L’ad gentes della cooperazione

testo di Chiara Giovetti |


Salute mentale in Costa d’Avorio, biogas per le scuole del Kenya, rifugiati venezuelani in Brasile. Sono tre degli ambiti nei quali i missionari della Consolata si impegneranno in questo 2020,  cercando di coniugare la più che centenaria esperienza di lotta alla povertà con gli attuali temi dell’inclusione e dell’ambiente.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

1. Costa D’Avorio

La malattia mentale, terra di nessuno della sanità

«Si può dire che i malati mentali siano l’ad gentes del mondo della salute: quelli che nessuno ha ancora avvicinato, di cui nessuno vuole occuparsi». Padre Matteo Pettinari, missionario italiano che lavora a Dianra, Costa d’Avorio, usa questa immagine per sottolineare come la salute mentale sia ancora un ambito inesplorato e ai margini, così come ad gentes indica appunto la missione che si rivolge a chi ancora non è stato raggiunto dall’annuncio del Vangelo.

Insieme ai confratelli padre Ariel Tosoni, argentino, e padre Raphael Ndirangu, kenyano, padre Matteo ha avviato un dialogo con la sanità pubblica ivoriana, in particolare con il professor Asséman Médard Koua, direttore dell’ospedale psichiatrico di Bouaké – struttura sanitaria che si occupa della salute mentale di tutta la regione settentrionale del paese – e con la sua équipe. «L’ospedale in cui il professor Koua lavora», spiega padre Ariel, «dovrebbe gestire i pazienti psichiatrici di un bacino d’utenza pari a undici milioni di persone».

Numeri in linea con quelli riportati sul sito di Samenta-com@, il progetto di salute mentale comunitaria lanciato dal ministero della Salute e igiene pubblica ivoriano e dalla tedesca Mindful-Change-Foundation.

In Costa d’Avorio, si legge sul sito, a partire dal 2002 la popolazione è stata colpita psicologicamente e socialmente dalle varie crisi, cioè dai disordini e conflitti che hanno scosso il paese nel primo ventennio del XXI secolo. L’offerta e l’accesso alle cure per la salute mentale sono limitati: due ospedali psichiatrici pubblici e circa trenta psichiatri per oltre 26 milioni di abitanti.

Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, le persone colpite da disturbi mentali e neurologici sono presenti in tutte le regioni del mondo, in tutti i contesti sociali e in ogni fascia d’età, indipendentemente dal livello di reddito dei loro paesi. A livello mondiale, il peso di questi disturbi sul carico complessivo delle malattie è del 14%; nei paesi a basso reddito tre su quattro pazienti affetti da tali disturbi non hanno accesso alle cure di cui hanno bisogno.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

«Chi li aiuterà se non voi?»

In Costa d’Avorio esiste un coordinamento chiamato Urss-Ci, acronimo di Unione dei religiosi e delle religiose nella salute e nel sociale in Costa d’Avorio, del quale i missionari della Consolata sono parte. «Il professor Koua ci ha avvicinato in quanto membri Urss-Ci», spiegano ancora i padri Matteo, Ariel e Raphael. «La sanità pubblica fatica a seguire questi malati, ci ha detto il medico: se anche voi religiosi impegnati nell’ambito sanitario restate prigionieri di timori e remore e li rifiutate, allora chi li aiuterà?».

A questo primo dialogo è succeduta poi una sessione di formazione che lo psichiatra ha tenuto al centro sanitario Beato Joseph Allamano (Csja) di Dianra, gestito dai missionari della Consolata, e l’avvio di una collaborazione che ha coinvolto anche il neonato Distretto sanitario di Dianra per mezzo del suo direttore.

Sono già attivi alcuni servizi che permettono di seguire pazienti affetti da epilessia e da malattie psichiatriche: tutte persone che la comunità emargina perché le considera possedute.

«Fin dalla prima visita del professor Koua al centro sanitario», racconta padre Matteo, «abbiamo toccato con mano l’urgenza di fornire servizi in questo ambito. Noi missionari non avevamo fatto preventivamente una grande pubblicità alla cosa. Avevamo giusto segnalato, durante la messa e nelle comunità di base, che sarebbe venuto un medico specializzato in salute mentale e che, se qualcuno conosceva persone con disturbi di questo tipo, poteva farle venire per una consultazione: si sono presentate 72 persone solo il primo giorno».

Oggi il centro di Dianra lavora applicando un protocollo e utilizzando schede fornite da Samenta-com; offre consultazioni ai pazienti per identificarne con precisione, sulla base di una serie di domande contenute nelle schede, il tipo di disturbo e definire poi la terapia.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

Formare operatori

ll 2020 sarà dunque l’anno in cui si penserà a come dare maggior forma, struttura ed efficacia a questa collaborazione appena partita e già così significativa. «Certo», riconoscono i missionari di Dianra, «non possiamo fare un centro psichiatrico. Ma se già con la formazione del nostro personale sanitario siamo in grado di accompagnare diverse di queste persone che prima erano lasciate ai margini, perché non pensare a uno spazio piccolo e semplice da costruire – ad esempio un appatam, la versione locale della paillote – che diventi una sorta di centro dove i pazienti possano svolgere attività diurne?».

Lo spazio, per come lo stanno concependo i missionari, potrebbe ospitare corsi di teatro, danza e varie forme di arte-terapia che vanno dalla pittura alla musica e alla scrittura, e diventerebbe un luogo dove, anche grazie all’aiuto di volontari, si ferma la dinamica di emarginazione e ci si sforza, viceversa, di invertirla, riavvicinando di nuovo i pazienti psichiatrici al resto della comunità attraverso l’arte come strumento di socializzazione.

Immagini della costruzione dell’impianto di biogas finanziato dalla Caritas italiana nel 2019 (© AfMC/Denis Mwenda)

2. Kenya, il biogas

Energia pulita per le scuole

La ricerca di fonti energetiche rinnovabili resa urgente negli ultimi anni dalla necessità di limitare le emissioni di anidride carbonica ha portato maggior attenzione sulle cosiddette biomasse, di cui fanno parte i rifiuti biodegradabili derivanti dall’agricoltura e dall’allevamento. Il biogas può essere prodotto a partire da questi rifiuti e utilizzando i cosiddetti digestori.

I digestori, spiega la Fao, sono grandi serbatoi in cui il biogas viene prodotto attraverso la decomposizione di materia organica mediante un processo chiamato digestione anaerobica. Sono chiamati digestori perché il materiale organico viene «mangiato» e digerito dai batteri per produrre biogas@.

Nel 2019, una delle strutture educative gestite dai missionari della Consolata in Kenya, la scuola materna e primaria Familia Takatifu (Santa Famiglia) di Rumuruti, in Kenya, ha utilizzato questo metodo per dotarsi del gas necessario a soddisfare il fabbisogno di energia della cucina che serve gli oltre 700 allievi della scuola.

Il progetto, finanziato da Caritas Italiana nell’ambito del suo programma che sostiene ogni anno centinaia di microprogetti nel mondo, si è concluso lo scorso gennaio e ha visto diverse fasi: lo scavo dello spazio dove collocare il digestore, la costruzione di quest’ultimo in cemento, l’introduzione della biomassa nel digestore, la sua messa in funzione per la produzione di biogas e l’installazione nelle strutture della scuola di un impianto in grado di portare il gas dal punto dove viene prodotto alla cucina.

Immagini della costruzione dell’impianto di biogas finanziato dalla Caritas italiana nel 2019 (© AfMC/Denis Mwenda)

I vantaggi del biogas

«La scuola ora usa il sistema a biogas per la cottura dei cibi, la bollitura dell’acqua e anche, in parte, per l’illuminazione», riporta il responsabile di progetto padre Denis Mwenda Gitari. «Il residuo prodotto, inoltre, si può usare come fertilizzante per l’orto della scuola e», conclude il missionario, «il biogas ci permette ora di risparmiare sui costi necessari a garantire la qualità e la continuità delle attività scolastiche».

Già nel 2013 a Familia ya Ufariji, la casa per i ragazzi di strada che i missionari della Consolata gestiscono nella capitale Nairobi, si era installato un biodigestore che usava scarti e rifiuti della struttura integrati con quelli derivanti dall’allevamento di sei mucche e tre vitelli@. Nel corso del 2020 si tenterà poi di portare il biogas anche nella scuola primaria di Mukululu.

Le tecnologie per la produzione di questo tipo di energia si sviluppano continuamente e cercano di adattarsi alle esigenze e al potere d’acquisto delle comunità rurali dove vengono utilizzate. Il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo delle Nazioni Unite (Ifad) promuove, nel suo portale dedicato alle soluzioni per lo sviluppo rurale individuate dalle comunità locali@ , un sistema per la produzione di biogas che è più flessibile@ perché utilizza plastica e non cemento per costruire digestori trasportabili, facili da installare e rapidamente produttivi.

Costruzione dell’impianto di biogas per la scuola Familia Takatifu a Rumuruti (© AfMC/Denis Mwenda)

 


3. Boa vista

La migrazione venezuelana

La situazione politica ed economica del Venezuela non ha ancora smesso di spingere migliaia di persone a emigrare. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati parla di 4 milioni e mezzo di migranti e rifugiati Venezuelani nel mondo@.

Alimentação crianças – alimentazione dei bambini (© AfMC/Jaime Patias)

Il reportage di Marco Bello e Paolo Moiola, di cui nel numero scorso di MC è uscita la prima puntata@ – vedi questo MC pag. 10 -, ha raccontato la vita dei migranti venezuelani arrivati nello stato brasiliano di Roraima e, in particolare, delle oltre 630 persone che vivono in uno spazio occupato e autogestito a Boa Vista. Ka Ubanoko, questo il nome dello spazio, ospita 150 famiglie indigene in prevalenza di etnia warao, ma ci sono anche gruppi E’ñepa, Cariña, Pemon e 76 famiglie non indigene.

Un’équipe itinerante di missionari della Consolata assiste questi rifugiati e migranti: da fine luglio 2019, cento bambini e venti adulti hanno cominciato a ricevere ogni martedì e venerdì un pasto preparato sul posto da volontari. I fondi per l’intervento sono venuti da donatori privati che sostengono direttamente l’Istituto missioni Consolata (Imc), da benefattori della città di Boa Vista e da alcune parrocchie del Sud del Brasile più sensibili alla situazione dei migranti e dei rifugiati.

Dallo scorso dicembre, grazie al sostegno di un donatore statunitense, è stato possibile intensificare e stabilizzare il programma di lotta alla malnutrizione, estendendolo a 12 mesi (cioè per tutto il 2020) e aumentando fino a 150 i bambini e a trenta gli adulti assistiti.

(© AfMC/Jaime Patias)

Bambini sradicati

«Una delle conseguenze più preoccupanti di questa situazione», riportava lo scorso autunno il consigliere generale Imc, padre Jaime Patias, al rientro dalla sua visita a Ka Ubanoko, «è che questi bambini, completamente sradicati, non riceveranno per mesi, forse per anni, alcuna forma di istruzione». Uno dei rischi connessi alla crisi venezuelana, in altre parole, è quello di far crescere una generazione di giovani privi di formazione e di competenze, limitando molto le loro possibilità di contribuire in modo attivo alla ricostruzione del loro paese.

Alimentação crianças – alimentazione dei bambini – volontari al lavoro per preparare il cibo (© AfMC/Jaime Patias)

Per questo, prima del pasto, i bambini seguiti dall’équipe missionaria ricevono almeno una formazione civico-sociale. Nel corso del 2020 si valuterà la fattibilità di un intervento il cui obiettivo sia quello di fornire a questi bambini una formazione più continua e strutturata.

Chiara Giovetti




Qual buon «Venti»

testo di Chiara Giovetti |


Nel 2020 arrivano a scadenza o vengono lanciate diverse iniziative internazionali che riguardano lo sviluppo, l’ambiente, il clima. È anche l’anno internazionale delle piante e di un importante compleanno dell’Onu.

Nel 2020 le Nazioni unite compiranno tre quarti di secolo. L’Onu nacque infatti ufficialmente 75 anni fa, il 24 ottobre 1945, con l’entrata in vigore della «Carta delle Nazioni unite», il suo trattato fondativo.

Per celebrare la ricorrenza, ha annunciato il segretario generale António Guterres, l’Onu lancerà un dibattito che si chiamerà Un75@ e sarà «la più ampia e approfondita conversazione globale mai realizzata sulla costruzione del futuro che vogliamo». Tutti possono partecipare, si legge sul sito, in modo formale o informale, online o no.

Nel contempo saranno condotti sondaggi di opinione e analisi dei mezzi di comunicazione a livello globale, così da ottenere dati statisticamente significativi per diffonderli e portarli all’attenzione dei leader mondiali.

Fra le questioni più urgenti che il dibattito affronterà vi sono le nuove tecnologie con tutte le loro opportunità e i pericoli, il modo in cui si sono evoluti i conflitti e come affrontarli, l’aumento delle diseguaglianze e la necessità di chiudere la forbice, i cambiamenti demografici – con un pianeta che si prepara a passare dagli attuali 7,7 miliardi di abitanti ai 9,7 del 2050 – e il cambiamento climatico.

Le scadenze

Il programma che contiene in 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (in inglese Sustainable development goals, o Sdg) ha come orizzonte temporale il 2030@.

Per capirci: sarà nel 2030 che il mondo potrà fare una valutazione sul raggiungimento degli obiettivi come si fece nel 2015 per gli Mdg (Millennium development goals, obiettivi del millennio). Tuttavia, ventuno sotto obiettivi, su 169, hanno come scadenza il 2020 (vedi i due box). Di questi, dodici riguardano la biodiversità e sappiamo già che non saranno raggiunti.

Secondo un rapporto del Wwf@, questi dodici obiettivi sono cruciali per il complessivo successo degli Sdg perché riguardano il mantenimento e il ripristino di risorse naturali da cui l’umanità dipende per sopravvivere. Ogni anno, si legge nel rapporto, gli ecosistemi forniscono all’economia globale un valore pari a 125 mila miliardi – una volta e mezzo il Pil del pianeta – sotto forma di acqua potabile, cibo, aria, assorbimento del calore, suoli produttivi, foreste e oceani che assorbono anidride carbonica. Proteggere l’ambiente e ristabilire le risorse naturali, quindi è – letteralmente – una questione vitale. Il cambiamento climatico è poi un altro tema centrale del nostro tempo e promette di prendere quest’anno ancora più spazio. È vero che il mondo si è dato tempo fino al 2030 per realizzare un taglio del 45% delle emissioni di anidride carbonica, necessario per contenere l’aumento della temperatura globale sotto il grado e mezzo in questo secolo. Ma, fa presente Mission 2020, il gruppo di pressione guidato dalla ex segretaria esecutiva della «Convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici», Christiana Figueres, se nel 2020 si riuscisse davvero a bloccare il picco delle emissioni (e cominciare quindi a ridurle) questo renderebbe il meno costosa possibile la transizione verso un’economia libera dai combustibili fossili entro il 2050@.

