Clima, cibo, economia: dalla Cop26 al G20

testo di Chiara Giovetti |


La conferenza sul clima Cop26, il vertice Onu sui sistemi alimentari e il G20 si sono svolti o stanno per svolgersi in questo autunno 2021. Le decisioni e gli indirizzi che forse emergeranno da questi eventi potrebbero rivelarsi decisivi per il futuro del pianeta e del modo in cui affronteremo le crisi sanitarie, alimentari e ambientali che verranno.

Il 23 settembre si è tenuto a New York il vertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari, uno degli eventi previsti nell’ambito del cosiddetto Decennio di azione sulla nutrizione@ che è iniziato nel 2016 e si concluderà nel 2025. Lo scorso luglio a Roma, presso la Fao, agenzia Onu per il cibo e l’agricoltura, si è svolto il prevertice, ospitato dal governo italiano.

Il 30 e 31 ottobre sarà la volta del G20@, il forum internazionale che riunisce i 19 paesi del mondo più industrializzati (Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud, Turchia, Gran Bretagna e Stati Uniti) più l’Unione europea, che si svolgerà a Roma.

Infine, dal 31 ottobre al 12 novembre avrà luogo a Glasgow, in Scozia, la 26° Conferenza delle parti aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, o Cop26@. L’Italia organizza la Conferenza insieme al Regno Unito e ha ospitato a settembre gli eventi preparatori come il vertice pre-Cop@, l’ultimo incontro ministeriale prima dell’inizio dei lavori a Glasgow, con l’obiettivo di «fornire a un gruppo selezionato di paesi un ambiente informale per discutere e scambiare opinioni su alcuni aspetti politici chiave dei negoziati e offrire per questi ultimi una guida politica».

I tre eventi affrontano temi fra loro profondamente legati: clima, cibo, economia. Due degli incontri, la Cop26 e il G20, hanno anche il potenziale di definire accordi che determineranno davvero le successive azioni dei paesi partecipanti. Lo ha sottolineato lo scorso luglio il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, in occasione del prevertice sui sistemi alimentari alla Fao: «La presidenza italiana del G20 ha individuato le priorità per migliorare la sicurezza alimentare globale. Tra queste, l’impatto negativo dei cambiamenti climatici sarà al centro della Cop26 che l’Italia presiede con il Regno Unito. […] Alla Cop26, a Glasgow, vogliamo raggiungere un accordo ambizioso sul clima»@.

Disinfezione prima della messa a Tura Mission contro il Covid-19

Premesse: il fallimento della Cop25

L’ultima Conferenza sul clima, svolta a Madrid nel 2019, era stata un insuccesso. Marlowe Hood, corrispondente dell’agenzia Afp, ha individuato cinque possibili motivi del fallimento@: il primo era, a suo dire, la gestione amatoriale dei negoziati, dovuta alla non impeccabile leadership del paese organizzatore, il Cile, che non avrebbe svolto in modo efficace il ruolo di mediatore che è fondamentale in incontri diplomatici di questo tipo.

Il secondo motivo era la presenza ingombrante di lobbisti delle aziende che producono combustibili fossili (la volpe nel pollaio, rimarcava Marlowe), con le conseguenti interferenze in negoziazioni il cui scopo è in larga parte quello di ridurre la dipendenza del pianeta proprio da quei prodotti. Vi era stato poi il «corrosivo effetto-Trump», cioè il disimpegno – per non dire il boicottaggio – sulle questioni climatiche manifestato dagli Usa nel quadriennio della presidenza di Donald Trump. Infine, l’atteggiamento tiepido della Cina che, con il 29% di emissioni di CO2, «ha in mano il destino del pianeta»: alla Cop25 Pechino «ha puntato i piedi e, sostenuta dall’India, ha invocato il principio secondo cui i paesi ricchi devono assumere un ruolo guida nell’affrontare il cambiamento climatico, denunciando il loro fallimento nel mantenere le promesse fatte», vincolando poi al rispetto di queste ultime la propria disponibilità a prendere impegni. Secondo diversi esperti, infatti, la Cina adotterà delle misure significative solo se l’Unione europea confermerà il suo obiettivo di impatto zero entro metà secolo e si impegnerà a ridurre le emissioni di almeno il 55% entro il 2030.

Infine, concludeva Hood, il fallimento della Cop25 è stato probabilmente il sintomo di una più ampia crisi della cooperazione e del multilateralismo legata all’ascesa di nazionalismi e populismi e alla tendenza dei governi a contrarre la spesa pubblica.

Che cosa dovrà decidere la Cop26

La conferenza di Glasgow dovrà, dunque, riprendere le fila di un dialogo interrotto nel 2019 e puntare a decisioni più ambiziose possibile. A cominciare dall’impegno per mantenere l’aumento della temperatura globale sotto il grado e mezzo, che a sua volta richiede il raggiungimento dell’obiettivo di azzerare le emissioni entro il 2050 e maggior decisione e incisività nel promuovere le alternative ai combustibili fossili.

Se il rientro degli Usa nell’accordo di Parigi sul clima, deciso dal presidente Joe Biden, e le alluvioni dello scorso agosto in Germania e Belgio@ sono elementi che suggeriscono un’aumentata sensibilità dei governi all’urgenza di reagire al cambiamento climatico, permangono comunque forti resistenze. Durante l’incontro del G20 a Napoli dello scorso luglio, il presidente della Cop26, Alok Sharma, ha riferito alla Bbc@ che il tema del cambiamento climatico è stato in effetti affrontato dalle venti principali economie del mondo – responsabili dell’80% delle emissioni – e si è visto un generale consenso circa la necessità di eliminare il carbone dalla produzione di energia. Purtroppo, Cina e India, due attori di primaria importanza nell’eventuale processo di decarbonizzazione, si sono opposte con decisione.

Altro elemento che rappresenta un’incognita è il ruolo della pandemia sui negoziati della Cop26. Se, da un lato, molte persone nel mondo sembrano aver recepito la pandemia come un motivo di riflessione sulla sostenibilità della presenza umana sul pianeta, dall’altro, opinioni pubbliche le cui economie sono provate da lockdown e restrizioni potrebbero mostrarsi restie ad accettare i costi degli investimenti richiesti per un’efficace transizione verso fonti di energia e stili di vita più sostenibili.

I negoziatori dovranno tenere conto di tutti questi aspetti e anche delle proposte e richieste emerse dal 28 al 30 settembre dallo Youth Summit@ il vertice che ha riunito a Milano 400 giovani, di età compresa fra i 18 e i 29 anni, da 197 paesi – in modo da includere il punto di vista delle generazioni che saranno più esposte alle conseguenze del cambiamento climatico.

Il G20 e la cooperazione

Il G20, o Gruppo dei 20, e gli incontri fra i leader e i ministri dei paesi che lo compongono, ha le sue origini nella necessità di coordinare gli sforzi delle principali economie del mondo per reagire alle crisi finanziarie della fine dello scorso millennio, a cominciare da quella del 1999 che interessò diversi paesi asiatici – Thailandia, Indonesia, Corea del Sud, Malaysia – e si estese poi a Brasile e Russia@.

In quell’anno e per i successivi nove, alle riunioni del G20 parteciparono i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali dei paesi membri. Con la crisi finanziaria del 2008, su iniziativa del presidente Usa George W. Bush cominciarono i vertici del G20 che coinvolgevano i capi di Stato e di governo. Dal 2010 questi incontri hanno cadenza annuale con il paese ospitante che cambia ogni anno@.

Le decisioni prese ai summit non sono vincolanti da un punto di vista giuridico, ma il loro peso politico e di indirizzo può essere molto elevato. Fra i temi connessi alla cooperazione e allo sviluppo che il vertice di Roma dovrà affrontare, vi è la ristrutturazione del debito per i paesi a basso e medio reddito. Nelle economie fragili, l’espansione della spesa pubblica e il maggior indebitamento imposti dalla pandemia rischiano di risultare insostenibili e così, già a novembre dell’anno scorso, i paesi del G20 avevano deciso di congelare il debito. Un provvedimento temporaneo e di emergenza che il summit di Roma dovrebbe tentare di sostituire con un accordo più articolato di riduzione o rinegoziazione@.

Altro tema che dovrebbe ricevere attenzione da parte dei leader del G20 è quello dell’accesso al cibo, dal momento che le persone in condizione di grave insicurezza alimentare sono aumentate dai 690 milioni del 2019 agli 820 milioni attuali, in larga parte a causa della pandemia@.

Il vertice Onu sui sistemi alimentari

Proprio del cruciale tema del cibo si è occupato il vertice Onu sui sistemi alimentari che si è svolto a New York il 23 settembre scorso. Il suo obiettivo, si legge sul sito istituzionale, era di suscitare la consapevolezza che occorre «lavorare insieme per trasformare il modo in cui il mondo produce, consuma e concepisce il cibo»@.

Per sistemi alimentari si intende tutta la «costellazione di attività coinvolte nella produzione, lavorazione, trasporto e consumo di alimenti». Uno dei principali problemi che il vertice intendeva affrontare era quello dei sistemi alimentari fragili e a rischio di collasso, «come milioni di persone in tutto il mondo hanno sperimentato in prima persona durante la crisi del Covid-19».

L’obiettivo era quello di individuare soluzioni e stabilire principi di riferimento che possano guidare il cambiamento di questi sistemi nella direzione di una maggior sostenibilità e garantire a tutti l’accesso al cibo. Alla chiusura di questo articolo (fine agosto 2021, nda) non è possibile dare conto dei risultati del vertice; certamente però le critiche che hanno preceduto il suo svolgimento sono state numerose e aspre.

Il prevertice di luglio e le critiche

Queste critiche sono emerse già in occasione del prevertice che si è svolto alla Fao nel luglio scorso, attraverso prese di posizione come quelle della piattaforma Csm (Civil society and indigenous peoples’ mechanism)@ che riunisce organizzazioni della società civile attive nella lotta all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione: nonostante affermi di essere un «vertice del popolo» e un «vertice delle soluzioni», è l’accusa del Csm, questo summit favorisce piuttosto una maggiore concentrazione nelle mani delle multinazionali, promuove catene del valore globalizzate insostenibili e rafforza l’influenza dell’agroindustria sulle istituzioni pubbliche. E lo fa proponendo «false soluzioni, come i modelli falliti degli schemi volontari per la sostenibilità aziendale, soluzioni “naturali” che includono tecnologie rischiose come gli organismi geneticamente modificati e la biotecnologia e l’intensificazione sostenibile dell’agricoltura». Queste soluzioni, continua il Csm, non sono né sostenibili, né abbordabili per i produttori alimentari su piccola scala e non affrontano le ingiustizie strutturali come l’accaparramento di terre e risorse, l’abuso di potere da parte delle grandi aziende e la disuguaglianza economica.

Anche il Vaticano ha preso posizione nel dibattito. Nel suo intervento al prevertice, il cardinale Peter Kodwo Turkson, prefetto del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, ha ricordato che per individuare soluzioni davvero sostenibili è opportuno guardare ai popoli indigeni e alla loro capacità di adattare i metodi di coltivazione alle condizioni che via via si presentano, mentre occorre porre un freno all’opposto tentativo di spazzare via queste conoscenze: «L’utilizzo delle tecniche tradizionali si è dimostrato fondamentale per la vitalità e la resilienza delle colture e delle specie alimentari indigene, mentre l’introduzione di specie straniere, accompagnate da fertilizzanti, pesticidi, erbicidi, “compromette gravemente questa vitalità, e l’agricoltura tradizionale locale in Africa lo dimostra”»@.

Chiara Giovetti




Cambierà il turismo dopo la pandemia?

testo di Chiara Giovetti | www.missioniconsolataonlus.it | foto del Campi ya Kanzi |


Il 2020 è stato l’anno più negativo di sempre per il turismo e, anche se ci sono segnali di ripresa, il 2021 non segnerà un ritorno ai volumi pre Covid. La contrazione del turismo ha avuto effetti nefasti per l’economia e per i lavoratori del settore, ma potrebbe anche offrire l’opportunità di correggere alcune storture.

