La Costa d’Avorio in ostaggio /1


Reportage dalla Costa d’Avorio. Dall’arrivo ad Abidjan, capitale economica e culturale del paese, proprio nella settimana dell’ammutinamento dell’esercito e dello sciopero dei dipendenti pubblici, alla visita alle missioni di Marandallah e Dianra, nel Nord del paese dove operano i missionari della Consolata.

«Sei stata in Costa d’Avorio dieci anni fa? La troverai molto cambiata, allora. Abidjan ad esempio: ora ha strade nuove, un nuovo ponte con il pedaggio ed è molto, molto più pulita». Così mi dice durante il volo una trentenne ivoriana che vive da vent’anni in Germania, dove lavora in proprio come parrucchiera. Di Costa d’Avorio, in realtà, sa poco o nulla, ormai: torna una volta all’anno per vedere i fratelli e per godersi il buon cibo ivoriano: il foutou, una sorta di polenta fatta con la banana, la manioca o l’igname a seconda della zona e il pesce cotto al vapore dentro una foglia di banano.

Ammutinamento dei militari

All’uscita dell’aeroporto della capitale ivoriana, però, le notizie che raccogliamo non riguardano i passi avanti nell’urbanistica di Abidjan, ma l’ammutinamento dei militari del Nord del paese, in particolare a Bouaké. Non di tutti i militari, bensì degli anciens combattants, cioè i ribelli integrati nell’esercito che avevano sostenuto, nella fase di uscita dalla crisi, la corsa alla presidenza dell’attuale capo di Stato ivoriano, Alassane Dramane Ouattara, detto Ado. L’attuale insubordinazione in seno all’esercito altro non è che il batter cassa degli ex ribelli, ai quali la compagine politica di Ado aveva promesso premi in denaro e privilegi in cambio del loro sostegno. Nel novembre 2014 c’era stata un’avvisaglia, ma si trattò di una semplice protesta; quello di oggi, gennaio 2017, è un vero e proprio ammutinamento iniziato la settimana successiva all’Epifania dalle città del Nord ed esteso poi agli ex ribelli nell’esercito di stanza in tutto il paese.

La richiesta al governo era chiara: soldi, miglioramento delle condizioni delle caserme e case per le famiglie dei soldati. Ouattara era in Ghana alla cerimonia di insediamento del suo omologo dopo le elezioni nel vicino anglofono. È rientrato in tutta fretta per convocare un Consiglio dei ministri e reagire all’emergenza. Dopo momenti di grande tensione culminati nel sequestro del ministro della Difesa inviato a Bouaké a trattare, un accordo è stato raggiunto e i militari sono rientrati nelle caserme. Ma il 13 gennaio, giudicando insufficienti i gesti del governo in direzione del rispetto degli accordi, i soldati hanno ricominciato a protestare creando disordini, stavolta più violenti.

Proteste e disordini

«Padre Alexander Likono, uno dei nostri confratelli, era a Bouaké per delle commissioni», racconta padre Ramón Lázaro Esnaola, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio. «All’entrata in città ha trovato una cinquantina di militari: abbiamo preso Bouaké, dicevano, e prenderemo tutta la Costa d’Avorio. Poi gli hanno ordinato di scendere dalla macchina e di cederla a loro. Al suo rifiuto, lo hanno minacciato. Dopo una serie di negoziazioni e dopo avergli estorto denaro lo hanno lasciato andare, ma la paura è stata davvero tanta». I giornali hanno scritto che non ci sono stati incidenti seri, ma chi era a Bouaké parla di due morti e diversi casi di stupro.

«La situazione è grave», continua padre Ramón, «perché la popolazione, esasperata da una settimana di blocco delle attività economiche, si è ribellata ai militari, e questi hanno aperto il fuoco sulla folla. È un miracolo che non ci siano decine di morti».

Anche dopo i fatti del 13 gennaio governo e militari hanno siglato un accordo, ma il 17 gennaio c’è stata una terza ondata di disordini che ha causato quattro morti. A protestare non sono stati stavolta gli ex ribelli integrati nell’esercito, ma quelli entrati in forze alla gendarmerie e alla polizia, intenzionati a ottenere lo stesso trattamento dei «fratelli» militari. A peggiorare ulteriormente il clima è stato lo sciopero dei dipendenti pubblici a partire dal 9 gennaio, che ha portato, fra le altre cose, alla chiusura delle scuole per tre settimane.

La tensione sociale è alta: il governo avrebbe accettato, almeno sulla carta, l’esorbitante richiesta dei circa 8.500 militari ribelli, equivalente a circa 7.500 euro a testa (ma secondo altre fonti a questi si aggiungerebbero altri 10 mila euro da corrispondere in sette mesi), creando malumore in tutto il paese. I dipendenti pubblici, ad esempio, vivono la resa del governo come un’ingiustizia che aggrava l’inadeguatezza dei loro salari.

Il 7 febbraio le Forze speciali dell’esercito si sono ammutinate a Adiaké, città di confine con il Ghana. Reclamano pure loro premi economici come quelli accordati ai commilitoni.

Malumore popolare

Ma, ricorda ancora padre Ramón, il malcontento è diffuso soprattutto nella fascia più ampia della popolazione, quella che non può far valere le sue ragioni attraverso le armi né far sentire la propria voce con uno sciopero. Si tratta della gente comune, che un salario non lo ha mai visto e che vive di agricoltura e commercio. «Con quali soldi il governo pagherà i ribelli?», si chiede la gente. «Userà denaro pubblico sottraendolo agli investimenti in infrastrutture, sanità e scuola?».

La popolazione è disgustata dai militari che, riconvertendo i blocchi stradali del tempo di guerra in improvvisate frontiere interne, non hanno mai smesso di estorcere denaro a chi passa per trasportare cacao, anacardi, cotone o per andare a coltivare i campi. È stufa di non poter mandare i figli a scuola e di avere i servizi sanitari ridotti al minimo a causa dello sciopero. È, infine, spaventata dalla possibilità di ricadere in un conflitto – logorante, estenuante – come quello che solo dieci anni fa aveva trasformato il Paese modello dell’Africa Occidentale in una discarica di odio interetnico, di macerie di interi settori economici e di detriti di servizi pubblici e infrastrutture, sbriciolati dai tarli della corruzione. Alla data di chiusura di questo articolo la situazione sembra essersi stabilizzata, ma sono tanti a temere che il ritorno della tensione sia dietro l’angolo.

Marandallah, la missione del dialogo

Marandallah è una sottoprefettura nel Nord Ovest della Costa d’Avorio a poco meno di 500 chilometri da Abidjan. Siamo in piena zona koro, gruppo mandé presente in tutto il Nord ivoriano. Il 72 per cento della popolazione è musulmano, seguito da un 25 per cento che pratica le religioni tradizionali, mentre le diverse denominazioni cristiane si dividono il restante tre per cento. I cattolici sono 912 su un totale di 42mila abitanti.

«Date queste premesse», dice padre Alexander Likono, keniano missionario della Consolata che lavora a Marandallah (quello scampato al posto di blocco di Bouaké), «è facile capire come il dialogo interreligioso sia al centro del nostro lavoro qui. Al servizio del dialogo è anche il nostro impegno nel campo della sanità e dell’istruzione e formazione».

Le attività economiche principali della zona sono le coltivazioni dell’anacardo e del cotone. «I campi hanno un’estensione di un ettaro o due per famiglia», spiegano John Baptist Ominde Odunga, confratello e connazionale di padre Alexander. «A lavorare la terra sono, insieme agli adulti, anche i bambini, che spesso per questo smettono di frequentare la scuola primaria o addirittura non iniziano nemmeno il percorso scolastico.

La scuola secondaria conta circa 450 allievi, ma i professori – assegnati a settembre – hanno iniziato ad arrivare solo a gennaio. «È un luogo troppo isolato», continuano i due missionari, «qui gli insegnanti non ci vogliono venire. Per questo abbiamo proposto una soluzione temporanea ispirandoci a quel già avviene nel paese dal 2002 a causa della crisi: abbiamo coinvolto i giovani che hanno finito la secondaria chiedendo loro di darci una mano». A partire da novembre questi giovani sono impegnati come insegnanti volontari. Le famiglie degli studenti si auto tassano e riescono a dare ai volontari un piccolo rimborso di trentamila franchi al mese, pari a circa 45 euro, un quinto del salario di un insegnante statale. «Io stesso ho insegnato inglese», racconta Alexander. «Certo non può essere una soluzione definitiva, ma l’alternativa era lasciare 450 ragazzi senza scuola».

Il dialogo interreligioso e, più in generale, la reciproca conoscenza e cooperazione con la popolazione di Marandallah ha come luogo simbolo il Jardin de l’Amitié (Giardino dell’amicizia), una sorta di parco poco fuori dal villaggio. Nel Jardin, ideato e curato da padre João Nascimento, missionario portoghese attivo a Marandallah fino a dicembre 2016, si svolgono, oltre alle celebrazioni cattoliche, momenti di aggregazione ai quali partecipano tutti gli abitanti del villaggio. Altro luogo di aggregazione è il centro per le attività sociali di fronte alla missione, che ha sale per la formazione, un piccolo ristorante, un campo da gioco. Vi è poi l’alfabetizzazione, che si svolge sia a Marandallah che nei villaggi intorno all’interno degli appatames, strutture aperte simili a paillotte (tettornie circolari aperte, con tetto di paglia).

Altra attività fondamentale dei missionari a Marandallah è il centro di salute Notre Dame de la Consolata. Il centro ha un dispensario, una maternità che segue fra le quaranta e le sessanta donne per mese, un laboratorio utilizzato anche per la diagnosi e il monitoraggio dei casi di Hiv. Dalla fine dello scorso anno, poi, la maternità dispone anche dell’ecografia. Il centro è una struttura di riferimento per la diagnosi e cura dell’Hiv/Aids in collaborazione con Sev-Ci, Ong ivoriana specializzata in questo campo. «La difficoltà maggiore», spiega ancora padre Likono, «è far capire alle persone quanto sia importante venire tempestivamente al centro di salute quando hanno un problema. Spesso tentano di curarsi con i metodi tradizionali e si trascinano per mesi malattie guaribili in pochi giorni. Lo stesso vale per quelle donne incinte che non vengono a farsi visitare durante la gravidanza e che, in caso di parti problematici, arrivano qui in condizioni terribili, a volte troppo tardi». Portare i pazienti all’ospedale più vicino, se il caso è troppo complicato per essere risolto al centro, significa far loro affrontare ore di viaggio in ambulanza su piste difficili, specialmente con le piogge, per un costo fra i 60 e i 90 euro.

Dianra. Salute, alfabetizzazione e microcredito

Ottanta chilometri di pista più a Nord – l’asfalto finisce una quarantina di minuti prima di arrivare a Marandallah ed è praticamente assente in tutto il Nord – si trova Dianra. Un bambino di una decina d’anni attraversa il cortile della missione nel buio della sera, ha in mano una busta di plastica con dentro penna, matita, quaderno e lavagnetta. Raggiunge gli altri circa 160 bambini e adulti che si intravedono nei quadrati luminosi di porte e finestre delle aule della missione, le teste chine sui banchi o protese verso la lavagna.

«Questi sono i corsi di alfabetizzazione, sono cominciati quindici anni fa», spiega padre Raphael Njoroge Ndirangu, un altro missionario keniano che lavora a Dianra. «Non sono decollati subito, ma poi piano piano le persone hanno cominciato a vederne l’utilità nel loro quotidiano». Hanno capito, ad esempio, che saper leggere e scrivere permette loro di gestire direttamente la vendita del cotone o degli anacardi che producono invece di mettersi nelle mani di intermediari che barano sul peso e si accordano con i compratori per spartirsi il maltolto. Oppure hanno visto tre loro colleghi degli anni passati superare l’esame di stato che riconosce il livello scolastico raggiunto e trovare così lavori che altrimenti non avrebbero potuto avere. «Certo, non è facile per loro rimanere concentrati dopo una giornata nei campi, ma sono motivati e in questo gli insegnanti hanno un ruolo fondamentale». Altra attività che riesce a influire sul quotidiano delle persone è il microcredito, cornordinato da padre Manolo Grau, missionario spagnolo con all’attivo parecchi anni di Congo, poi approdato in Costa d’Avorio. «A oggi abbiamo 165 donne che partecipano al programma di microcredito, che è un’iniziativa stabile e, anzi, in crescita». A gestire le donne, suddivise in gruppi di cinque, sono sei responsabili, una delle quali è musulmana, a riprova che anche la missione di Dianra, come Marandallah, ha nel dialogo con le altre religioni uno dei suoi punti fermi. «Finora i vari gruppi di donne hanno semplicemente completato i cicli triennali di microcredito con percentuali di rimborso che non sono scese mai sotto il 98 per cento. Ora, dato il consolidamento dell’iniziativa, padre Manolo e le sei responsabili cominciano a pensare a un salto di qualità. «Potrebbe essere una cornoperativa, un orto comunitario, un’attività generatrice di reddito che riunisca alcune di queste donne in un progetto comune. Ma un’iniziativa del genere può funzionare solo se viene da loro. Il nostro lavoro è quello di accompagnarle nella riflessione e nell’eventuale formalizzazione di una proposta».

Un salto di qualità, invece, lo ha fatto nel 2016 il Centro di Salute Giuseppe Allamano a Dianra Village, località a 22 chilometri da Dianra. Padre Matteo Pettinari, missionario italiano e responsabile del centro, ha radunato tutto il personale nell’atrio del dispensario e Victor, infermiere recentemente entrato in forze al centro, guida la visita alla maternità, al laboratorio, allo studio dentistico terminati nel febbraio 2016. Questi completano il dispensario e la farmacia, che esistevano già; il centro così ampliato riceve crescenti richieste da parte di nuovi pazienti. I parti sono arrivati a circa 28 al mese.

«Grazie al sostegno di Amico, di Mco e di una parrocchia di Pesaro», spiega padre Matteo, «abbiamo inoltre costruito le cases de santé nei villaggi intorno a Dianra Village. Si tratta di piccole strutture presso le quali facciamo sanità di base e portiamo avanti il programma sulla lotta alla malnutrizione». «In quattro degli undici villaggi che serviamo», afferma Suzanne, ausiliaria responsabile con Victor del programma malnutrizione e membro dell’équipe mobile del Centro, «seguiamo 152 bambini malnutriti, ma prevediamo di ampliare progressivamente il programma anche agli altri piccoli che abbiamo individuato nei restanti villaggi».

Chiara Giovetti – [continua]




L’anno più caldo di sempre


Si è svolta lo scorso novembre a Marrakech, Marocco, la ventiduesima Conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Cop22). Essa ha fissato le procedure e i metodi per arrivare entro il 2018 al regolamento di attuazione degli impegni presi a Parigi alla precedente conferenza. La Cop21 del 2015, stabiliva fra le altre cose l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale sotto i due gradi di aumento rispetto ai valori dell’epoca preindustriale.

Sulla strada tra Loyangallani e North Horr, Kenya.

Il 2016 si avvia ad essere l’anno più caldo di sempre. Lo diceva lo scorso novembre l’Organizzazione Meternorologica Mondiale (Wmo) delle Nazioni Unite, lo aveva anticipato a luglio 2016 la Nasa, l’agenzia aerospaziale statunitense. Occorrerà aspettare l’elaborazione definitiva delle rilevazioni 2016, ma i dati pubblicati dall’agenzia meternorologica a novembre in occasione del Cop22, la ventiduesima conferenza Onu sul cambiamento climatico, indicavano una temperatura di 0,88 gradi Celsius superiore alla media registrata fra il 1961 e il 1990 e più alta di 1,2 gradi rispetto all’epoca preindustriale. Sempre secondo la Wmo, i dati preliminari di ottobre indicavano che le temperature continuavano a essere a un livello sufficientemente alto da restare ben sopra il valore annuale del 2015, che era stato di 0,77 gradi.