Sempre a proposito dell’impegno per affrontare il cambiamento climatico, alla fine di quest’anno si svolgerà a Glasgow la ventiseiesima conferenza delle parti firmatarie della «Convenzione quadro», o Cop26, che sarà probabilmente la più importante dopo quella del 2015, durante la quale 195 paesi firmarono l’«accordo di Parigi» con il suo piano di azione per mantenere il riscaldamento globale sotto i 2°C. Dal momento che gli impegni presi a Parigi si sono rivelati insufficienti per ottenere il risultato, scrivono gli studiosi dell’Hoffman centre, centro di ricerca della prestigiosa Chatam house, la Cop26 sarà il primo momento di revisione e l’occasione per assumersi nuovi e più ambiziosi impegni@.

L’Unione europea e Horizon 2020

Si conclude con quest’anno anche il programma Horizon 2020, il più ampio programma mai lanciato dall’Unione europea nel settore della ricerca e dell’innovazione. Realizzato negli anni dal 2014 al 2020, ha messo a disposizione circa 80 miliardi di euro «con lo scopo di assicurare che l’Europa produca scienza di livello mondiale, rimuova le barriere all’innovazione e renda più facile la collaborazione fra settore pubblico e privato nel fare innovazione».

Horizon 2020 ha avuto anche una componente legata alla cooperazione internazionale che si è rivolta a paesi in via di sviluppo. Ad esempio, l’Ue ha finanziato partner appartenenti all’Unione africana con quasi 124 milioni di euro (meno dello 0,02% del totale) e i paesi più attivi sono stati Sudafrica, Kenya, Marocco, Tunisia ed Egitto.

Un esempio concreto delle iniziative finanziate è its4land@, un programma che cerca di utilizzare la più recente tecnologia – ad esempio i droni – per la mappatura e la demarcazione delle terre, così da creare le basi per una più oggettiva definizione dei diritti fondiari (la proprietà delle terre), l’incertezza dei quali è così spesso alla base di conflitti in Africa e non solo@.

Horizon 2020 ha anche sostenuto con 6 milioni di euro gli studi clinici sul vaccino contro l’ebola. Il programma di test è guidato dal ministero della Sanità e dall’Istituto nazionale di ricerca biomedicale della Repubblica democratica del Congo e vede la collaborazione di partner internazionali fra cui la London School of Hygiene and Tropical Medicine e Médecins Sans Frontières@.

L’anno delle piante

Il 2020 è inoltre l’«Anno internazionale per la salute delle piante»@, una celebrazione che a detta delle Nazioni unite, rappresenta un’occasione unica «per accrescere la consapevolezza globale su come proteggere la salute delle piante possa aiutare a metter fine alla fame, ridurre la povertà, proteggere l’ambiente e promuovere lo sviluppo economico».

La Fao stima che gli organismi nocivi e le malattie delle piante provochino ogni anno la perdita di circa il 40% delle colture sul pianeta, lasciando milioni di persone prive di cibo e danneggiando l’agricoltura, che rimane la fonte principale di sussistenza delle comunità rurali. Il danno complessivo è stimato in 220 miliardi di dollari in perdite commerciali di prodotti agricoli. Le iniziative dell’anno internazionale si concentreranno perciò principalmente su come evitare che le malattie e i parassiti si diffondano.

Le piante producono l’80% del cibo che mangiamo e il 98% dell’ossigeno che respiriamo, si legge sul sito nella lista dei dati essenziali sulla salute delle piante. Sempre la Fao stima che la produzione agricola debba aumentare del 60% entro il 2050 per nutrire una popolazione mondiale che sarà più numerosa e generalmente più ricca.

Ma a minacciare le piante ci sono il cambiamento climatico e l’innalzamento delle temperature, che riducono la disponibilità di acqua e cambiano le relazioni fra parassiti, piante e patogeni facendo apparire organismi nocivi dove non si erano mai visti prima.

Vi sono anche insetti che risultano benefici per la salute delle piante, perché determinano l’impollinazione, tengono sotto controllo i parassiti, mantengono in salute i suoli e riciclano sostanze nutritive@. Ma l’80% della biomassa degli insetti è sparita negli ultimi 25-30 anni@. con una diminuzione del 2,5% all’anno

 

Il 2020 virtuoso della Liberia e del Gabon

A non sparire ma, al contrario, a crescere rigogliosi dovrebbero essere invece gli alberi della Liberia, che potrebbe diventare nel 2020 il primo paese africano ad essersi liberato del problema della deforestazione. In cambio di 150 milioni di dollari in aiuti allo sviluppo messi a disposizione dalla Norvegia, la Liberia ha infatti accettato nel 2014 di smettere di tagliare gli alberi e di mettere il 30% delle proprie foreste sotto vincolo ambientale. Alla fine del 2020 sarà possibile dire se l’obiettivo è stato effettivamente raggiunto@.

Nel frattempo, la Norvegia ha offerto il proprio aiuto anche al Gabon@. Si tratta sempre di 150 milioni di dollari destinati attraverso un programma delle Nazioni unite che si chiama Redd+ (Reducing emissions from deforestation and forest degradation) e che promuove iniziative in grado di ridurre le emissioni derivanti dalla deforestazione e dal degrado delle foreste.

Chiara Giovetti


SDG generali in scadenza

3.6 Entro il 2020, dimezzare il numero globale di morti e feriti a seguito di incidenti stradali.

4.B Espandere considerevolmente entro il 2020 a livello globale il numero di borse di studio disponibili per i paesi in via di sviluppo, specialmente nei paesi meno sviluppati, nei piccoli stati insulari e negli stati africani, per garantire l’accesso all’istruzione superiore – compresa la formazione professionale, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i programmi tecnici, ingegneristici e scientifici – sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo.

8.6 Ridurre entro il 2020 la quota di giovani disoccupati e al di fuori di ogni ciclo di studio o formazione.

8.B Sviluppare e rendere operativa entro il 2020 una strategia globale per l’occupazione giovanile e implementare il Patto globale per l’occupazione dell’Organizzazione internazionale del lavoro.

9.c  Aumentare in modo significativo l’accesso alle tecnologie di informazione e comunicazione e impegnarsi per fornire ai paesi meno sviluppati un accesso a Internet universale ed economico entro il 2020.

11.B Entro il 2020, aumentare considerevolmente il numero di città e insediamenti umani che adottano e attuano politiche integrate e piani tesi all’inclusione, all’efficienza delle risorse, alla mitigazione e all’adattamento ai cambiamenti climatici, alla resistenza ai disastri, e che promuovono e attuano una gestione olistica del rischio di disastri su tutti i livelli, in linea con il Quadro di Sendai per la riduzione del rischio di disastri 2015-2030.

17.11 Incrementare considerevolmente le esportazioni dei paesi emergenti e, entro il 2020, raddoppiare la quota delle loro esportazioni globali.

17.18 Entro il 2020, rafforzare il sostegno allo sviluppo dei paesi emergenti, dei paesi meno avanzati e dei Piccoli stati insulari in via di sviluppo (SIDS). Incrementare la disponibilità di dati di alta qualità, immediati e affidabili andando oltre il profitto, il genere, l’età, la razza, l’etnia, lo stato migratorio, la disabilità, la posizione geografica e altre caratteristiche rilevanti nel contesto nazionale.

 


SDG ambientali in scadenza

2.5 Entro il 2020, mantenere la diversità genetica delle sementi, delle piante coltivate, degli animali da allevamento e domestici e delle specie selvatiche affini […].

6.6 Entro il 2020 proteggere e ripristinare gli ecosisstemi legati all’acqua, comprese montagne, foreste, paludi, fiumi, falde acquifere e laghi.

12.4 Entro il 2020, raggiungere la gestione eco-compatibile di sostanze chimiche e di tutti i rifiuti durante il loro intero ciclo di vita […].

13.A Rendere effettivo l’impegno […] che prevede la mobilizzazione – entro il 2020 – di 100 miliardi di dollari all’anno, […] e rendere pienamente operativo il prima possibile il Fondo verde per il clima […].

14.2  Entro il 2020, gestire in modo sostenibile e proteggere l’ecosistema marino e costiero […].

14.4 Entro il 2020, regolare in modo efficace la pesca e porre termine alla pesca eccessiva, illegale, non dichiarata e non regolamentata e ai metodi di pesca distruttivi […].

14.5 Entro il 2020, preservare almeno il 10% delle aree costiere e marine […].

14.6 Entro il 2020, vietare quelle forme di sussidi alla pesca che contribuiscono a un eccesso di capacità e alla pesca eccessiva, eliminare i sussidi che contribuiscono alla pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata e astenersi dal reintrodurre tali sussidi […].

15.1 Entro il 2020, garantire la conservazione, il ripristino e l’utilizzo sostenibile degli ecosistemi di acqua dolce terrestri e dell’entroterra nonché dei loro servizi, in modo particolare delle foreste, delle paludi, delle montagne e delle zone aride […].

15.2 Entro il 2020, promuovere una gestione sostenibile di tutti i tipi di foreste, arrestare la deforestazione, ripristinare le foreste degradate e aumentare ovunque, in modo significativo, la riforestazione e il rimboschimento.

15.5 Intraprendere azioni efficaci ed immediate per ridurre il degrado degli ambienti naturali, arrestare la distruzione della biodiversità e, entro il 2020, proteggere le specie a rischio di estinzione.

15.8 Entro il 2020, introdurre misure per prevenire l’introduzione di specie diverse e invasive nonché ridurre in maniera sostanziale il loro impatto sugli ecosistemi terrestri e acquatici e controllare o debellare le secie prioritarie.

15.9 Entro il 2020, integrare i principi di ecosistema e biodiversità nei progetti nazionali e locali, nei processi di sviluppo e nelle strategie e nei resoconti per la riduzione della povertà.




Casa comune, problemi comuni

Testo di Chiara Giovetti | foto di padre Andrés Fernández da Bayenga RD Congo


Nel mondo i popoli indigeni contano circa 370 milioni di persone: il 5% della popolazione mondiale ma il 15% dei poveri del pianeta. Quanto ai migranti, sono circa 300 milioni e uno su dieci è un rifugiato o richiedente asilo.

L’equazione è piuttosto semplice: i popoli indigeni proteggono con la loro stessa presenza l’ambiente naturale in cui vivono, a cominciare dalla foresta. Se i popoli indigeni scompaiono, anche le foreste scompaiono e i disastri ambientali aumentano. Su tutto il pianeta. Anche nel cortile di casa nostra. Quindi, a ben guardare, casa nostra è tutto il mondo.

Questo breve ragionamento è probabilmente la risposta più lineare alla domanda: «Perché mai dovrebbe interessarmi l’Amazzonia?», quesito che ha fatto da sottofondo a tutto il Sinodo dei vescovi per la regione Panamazzonica, celebrato lo scorso ottobre a Roma. Non è difficile trovare esempi di questo ruolo di custodi che i popoli indigeni hanno nei confronti dell’ambiente nel quale vivono: la nostra rivista ne ha illustrati diversi in un dossier dell’agosto 2017 che riportava analisi di Survival International. Da quelle analisi emergeva chiaramente che i popoli indigeni – non solo quelli dell’Amazzonia, ma anche quelli del resto delle Americhe, dell’Africa e dell’Asia – «sono i migliori gestori dell’ecosistema in cui vivono da generazioni» e che la loro presenza incrementa la biodiversità, controlla gli incendi e il bracconaggio, ferma la deforestazione e lo sfruttamento eccessivo. Il loro sostentamento, viceversa, deriva da attività come la caccia svolte in modo del tutto non dannoso per l’ambiente@.

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei

Un’emergenza silenziosa

Difficile è piuttosto far capire l’urgenza di proteggere questi gruppi umani e i biomi in cui vivono. Perché l’ipotesi che i popoli indigeni scompaiano appare lontana a chi, specialmente da questo lato del mondo, non è addentro alle questioni ambientali o a quelle della solidarietà internazionale.

Eppure il rapporto 2018 del Consiglio indigenista missionario (Cimi)@, ente legato alla Conferenza episcopale brasiliana, racconta una storia che ha tutti i caratteri dell’urgenza. Presentato dal Cimi l’11 ottobre presso la casa generalizia dei missionari della Consolata a Roma, il documento sottolinea che nel 2018 in Brasile i casi di invasioni a scopo di accaparramento delle terre indigene, esplorazione illegale delle risorse naturali e danni vari al patrimonio sono stati 109: 13 in più dell’anno precedente. Ancora più preoccupante è il fatto che i dati preliminari del 2019 – cioè quelli relativi ai primi nove mesi – riportano 160 casi, testimoniando per il triennio una tendenza al rialzo.

Il rapporto raccoglie e racconta con grande precisione i singoli episodi. Vediamone uno, relativo al popolo indigeno dei Waimiri Atroari di Roraima, a titolo esemplificativo: «La deforestazione nella terra indigena ha raggiunto i 1.372 ettari. In un’area che ospita diverse specie di fauna e flora ancora sconosciute, sono stati sequestrati 7.387 tronchi, volume sufficiente per caricare un migliaio di camion […]. Dopo 37 giorni dal sequestro, il Fronte di protezione etno-ambientale dei Waimiri Atroari della Funai (ente pubblico che si occupa della protezione degli indigeni) ha riferito che i tronchi venivano rubati dentro la sede della polizia federale. È stata aperta un’inchiesta per indagare sul caso».

Il rapporto segnala anche diverse situazioni che contraddicono l’affermazione di grandi agricoltori e politici «complici» secondo la quale c’è «troppa terra per troppi pochi indigeni». Al contrario, si legge nel rapporto, nello stato del Mato Grosso do Sul, per fare solo un esempio, «ciò che è troppo è il numero di aree degradate», cioè aree le cui caratteristiche sono state modificate oltre il limite del naturale recupero del suolo.

Nel 2019, prosegue il rapporto, il numero di pascoli degradati raggiunge i 14 milioni di ettari (pari alla superficie di tutte le regioni del Nord Italia più la Toscana) su un totale di 28 milioni esistenti. Nel frattempo, migliaia di indigeni vivono in una situazione di isolamento e, nella riserva indigena di Dourados, circa 13mila indigeni abitano su meno di 3.500 ettari: per numero di abitanti la riserva si colloca più in alto nella lista rispetto a 32 città dello stato. A detta di diversi esperti, questa situazione è la causa principale degli alti tassi di suicidio tra gli indigeni Guaraní e Kaiowá. Secondo il distretto sanitario indigeno locale, negli ultimi 13 anni circa 611 indigeni di questa popolazione si sono suicidati: 1 ogni 7,7 giorni.

Alfabetizzazione di bambini pigmei

Non solo Amazzonia

Ma non è solo l’area amazzonica a destare preoccupazione. Nella Rift Valley del Kenya è in atto l’ennesimo braccio di ferro per l’occupazione di intere aree della Mau Forest. Non si tratta di una foresta qualsiasi: è un complesso di 400 mila ettari che custodisce la più grande delle cinque maggiori riserve idriche del Kenya, per questo ribattezzate water towers (serbatoi d’acqua). È la fonte di 12 corsi d’acqua che sfociano in tre laghi, fra cui il Lago Vittoria, e si calcola che circa 10 milioni di persone dipendano da questo complesso idrogeologico. Human Rights Watch segnalava lo scorso settembre@ che nel 2018 il governo del Kenya nel tentativo, anche lodevole, di preservare la Mau Forest ha effettuato sfratti forzati, violenti e senza compensazione di chiunque avesse occupato il territorio della foresta. Inclusi gli Ogiek, popolo indigeno locale che ha nella foresta il proprio territorio ancestrale, nel quale ha sempre vissuto sostenendosi grazie alla caccia e all’apicoltura. I tentavi di rimuovere gli Ogiek dalla foresta si sono succeduti sin dall’epoca coloniale, precisa Survival International@, con il pretesto che la loro presenza degrada la foresta. In realtà succede esattamente il contrario: «Quando gli Ogiek vengono rimossi, la loro foresta non viene protetta ma piuttosto sfruttata dal disboscamento e dalle piantagioni di tè, alcune di proprietà di funzionari governativi».