Lo scorso 27 aprile, 250 guide dei parchi nazionali del Kenya hanno ricevuto a Nairobi@ il vaccino AstraZeneca: la stagione più propizia per visitare i parchi del paese e per vedere la spettacolare migrazione degli gnu e delle zebre@ al Maasai Mara si apre, infatti, fra maggio e giugno e le guide hanno voluto dare un segnale chiaro ai turisti, che mai come ora scelgono le proprie mete dando alla sicurezza sanitaria la più alta priorità.

Come tutti i paesi del mondo, il Kenya ha subito una pesante riduzione di arrivi internazionali nel 2020: secondo il Tourism research institute keniano, che ha confrontato i dati dei primi dieci mesi dell’anno scorso con lo stesso periodo dell’anno precedente, il calo è stato del 72%, con 470.971 ingressi nel 2020 contro 1.718.550 del 2019.

Alla riapertura dei voli, l’estate 2020, qualche segnale di ripresa dei flussi c’è stato, ma dei viaggiatori che entravano in Kenya solo uno su cinque arrivava per vacanza, contro i tre su cinque del 2019@.

Il settore turistico ha subito cercato di riadattarsi rivolgendosi di più al mercato interno, offrendo sconti ai visitatori keniani@; ma il comparto ha realizzato solo 37 miliardi di scellini contro i 147 miliardi attesi.

I settori connessi al turismo, poi, hanno a loro volta subito un duro contraccolpo: Rose Ayuma, responsabile del marketing di Kazuri Beads, un’azienda che produce collane, braccialetti e vasellame in ceramica, riferiva lo scorso ottobre ad Africanews una drastica riduzione nel proprio personale, composto di madri single in condizioni di vulnerabilità che ricevono oltre allo stipendio anche assistenza medica: «Di solito ci sono 235 donne che lavorano in azienda, ora ne abbiamo solo 35»@.

Foto del Campi ya Kanzi sulle Chulu Hills ai piedi del Kilimanjaro in Kenya (Maasai.com).

I dati dell’annus horribilis

Quello del Kenya è solo un esempio, piuttosto in linea con il dato globale, del calo di ingressi dovuto alla pandemia e delle strategie adottate per farvi fronte.

Secondo il numero di maggio del Barometro del turismo mondiale, bollettino pubblicato dall’Organizzazione mondiale del turismo delle Nazioni Unite (Unwto), gli arrivi internazionali erano diminuiti dell’83% anche nel periodo gennaio-marzo 2021 rispetto all’anno precedente. Nel complesso il 2020 aveva fatto registrare un «calo senza precedenti del 73%» diventando così «l’anno peggiore mai registrato per il turismo internazionale@».

In termini economici, l’anno scorso le entrate derivanti dal turismo sono crollate di 930 miliardi di dollari, circa dieci volte tanto la perdita generata dalla crisi finanziaria del 2009. I visitatori internazionali hanno infatti speso l’anno scorso circa 536 miliardi di dollari, quasi un terzo rispetto ai 1.466 miliardi di dollari del 2019.

Secondo un’indagine effettuata dal gruppo di esperti della Unwto la scorsa primavera, la fiducia del settore stava lentamente aumentando per il periodo maggio-agosto 2021 anche grazie ai ritmi sostenuti con cui si effettuavano le vaccinazioni in alcuni mercati chiave – principalmente i paesi occidentali – e alle soluzioni allo studio per riavviare il turismo in sicurezza attraverso strumenti come la Green card della Ue.

Ma le incognite segnalate dall’agenzia Onu rimanevano tante, a cominciare «dall’emergere di nuove varianti, dalle restrizioni di viaggio ancora in vigore e dall’irregolare distribuzione dei vaccini».

Se nella precedente indagine di gennaio gli esperti della Unwto erano divisi esattamente a metà fra chi prevedeva una ripresa nel 2021 e chi la collocava invece nel 2022, i dati di maggio avevano fatto propendere più esperti (il 60%) per la seconda ipotesi. Inoltre, la percentuale che prevedeva per il 2023 un ristabilirsi dei flussi turistici ai livelli pre pandemia era passata dal 43% di gennaio al 37% di maggio, mentre circa la metà proiettava questo ritorno al 2024 o dopo.

I posti di lavoro persi l’anno scorso a livello mondiale sono stati 61,6 milioni, riportava in aprile il forum dell’industria del turismo e dei viaggi World travel and Tourism council (Wttc), passando da 334 milioni a 272 milioni e il contributo del turismo al Pil mondiale si è praticamente dimezzato, passando dal 10,4 al 5,5%@.

Pandemia e viaggi

Proprio questo ritorno al prima della pandemia è oggi al centro del dibattito perché, fa notare la coalizione Future of tourism, c’è un «crescente consenso sul fatto che tornare al cosiddetto business as usual non è possibile»@. La coalizione, costituita nel giugno 2020 da sei Ong con la partecipazione consultiva del Global sustainable tourism council (Gstc) – a sua volta espressione della Unwto, della Rainforest alliance e del programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, Unep – ha individuato 13 principi guida per riorganizzare il turismo@.

L’epidemia da coronavirus ha contribuito a sviluppare alcune sensibilità riguardo ai temi promossi dalla coalizione e dall’iniziativa «sorella» e più concentrata sui problemi legati al clima Tourism declares@, almeno a giudicare da alcuni studi usciti in questi mesi.

Secondo il Rapporto sulla sostenibilità del portale Booking@, che ha raccolto le opinioni di oltre 29mila viaggiatori in trenta paesi, il 61% degli intervistati sostiene che la pandemia li ha spinti a desiderare di viaggiare in modo più sostenibile, e tre su quattro di loro si dichiarano più inclini a scegliere un alloggio se questo mette in atto pratiche che ne aumentino la sostenibilità.

Il 27% degli intervistati vorrebbe vedersi offrire la possibilità di rinunciare alla pulizia giornaliera della stanza per ridurre il consumo di acqua (nel 2020 era il 22% a esprimere questa volontà) e preferirebbe usare stoviglie e posate riutilizzabili per tutti i pasti, inclusi quelli in camera (+4% rispetto all’anno prima). Quattro viaggiatori su cinque si dicono poi desiderosi di spostarsi in modo più sostenibile, ad esempio a piedi, in bicicletta o con il trasporto pubblico, invece che con il taxi o con auto a noleggio.

Fra i cambiamenti che Unwto registra nel comportamento dei turisti a causa della pandemia, i principali si confermano l’aumento del turismo interno, la scelta di destinazioni che permettano di restare immersi nella natura, la preferenza per il turismo rurale e per i viaggi in auto, una maggiore preoccupazione per la salute e la sicurezza, un’aumentata attenzione verso le politiche sulla cancellazione delle prenotazioni applicate da strutture ricettive e vettori di trasporto e, infine, una maggiore tendenza a prenotare all’ultimo minuto@.

Turismo sostenibile

A questa aumentata sensibilità, tuttavia, ancora non corrisponde una risposta dal lato dell’offerta, innanzitutto nella comunicazione: sempre secondo il rapporto di Booking, le strutture non comunicano agli ospiti gli sforzi fatti per essere più sostenibili perché pensano che quello che fanno non sia sufficiente per essere interessante da comunicare (33%), perché ritengono che agli ospiti non interessi (32%) o perché temono di risultare paternalistiche.

Ma, sostengono diversi studiosi, il problema a volte è a monte e riguarda la comprensione da parte degli operatori del turismo dell’idea stessa di sostenibilità. Secondo C.B. Ramkumar, membro del consiglio e direttore per l’Asia meridionale del Gstc, «oltre il 95% dell’industria del turismo non comprende appieno la sostenibilità. E chi la comprende, la guarda attraverso la lente dell’essere green e dell’ambiente»@.

Si tratta, invece, di un approccio molto più ampio, che riguarda non solo l’ambito ambientale, ma anche quello economico e quello socioculturale@.

«Secondo gli esperti, sostenibilità è molto più che riutilizzare gli asciugamani nella nostra camera d’albergo o pagare una compensazione per il carbonio emesso dal nostro volo, anche se questi sono buoni punti di partenza», scrive@ Paige McClanahan, giornalista freelance che si occupa di turismo e viaggi per il New York Times. «La sostenibilità riguarda anche i salari e le condizioni di lavoro delle persone che servono ai tavoli sulla nave da crociera in cui viaggiamo o che trascinano la nostra valigia su un sentiero; riguarda la pressione aggiuntiva che la nostra presenza esercita su una città già affollata, su un sito del patrimonio storico o su un’area naturale; ha a che fare con la scelta da parte dell’hotel in cui soggiorniamo di acquistare i prodotti da un’azienda agricola in fondo alla strada o da un fornitore dall’altra parte del mondo, o con la possibilità che i soldi che spendiamo vadano alla comunità che stiamo visitando oppure nel remoto conto di una multinazionale». La mancanza di comprensione, osserva Ramkumar, deriva anche dal fatto che la sostenibilità per ora non rientra fra le conformità da ottenere per legge, come quelle sanitarie o della sicurezza, perciò le aziende del settore turistico – spesso già alle prese con certificazioni obbligatorie laboriose da ottenere – non avvertono la necessità di approfondire e capire meglio. Anche perché si tratta di indicazioni e raccomandazioni fornite da un’entità come l’Onu e spesso percepite come lontane e vaghe.

Ci sono poi alcuni malintesi sulla sostenibilità, che «a volte è equiparata alla frugalità. Non deve essere così per forza. Le persone vedono il fatto di concedersi qualche lusso come una ricompensa per il grande impegno che mettono nel loro lavoro e nella loro vita. E questo va bene, purché non consumi risorse sproporzionate, purché non sia dispendioso, purché non privi gli altri delle risorse che spettano loro. Davvero servono quindici cuscini e guanciali in una stanza per due persone?».

La stessa definizione di lusso sta cambiando: «Lusso ora è poter fare una lunga passeggiata in un posto sicuro!», conclude Ramkumar. «Penso che saranno i consumatori o i viaggiatori a imporre un cambio di rotta, se saremo capaci di ascoltarli. Il loro comportamento darà forma al cambiamento di mentalità per le imprese turistiche e per gli altri attori coinvolti».

Piccoli segnali di cambiamento

«Dobbiamo ripensare e rimodellare il nostro modo di fare le cose per poter così sopravvivere fino a quando il turismo non riprenderà», ha detto alla Cnn@ il ministro del turismo keniano Najib Balala. Il Kenya, approfittando dell’inattività forzata dovuta alla pandemia, ha avviato uno sforzo di tutela della fauna che comincia con il censimento di ogni animale e forma di vita marina in tutti i 58 parchi nazionali del paese e che sarà fondamentale per comprendere e proteggere le oltre mille specie originarie del paese, alcune delle quali hanno subito un preoccupante calo della popolazione negli ultimi decenni.

Elaine Glusac, anche lei giornalista del New York Times, segnala poi quella che potrebbe essere una nuova frontiera, il turismo rigenerativo@: secondo Jonathon Day, professore della Purdue University citato da Glusac, il turismo sostenibile corrisponde all’asticella bassa del non fare danni al luogo che si visita, mentre il turismo rigenerativo ha l’obiettivo più ambizioso di migliorare quel posto per le generazioni future. Un esempio pratico: il piccolo resort Playa Viva, nello stato di Guerrero, Messico, che fa parte delle soluzioni proposte dall’agenzia viaggi Regenerative travel@ specializzata appunto in questo tipo di turismo e che è stato esaminato da Regenesis@, un’azienda statunitense che si occupa di sviluppo rigenerativo, anche in ambito turistico, dal 1995.

La vicina cittadina di Juluchuca, ha constatato Regenesis, è diventata di fatto la porta di accesso a Playa Viva; un sistema agricolo biologico ha beneficiato sia la proprietà sia i residenti locali e una commissione del 2% aggiunta a tutti i soggiorni al resort finanzia un fondo fiduciario che investe nello sviluppo della comunità.

«Invece che fare un resort calato dall’alto e che occupa la terra», commenta il capo di Regenesis, Bill Reed, i responsabili hanno detto: “Noi siamo il villaggio”. È un cambio di paradigma».

Chiara Giovetti

 




I vent’anni di Missioni Consolata Onlus

testo di Chiara Giovetti |


La Fondazione Missioni Consolata Onlus compie vent’anni. Nata nel 2001 per accompagnare nel nuovo secolo i Missionari della Consolata, diventata Ong nel 2007 e, oggi, organizzazione della società civile riconosciuta dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, incarna, con le sue iniziative, i tratti peculiari dei missionari che l’hanno fondata.