L’effetto di El Niño, che l’anno scorso veniva da alcuni studiosi indicato come fenomeno corresponsabile dell’innalzamento delle temperature, è terminato a maggio 2016 dopo aver lasciato una scia di episodi di siccità in Africa, Sudest asiatico, Sud America, India, Etiopia, Australia orientale e diverse isole del Pacifico occidentale tropicale.

Sempre lo scorso novembre il Washington Post riportava le segnalazioni di diversi osservatori secondo i quali le temperature all’Artico erano più alte della norma di circa venti gradi, mentre una vasta area di aria fredda si era spostata sulla Siberia. A questo si aggiungeva un più lento ricongelamento dell’acqua: la superficie della banchisa polare, infatti, normalmente raggiunge l’estensione minima a settembre, poi comincia a riformarsi. Ma quest’anno, almeno fino a novembre, lo ha fatto più lentamente del solito. L’area ghiacciata, riportava il quotidiano statunitense, era ancora più ridotta di quanto non fosse nel 2012, anno in cui l’estensione dei ghiacci aveva toccato i suoi minimi storici.

Fiume Kwanza, in Angola.

La situazione dei gas serra

Quanto ai dati sulla concentrazione dei gas serra nell’atmosfera, riportava ancora il comunicato del Wmo, sembravano mostrare a novembre una tendenza al rialzo: nel 2015 la concentrazione media di anidride carbonica – il gas serra ritenuto più «colpevole» del riscaldamento globale – aveva raggiunto le 400 parti per milione (ppm) e, sebbene le medie 2016 non siano ancora disponibili, l’agenzia meternorologica riportava valori registrati sino a novembre dell’anno scorso in diverse stazioni di rilevazione nel mondo. Quella di Mauna Loa (Hawaii) aveva rilevato a maggio 407,7 ppm, il più alto valore mensile mai registrato. Diverso invece il trend delle emissioni di anidride carbonica, che si attestano su livelli praticamente stabili per il terzo anno consecutivo, nonostante un aumento del Pil mondiale pari al 3,4 per cento nel 2014 e al 3,1 nel 2015. La Iea, Agenzia internazionale dell’energia, rimarca che nei tre precedenti momenti storici in cui si era registrata una diminuzione delle emissioni – nei primi anni Ottanta, nel 1992 e nel 2006 -, la riduzione era associata a una «frenata» dell’economia mondiale; il dato attuale invece sarebbe imputabile alla progressiva sostituzione di fonti di energia da parte di Cina e Stati Uniti, i primi due paesi al mondo per emissioni di CO2 e responsabili, rispettivamente, del trenta e del quindici per cento delle emissioni stesse. Per quanto riguarda la Cina, «la ristrutturazione economica nella direzione di industrie a consumo energetico più basso e gli sforzi del governo per produrre energia elettrica usando sempre meno il carbone ha spinto in basso il consumo di quest’ultimo. Nel 2015 il carbone ha generato meno del settanta per cento dell’elettricità cinese (nel 2011 ne produceva l’ottanta per cento) mentre le fonti energetiche che comportano meno emissioni di CO2 – in particolare energia idroelettrica ed eolica – sono balzate dal 19 al 28 per cento. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno visto una riduzione delle emissioni pari al due per cento principalmente a causa del passaggio dal carbone al gas naturale. In aumento risultano invece le emissioni da parte di altri paesi asiatici e di quelli mediorientali mentre anche l’Europa segna un lieve incremento.

Cop22, i risultati

Quella di Marrakech è stata una Conferenza delle Parti (Cop) della diplomazia e del lavoro preparatorio. E non poteva che essere così. L’accordo di Parigi (si veda MC 5/2016), risultato della precedente Cop, prevede fra le altre cose, di contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2° C rispetto ai livelli preindustriali – facendo tuttavia il possibile per non superare gli 1,5° C – e di supportare attraverso fondi ad hoc i paesi più esposti ai danni prodotti dal cambiamento climatico, che spesso corrispondono ai paesi più poveri. L’accordo, entrato in vigore il 4 novembre 2016 e ratificato da 112 paesi su 197, richiede tuttavia un piano per essere attuato. Ed è di questo che si è discusso a Marrakech, stabilendo che il 2018 è la scadenza per definire i dettagli e i regolamenti che metteranno in atto l’accordo.

Carbon Brief, sito britannico di informazione su clima e politiche energetiche finanziato dalla European Climate Foundation – del cui consiglio fa parte quella Mary Robinson che è stata inviata speciale Onu per El Niño e il Clima – descrive così l’effetto dell’elezione di Donald Trump alla presidenza Usa: «la più grande domanda che aleggiava sulla Cop22 era: [il nuovo presidente] deciderà di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi? Potrà quest’ultimo sopravvivere a un così duro colpo? Gli stornici negoziatori hanno continuato il loro lavoro nonostante una minaccia sostanziale, sebbene non confermata, incombesse. E il ritornello della conferenza è presto diventato: l’accordo di Parigi è più grande di qualsiasi paese o di qualsiasi particolare capo di stato. Saranno i prossimi quattro anni a dimostrare se è davvero così».

Deserto del Chalbi vicino a North Horr, Kenya.

Le critiche: per chi troppo, per chi troppo poco

James Hansen è l’ex direttore del Goddard Institute for Space Studies della Nasa, l’attuale direttore del Program on Climate Science, Awareness and Solutions alla Columbia University ed è considerato uno dei padri degli studi sul cambiamento climatico. La sua valutazione dell’accordo di Parigi all’indomani della sua adozione alla Cop21 era stata tutt’altro che lusinghiera: «È una frode, un falso» aveva dichiarato in un’intervista al britannico Guardian. «È una stupidaggine dire: “diamoci l’obiettivo dei due gradi e poi incontriamoci ogni cinque anni per cercare di fare meglio”. Sono parole vuote. Non c’è azione, solo promesse. Finché i combustibili fossili continuano ad essere i meno costosi, si continuerà a bruciarli». A Parigi aveva proposto di mettere una «quota, perché la parola “tassa” fa scappare la gente a gambe levate», di 15 dollari per tonnellata di carbonio che aumenti di 10 dollari l’anno, generando introiti pari a 600 miliardi solo negli Usa. Ma nessuno, nemmeno i gruppi ambientalisti, ha accolto la sua proposta.

E se quella di Hansen è una critica al troppo poco che, a suo dire, si sta facendo, non mancano le critiche dall’altro versante: quello dei cosiddetti climate change deniers, i negazionisti del cambiamento climatico, per i quali il clamore (e il giro d’affari) intorno all’argomento è fin troppo.

Valle Susa, Salbertrand (To)

I negazionisti

Le posizioni negazioniste si possono (brevemente e non esaustivamente) riassumere così: i negazionisti «duri e puri» che sostengono non ci sia nessun cambiamento climatico; i negazionisti più morbidi, secondo i quali il cambiamento climatico c’è ma non è indotto dall’uomo o almeno non in maniera determinante né chiaramente quantificabile; un ultimo gruppo, che negazionista non è ma che appare scettico rispetto alla gestione del fenomeno e sostiene che il cambiamento climatico c’è, è indotto anche dall’uomo ma è diventato un business, uno strumento di controllo attraverso l’allarmismo o, addirittura, una specie di nuova religione.

Ai negazionisti del primo gruppo possono essere ricondotti i creatori del documentario Climate Hustle (Truffa climatica), uscito lo scorso maggio negli Stati Uniti, che sostengono che il film «toglierà la maschera alla propaganda sul riscaldamento globale, mostrando quel che veramente c’è dietro questo multimiliardario imbroglio». Marc Morano, il narratore del documentario è citato dal Washington Post «come uno dei principali responsabili di campagne di deliberata disinformazione». A fargli compagnia il quotidiano statunitense mette il commentatore di Fox News, Steve Milloy, che in comune con Morano ha anche legami professionali ricorrenti con colossi dei combustibili fossili come ExxonMobile. Fra i «disinformatori» cita poi l’ex governatore dell’Alaska Sarah Palin e il magnate delle comunicazioni Rupert Murdoch.

Posizioni più moderate, sebbene scettiche, ha espresso ad esempio il senatore e premio Nobel per la Fisica 1984 Carlo Rubbia. Nel 2012 ha sostenuto che «non è riscontrabile un rapporto tra i cambiamenti climatici e le emissioni di CO2» e nel novembre 2014, durante un’audizione al Senato ha affermato che «il clima della Terra è sempre cambiato». Pensare che tenendo la CO2 sotto controllo il clima resterà invariato è un errore. Nello stesso intervento, Rubbia ha anche precisato che dal 2000 si è registrato non una crescita bensì una diminuzione della temperatura media della Terra pari a 0,2 gradi nonostante il continuo aumento delle emissioni di CO2 e che negli ultimi cento anni cambiamenti climatici si sono verificati prima che il cosiddetto effetto antropogenico (cioè l’effetto derivato dalle attività umane) esercitasse un’influenza significativa sull’ambiente. Questo non toglie che le emissioni di CO2 vadano limitate, sostiene lo studioso, che però è critico rispetto ad alcune scelte di politica energetica come quelle europee, a suo dire coercitive e costose, mentre l’investimento tecnologico in settori come quello del gas naturale ha permesso agli Stati Uniti non solo di creare business e posti di lavoro ma anche di diminuire le emissioni.

Infine, i critici più o meno feroci del cambiamento climatico o della sua gestione hanno trovato pane per i loro denti allo scoppiare del cosiddetto Climategate del 2009, quando l’hackeraggio di un server della Climate Research Unit dell’Università dell’East Anglia, Regno Unito – una delle istituzioni più autorevoli per quanto riguarda gli studi sul clima – rese pubbliche migliaia di email che i ricercatori britannici si erano scambiati fra loro e con il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, l’ente che nel 2007 vinse insieme al vicepresidente americano Al Gore il premio Nobel per la pace per l’impegno sul clima. Le email rubate vennero poi caricate su un server in Russia e da lì diffuse; dai messaggi emergeva, secondo i detrattori, la consapevolezza da parte dei ricercatori di non disporre di dati certi sul riscaldamento globale e la decisione di manipolarli per mostrare, invece, un aumento brusco delle temperature che confermasse la tesi antropogenica.

Alla pubblicazione delle email e allo scandalo che ne derivò fecero poi seguito otto inchieste – fra le quali quella della Camera dei Comuni britannica, della statunitense Agenzia per la protezione dell’ambiente e di diversi altri enti governativi e di ricerca – le cui conclusioni scagionavano i ricercatori britannici dall’accusa di aver falsificato i dati.

Le due facce di Soros

Una delle più recenti polemiche che ha investito i sostenitori della tesi del cambiamento climatico dovuto all’uomo e della necessità di affrontarlo è quello della provenienza dei finanziamenti al gruppo ambientalista di Al Gore, la ex Alliance for Climate Protection oggi Climate Reality Project. Il sito DCLeaks a giugno scorso ha fatto trapelare documenti riservati della Open Society Foundations che dimostrano l’appoggio di questa alle organizzazioni di Gore. E la Open Society Foundations è di George Soros, potentissimo e discusso magnate della finanza che da diversi decenni è molto attivo come filantropo e finanzia, fra gli altri, prestigiosi think tanks come Inteational Crisis Group o lo European Council on Foreign Relations.

La notizia che Soros ha sostenuto i gruppi di Gore (e altri enti simili) non è nemmeno una notizia, per la verità, poiché la scelta del magnate in favore della lotta al cambiamento climatico era nota da tempo; tuttavia questa informazione si è poi raccordata con quella dell’appoggio dell’uomo d’affari sia alla campagna presidenziale di Hillary Clinton sia a quelle di Barack Obama, e ha scatenato gli scettici del cambiamento climatico nel sostenere che quella del clima è una battaglia orchestrata ad arte dai poteri forti intenzionati ad usare l’allarmismo sul riscaldamento globale causato dal CO2 per creare consenso su politiche energetiche ben precise. Non bastasse, è dell’agosto 2015 la notizia che Soros ha continuato ad investire proprio in aziende produttrici di combustibili fossili, aprendo la strada alle ipotesi più disparate sulle reali intenzioni del finanziere americano: vuole semplicemente far soldi sfruttando gli ultimi colpi di coda di industrie destinate a chiudere, sostiene qualcuno; vuole dare il colpo di grazia all’industria del carbone per accelerare il passaggio alle energie pulite, sostengono altri.

Insomma, il tema è difficile e va ben oltre la già non immediata comprensione da parte del pubblico di fenomeni complessi come quelli climatici e tocca interessi giganteschi. Ad oggi, diversi studi hanno analizzato le varie ricerche sul riscaldamento globale e il risultato è stato che nella comunità scientifica l’accordo sul fatto che il riscaldamento globale è causato dall’uomo è del 97 per cento.

Fra i tentativi di dare una forma divulgativa a ciò che è accaduto al pianeta nei secoli dal punto di vista climatico va segnalato quello del sito di fumetti on line Xkcd (xkcd.com) che cita fonti usate anche dal sito SkepticalScience (www.skepticalscience.com), attivo nel cercare di spiegare la letteratura scientifica sul clima nel modo più fruibile possibile.

Chiara Giovetti




Cooperando: 3 realtà, 1 obiettivo: istruzione contro povertà


Quest’anno concentriamo la campagna di Natale su Venezuela, RD Congo e Tanzania. Sono tre realtà molto diverse fra loro che hanno però almeno due aspetti in comune: una situazione socio-economica difficile e contraddittoria, della quale fanno le spese le fasce più deboli della popolazione, e una carente e spesso fuorviante informazione internazionale su di essi.

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1. Venezuela, fra crisi e propaganda

Che il crollo del prezzo del petrolio abbia messo in ginocchio l’economia venezuelana sembra essere l’unico dato certo: su un paese che basa la propria economia su questa risorsa, la diminuzione del costo al barile dai 100 dollari del 2014 ai 50 attuali non poteva non avere ripercussioni pesanti. Ma su questo dato di fatto si contrappongono, sia all’interno del Venezuela che nel dibattito internazionale, visioni sideralmente lontane circa le responsabilità e le possibili soluzioni.

Tutta colpa della rivoluzione bolivariana di Hugo Chavez, dicono i critici dell’ex presidente venezuelano – morto nel 2013 e sostituito dall’attuale capo di stato Nicolás Maduro -, e delle sue politiche socialiste, nazionalizzazione dell’industria petrolifera in testa. «Il Venezuela è una dittatura conclamata», scriveva lo scorso ottobre sul Washington Post Francisco Toro, che in un precedente articolo su The Atlantic indicava come «vero colpevole della crisi il chavismo, con la sua propensione alla cattiva gestione, agli investimenti folli, allo smantellamento delle istituzioni, alle politiche di controllo dei prezzi e del cambio e al ladrocinio puro e semplice». È vero che già all’inizio del 2014, cioè prima della caduta del prezzo del petrolio, l’economia venezuelana era entrata in recessione, risponde dalle pagine di Le Monde Diplomatique Marc Weisbrot, ed è vero che una profonda opera di riforma è necessaria, a cominciare da un riordino del mercato valutario: a oggi, ci sono tre tassi di cambio a cui si aggiunge quello applicato sul mercato nero, e vanno dai 10 bolivar (la valuta locale) contro un dollaro del cambio ufficiale ai 1.000 del mercato nero (un euro è quasi 700 bolivar con Weste Union dall’Italia).

Ma non bisogna dimenticare le ingerenze estee: il governo degli Stati Uniti promuove da quindici anni un «cambio di regime» a Caracas, ricorda ancora Weisbrot, e sta cercando di destabilizzae ulteriormente l’economia. Il Fondo Monetario è spesso particolarmente pessimista nelle stime sugli indicatori economici venezuelani e i media inteazionali fanno a gara a usare i termini più catastrofisti dimenticando di riportare anche i risultati ottenuti ad esempio dalle misiones, programmi governativi di lotta alla povertà lanciati nel 2003 da Chavez a sostegno dell’accesso alla salute, all’istruzione, al credito per la casa (vedi anche Le due piazze di Caracas di Paolo Moiola, MC 12/2015).