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Via da casa, per non morire

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A volte, anche la decisione di restare nella propria terra è un suicidio. È il caso degli indigeni Warao che, insieme ad altri connazionali venezuelani, hanno abbandonato le loro case e stanno emigrando in massa verso Colombia, Perù, Brasile e altri paesi latino americani. Secondo la Bbc@, che cita dati dell’Organizzazione internazionale per migrazioni (Iom) e dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) lo scorso giugno le persone che avevano lasciato il Venezuela avevano raggiunto i 4 milioni, facendo di quella venezuelana la seconda crisi a livello mondiale dopo la Siria, che ha visto quasi 6 milioni di sfollati@.

Secondo l’Acnur, ad oggi sono quasi 71 milioni le persone sul pianeta che sono state costrette a lasciare il luogo dove vivevano a causa di persecuzioni, conflitti, violenze o violazioni dei diritti umani. Di questi, quasi 26 milioni sono rifugiati, 41 milioni sono sfollati interni e 3 milioni e mezzo sono richiedenti asilo, cioè sono in attesa di una decisione sulla loro richiesta di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato o un’altra forma di protezione internazionale. Nel 2018 ci sono stati 37mila di questi spostamenti forzati ogni giorno, uno ogni 2 secondi.

In 4 casi su 5 i rifugiati vivono in paesi confinanti; a ospitare più rifugiati è stata per il quinto anno consecutivo la Turchia, con 3,7 milioni di persone accolte. Seguono il Pakistan (1,4 milioni), l’Uganda (1,2 milioni), il Sudan e la Germania (entrambi 1,1 milioni di rifugiati ospitati).

Chiara Giovetti

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Il nostro lavoro per le terre ancestrali e i popoli che le abitano

IN RD CONGO

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei

Da decenni lavoriamo con i pigmei bambuti, tradizionali custodi della foresta pluviale dell’Ituri, nel Nord Est paese.

Minacciati da Mobutu Sese Seko, che già negli anni Ottanta li forzò a lasciare la foresta e a sedentarizzarsi, emarginati dalla maggioranza bantu che li considera esseri subumani, oggi vedono la loro foresta e se stessi minacciati anche dalle attività estrattive condotte da grandi imprese e da minatori artigianali.

Il nostro lavoro con loro consiste nel proteggerne la cultura e lo stile di vita e, al tempo stesso, di sostenere il loro tentativo di relazionarsi con gli altri popoli, ad esempio attraverso l’istruzione, e di garantire loro l’assistenza sanitaria essenziale.

(vedi Marco Bello, Sempre nomadi, ma fino a quando, MC 10/2019 e anche Chiara Giovetti, Pigmei, scuola, foresta: un momento difficile, MC 6/2017)

NELL’AMAZZONIA

Visita al rifugio dei Warao in Pacaraima (Roraima – Brasile

Il nostro impegno per i popoli indigeni e la salvaguardia delle terre ancestrali giunge anche all’Amazzonia, sia quella brasiliana che quella colombiana ed ecuadoregna.

Nell’Amazzonia del Brasile sosteniamo la lotta per i diritti del popolo yanomami insediati nella foresta attorno al rio Catrimani e quelli dei popoli (Macuxi, Wapichana, Taurepang e altri) della terra indigena Raposa Serra do Sol nello stato di Roraima.

In Colombia siamo attivi nel Caquetá, dove, con i gruppi di giovani delle nostre parrocchie e delle scuole secondarie, sosteniamo le iniziative locali di formazione alla cura dell’ambiente sia nei quartieri dei centri abitati della zona che nelle zone del fiume vicine a questi centri, e progetti alternativi alla produzione della coca.

Aiutaci a coprire i costi per l’iscrizione di un bambino pigmeo alla scuola primaria nella foresta del Congo o a realizzare corsi di formazione e iniziative di salvaguardia dell’ambiente in Amazzonia.


Il nostro lavoro accanto ai migranti e ai warao

Dal maggio 2018 un’équipe itinerante dei missionari della Consolata è attiva a Boa Vista (Brasile)  nell’accoglienza dei rifugiati venezuelani, in particolare del popolo warao.

Boa Vista sta affrontando un’emergenza senza precedenti: quella di assistere migliaia di migranti e richiedenti asilo venezuelani, 40mila secondo le fonti ufficiali e oltre il doppio secondo conteggi informali. Per ora sono disponibili solo 13 centri di accoglienza che ospitano 6.500 persone, mentre tutti gli altri vivono in 16 occupazioni se non addirittura per strada.

Gli sforzi dei missionari della Consolata si concentrano sulle persone più vulnerabili che vivono nello spazio di Ka Ubanoko, un complesso sportivo abbandonato occupato la scorsa estate. Lì vivono circa 650 venezuelani, la maggior parte Warao, alcuni indigeni E’ñepa e oltre un centinaio di persone che non hanno avuto la possibilità di essere assistiti da un centro di accoglienza e vivevano all’ombra degli anacardi nel quartiere di Pintolândia.

Fra questi rifugiati i bambini sono circa 250 e i missionari cercano di fornire loro cibo e un minimo di istruzione, visto che nella loro condizione frequentare la scuola è impossibile.

Aiutaci a coprire i costi per l’istruzione dei bambini venezuelani rifugiati.


Natale di solidarietà 2019

UNA CASA PER TUTTTI

Per aiutare tramite MC
vai al sito della Onlus

oppure vai alla nostra pagina «aiutaci-donazioni»




Tutti «a casa loro», ma quale casa?


Circa un miliardo di persone sul pianeta vive in una baraccopoli, 100 milioni sono senzatetto e altrettanti sono i bambini e ragazzi di strada. Dal 2008 a oggi una media di 24 milioni di persone all’anno ha perso la propria casa per inondazioni, tempeste, terremoti o siccità.

«Come ci si sente / ad essere senza una casa / un completo sconosciuto / proprio come un vagabondo (o, alla lettera, una pietra che rotola)». Così Bob Dylan cantava nel 1965, raccontando nei versi della sua celeberrima@ Like a Rolling Stone, la triste storia di una giovane donna nata ricca e finita poi a vivere per strada, dopo essersi lasciata illudere, sfruttare e infine abbandonare da un mondo luccicante ma spietato.

L’ultima volta in cui si tentò di quantificare le persone sul pianeta che non avevano una casa era il 2005@: le Nazioni Unite stimarono che i senzatetto veri e propri fossero circa cento milioni, mentre un miliardo di persone mancavano di un alloggio adeguato. Studi più recenti fotograferebbero una situazione nettamente peggiorata: le persone senza una casa degna di questo nome sono stimate oggi in 1,6 miliardi.

Altre indagini si concentrano sui luoghi simbolo dell’emergenza abitativa, le baraccopoli: secondo il Programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani, Un Habitat, nel 2014 erano oltre 880 milioni di esseri umani a vivere in una baraccopoli.

È difficile contare in maniera oggettiva queste persone: ad esempio, ricorda l’Onu in un documento con principi e raccomandazioni per i censimenti@, «la definizione di senzatetto può variare da paese a paese, si tratta essenzialmente di una definizione culturale basata su concetti come alloggio adeguato, standard abitativo minimo della comunità o certezza del diritto fondiario».

Per farsi un’idea più immediata è forse più utile citare alcuni esempi: secondo il sito Homeless World Cup Foundation, in Nigeria ci sono 24,4 milioni di senzatetto; nella sola città di Manila, capitale delle Filippine, se ne contano circa tre milioni. La Germania ha fra i 335mila e i 420mila senzatetto, che salgono a 860 mila se si includono i rifugiati, la Francia ne conta 141mila e l’Italia 50.724@.

I bambini e ragazzi di strada sono un’ulteriore declinazione del fenomeno. Nel 2003 Unicef riportava stime secondo cui erano 100 milioni le ragazze e i ragazzi che non avevano raggiunto l’età adulta, privi di protezione o guida da parte di responsabili adulti e per i quali «la strada (nel senso più ampio della parola, comprese le abitazioni o i terreni abbandonati, ecc.) è diventata dimora abituale e/o fonte di sostentamento» (definizione ufficiale Unicef)@.

Come si finisce in strada o in una baraccopoli?

I motivi per cui ci si trova senza casa o in un contesto abitativo degradato sono diversi. Le Nazioni Unite citano fra questi la mancanza di alloggi a prezzi accessibili, speculazioni su case e terreni a fini di investimento, privatizzazione dei servizi pubblici, ad esempio il trasporto, conflitti etnici e armati e una rapida quanto mal programmata urbanizzazione. Questi elementi poi si sovrappongono e incrociano con altri, come la perdita del lavoro, l’abuso di alcol, l’uso di droga, le malattie mentali.

A complicare notevolmente le cose vi sono poi le prospettive per il trentennio che abbiamo davanti: secondo le proiezioni Onu, nel 2050 il 68% della popolazione mondiale vivrà in aree urbane, contro il 55% odierno pari a 4,2 miliardi di persone. Questo significa che «il graduale spostamento della popolazione umana dalle aree rurali a quelle urbane, combinato con la crescita complessiva della popolazione mondiale potrebbe aggiungere altri 2,5 miliardi di persone alle aree urbane entro il 2050, con circa il 90% di questo aumento concentrato in Asia e Africa»@.

Uno dei falsi miti sugli slum (inglese per baraccopoli) è l’idea che non sia possibile prevedere quanto cresceranno, spiegava al The Guardian@ nel 2016 William Cobbett, della rete globale per lo sviluppo sostenibile delle città, Cities Alliance, e la cosa è affrontata in modo inadeguato specialmente in Africa. «Si pensa che le popolazioni degli slum stiano crescendo principalmente a causa della migrazione urbana. Non è così. In tutto il continente, il grosso dell’aumento di abitanti delle baraccopoli deriva dalla crescita naturale della popolazione». Le proiezioni Onu sul secolo 1950-2050, continua Cobbett, dicono che la popolazione dell’Uganda in un secolo aumenterà di venti volte, la Tanzania di 18 e la Nigeria di 10,5.

Un secondo mito è quello che gli abitanti di una baraccopoli, se potessero, sceglierebbero sempre di vivere in un alloggio «vero». In questo caso la risposta è ni: dipende da quanto bene le autorità competenti pianificano la ricollocazione delle persone. Anche nelle situazioni di degrado più grave spesso si formano delle reti sociali che forniscono servizi informali di solidarietà come il guardarsi a vicenda casa e bambini mentre si è al lavoro. Ricollocare le persone significa strappare queste reti e rendere più difficile la vita sia di chi viene spostato sia di chi resta. Un caso citato dal The  Guardian è quello della baraccopoli di Kibera, a Nairobi: molti abitanti dello slum, inizialmente entusiasti dell’opportunità di trasferirsi in un complesso di appartamenti chiamato The Promised Land, hanno finito per lasciare le nuove sistemazioni perché vi erano disservizi idrici, mentre altri hanno fiutato l’affare decidendo di dare le loro nuove case – in cambio di un affitto molto più alto rispetto a quello agevolato richiesto a loro – ai keniani della classe media. Anche chi era rimasto a Promised Land continuava comunque a fare la spesa nella baraccopoli, perché lì il cibo costava meno.

Perdere la casa per gli eventi naturali

C’è un ulteriore modo per rimanere senza casa: che un ciclone se la porti via. È successo quest’anno in Mozambico, quando il ciclone Idai – seguito dal ciclone Kenneth – ha rovesciato in poche ore la pioggia che di solito cade in mesi. Il ciclone e le successive inondazioni hanno ucciso più di 600 persone e ne hanno ferite circa 1.600. Un milione e 800mila sono state variamente toccate dai danni, pari a 773 milioni di dollari, provocati da Idai a edifici, infrastrutture e coltivazioni@.

Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre@, che monitora le popolazioni sfollate, dal 2008 a oggi una media annuale di 24 milioni di persone ha perso la casa a causa di un evento naturale estremo improvviso, a fronte dei sette milioni e mezzo di sfollati all’anno a causa dei conflitti. Anche quest’anno le cose non sembrano andare molto meglio: nella prima metà del 2019 gli sfollati a livello mondiale sono stati 10,8 milioni, di cui 7 milioni dovuti a catastrofi naturali.

Lo scorso giugno Philip Alston, relatore speciale delle Nazioni Unite su povertà estrema e diritti umani, ha avvertito che gli effetti del cambiamento climatico potrebbero creare altri 120 milioni di poveri, vanificando gli ultimi 50 anni di sforzi per ridurre la povertà. «Rischiamo uno scenario da apartheid climatico» ha dichiarato Alston, «in cui i ricchi pagano per sfuggire al surriscaldamento, alla fame e ai conflitti mentre il resto del mondo è abbandonato alla sofferenza»@.

Il problema del cambiamento climatico si interseca con quello dell’urbanizzazione: il disastro di Freetown, in Sierra Leone, del 2017, in cui 1.141 persone morirono a causa degli allagamenti e smottamenti legati alle forti piogge, ha mostrato che cosa succede quando un evento meteorologico estremo colpisce un agglomerato urbano costruito deforestando ed edificando in maniera informale@.

Chiara Giovetti
[continua a dicembre]


Il nostro impegno con i ragazzi di strada

  • Familia ya ufariji (Famiglia della Consolazione) è una casa d’accoglienza per bambini e ragazzi di strada fondata nel 1996 dai missionari della Consolata a Nairobi, Kenya. Ospita fino a ottanta bambini cui fornisce vitto e alloggio, istruzione e cure mediche. Familia ha anche alcune attività agricole che aiutano la struttura a produrre parte del proprio cibo e permettono ai ragazzi ospitati di imparare e praticare l’orticoltura.

  • La Faraja House (Casa della Consolazione) apre nel 1993 a Mgongo (Iringa, Tanzania) per iniziativa dei missionari della Consolata con l’obiettivo di assistere e reinserire i ragazzi di strada. La struttura, in grado di accogliere fino a 100 persone, sorge accanto a una scuola tecnica – nella quale i ragazzi ricevono formazione professionale – e a un dispensario che fornisce loro le cure fondamentali.

Aiutaci a coprire i costi per dare una casa a un bambino di strada perché possa mangiare, studiare e ricevere le cure necessarie alla sua età.


Il nostro lavoro accanto a chi ha perso la casa per un evento naturale estremo

Lo scorso marzo il ciclone Idai si è abbattuto sul Mozambico. Le inondazioni che ne sono seguite hanno colpito anche diverse zone in cui sono presenti i missionari della Consolata, fra cui Cuamba e Tete. In quest’ultima località Missioni Consolata Onlus, grazie alla generosità di diversi donatori, ha contribuito alla ricostruzione di 12 case.