Il 26 luglio del 2001 nasceva la Fondazione Missioni Consolata Onlus (Mco), costituita dall’«Istituto missionari di Maria Ss.ma Consolata», come si chiamava davanti allo stato la «filiale» italiana di quello che, quasi dalle origini, era registrato nei libri del governo come il «Collegio internazionale della Consolata per le missioni estere». Lo scopo della fondazione, si legge nello statuto, è quello di «informare, sensibilizzare e promuovere l’interesse» verso i paesi in via di sviluppo, con particolare attenzione alle attività dei Missionari della Consolata.

Fin dai suoi esordi, Mco ha avuto uno spettro di attività piuttosto ampio che abbraccia ambiti anche molto diversi fra loro, come gli aiuti umanitari e la tutela dei beni di interesse storico e artistico. Anche gli interventi che la Fondazione intende svolgere per realizzare i propri scopi statutari sono molto vari – dalla cooperazione allo sviluppo alla salvaguardia della pace e dei diritti dell’uomo, dall’allestimento e gestione di musei e biblioteche alla promozione di servizi per favorire l’inserimento della popolazione immigrata -, e prevede non solo azioni dirette, ma anche il sostegno a iniziative svolte da altri enti idonei.

Questa grande varietà è solo apparentemente una frammentazione. È, viceversa, la coerente traduzione in termini operativi e laici di quello che i Missionari della Consolata indicano come elemento chiave del proprio carisma, cioè il tratto che hanno ereditato dal loro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, e che più li definisce e li identifica: l’ad gentes, cioè l’annuncio del Vangelo a chi ancora non lo conosce. Questa missione richiede uno sguardo talmente ampio e articolato su popoli, culture, religioni, visioni del mondo, che non può che trasferirsi anche alle organizzazioni al servizio del lavoro dei missionari, come è, appunto, Mco.

Campagna Una mucca per l’Indio

Un po’ di storia

Alla fine del secolo scorso, i Missionari della Consolata avevano già all’attivo diverse attività che potevano dirsi di cooperazione allo sviluppo e solidarietà internazionale. Un ufficio cooperazione era presente in Casa Madre a Torino fin dal 1970 e aveva gestito le primissime adozioni a distanza a partire dagli anni Ottanta. Campagne come quella del 1980 per la creazione del «Parco Yanomami» con la raccolta un milione di firme (reali, non digitali), e quella di «Una mucca per l’indio» in favore dei popoli indigeni dell’Amazzonia negli anni 1988-89, avevano proposto una visione dello sviluppo che cercava le cause della povertà nell’ingiustizia e nelle diseguaglianze.

I primi contatti con il mondo del volontariato impegnato in attività di cooperazione cominciarono ancora negli anni Cinquanta con l’invio in Kenya di medici del Cuamm di Padova, passarono attraverso la collaborazione alla nascita e sviluppo di Mani Tese a metà degli anni Sessanta e nel 1967 videro l’Lvia di Cuneo inviare una sua volontaria in Kenya con missionari della Consolata in Meru@.

Inoltre, diversi missionari, ad esempio nella regione colombiana del Cauca, avevano cominciato ad affiancare alle attività realizzate con il sostegno di singoli benefattori anche diversi progetti finanziati con fondi di istituzioni pubbliche e private, dando un contributo cruciale al riscatto del popolo indigeno Nasa. La rivista Missioni Consolata ospitava con regolarità, fin dagli anni Settanta, articoli di riflessione sulla cooperazione e sullo sviluppo.

Tutte queste iniziative, quasi sempre lanciate da missionari pionieri, riflettevano i cambiamenti in atto nei rapporti fra paesi ricchi e quello che all’epoca era chiamato Terzo Mondo. Questi cambiamenti, alla fine degli anni Novanta, richiedevano una maggior professionalizzazione della cooperazione ed evidenziavano la necessità di superare i fallimenti degli anni Ottanta, a cominciare dalla crisi del debito, che si era tradotta per l’Africa e l’America Latina in quello che viene ricordato come il «decennio perduto» dello sviluppo@.

Missione acqua. L’acquedotto di Mukululu

Nasce la fondazione

I missionari che lavoravano con i popoli indigeni dell’America Latina o con le aree più isolate dell’Africa, si erano affacciati al mondo della cooperazione allo sviluppo e dei progetti spesso appoggiandosi ad altre organizzazioni e associazioni. Avevano condiviso poi queste loro esperienze, che di fatto erano diventate anche competenze, con i confratelli in Italia, rendendo sempre più urgente e concreta la necessità di darsi uno strumento come la Fondazione per poter portare avanti le iniziative in prima persona.

A questo si aggiunga poi il fatto che il decreto legislativo 460 del 1997@ introduceva la detraibilità delle erogazioni liberali a favore delle Onlus, cosa che avrebbe portato un beneficio anche ai donatori. La strada che conduceva alla nascita di Mco era tracciata.

All’inizio di questo secolo, dunque, era tempo per i membri della Regione Italia dell’«Istituto missionari di Maria SS.ma Consolata» di trarre le conseguenze di questi cambiamenti e di mettere a frutto le intuizioni di tanti confratelli attivi sul campo e in Italia. La Fondazione avrebbe organizzato le conoscenze e l’esperienza che l’Istituto aveva acquisito dagli anni Settanta, e le avrebbe rese disponibili a tutti i missionari.

I finanziatori di Mco

In questi vent’anni, Mco ha realizzato progetti e iniziative, sia direttamente che come partner di altre organizzazioni, grazie a fondi di diversi enti privati e pubblici: la Conferenza episcopale italiana, Caritas italiana, la città di Torino, la Regione Piemonte, Roma Capitale, l’8×1000 della Chiesa valdese, la Water Right Foundation, solo per citarne alcuni.

Ma la peculiarità – e la forza – di Mco sono, da sempre, i donatori privati, oltre settemila persone nel 2020, insieme a tante realtà dell’associazionismo, dell’imprenditoria e del mondo cattolico: 79 associazioni, organizzazioni, cooperative sociali e gruppi amici, 32 aziende, 20 diocesi o loro uffici missionari, e a oltre 200 istituti o congregazioni religiose.

Con i lebbrosi di Gambo

Gli ambiti di azione

Quanto agli ambiti della cooperazione allo sviluppo in cui la Fondazione è attiva, quello prevalente è senza dubbio l’istruzione (un ambito tipico dell’impegno missionario) che riguarda tutti i gradi scolastici dall’infanzia alla secondaria, fino ai corsi professionali (infermieristica, insegnamento …) e universitari, e comprende il sostegno a distanza concentrato, ma non limitato, sulle scuole primarie.

Seguono poi l’educazione allo sviluppo, realizzata sulle pagine della rivista Missioni Consolata, di cui Mco è editore, il diritto alla salute promosso da quattro ospedali e tanti dispensari in Africa, oltre diversi centri di salute in Amazzonia. L’accesso all’acqua, la salvaguardia dei diritti dei popoli indigeni, lo sviluppo economico, la difesa dell’ambiente sono gli altri ambiti.

Mco realizza i propri progetti e le iniziative in collaborazione con i Missionari della Consolata o con organizzazioni partner indicate da questi. I responsabili operativi dei progetti, dei programmi di sostegno a distanza, delle strutture sanitarie ed educative che Mco sostiene sono missionari che lavorano e risiedono nei paesi nei quali si svolgono le attività. A loro, la Fondazione offre servizi tecnici nella raccolta fondi, nella stesura, presentazione e rendicontazione dei progetti, nelle relazioni con i donatori, nella promozione e comunicazione del loro lavoro tramite la rivista, i siti web e i social.

Nel 2020 Mco ha raccolto fondi e svolto attività in 18 paesi: Italia, Tanzania, Repubblica democratica del Congo, Kenya, Etiopia, Uganda, Costa d’Avorio, Eswatini, Angola, Mozambico, Sudafrica, Madagascar, Mongolia, Brasile, Colombia, Messico, Argentina, Venezuela.

In Africa, a beneficiare maggiormente dei fondi raccolti sono stati Tanzania, Repubblica democratica del Congo, Kenya ed Etiopia, mentre per l’America Latina è stato il Brasile – e specialmente le attività in Amazzonia con i popoli indigeni di Roraima – che ha ricevuto il sostegno maggiore.

Progeto di sviluppo rurale sostenuto dalla Caritas a Neisu

Le prospettive per il futuro

L’anno del ventesimo anniversario dalla fondazione ha coinciso anche con quello in cui Mco è stata chiamata a preparare e pubblicare il suo primo Bilancio sociale. Questo esercizio ha finito per trasformarsi anche in un’occasione per riflettere proprio su questi vent’anni e, inevitabilmente, sulle prospettive per il futuro. Come scrive il coordinatore di Mco, padre Ugo Pozzoli, nella lettera introduttiva al Bilancio sociale@, «la rivista che deve aprirsi maggiormente a un pubblico più giovane attraverso un più forte impulso sul web e sui social; la formazione dei nostri missionari, soprattutto quelli sul campo, che deve garantire un sempre migliore accompagnamento di progetti e programmi di cooperazione e solidarietà; la Certosa di Pesio, storico luogo di fede immerso nel verde di un bellissimo parco naturale, che deve trasformarsi in luogo di educazione alla spiritualità della missione e dell’ambiente: sono soltanto alcune fra le sfide che ci attendono nel prossimo futuro e verso cui guardiamo speranzosi».

Quanto poi al campo della cooperazione allo sviluppo, occorrerà chiedersi quali siano, oggi, quei territori inesplorati che possono dare sostanza a quell’ad gentes che plasma l’Istituto Missioni Consolata e Mco con lui, come negli anni Sessanta lo furono l’esperienza con i popoli indigeni dell’America Latina e, all’inizio del Novecento, l’invio in Kenya dei primi missionari.

Un esempio efficace sono le parole che padre Matteo Pettinari ha affidato a questa rivista nel marzo del 2020@: «Si può dire che la salute mentale sia l’ad gentes del mondo della sanità: sono i malati mentali quelli che nessuno ha ancora avvicinato, di cui nessuno vuole occuparsi». Mco e i missionari si sono sempre impegnati nella sanità, ma è presente da anni nell’Istituto la consapevolezza che per farlo con efficacia oggi, forse, non si tratta più solo di costruire un ospedale en brousse, nella foresta, dove nessuno è ancora arrivato, bensì di riuscire a immaginare qual è la nuova brousse nel 2021 – si tratti di un luogo fisico o di un ambito, come appunto la salute mentale – per raggiungerla e non lasciare al margine le persone che la abitano.

Non c’è un manuale tecnico che possa aiutare a sviluppare uno sguardo al tempo stesso lucido e coinvolto per vedere le brousse di oggi e capire come affrontarle. Probabilmente quello sguardo è lo stesso che un missionario come fratel Carlo Zacquini ha condiviso con chi scrive raccontando il suo primo contatto con gli Yanomami e con la foresta amazzonica al suo arrivo a Catrimani, nell’Amazzonia brasiliana, ormai più di cinquanta anni fa: «Rimasi a bocca aperta: vedevo bellezza, armonia, e pensavo che volevo capirla ed esserne parte. Così pian piano, in punta di piedi, cominciai ad avvicinarmi».

Chiara Giovetti

Familia ya Ufariji

Mco – carta d’identità

  • Nome: Fondazione Missioni Consolata Onlus
  • Data di nascita: 26 luglio 2001
  • Riconoscimento come Ong idonea: 17 dicembre 2007
  • Iscrizione all’elenco delle Organizzazioni della società civile (Osc): 4 aprile 2016
  • Sede legale: Torino, Corso Ferrucci, 14
  • Sedi operative: Certosa di Pesio a Chiusa di Pesio (CN), fraz. San Bartolomeo e Roma, Viale della Mura Aurelie, 16
  • Sito web: www.missioniconsolataonlus.it
  • Personale: Diciotto persone, di cui quattro missionari, tredici laici e una volontaria
  • Attività principali: sostegno a distanza, progetti di cooperazione, informazione e formazione, rivista Missioni Consolata
  • Ambiti principali: istruzione, educazione allo sviluppo, sanità e nutrizione, accesso all’acqua, diritti dei popoli indigeni, sviluppo economico, pace e cura del creato

 

 




Crisi e conflitti da non dimenticare

Alle dieci situazioni di crisi segnalate a gennaio 2021 dal centro di ricerca International crisis group si sono aggiunti, nel corso di questi primi sei mesi, anche il peggioramento del conflitto nel Nord del Mozambico e un aumento dell’incertezza nella già fragile zona del Sahel, dopo la morte del presidente del Ciad, Idriss Déby Itno.