È degli ultimi giorni di ottobre la notizia della visita di Maduro a papa Francesco e dell’intenso lavoro della diplomazia vaticana per promuovere il dialogo tra le forze politiche ed evitare scontri e violenze.

La nostra proposta per il Venezuela

Al di là di queste diatribe, la situazione che i nostri missionari ci raccontano è davvero difficile: mai come quest’anno si sono resi necessari interventi per permettere alle persone di procurarsi cibo e farmaci. Nelle zone come Tucupita gli effetti della congiuntura attuale si accavallano a una situazione di povertà e marginalizzazione che da anni affligge la popolazione locale, appartenente per la maggioranza al gruppo indigeno warao.

La proposta dei nostri missionari è quella di impegnarsi in un progetto di contrasto all’abbandono scolastico dei bambini e adolescenti. Dal momento che il principale problema è l’acquisto del materiale scolastico, il cui prezzo è troppo alto per la maggior parte delle famiglie, il progetto prevede l’acquisto di penne, matite, quadei e altro materiale. Inoltre, coinvolge le famiglie a contribuire producendo esse stesse borse, astucci e piccolo mobilio per le classi come leggii e tavoli per lo studio, approfittando anche delle competenze acquisite dalla comunità warao grazie a iniziative realizzate in precedenza dai nostri missionari in ambito artigianale.


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2. Tanzania, fra Pil e ujamaa

La Tanzania cresce, eccome: le esportazioni fra il luglio 2015 e lo stesso mese del 2016 sono aumentate del 7,5% e lo scorso ottobre il paese ha firmato con il Marocco venti accordi di cooperazione bilaterale per poco meno di due miliardi di dollari nei settori energetico, minerario, tecnologico, agricolo, turistico, finanziario, sanitario e dei trasporti. Ma, come per altri paesi africani che stanno sperimentando simili espansioni, il rischio concreto è che larghe fasce della popolazione tanzaniana restino escluse dagli effetti della crescita. A differenza del turbolento vicino di casa congolese, in Tanzania – modellata dal mwalimu (maestro) Julius Nyerere, primo presidente e padre fondatore, sul principio dell’ujamaa (comunità-famiglia-fratellanza) – la pacifica convivenza fra gruppi etnici non è mai stata a rischio, ma le diseguaglianze sociali e le sacche di povertà sono tangibili, specialmente nelle aree rurali. Nel maggio di quest’anno, il Programma alimentare mondiale (Pam) ha pubblicato alcuni dati sul paese: nonostante la crescita economica, tre tanzaniani su dieci vivono nella povertà e uno su tre è analfabeta. L’ottanta per cento della popolazione vive di agricoltura di sussistenza e un terzo dei bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione cronica.

La nostra proposta per la Tanzania

In Tanzania il nostro programma di sostegno a distanza è attivo a Mgongo, Mafinga, Iringa, Morogoro, Ikonda e Tosamaganga. Inoltre, contribuiremo al Day Care Centre di Morogoro, un centro che fornisce a 252 bambini istruzione prescolare. Secondo numerosi studi, infatti, i bambini che hanno fatto un percorso educativo fra i tre e i sette anni ottengono poi migliori risultati nel prosieguo dei loro studi e hanno maggiori probabilità di terminare il ciclo primario. Inoltre, frequentare un centro come questo permette ai bambini di avere una nutrizione più adeguata in anni fondamentali per lo sviluppo psico-fisico.

In particolare, acquisteremo materiale ludico e didattico, cattedre, banchi e sedie, adegueremo il corpo docente alla sempre maggiore richiesta di iscrizioni e doteremo il centro di kit per il pronto soccorso.


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3. RD Congo, la difficile via verso le elezioni

Quarantadue anni dopo il celebre incontro fra Muhammad Alì e George Foreman, il grido in lingua lingala che si alza dallo stadio di Kinshasa non è più «Alì, bomaye!», «Alì, uccidilo», ma «Kabila oyebela, mandat esili!», «Kabila, sappilo, il mandato è finito».

Il 19 dicembre termina infatti il secondo mandato di Joseph Kabila, il quarantacinquenne presidente congolese succeduto al padre Laurent Desiré nel 2001 e riconfermato alla presidenza nelle elezioni del 2006 e del 2011, una consultazione elettorale quest’ultima, molto discussa e giudicata irregolare da diversi osservatori fra cui l’Unione europea. Le elezioni erano previste per quest’anno, ma a ottobre un accordo tra il governo e una piccola parte dell’opposizione (nel dialogo intercongolese) ha acconsentito di rimandare il voto al più tardi ad aprile 2018. Si creerà un governo di unità nazionale affiancato da un comitato di accompagnamento, mentre Kabila potrà restare in carica per la transizione. Ma il grosso dell’opposizione politica e i movimenti sociali non sono d’accordo, così come i vescovi, che hanno abbandonato il «dialogo» a settembre. E, se il conflitto politico a Kinshasa non sempre si limita al confronto dialettico – lo scorso settembre almeno 47 persone sono morte negli scontri fra polizia e manifestanti anti Kabila -, l’Est del paese non ha conosciuto un minuto di vera pace dalla fine della guerra del 1997-2003. Lo scorso agosto i miliziani del gruppo islamista di origine ugandese Adf – uno dei circa settanta gruppi ribelli attivi in Congo – hanno decapitato o bruciato vive trentasei persone a Beni, Nord Kivu.

La nostra proposta per il Congo

I nostri missionari in Rd Congo lavorano da sempre per ampliare quanto più possibile l’accesso all’istruzione e per contrastare l’abbandono scolastico: secondo gli ultimi dati Unicef, i bambini che non vanno a scuola sono 13 su cento, dato che sale a 16 nelle aree rurali. Degli scolarizzati, inoltre, un quarto non arriva alla conclusione del ciclo primario. Le aree su cui ci concentriamo questo Natale sono Kinshasa e Bayenga. Nella capitale, è attivo un programma di sostegno a distanza per i 360 bambini che frequentano la scuola primaria san Giuseppe d’Arimatea, nel quartiere Sans Fils. Attraverso questo sostegno, la probabilità di abbandono scolastico si riduce drasticamente perché risolve a monte il principale problema delle famiglie, quello di coprire i costi per la retta, i libri, il materiale scolastico.

A Bayenga, villaggio in piena foresta pluviale nella provincia Orientale, i nostri missionari lavorano con la comunità dei pigmei Bambuti: qui l’iniziativa è quella di creare e rafforzare una scuola itinerante, che possa spostarsi da un campement (insediamento) all’altro e permettere agli oltre mille bambini non scolarizzati di avere un’istruzione che rispetti e valorizzi anche le specificità culturali del loro gruppo etnico, tuttora considerato, dalla maggioranza bantu, composto da cittadini di seconda categoria.

Chiara Giovetti

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Grazie perché

Ecco alcune delle iniziative (e non sono tutte!) per le quali ci avete aiutati in questo 2016.

Istruzione e sanità

Abbiamo scavato un pozzo a Guilamba, Mozambico, comprato le bici per gli insegnanti a Neisu, RD Congo, dotato di microscopio, centrifughe e altro materiale il laboratorio del dispensario di Mgongo, Tanzania, e messo nuovi banchi, sedie e pc portatili nel centro di formazione per bambini adolescenti e giovani di Tucupita, Venezuela.

Stiamo poi mettendo il fotovoltaico nella Secondary School Mary Mother of Grace di Rumuruti, Kenya, migliorando la cucina della scuola elementare di Blessoua, Costa d’Avorio, lavorando alla scuola di formazione in agricoltura e all’impianto di irrigazione a Maturuca, Brasile, continuando la formazione alla pace per i bambini e le loro famiglie a Cartagena de Chairá, Colombia, e sostenendo doposcuola e Day Care Centre a Arvaiheer, Mongolia.

Per questi nove progetti e altri 33 ringraziamo la famiglia della signora Piera Guaaschelli, che ha sostenuto i missionari della Consolata per lunghi anni.

Abbiamo attrezzato l’ospedale di Wamba, Kenya, per il servizio di dialisi, rinnovato il laboratorio, introdotto un sistema di gestione informatizzato, riattivato il servizio di cliniche mobili per i villaggi intorno all’ospedale, intensificato il programma nutrizionale e lanciato una campagna di iscrizione per i pazienti al fondo di assicurazione sanitaria keniano Nhif, che permette la copertura delle spese mediche sostenute. Per questo progetto, che ha concluso il primo anno e continuerà per altri due, ringraziamo la Conferenza Episcopale Italiana, che ci ha concesso un finanziamento totale di 232.233 euro.

Sostegno a distanza

Anche quest’anno abbiamo sostenuto a distanza circa duemiladuecento bambini, a cui abbiamo fornito istruzione, cibo, cure mediche. Il programma SaD è stato attivato o potenziato anche in Venezuela, Mozambico, Sudafrica, Kenya ed Etiopia.

Attività generatrici di reddito e formazione professionale

Continuiamo a sostenere il panificio a Kinshasa che, grazie alla generosità di donatori privati e di gruppi missionari, cammina sempre di più sulle sue gambe. Anzi, su quelle delle donne di Kin che vanno a vendere il pane prodotto dal panificio.

A Malindi, Kenya, abbiamo concluso il progetto agricolo per le donne e a Kinshasa, RD Congo, abbiamo completato l’ammodeamento del laboratorio di elettronica del Centro di formazione professionale per ragazzi non scolarizzati. Grazie a Caritas Italiana per questi e per gli altri microprogetti che ci hanno permesso di realizzare.

Acqua

Ringraziamo tutti quanti hanno dato il loro contributo per garantire un sempre più ampio accesso all’acqua per le persone di Mukululu, Kenya, dove si trova il Tuuru Water Scheme, un sistema idrico che serve 250 mila persone e 150 mila capi di bestiame.

Popoli indigeni

Ringraziamo i nostri donatori – organizzazioni e privati cittadini – per la loro sensibilità alla condizione dei popoli indigeni di
Roraima, da Catrimani a Raposa Serra do Sol, e il prezioso sostegno alla difesa dei loro diritti.

3.366 grazie

Vorremmo nominarvi e ringraziarvi tutti 3.366 – singoli privati, organizzazioni, associazioni, gruppi missionari, parrocchie, congregazioni, aziende, scuole – perché ci avete affidato il vostro denaro, magari togliendolo al budget per la spesa e passando i fine settimana a organizzare eventi per le missioni, ma, anche usando tutte le pagine di questa rivista, non ci sarebbe abbastanza spazio per descrivere che cosa ciascuno di voi ci ha permesso di realizzare.

Noi, però, conosciamo i vostri nomi uno per uno, e una per una rispettiamo le intenzioni che accompagnano la vostra donazione: quello che ci avete affidato è diventato quadei, pompe idriche, cibo, farmaci, microscopi, sementi, salari dei maestri, attrezzi agricoli, letti per il parto, avvocati che hanno difeso minoranze ingiustamente espropriate, cacciate, aggredite.

Grazie a voi, anche nel 2016 abbiamo scritto una bella storia: siamo pronti a scrivere insieme il prossimo capitolo.


Diamo i numeri

  • Con 6 euro regali 10 set scolastici (penna, matita, gomma, quaderno) agli alunni di Tucupita.
  • Con 40 euro doni un kit per il pronto soccorso al centro prescolare di Morogoro.
  • Con 120 euro copri per tre mesi i costi di spostamento della scuola itinerante a Bayenga.
  • Con 300 euro sostieni a distanza un bambino in Congo o Tanzania.

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Accoglienza piccoli numeri grande efficacia


Nello scorso numero abbiamo raccontato dei migranti del Cas di Alpignano (Torino),  dell’appartamento di Porta Palazzo, in centro città, che ospita ragazzi afghani e del rifugio diffuso, cioè presso le famiglie. Continuiamo il racconto, cercando di fare un po’ di chiarezza sull’accoglienza ordinaria e sui famosi 35 euro al giorno per migrante, sui tipi di protezione internazionale e sui professionisti che lavorano in questo settore.

Cominciamo con una fotografia della situazione al 20 settembre 2016: secondo i dati del ministero dell’Inteo, i migranti sbarcati sul territorio italiano nel 2016 sono stati oltre 130 mila, in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso ma meno rispetto al 2014. Nei centri di accoglienza si trovano 158 mila persone, di cui 740 negli hotspot, 13.700 nei centri governativi di prima accoglienza (Cara, Cpsa, Cda), 22.192 nei 430 centri governativi di seconda accoglienza (Sprar) e 120 mila negli oltre tremila centri temporanei come i Cas (Centri di accoglienza straordinaria), gestiti attraverso bandi dalle prefetture e collocati in spazi che vanno dall’appartamento alla struttura alberghiera.

Gli esempi di mala gestione che guadagnano le prime pagine dei giornali riguardano soprattutto i Cas, centri temporanei nati dalle ceneri dell’Emergenza Nord Africa del 2011: nonostante questi ospitino oltre tre quarti dei richiedenti asilo, si legge nel «rapporto InCAStrati» pubblicato nel febbraio 2016 dalle associazioni Cittadinanzattiva, Libera e LasciateCIEntrare, «non esiste una mappa pubblica dei Cas e non sono a disposizione informazioni chiare e accessibili sui gestori, convenzioni, gestione economica e, soprattutto, rispetto degli standard di erogazione dei servizi previsti da convenzioni e capitolati d’appalto». È questa opacità che rende possibile mascherare di accoglienza quello che è semplice business: dall’albergo che, come struttura turistica, non guadagna più e che si ricicla in veste di Cas foendo posti letto ma non i servizi ai richiedenti asilo, fino alle strutture fatiscenti, sovraffollate e prive di servizi igienici i cui gestori si intascano i 35 euro abbandonando i migranti a se stessi.

Da dove vengono e dove vanno i 35 euro?

A proposito dei 35 euro, il rapporto «La buona accoglienza» della Fondazione Leone Moressa di Mestre, del gennaio 2016, dettaglia i costi coperti con questa cifra analizzando i preventivi dei progetti Sprar presentati dai comuni al ministero: su 34,67 euro di costo pro capite giornaliero, 13,16 vanno in costi del personale, 4,30 in oneri relativi all’adeguamento e gestione delle strutture, 8,24 in spese generali per l’assistenza, 2,15 in spese relative ai servizi di integrazione, 1,31 in consulenze (ad esempio quelle legali), 0,30 in costi indiretti e 5,21 in altre spese. Volendo essere più precisi, si può confrontare queste voci di spesa con il modello di preventivo, facilmente reperibile sul sito Sprar, che gli enti devono presentare per ottenere l’affidamento dell’incarico: il pocket money dato ai richiedenti asilo, pari a circa due euro e mezzo al giorno, fa parte delle spese generali per l’assistenza, insieme a vitto, salute, trasporti, scolarizzazione e alfabetizzazione. Le spese per l’integrazione comprendono, fra le altre voci, i corsi di formazione, le borse lavoro e i tirocini. I costi indiretti sono il carburante, la cancelleria e l’allestimento degli uffici, mentre le generiche «altre spese» sono i costi di formazione, trasporto, assicurazione del personale, fideiussioni, spese per pratiche burocratiche come il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno, le tessere telefoniche per gli accolti. Questo modello di preventivo nasce per l’accoglienza ordinaria nei centri governativi; il costo di 30-35 euro, a cui si giunge attraverso gli standard Sprar, si estende poi all’accoglienza straordinaria.

Le ricadute sul territorio dell’accoglienza fatta bene

«Quando gli enti gestori foiscono veramente i servizi previsti, il vantaggio non è solo per i richiedenti asilo: si crea anche un effetto di restituzione al territorio». A parlare è Davide Bertello, responsabile della cornoperativa Pietra Alta Servizi che gestisce diversi progetti fra cui quello al Cas di Alpignano (vedi puntata precedente). A Lemie, paesino a cinquanta chilometri da Torino, la cornoperativa gestisce un altro centro d’accoglienza all’interno di una struttura di proprietà del Cottolengo. «Lì abbiamo assunto sei operatori, tutte persone della zona», spiega Bertello, «ci serviamo nei negozi di alimentari locali, ricorriamo a elettricisti e idraulici del posto».