  • Sarà possibile sostenere questo progetto anche visitando la mostra di solidarietà che gli Amici Missioni Consolata organizzano ogni anno in occasione della festa dell’Immacolata.
    La mostra sarà aperta dal 4 all’8 dicembre nei locali della parrocchia Maria Regina delle Missioni, a Torino, in via Cialdini 20, vicino al Provveditorato.

  • Si può anche sostenere il progetto con donazioni attraverso Missioni Consolata Onlus.

Aiutaci a ricostruire le case distrutte da eventi climatici estremi.




Cooperazione e missione, gemelle diverse

testo di Chiara Giovetti


Nel mese missionario proponiamo una riflessione sulle differenze fra cooperazione e missione, ma anche sullo stimolo reciproco che hanno rappresentato l’una per l’altra nel corso degli ultimi cinquant’anni. Tentiamo di fare il punto sulla situazione attuale.

Tanta parte del mio lavoro come responsabile dell’Ufficio progetti di Missioni Consolata Onlus è lavoro di traduzione. Non solo e non tanto da una lingua a un’altra, ma soprattutto da un linguaggio a un altro. Si tratta cioè di tradurre nel linguaggio della cooperazione allo sviluppo concetti missionari e, in quanto missionari, profondamente e autenticamente cristiani.

Con una battuta che suscita sorrisi nei missionari più spiritosi e alzate di sopracciglia in quelli più austeri, mi trovo spesso a dire che il mio incarico più delicato è tradurre in «sviluppese» concetti espressi in «pretesco», cercando di far emergere nel modo più chiaro possibile che i nostri missionari fanno cooperazione già da molto prima della fondazione della Onlus (2001) o del riconoscimento come Ong (2007). Solo che, mentre alcuni la fanno conoscendo il «ciclo di progetto» e il suo linguaggio, altri la fanno chiamando le cose con un altro nome.

Così, progetti che arrivano sulla mia scrivania con un titolo come «Promozione della donna», vengono reindirizzati ai donatori con il titolo «Empowerment femminile». «Pace, perdono e riconciliazione» diventa «Gestione e risoluzione del conflitto», «aiuto alle mamme incinte e ai loro bambini», si riformula in «miglioramento della salute materna e infantile».

Le attività sono le stesse, ma le parole rimandano a valori non completamente sovrapponibili.

Fra il linguaggio dello sviluppo e quello della missione c’è, sì, un’ampia intersezione di concetti simili, se non identici benché detti con parole diverse, ma anche un confine di intraducibilità che non può – e nemmeno deve – essere forzato.

 

Cooperazione: una parola, due significati

Nella maggioranza dei casi, all’orecchio di un missionario cattolico la parola «cooperazione» arriva come l’abbreviazione dell’espressione «cooperazione missionaria fra le Chiese».

Per un operatore della cooperazione fuori dal mondo ecclesiale, viceversa, la stessa parola sottintende l’espressione «cooperazione allo sviluppo» o «cooperazione internazionale».

Il fatto che per un religioso la cooperazione sia prima di tutto missionaria, significa che la vede come un modo per realizzare la missione della Chiesa, che – si legge nel decreto Ad Gentes del Concilio Vaticano II del 1965@ -, a sua volta, è la crescita «nella storia della missione del Cristo, inviato appunto a portare la buona novella ai poveri».

L’annuncio della buona novella è l’evangelizzazione, e la cooperazione missionaria ne è uno degli strumenti, non il fine.

Già nel 1990, in una Nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana dal titolo I laici nella missione ad gentes e nella cooperazione fra i popoli@, emergeva una preoccupazione: «Spesso», recita la nota, «l’attenzione è assorbita dalle esigenze tecniche dei progetti a scapito dell’ispirazione cristiana che deve essere sostenuta in modo costante». Detto in modo più rozzo ma immediato, la Cei raccomanda ai laici cristiani che vanno in missione di ricordare sempre che scavare un pozzo non è il fine ultimo del loro mandato. Il pozzo è solo lo strumento. Sono stati mandati a scavare un pozzo perché la povertà dei fratelli privi di acqua grida vendetta al cospetto di Dio, e contraddice il messaggio di salvezza e liberazione che suo Figlio ha portato agli uomini a costo della sua stessa vita, un messaggio di cui è nostro dovere di cristiani farci portatori, anche – ma non solo – attraverso le opere concrete.

La stessa nota sottolinea, richiamando l’enciclica Sollicitudo Rei Socialis del 1987, che «gli insuccessi degli ultimi decenni negli sforzi di accrescere il benessere dei popoli mostrano che lo sviluppo non si può basare su una semplice accumulazione di beni e di servizi». Lo sviluppo autentico, per la Chiesa, è lo sviluppo integrale, «volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (Populorum progressio), anche della sua sfera spirituale e morale.

Se per i cristiani la cooperazione è uno degli strumenti per continuare la missione del Cristo che parte da Dio e si irradia nella relazione fra le Chiese locali; per il mondo non ecclesiale è, invece, una relazione che parte dalle comunità umane definite a partire dalla loro organizzazione statale, e che ha come obiettivo lo sviluppo, pur con tutte le declinazioni e riformulazioni che il concetto ha attraversato nell’ultimo cinquantennio.

Non potrebbe essere più chiara la direzione divergente delle spinte che muovono queste due idee di cooperazione.

Dalla teoria alla pratica: la cooperazione come punto di incontro

Queste due visioni della cooperazione sono posizioni irriducibili l’una all’altra, dal punto di vista filosofico. Ma questa irriducibilità non ha impedito che si sia trovato un punto di mediazione nel campo del fare, del trovare soluzioni a problemi condivisi.

Per realizzare il raccordo, è stato fondamentale l’incontro fra religiosi innovatori, a volte addirittura rivoluzionari, da un lato, e volontari laici, dall’altro. La parola «laico» in questo caso significa il contrario di quello che potrebbe sembrare a un lettore esterno al mondo ecclesiale: non rimanda al laicismo ma al laicato, il complesso dei fedeli che non appartiene al clero.

Un esercizio interessante per dare la misura di questo incontro è prendere la lista delle Ong riconosciute dal ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale e scavare un po’ nella sezione Chi siamo dei rispettivi siti. Il risultato è abbastanza illuminante: su 217 organizzazioni, una su tre circa ha per fondatore, ispiratore o dirigente, un religioso, e quasi una su cinque è vicina al mondo missionario. Alcune Ong sono nate per sostenere il lavoro di uno specifico missionario, di un Istituto o di una Congregazione, altre sono emanazione di un Centro missionario diocesano, altre sono talmente missionarie di ispirazione che inseriscono la parola anche nel nome.

Gli anni Sessanta e Settanta sono stati una grande incubatrice per queste realtà: erano gli anni della decolonizzazione, delle crisi in Biafra e in Congo, delle campagne di Raoul Follereau; la Chiesa affrontava il cambiamento epocale del Concilio Vaticano II e assisteva al sorgere, in America Latina, della teologia della liberazione.

In Italia erano anni drammatici, di scontri politici e sociali, di forti ineguaglianze, evidenti in particolare nelle grandi città.

Solo per citare alcune di queste realtà nelle quali missione e cooperazione allo sviluppo hanno iniziato ad andare a braccetto, ricordiamo che nel 1961 è nata la Cisv@ «al servizio dei poveri nella Torino allora meta degli immigrati dal Sud Italia». Nel 1973, raccontava qualche anno fa Stefania Garini del Cisv alla nostra rivista, la stessa organizzazione ha inviato i primi volontari in Burundi anche su stimolo dell’allora arcivescovo di Torino, monsignor Michele Pellegrino, «che auspicava una missione animata anche da laici, ritenuti in grado di creare maggior vicinanza con la gente»@. Nel 1964 è nata Mani Tese, nel 1966 la Lvia, che l’anno dopo ha inviato la prima volontaria in Kenya ospite dei missionari della Consolata.

La Focsiv, che federa gli organismi italiani di ispirazione cristiana (Ong e non), è nata nel 1972 e ad oggi raggruppa 86 organismi.

Negli anni Ottanta e fino a tutti gli anni Novanta l’incontro fra missione e cooperazione allo sviluppo era ormai una realtà consolidata e strutturata grazie all’impegno di tanti missionari e al coinvolgimento dei volontari laici cristiani: l’invio di questi ultimi in missione era regolare, i riconoscimenti dello status di Ong da parte del ministero degli Esteri sono cominciati ad arrivare, la disponibilità di fondi – sia pubblici che privati – ha dato un’ulteriore spinta, e le campagne di sensibilizzazione in Italia sono state numerose e molto partecipate.

Anche la nostra rivista, che parla di cooperazione e di sviluppo sin dagli anni Settanta, ha inserito per gran parte del decennio 1980 – 1989 l’argomento fra i temi fissi trattati nelle rubriche. La lettura degli articoli sulla cooperazione di quegli anni è un tuffo più nel futuro che nel passato, tanto raffinata era già l’analisi delle cause delle diseguaglianze e tanto forte era il richiamo, oggi molto di moda, al cambiamento negli stili di vita.

La nota della Cei su laici, missione e cooperazione citata sopra è arrivata nel 1990 proprio per mettere ordine in questa relazione tanto vivace e animata da rischiare di diventare caotica. La Cei infatti, oltre al richiamo a non perdere di vista l’ispirazione cristiana, insisteva sull’importanza di migliorare la preparazione sia spirituale che professionale dei volontari ed esortava a evitare permanenze troppo brevi e mal programmate. La cooperazione missionaria non è una parentesi, un periodo circoscritto nella vita dei cristiani: è una scelta di vita che continua anche al rientro dalle missioni.

Cooperazione e missione oggi

L’ultimo ventennio ha visto un’impennata nella professionalizzazione della cooperazione. È nata la figura del cooperante, sono sorti corsi di studi a livello universitario, la gestione del ciclo di progetto si è fatta più complessa, l’obbligo di trasparenza nella gestione dei fondi è oggi, giustamente, un imperativo.

Quanto questo processo sia legato, in positivo, a un bisogno di affrontare in modo rigoroso una crescente complessità del mondo o, in negativo, agli obiettivi non raggiunti – e agli errori – di cinquant’anni di cooperazione internazionale, è un dibattito aperto.

Il dato di fatto è che le organizzazioni di origine missionaria, come tutte le altre, si sono attrezzate e dotate di personale formato e contribuiscono a quella parte della missione che, per brevità, si può definire sociale.

I fondi dei donatori pubblici non costruiscono chiese né comprano Bibbie per i catechisti (ci sono donatori cattolici per questo); ma certamente possono essere un sostegno fondamentale per scavare un pozzo e dare acqua pulita a un dispensario, formare infermieri, dare assistenza a migranti in fuga da un paese sull’orlo del disastro che arrivano stremati e disperati nel paese confinante.

Da questo punto di vista, il rapporto fra missione e cooperazione allo sviluppo continua a godere di ottima salute una volta che ci si accorda su uno spazio comune in cui una può essere funzionale alla realizzazione degli obiettivi dell’altra senza snaturarla. Si può dire, per semplificare, che la missione continua a «ospitare» la cooperazione allo sviluppo nella parte sociale della cooperazione missionaria e che la cooperazione allo sviluppo ricambia «ospitando» i missionari in tutti i suoi settori, a patto che oltre al collarino ecclesiastico indossino lo stetoscopio del medico, il casco antinfortunistico dell’ingegnere, il grembiule del maestro di scuola.

Senza avere una struttura professionalizzata che lo affianchi per gli aspetti tecnici, per il singolo missionario diventa impossibile realizzare interventi complessi come quelli previsti da un progetto di cooperazione allo sviluppo istituzionale. Il progetto, senza un aiuto adeguato, rischia di essere percepito dal missionario come un male necessario, uno strumento di cui non si può fare a meno ma che porta via tempo al resto. E per un missionario, il resto, spesso, è il grosso: «Ecco, Chiara», mi ha detto una volta il padre responsabile di una impresa sociale del settore alimentare gestita dalla Consolata in un paese africano, «con il progetto che ci aiuterai a scrivere potremo finalmente aumentare la produzione; per il resto, con i proventi delle vendite già manteniamo la biblioteca, facciamo i corsi di alfabetizzazione per i nostri lavoratori, contribuiamo all’allevamento di polli delle loro mogli. Poi, a tempo perso, diciamo messa, facciamo le confessioni, prepariamo i catecumeni… Ogni tanto riusciamo anche a stare in silenzio, pregare un po’ e dormire».

In questi anni di lavoro nell’ufficio progetti mi sono trovata spesso a scherzare con i missionari con cui lavoro sul fatto che è una lotta impari cercare di far appassionare a un quadro logico e a un cronogramma qualcuno (il missionario) che ha per logica il Verbo e per orizzonte temporale la vita eterna.

Al di là delle battute, però, probabilmente il punto è proprio questo: il rapporto fra missione e cooperazione allo sviluppo è stato ed è proficuo proprio perché sono due attività non completamente sovrapponibili: negli anni, oltre a non capirsi mai del tutto e, a volte, a criticarsi, si sono anche ascoltate e ciascuna ha fatto a se stessa delle domande che non si sarebbe mai fatta se l’altra non l’avesse stimolata. E non smette di sorprendermi quanto le domande che i missionari della Consolata si fanno da oltre un secolo, ispirandosi al loro fondatore, Giuseppe Allamano, – «stiamo capendo i segni dei tempi? Stiamo davvero facendo uomini e non beneficiari, assistiti, bisognosi?» – somiglino alle domande che si fa il mondo dello sviluppo.

Chiara Giovetti




Stiamo buttando via troppo cibo

Testo di Chiara Giovetti


Secondo uno studio della Fao ogni anno un terzo del cibo prodotto a livello mondiale finisce nell’immondizia o si rovina prima di essere consumato, danneggiato da trasporti inadeguati o da pratiche agricole non efficienti. Nel contempo, un abitante su dieci del pianeta soffre di malnutrizione cronica, mentre due miliardi di persone sono sovrappeso e, di queste, 650 milioni sono obese.

Secondo i dati della Fao ogni anno un miliardo e trecento milioni di tonnellate di cibo, pari a un terzo di quello prodotto, finisce sprecato@.

Detto così può sembrare solo l’ennesimo numero del quale si fatica a farsi un’idea concreta. Ma proviamo a metterla in questo modo: immaginiamo dei container standard da 20 piedi e supponiamo di caricarli con 28 tonnellate di cibo ciascuno; immaginiamo poi di metterli sulle più grandi navi portacontainer attualmente esistenti, capaci di trasportare 21 mila container ciascuna. Per caricare 1,3 miliardi di tonnellate ci servirebbero 2.200 navi: buttare quella quantità di cibo equivale ad affondarne ogni giorno sei. O lasciare che 127 mila camion che trasportano uno di questi container svuotino la merce in una discarica.