All’inizio del 2021 l’International crisis group (Icg), un centro studi sul conflitto con sede a Bruxelles e Washington, aveva segnalato dieci crisi da tenere sotto osservazione nel corso dell’anno@.

Si tratta di conflitti o tensioni in sei paesi – Afghanistan, Etiopia, Venezuela, Libia, Somalia e Yemen – e in una regione, il Sahel, delle difficili relazioni tra Usa e Iran e fra Turchia e Russia e del cambiamento climatico, una crisi che, a detta del gruppo di ricerca (e non solo), sta già toccando numerose popolazioni e creando i presupposti per i conflitti del futuro, che dipenderanno non dal clima in sé ma da come questo modifica la disponibilità di risorse naturali come l’acqua e la terra e da come questi mutamenti verranno governati.

In this file photograph taken on March 1, 2021, a woman walks in front of a damaged house in Wukro, north of Mekele which was shelled as federal-aligned forces entered the city. – Eritrean soldiers are blocking and looting food aid in Ethiopia’s war-hit Tigray region, according to government documents obtained on April 27, 2021, by AFP, stoking fears of starvation deaths as fighting nears the six-month mark. (Photo by EDUARDO SOTERAS / AFP)

Africa, conflitti vecchi e nuovi

Il continente che conta più situazioni critiche è l’Africa. Il conflitto nel Tigray, regione settentrionale dell’Etiopia al confine con l’Eritrea, non è ancora risolto, come ha spiegato lo scorso aprile Enrico Casale nel suo articolo per questa rivista@ e come confermano diversi media internazionali fra cui il New York Times@, che riporta la relazione resa al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dal sottosegretario Onu per gli affari umanitari, Mark Lowcock. I soldati dell’Eritrea, alleata del governo etiope in questo conflitto, non si sono ritirati come annunciato dal primo ministro etiope Abiy Ahmed ma, al contrario, sono rimasti nel Tigray e si sono resi responsabili di massacri, pulizia etnica e violenze sessuali.

Altro paese africano che fatica a trovare pace è la Somalia: lo scorso aprile il presidente Mohamed Abdullahi «Farmajo», il cui mandato quadriennale si è concluso a febbraio, ha ottenuto dal Parlamento un rinvio di due anni delle elezioni presidenziali. Secondo l’International crisis group@, questa estensione di fatto del mandato presidenziale – che ha già ricevuto forti critiche da Nazioni Unite, Usa, Unione Europea, Unione Africana e Regno Unito – ha almeno due conseguenze dannose.

La prima è l’aumento delle tensioni politiche, con alcuni leader degli stati federati o delle regioni che compongono il paese che appoggiano il presidente e altri – come è il caso dei presidenti degli stati del Puntland e del Jubaland – che si sono invece radunati intorno ad alcuni candidati dell’opposizione.

La seconda conseguenza è che le divisioni si sono manifestate anche all’interno delle forze armate e della polizia: il capo nazionale della polizia Hassan Hijar Abdi ha licenziato il capo della polizia di Mogadiscio, Sadiq «John» Omar, dopo che quest’ultimo aveva inviato i suoi uomini al Parlamento per impedire lo svolgimento della seduta in cui sarebbe stato approvato il rinvio delle elezioni, definendo l’estensione di fatto del mandato presidenziale un colpo di mano. Quanto alle forze armate, secondo le fonti dell’Icg, diversi soldati del reparto di élite Gorgor avrebbero abbandonato le basi dell’esercito somalo per ritirarsi nelle roccaforti dei rispettivi clan, mentre gli anziani di questi clan hanno chiarito che qualunque tentativo di Mogadiscio di disarmare le loro truppe locali innescherebbe combattimenti su larga scala.

Lo stallo politico e le dispute tra le forze di sicurezza, conclude Icg, stanno rafforzando i militanti di Al Shabaab che, incoraggiati dal ritiro parziale delle truppe etiopi e statunitensi alla fine del 2020, hanno già intensificato gli attacchi e ripreso gli assalti contro obiettivi militari somali e stranieri. La guerra fra il governo somalo e Al Shabaab dura da quindici anni.

A picture shows burnt utensils in the village of al-Twail Saadoun, which was attacked during inter-ethnic violence, 85 kilometres south of Nyala town, the capital of South Darfur, on February 2, 2021. – The combined death toll from recent violence in Sudan’s restive Darfur region has risen above 200, after medics revised the toll from one set of clashes upwards by over 50. (Photo by ASHRAF SHAZLY / AFP)

Il groviglio del Sahel

Oltre a Etiopia e Somalia, il think tank menziona l’intricata e tesa situazione del Sahel, la fascia a Nord del deserto del Sahara che si estende dal Senegal all’Eritrea e che sta assistendo a un aumento della violenza interetnica e all’espansione dell’influenza jihadista, in particolare in Mali, Burkina Faso e Niger.

Dal gennaio 2013 nell’area è impegnato l’esercito francese, intervenuto su richiesta del governo del Mali con l’operazione Serval per fermare l’insurrezione dei ribelli tuareg del Mouvement national de libération de l’Azawad (Mnla), avvenuta l’anno prima nel Nord del paese. La ribellione dei Tuareg, favorita dal riversarsi in tutta la zona di grandi quantità di armi dalla Libia dopo l’uccisione di Muammar Gheddafi e il saccheggio dei suoi arsenali, ha dato il via a una serie di avvenimenti, fra cui il colpo di stato che ha estromesso il presidente maliano Amadou Toumani Touré e l’espansione nel Mali settentrionale dei gruppi islamisti, da Ansar Dine, sospettato di legami con Al-Qaeda, ad Aqmi (Al-Qaeda nel Maghreb islamico). All’operazione Serval è seguito nell’aprile 2013 l’invio di una «Missione Onu per la stabilizzazione del Mali» (Minusma) e, nel 2014, una seconda operazione francese, denominata Barkhane.

Eppure, scrive il Crisis group, dopo sette anni «resta difficile affermare che la situazione nel Sahel sia migliorata. Al contrario, i conflitti continuano ad aumentare di intensità e si moltiplicano i teatri di scontri violenti in tutta la regione». Una delle cause di questo mancato miglioramento sarebbe lo sbilanciamento degli interventi sulla componente militare, a scapito di quella che mira allo sviluppo e al rafforzamento della governance. Il Mali vive una profonda crisi quanto alla capacità di fornire servizi di base ai propri cittadini e di risolvere attraverso il dialogo e la mediazione le contese interetniche, anche molto violente, presenti soprattutto nelle aree rurali. Viceversa, le forze jihadiste – composte da numerosi gruppi, coalizzati principalmente nel Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Jnim) e nello Sato islamico nel grande Sahara – sono in grado di inserirsi in modo efficace in questi contrasti, offrendo protezione e appoggio in cambio di influenza e di reclute, minando così ancora di più il ruolo e la credibilità dello stato.

È anche per la già grande fragilità dell’area che le possibili conseguenze della morte del presidente del Ciad Idriss Déby Itno, avvenuta il 19 aprile scorso, suscitano particolare apprensione. Déby è morto mentre si trovava nel Nord del paese a visitare le truppe ciadiane impegnate a contenere l’attacco dei ribelli del «Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad» (Fact nell’acronimo francese) che hanno le proprie basi in Libia. Sarebbe deceduto, a detta dei suoi generali, per le ferite riportate combattendo, ma non è ancora del tutto chiaro come siano andate le cose. Aveva appena vinto le elezioni per la sesta volta dopo aver governato il paese «con il pugno di ferro per tre decadi»@ ed era visto dagli alleati occidentali, in particolare dai francesi, come un punto di riferimento per la stabilità del Sahel e la lotta ai gruppi jihadisti, in quanto al comando del migliore esercito dell’area.

Il generale Mahamat Idriss Déby, figlio trentasettenne del defunto presidente, gli è succeduto mettendosi alla testa di un consiglio militare di transizione che dovrebbe portare in 18 mesi il paese a nuove elezioni; ma questo atto ha già attirato diverse critiche, dal momento che la costituzione ciadiana prevede che siano il presidente dell’Assemblea nazionale o, in mancanza di questo, il vice presidente, a guidare il paese in caso di morte del capo dello stato.

Distribuzione di cibo ai rifugiati a Pemba ad opera della Caritas (foto AfMC / José Luis Ponce De Leon)

Cabo Delgado, migliaia di sfollati

«Quando abbiamo visitato Pemba lo scorso dicembre abbiamo assistito alla tragedia di mezzo milione di sfollati. Le cose continuano a peggiorare». Così twittava a fine marzo@ monsignor José Luis Ponce de León, missionario della Consolata e vescovo di Manzini, nel regno di eSwatini (ex Swaziland), riferendosi alla visita che aveva effettuato nella capitale della provincia di Cabo Delgado, Nord del Mozambico, insieme ad altri vescovi della Conferenza episcopale dell’Africa meridionale agli inizi del 2021. Nel post sul suo blog in cui raccontava di quella visita, il vescovo riportava che «Pemba, con una popolazione di 200mila persone, ha accolto 150mila sfollati»@.

In una nota del 21 aprile 2021, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur, o Unhcr nell’acronimo inglese), aggiornava a 700mila il numero degli sfollati, ai quali si stavano aggiungendo in quei giorni altre 20mila persone costrette a lasciare la città costiera Palma, a trenta chilometri dal confine con la Tanzania, dopo che era stata colpita circa un mese prima da una serie di attacchi islamisti@.

I rapporti mensili Crisis watch dell’Icg@ sono utili per ricostruire l’inizio e l’intensificazione dell’attività jihadista nell’area, che vede il suo esordio il 5 ottobre 2017 quando a Mocimboa da Praia, città portuale a circa 300 chilometri da Pemba, tre stazioni di polizia vennero attaccate da un gruppo che si chiama Ahlu sunna wal jammah (Aswj), noto anche come Al Shabaab, benché non abbia legami con l’omonimo somalo (Al Shabaab, peraltro, significa semplicemente «i giovani» o «la gioventù»).

Lo scorso marzo il Dipartimento di stato americano aveva classificato Aswj come uno dei rami dello Stato islamico in Africa centrale, insieme al gruppo Adf (Allied democratic forces), attivo fra l’Uganda e la Repubblica democratica del Congo@.

Il legame con l’Isis, tuttavia, non appare così forte e netto, dice il centro studi Acled (Armed conflict location & event data project@) creato da docenti dell’Università del Sussex, nel Regno Unito, e attivo nel raccogliere ed elaborare dati sugli eventi e i luoghi che riguardano i conflitti armati. Proprio la rivendicazione degli attacchi di Palma da parte dello Stato islamico, fatta utilizzando immagini false e rivendicazioni vaghe, farebbe pensare a un ruolo assai ridotto dell’Isis «centrale» nel determinare le strategie e le scelte operative di Al Shabaab, che rimane gestito da leader locali orientati a scopi altrettanto locali.

Incontro di preghiera nell’are di Nabasanuka, Tucupita, Venezuela (foto AfMC / Juan Carlos Greco)

Venezuela, insufficienza di cibo

A oggi, sono 5,4 milioni i venezuelani che hanno lasciato il paese, e chi è rimasto si trova a far fronte a grandi disagi per procurarsi i beni di prima necessità. Le principali difficoltà riguardano sempre l’elevata inflazione e la mancanza di carburante che limita i trasporti di persone e di merci.

Padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata attualmente a Nabasanuka, nella diocesi di Tucupita, raccontava via whatsapp lo scorso aprile che gli indigeni warao «superano la mancanza di carburante viaggiando in curiara [canoa, ndr] (tre giorni all’andata e altrettanti al ritorno) per acquistare sapone e dentifricio nel porto di Barrancas. Chi viaggia raccoglie gli ordini anche da anziani e ammalati che non possono remare per sei giorni. Ogni famiglia viaggia almeno una volta al mese in questo modo. Adesso stanno cominciando a viaggiare anche a Mariusa, verso la costa Nord del Delta, per procurarsi farina, o zucchero, o vestiti, scambiando i prodotti con banane o con l’artigianato locale».

Lo scorso aprile il governo venezuelano guidato da Nicolás Maduro ha raggiunto un accordo con il Programma alimentare mondiale (Pam) per fornire cibo a 185mila bambini in età scolare@. Secondo le stime pubblicate nel 2020 dallo stesso Pam, un venezuelano su tre non ha accesso a quantità sufficienti di cibo per soddisfare i requisiti nutrizionali minimi. Il governo non ha pubblicato i dati sulla malnutrizione infantile negli ultimi quattro anni ma gli ultimi disponibili, del 2017, ne registravano un aumento pari al 30%.

Chiara Giovetti


Conflitti nel mondo

È praticamente impossibile ricordare tutte le situazioni di conflitto esistenti nel mondo. Ci limitiamo qui a riportare i paesi in conflitto secondo il Centro studi del Council on foreign relations (aprile 2021).

Guerre civili: Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Siria, Sud Sudan.

Violenza criminale: Messico.

Guerre o tensioni fra stati: India e Pakistan, USA e Iran, Corea del Nord.

Instabilità politica: Libano, Egitto, Repubblica Democratica del Congo, Venezuela.

Violenza settaria: Myanmar, Repubblica Centrafricana, Nigeria.

Dispute territoriali: Russia/Ucraina, Turchia/ gruppi armati curdi, conflitto israelo-palestinese, conflitto in Nagorno-Karabakh, dispute territoriali della Cina con Filippine e Vietnam nel Mar Cinese meridionale, tensioni fra Cina e Giappone nel Mar Cinese Orientale.

Terrorismo transnazionale: Burkina Faso, Mali, Niger, Nigeria, Pakistan, Somalia.

Altre fonti, come il citato Crisis watch, affermano di seguire oltre 70 situazioni di conflitto in tutto il mondo, tra cui segnalano un peggioramento in: Mozambico, Niger, Senegal, Bangladesh, Bolivia, Paraguay, Indonesia, Giordania, Arabia saudita, Irlanda del Nord e altri paesi.

Chi.Gio.

 

 




Perché l’Oms non funziona come dovrebbe

testo di Chiara Giovetti | foto AfMC |


Gli stati membri collaborano solo se a loro conviene e la struttura burocratica dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) è troppo lenta e inefficiente. La vicenda di Covax è solo il più recente esempio di mancanza di incisività per un’organizzazione nata con l’ambizione di coordinare la sanità a livello mondiale e oggi in evidente crisi.

Lo scarto fra paesi ricchi e paesi poveri nel numero di vaccini somministrati «cresce ogni giorno, e ogni giorno diventa più grottesco. Paesi che ora stanno vaccinando persone più giovani e sane a basso rischio lo fanno a spese delle vite del personale sanitario, degli anziani e dei gruppi a rischio in altri stati. I paesi più poveri del mondo si chiedono che cosa davvero intendano i paesi ricchi quando parlano di solidarietà»@.

Così Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha descritto durante una conferenza stampa dello scorso 22 marzo la situazione di disparità nell’accesso ai vaccini contro la Covid. A gennaio Tedros aveva detto che il mondo era sull’orlo di un catastrofico fallimento morale e che era necessario agire con urgenza per assicurare un’equa distribuzione dei vaccini. «Abbiamo i mezzi per scongiurare questo fallimento – ha poi ribadito il direttore dell’Oms a marzo – ma è scioccante quanto poco sia stato fatto per ridurre lo scarto».

Vaccini per tutti

Per tentare di garantire una più equa distribuzione dei test, degli strumenti terapeutici e dei vaccini per contrastare la pandemia, già dall’aprile dell’anno scorso, l’Oms ha avviato – insieme alla Banca mondiale, all’Alleanza globale per i vaccini (Gavi), e a diversi altri partner – l’iniziativa Act-A, che si propone di ampliare il più possibile l’accesso agli strumenti di lotta alla Covid (Access to Covid-19 tools accelerator).

La colonna portante dell’iniziativa Act-A per l’acquisto e la distribuzione dei vaccini si chiama Covax: secondo quanto si leggeva lo scorso marzo nel rapporto sul primo ciclo di assegnazioni@, l’obiettivo è quello di consegnare fra gennaio e maggio 2021 ai 142 partecipanti al programma 237 milioni di dosi di vaccino, per arrivare poi a due miliardi di dosi (1,8 miliardi secondo le proiezioni più recenti@) entro la fine dell’anno. Si tratta prevalentemente del vaccino AstraZeneca/Oxford – prodotto dal Serum Institute of India, che ha concluso con AstraZeneca un accordo per la licenza – e, in misura molto minore, del vaccino Pfizer Biontech.

Come spiegava l’amministratore delegato di Gavi, Seth Berkley@, Covax era nata per coinvolgere tutti i paesi del mondo, a prescindere dal loro reddito, in un unico sforzo per la negoziazione e l’acquisto dei vaccini, in modo da garantire la copertura vaccinale per il 3% della popolazione, corrispondente grosso modo al personale sanitario, su tutto il pianeta. La seconda fase sarebbe stata poi quella di arrivare a coprire il 20% della popolazione, con i paesi ad alto reddito che avrebbero comprato i vaccini autofinanziandosi e 92 paesi a basso reddito che avrebbero visto i costi coperti tramite le donazioni dei paesi più ricchi sotto forma di aiuto pubblico allo sviluppo.

Raggiunta la copertura vaccinale per il 20% della popolazione, Gavi prevedeva un meccanismo per cui, anche finanziandosi attraverso banche multilaterali, i paesi più poveri avrebbero ricevuto ulteriori vaccini sopportando una parte dei costi.

Bambino della Casa Hogar Estancia de Maria a Guadalajara, Messico

Promesse e realtà

Ad oggi, quasi nessuno dei paesi ad alto reddito utilizza la piattaforma Covax per negoziare e acquistare i vaccini. Pur con le eccezioni di Canada, Nuova Zelanda e Singapore, che comunque acquistano solo una porzione molto limitata di dosi tramite Covax, lo sfilarsi dei paesi ricchi dal meccanismo multilaterale ha contribuito a generare l’attuale situazione di stallo, in cui le principali economie mondiali usano i canali bilaterali e comprano direttamente dalle case farmaceutiche ritardando le spedizioni dei vaccini verso i paesi in via di sviluppo@.

Anche sul versante dell’appoggio da parte dei donatori, Covax fatica a decollare: secondo i dati dello scorso 21 marzo consultabili sul sito dell’Oms@, gli impegni a donare avevano raggiunto gli 11 miliardi di dollari: la Germania e gli Stati Uniti guidavano con 2,6 miliardi e altri 2,5 miliardi il gruppo dei primi dieci donatori, seguiti da Regno Unito, Canada, Commissione europea, Consorzio diagnostico per la Covid-19 (coordinato dall’Oms), Norvegia, Bill & Melinda Gates foundation, Arabia Saudita e Giappone.

L’Italia, che si era impegnata per 116 milioni di euro, si trovava al quindicesimo posto, mentre fra i donatori privati, oltre alla già citata Bill & Melinda Gates foundation, vi erano Reed Hastings e Patty Quilling, cioè il cofondatore e attuale amministratore delegato di Netflix e la moglie, che hanno promesso 30 milioni di dollari, seguiti dalla multinazionale di servizi finanziari Mastercard e dalla Chan Zuckerberg initiative del proprietario di Facebook e della moglie, solo per citarne alcuni.

Anche limitandosi solo alle promesse, il deficit di finanziamento a marzo restava di circa 22 miliardi di dollari, di cui 3,2 miliardi mancanti proprio a Covax. Quanto al lato degli esborsi effettivi, secondo una ricostruzione dell’Economist@ al 25 marzo per sostenere le attività di Act i donatori avevano effettivamente versato solo mezzo miliardo di dollari, di cui 300 milioni per i vaccini. La somministrazione è comunque iniziata il 1° marzo scorso, con il Ghana e la Costa d’Avorio come primi paesi beneficiari per l’Africa e la Colombia per l’America Latina, ma per i paesi a reddito basso e medio basso la strada sembra ancora molto in salita.

Alla data di chiusura di questo articolo, su 475 milioni di dosi somministrate nel mondo 126 milioni erano andate agli Stati Uniti, 60 milioni all’Unione europea e 30 milioni al Regno Unito: una frazione della popolazione mondiale pari a un decimo ha ricevuto poco meno della metà dei vaccini. In Africa, dove abita circa un sesto degli abitanti del pianeta, le dosi inoculate erano 8,5 milioni, il 2% del totale.

Quanto alle dosi acquistate, secondo il monitoraggio effettuato ogni due settimane dal centro studi statunitense Duke global health innovation center@, a metà marzo su 8,6 miliardi totali 4,6 erano dei paesi ad alto reddito (il 53,7%), 1,5 miliardi (17%) dei paesi a reddito medio alto, 703 milioni (8%) dei paesi a reddito medio basso e 670 milioni (7,8%) dei paesi a reddito basso, mentre l’iniziativa globale Covax aveva comprato il 13% delle dosi, pari a 1,1 miliardi di dosi.

Le numerose richieste, promosse da Ong come Medici senza frontiere e appoggiate dall’Oms, di sospendere i brevetti dei vaccini non hanno sortito ad oggi alcun effetto a causa principalmente delle resistenze di Usa, Ue, Svizzera e Regno Unito@.

Gesto simbolico di intercessione in tempi di Covid in Sud Corea

L’Oms e i ritardi della Cina

Le iniziative promosse dall’Oms per combattere il coronavirus non hanno ottenuto l’adesione e i risultati sperati anche a causa della scarsa collaborazione da parte delle principali economie mondiali e del prevalere della logica del bilateralismo.

La mancata collaborazione da parte della Cina è stata anche il motivo principale dei ritardi con cui nel gennaio del 2020 l’Oms ha allertato il mondo sul coronavirus e sulla gravità della situazione. Se pubblicamente l’Oms lodava la Cina per la gestione dell’epidemia, riportava nel giugno scorso Associated press (Ap)@, il dietro le quinte era però ben diverso: vi era notevole frustrazione tra i funzionari dell’Oms per i ritardi significativi con cui il governo cinese condivideva informazioni cruciali, ad esempio quelle sul genoma del virus, nonostante la rapidità con cui gli scienziati cinesi le avevano fornite a Pechino.

Le lodi pubbliche, continua Ap riportando il contenuto di alcune registrazioni degli incontri interni all’Oms in quelle settimane, erano parte di una strategia per invogliare il governo cinese a collaborare in una fase in cui – nelle parole del più alto funzionario dell’Organizzazione in Cina, Gauden Galea -, «ci danno le informazioni un quarto d’ora prima che vengano trasmesse su Cctv», la televisione pubblica cinese.

Burocrazia elefantiaca e immobilista

La scarsa collaborazione ricevuta non toglie, tuttavia, che l’organizzazione funzioni da anni in modo tutt’altro che impeccabile.

I ritardi dell’Oms nel dare l’allarme su un’epidemia non sono una novità: nel 2015 l’organizzazione fu duramente attaccata per aver aspettato due mesi prima di dichiarare emergenza globale l’epidemia di ebola in Africa occidentale l’anno prima. A trattenere l’Oms, nonostante i suoi funzionari sul campo inviassero a Ginevra numerose e accorate segnalazioni e richieste d’aiuto, fu il timore di danneggiare l’economia regionale e di compiere quello che i governi della zona avrebbero potuto leggere come un atto ostile@.

L’Oms condivide molte delle pecche del più ampio sistema di cui fa parte, le Nazioni Unite: in un articolo apparso nel 2016 sul New York Times dal titolo «Amo le Nazioni Unite, ma stanno fallendo»@, un funzionario Onu di lungo corso come Anthony Banbury individua i principali problemi della struttura nel suo sistema sclerotizzato di gestione del personale e nella tendenza a prendere decisioni basate sulla convenienza politica – ad esempio non scontentare gli stati membri – invece che sui valori fondanti dell’organizzazione o sulla realtà dei fatti sul campo.