Nel 2015 la spesa prevista dal Viminale per l’accoglienza ai migranti sul territorio italiano è stata di un miliardo e 164 milioni di euro, pari a circa lo 0,14 per cento della spesa pubblica. Pier Carlo Padoan, il ministro dell’Economia e delle Finanze, ha riferito al «Comitato parlamentare Schengen, Europol e immigrazione» la cifra complessiva, che considera anche le operazioni di salvataggio in mare, le spese sanitarie e quelle per l’istruzione dei migranti, costi sostenuti da enti diversi dal ministero dell’Inteo. La spesa totale, nei dati del Mef, è pari a 3,3 miliardi per il 2015 e altrettanti (stimati) per il 2016, di cui i costi per l’accoglienza rappresenterebbero la metà, cioè circa un miliardo e seicento milioni. Se tutti gli enti gestori fossero «virtuosi», questa cifra toerebbe per la maggior parte sul territorio sotto forma di stipendi, affitti, acquisti di beni e servizi.

Ulteriore ricaduta è quella legata ai tirocini formativi per i migranti: ad esempio al Cas di Alpignano, riferisce Fabrizio, operatore del centro, ne sono partiti undici, sostenuti dalla cornoperativa Pietra Alta con trecento euro al mese per venti ore settimanali, mentre l’azienda paga i costi assicurativi e i versamenti Inail. Ad oggi, due dei richiedenti asilo lavorano nella manutenzione delle scuole, cinque in alcuni ristoranti di Torino come aiuto cuoco, due in aziende agricole, uno in un vivaio e uno in un negozio di conserve e olio.

Gli ostacoli all’accoglienza fatta bene

Il punto è che, data la poca chiarezza sugli enti gestori lamentata nel rapporto InCAStrati, è difficile quantificare l’accoglienza fatta bene. Il sistema governativo, o Sprar, è riconosciuto come il più efficiente perché ha meccanismi di affidamento e rendicontazione più rigorosi. Nelle parole, riportate da Vita.it, del prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento libertà civili e immigrazione del Viminale, «i Cas vanno eliminati, trasformandoli man mano in Sprar, progetti dove i capofila non sono privati ma i Comuni». Ma la partecipazione dei comuni è del tutto volontaria e, nell’ultimo bando, due su cinque dei posti Sprar disponibili sono rimasti vuoti. Segno che i comuni faticano ad aderire.

Il risultato, paradossale, è che magari in quei comuni i richiedenti asilo arrivano lo stesso, proprio nei Cas gestiti da privati e enti vari. «E così la comunità locale si trova una specie di astronave che atterra sul suo territorio», racconta Davide Bertello: decine, a volte centinaia di persone che vengono letteralmente catapultate in un quartiere, in un paese, senza essere state preparate a entrare in relazione con gli abitanti del posto e senza che questi siano pronti a riceverle, perché nessuno ha fatto un lavoro di mediazione.

La mediazione è fondamentale

Jacqueline è originaria dell’Africa Occidentale, fa la mediatrice interculturale e collabora con diversi enti che si occupano di accoglienza. «Che cosa risponderei a chi pensa che questo lavoro lo facciamo solo per i soldi?», dice con un sorriso un po’ amaro. «Credimi, se lo facessimo per quello non reggeremmo a lungo le dieci, quindici ore al giorno che ti capita di lavorare e la responsabilità umana che hai quando una persona che assisti ti chiama di notte in lacrime». Il ruolo del mediatore interculturale, continua Jacqueline, è quello di permettere agli italiani e ai migranti di conoscersi e magari di capirsi. Inoltre segue i migranti assistiti nelle procedure sanitarie e legali e garantisce un accompagnamento – anche se non di tipo psicologico – alle persone che hanno subito traumi dovuti alle violenze nel paese d’origine e durante il viaggio verso l’Italia.

Traumi come quelli patiti da Peter (nome di fantasia), che stava dormendo quando i terroristi di Boko Haram, una notte del gennaio 2014, sono arrivati nel suo villaggio nel Nord Est della Nigeria e hanno iniziato a sparare, distruggere e incendiare. Hanno preso lui per mostrare agli altri abitanti del villaggio che cosa sarebbe successo a chi si rifiutava di farsi reclutare, gli hanno colpito la mano con una pietra da mortaio fino a rompergli le ossa. Si è risvegliato nell’ospedale di una cittadina vicina, dove ha trovato due dei suoi figli, mentre della moglie e della figlia più piccola non ha avuto notizie. Durante tutto il suo racconto, che va dalla notte dell’attacco all’arrivo in Italia passando per la Libia, resta calmo e lucido; cede soltanto al ricordo dell’umiliazione subita in Libia quando, cercando lavoro per poter sopravvivere insieme ai due bambini che ha portato con sé, si è sentito rispondere: «Come fai a lavorare, tu? Sei solo uno storpio senza una mano». Arrivato in Italia nel giugno del 2015, ora ha ottenuto il ricongiungimento familiare con la moglie e la figlia, che – come ha saputo solo mesi dopo l’attacco al villaggio – erano riuscite a mettersi in salvo ed erano poi state trasferite, insieme ad altri del villaggio, in un campo rifugiati in Niger.

La preparazione per l’audizione in Commissione

«Un altro degli impegni a cui cerchiamo di fare fronte è proprio quello di mettere persone come Peter in condizioni di fare una descrizione chiara alla Commissione territoriale, che valuta la loro richiesta d’asilo», spiega ancora Jacqueline. Di questa descrizione chiara fanno parte, oltre che un racconto comprensibile e circostanziato, le prove da presentare alla Commissione, ad esempio le verifiche sanitarie che dimostrano le violenze subite.

«Questo è un lavoro fondamentale», insiste Davide Bertello. «È assurdo che una persona rischi di avere un diniego perché non è riuscita, magari a causa dell’emotività, a spiegare bene quello che le è successo». «E no – risponde Davide a domanda diretta – non facciamo da suggeritori. Anche in questo un ente gestore serio fa la differenza: aiuta i richiedenti asilo a capire che l’unica cosa che davvero conviene è dire la verità. Noi ascoltiamo le loro storie e li sproniamo a spiegarci meglio le parti lacunose e non credibili. E non ci chiediamo se hanno o meno diritto a una forma di protezione: questo non spetta a noi deciderlo, ma alla Commissione territoriale». Anche perché stabilire «chi ha diritto e chi no» non è per niente semplice e richiede una valutazione attenta delle singole situazioni. Le equazioni «persona in fuga dalla guerra uguale rifugiato che può rimanere in Italia, persona che non viene da zone di guerra uguale migrante economico che deve tornarsene al suo paese» sono semplicistiche. Vi sono infatti due tipi di protezione internazionale: la prima prevede il riconoscimento dello status di rifugiato a chi rischia di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, mentre la seconda riconosce il diritto alla protezione cosiddetta sussidiaria, di cui può beneficiare chi non rischia una persecuzione ma corre comunque il rischio effettivo di subire un grave danno se rientra nel proprio paese. Vi è poi la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Qualche storia per capire

Per farsi un’idea, è utile leggere alcune decisioni delle Commissioni territoriali e ordinanze dei tribunali ordinari nei casi di impugnazione. Se ne trovano raccolte dal sito meltingpot.org. Solo per citae alcune: la Commissione ha riconosciuto lo status di rifugiata a una cittadina nigeriana di Lagos vittima di tratta a scopo di sfruttamento sessuale perché c’era un effettivo rischio di persecuzione per la donna, mentre il Tribunale di Bari ha accolto il ricorso contro il diniego della Commissione presentato da un cittadino pachistano, riconoscendolo come rifugiato perché omosessuale e cittadino di un paese dove l’omosessualità è reato. Ancora, il tribunale di Genova ha accordato la protezione sussidiaria a un cittadino del Gambia, perché il giovane è figlio di un oppositore torturato e ucciso in prigione e lui stesso era stato arrestato, riuscendo poi a fuggire dal carcere; il rientro in patria lo esporrebbe, secondo il giudice, al rischio di subire un danno grave. Un suo connazionale, un tecnico informatico arrestato per aver consultato un sito web vietato perché critico nei confronti del governo, si è visto invece riconoscere lo status di rifugiato dal Tribunale di Lecce. Infine, due cittadini del Bangladesh hanno ottenuto dal Tribunale di Trieste la protezione umanitaria: il giudice nella decisione ha tenuto conto di una serie di elementi, fra cui la situazione di «violenza indiscriminata nel paese d’origine, la giovane età e la peculiarità della vicenda».

Aumentano dinieghi e ricorsi

Ad agosto 2016 le venti Commissioni territoriali, più le sezioni, avevano respinto oltre il sessanta per cento delle richieste. I ricorsi, che danno diritto ai richiedenti asilo a restare sul territorio italiano in attesa delle sentenze, sono aumentati di altrettanto, intasando i tribunali ordinari a cui spetta l’esame. A detta del ministro della Giustizia Andrea Orlando, i ricorsi accolti sono stati pochissimi ma altre fonti, secondo le quali le Commissioni territoriali giudicano in modo troppo superficiale, parlano invece di un alto numero di ricorsi accolti dai Tribunali proprio a riprova del cattivo operato delle Commissioni.

Quel che è certo è che i tempi si allungano: ad agosto la durata media di un procedimento di primo grado era di 167 giorni ma, rispetto ai quindicimila ricorsi presentati, le sentenze erano meno di mille. E qualcuno avanza anche dubbi sull’effettiva preparazione dei giudicanti sulle realtà di provenienza dei richiedenti asilo. Vie Di Fuga, l’osservatorio permanente sui rifugiati legato all’Ufficio Pastorale Migranti di Torino, riportava nel 2105 uno studio di Ecre – European Council on Refugees and Exiles in cui si discutevano, fra l’altro, le fonti di informazione sui paesi d’origine dei richiedenti asilo utilizzate dai vari enti europei che valutano le domande. Per quanto riguarda l’Italia, i risultati lasciano perplessi: le Commissioni territoriali raramente menzionano queste fonti, mentre i tribunali – che invece le indicano più spesso – citano anche siti come Viaggiaresicuri del ministero degli Esteri, che però è pensato per gli italiani, turisti o lavoratori, che devono intraprendere un viaggio all’estero e contiene informazioni di «dubbia pertinenza con l’ambito della protezione internazionale».

Chiara Giovetti




Accoglienza: piccoli numeri grande efficacia


Da venti persone in giù. Le esperienze di accoglienza a Torino e dintorni che racconteremo in questo reportage parlano di piccoli gruppi, dai venti rifugiati del Cas di Alpignano al rifugio diffuso e all’accoglienza in famiglia. Queste sono realtà che permettono di dare attenzione alle persone – quelle accolte e quelle che accolgono – e di gestire incomprensioni e difficoltà in maniera efficace.

Il «Centro di accoglienza straordinaria» di Alpignano

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Un ragazzo africano sta in piedi in un campo di cipolle, immobile. Poi si china sulle piante, strappa le erbacce, le ammucchia. Sono le sette di sera passate e fa ancora caldo, ma lui indossa stivali di gomma, pantaloni lunghi, una felpa e anche un berretto di lana. Per una volta, però, quella che descriviamo non è una scena di sfruttamento del lavoro dei migranti in qualche torrida campagna italiana: lui è James (nome di fantasia, nda), richiedente asilo originario del Ghana, e il campo di cipolle è un pezzo dell’orto comunitario del Centro di accoglienza straordinaria (Cas) di Alpignano, che occupa i locali di quello che prima era il centro di animazione dei missionari della Consolata. «In Ghana faceva il contadino», spiega Monia, operatrice della cornoperativa Pietra Alta Servizi cui è affidata la gestione del Centro con una presenza costante, notte e giorno, del personale. «Stare nei campi gli piace, appena ha un minuto libero corre nell’orto».

Anche gli altri giovani accolti dal Centro – venti ragazzi fra i diciotto e i vent’anni arrivati a partire da ottobre 2015 da diversi paesi dell’Africa occidentale – hanno ciascuno la propria attività d’elezione. «Ce ne sono alcuni», racconta Fabrizio, collega di Monia, «che se la cavano con l’idraulica o l’elettricità, altri bravi ai fornelli». «E poi c’è lui», dice Jacob, uno dei due mediatori interculturali presenti al Cas, indicando un giovane chino su un libro, «che ama studiare e appena può si mette in un angolo tranquillo a leggere. Oppure lui», e ride indicando con la mano un giovane nel cortile fuori dalla finestra, «che vuole fare il calciatore per forza: sta sempre in divisa e scarpette e prende a pallonate il muro».

Queste attitudini dei ragazzi sono state utili per capire a quali tirocini avviarli con le borse lavoro. L’inserimento lavorativo è un’ulteriore tappa di un cammino cominciato lo scorso inverno con il corso di italiano obbligatorio, che si è svolto presso il Centro per l’Istruzione degli Adulti (Cpia) di Grugliasco, oltre che presso il centro grazie all’aiuto dei volontari cornordinati dagli operatori. Parallelo a questa prima fase è stato poi il percorso di assistenza psicologica presso il Centro Migranti Marco Cavallo a Barriera di Milano.

A queste attività, il Cas di Alpignano ne affianca altre: i corsi di cucina, i laboratori teatrali, il calcio. Sono tutte iniziative, precisano gli operatori, utili per motivare i ragazzi – che hanno davanti una lunga attesa prima di ottenere il responso alla loro richiesta di asilo – a darsi obiettivi e assumersi responsabilità.

«Certo, non va sempre tutto bene», ammettono Monia e Fabrizio. Ci sono state incomprensioni. Una ha riguardato un ragazzo che ha lasciato Alpignano ed è andato in Austria per raggiungere dei conoscenti. «Vieni, gli avevano detto via cellulare: qui c’è lavoro». Una volta là, però, questo fantomatico lavoro si è rivelato inesistente; il giovane è rientrato in Italia e ha chiesto di poter tornare al Cas di Alpignano. «Ma noi, a quel punto, non abbiamo più potuto accoglierlo», racconta Fabrizio.

I migranti possono trascorrere fuori dal Cas fino a un massimo di tre notti, giustificando l’uscita e lasciando un recapito al quale trovarli. Passate le 72 ore, i responsabili del Centro segnalano alla prefettura il mancato rientro. In questi casi i migranti conservano il diritto ad aspettare l’esito della valutazione della loro domanda d’asilo ma perdono quello all’ospitalità presso la struttura che li aveva accolti.

«La parte frustrante», riprende Monia, «è che a volte i ragazzi si fidano di più delle notizie sentite attraverso il tam tam fra migranti – che rischiano di essere parziali se non false – che di quello che diciamo noi. C’è voluta un po’ di pazienza per “smontare” le informazioni sbagliate e superare la diffidenza di alcuni nei nostri confronti». Diffidenza che non di rado nasce ascoltando alla televisione le notizie relative al cosiddetto «business dell’accoglienza» e generalizzandole. «Magari un amico, un connazionale dice loro: “Altro che aiuto, questi dei centri d’accoglienza ci fanno i soldi su di te!”, e i ragazzi diventano guardinghi, ostili. Allora bisogna sedersi, parlare, smentire con dati reali quelli distorti, ricostruire un rapporto di fiducia».

È in queste situazioni che si rivela cruciale il supporto dei mediatori interculturali al lavoro con Monia e Fabrizio: Jacob e Mor sono entrambi di origine africana, della Guinea Conakry uno e del Senegal l’altro. «Io sono arrivato qui che ero un bambino», dice Jacob, ora poco meno che trentenne, «la Guinea la conosco poco, ma una parte della mia famiglia, che sento regolarmente, vive lì. Conosco quindi la realtà e le difficoltà di un paese dell’Africa occidentale e parlo le lingue degli ospiti del Centro. Per questo mi percepiscono come qualcuno che può capirli e aiutarli a capirsi con gli altri».