Così fa più impressione, ma non è finita qua. Lo studio della Fao è del 2011, quindi non recentissimo. Per questo nel 2018 un gruppo statunitense di consulenti – il Boston Consulting Group – ha tentato di attualizzarlo e, secondo le proiezioni che ha ottenuto@, lo spreco è aumentato: nel 2015 siamo arrivati a 1,6 miliardi di tonnellate, per una perdita economica pari a 1.200 miliardi di dollari. Una misura del denaro bruciato? Equivale a poco meno del Pil della Spagna, o a una trentina di manovre finanziarie dell’Italia.

Il Boston Consulting Group prevede anche che nel 2030 si arriverà a più di 2 miliardi di tonnellate di cibo perso o sprecato, pari a 1.500 miliardi di dollari.

Date queste premesse, il raggiungimento del sotto-obiettivo di sviluppo sostenibile 12.3 stabilito dalle Nazioni Unite («Entro il 2030, dimezzare l’ammontare pro-capite globale dei rifiuti alimentari e ridurre le perdite di cibo lungo le catene di produzione e fornitura, comprese le perdite post-raccolto»@) appare decisamente lontano.

Altro aspetto da considerare è quello delle conseguenze sull’ambiente: la produzione di questo cibo che poi non si utilizza è responsabile dell’8% delle emissioni di gas serra a livello mondiale: lo spreco alimentare emette gas serra come Russia e Giappone messi insieme@.

Come si butta cibo nei paesi in via di sviluppo

Sempre secondo i dati Fao@, i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo dissipano all’incirca le stesse quantità di cibo: rispettivamente 670 e 630 milioni di tonnellate. Tuttavia, lo spreco pro capite dei consumatori di Europa e Nord America è compreso tra i 95 e i 115 kg all’anno, mentre i consumatori dell’Africa subsahariana, dell’Asia meridionale e del sud-est asiatico buttano annualmente via fra i 6 e gli 11 chilogrammi. Viceversa, nei paesi in via di sviluppo le perdite avvengono prevalentemente non a livello del consumatore bensì nelle fasi di produzione e di trasformazione.

Lo studio di un caso pubblicato dalla Fao sulla produzione di manioca, pomodori e patate in Camerun illustra@ nel dettaglio quali problemi intervengono nelle varie fasi dalla raccolta alla commercializzazione. Nel caso del garri di manioca, cioè della manioca trasformata in farina, ad esempio, la perdita complessiva è pari al 41,6% rispetto alla produzione iniziale, con il 30% della perdita che avviene in fase di pre-raccolta o raccolta, il 5,6% durante la pelatura, il 3,1% nel momento in cui la si grattugia e il 2,9% nella fase di stoccaggio.

Una tecnica utilizzata per conservare la manioca, spiega lo studio, è ritardare la raccolta finché non vi è sufficiente domanda del prodotto. La radice tuberizzata può rimanere in terra fino a 18 mesi dopo la maturazione, ma se non raccolta nei tempi corretti diventa rapidamente legnosa. Inoltre perde amido e valore nutritivo ed è più esposta agli attacchi di insetti e roditori e alle malattie.

Pelatura e grattatura inducono un’ulteriore dispersione del prodotto perché sono quasi sempre effettuate manualmente, asportando più radice di quella che sarebbe necessario eliminare o eliminando pezzi troppo piccoli per essere grattugiati a mano. Altre perdite derivano dall’imballaggio del garri in sacchi di juta o di polipropilene non nuovi e non adeguatamente lavati che si rompono o che, ostruiti da altri residui, non lasciano passare abbastanza aria per garantire l’eliminazione dell’acqua durante la fermentazione e portano così il prodotto a marcire o a inumidirsi perdendo valore di mercato. Il resto, in fase di commercializzazione, lo fanno i tempi lunghi del trasporto dovuti alla stagione delle piogge o al dissesto delle strade, l’inadeguatezza degli imballaggi, la mancanza di refrigerazione, l’esposizione a sole, vento e polvere durante la vendita nei mercati.

Come si butta cibo nei paesi industrializzati

Nei paesi industrializzati, continua il rapporto Fao@, i motivi della perdita sono legati ad altri fattori. In primo luogo, la necessità per i produttori di cibo di rispettare gli accordi presi per contratto con i rivenditori spinge a produrre più del necessario per assicurare la fornitura anche in caso di imprevisti – eventi naturali estremi, epidemie – che danneggino la produzione.

Vi sono poi gli standard molto rigidi legati all’aspetto dei prodotti: il rapporto cita una ricerca che lo scrittore e storico inglese Tristram Stuart ha realizzato per scrivere il suo libro del 2009 dal titolo Waste – Understanding the global food scandal. Stuart ha visitato un’azienda agricola britannica, la M.H. Poskitt Carrots nello Yorkshire, una delle principali fornitrici della catena di supermercati inglese Asda, legata al colosso statunitense della grande distribuzione Walmart. Nel corso della visita sono state mostrate all’autore grandi quantità di carote che, in quanto leggermente curve, venivano scartate e destinate al consumo animale. Nel settore del confezionamento le carote passavano poi attraverso dei sensori fotografici che rilevavano eventuali difetti estetici: le carote che non erano di un arancio brillante o che avevano macchie o che erano rotte venivano gettate in un contenitore di mangime per bestiame. Asda, riferiva lo staff dell’azienda, richiede che le carote siano dritte così che i consumatori possano pelarle con un solo, semplice gesto lineare. In questo modo il 25-30% delle carote veniva scartato, la metà per motivi estetici.

Altri motivi di perdita di cibo sono legati al processo produttivo industriale stesso, che rendono più sconveniente scartare cibo che utilizzarlo o riutilizzarlo. Come nel caso, citato dal rapporto, di un’azienda olandese produttrice di patatine fritte: tagliare le patate per renderle della forma e dimensione desiderata produce pezzi tagliati in modo irregolare che sono ancora del tutto commestibili ma che è più conveniente per l’azienda buttare che tentare di recuperare.

Ancora, il rapporto cita l’abitudine dei rivenditori dei paesi industrializzati a riempire gli scaffali per fornire al consumatore, che se la aspetta, la più ampia scelta possibile. In questo modo, però, i prodotti più lontani dalla scadenza vengono preferiti a quelli che scadono prima, benché questi ultimi siano ancora sicuri e commestibili.

Infine, pratiche come le offerte 3×2 nei supermercati o le formule all you can eat nei ristoranti, conclude il rapporto, invogliano i clienti ad acquistare e consumare anche ciò di cui non hanno necessità.

Immagini da “La Terza Settimana” a Torino

Che cosa si butta di più

A livello mondiale, frutta e verdura, insieme a radici e tuberi, hanno i più alti tassi di spreco di qualsiasi cibo, con il 45% di prodotto buttato. Spariscono anche un terzo dei cereali e un quinto dei latticini, della carne e dei semi e legumi. Finisce sprecato un prodotto ittico su tre e l’8% dei pesci catturati viene ributtato a mare morto, moribondo o pesantemente danneggiato.

Nell’infografica di Save the Food@, l’iniziativa per la riduzione della perdita e dello spreco di cibo, la Fao propone esempi utilizzando un solo tipo di prodotto per categoria – mele per frutta e verdura, pasta per cereali, vacche per carne, e così via – per dare di quello che buttiamo una misura un po’ più visualizzabile rispetto alle percentuali. Ogni anno eliminiamo cibo equivalente a 3.700 miliardi di mele, un miliardo di sacchi di patate, 75 milioni di mucche, 763 miliardi di confezioni di pasta – cento per ogni abitante del pianeta – 574 miliardi di uova, 3 miliardi di salmoni atlantici e 11 mila piscine olimpioniche di olive.

L’Africa subsahariana perde poco meno di un terzo della carne, di cui la metà nella fase dell’allevamento, mentre l’Europa ne spreca un quinto prevalentemente concentrato nel momento del consumo. Quanto ai cereali, il Nord America e l’Oceania ne buttano oltre un terzo – circa il 25% nella sola fase di consumo e poco più del 10% nelle altre fasi – mentre l’Asia meridionale e il sudest asiatico ne disperdono un quinto soprattutto nella produzione e nella raccolta.

Che cosa si sta facendo

La risposta breve è: non abbastanza. Dal punto di vista legislativo diversi Paesi europei – fra cui Italia, con la legge 166/16 Francia e Regno Unito – hanno adottato misure per far fronte al fenomeno@.

Vi sono poi numerose iniziative, alcune delle quali si avvalgono della tecnologia e della vasta diffusione dei dispositivi mobili@.

L’app Too good to go (Troppo buono per essere buttato), lanciata tre anni fa da due allora venticinquenni londinesi, permette di verificare quali negozi o ristoranti nella propria zona hanno cibo ancora buono ma che non sarà venduto nella giornata, di pagarlo e di passare presso l’esercizio a ritirare la cosiddetta Magic Box, cioè la scatola contenente quanto si è acquistato. Altre app (o siti) permettono poi di scambiarsi con gli utenti il cibo che si ha in casa e che non si è in grado di consumare, di donare alimenti a associazioni caritatevoli, di leggere consigli su conservazione dei cibi e ricette per il riuso di ciò che rischiamo di non consumare, di visionare le offerte di prodotti alimentari vicini alla scadenza nei supermercati della zona, di compilare liste della spesa “intelligenti” per evitare di acquistare ciò che non ci serve, e così via. In Italia vi sono realtà come il Banco Alimentare, Terza Settimana e Equoevento@, solo per citarne tre fra tante, e non mancano le iniziative di sensibilizzazione.

Tuttavia, commenta Shalini Unnikrishnan del Boston Consulting Group sul Guardian@, la risposta globale è ancora frammentata, limitata e in definitiva insufficiente rispetto alla vastità del fenomeno.

Chiara Giovetti


Cibo perso:

è il cibo che va perduto nelle fasi della filiera
produttiva che riguardano la produzione, il dopo raccolta e la trasformazione.

Cibo sprecato:

è il cibo che va perduto nel punto finale della
catena alimentare, quella della vendita (negozi
e ristoranti) e del consumo ed è legata al comportamento di rivenditori e consumatori.

Fonte: Fao, Global Food Losses and Food Waste, 2011@

Su MC:




L’insostenibile leggerezza del turista

Testo di Chiara Giovetti – Foto di Ennio Massignan


Il turismo si conferma anche per il 2018 un settore in espansione nel mondo, con un miliardo e 400 milioni di viaggi internazionali e un giro d’affari di 1.700 miliardi di dollari. Ma, accanto a realtà e comunità che hanno saputo governare il fenomeno, ve ne sono altre che ne sono state travolte.

Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale del turismo (Omt), nel 2018 il settore del turismo a livello globale ha registrato un’ulteriore espansione raggiungendo con due anni di anticipo rispetto alle previsioni il tetto del miliardo e 400 milioni di movimenti internazionali che la stessa Omt aveva invece previsto per il 2020. Il dato 2018 consolida quello del 2017 – pari a un miliardo e 326 milioni – e rappresenta in termini percentuali un incremento di sei punti. Considerando che l’economia mondiale nel suo complesso è cresciuta al ritmo del 3,7%, si può dire che il settore turistico preso singolarmente «viaggia» a una velocità un terzo più elevata rispetto a tutti i settori economici aggregati.

L’Europa resta la meta preferita con 713 milioni di arrivi internazionali, seguita dall’Asia con 343 milioni e dalle Americhe con 217, mentre Africa e Medio Oriente si attestano rispettivamente sui 67 e 64 milioni di turisti internazionali@.

Quanto al dato economico, il giro d’affari è stato pari a 1.700 miliardi di dollari, cioè il 7% delle esportazioni mondiali (nella bilancia dei pagamenti il turismo figura come esportazione per il paese ricevente e come importazione per quello di provenienza dei viaggiatori).

Questa cifra è composta dagli introiti del settore più quelli relativi al trasporto passeggeri@.

Circa sei turisti su dieci hanno viaggiato in aereo e poco più della metà si sono spostati per svago e diporto, mentre uno su dieci ha viaggiato per motivi di lavoro. Sono i cinesi a guidare con ampio margine la classifica delle dieci nazionalità che nel 2018 hanno speso di più in turismo; ben 277 miliardi di dollari. I secondi classificati, gli statunitensi, hanno speso un po’ più della metà rispetto ai cinesi: 144 miliardi. Seguono poi tedeschi, britannici, francesi, australiani, russi, canadesi, sudcoreani. Decimi gli italiani, con 30 miliardi di dollari.

Il World Travel and Tourism Council (Wttc), forum dell’industria del turismo e dei viaggi, ha quantificato il Pil del settore del turismo, una grandezza che considera non solo il denaro generato dalle imprese che vendono prodotti e servizi direttamente ai turisti – alberghi, agenzie di viaggio, trasporti e souvenir – ma anche gli investimenti, la spesa pubblica per il turismo, gli effetti sulle filiere connesse (cibo, offerta culturale, eccetera) e sul reddito di coloro che lavorano direttamente nel turismo. Nel 2018 il turismo ha raggiunto un Pil di settore di 8,8 mila miliardi, pari a un decimo del Pil mondiale, e ha impiegato 319 milioni di persone. Oggi, nel mondo, un posto di lavoro ogni dieci esiste perché esiste il turismo e il Wttc prevede che nei prossimi dieci anni continuerà a crearne ulteriori 10 milioni l’anno, fino a un totale di 421 milioni nel 2029.@

I rischi ambientali

È chiaro che, con questi numeri, il settore del turismo ha un potenziale enorme che può contribuire parecchio a devastare o, viceversa, a salvaguardare il pianeta a seconda di come viene usato.

Uno degli aspetti che desta più preoccupazione rispetto alla sostenibilità del fenomeno turistico riguarda i danni da esso provocati all’ambiente. Secondo un rapporto del Wwf che si concentra sul bacino del Mediterraneo, «gli oltre 200 milioni di turisti che lo visitano annualmente generano un aumento del 40% dei rifiuti in mare ogni estate»@.

La mancanza di infrastrutture adeguate e lo sfruttamento massiccio del territorio ha costretto nell’aprile del 2018 il governo delle Filippine a chiudere al pubblico per mesi un’intera isola, la bellissima Boracay@, ridotta a «una cloaca» dai rifiuti e dagli scarichi abusivi che rovesciavano il proprio contenuto direttamente in mare, minacciando la barriera corallina. Situazioni simili si sono verificate in Thailandia, dove Maya Bay – spiaggia di una delle isole Phi Phi nota per il film The Beach – rimarrà chiusa fino al 2021 per permettere all’ecosistema e in particolare ai coralli di rigenerarsi dopo essere stati messi a dura prova da un’eccessiva presenza di turisti, che arrivavano fino a 5.000 al giorno@.

In Europa, fra i casi più discussi di turismo di massa vi è senza dubbio quello di Venezia, una città che riceve giornalmente un numero di turisti più alto della sua popolazione di 53 mila persone residenti nel centro storico. Secondo uno studio dell’Università Ca’ Foscari del 2018, Venezia può reggere 52mila turisti al giorno, mentre ad arrivare sono in 77mila@. Tale flusso di viaggiatori mette a dura prova una città per sua natura fragile e i motivi di maggior preoccupazione riguardano la gestione dei rifiuti, l’inquinamento causato dalle navi da crociera@, lo spopolamento della città, l’invecchiamento della popolazione e la conversione in bed & breakfast di molte case del centro.