Per quanto riguarda il primo ostacolo, spiega Banbury che, durante l’epidemia del 2014, era capo della missione Onu per la risposta di emergenza all’ebola, «troppo spesso, l’unico modo per accelerare le cose è infrangere le regole. È quello che ho fatto ad Accra [in Ghana] quando ho assunto un’antropologa come consulente indipendente. Si è rivelata qualcuno che valeva il proprio peso in oro. Le pratiche di sepoltura non sicure erano responsabili di circa la metà dei nuovi casi di ebola in alcune aree. Dovevamo capire queste tradizioni prima di poter persuadere le persone a cambiarle. Per quanto ne so, nessuna missione delle Nazioni Unite aveva mai avuto un antropologo nello staff prima di allora; quando io ho lasciato la missione, lei non è stata confermata».

Distribuzione di cibo ai più poveri in eSwatini.

«Un covo di squali»

I rapporti disfunzionali all’interno dell’agenzia sono anche l’oggetto delle critiche di Laurie Garrett, esperta di salute globale presso il centro di ricerca statunitense Council for foreign relations e giornalista scientifica. In una colorita intervista a Global health now, sito di informazione sulla sanità della Johns Hopkins Bloomberg school of public health, ha detto: «L’unico consiglio che ho dato a ogni direttore generale – e tutti lo ignorano, anche se poi, anni dopo, tutti mi dicono: “Come avevi ragione!” – è: cerca di ridurre al minimo i tuoi viaggi. Perché questo posto [il quartier generale dell’Oms] è un covo di squali». A detta di Garrett, sui programmi da realizzare ci sono grandi battaglie fra i dipartimenti, che si sabotano a vicenda per difendere il proprio territorio. Può succedere di veder «sparire improvvisamente interi programmi nei paesi poveri di tutto il mondo […] perché il direttore generale non era lì per dire “no”. E l’altro problema, con i direttori che viaggiano così tanto, è che si trovano in uno stato permanente di jet lag e iniziano a perdere la propria capacità di giudizio […] perché letteralmente non sanno in quale fuso orario si trovano»@.

Quella di Tedros è stata la prima elezione a scrutinio segreto estesa a tutti gli stati membri dell’Oms; prima, la decisione era presa a porte chiuse da una trentina di rappresentanti dei paesi ad alto reddito e da un gruppo di altri membri a rotazione. I casi di corruzione da parte dei paesi di provenienza dei candidati per assicurarsi i voti erano non solo numerosi, ma anche sfacciati.

L’Oms ha, storicamente, ottenuto diversi successi, come l’eradicazione del vaiolo e la realizzazione di grandi campagne vaccinali su tutto il pianeta. Molti esperti, specialmente alla luce dell’attuale crisi, invocano una profonda riforma dell’organizzazione per renderla più efficiente ma anche più indipendente dai condizionamenti politici@ per poter agire davvero come ente di coordinamento globale in un mondo in cui, ammonisce Gavi, nessuno vince finché non vincono tutti@.

Chiara Giovetti

 




Il lavoro minorile

testo di Chiara Giovetti |


Il 2021 è l’anno internazionale per l’eliminazione del lavoro minorile, fenomeno che interessa 152 milioni di bambini sul pianeta e di cui le Nazioni Unite auspicano l’eradicazione totale entro il 2025. Ma, ai tassi attuali, l’obiettivo non sarà raggiunto, anche a causa della pandemia che sta minacciando di vanificare i risultati raggiunti finora.

Secondo il più recente rapporto@ dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil, o Ilo nell’acronimo inglese), il lavoro minorile interessa 152 milioni di bambini e adolescenti fra i 5 e i 17 anni, uno ogni dieci bambini che vivono sul pianeta. Nella metà dei casi, pari a circa 73 milioni, le vittime svolgono lavori pericolosi che ne mettono a rischio «la salute, la sicurezza e la moralità»: lavorare di notte o troppo a lungo, essere esposti ad abusi fisici, psicologici o sessuali, lavorare sottoterra, sott’acqua, ad altezze pericolose o in spazi ristretti sono alcuni degli elementi che qualificano un lavoro come pericoloso.

Circa metà dei bambini vittime di lavoro minorile ha dai 5 agli 11 anni, oltre un quarto ha dai 12 ai 14 anni e la restante parte ha dai 15 ai 17 anni. I maschi sono 88 milioni, le femmine 64 milioni.

Il quadro normativo internazionale di riferimento su questo tema si fonda sulla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 20 novembre 1989, e su diversi altri documenti internazionali tra cui le due Convenzioni dell’Oil, la 138 del 1973 e 182 del 1999. Queste, fra le altre cose, fissano il limite di età per essere ammessi all’impiego a 15 anni (13 se si tratta di lavori leggeri) e a 18 per i lavori pericolosi, codificano le caratteristiche delle peggiori forme di lavoro minorile e sanciscono l’applicazione del termine «bambino» a ogni persona con meno di 18 anni. Le persone fra i 15 e i 17 anni incluse nelle statistiche Oil sul lavoro minorile, quindi, non lo sono per l’età, ma perché il lavoro che svolgono può essere dannoso per la loro salute e il loro benessere psico-fisico.

Piccolo venditore ambulante a Cusco in Perù.

La definizione e la tendenza

Il lavoro minorile, che con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile il mondo si è impegnato a eliminare entro il 2025, chiarisce l’Oil, è quello che «priva i bambini della loro infanzia, del loro potenziale e della loro dignità e che nuoce al loro sviluppo mentale e fisico»; un lavoro «mentalmente, fisicamente, socialmente e moralmente pericoloso e nocivo», che priva i bambini della possibilità di andare a scuola, o li costringe ad abbandonarla prematuramente o a combinare l’impegno scolastico con un lavoro eccessivamente lungo e pesante@. Le cose sono migliorate molto nel periodo fra il 2000 e il 2016, nel corso del quale i minori costretti a lavorare sono passati da 245 milioni agli attuali 152, con una riduzione pari al 38%. Tuttavia, gli anni fra il 2012 e il 2016 hanno visto una diminuzione più lenta rispetto ai quadrienni precedenti. Mantenendo quel ritmo, nel 2025 ci saranno ancora 121 milioni di bambini lavoratori. Per raggiungere l’obiettivo di sviluppo sostenibile 8.7 – che riguarda appunto l’eliminazione di tutte le forme di lavoro minorile e dà il nome all’alleanza internazionale di enti governativi, agenzie Onu e altre organizzazioni, nata per contrastarlo (Alliance 8.7@) – è necessario un deciso cambio di passo.

I Paesi e i settori del lavoro minorile

Piccolo venditore di frutta nel Kirghizistan

Nove bambini su dieci tra quelli costretti a lavorare vivono in Africa (72 milioni) e nella regione dell’Asia Pacifico@ (62 milioni). L’Africa è al primo posto anche per la percentuale di bambini lavoratori, che sono quasi il 20%, cioè uno su cinque, mentre in Asia Pacifico la quota è del 7%.

La restante popolazione colpita è suddivisa tra Americhe (11 milioni in termini assoluti, pari al 5% dei bambini), Europa e Asia centrale (6 milioni, 4%) e stati arabi (1 milione, 3%).

L’Africa, sottolinea il rapporto Oil, ha visto un aumento del lavoro minorile pari all’1% nel quadriennio 2012-2016, in controtendenza rispetto alle altre regioni del mondo – che hanno tutte registrato dei cali – e nonostante le politiche che i governi africani hanno messo in atto per ridurre il fenomeno. I motivi di questo incremento non erano ancora chiari quando il rapporto Oil è stato elaborato; è possibile che il prossimo rapporto, atteso quest’anno, e relativo al quadriennio 2016-2020, includa qualche spiegazione. Intanto, però, è già chiaro che una grossa parte del risultato finale, a livello globale, dipende dalla capacità di invertire la tendenza in Africa.

Quanto ai settori economici, l’agricoltura è quello più interessato con 108 milioni di bambini impiegati, pari al 71% del totale, mentre il 12% dei bambini lavora nell’industria e il 17% nei servizi.

Il lavoro minorile nel settore agricolo riguarda principalmente l’agricoltura di sussistenza e commerciale e l’allevamento del bestiame, ma si estende anche alla pesca, alla silvicoltura e all’acquacoltura. «Il peso relativo dell’agricoltura», si legge ancora nel rapporto, «è aumentato in modo significativo dal 2012, quando il settore rappresentava il 59% di tutto il lavoro minorile: un cambiamento che probabilmente riflette lo spostamento della distribuzione regionale della popolazione lavorativa minorile verso l’Africa, dove predomina il lavoro minorile agricolo».

Lavoro in famiglia e lavoro domestico

Più di due terzi di tutti i bambini coinvolti nel lavoro minorile sono collaboratori nell’attività della propria famiglia, mentre il lavoro retribuito e il lavoro in proprio rappresentano rispettivamente il 27% e il 4%.

Questi numeri, continua il rapporto, sottolineano un aspetto importante: non è necessario un datore di lavoro terzo perché i bambini siano coinvolti nel lavoro e ne subiscano le conseguenze. Quelli impiegati da datori terzi sono l’eccezione, la maggior parte dei bambini è impiegato nelle fattorie e nelle imprese di famiglia. Comprendere e affrontare i motivi per cui le famiglie sono così dipendenti dal lavoro minorile è quindi fondamentale per eliminarlo, indipendentemente dal fatto che il lavoro sia svolto come parte delle catene di fornitura locali, nazionali o globali, o per la sola sussistenza familiare.

Un tema a sé è poi quello del lavoro domestico, cioè quello svolto «per e all’interno della propria famiglia: prendersi cura di fratelli o membri della famiglia malati, infermi, disabili o anziani, pulire e fare piccole riparazioni, preparare e servire i pasti, lavare e stirare i vestiti», e attività simili. Queste attività sono una forma di produzione «non economica» che le Nazioni Unite non includono fra gli indicatori concordati a livello internazionale per misurare l’attività economica nazionale. Secondo le stime del 2016, tuttavia, almeno 800 milioni di bambini sono in qualche misura coinvolti nelle faccende domestiche. Per 47 milioni di bambini l’impegno in casa occupa fra le 21 e le 42 ore settimanali, mentre per 7 milioni di loro supera le 43 ore. In entrambi i casi, è sulle bambine che ricade il maggior peso: due terzi dei bambini che partecipano al lavoro domestico sono femmine.

Le cause

I motivi che costringono bambini e adolescenti a lavorare sono vari, si legge sul sito ufficiale della campagna delle Nazioni Unite@: i bambini lavorano perché la loro sopravvivenza dipende da questo, perché i loro genitori non hanno accesso a un lavoro dignitoso, perché i sistemi nazionali di istruzione e protezione sociale sono deboli e perché gli adulti approfittano della loro vulnerabilità. A volte sono credenze radicate a favorire il fenomeno, ad esempio l’idea che il lavoro aiuti a formare il carattere e sviluppare le proprie abilità, o la convinzione che sia giusto per loro seguire le orme dei genitori e quindi impararne il mestiere molto presto.

Alcune situazioni, inoltre, spingono le famiglie povere a indebitarsi e a ripagare il debito con il lavoro dei propri figli. In alcuni casi il lavoro minorile si aggiunge al lavoro forzato: secondo un rapporto Oil del 2017 sulla schiavitù moderna, su quasi 25 milioni di persone costrette al lavoro forzato, circa 4,3 milioni erano bambini con meno di 18 anni. Fra questi, un milione di bambini era vittima di sfruttamento sessuale, tre milioni di altre forme di sfruttamento lavorativo e trecentomila erano in lavori forzati imposti dalle autorità statali.

Altre forme di lavoro forzato minorile coinvolgono i bambini i cui genitori sono in una condizione di schiavitù. «Un esempio comune», prosegue il rapporto, «è il lavoro minorile nel contesto del lavoro agricolo familiare. I genitori sono schiavi del debito con un proprietario terriero e i figli devono lavorare con loro».

Cartolina pubblicata negli anni ’30 del secolo scorso.