È quasi ora di cena e i ragazzi convergono al refettorio. Ogni volta che uno di loro passa davanti all’ufficio degli operatori, Monia, Jacob e Fabrizio lo chiamano, si informano di come ha risolto quel problema che aveva segnalato, scherzano, discutono. Di giorno i richiedenti asilo entrano ed escono dal Centro, vanno in paese, si muovono nella città. Ma, fra il corso di italiano, le attività organizzate al Cas e i tirocini, l’immagine dei migranti che stanno a bighellonare e delinquere qui non trova conferma. «Con venti persone lo puoi fare», concordano gli operatori, «puoi seguirli uno per uno e avere un confronto e un dialogo anche con i cittadini del quartiere, o del paese».

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L’accoglienza in appartamento

Se a misura d’uomo è un luogo che accoglie venti persone, altrettanto se non di più lo sono realtà ancora più piccole e più domestiche. Nell’appartamento di Porta Palazzo, Torino centro, dove vivono da più di un anno sette giovani rifugiati afghani, il clima è quello di una casa di studenti lavoratori. In cucina Mustafa, l’ingegnere civile del gruppo, dà il tocco finale al kabuli palaus, piatto afghano a base di riso, carne, uvetta e cumino, mentre Sardar, il più osservante dei sette – barba folta, pantaloni e lunga camicia bianchi, calotta da preghiera sul capo – stende sul pavimento del salone i teli su cui posare stoviglie e pietanze. Maruf, Moinkhan e Hawaldar intanto guidano gli ospiti nel giro della casa: un salone, un bagno, tre stanze da letto, e spiegano che si cenerà senza uno di loro perché lavora al negozio di kebab e, durante il Ramadan, è subito dopo il tramonto che i clienti arrivano numerosi.

I ragazzi, in attesa del responso alla loro richiesta di asilo, stanno studiando l’italiano. Alcuni hanno già iniziato i tirocini come aiuto-cuoco, addetto agli scaffali in un supermercato, incaricato della manutenzione in un centro sportivo. Mustafa è contento del suo tirocinio da operaio edile e ha trovato nel capo cantiere – anche lui straniero ma a Torino da tanti anni – un punto di riferimento. Certo, spera che questa sia una soluzione temporanea e che, una volta ottenuto il permesso di soggiorno, gli sia possibile lavorare in ruoli diversi. Ma un buon ingegnere deve conoscere il cantiere, dice, perciò per ora va bene così.

Antonello è uno degli operatori che segue i sette giovani. Lavora per la cornoperativa Terremondo, nata più di dieci anni fa da alcuni educatori attivi all’Asai, associazione fondata nel 1995 e fra i pionieri del lavoro con i migranti a Torino. Scherza con i ragazzi, guarda con loro la partita di calcio in Tv, si informa di com’è andata la giornata. «Allora, sei andato a scuola o ancora non ti senti bene?», chiede Antonello a uno dei giovani, che di recente ha avuto problemi di salute. «No scuola, no pocket money!», avvertono gli altri ridendo. «Ci sono delle regole precise», spiega Antonello, «e, sempre in un clima di dialogo e di disponibilità a confrontarsi, il ruolo degli operatori è anche di ricordare queste regole». Ad esempio, i ragazzi possono avere ospiti per i pasti, ma non di notte. I giovani afghani vivono soli in questa casa; gli operatori e i volontari di Terremondo passano a trovarli almeno un paio di volte a settimana e sono in contatto costante.

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Il rifugio diffuso

Ma c’è un modo di fare accoglienza ancora più «molecolare»: il rifugio diffuso, nel quale sono le famiglie ad aprire la porta di casa a un migrante. Alessia, dell’Ufficio per la Pastorale dei Migranti (Upm) della Diocesi di Torino, racconta com’è nata questa esperienza: «Tutto comincia nel 2008 con “Adotta un rifugiato”, iniziativa del Comune e di alcune associazioni, che ha avviato oltre un centinaio di accoglienze in famiglia. Dati i buoni risultati, poi, questa modalità è entrata nello Sprar», il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati istituito dalla legge «189/02 Bossi-Fini» e affidato dal ministero dell’Inteo all’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani. Le esperienze di accoglienza presso abitazioni private e nuclei familiari, si legge nel Rapporto annuale Sprar 2015, sono attivate nei comuni di Torino, Parma e Fidenza, con una sperimentazione in corso nel comune di Milano.

A Torino, sono l’Ufficio stranieri del Comune, diverse associazioni e l’Upm a cornordinare il progetto: quello attuale è iniziato nel 2014 e ha quasi concluso l’inserimento di 28 rifugiati usciti dai centri di prima accoglienza.

Il contributo alla famiglia che accoglie, finanziato con fondi Sprar per i sei mesi previsti, è di 413 euro al mese per le spese di vitto, alloggio e utenze della persona accolta; si consiglia alle famiglie di dare circa 90 euro al rifugiato come argent de poche.

«Il ruolo dell’Upm e delle associazioni», spiega ancora Alessia, «è quello di segnalare al comune i richiedenti asilo che hanno i requisiti. Per essere coinvolti nel progetto, infatti, queste persone devono conoscere la lingua e aver manifestato la volontà di investire le proprie energie per inserirsi nel territorio. Si fa una valutazione anche sul profilo professionale, per favorire l’inserimento lavorativo. Finora i beneficiari sono in maggioranza uomini fra i venti e i trent’anni che hanno competenze nella ristorazione, nell’agricoltura e nell’allevamento, spesso perché in questi ambiti lavoravano già nel loro paese. C’è una sola donna, nigeriana, ex vittima di tratta».

Anche con le famiglie si fa un lavoro preparatorio per spiegare i dettagli del progetto e cercare di prevenire possibili problemi: «Quella che nasce è a tutti gli effetti una convivenza e il suo obiettivo è quello di rendere autonomi i rifugiati». Come? Permettendo loro di migliorare l’italiano, di conoscere altre persone e di venire a contatto con le opportunità di lavoro.

La preparazione con le famiglie cerca di evitare che queste ultime si creino aspettative, ad esempio quella di avere un po’ di compagnia – desiderio che emerge a volte quando ad accogliere sono persone anziane – o di ricevere un aiuto in casa, magari nell’assistenza ai malati. Nulla vieta che relazioni di questo tipo possano svilupparsi, se il rifugiato e la famiglia lo vogliono; ma il punto di partenza è quello di una condivisione di spazi nel reciproco rispetto.

Anche qui, non va sempre tutto bene. È il caso di una convivenza conclusa dopo soli quindici giorni per screzi legati al cibo e forse anche ad aspettative deluse. Ma non sono la norma, spiega Alessia, gli esempi positivi sono tanti: ci sono famiglie che accantonano i 413 euro e, alla fine dei sei mesi, consegnano al rifugiato il denaro così risparmiato. E ci sono migranti che a loro volta si offrono per accogliee altri, come a voler restituire l’aiuto che hanno ricevuto.

«Accomunare le realtà come il Cas di Alpignano, l’appartamento di Porta Palazzo o il rifugio diffuso alle accoglienze in massa, magari in strutture fatiscenti, o alle occupazioni è fuorviante», commenta Sergio Durando, direttore dell’Upm.

Chiara Giovetti
(fine prima puntata)




Un altro modo di dire mondo


La Banca Mondiale ha deciso di non utilizzare più l’espressione «paesi in via di sviluppo» ed è probabile che le altre istituzioni inteazionali si allineeranno alla sua decisione. Ma che significato e quali conseguenze ha questa scelta? Da «Terzo Mondo» a «paesi a basso reddito», la forma e la sostanza delle parole che usiamo per descrivere il mondo.

Non c’è più il Terzo Mondo di una volta. E nemmeno i paesi in via di sviluppo, a quanto pare. Nell’edizione 2016 degli Indicatori di sviluppo – una delle pubblicazioni di riferimento per chiunque lavori nel settore e non solo – la Banca Mondiale ha deciso di dismettere l’espressione developing countries (paesi in via di sviluppo, appunto). «Sulla spinta dell’agenda universale degli Obiettivi di sviluppo sostenibile», si legge nel documento, «questa edizione introduce un cambiamento nel modo di presentare gli aggregati globali e regionali. Salvo ove specificato, non c’è più una differenza fra paesi in via di sviluppo (definiti nelle precedenti edizioni come paesi a basso e a medio reddito) e paesi sviluppati (ad alto reddito). I raggruppamenti regionali sono basati sull’area geografica […] e il cambiamento ha due conseguenze: che c’è un nuovo aggregato per il Nord America e che l’Unione europea è inclusa negli aggregati per Europa e Asia centrale».

Già da anni l’espressione «in via di sviluppo» si accompagnava nei rapporti della Banca Mondiale alla precisazione che il suo utilizzo era una questione di brevità, non significava che tutte le economie così denominate sperimentassero uno sviluppo analogo e non faceva in alcun modo riferimento a una soglia di sviluppo preferibile o finale, unica e uguale per tutti, che alcuni stati del mondo avevano raggiunto e superato e altri no.

Le premesse di questo cambiamento erano emerse in un articolo firmato da Tariq Khokhar e Umar Serajuddin, rispettivamente data analist e economista statistico della Banca, pubblicato sul blog istituzionale della World Bank nel dicembre del 2015: «L’essere umano ha una naturale tendenza a fare delle categorie – scrivevano – ma la classificazione è un’arte, non una scienza esatta». I due funzionari citavano Hans Rosling, medico, statistico e accademico svedese, che in una conferenza del giugno 2015 aveva detto: «Ho un nuovo nome per il mondo in via di sviluppo: io lo chiamo “il mondo”. È il posto dove vivono sei su sette miliardi di persone, perciò il mondo in via di sviluppo è la stragrande maggioranza».

I limiti della categoria, insistevano i due autori, emergono chiaramente quando si guarda ad esempio ai tassi di mortalità infantile e di fecondità, considerati come indicativi del benessere complessivo di un paese. Negli anni Sessanta questi due indicatori ebbero un ruolo importante nel definire le due grandi categorie: i paesi sviluppati erano quelli dove il tasso di fecondità e quello di mortalità infantile erano più bassi mentre i paesi in via di sviluppo, presentavano i valori più elevati. Oggi, con l’eccezione di pochi paesi, mortalità infantile e fecondità sono diminuite ovunque.

Lo stesso vale per le classificazioni basate sul reddito o sulla soglia di povertà estrema, fissata a 1,90 dollari al giorno: che senso ha, si chiedono i due funzionari della Banca Mondiale, che il Malawi e il Messico si trovino nella stessa categoria quando il primo ha un reddito nazionale lordo pro capite di 250 dollari e il secondo di 9.860? O considerando che a vivere con meno di un dollaro e novanta centesimi al giorno sia in Malawi il settanta per cento della popolazione e in Messico meno del tre per cento?

Gli antenati: c’era una volta il Terzo Mondo

«Terzo Mondo» è un’espressione coniata dall’economista francese Alfred Sauvy in un articolo dell’agosto 1952 quando, sulla rivista L’Observateur, scriveva: «Parliamo spesso dei due mondi protagonisti, della loro guerra possibile, della loro coesistenza, dimenticando troppo sovente che ne esiste un terzo, il più importante, il primo in ordine cronologico. È l’insieme di quelli che chiamiamo, con lo stile delle Nazioni Unite, i paesi sottosviluppati».

Per «due mondi» si intendeva da una parte il gruppo di paesi e loro satelliti del blocco capitalista occidentale e dall’altra quelli del blocco comunista sovietico. Nei fatti, però, l’espressione «Terzo Mondo» finì per sottintendere e avallare soprattutto l’idea che una buona parte del pianeta fosse poco più di uno sfondo per la contrapposizione Usa-Urss; inoltre, dal momento che i paesi di questo gruppo erano per la maggioranza poveri, «Terzo Mondo» divenne sinonimo di povertà prima che di non-allineamento alle due superpotenze. Nel 2003, in un’intervista a L’Express, l’autore stesso sottolineava il malinteso: «Per noi», spiegava l’economista francese, «non si trattava di definire un terzo insieme di nazioni […]; era piuttosto un riferimento al Terzo Stato dell’Ancien Régime, a quella parte della società che si rifiutava di “essere niente”, come recitava il pamphlet dell’abate Sieyès. La nozione designa dunque la rivendicazione delle nazioni terze che vogliono entrare nella storia». Questa idea, proseguiva Sauvy, aveva però conosciuto una lunga eclissi e sembrava essere in ripresa con l’emergere, fra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, di paesi come l’India, il Brasile e il Sudafrica e del loro rivendicare una identità peculiare rispetto all’Occidente.

Nord e Sud del mondo

Altre definizioni, poi, si sono alternate negli anni: la dizione «Nord e Sud del mondo», a guerra fredda finita, riprendeva la linea Brandt – dal nome del cancelliere tedesco Willy Brandt, presidente della commissione che nel 1980 produsse un noto rapporto sullo sviluppo internazionale – e intendeva fotografare la nuova linea di confine. Questa non correva più lungo la cortina di ferro separando l’occidente dal blocco sovietico dell’Urss e dell’Europa orientale, bensì lungo la linea che scindeva i paesi industrializzati del Nord America, dell’Europa occidentale, dell’ex Unione Sovietica, del Giappone e di altri paesi dell’Estremo Oriente – si stavano nel frattempo affermando anche le cosiddette Tigri Asiatiche – dall’America Latina, dall’Africa e dal Medio Oriente. Altre suddivisioni, frequentate per la verità più dagli accademici e filtrate solo di rado fino alle pagine dei giornali e nei dibattiti pubblici, erano quelle legate alle teorie della dipendenza che parlavano di centro ricco e periferia sottosviluppata e attribuivano al primo un ruolo di sfruttamento della seconda.

Di questo bouquet di espressioni, «in via di sviluppo» è stata la più longeva anche perché metteva d’accordo più persone o, se non altro, ne scontentava meno. Il suo richiamare il movimento («in via di») risultava incoraggiante per tutti, sviluppandi e loro tutori, e teneva a bada i critici perché era comunque meglio di «sotto-sviluppato»; infine – dettaglio fondamentale – piaceva ai media, sempre avidi di termini agili (in inglese «in via di sviluppo» diventa developing: un solo, pratico aggettivo).

Sviluppo in crisi

Ma poi, e molto prima che la Banca Mondiale decidesse il cambio di lessico, ad andare in crisi è stato lo sviluppo stesso, attaccato da ogni lato da dati e fenomeni che lo negano, o almeno ne stravolgono la fisionomia per come l’abbiamo conosciuta finora.

L’aiuto pubblico allo sviluppo è pari a un terzo delle rimesse dei migranti; il Brasile, l’India, la Cina, il Sudafrica da paesi assistiti sono diventati potenze regionali; a detta di analisti come la zambiana Dambisa Moyo, i mille miliardi di dollari in aiuti riversati sulla sola Africa in cinquant’anni hanno in larga parte mancato l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita degli africani e sono spesso finiti divorati da corruzione, spese di gestione e burocrazia kafkiana dei governi nazionali e delle istituzioni inteazionali.

E mentre, almeno in alcuni ambienti, ci si stava chiedendo se l’Occidente era poi davvero un modello di sviluppo, è arrivata la crisi finanziaria del 2008 a mostrare che il primo mondo, quello sviluppato, è molto più fragile e vulnerabile di quanto esso stesso pensasse di essere e ha al proprio interno sacche di povertà, emarginazione e degrado identiche a quelle dei paesi in via di sviluppo.

È in questo contesto che va collocata la decisione della Banca Mondiale di rivedere il lessico. I primi a riprendere la notizia sono stati paesi come l’India e il Messico, che la nuova classificazione «promuove» a paesi non più in via di sviluppo per il semplice fatto di non definire più nessuno stato come tale.

Che cosa cambia in concreto?

A dare retta a Charles Kenny, ricercatore presso il Centre for Global Development di Washington, alla variazione lessicale non si accompagna per ora un equivalente cambiamento della sostanza. Quello della Banca, avverte, è un piccolo passo e per di più traballante.