Altra notizia che di recente ha portato l’attenzione sul cosiddetto overtourism riguarda il numero di escursionisti morti sull’Everest e la quantità di rifiuti da loro lasciata. Lo scorso maggio, in una sola settimana sono decedute sette persone per il sovraffollamento del sentiero che porta alla cima@ e per l’impreparazione fisica di molti scalatori che per il fatto di pagare pensano di avere il diritto di arrivare in cima a tutti i costi.

Nel documentario Gringo Trails@,  uscito nel 2013, si racconta di diverse di queste situazioni finite ormai fuori controllo, ma anche di luoghi dove il governo e le comunità sono riusciti a imbrigliare e regolare i flussi turistici. Uno di questi è il regno del Bhutan, stato dell’Himalaya incapsulato fra Cina e India: chi vuole visitarlo deve prevedere una sorta di tassa, obbligatoria e ufficiale, di 250 dollari al giorno che comprendono vitto, alloggio, trasporti via terra e il servizio di guide autorizzate. I risultati del provvedimento, sinora, sono stati soddisfacenti nel demotivare il turismo di massa e nel contempo rendere gratificante il soggiorno di chi sceglie di accollarsi la spesa.

Un fenomeno da governare

Un altro aspetto ancora poco misurato, ma di cruciale importanza, è quello del cosiddetto leakage, la dispersione (o perdita, come quella dei tubi idraulici bucati) degli introiti derivanti dal turismo e può prendere la forma di profitti e ricavi pagati agli operatori turistici internazionali, di costi per beni e servizi importati, o di pagamenti di interessi sul debito. Uno studio della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) stima che il leakage medio per la maggior parte dei paesi in via di sviluppo è tra il 40% e il 50% dei proventi lordi e tra il 10% e 20% per i paesi sviluppati o in via di sviluppo ma con economie più diversificate e quindi in grado di rispondere almeno in parte alla domanda di beni e servizi che il settore turistico rivolge ai vari comparti produttivi del paese@.

Il Wttc fornisce del leakage una stima al rialzo, segnalando fughe di introiti che vanno dal 40% dell’India all’80% dei Caraibi, con punte dell’85% in posti come le Bahamas@.

Tenendo in considerazione entrambe le ipotesi si può in sintesi dire che su 100 dollari spesi da un turista in un paese in via di sviluppo, dieci, bene che vada, o addirittura 85, nella peggiore delle ipotesi, escono dal paese e vanno a incrementare i profitti di intermediari turistici, oppure di aziende alimentari o tessili che producono cibo, tovaglie o lenzuola a migliaia di chilometri di distanza e li esportano perché siano utilizzati in un resort tanzaniano o in un mega albergo thailandese.

Chiunque si sia trovato a viaggiare nei paesi del Sud del mondo per vacanza o per lavoro si è probabilmente trovato almeno una volta nella sala da pranzo di una struttura turistica africana, asiatica o sudamericana e si è sentito disorientato nel constatare come questa fosse identica al ristorante di un centro congressi all’uscita di un’autostrada francese, inglese o italiana, l’unica differenza sta nella variante esotica rappresentata dal tetto in paglia e dalle finestre senza vetri.

Spesso l’importazione di beni è legata all’assenza di collegamento fra le filiere produttive locali e le strutture turistiche: la mancanza di una catena del freddo affidabile per la conservazione dei cibi nel tragitto dagli agricoltori e allevatori locali al turista consumatore, le condizioni precarie delle vie di comunicazione che rendono troppo costoso il trasporto e altre simili interruzioni del processo che connette il produttore interno all’utente sono fra i principali ostacoli. Lucie Servoz, esperta di turismo dell’Organizzazione internazionale del lavoro, indica come primo passaggio verso un turismo sostenibile proprio il «rafforzamento dei collegamenti del settore turistico con i settori connessi nella sua filiera (ad esempio l’agricoltura, l’artigianato, i trasporti, le infrastrutture, le costruzioni) e la contestuale promozione di un approccio integrato e dell’approvvigionamento locale»@.

Altro aspetto da tenere in considerazione quando si parla di turismo sostenibile è quello delle ricadute occupazionali che potrebbe avere, ad esempio, in un continente come l’Africa, che secondo le proiezioni raggiungerà nel 2030 il miliardo e settecentomila abitanti e dove i bambini di età compresa fra 0 e 14 anni rappresentano oggi il 43% della popolazione nei paesi subsahariani, tre volte tanto rispetto ai coetanei che abitano nell’Unione europea@.

Sempre secondo le stime del Wttc, se i Paesi africani faranno riforme in materia di visti per facilitare gli spostamenti, si impegneranno per aumentare la connettività nel trasporto aereo e realizzeranno programmi efficaci di crescita, entro il 2028 il settore del turismo e dei viaggi potrebbe arrivare a generare fra i 30 e i 45 milioni di posti di lavoro.

Che cosa può fare il turista?

L’Organizzazione mondiale del turismo ha diverse raccomandazioni anche per i viaggiatori che vogliano contribuire a rendere il turismo sostenibile. Fra queste: non sprecare il cibo, dare visibilità alle iniziative interessanti – sulla promozione delle donne, o sulle risposte al cambiamento climatico – che si incontrano nel corso del soggiorno, informarsi prima di partire in modo da soggiornare in strutture che applichino pratiche sostenibili e non dannose per l’ambiente, imparare qualche parola della lingua locale per entrare in contatto con le comunità.

In aiuto del viaggiatore vengono anche i sistemi di certificazione bio e fair trade applicati alle strutture turistiche; di solito queste certificazioni sono accompagnate da un simbolo che viene esposto sia nelle strutture che nei loro siti web. Le «etichette» sono tante perché tanti sono gli enti e i metodi di certificazione e in effetti tutti questi simboli – spesso verdi e contenenti una fogliolina o qualcosa che richiama la natura – rischiano di assomigliare a una giungla. A tentare di mettere ordine sono state alcune organizzazioni tedesche, austriache e svizzere, che hanno prodotto una guida dal titolo Sostenibilità nel turismo. Una guida nella giungla di etichette@.

Per chi parla solo italiano, un buon punto di partenza anche solo per farsi un’idea di quali caratteristiche ha un viaggio improntato a principi opposti a quelli del turismo di massa, è il sito dell’Associazione italiana turismo responsabile (Aitr), che raccoglie fra l’altro le proposte di viaggio dei soci, in Italia e all’estero@.

Chiara Giovetti




Di cicloni in Mozambico

e nuovi dirigenti AICS in Italia


Testo di Chiara Giovetti


Mozambico, alluvioni e cicloni

Prima le inondazioni, poi i cicloni. Il Mozambico colpito dalla violenza della natura cerca di rimettersi in piedi.

Forti piogge hanno colpito il Mozambico centro settentrionale a partire dal 6 marzo scorso. Le regioni più interessate sono state Zambezia, Tete e la regione centrale. I primi bilanci parlavano di sette morti, oltre 32mila persone coinvolte dagli allagamenti e 4.242 sfollati.

Il 10 marzo l’Istituto nazionale di meteorologia del Mozambico ha diramato un’allerta in cui segnalava che la depressione in corso sarebbe diventata una tempesta tropicale, denominata Idai.

Oltre alle zone già colpite sono stati inondati anche parte del Niassa e 83mila ettari di terreni coltivati. Un totale di quasi 55mila piccoli coltivatori danneggiati.

Il ciclone Idai

Il ciclone Idai si è abbattuto sul paese nella notte fra il 14 e il 15 marzo, in particolare sulla città di Beira, provincia di Sofala, nel Mozambico centrale.

Le Nazioni Unite hanno immediatamente lanciato un appello per raccogliere 40,8 milioni di dollari necessari a soccorrere 400mila persone che, secondo le proiezioni sul percorso del ciclone, si stimava sarebbero state colpite.

Dopo una serie di aggiornamenti e verifiche, il 3 aprile scorso il numero ufficiale delle vittime è stato quantificato in 598, più oltre 1.600 feriti. Vi erano 131mila persone ospitate in ricoveri temporanei.

Le case completamente distrutte sono risultate essere oltre 85mila, 97mila erano parzialmente distrutte e quasi 16mila allagate.

Gli ettari di coltivazioni distrutti sono stati più di 715mila.

Idai ha poi continuato la sua corsa verso lo Zimbabwe dove, a fine marzo, si contavano 181 vittime, 175 feriti, circa 330 dispersi e un totale di 270mila persone colpite dagli allagamenti.

La città di Beira

Beira è la quarta città più grande del Mozambico con 500mila abitanti. Capitale della provincia di Sofala, al centro del paese, è affacciata sull’Oceano Indiano. Il suo porto è uno snodo cruciale sia per il Mozambico che per alcuni paesi vicini che non hanno sbocco al mare: Malawi, Zimbabwe e Zambia. Parte della città si trova sotto il livello del mare, «su una costa che secondo gli esperti è una delle zone del mondo più vulnerabili all’innalzamento delle acque dovuto al cambiamento climatico»@.

Mentre il porto ha ripreso le attività poco dopo il ciclone@, l’area circostante deve fare i conti con una devastazione senza precedenti: il 90% della città è infatti stato danneggiato o distrutto@.

La zona di Beira è il granaio del paese con un ruolo cruciale nei periodi di carestia. L’80% della popolazione mozambicana – e la regione intorno a Beira non fa eccezione – basa la propria sussistenza sull’agricoltura; nel 99% dei casi si tratta di piccoli coltivatori@.

Tete e Cuamba

Padre Sandro Faedi, Imc, ha testimoniato il 3 aprile per la rubrica online di Missioni Consolata, «Fuori Carta», la situazione di Tete, capoluogo della provincia omonima, confinante con la provincia di Sofala: «Centinaia di famiglie, si dice 860, sono state prese di sorpresa durante la notte, e hanno salvato a malapena la vita. Casa, oggetti, utensili, tutto alla malora. I morti… non si sa, forse una quarantina».

Oltre a occuparsi di Tete, dove lo stato sta cercando di intervenire, padre Sandro segue anche la situazione nelle più sguarnite Mpenha e Nkondezi, dove le famiglie colpite sono rispettivamente 673 e 12. A Nkondezi, grazie alla generosità di alcuni donatori privati, padre Sandro sta aiutando le famiglie a ricostruire le loro case.

Padre Willhard Kiowi da Cuamba (Niassa) segnala invece che circa ottanta famiglie sono ospiti a Nossa Senhora Aparecida, una delle chiese legate alla parrocchia di San Miguel Arcanjo dove lavorano i missionari della Consolata. Qui i missionari hanno intensificato l’assistenza alimentare, di solito rivolta ai bambini malnutriti del centro nutrizionale, fornendo anche alle famiglie riso, farina di mais, zucchero, sale e olio per cucinare, oltre che materiale per l’igiene personale, coperte e stuoie. Secondo la rivista Africa e Affari, «il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha concesso un sostegno finanziario di emergenza al Mozambico per un importo di 118,2 milioni di dollari, in seguito alle gravi conseguenze, anche economiche, provocate dal passaggio del ciclone Idai su alcune zone del paese»@.

Era inoltre prevista per fine maggio una conferenza dei donatori internazionali organizzata dal governo di Maputo per discutere e coordinare la ricostruzione.

Il ciclone Kenneth

Mentre lavoravamo a questo articolo, un altro ciclone, denominato Kenneth, si è abbattuto il 25 aprile sul Nord del Mozambico (tra Pemba e Mocimboa e sulle isole Comore) e ha raso al suolo interi villaggi e provocato decine di vittime. Nei giorni precedenti, nel paese erano state evacuate 30mila persone. Secondo l’Unicef@, dopo l’ultimo disastro, 368mila bambini sono bisognosi di sostegno umanitario.

È rarissimo che due cicloni di tale intensità colpiscano il Mozambico nella stessa stagione, essi riportano la nostra attenzione ai cambiamenti climatici che interessano l’Africa. Il Mozambico, con i suoi 2.400 chilometri di costa sull’Oceano Indiano, è in prima linea nella lotta al cambiamento climatico.

Chiara Giovetti


Aics – Agenzia italiana per la Cooperazione allo Sviluppo

Nuovo direttore, vecchi problemi?

L’Aics ha un nuovo direttore, il candidato della Farnesina Luca Maestripieri. Un diplomatico invece di un tecnico a capo di un’agenzia che dovrebbe essere indipendente dalla politica. Il punto sulle polemiche.

Dal 6 aprile scorso Luca Maestripieri è il nuovo direttore dell’Aics, l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo.
Nato a Viareggio 58 anni fa, laureato in giurisprudenza, ha una carriera diplomatica che lo ha portato a Lubiana, Lisbona, New York e Parigi. Prima della nomina a direttore dell’Aics, Maestripieri ricopriva la carica di direttore centrale per gli affari generali e amministrativi presso la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo (Dgcs) del ministero degli Affari esteri e della cooperazione (Maeci).

Contestualmente alla nomina di Maestripieri, un’altra figura di rilievo dell’Agenzia, il direttore del Dipartimento per le relazioni istituzionali e internazionali Emilio Ciarlo@, ha rassegnato le proprie dimissioni. La sua reazione alla nomina del nuovo direttore è stata la pubblicazione, il 5 aprile, sul suo profilo Facebook, di un’immagine del processo alle streghe di Derneburg (1555) sovrastata dalla scritta «Controriforma»@.

Due giorni dopo, in una lunga nota tecnica intitolata «Evitiamo titoli», Ciarlo ha più chiaramente argomentato la sua posizione@: «Volevamo che la cooperazione fosse una politica. Il contributo dell’Italia a un’idea di globalizzazione dei diritti e dei rapporti internazionali, un modo per essere “creatori” di sviluppo, non pianificatori, non benefattori, non semplicemente caritatevoli. Per questo doveva essere complementare e non succube della politica estera. Parte integrante non ancillare. Per questo è stata istituita un’Agenzia, autonoma, specializzata […]. A fare una sintesi con le istanze politiche, le preoccupazioni diplomatiche, le considerazioni commerciali ci avrebbe pensato l’altra gamba, quella del ministero, in una dialettica trasparente che sarebbe stata mediata e risolta, a favore dell’una o dell’altra posizione, dal viceministro […]. Questo era l’equilibrio. Questo il disegno, originale, considerato ora dall’Ocse e dai nostri partner europei un’architettura innovativa e promettente. Questo equilibrio ora salta».

A rendere più esplicito il punto ci ha pensato Carlo Ciavoni su la Repubblica, che ha ricostruito la vicenda in un articolo dal titolo Cooperazione italiana: con la nomina di Luca Maestripieri alla direzione dell’Aics vince la diplomazia@.

«La bisbetica maggioranza di governo», scrive Ciavoni, «con tutti i problemi che ha, ha pensato bene di non rischiare e di non superare quel confine sottilissimo che divide la Cooperazione dalla Diplomazia».

Il dibattito sulla «vittoria della diplomazia»

Che cosa significa «vince la diplomazia» e qual è il problema se questo succede?