Gli effetti della pandemia

La pandemia da nuovo coronavirus sta rischiando di annullare molti dei progressi fatti nell’ultimo ventennio: «In tempi di crisi», ha detto lo scorso giugno Henrietta Fore, direttore esecutivo dell’Unicef, «il lavoro minorile diventa una strategia di adattamento per molte famiglie. Con l’aumento della povertà, la chiusura delle scuole e la diminuzione della disponibilità dei servizi sociali, sempre più bambini vengono spinti nel mondo del lavoro»@. Secondo le proiezioni dell’Unicef riportate lo scorso settembre dal New York Times@, 24 milioni di bambini abbandoneranno la scuola a causa del Covid-19.

Molti stanno già svolgendo lavori inadatti alla loro età e spesso pericolosi: in Kenya, riporta il quotidiano newyorkese, i bambini di 10 anni stanno lavorando nell’estrazione della sabbia; i loro coetanei in Africa Occidentale tagliano le erbacce nelle piantagioni di cacao. In Indonesia, bambine e bambini di otto anni vengono dipinti d’argento e messi a fare le statue viventi che chiedono la carità.

Fra le storie riportate dal New York Times quella di Rahul, undicenne di Tumakuru, nell’India meridionale, mostra come la pandemia stia minacciando di togliere definitivamente ai bambini la possibilità di sviluppare il loro potenziale e di usarlo per uscire dalla povertà: «Rahul è un bravo studente», dice di lui il suo maestro. «La sua capacità di apprendimento è molto buona e ha notevole proprietà di linguaggio. Ha un quoziente intellettivo alto, dice che vorrebbe diventare un medico e potrebbe farcela». Ma da quando le scuole in India hanno chiuso, lo scorso marzo, Rahul aiuta il padre a rovistare nei mucchi di immondizia in cerca di plastica riciclabile in cambio di qualche centesimo all’ora.

Il lavoro minorile, si legge nell’articolo, «è solo una parte di un imminente disastro globale: la malnutrizione grave sta perseguitando i bambini dall’Afghanistan al Sud Sudan. Secondo i funzionari delle Nazioni Unite, i matrimoni forzati per le ragazze sono in aumento in Africa e in Asia, così come il traffico di bambini. I dati dell’Uganda hanno mostrato che le gravidanze delle adolescenti sono aumentate durante le chiusure scolastiche legate alla pandemia. Gli operatori umanitari in Kenya hanno riportato che molte famiglie mandavano le loro ragazze adolescenti a prostituirsi per sfamare la famiglia».

Molti bambini potrebbero non tornare più a scuola anche dopo le riaperture perché una volta che cominciano a guadagnare è molto difficile per le loro famiglie rinunciare a quella fonte di reddito: «Ho paura che, anche se la scuola riapre, dovrò continuare a fare questo lavoro per via dei debiti della mia famiglia», confessa al New York Times Mumtaz, dodicenne di Gaya, in India orientale. Dalla chiusura delle scuole lavora in un cantiere insieme al fratello Shahnawaz, di dieci anni, trasportando sul capo secchi pieni di ghiaia. «Ho mal di testa», dice Shahnawaz, «la notte non riesco a dormire. Tutto il mio corpo trema».

Chiara Giovetti




Il ruolo della Cina e i primi passi di Biden

testo di Chiara Giovetti |


Il disinteresse della scorsa amministrazione Usa per la cooperazione ha contribuito all’espansione dell’influenza cinese, specialmente nelle organizzazioni internazionali. L’aiuto allo sviluppo, ma soprattutto gli investimenti cinesi, infatti, sono in forte crescita già da un ventennio. Il nuovo presidente Usa, Joe Biden, dovrà trovare una mediazione fra la fermezza verso Pechino e il riparare e ricostruire quanto cambiato o demolito da Trump.

Quattro delle principali quindici agenzie delle Nazioni Unite hanno un cittadino cinese come direttore o segretario generale: al primo mandato sono Fang Liu, che guiderà l’Organizzazione internazionale dell’aviazione civile (Icao) fino al prossimo luglio, e Qu Dongyu che sarà fino al 2023 il direttore generale dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao). Si concluderà invece alla fine di quest’anno il secondo mandato di Li Yong all’Agenzia per lo sviluppo industriale (Unido), mentre Houlin Zhao, riconfermato nel 2018 alla testa dell’Unione internazionale per le telecomunicazioni (Itu), occuperà la posizione fino alla fine del 2022.

Una maggior presenza di una potenza come la Cina nelle istituzioni internazionali è del tutto fisiologica; ma per farsi un’idea del peso che Pechino sta acquisendo basta pensare che le altre potenze mondiali come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania e la Francia hanno loro cittadini alla guida di una sola agenzia ciascuno@.

Honk Hong /AfMC

Centri d’influenza

Le agenzie Onu non sono molto note ai non addetti ai lavori, ma il loro operato riguarda ambiti con i quali milioni di persone vengono a contatto quotidianamente e non solo nei paesi in via di sviluppo. L’Unione internazionale per le telecomunicazioni, ad esempio, ha fra i suoi incarichi quello di elaborare le norme tecniche per il funzionamento delle reti dell’informazione e della comunicazione senza le quali, si legge sul sito dell’organizzazione, «non sarebbe possibile fare una telefonata o navigare in Internet. Per l’accesso a Internet, la compressione vocale e video, le reti domestiche e molti altri aspetti delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, centinaia di standard Itu consentono ai sistemi di funzionare, a livello locale e globale»@.

Un esempio delle diatribe che possono sorgere intorno ai temi di cui si occupa l’Itu si è avuto assistendo allo scontro fra l’amministrazione guidata da Donald Trump e la Cina a proposito delle tecnologie di telefonia mobile e cellulare di quinta generazione, o 5G, e del ruolo che l’azienda cinese Huawei ha nella produzione della componentistica e nella costruzione dell’infrastruttura necessaria a far funzionare queste tecnologie. I timori avanzati dal governo statunitense, spiegavano in un articolo del 2019 Alberto Belladonna e Alessandro Gili del centro di ricerca Ispi, riguardavano principalmente la possibilità che i dispositivi Huawei vengano usati per attività di «sorveglianza o spionaggio sulle reti digitali americane» e il fatto che «utenti, aziende e istituzioni sempre più interconnesse saranno più vulnerabili a interruzioni di servizio, furti di dati sensibili e attacchi cyber in grado di mettere a repentaglio l’economia e la sicurezza di un intero paese». A questo, sottolineavano gli autori, va aggiunta la competizione relativa alla definizione delle norme di riferimento: «l’International telecommunication union adotterà infatti come standard quello di una specifica azienda, che dovrà essere successivamente seguito come riferimento dai restanti produttori»@.

A prendere posizione a favore di Huawei è stato proprio il direttore dell’Itu, Houlin Zhao: quelle statunitensi sono preoccupazioni generate dalla politica e dagli interessi commerciali, ha detto il funzionario cinese, non dalla presenza di prove concrete.

Il pasticcio alla Fao

Anche la Fao, precisa un’analisi di Colum Lynch e Robbie Gramer apparsa nel 2019 sulla rivista Foreign Policy, ha un ruolo importante che riguarda tutti i paesi del mondo, non solo quelli a basso e medio reddito. L’agenzia, infatti, contribuisce a definire la regolamentazione internazionale per la sicurezza degli animali e la salubrità del cibo, e svolge un ruolo chiave nell’elaborazione di risposte alla fame globale, ai cambiamenti climatici causati dalla produzione alimentare e alle esigenze delle agroindustrie@.

L’elezione a direttore della Fao di Qu Dongyu è stato un altro evento indicativo dell’intenzione della Cina di ottenere più posizioni di potere nelle agenzie Onu, e avrà conseguenze anche sulla nomina del prossimo direttore del World food programme (Wfp, Programma alimentare mondiale), l’agenzia che si occupa di assistenza alimentare e che dal 1982 è guidata da un cittadino statunitense. Sarà il direttore della Fao, insieme al Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, a scegliere nel 2022 il prossimo direttore del Wfp e ad «approvare tutte le nomine del personale di alto livello presso l’agenzia, complicando i futuri sforzi degli Stati Uniti per mantenere il loro ruolo dominante».

L’elezione di Qu – figlio di un coltivatore di riso e biologo con alle spalle anche una solida carriera in scienze agrarie e ambientali – è la conseguenza di tre fattori, il primo dei quali è la campagna elettorale molto decisa che la Cina ha fatto per il proprio candidato. Foreign Policy riporta un articolo della Cnn secondo il quale nel febbraio del 2019, pochi mesi prima dell’elezione del direttore generale, un alto funzionario cinese si è recato in Camerun per annunciare la cancellazione di 78 milioni di dollari dal debito del paese africano con Pechino. Un mese dopo il candidato camerunese alla direzione della Fao si è ritirato, facendo sospettare a molti osservatori un legame fra i due eventi.

Il secondo fattore è la confusa e maldestra gestione della vicenda all’interno dell’amministrazione Trump, dove si è consumato uno scontro fra i funzionari più vicini all’ex presidente – cristallizzati sull’appoggio a un candidato debole come l’ex ministro dell’agricoltura georgiano Davit Kirvalidze – e i funzionari più aperti a considerare altri profili da sostenere. Il terzo fattore è stato la mancanza di collaborazione, se non l’aperta ostilità, fra gli Usa di Trump e i paesi europei, compatti invece nel sostegno alla candidata francese, l’agronoma Catherine Geslain-Lanéelle.

«La leadership cinese non è intrinsecamente cattiva», ha spiegato a Foreign policy kristine Lee, del centro studi Center for a new American security, «in una certa misura, gli Stati Uniti dovrebbero essere contenti che Pechino stia cercando di assumersi maggiori responsabilità nelle organizzazioni internazionali. Il problema è che sta abusando di questa responsabilità. I funzionari cinesi riferiscono a Pechino e prima di tutto servono gli interessi ristretti del Partito comunista cinese, invece di promuovere veramente il multilateralismo e rafforzare la trasparenza e la responsabilità alle Nazioni Unite».

Piazza Tienanmen a Pechino /AfMC

L’aiuto cinese e la nuova agenzia

Secondo le stime dell’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nel 2018 la cooperazione allo sviluppo internazionale della Cina ha raggiunto 4,4 miliardi di dollari, in calo rispetto ai 4,8 miliardi del 2017. Un miliardo e quattrocento milioni sono andati alla cooperazione multilaterale, cioè alle banche di sviluppo regionale, specialmente la Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (Aiib), e alle agenzie delle Nazioni Unite@.

Il dato Ocse è inferiore a quello fornito dall’Agenzia per la cooperazione giapponese, secondo la quale l’aiuto (stimato) della Cina è aumentato da 5,1 miliardi di dollari nel 2015 a 5,9 sia nel 2018 che nel 2019. L’aiuto sarebbe costituito da donazioni bilaterali e prestiti senza interessi per circa la metà, mentre un quinto andrebbe in prestiti agevolati del governo cinese ai paesi beneficiari e il restante 30% in contributi alle organizzazioni internazionali@.

Il dato più alto è quello calcolato dal sito Aiddata, che considera però anche gli impegni dichiarati (commitments) e non soltanto i fondi effettivamente sborsati; secondo Aiddata l’aiuto cinese è aumentato da un miliardo e 300 milioni del 2000 ai 6,9 miliardi del 2014, con una punta di quasi 14 miliardi nel 2009. Nel quindicennio, quindi, la Cina avrebbe fornito aiuti allo sviluppo per 81 miliardi. Nello stesso periodo, il dato per gli Usa – principale donatore mondiale – è di 366 miliardi di dollari@. La China Africa research initiative (Cari) della Johns Hopkins University presenta invece cifre più basse, che vanno dai poco più di 600 milioni del 2003 ai 3 miliardi del 2019@.

Il motivo delle discrepanze tra i dati delle diverse ricerche è che la Cina non riporta i propri dati a nessun ente internazionale e tutte le stime si basano dunque su complesse ricostruzioni che raccolgono e incrociano i dati pubblicati da ministeri, ambasciate, aziende, banche e altri enti cinesi con quelli messi a disposizione dalle agenzie Onu e da altre organizzazioni alle quali la Cina contribuisce. Tutte le stime dell’aiuto cinese, comunque, puntano nella direzione di una crescita decisa.