  • Innanzitutto, la suddivisione fra sviluppati e in via di sviluppo è ancora presente, eccome, nella versione on line – che sarà probabilmente la più consultata – del rapporto citato invece come spartiacque con il vecchio linguaggio.
  • Inoltre, aggiunge Kenny, la Banca continua nei fatti a decidere a chi concedere quali prestiti, dividendo i paesi del mondo in gruppi sulla base del reddito, li chiami o meno «in via di sviluppo».

Ed è esattamente questo il problema: servirebbe, piuttosto, una scala progressiva per cui ogni paese riceve l’aiuto di cui ha bisogno e nel contempo si impegna a dare il proprio contributo per risolvere i problemi globali. A maggior ricchezza maggior responsabilità e minor assistenza, insomma, non una rigida e binaria divisione fra stati «aiutanti» e «aiutati» a seconda che si trovino di qua o di là da una soglia di reddito.

Sana ironia

In attesa che si superi davvero la dicotomia e si conii eventualmente una nuova espressione, qualcuno sottolinea – con ironia – la necessità di un complessivo ripensamento del linguaggio dello sviluppo. L’organizzazione no-profit australiana WhyDev, ad esempio, indica «nove frasi dello sviluppo che odiamo (e i suggerimenti per un nuovo lessico)» [1].

Il capacity building? «Spesso è un eufemismo per dire che si stipano trenta persone in una stanza per un po’ di giorni e si cerca di ucciderle a forza di powerpoint, cartelloni e lavori di gruppo». L’espressione «in via di sviluppo»? «È semplicistico. Significa mettere i paesi del mondo in una scala da meno a più sviluppati, e lo scopo ultimo sarebbe quello di essere il più vicino possibile al nostro estremo della scala e il più lontano possibile dall’altro. E fidatevi, essere più vicini al nostro estremo significa somigliare ai Kardashian [famiglia statunitense di origini armene composta da imprenditori, attrici, modelle costantemente sulle riviste scandalistiche per i loro eccessi e lussi]. Nessuno può voler questo».

Il Development Research Institute dell’Università di New York è ancora più sarcastico nel suo dizionario dell’aiuto (AidSpeak Dictionary) [2]. La vera definizione di «sensibilizzare»? «Dire alle persone quello che devono fare». Gli «Obiettivi delle Nazioni Unite»? «Inventarsi soluzioni per problemi che non capiamo, pagando con soldi che non abbiamo». E che cosa intende davvero un professionista dello sviluppo quando dice di essere un esperto? «Beh, che ho letto un libro sul tema durante il volo».

Chiara Giovetti

[1] Weh Yeoh, Brendan Rigby and Allison Smith, 9 development phrases we hate (and suggestions for a new lexicon), in whydev.org, 13/09/2012.

[2] The AidSpeak Dictionary, in wp.nyu.edu, 19/09/2011.




Cooperazione progetti micro


Micro progetti per grandi problemi. Cibo, scuola, sanità, acqua, diritti. Sono molti i nostri missionari che si spendono ogni giorno per costruire un mondo più vivibile, non solo annunciando la Parola, ma ponendo quotidianamente piccoli gesti di frateità verso i più piccoli e i più poveri. Ecco alcune attività significative in Africa e America Latina. Tutte, casualmente, sono portate avanti da missionari della Consolata africani.

Costa d’Avorio,
una cucina per la scuola di Blessoua

Durante la stagione delle piogge, nei villaggi della brousse (savana), le fragili costruzioni in terra e paglia faticano a resistere alle forti folate di vento e alle precipitazioni torrenziali. La cucina della scuola elementare di Blessoua, nella Costa d’Avorio meridionale, era una di queste casette precarie e risultava inservibile quando la pioggia si faceva troppo battente. Perciò l’ora del pranzo per i 423 bambini della scuola non poteva più essere mezzogiorno ma, molto più imprevedibilmente, l’ora in cui smetteva di piovere. Le conseguenze sulla didattica sono facili da immaginare, con i quindici maestri sempre a rischio di dover interrompere la lezione e gli alunni sempre meno concentrati e più stanchi per l’attesa del pasto. Per questo padre James Gichane, keniano di Nakuru, in missione a Blessoua, ha chiesto di poter costruire una cucina più solida che permetta al cuoco di lavorare in tranquillità e ad alunni e insegnanti di concentrarsi sulle lezioni. La scuola riunisce figli di ivoriani ma anche di togolesi, burkinabè e beninesi venuti in Costa d’Avorio per lavorare nelle piantagioni di cacao: la socializzazione fra questi bambini è un mattone basilare nelle fondamenta della pace che il paese sta costruendo dopo essere uscito da una guerra civile che si alimentava anche della manipolazione dell’odio fra ivoriani e stranieri.

Kenya,
energia pulita per la «meglio» scuola secondaria della Laikipia

Quasi cinquemila chilometri più a Sud Est, in un’altra scuola – stavolta secondaria – il responsabile padre David Mbgua ha invece potuto installare un sistema fotovoltaico alla Mary Mother of Grace Secondary School di Rumuruti nella contea di Laikipia, Kenya: il risparmio sulla bolletta della luce gli permetterà di liberare risorse da utilizzare per la didattica, di evitare i black out che impedivano ai ragazzi di studiare dopo il tramonto del sole e di alimentare la scuola con energia rinnovabile, tema questo tutt’altro che secondario in un paese che sta dibattendosi fra richiesta energetica sempre in crescita ed esigenza di sostenibilità ambiatele.

La Mary Mother of Grace fu aperta nel 1992 da padre Giuliano Gorini, recentemente scomparso. Ha 216 alunni e si trova in una zona abitata da pastori nomadi in costante movimento per seguire il bestiame, dove i casi di banditismo sono frequenti. Padre Gorini stesso, ricordava nel 2013 un articolo sul quotidiano Daily Nation, si è trovato più di una volta una carabina puntata in faccia mentre, sdraiato a terra, ascoltava i banditi chiedergli soldi. La scuola vanta uno dei migliori insegnati di fisica del Kenya secondo i risultati degli esami di maturità: le sue classi del 2009 e del 2013 hanno ottenuto 11,5 e 11,58 punti sul massimo di dodici del sistema di valutazione keniano. E non solo, la scuola che, come regola, accoglie ragazzi provenienti da famiglei povere, desiderosi di studiare, si piazza ogni anno tra le primissime di tutto il paese.

Tanzania,
a Pawaga contro i danni del clima impazzito

Se le piogge privavano i bambini ivoriani della loro mensa scolastica, in Tanzania non sono state da meno nel rendere dura la vita della gente di Pawaga, villaggio in un’area semi arida a un’ottantina di chilometri dalla città di Iringa, nel centro del paese: a febbraio di quest’anno le piogge, di solito scarse e brevi, sono state così abbondanti da provocare inondazioni e costringere centinaia di persone a sfollare mentre le loro proprietà sono state distrutte. Passate le piogge, l’acqua stagnante ha favorito il moltiplicarsi delle zanzare e i casi di malaria sono aumentati notevolmente rispetto alle medie locali. Per questo padre Vitalis Oyolo, missionario keniano e responsabile dei progetti in Tanzania, ha segnalato la necessità di acquistare e distribuire farmaci antimalarici e zanzariere in modo da contrastare l’espandersi dell’epidemia. A Itundundu, vicino Pawaga, i missionari gestiscono inoltre un dispensario che, grazie al supporto di un donatore statunitense, segue e cura circa 450 bambini malnutriti.

Congo RD,
acqua e salute a Neisu

L’acqua invece non è mai troppa quando si tratta di soddisfare le esigenze di una rete sanitaria come quella dell’ospedale Nôtre Dame de la Consolata di Neisu, nella Provincia Orientale della Repubblica Democratica del Congo, che serve circa settantamila pazienti e conta, oltre alla struttura principale, anche tredici centri e posti di salute, il più lontano dei quali si trova a sessantacinque chilometri dall’ospedale. L’ospedale è costantemente alle prese con situazioni al limite dell’emergenziale: lo scorso aprile David Bambilikpinga-Moke, missionario congolese rientrato in patria dopo anni di lavoro nell’Amazzonia brasiliana e ora responsabile dell’ospedale, scriveva: «In questo momento stiamo registrando una epidemia di malaria in cui la maggior parte dei pazienti sono bambini di meno di dieci anni (attualmente 183). È già la seconda volta in quattro mesi che ci troviamo di fronte a questa situazione».

I centri e posti sanitari hanno un ruolo fondamentale nel raggiungere pazienti che non potrebbero altrimenti affrontare lo spostamento fino all’ospedale. Per il loro corretto funzionamento l’acqua pulita è indispensabile e fra il 2010 e il 2012, grazie ai fondi dell’otto per mille della Tavola Valdese e della Water Right Foundation della Toscana, sei centri hanno potuto avere il loro pozzo, ma ne servono ancora sette per altrettanti centri o posti che ne sono sprovvisti. Due saranno finalmente realizzati entro la fine del 2016.

Brasile,
scuola di diritti a Serrinha

Quasi alla stessa altezza sull’Equatore rispetto a Neisu, ma sull’altra sponda dell’Atlantico, i problemi legati all’acqua e all’istruzione si intrecciano con la resistenza dei popoli indigeni contro chi li vuole, continua a volerli, cittadini di seconda categoria.

La scuola statale Índio Prurumã II si trova nella Terra indigena Raposa Serra do Sol, stato di Roraima, Brasile. È la scuola della comunità indigena Serrinha, conta 85 alunni, nove insegnati e richieste di iscrizione crescenti di anno in anno. Nonostante il riconoscimento pubblico della comunità e della scuola, lo stato non fornisce nessun sostegno concreto alle strutture e alla didattica: un triste espediente, questo, che svuota nei fatti i diritti dei popoli indigeni sanciti per legge. A far pressione sul governo statale in questa direzione sono i grandi latifondisti e gli altri potentati economici del Roraima, peraltro spesso familiari o membri loro stessi della classe politica locale, che vedono nella presenza degli indios semplicemente un fastidioso ostacolo alla possibilità di appropriarsi della terra.

Le scuola aveva solo quattro aule, tutte di fango, lamiera, pali e assi di legno e la comunità non disponeva di fonti d’acqua affidabili e igienicamente sicure. Fra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, inoltre, un’ondata di siccità particolarmente forte aveva messo in difficoltà la popolazione locale, costretta a dipendere gioalmente dall’arrivo delle autobotti inviate dal municipio o a utilizzare fonti d’acqua di fortuna. I progetti in corso, seguiti dal missionario congolese Jean Tuluba, permetteranno di migliorare la struttura delle quattro aule e scavare un pozzo artesiano che serva la scuola e la comunità intorno.

Brasile,
a Maturuca agricoltura biologica e sanità

Maturuca è il cuore della lotta indigena a Raposa Serra do Sol: è lì che si trova la grande maloca comunitaria dove possono riunirsi fino a mille persone provenienti da tutta la regione per unire le forze e le idee nelle loro battaglie. È il luogo della promessa con cui nel 1977 i tuxaua (capi delle comunità) cominciarono la lotta all’alcolismo che fiaccava la determinazione delle loro comunità a opporsi a chi voleva spazzarli via; è stata il punto nevralgico della campagna Indios Roraima del 1988-89 e del progetto ad essa legato, «Una mucca per l’indio», che ha permesso a Raposa Serra do Sol di passare da poche vacche a 42 mila capi di bestiame.

Oggi Raposa si trova a dover consolidare e rafforzare questi risultati per lottare contro la tentazione per i più giovani di spostarsi in città, e per puntare a una sempre maggiore autonomia economica di un’area che rimane isolata e, negli ultimi anni, esposta a cambiamenti climatici che hanno ridotto le piogge e reso più difficile l’agricoltura. A questa sfida cerca di rispondere il progetto di padre Philip Njoroge Njuma, missionario keniano in forza a Maturuca. Il progetto, che si chiama Terra Madre, vuole offrire ai giovani una scuola di formazione all’agricoltura biologica per autoconsumo e vendita e creare un efficiente sistema di irrigazione che permetta di coltivare contando sull’acqua. A questo si affianca poi un altro progetto che permetterà di aprire tre centri sanitari: diverse comunità hanno già provveduto in autonomia alla costruzione del proprio centro ma ci sono ancora aree non raggiunte dai necessari servizi di tutela della salute.

Colombia,
il teatro degli oppressi a Cali

Sempre a minoranze e gruppi vulnerabili è rivolto il progetto «Teatro degli oppressi» che si realizza a Cali, grande città della Colombia occidentale. Qui il keniano padre Venanzio Mwangi Munyiri sta lavorando da anni con i giovani discendenti degli schiavi deportati dall’Africa a partire dalla fine del XVI secolo. La popolazione afro-colombiana ha subito da sempre discriminazioni molto simili a quelle patite dalle popolazioni indigene, alle quali si sommano oggi, in città come Cali, i problemi tipici delle periferie urbane coi le loro sacche di marginalizzazione e povertà.

Questo insieme di condizioni, spiega padre Venanzio, ha indotto negli afro-discendenti un senso di impotenza e rassegnazione alla subalteità che li spinge a ripiegare su metodi di sostentamento degradanti e li espone al reclutamento da parte delle organizzazioni criminali.

Il progetto di sei mesi, a cui contribuiscono anche le amministrazioni locali, prevede una fase di sensibilizzazione delle comunità, la formazione degli animatori e un programma didattico che valorizzzando il teatro aiuti i partecipanti a riscoprire e apprezzare la propria identità e cultura e quella degli altri al fine di crescere nell’accettazione e nel rispetto delle diversità culturali.

Harambee, insieme

Per tutti i progetti la comunità locale ha fornito un contributo: manodopera, vitto e alloggio per gli operai, trasporto dei materiali oppure una parte delle risorse. Il contributo è una combinazione della minga colombiana, del mutirão brasiliano, dell’harambee kenyano o di altre forme di partecipazione comunitaria. Sono termini in lingue diverse che condividono un principio di base: è attraverso il fare insieme che la comunità, oltre a risolvere il problema pratico di procurare risorse, promuove la propria autoconservazione.

Chiara Giovetti




Siccità quest’anno diverso


Etiopia, Swaziland, Brasile, solo per citare i paesi nei quali sono presenti i nostri
missionari. Ma ce ne sono molti altri colpiti dall’ondata di siccità che si è verificata fra la fine del 2015 e i primi mesi del 2016 e che ancora fa sentire i suoi devastanti effetti sulle vite di milioni di persone e sulle economie di molte nazioni.

Il 2015 è stato l’anno più caldo di sempre, o almeno del periodo del quale disponiamo di rilevazioni costanti, cioè a partire più o meno da metà Ottocento. L’anno scorso l’aumento delle temperature è stato di 0,76 gradi centigradi sopra la media che si era registrata fra il 1961 e il 1990 e di un grado pieno rispetto all’epoca preindustriale, cioè antecedente al 1865. A questo si è aggiunto El Niño, un fenomeno climatico ricorrente che ha origine nella fascia tropicale del Pacifico ma che può interessare anche altre parti del globo: nel 2015 si è manifestato in modo particolarmente forte.

Quali siano le relazioni fra El Niño e l’innalzamento della temperatura, se e come possano influenzarsi l’un l’altro e che cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro è qualcosa che la comunità scientifica sta studiando senza approdare, per il momento, a conclusioni definitive. Quel che è certo è che un’ondata di siccità particolarmente impetuosa ha colpito diversi paesi in America Latina e in Africa. Cominciamo dall’Etiopia, che dallo scorso dicembre è l’oggetto di ripetuti appelli delle organizzazioni umanitarie proprio per la quantità di persone che la siccità ha esposto al rischio di carestia.

Etiopia, la peggiore siccità

«Qui siamo benedetti», scrive dall’Etiopia fratel Francisco Reyes, missionario della Consolata e direttore dell’Ospedale di Gambo, in Oromia. «La siccità ci ha risparmiati. I casi di malnutrizione non sono aumentati». Riporta poi Aljazeera che a Jijiga (o Giggiga, in italiano), nella regione Nordorientale del Somali, lo scorso aprile le piogge sono arrivate addirittura in anticipo e sono state particolarmente impetuose, al punto da provocare inondazioni in cui hanno perso la vita ventotto persone.