A contendersi con Luca Maestripieri il ruolo di direttore erano stati, nella fase iniziale, 56 candidati, ridotti poi a una terna di nomi finalisti che comprendeva, oltre al diplomatico poi nominato, anche Emilio Ciarlo e Flavio Lovisolo, il direttore dell’Agenzia a Tunisi. La vittoria della diplomazia dunque consiste in questo: che fra i tre candidati, dei quali due erano tecnici di alto profilo già attivi nell’Agenzia e il terzo un diplomatico del ministero degli Affari esteri, è stato scelto quest’ultimo. Il problema che molti vedono sorgere di conseguenza a questa scelta è che l’Agenzia perda di autonomia e diventi «ancella» del ministero. Di conseguenza, il timore è che la cooperazione diventi non più parte integrante e qualificante della politica estera, come l’ha definita la legge 125 del 2014, ma un’appendice striminzita in balia degli umori e delle decisioni prese alla Farnesina, che a loro volta dipendono da equilibri politici più attenti agli interessi economici e alla pancia dell’opinione pubblica che alla solidarietà internazionale.

Interni contro esterni

Accanto a questo dibattito (chiamiamolo per brevità diplomatici versus tecnici) se ne è poi sviluppato uno parallelo, quello degli interni versus esterni, cioè dei candidati appartenenti all’Agenzia o al Maeci, da un lato, e dei candidati provenienti da altri settori – a cominciare dalla società civile – dall’altro.

La prima fase della selezione ha visto uno dei concorrenti «esterni», l’ex presidente della Ong Vis, organizzazione di ispirazione salesiana, poi sindaco di Gaeta e portavoce del network di Ong Cini, Antonio Raimondi, ricorrere al Tar «contro la totale mancanza di trasparenza e contro le palesi ingiustizie da parte della commissione esaminatrice nel proporre la “lista ristretta” al ministro degli Esteri»@.

Non meno polemico è stato Edoardo Missoni, medico specializzato in medicina tropicale e segretario generale dell’Organizzazione mondiale del Movimento Scout dal 2004 al 2007, che sul blog info-cooperazione così ha commentato@ l’incarico al diplomatico toscano: «Era il candidato della Farnesina. Hanno avuto bisogno di tredici mesi per decidere quello che avevano già deciso». Dato il suo precedente ruolo alla «Dgcs che controlla l’Aics», rincara Missoni, a sua volta candidato alla direzione dell’Agenzia nel 2015, «difficile pensare che non abbia avuto voce in capitolo nell’organizzare il concorso al posto per il quale si era candidato. Conflitto d’interessi? L’Avvocatura dello stato deve aver chiuso un occhio (forse entrambi)». Secondo Missoni, il nuovo direttore ha un’esperienza nella cooperazione allo sviluppo «limitata alla burocrazia […], ma la gestione di una Agenzia di cooperazione allo sviluppo avrebbe richiesto altre competenze (anche di un po’ di “gavetta” nei Pvs). E poi, di quale autonomia (di pensiero e azione) sarà capace nei confronti della “casa madre”?».

Più incline a smorzare i toni è stato Nino Sergi, fondatore di Intersos, organizzazione specializzata nell’intervento umanitario d’emergenza, e policy advisor della rete di Ong Link2007, che definisce fuorviante il titolo dell’articolo di Ciavoni su la Repubblica. Il punto non è, a detta di Sergi, se abbia o meno vinto la diplomazia, ma se la scelta di Maestripieri sia quella giusta per contribuire a far funzionare la cooperazione italiana, a migliorarne la qualità e a renderla più efficace. «Oggi la decisione è stata presa e lo sforzo va tutto indirizzato a sostenere il nuovo direttore nel non facile suo compito. È ciò che ho fatto», conclude il fondatore di Intersos, «quando è stata nominata Laura Frigenti (precedente direttrice dell’Aics, ndr), anche se avrei preferito un’altra scelta».

Infine, arriva da Silvia Stilli, portavoce dell’Associazione Ong Italiane (Aoi), un invito all’esame di coscienza: «Credo che tutta questa vicenda in ogni caso meriti una riflessione su come sia percepita la cooperazione internazionale fuori dai nostri contesti di vita ad essa dedicata». Nel suo commento, Stilli sembra voler suggerire che è mancata una nutrita e credibile rappresentanza di candidati non squisitamente ministeriali: «Chi si è candidato all’uscita dell’avviso pubblico dei vari attori? Chi vuole mettersi in gioco in questo percorso? […[ Mi riferisco senza peli sulla lingua al “mio (?) mondo”. Antonio Raimondi escluso. […] Non sono ottimista e non mi va di dare sempre la colpa ai governi». Come dire: se i candidati qualificati e motivati esterni al recinto della diplomazia non si fanno avanti, è ancor più facile che poi «vinca la Farnesina».

Intanto la cooperazione frena

Il 10 aprile è uscito il rapporto annuale dell’Ocse@ sull’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps), che introduce un nuovo metodo per misurarlo@. Sarà pienamente utilizzato solo dal 2019 ma già per il 2018 l’Ocse pubblica i dati preliminari ottenuti utilizzando la nuova misurazione, che si basa non più sul cosiddetto cash flow, cioè il complessivo valore dei prestiti fatti ai paesi, ma sul grant equivalent, cioè la componente di dono contenuta in questi prestiti. Il principio, insomma, è che chi fa un dono (grant) «aiuta di più» rispetto a chi concede un prestito, ed è necessario misurare l’aiuto in modo da evidenziare più chiaramente questa parte di regalo.

Utilizzando il nuovo metodo, nel 2018, i 30 paesi donatori membri del Development Assistance Committee (Dac, in italiano Comitato di assistenza allo sviluppo) hanno fornito aiuti per un totale di 153 miliardi di dollari, con gli Stati Uniti primo donatore (34,3 miliardi) seguiti da Germania (25), Regno Unito (19,4,), Giappone (14,2) e Francia (12,2 miliardi).

Se si guarda la percentuale dell’aiuto rispetto al Pil, a superare la soglia dello 0,7% sono stati solo la Svezia (1,04%), il Lussemburgo (0,98%), la Norvegia (0,94%), la Danimarca (0,72%) e il Regno Unito (0,7%).

Utilizzando invece il metodo del cash flow, il totale dell’Aps per i paesi Dac è stato di 149,3 miliardi di dollari, con una contrazione del 2,7% rispetto all’anno precedente causata principalmente dalla diminuzione dei costi per l’assistenza ai rifugiati nei paesi donatori. L’Italia è passata dai 5,86 miliardi di dollari del 2017 agli attuali 4,9: una diminuzione del 21,3%. La riduzione dei costi per i rifugiati è responsabile di questo calo solo per meno della metà: al netto di questa voce, infatti, l’aiuto italiano è comunque diminuito di oltre 12 punti percentuali e si attesta sullo 0,24% del Pil a fronte di uno sforzo medio dei paesi Dac pari allo 0,38%@.

Chiara Giovetti

 




Comunicare la cooperazione nel tempo delle fake news


In vista della 53ª giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che si celebrerà il prossimo 2 giugno, affrontiamo il rapporto fra comunicazione e cooperazione, ragionando sulle fake news che riguardano sviluppo, migrazioni e cambiamento climatico e sul perché è più difficile smontarle.

Testo di Chiara Giovetti

«Ti è mai capitato di sentire il bisogno irresistibile di inoltrare agli amici o di condividere sui social network una notizia che ti è piaciuta o ti ha fatto indignare soltanto perché ne hai letto il titolo? Capita a tutti: è un effetto naturale del pregiudizio di conferma (o bias di conferma), cioè la tendenza comune a credere che sia vero quello che vogliamo che sia vero (anche quando non è vero)».

Così Paolo Attivissimo, giornalista e studioso della disinformazione nei media, apre Come diventare detective antibufala@, una guida commissionata dal Miur e dalla Camera dei Deputati.

Le fake news sono agili, immediate, semplici. Spesso sono perfino rassicuranti, anche quando diffondono un’informazione allarmante, perché confermano una nostra opinione e ci fanno sentire scaltri, persone capaci di scoprire la verità anche oltre ciò che «loro non dicono».

Le fake news on devi cercarle, ti trovano loro: ti aspettano sui social, ti inseguono su whatsapp, ti raggiungono passando di bocca in bocca, si mimetizzano fra le altre notizie.

Il debunking e il fact-checking – traducibili come demistificazione e verifica dei fatti – sono invece più lenti, articolati e impegnativi per chi li legge o ascolta. Per verificare le informazioni che ti raggiungono, inoltre, devi volerlo, non puoi essere di fretta e devi essere disposto a farti venire un dubbio, che per definizione non è rassicurante.

Le cose si complicano parecchio quando le fake news si applicano a un ambito poco conosciuto, complicato e eticamente delicato, come è il caso della cooperazione allo sviluppo e dei temi ad essa collegati, dalle migrazioni al cambiamento climatico, dalla povertà e ai diritti umani. Un esempio è la presa di posizione del 4 febbraio 2018 dell’allora eurodeputato Matteo Salvini, che durante un’intervista a Non è l’Arena di Massimo Giletti citava la relazione di una deputata svedese nella quale si introduceva la figura dell’immigrato climatico: «Adesso», commentava sarcastico Salvini, «dovremo ospitare anche gli immigrati climatici: cioè se uno ha freddo, se uno ha caldo… […] A Milano c’è la nebbia, a me non piace la nebbia, e allora mi sposto perché sono un immigrato climatico»@.

Sulla stessa falsariga ci sono state, successivamente, altre interviste televisive di diversi esponenti politici sul franco Cfa (vedi Cooperando su MC di marzo) e sulla Dichiarazione di New York per i migranti e i rifugiati, nota anche come Global Compact. La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha definito quest’ultimo accordo internazionale «una vera e propria fregatura» perché «garantisce qualunque tipo di immigrazione: non solo chi scappa dalla guerra, dalla violenza e dalla tortura, ma anche chi scappa dalla povertà, chi scappa dal caldo e chi si muove semplicemente perché gli va».

Sarebbe bastato opporre a Salvini che un migrante climatico non scappa dal caldo o dalla nebbia, ma da fenomeni estremi che rendono invivibile il luogo in cui abita; sul Global Compact sarebbe stato sufficiente controbattere a Giorgia Meloni – come ha fatto Nino Sergi sul giornale online La Voce di New York@ – che «non si tratta di un patto vincolante né intacca la sovranità degli stati. Ma la sua adozione, anche da parte dell’Italia, potrebbe mettere le basi per potere iniziare un cammino, difficile ma possibile, verso un governo ordinato, regolare, sicuro della migrazione».

Tuttavia, in nessuno dei casi citati gli intervistatori sono stati in grado di contestare nel merito le affermazioni dei leader politici proprio perché si tratta di temi scarsamente o per nulla frequentati nei talk show e nei tg del nostro paese. E le informazioni errate contenute in quelle affermazioni, se non vengono immediatamente arginate finiscono per dilagare, amplificate dai social network. Dimenticando, tra l’altro, che ci sono diversi italiani «migranti climatici», secondo la definizione salvianiana, in altri paesi, come a Malindi in Kenya o in Portogallo.

© Daniele Biella

Perché cooperazione e temi limitrofi sono tanto indigesti?

Il problema principale nel correggere un’informazione imprecisa sulla cooperazione, sulla migrazione e sugli ambiti a esse vicini è che non basta opporre un’argomentazione corretta, bisogna anche spiegare un sacco di cose. Non si parla di pensioni, di partite Iva o di reddito di cittadinanza, argomenti con cui la stragrande maggioranza delle persone viene a contatto direttamente o attraverso le esperienze di amici e parenti. Si parla viceversa di un tema che, per quanto negli ultimi anni ampiamente trattato e fortemente sentito@, rimane percepito come lontano dal quotidiano e dai bisogni immediati dei cittadini italiani.

A sua volta, chi si trova a comunicare la cooperazione e il suo funzionamento deve avvalersi di strumenti che tengano conto della delicatezza dell’argomento. Deve, cioè, evitare sia quella che in un acceso dibattito di qualche anno fa venne definita la pornografia del dolore, sia la troppa leggerezza@.

A questo proposito il Saih, Fondo degli studenti e accademici norvegesi per l’assistenza internazionale, ha monitorato fino al 2017 gli spot promozionali delle organizzazioni attive nello sviluppo, istituendo premi – ironicamente chiamati golden radiator o rusty radiator, il radiatore d’oro o arrugginito – per i migliori e i peggiori messaggi pubblicitari. Nell’ultima edizione, il vincitore del radiatore arrugginito è stato lo spot del Disasters Emergency Committee, organizzazione che riunisce 14 agenzie britanniche per l’aiuto umanitario. Il video promozionale, che aveva l’obiettivo di raccogliere fondi per la crisi in Yemen@, è stato giudicato «didascalico e stereotipato, lesivo della dignità di coloro che soffrono, uno spot che ci riporta agli anni ottanta e che sottintende: noi siamo i buoni, voi gli egoisti». Viceversa, il radiatore d’oro è andato allo spot di War Child Holland@, organizzazione attiva nella protezione e assistenza ai bambini in zone di conflitto. Il video ritrae un bambino in un campo profughi mentre gioca e svolge le sue attività quotidiane insieme a un Batman grosso e rassicurante ma anche divertente e un po’ buffo che lo accompagna e lo protegge, con il sottofondo musicale di You’re my best friend dei Queen. Solo nelle ultime inquadrature cessa la musica e il Batman si rivela essere il papà del bambino, un supereroe del giorno per giorno che porta in braccio il figlio allontanandosi dalle macerie fumanti di una città in guerra. Il video si conclude con una frase che recita: per alcuni bambini la fantasia è l’unico modo per scappare dalla realtà.

Comunicare la cooperazione significa muoversi all’interno di questi confini, per delineare meglio i quali la rete nazionale di Ong irlandesi ha elaborato nel 2015 un Codice di condotta@ in cui si raccomanda di evitare gli stereotipi, di dar precedenza alla testimonianza delle persone direttamente interessate e ottenerne comunque sempre il consenso prima di usarne immagini e parole, favorire una comunicazione in cui le immagini e situazioni non illustrino solo l’immediato – un bisogno, un problema – ma anche il più ampio contesto in cui si colloca, così da permettere al pubblico una miglior comprensione delle realtà e delle complessità dello sviluppo.

© AfMC / Beppe Svanera – Marialabaja, Colombia / È l’olio di palma che fa male o il modo di coltivarlo?

Le fake news sulle Ong

Una efficace sintesi delle principali notizie false che circolano sulle Ong era stata fornita lo scorso marzo da Paolo Dieci, il compianto presidente della Ong Cisp (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli) e della rete Link2007 scomparso nell’incidente aereo del 10 marzo, quando il Boeing diretto a Nairobi su cui volava insieme ad altri 156 passeggeri è caduto poco dopo il decollo da Addis Abeba. La rete Link2007 ha dedicato a Paolo Dieci un documento dal titolo Ong e trasparenza. Realtà e normativa in essere, che si chiude con il testo di una mail inviata dal presidente ai colleghi la sera prima dell’incidente. Nel messaggio, individuava cinque falsi miti secondo i quali le Ong «fanno ciò che vogliono; nessuno le controlla; fanno politica di parte; sottraggono risorse alla collettività; favoriscono la migrazione irregolare».

