i popoli saranno vinti e soggiogati, ma anzi che tutti verranno a Gerusalemme per rendere onore al Dio d’Israele (45,22-24). E può invitare il suo popolo amato a violare, apparentemente, la legge dell’Esodo e del Deuteronomio, smettendo di ricordare le imprese del passato: «Ecco, faccio una cosa nuova, proprio adesso germoglia, non ve ne accorgete?» (43,19). Il nostro anonimo profeta, che potrebbe piangere la propria sorte, invita a vedere Dio presente, operante, attivo nella vita degli esiliati.

La sofferenza

Tutto bello? Tutto buono? Come poteva un profeta simile farsi accogliere da gente che soffriva? Non si accorge di che cosa ha intorno, questo ingenuo?

Se ne accorge, sì, ma coglie che c’è altro. Che Dio è presente anche nella sofferenza. Anzi, che se c’è un sofferente che patisce con mitezza per gli altri, non solo Dio approva, ma è lì, con lui, al suo fianco. E se anche nessuno apprezzasse quella sofferenza, Dio non la trascura, ma la vede e valorizza, dicendo che proprio colui che patisce è «il giusto mio servo» (Is 53,11).

È così che nascono alcune tra le pagine più spiazzanti della Bibbia, che i cristiani leggeranno forse con la pelle d’oca, perché non potranno che pensare: «Ma qui parla della passione di Gesù».

Quasi come fossero inserti inutili o fuori tema, compaiono dei «cantici» che lodano un «servo del Signore» che porta pace e risanamento a Israele (42,1-9), procurando peraltro luce e salvezza non solo a quel popolo, ma a tutte le nazioni (49,1-6), benché sembri non vincente, ma oppresso e sconfitto, con la barba strappata, deriso, insultato. E infine, addirittura, mortificato, ucciso, svergognato (52,13-53,12), eppure sicuro di essere dalla parte di Dio (50,4-9).

È l’intuizione che chi è dalla parte del giusto, di Dio, non può essere confuso, anche se agli occhi del mondo sembra esserlo. È la novità di uno sguardo che non punta alle conseguenze, agli esiti, ma al senso, a ciò che c’è a monte. Perché Dio non guarda ai risultati, ma al cuore.

È l’intuizione abissale che un Dio che difende gli umili e gli oppressi, si farà umile e oppresso come loro, con loro.

Il messaggio del profeta sconosciuto

Quale può essere il messaggio interiore, profondo, di un personaggio che neppure possiamo vedere, immaginare, chiamare per nome?

Il «secondo Isaia» (così è passato alla storia per i biblisti) intuisce che un Dio impegnato in un rapporto personale e intimo con l’essere umano non può abandonarlo, soprattutto quando è umiliato, vinto, disperso. Il secondo Isaia intuisce che Dio è presente, c’è, non si ritira soprattutto dove l’umanità ha perso.

Solo uno sguardo amante capisce che, quando la storia sembra dire che sei stato sconfitto e devi arrenderti e rinunciare, chi ama resta sempre presente. E Dio è colui che ama l’umanità a prescindere da ogni altra cosa, come ha lasciato capire in tanti secoli e in tanti personaggi e, per noi, in tanti libri biblici.

Anche quando tutto sembra perduto, anzi, soprattutto in quel momento, Dio è lì, è accanto, sorride, consola, abbraccia, rialza.

Questo profeta ci mostra uno sguardo che prova a penetrare nel pensiero di Dio, e scopre qualcosa di inaudito, di impensabile. Scopre che Dio è tanto interiore all’umanità da non poter fare a meno di farsi debole anche lui, fragile, oppresso e ucciso. Senza che questo gli tolga la capacità di salvare. Ma donandogli la possibilità di «saper prendere parte alle nostre debolezze, perché è stato messo alla prova in ogni cosa come noi» (Eb 4,15).

Il «secondo Isaia» non trova questo volto di Dio descritto da nessuna parte, ma lo intuisce guardando a ciò che il suo Signore ha fatto nella storia, cogliendone la logica, le modalità di comportamento. Il suo è lo sguardo fiducioso che non si aggrappa ai testi o alle argomentazioni (che forse non gli darebbero ragione), ma si affida a una relazione personale che (il profeta lo sa, lo intuisce, se ne fida) non verrà meno, mai.

Angelo Fracchia
(Camminatori 10 – fine)