Ma già a pochi chilometri dall’ospedale di Gambo, o nei dintorni di Jijiga la situazione è ben diversa. Insieme all’Afar, la regione Somali e l’Oromia sono le regioni più interessate dall’ondata di siccità, e di acqua non se ne vede quasi più.

Secondo i dati della «Direzione generale Europea per l’aiuto umanitario e la protezione civile» (Echo), diffusi lo scorso aprile, «l’Etiopia sta sperimentando la peggiore siccità degli ultimi cinquant’anni in seguito al mancato manifestarsi di due stagioni delle piogge». Più di dieci milioni di persone necessitano di assistenza umanitaria immediata; nelle zone più colpite fra il cinquanta e il novanta per cento dei raccolti sono andati perduti e centinaia di migliaia di capi di bestiame sono morti. Gli sfollati interni hanno superato il mezzo milione in un paese che ospita anche 732 mila rifugiati eritrei, somali, sudanesi e sud sudanesi. Decine di migliaia di bambini hanno smesso di andare la scuola.

Cristina Coletto, volontaria in Etiopia dell’Ong Lvia, sul sito della suo organizzazione pubblica aggioamenti sulla situazione in Afar; racconta di livelli dei fiumi sempre più bassi, pascoli scomparsi, animali morti e pessime condizioni del bestiame ancora in vita. «I prezzi di alimenti base, come la farina», continua l’operatrice umanitaria, «sono aumentati a causa della scarsa disponibilità nei mercati locali», ai quali la gente è ora costretta a ricorrere non potendo più contare su risorse proprie. «Quasi 10.000 famiglie, cioè il 3% della popolazione dell’Afar, sono già migrate verso le vicine regioni Amhara, Oromia e Tigray, in cerca d’acqua e pascolo».

«In questa situazione», riferisce il superiore della Visitatoria salesiana dell’Etiopia, padre Estifanos Gebremeskel, al portale di informazione sui temi umanitari

Reliefweb, «aumenta il rischio per molte persone di cadere vittima di trafficanti di esseri umani, di essere sfruttate e schiavizzate».

Molti ricorderanno ancora la carestia etiope del 1984, quella la cui eco internazionale portò a una mobilitazione che ebbe la sua massima risonanza nel Live Aid, il concerto di sensibilizzazione e raccolta fondi organizzato da Bob Geldof a Londra nel luglio del 1985. L’Etiopia oggi non è lo stesso paese; il suo governo, insieme alle agenzie inteazionali, ha fissato a 1,4 i miliardi di dollari necessari per far fronte all’emergenza e si è impegnato a investie 380 milioni. A questi si sono aggiunti, ad aprile, i 120 promessi dalla Commissione europea, mentre la Fao, che aveva stimato in cinquanta milioni i fondi necessari per assistere circa due milioni di persone, ne aveva raccolti poco più di otto. Usaid, l’agenzia governativa americana per lo sviluppo internazionale, ha stanziato 267 milioni di dollari per il 2016 e, ad aprile, riportava che il totale dei fondi destinati dal governo etiope e dalle agenzie umanitarie ammontava a 758 milioni, circa metà del miliardo e quattro richiesto.

Swaziland, prezzi alle stelle

Anche quattromila chilometri più a Sud, nello Swaziland, la situazione non è rosea. A febbraio di quest’anno il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza a causa della siccità. La produzione di mais era già diminuita del trentuno per cento nel 2015 e l’inizio del 2016 ha segnato un peggioramento ulteriore. «I prezzi di cereali, legumi e arachidi», scriveva lo scorso marzo l’amministratore della diocesi di Manzini, padre Peter Sakhile Ndwandwe, «fluttuano normalmente seguendo un andamento stagionale. In genere i prezzi di questi alimenti si impennano poco prima del momento del raccolto. Ma quest’anno è diverso: i prezzi sono altissimi perché per il 95 per cento dei contadini che praticano agricoltura di sussistenza nel paese non è previsto alcun raccolto. Dieci chili di cereali costavano un mese fa 81 Lilangeni (valuta locale, un euro vale 17 lilangeni, ndr). Oggi gli stessi dieci chili costano 120 e continuiamo a registrare aumenti di settimana in settimana. Nel 2013 il prezzo per la stessa quantità di cereali era di 41 emalangeni».

Secondo le stime delle agenzie interazionali raccolte da Reliefweb, ad aprile trecentomila persone – pari a un quarto della popolazione dello Swaziland – aveva urgente bisogno di cibo e acqua, quasi novemila bambini soffrivano di malnutrizione da moderata a grave e sessantaquattromila capi di bestiame erano morti. Le persone in condizioni di insicurezza alimentare rischiano di raddoppiare; la semina, che di solito interessa i mesi di ottobre e novembre, è avvenuta in ritardo di due mesi, cioè molto più a ridosso dell’inverno australe (che corrisponde grossomodo alla nostra estate). Il rischio è che fino alla prossima stagione delle piogge, a ottobre 2016, le condizioni della popolazione swazi non migliorino.

Brasile, El Niño Godzilla

El Niño Godzilla – così lo hanno ribattezzato alcuni media – ha fatto danni anche nell’Amazzoni brasiliana: «Siamo molto preoccupati per la siccità terribile che sta causando la morte del bestiame nella savana e della selvaggina che è bruciata negli incendi forestali», ha scritto ai suoi amici nella lettera di Pasqua 2016 fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata, da Bõa Vista. «Molti ruscelli si sono completamente prosciugati e i villaggi devono spostarsi per poter avere accesso all’acqua. Molti pozzi sono secchi e le piantagioni sono ridotte quasi a zero».

Amazônia Real, agenzia di stampa indipendente brasiliana, riporta le testimonianze di diversi abitanti delle terre indigene Yanomami e Raposa Serra do Sol. «Nei fiumi principali – Uraricoera, Demini e Catrimani – c’è ancora acqua, ma gli affluenti sono secchi, morti», ha detto all’agenzia Dário Kopenawa, cornordinatore delle politiche pubbliche dell’associazione yanomani Hutukara e figlio dello storico leader indigeno Davi Kopenawa Yanomami. Gli incendi sono frequenti e il fumo che invade le aldeias, i villaggi, causa problemi respiratori specialmente ai bambini. Secondo Dário Kopenawa, gli effetti di El Niño si sommano a quelli della distruzione sistematica delle risorse naturali e dei danni ambientali provocati dai cercatori d’oro.

Anche a Raposa Serra do Sol, cinquecento chilometri più a Nord, gli abitanti raccontano di siccità e difficoltà inedite: secondo Geiza Duarte, indigena macuxi, per procurarsi l’acqua necessaria per cucinare e per l’igiene personale, le famiglie camminano per undici chilometri fino alla comunità vicina, dove ancora si trova acqua. Fortunatamente, almeno per Roraima, i nostri missionari ci confermano il ritorno di piogge abbondanti, anche con allagamenti, da aprile.

Rischio rifugiati ambientali?

Anche l’Asia è in difficoltà. In Indonesia, ad esempio, in sedici province su trentaquattro la siccità ha ridotto la disponibilità di acqua e danneggiato la produzione agricola, la pesca e le attività economiche legate alla foresta. Dal novembre 2015 l’Indonesia, terzo paese produttore di riso al mondo, ha iniziato a importare riso per garantire le scorte alla sua popolazione. La siccità, inoltre, ha indirettamente aggravato la piaga degli incendi che hanno distrutto finora due milioni di ettari di foresta, provocando infezioni respiratorie causate dal fumo a oltre mezzo milione di persone. Gli esperti indonesiani calcolano che lo smog generato da questi incendi provocherà perdite economiche per 14 miliardi di dollari fra produzione agricola e foreste danneggiate, danni alla salute, ai trasporti e all’industria turistica.

Davanti agli effetti di questa ondata di siccità, pensando anche agli altri fenomeni climatici che periodicamente infliggono gravi perdite umane ed economiche al pianeta, in molti si chiedono quali saranno in un futuro tutt’altro che lontano le conseguenze in termini di migrazioni umane.

Non esiste una categoria giuridicamente riconosciuta per i rifugiati, o profughi, ambientali. E sul fenomeno della migrazione causata da condizioni ambientali non ci sono statistiche univoche. Tuttavia, a detta dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) il fenomeno sta assumendo una rilevanza che sarà impossibile non tenere in considerazione. Le previsioni future, si legge sul sito dell’Oim, variano dai venticinque milioni al miliardo di migranti ambientali entro il 2050 che si sposteranno sia all’interno del proprio paese che oltre confine, in modo temporaneo o permanente. La cifra più frequentemente citata nelle previsioni è duecento milioni, numero che eguaglia la stima attuale dei migranti inteazionali nel mondo».

Chiara Giovetti




Cinque per mille: un po’ meglio ma non basta


Riprendiamo il dibattito sul cinque per mille per vedere a che punto è arrivato il processo di semplificazione e aumento della trasparenza, auspicato dalla Corte dei Conti, dal 2013 a oggi. La più recente deliberazione della Corte, la 9/2015/G dello scorso ottobre, segnala ancora molti punti irrisolti.

Mancano circa due mesi alla prima delle scadenze per la presentazione della dichiarazione dei redditi (quella cioè relativa al modello 730) e per la contestuale scelta da parte dei contribuenti della destinazione del proprio cinque per mille. L’istituto del cinque per mille gode di parecchia popolarità, che emerge in maniera netta a confronto, ad esempio, con la destinazione del due per mille ai partiti politici, opzione introdotta dal 2014. Quest’ultima ha riscosso un ben più misero successo – poco più di un milione di contribuenti, contro gli oltre diciassette milioni che sottoscrivono il cinque per mille – e un ben più magro bottino: 9,6 milioni di euro contro i quasi 390 milioni del cinque per mille. Il primo beneficiario del cinque per mille, l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, incassa da sola quasi sei volte tanto tutti i partiti messi insieme.

La Corte dei Conti, ente di controllo della gestione delle risorse pubbliche, è intervenuta con tre deliberazioni (nel 2013, 2014 e 2015) per analizzare il funzionamento del meccanismo del cinque per mille e per evidenziae diverse storture: ne avevamo parlato nel giugno 2015 (Cinque per mille, la lunga strada verso la chiarezza). Vediamo a oggi che cosa è stato corretto e che cosa invece, a detta dei magistrati contabili, resta ancora da fare.

Stabilizzazione e elenchi dei beneficiari, un passo avanti

Stabilizzazione. Il cinque per mille è stato introdotto con la legge finanziaria del 2006 «a titolo iniziale e sperimentale»; è rimasto un istituto provvisorio fino due anni fa, quando la legge 190 del 23 dicembre 2014 ne ha sancito la stabilizzazione, cioè lo ha reso un contributo certo e non più soggetto a rinnovo di anno in anno mediante introduzione nella legge di stabilità. Inoltre, il tetto di spesa – cioè la somma massima che il governo si impegna a erogare per il totale dei contributi – è aumentato da 400 a 500 milioni di euro.

Elenco enti. Altra spunta all’elenco delle cose da fare è quella relativa alla lista totale degli enti ammessi in una o più categorie di beneficiari fino al 2013, che l’Agenzia delle entrate ha pubblicato sul proprio sito, insieme a un motore di ricerca che rende possibile individuare i soggetti beneficiari cercando per denominazione, codice fiscale o provincia.

Trasparenza. Infine, un parziale miglioramento della trasparenza si è registrato, a partire dal 2015, anche nella casella dei beni culturali e paesaggistici: ora è infatti precisato che il cinque per mille di chi sceglie questa opzione va a organismi privati, mentre la dicitura precedente poteva portare il cittadino a pensare che il suo contributo andasse al ministero per i Beni, le Attività culturali e il Turismo (Mibact) o ad altri enti pubblici.

Quel che ancora non va

Ma la lista dei provvedimenti presi, purtroppo, si ferma qui. Molto più lunga è quella delle storture rilevate già nelle precedenti sentenze e non ancora corrette.

Intermediari. La prima sulla quale insiste la deliberazione è quella delle irregolarità nei comportamenti degli intermediari, di coloro, cioè, che assistono i contribuenti nella compilazione dei modelli. L’Agenzia delle entrate ha avviato, su richiesta della Corte dei Conti, una serie di controlli sui Caf, i centri di assistenza fiscale. I Centri presi in esame sono stati: il Caf Mcl, il Caf Acai, il Caf Servizi di base, il Caf Anmil e il Caf Acli e il risultato degli interventi di vigilanza ha mostrato che nel 3,7 per cento dei casi esaminati «le scelte del contribuente non risultano trasmesse correttamente dal Caf».

Più trasparenza. Secondo la Corte, alla stabilizzazione dell’istituto non si è ancora accompagnata una sua riorganizzazione: c’è ancora molto da fare, ad esempio, riguardo alla trasparenza. Strumenti utili a questo fine, ripetono i magistrati contabili, sarebbero la pubblicazione dei bilanci, una più uniforme e chiara rendicontazione delle somme ottenute, e anche meccanismi «per espellere gli organismi non meritevoli della fiducia accordata dai contribuenti» nel caso di omessa o non adeguata rendicontazione.

Selezione. Serve anche una maggior selezione degli enti. Secondo la Corte, infatti, «benché il proliferare dei beneficiari esprima la frammentazione dei bisogni della società contemporanea», occorre una più rigorosa selezione dei beneficiari per «non disperdere risorse per fini impropri: i fruitori, infatti, superano ormai il numero di 50mila».

La Corte si riferisce in particolare alle tante onlus ed enti di volontariato che ottengono meno di 500 euro e a quelli che non hanno avuto nemmeno una scelta, e ribadisce l’effetto distorsivo per cui le organizzazioni che possono contare sul sostegno di contribuenti facoltosi ottengono importi rilevanti anche con un numero molto basso di firme. La Corte, insomma, non prende di mira la frammentazione in sé, ma quanti tradiscono le intenzioni del legislatore e lo spirito dell’istituto, non producendo un effettivo «valore sociale». Una critica che si estende anche agli enti beneficiati da chi sceglie di supportare la cultura: i «rilevantissimi tagli di bilancio» che il Mibact ha subito negli ultimi anni, recita la deliberazione, dovrebbero indurre a un utilizzo delle risorse del cinque per mille a favore dello Stato e degli altri enti pubblici; invece queste risorse vengono dirottate su enti privati «che sviluppano, peraltro, spesso, progetti non di particolare interesse per i contribuenti».

Lentezza cronica. Pure sulla rapidità nell’accredito delle quote c’è ancora molto da migliorare: nel 2015 la pubblicazione delle quote assegnate (relative all’anno fiscale 2013) è avvenuta a metà maggio, risultando quindi più lenta rispetto agli anni precedenti. Concentrare i pagamenti in capo a un’unica struttura, insiste la magistratura contabile, potrebbe velocizzare i tempi. Oggi, a essere coinvolti sono diversi ministeri e l’Agenzia delle entrate che comunicano fra di loro in modo non abbastanza efficiente.

Anagrafe unica. Resta ancora da realizzare «l’unione in una sola anagrafe degli albi, degli elenchi e dei registri attualmente presenti». In più sarebbe auspicabile un «database pubblico con dati provenienti dall’Agenzia delle entrate, dalle Camere di commercio, dal Coni e dalle altre amministrazioni coinvolte, che consenta di valutare più compiutamente l’operato degli enti con finalità sociali».

Come sempre, spetta al legislatore recepire e applicare le raccomandazioni della Corte. E il legislatore, ricorda la deliberazione, è al lavoro sulla riforma del terzo settore, dell’impresa sociale e del servizio civile universale (e sulla sua successiva attuazione), che «annuncia importanti novità in materia di cinque per mille attraverso una riforma strutturale di questo istituto».