Paolo Dieci smentiva questi luoghi comuni precisando i seguenti punti:
«a) non esiste un singolo progetto realizzato che non sia stato approvato da soggetti rappresentativi dei paesi, inclusa l’Italia;
b) in media un’Ong della nostra dimensione riceve 30-40 audit annuali oltre a 2 livelli di verifica del bilancio;
c) le Ong non si schierano per “partiti” ma per “cause” e ho fatto l’esempio del Global Compact sulla Migrazione;
d) le Ong di Link 2007 portano molte più risorse al sistema Italia di quante ne ricevano, impattando anche sul piano occupazionale e formando giovani;
e) le Ong, concretamente, sono spesso sole a prevenire la migrazione a rischio, ma sempre avendo come riferimento i diritti umani»@.

© Paolo Moiola / moschea in Pakistan / È la religione che fa diventare violenti o i violenti che usano la religione per giustificarsi?

Il messaggio del Papa sulla comunicazione

Siamo membra gli uni degli altri (Ef 4,25). Dalle social network communities alla comunità umana: questo il titolo del messaggio di papa Francesco per la 53a giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebrerà il prossimo due giugno@.

Pubblicato il 24 gennaio – giorno in cui si ricorda San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti – il messaggio parte dall’invito del pontefice a riflettere sul nostro essere «in relazione» e a riscoprire «il desiderio dell’uomo che non vuole rimanere nella propria solitudine».

La rete in sé è uno strumento neutro: può essere un veicolo di incontro con l’altro ma anche di autoisolamento, «come una ragnatela capace di intrappolare», di cui sono vittima specialmente i ragazzi, più esposti all’illusione che la rete da sola possa soddisfare le loro esigenze relazionali.

«È chiaro», prosegue il messaggio, «che non basta moltiplicare le connessioni perché aumenti anche la comprensione reciproca», che può crescere solo nella comunione, la quale si nutre della verità mentre al contrario la menzogna divide e «smembra».

Il riferimento all’essere membra gli uni degli altri rimanda poi anche a un secondo aspetto, quello dell’importanza dell’incontro in carne e ossa. Se la rete è funzionale a questo incontro, lo facilita e lo arricchisce, allora è una risorsa.

«Questa è la rete che vogliamo», conclude il papa, «una rete non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere».

Il tema della precedente giornata mondiale delle comunicazioni era illustrato da una frase del Vangelo di Giovanni: la verità vi renderà liberi. Se è così, allora la post verità – in cui l’emotività sostituisce i fatti oggettivi nella formazione delle opinioni delle persone – prelude alla post libertà. E non ha l’aria di essere uno scenario da augurarsi.

Chiara Giovetti




Aiutarli a casa loro:

dalle parole ai fatti

Testo di Chiara Giovetti |


Negli ultimi anni si susseguono le dichiarazioni di intenti dei governi sull’impegno per lo sviluppo. Spesso si tratta di declinazioni più o meno esplicite dell’idea «aiutiamoli a casa loro» e si concentrano principalmente sull’Africa. Ma, ancora una volta, gli slogan allontanano, non avvicinano, i cittadini dalla comprensione dei fatti.

Diciamolo subito: ci vorranno anni, decenni probabilmente. Anche volendo prendere sul serio lo slogan «Aiutiamoli a casa loro», anche cominciando subito e anche mettendoci il doppio delle risorse che ci mettiamo ora, ci vorranno anni prima che il livello di sviluppo nei paesi di provenienza dei migranti sia tale da ridurre i flussi migratori.

Qualunque politico che affermi: stiamo lavorando per creare lavoro e opportunità in Africa, dovrebbe aggiungere almeno tre cose: la prima è che ci vorrà tempo prima che l’aiuto mondiale allo sviluppo sia in grado di incidere in modo decisivo sulle economie dei paesi a cui è diretto. La seconda è che, comunque, questo aiuto può essere efficace a patto che si riducano le spinte in senso contrario e che gli sia consentito di orientare in senso redistributivo l’aumento di ricchezza che i paesi a basso reddito tenteranno di raggiungere con le proprie forze. La terza, di cui solo da pochi anni si è cominciato a parlare, ma che ha il potenziale di minare alle fondamenta le tesi degli anti immigrazionisti, è che potrebbe andare peggio prima di andare meglio. Diversi studi, infatti, mettono in discussione l’equazione «più sviluppo uguale meno migrazione» e suggeriscono, al contrario, che il miglioramento delle condizioni di un paese potrebbe spingere i suoi cittadini a emigrare di più, non di meno.

Secondo il sondaggio dell’Eurobarometro pubblicato lo scorso settembre, gli italiani nel 2017 erano più convinti rispetto all’anno precedente che affrontare il problema della povertà nei paesi in via di sviluppo dovrebbe essere una priorità sia per l’Unione europea che per il governo italiano. Rispetto alla rilevazione del 2016, inoltre, gli intervistati favorevoli a che l’Ue e i suoi stati membri spendessero di più per aiutare i paesi poveri erano aumentati del 10%@.

La crescente sensibilità verso questo tema è con tutta probabilità legata al fenomeno migratorio e all’urgenza di trovare soluzioni per gestirlo: l’arrivo di migliaia di esseri umani sulle coste europee ci ha spinti a chiederci quali siano i motivi che portano i migranti ad affrontare un viaggio così drammatico e i rischi mortali ad esso connessi. A fronte di questa maggior sensibilità verso lo sviluppo, lasciare intendere – con affermazioni pressappochiste – che la cooperazione sia lo strumento per una soluzione raggiungibile nello spazio di una legislatura rischia di peggiorare, e di molto, le cose. Perché crea aspettative che, semplicemente, non possono che essere disattese e getta le basi per un pericoloso passaggio successivo: se la cooperazione non serve, non facciamola più.

A che punto siamo

Il mondo dello sviluppo non solo è lontano dall’essere una bancarella di bacchette magiche capaci di risolvere velocemente i problemi se solo ci si decidesse a usarle; è anche un mondo inquieto e percorso in profondità da dubbi e contraddizioni. Sono passati dieci anni da quando il libro Dead Aid (in italiano: La carità che uccide), scritto dall’economista zambiana Dambisa Moyo, ha ferocemente criticato il sistema degli aiuti. «Negli ultimi cinquant’anni», scriveva Moyo nell’introduzione, «più di mille miliardi di dollari di aiuti allo sviluppo sono stati trasferiti dai paesi ricchi verso l’Africa. Questa assistenza ha migliorato la vita degli africani? No. In realtà, in tutto il globo, i beneficiari di questo aiuto stanno peggio. Molto peggio». E solo quattro anni fa la comunità internazionale si sedeva (simbolicamente) intorno a un tavolo per constatare che gli Obiettivi di sviluppo del Millennio, trionfalmente lanciati nel 2000, non erano stati completamente raggiunti@.

Oggi, mentre gli Obiettivi di sviluppo del Millennio hanno lasciato il posto agli Obiettivi di sviluppo sostenibile 2015-2030, gli addetti ai lavori nelle agenzie internazionali, nei governi e nelle Ong stanno ancora ponendosi molte domande non solo sugli interventi sui quali concentrarsi ma anche su come misurare i risultati.

Euractiv, rete di media europei che segue l’attualità e il dibattito sui temi rivelanti per l’Ue, ne ha parlato con Sarah Holzapfel, economista e ricercatrice specializzata sull’agricoltura all’Istituto Tedesco per le Politiche dello Sviluppo (Die). Non basta, sottolinea Holzapfel, citare come risultati il numero di chilometri di strade costruiti o l’acqua fornita con i progetti idrici. «Le vite dei gruppi beneficiari sono cambiate? Il loro reddito è cresciuto? La sicurezza alimentare è aumentata?». Queste sono le domande da porsi per capire qual è l’impatto della cooperazione. E, in mancanza di criteri comuni e di sforzi coordinati fra tutti i donatori, compiere queste misurazioni è a oggi estremamente complicato@.

Non bisogna inoltre dimenticare che parte delle difficoltà a misurare non solo i risultati ma anche i problemi da affrontare deriva dalla molto variabile disponibilità di dati statistici e dalla loro non sempre immediata comparabilità. È un’informazione che fatica a farsi strada fino alle pagine degli esteri dei quotidiani nazionali e, meno ancora, dei Tg della sera, eppure è fondamentale.

Haishan Fu, direttrice della sezione della Banca Mondiale che si occupa dei dati dell’economia dello sviluppo, ammoniva lo scorso febbraio che «ci sono ancora molti spazi vuoti sulla mappa dei dati a livello globale», e che «fino a pochi anni fa, 77 paesi ancora non disponevano dei dati adeguati a misurare la povertà. Quel che è peggio è che spesso i dati sono più scarsi proprio nelle zone dove sarebbero disperatamente necessari»@.

D’altro canto, da paesi che, come vedremo fra poco, non riescono a finanziare sanità e istruzione non ci si può aspettare che investano fondi per potenziare i propri istituti nazionali di statistica.

Questo significa che la cooperazione è uno strumento eccessivamente fragile ed è meglio non contarci troppo? No, il contrario. Significa che va fatta a meglio. Con più risorse e anche più coordinamento.

L’Overseas Development Institute (Odi), centro di ricerca con sede a Londra, sottolineava lo scorso autunno che ci sono ancora 800 milioni di persone in povertà estrema, ma il grosso dell’aiuto va ai paesi a medio reddito, non ai più poveri, perché in questi ultimi è più rischioso investire. Anche quando si tratta di aiuti@.

In un rapporto del settembre 2018@ l’Odi individua 48 paesi nei quali l’aumento (stimato) del gettito fiscale nei prossimi anni non arriverà comunque a coprire del tutto i costi per finanziare i tre settori chiave: istruzione, sanità e protezione sociale. Fra questi 48, il rapporto ne isola poi 29 in forte difficoltà economica (severely financially challenged, in inglese): tutti africani tranne Afghanistan, Corea del Nord e Haiti. Si tratta di paesi che non riescono a coprire nemmeno la metà dei costi per far funzionare i tre settori. Se almeno 33 dei 40 miliardi di dollari in aiuti che ora vanno a paesi già in grado di far fronte da soli ai quei costi venissero invece spostati su quei 29 Paesi più deboli, la spesa di questi ultimi per sanità, istruzione e protezione sociale sarebbe coperta.

Inoltre, se tutti i paesi donatori destinassero come da accordi internazionali lo 0,7% del loro Pil alla cooperazione, 184 miliardi di dollari all’anno in più sarebbero disponibili. Ipotizzando che anche solo metà di questi fossero utilizzati dai 48 paesi di cui sopra, tutti potrebbero far fronte al 94% dei costi per i tre ambiti cruciali.

È ovvio che un aiuto efficace richiede coordinamento, assunzione (e mantenimento) di impegni a livello internazionale e, lo ripetiamo, tempo per produrre e consolidare gli effetti.

Le spinte in senso contrario

Non è colpa solo di quell’arpia della Francia o dei malvagi cinesi. Le spinte in senso contrario allo sviluppo e alla riduzione della povertà sono forti e arrivano da molte direzioni. Honest accounts@, un rapporto prodotto nel 2017 da un gruppo di Ong britanniche e africane, rileva che nel 2015, a fronte di circa 162 miliardi di dollari ricevuti in prestiti, rimesse dei migranti e aiuto allo sviluppo, l’Africa subsahariana ha visto uscire dal continente risorse per 203 miliardi. Il saldo, per gli stati a Sud del Sahara, è negativo di circa 40 miliardi.

Come sono usciti questi soldi? Attraverso fatturazione irregolare e altri illeciti finanziari, rimpatrio dei profitti delle grandi aziende (realizzati sul continente africano ma poi riportati nei paesi dove le multinazionali hanno sede o nei paradisi fiscali), rimborso degli interessi sul debito e contrabbando di legno, prodotti ittici e piante o animali selvatici. A questo si aggiungono i fondi che una manciata di milionari africani mettono al sicuro nei paradisi fiscali. Secondo Gabriel Zucman, studioso della London School of Economics, nel 2014 gli africani ricchi detenevano 500 miliardi di dollari in conti offshore. Questi denari non tassati provocano una perdita fiscale per il continente di circa 15 miliardi.

Altra nota dolente è quella della svendita delle risorse naturali: sono numerosi e documentati i casi di funzionari pubblici o membri dei governi africani che, in cambio di tangenti, hanno ceduto a imprese straniere i diritti sullo sfruttamento delle risorse minerarie a prezzi stracciati.

Un esempio per tutti: il rapporto cita uno studio pubblicato nel 2013 dalla Ong britannica Global Witness e dall’Africa Progress Panel, un gruppo di studiosi e leader africani all’epoca presieduto dall’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan. Lo studio si concentrava su cinque grandi concessioni per estrazione mineraria in Repubblica Democratica del Congo e riportava che lo stato congolese aveva accettato di cedere i diritti di estrazione alle compagnie acquirenti – tutte società offshore con sede nelle Isole Vergini Britanniche – per un miliardo e 360 milioni in meno rispetto al valore di mercato, praticando alle aziende «sconti» fino al 95%. I diritti sono poi stati acquistati da due grandi multinazionali, la Enrc (Eurasian Natural Resources Corporation, fondata in Kazakistan e quotata in borsa a Londra) e l’anglo-svizzera Glencore, mentre le società offshore sono risultate legate a Dan Gertler, uomo d’affari israeliano membro di una delle famiglie più influenti nel mercato dei diamanti. Il miliardo e 360 milioni di mancato introito per le casse dello stato congolese, conclude il rapporto, equivale al doppio di quanto il Congo ha speso nel 2012 per istruzione e sanità.

Più sviluppo meno migrazione?

Sulla rivista dei gesuiti Aggiornamenti Sociali, il sociologo delle migrazioni Maurizio Ambrosini segnala che secondo diverse ricerche sul rapporto fra aiuto e migrazione «in una prima non breve fase lo sviluppo incrementa le partenze: più gente accede alle risorse per muoversi, accresce l’istruzione, si apre a nuovi orizzonti e aspirazioni. Solo in seguito, dopo diversi anni, l’emigrazione cala»@.

È la cosiddetta «gobba della migrazione» o migration hump: studi storici e comparati, si legge in un documento dell’Istituto Tedesco per le Politiche dello Sviluppo, hanno mostrato che quando la crescita economica e l’innalzamento del livello dei redditi sono tali che un paese non è più definibile a basso reddito, l’emigrazione inizialmente aumenta. Solo quando il paese diventa a medio reddito è ragionevole aspettarsi una diminuzione del fenomeno@.

Per riassumere: chi ci dice che il problema della migrazione degli africani si risolve aiutandoli a casa loro, in sostanza, ci sta dicendo che bisogna almeno raddoppiare i fondi italiani per lo sviluppo, mettersi d’accordo con una trentina di altri paesi donatori perché il denaro sia usato al meglio, convincere la parte corrotta delle élites africane e la parte corruttrice delle grandi aziende internazionali – italiane comprese – a piantarla e, fatto questo, metterci comodi e pazientare ancora qualche anno perché lo sviluppo nei paesi africani sia sufficiente a far diminuire l’emigrazione invece che incrementarla. «Sapevatelo», diceva un famoso comico.

Chiara Giovetti