Le polemiche sulle campagne promozionali

Al di là degli aspetti legislativi e contabili, il cinque per mille torna ogni anno al centro del dibattito sull’uso delle immagini e sull’aggressività delle campagne per convincere i contribuenti ad aderire. Nel febbraio 2016, la rivista «Africa» è tornata (duramente) sull’argomento riferendosi in particolare alle organizzazioni che operano nel Sud del mondo: «Si è aperta la caccia al 5 per mille degli italiani. Come ogni primavera, migliaia di onlus e Ong sono impegnate a convincere i contribuenti con campagne che toccano le corde emotive (…). Ripescare il crudele cliché dello scheletrino africano ha sempre una presa forte sul pubblico che, impietosito, allarga i cordoni del borsellino e dona all’associazione». La rivista dei padri bianchi invita «tutti coloro che condividono questa battaglia a scegliere di destinare il proprio 5 per mille solo a chi non fa un uso delle immagini dei bambini lesivo dei loro diritti».

Contro la «pornografia del dolore» anche Mco si è schierata chiaramente da queste pagine sul primo numero di questo 2016. Sembra che il vecchio adagio «il fine giustifica i mezzi» sia davvero duro a morire. Non solo in certe Ong e onlus, ma anche nella testa di certi missionari, di più o meno vecchio stampo, che, eccessivamente preoccupati di far quadrare i conti dei «loro» pur santi progetti, in questa situazione di crisi non vanno troppo per il sottile per fidelizzare i loro benefattori.

Il 5×1000 a Mco

Questo resoconto di storture, ritardi e polemiche, per di più con tanto linguaggio «burocratese», non è esattamente un assist da campioni per chiedervi di destinare a Mco il vostro cinque per mille, lo sappiamo.

Ma la verità è che noi non siamo dei maghi della comunicazione. Perché siamo figli di un Fondatore che ci ha detto di «fare bene il bene» (e fin qui tutto bene), ma anche di «farlo senza rumore».

E allora, sì, metteremo qualche foto, qualche richiamo, qualche pagina sulla rivista, e quel fastidiosissimo pop up che troverete sul sito. Ma nulla di più… rumoroso.

La verità è che non ci piace l’idea che a convincervi sarà, o sarebbe, una bella campagna e qualche bella foto all’ultimo minuto.

Preferiamo pensare di avervi persuasi durante tutto l’anno, con i nostri progetti, i nostri articoli, le nostre adozioni a distanza, l’informazione che condividiamo sui social. O, ancora di più, di avervi convinto in oltre cent’anni di lavoro sul campo, come si dice in gergo, o in missione, come viene più facile dire a noi.

Anche perché, se non vi abbiamo convinti così, non c’è testimonial Vip che tenga.

Quel che più di tutto ci piace pensare è che non solo vi abbiamo persuaso, ma soprattutto vi convinceremo ancora attraverso quello che realizzeremo grazie a voi. E lo diciamo in anticipo: «Grazie. A voi».

Chiara Giovetti




Kenya lago Turkana vento di sviluppo


La zona intorno al lago Turkana è la più povera e lasciata a se stessa del Kenya. Da qualche anno a questa parte, però, qualcosa è cambiato: un giacimento di petrolio, il progetto dell’impianto eolico più grande d’Africa, la diga sul tratto etiope del fiume Omo, un enorme bacino sotterraneo d’acqua hanno portato l’area al centro dell’attenzione. E davanti a una sfida decisiva.

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Quando si cerca di descrivere Loiyangalani, villaggio «dalle molte piante» sulle rive del lago Turkana, è facile venire colti dall’ansia da prestazione. D’istinto, viene voglia di cercare una combinazione di parole originale, unica e definitiva per un posto che non ha niente di già visto, per un posto che somiglia solo a se stesso. Qualcuno parla di paesaggio lunare, altri dell’angolo remoto di mondo dove Dio ha accatastato tutti i sassi che erano avanzati dalla creazione, altri ancora di tempo sospeso, promemoria per un’umanità che dovrebbe ricordarsi da dove viene.

Forse l’unica operazione davvero onesta è quella della semplice elencazione: montagne di pietre nere, colline di roccia marrone, sabbia ocra, sassi bianchi, l’acqua del lago: turchese la mattina, verde petrolio a mezzogiorno, blu turbante di tuareg la sera. Donne turkana coperte di rosso e di collane di perline, pochissimi uomini, almeno durante il giorno, perché la gran parte sono fuori dal villaggio col bestiame. Capanne a forma di igloo di paglia gialla, ghiaia grigia, chiazze di erba cresciuta dove il sole s’è distratto, dimenticandosi di seccarla. Capre, cammelli, zebù, qualche asino. Le acacie, quelle sì identiche ovunque, capaci di crescere anche fra i sassi, testarde e indifferenti. L’antenna  bianca e rossa della rete cellulare, rare casette squadrate di cemento.

Un elenco, certamente non completo, per descrivere un luogo speciale.

Le piaghe: siccità, conflitti, analfabetismo

Quel che è certo, invece, è che la zona intorno al lago Turkana è la più povera del Kenya. Tanto per cominciare, è collegata malissimo con il resto del paese: da Nairobi a Loiyangalani, occorrono tre giorni di 4×4, due per i più audaci; gli abitanti della zona parlano di «andare in Kenya» quando si accingono a uscire dal loro distretto.

La parte a Ovest del lago, la Turkana County, e quella a Est, la Marsabit County, hanno tassi di povertà del 94 e del 91 per cento. Seicentomila persone vivono con meno di 1.562 scellini keniani al mese (circa 15 euro) nelle zone rurali, e 2.913 (circa 30 euro) nelle zone urbane. Con trenta gradi d’inverno e quarantacinque d’estate, frequenti ondate di siccità e qualche rara ma devastante inondazione, la popolazione della zona vive prevalentemente di pastorizia, integrata con la pesca. Il tasso di analfabetismo è intorno all’85 per cento (96 per le donne), quello di infezione da HIV oltre l’undici per cento, circa il doppio di quello nazionale. Gli scontri fra gruppi etnici, connessi principalmente ai furti di bestiame e alle conseguenti rappresaglie, non hanno mai assunto le dimensioni di un conflitto su ampia scala, ma hanno accompagnato la storia della convivenza nell’area da tempo immemorabile, con tutti i morti e i feriti che inevitabilmente si contano in un luogo dove anche una banale ferita come un taglio può essere fatale, vista la carenza di centri sanitari. Qualcuno calcola che ogni maschio, dai 17 anni in su, abbia un AK47 e il banditismo è un fenomeno tutt’altro che sconosciuto.

Questo è il contesto, già di suo non certo facile, sul quale si sono innestate negli anni Dieci di questo secolo una serie di scoperte e di eventi che mettono il Turkana davanti a un bivio: da una parte la strada del salto di qualità, dall’altra quella della distruzione senza appello.

Acqua che viene, acqua che va

Nel 2013 il governo del Kenya e l’Unesco hanno annunciato che la ricerca da loro condotta con finanziamenti giapponesi ha portato alla scoperta nella Turkana county (dall’altra parte del lago rispetto a Loiyangalani) di un enorme riserva sotterranea di acqua. Si tratta di due bacini, uno vicino alla città di Lotikipi e l’altro, molto più piccolo, a Lodwar (capitale della county e sede della diocesi). Solo Lotikipi dispone, a una profondità di circa trecento metri, di oltre duecento miliardi di metri cubi, pari a circa nove volte le riserve totali del Kenya. Lo sfruttamento delle risorse idriche, una volta portata l’acqua in superficie, sarebbe anche sostenibile, perché il bacino ha un rifoimento annuale spontaneo più che sufficiente – 3,4 miliardi di metri cubi – grazie all’acqua proveniente dalle montagne dell’Etiopia. A fronte di un consumo annuale di acqua pari a 2,7 miliardi di metri cubi all’anno per tutto il paese, la stima è che il bacino garantirebbe acqua all’intero Kenya per settant’anni.

Ma il condizionale è ancora d’obbligo. Intanto perché il trovare l’acqua e il renderla disponibile, con tutto l’investimento in perforazioni e infrastrutture connesso, sono due cose molto diverse. E poi perché nel marzo 2015 alcuni test su pozzi scavati a Lotikipi hanno rivelato che l’acqua è troppo salina per il consumo umano, almeno secondo il Rift Valley Water Services Board, e dovrebbe quindi subire un lungo e costoso processo di desalinizzazione. Altre fonti suggeriscono invece che i rapporti basati sui test sono troppo pessimistici, che in altri pozzi il grado di salinità sarebbe molto inferiore e che comunque l’acqua sarebbe adatta almeno per usi agricoli e per abbeverare il bestiame.

Mentre le ricerche per stabilire la fruibilità di quest’acqua sono ancora in corso, gli effetti di un altro mega-progetto idrico, stavolta in un paese confinante, rischiano invece di essere drammatici. La diga Gibe III sul fiume Omo, in Etiopia, è entrata in funzione lo scorso ottobre. Secondo Addis Abeba, la diga dovrebbe aumentare del 234 per cento la produzione elettrica etiope: 1.870 megawatt che andranno ad alimentare le ambizioni industriali nazionali e ad aumentare l’esportazione di energia all’estero. Regolando il flusso del fiume, inoltre, la diga servirà i progetti di irrigazione su larga scala che il governo etiope intende realizzare nella vallata dell’Omo.

Ma, avverte Survival inteational, l’Omo fornisce al lago Turkana circa il novanta per cento delle sue acque e l’irrigazione in Etiopia potrebbe ridurre della metà l’afflusso idrico facendo abbassare il Turkana di venti metri. Il danno per l’ecosistema sarebbe pesantissimo, inducendo non solo una drastica riduzione della disponibilità di pesce ma anche un inasprirsi della siccità che porterebbe a ulteriori conflitti, anche transfrontalieri, fra le migliaia di pastori della zona in cerca di acqua per gli animali.

Le promesse non mantenute del petrolio

A complicare ulteriormente il quadro è arrivata, nel 2012, la scoperta di un giacimento di petrolio – dalla capacità quantificata in seicento milioni di barili – fra Lokichar e Lodwar, nell’area a Ovest del lago.

La multinazionale anglo-irlandese Tullow Oil, insieme alla compagnia partner canadese Africa Oil e, più di recente, alla danese Maersk, prevede di cominciare lo sfruttamento commerciale dei pozzi nel 2020 ma, a dar retta al quotidiano online Business Daily, il governo keniano sta spingendo per anticipare i tempi. In ballo, funzionale all’esportazione di petrolio, c’è la costruzione dell’oleodotto Lapsset (Lamu Port Southe Sudan-Ethiopia Transport), che collegherebbe il porto di Lamu (sull’Oceano Indiano), alla città di Isiolo, nel centro del Kenya, per biforcarsi poi in due bracci, uno diretto in Etiopia e l’altro in Sud Sudan e Uganda.

Mentre la Tullow Oil si è affrettata fin dal 2012 a pubblicizzare sul proprio sito i progetti di cooperazione che sostiene nell’area del giacimento e a istituire borse di studio per studenti keniani, sul campo le difficoltà non hanno tardato a manifestarsi. In un articolo dello scorso luglio, l’Economist raccontava delle diffidenze fra le compagnie petrolifere, che lamentano la difficoltà a trovare localmente personale qualificato, e la comunità locale, che teme di essere «scippata» degli impieghi migliori a favore di personale proveniente da altre aree, e minaccia ricorsi contro i possibili danni ambientali.

Nel 2013, un gruppo di quattrocento lavoratori ha attaccato gli impianti di trivellazione chiedendo più lavoro e più benefici, mentre nel 2014 il crollo del prezzo del petrolio ha indotto un altro ridimensionamento, almeno nell’immediato, delle speranze delle popolazioni del Turkana: finché il greggio resta sotto i 70 dollari al barile, stimano gli esperti, non è conveniente continuare le operazioni di estrazione. E infatti la Tullow negli ultimi mesi ha decisamente spinto sul freno.

Il vento dello sviluppo

Se il petrolio frena, il vento accelera: il mega-progetto della wind farm, il parco eolico, sarà completato entro ottobre 2016, annuncia la Kenya Electricity Transmission Company (Ketraco), che sta supervisionando i lavori di costruzione. La Lake Turkana Wind Power Limited, consorzio titolare del progetto prevalentemente composto da aziende private nordeuropee, prevede di produrre i primi 50 megawatt a settembre, mentre i 310 megawatt totali dell’impianto a pieno regime saranno immessi nella rete elettrica kenyana entro luglio 2017.

Siamo ora sulla riva orientale del lago Turkana, a una quarantina di chilometri da Loiyangalani. Qui verranno installate 365 turbine con una capacità di 850 kilowatt ciascuna su una superficie di circa 160 chilometri quadrati, per un costo complessivo vicino ai 700 milioni di dollari: l’investimento privato più consistente nella storia del Kenya indipendente, capace di fornire al paese circa un quarto dell’energia di cui ha bisogno. Il Turkana è particolarmente indicato per lo sfruttamento dell’energia eolica, poiché il vento in questa zona permette di raggiungere un fattore di capacità – cioè il rapporto fra l’energia effettivamente prodotta e quella che l’impianto è capace di produrre in condizioni ottimali costanti – del 62 per cento, contro il 25-35 per cento degli altri impianti. La Banca Mondiale, all’inizio fra i sostenitori del progetto, si è sfilata nel 2012 dopo avere sollevato dubbi sulla capacità del sistema kenyano di assorbire davvero tutta quell’energia, sottolineando il rischio per i consumatori di pagare annualmente l’equivalente di cento milioni di dollari per elettricità di fatto non utilizzata.

Nessuno dei membri del consorzio, per la verità, ha fatto una tragedia del ritiro della Banca, anzi, pare che alla Ketraco qualcuno abbia perfino commentato: meglio così, tanto creava solo inutili ostacoli. Tanto più che, se ancora c’erano dubbi sull’affare rappresentato dal parco eolico, ci ha pensato Google a fugarli, buttando sul piatto quaranta milioni di dollari per riservarsi il 12,5 per cento delle quote una volta che l’impianto sarà funzionante. Il colosso statunitense ha così voluto ribadire il suo interesse per le energie sostenibili e, ovviamente, anche per l’opportunità di aumentare i propri clienti, dal momento che elettricità e Inteet vanno a braccetto.

Pro e contro

Anche nel caso del parco eolico non mancano le perplessità e i contrasti, a cominciare dalle difficoltà di comprensione del progetto da parte della popolazione locale nella fase iniziale delle consultazioni. In più ci sono anche ricorsi legali da parte dei rappresentanti comunitari contro le violazioni del diritto alla terra (soprattutto per garantire il diritto di pascolo) nelle aree dove saranno installate le turbine. A questo si aggiungono poi – come per gli impianti petroliferi – le aspettative non sempre soddisfatte delle comunità riguardo alla creazione di nuovi posti di lavoro (i locali non sono preparati per un lavoro così diverso dalla pastorizia e dalla pesca), l’arrivo di personale esterno e l’incremento del flusso turistico grazie a strade migliori, con tutto quello che ne consegue in termini di aumento dei prezzi, incidenza di malattie sessualmente trasmissibili e impatto complessivo su una comunità finora fortemente isolata.

Da ultimo, a complicare la situazione, ci sono i contrasti sulla spartizione dei benefici tra la Marsabit county (con i Turkana e altre etnie) e la Samburu county (prevalentemente Samburu) che condividono gli incerti confini proprio nell’area del wind park.

Progetti come questi, come minimo inducono un miglioramento dal punto di vista delle infrastrutture, a cominciare dalla costruzione delle strade e, come dice un  leader comunitario citato dal Guardian, «offrono ai bambini una scelta che i loro padri e nonni non hanno avuto». Ma è proprio su questo che si gioca la partita: se non ci sarà una chiara ed equa ripartizione dei benefici e un coinvolgimento reale delle comunità, il Turkana non sarà un modello di sviluppo per tutta l’Africa ma un incubo fatto di sfruttamento, devastazione degli ecosistemi e migrazione forzata di migliaia di persone verso le già affollate e dolenti periferie urbane.

Chiara Giovetti