Inoltre, la Cina ha creato nell’aprile 2018 l’Agenzia cinese di cooperazione internazionale per lo sviluppo (Cidca). Secondo diverse analisi, fra cui quelle del centro di ricerca Brookings@ e del Centro per lo sviluppo globale@, l’agenzia è nata con lo scopo di riorganizzare e dare maggiore coerenza alla cooperazione allo sviluppo cinese. Fino al 2018 era l’ufficio per l’aiuto estero del ministero del Commercio a fare da coordinatore, ma i progetti e gli interventi veri e propri venivano affidati a numerosi ministeri e istituzioni finanziarie cinesi, generando così una dispersione delle responsabilità sulla gestione dei fondi e notevoli difficoltà di coordinamento.

Se, da un lato, Cidca ha effettivamente un ruolo centrale nella definizione della strategia e nella formulazione dei progetti, oltre che nel monitoraggio di lungo termine alla fine degli interventi; la gestione dei fondi e le fasi centrali della progettazione rimangono al ministero del Commercio. Per il momento, quindi, l’agenzia appare come la faccia della cooperazione cinese da mostrare ai partner internazionali più che l’ente che effettivamente organizza e gestisce i fondi dell’aiuto.

Per farsi un’idea del ruolo di Cidca basta pensare che i fondi su cui ha contato nel 2019 sono stati, secondo Brookings, l’equivalente di 18 milioni di dollari, a fronte dei 2,63 miliardi ancora gestiti dal ministero del Commercio per aiuto allo sviluppo. Nello stesso anno Usaid, l’agenzia per la cooperazione degli Stati Uniti, ha amministrato 20 miliardi di dollari dei circa 35 destinati all’aiuto allo sviluppo nel bilancio americano.

Il grosso dei flussi finanziari della Cina a sostegno dello sviluppo è sempre stato e continua a essere costituito non dal cosiddetto aiuto pubblico allo sviluppo (Aps, o Oda nell’acronimo inglese), ma da quelli che, nella classificazione dell’Ocse, si chiamano altri apporti del settore pubblico (Oof, Other financial flows). Sono transazioni che comprendono una percentuale di dono – cioè di fondi che non devono essere restituiti al donatore – inferiore a quella che l’Ocse richiede per classificarli come aiuto@ e operazioni finanziarie bilaterali che hanno principalmente uno scopo di facilitazione delle esportazioni. Secondo Aiddata, questi flussi cinesi sono stati pari a 216,3 miliardi di dollari complessivi fra il 2000 e il 2014, mentre quelli degli Usa sono stati di 28,1 miliardi.

Casa Bianca. /AfMC

L’amministrazione Biden

I primi atti del nuovo presidente americano Joe Biden per quanto riguarda la cooperazione internazionale sono stati di decisa rottura rispetto alla precedente amministrazione. Biden ha ordinato il rientro degli Usa nel trattato di Parigi sul clima e ha annullato il ritiro dall’Organizzazione mondiale della sanità@.

Tuttavia, secondo Devex, piattaforma online che si occupa di sviluppo@, alcune iniziative lanciate dall’amministrazione Trump hanno buone probabilità di rimanere in piedi, a cominciare dalla riforma di Usaid e dalla Development finance corporation (Dfc), l’ente che usa fondi pubblici per sostenere gli investimenti privati americani in paesi a basso e medio reddito. La Dfc, spiega Daniel Kilmann del Center for a new American security@ disporrà di più risorse, rispetto agli enti che l’hanno preceduta, per «stimolare la partecipazione del settore privato nei progetti all’estero» e va utilizzata in modo efficace se si vuole competere con la Cina e la sua iniziativa nota come Nuova via della seta. Ma, puntualizza Devex, i sostenitori della cooperazione ritengono anche fondamentale assicurarsi che siano le esigenze dello sviluppo e non gli interessi economici e di politica estera a guidare la strategia della Dfc.

Chiara Giovetti




La cooperazione Usa dopo 4 anni di Trump


La cooperazione statunitense è uscita non troppo ammaccata dai quattro anni di governo di Donald Trump, nonostante egli abbia più volte tentato di ridurre i fondi per l’aiuto allo sviluppo o di deviarli verso i paesi amici. Ma il disinteresse del presidente uscente per il multilateralismo si è tradotto nel ritiro degli Stati Uniti da diversi accordi, trattati e agenzie Onu, aprendo numerosi spazi proprio alla potenza mondiale che Trump ha più duramente contrastato: la Cina.

Secondo i dati preliminari diffusi dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) nella primavera di quest’anno, gli Stati Uniti si sono confermati anche nel 2019 il massimo donatore mondiale di aiuto pubblico allo sviluppo, con 34,6 miliardi di dollari@.

Per sapere se l’aiuto statunitense si è mantenuto a questo livello anche nel 2020 occorrerà attendere i dati Ocse che arriveranno in primavera. Nel frattempo, però, ci si può comunque fare un’idea guardando a quanto ammontava l’aiuto all’estero (foreign aid) nel bilancio statunitense del 2020 e, per il 2021, che cosa prevedono le leggi di stanziamento di Camera e Senato.

Occorre tenere conto che l’aiuto pubblico allo sviluppo di cui parla l’Ocse è quello verso i paesi a basso e medio reddito, mentre il foreign aid statunitense comprende anche gli aiuti per i paesi ad alto reddito, come Israele, il Canada o gli stati europei@, e l’assistenza militare, cioè le operazioni di peacekeeping e le sovvenzioni che gli Usa forniscono ai paesi amici e alleati per permettere loro di procurarsi equipaggiamento americano e addestramento.

Bisogna ricordare inoltre che il processo di approvazione del bilancio negli Usa comincia con una proposta del presidente, presentata di solito il primo lunedì di febbraio, e prosegue con la discussione e modifica di quella proposta da parte di Camera dei rappresentanti e Senato, che decidono le varie assegnazioni di fondi dopo una serie di udienze con i responsabili delle varie agenzie federali che li gestiranno.

Le due Camere unificano poi le proposte che ciascuna di esse ha ottenuto modificando quella del presidente e votano il documento finale, che diventa la legge di bilancio definitiva, da firmare entro il 30 settembre di ogni anno, perché l’anno fiscale negli Stati Uniti va dal 1° ottobre al 30 settembre successivo@.

2011 Getty Images

Tagli evitati dal Congresso

Per il 2020 Trump ha proposto tagli all’aiuto intorno al 21%@ e per il 2021 del 24%@. Per il 2018, ne avevamo parlato in un precedente articolo@, la riduzione richiesta dal presidente era stata intorno al 28% e di due punti più alta per il 2019. Il Congresso, con scelte sostenute sia dai democratici che dai repubblicani, ha sempre ridimensionato parecchio le proposte del presidente e ha mantenuto stabile il volume dei finanziamenti@ sia per il Dipartimento di Stato che per l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale, Usaid, le due entità che gestiscono il grosso della cooperazione internazionale Usa@.

Un esempio piuttosto chiaro di questo scarso successo dell’amministrazione uscente nell’ottenere i tagli che desiderava è dato proprio dai fondi gestiti dall’Agenzia. Nel 2017 una delle ipotesi al vaglio del governo era quella di fondere Dipartimento di Stato e Usaid, tagliando anche un terzo dei fondi al primo e il 40% alla seconda. Il piano di fusione però è stato rapidamente abbandonato e le risorse di Usaid hanno continuato a crescere in modo piuttosto costante dai 17,54 miliardi di dollari del 2014 (quando era presidente Barack Obama) ai 20,67 miliardi del 2019@.

REUTERS/Carlos Garcia Rawlins

Che cosa è cambiato nella cooperazione USA

Se Usaid non si è vista tagliare i fondi, ha però subito una riorganizzazione, che era peraltro auspicata da più parti e che è stata bene accolta da molti analisti statunitensi. Di questa ristrutturazione fa parte, ad esempio, la scelta di unificare l’Ufficio per l’assistenza nei disastri all’estero con l’Ufficio Food for Peace, creando un nuovo Ufficio per l’assistenza umanitaria guidato da un funzionario di livello più alto@.

Un altro elemento della riorganizzazione riguarda il metodo di valutazione dei risultati, che si concentra ora di più sull’impatto, cioè sui reali cambiamenti che l’aiuto ha prodotto, e meno sulla performance, cioè sul verificare che le attività previste nei programmi di Usaid siano state svolte e completate come previsto@.

Al di là di Usaid, un altro cambiamento significativo riguarda le priorità che il governo di Donald Trump ha impresso, o tentato di imprimere, all’aiuto allo sviluppo. L’amministrazione, si legge nella scheda sugli Usa di donortracker@, sito di approfondimento sui temi dello sviluppo, vincola fortemente l’assistenza allo sviluppo alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti e alla crescita dell’economia.

Le priorità dell’amministrazione Trump sono state lo sviluppo economico, in particolare delle donne, e la finanza per lo sviluppo, cioè l’uso di risorse pubbliche per stimolare investimenti del settore privato in paesi a basso e medio reddito, dove il contesto politico e commerciale presenta troppi rischi per attrarre spontaneamente capitali privati. Per rafforzare la finanza per lo sviluppo, l’amministrazione Trump ha creato un ente ad hoc, la Development Finance Corporation, altra scelta accolta positivamente dagli esperti del settore.

Viceversa, i finanziamenti per la salute globale sono stati oggetto di tagli significativi nelle proposte di bilancio del presidente.

Donne Maasai aiutate da Usaid per un programma di alfabetizzazione

Visione vaga e conflittuale

Secondo un’analisi di Michael Igoe@ pubblicata sul sito Devex, è abbastanza raro che un presidente americano metta la cooperazione fra le massime priorità.

Trump, però, non si è limitato a ritenere poco rilevante lo sviluppo: se ne è completamente disinteressato, a meno che un particolare tema non fosse caro a qualcuno della sua cerchia ristretta. È il caso dell’Iniziativa per lo Sviluppo globale e la prosperità per le donne, voluta dalla figlia del presidente, Ivanka: un programma che diversi analisti hanno voluto interpretare come una specie di promozione del «marchio Ivanka», con la sua attenzione verso l’imprenditoria femminile e l’emancipazione delle donne, ma che ha anche ottenuto giudizi positivi fra i sostenitori della cooperazione.

Del resto, suggerisce l’articolo su Devex, un po’ di personalismo è fisiologico e prescinde dal colore dell’amministrazione: Raj Shah, direttore di Usaid durante l’amministrazione Obama, aveva un passato nella Bill and Melinda Gates Foundation come esperto di agricoltura e, da direttore dell’agenzia, ha promosso proprio iniziative di sviluppo agricolo come Feed the Future@.

A parte le iniziative caldeggiate dai suoi più stretti collaboratori, osserva il funzionario di area repubblicana Andrew Natsios, che aveva diretto Usaid durante la presidenza di George W. Bush, se Trump ha usato l’aiuto lo ha usato come strumento diplomatico punitivo: ad esempio, il presidente ha deciso di tagliare gli aiuti all’America Centrale perché riteneva che i governi della regione non stessero facendo abbastanza per fermare la migrazione, o ha ridotto i fondi per la Cisgiordania e Gaza per forzarle a partecipare ai negoziati di pace.

La filosofia di Trump sullo sviluppo «è caratterizzata dalla mancanza di una filosofia che vada oltre la competizione e la disgregazione», ha detto a Michael Igoe un ex funzionario dell’amministrazione Trump che ha chiesto di restare anonimo. «Non credo che il presidente entri nei dettagli della governance. […] Forse sa vagamente cosa sia Usaid, ma non credo che ne sappia molto, né credo che gli importi granché, francamente. Non fa parte della sua agenda politica».

Secondo Natsios, questa percezione approssimativa dell’aiuto e dello sviluppo è a sua volta la conseguenza di una visione della politica internazionale che si concentra solo sullo scontro fra superpotenze – con la Cina come principale avversario – e che non vede quanto sia centrale il mondo in via di sviluppo nell’equilibrio di potenza. «Credo che specialmente in Africa questo sia un grosso fallimento», aggiunge Natsios.

Il ritiro da trattati e agenzie Onu

Il disinteresse per lo sviluppo che Donald Trump ha mostrato si estende anche al multilateralismo, verso il quale il presidente ha mostrato aperta ostilità fino al punto di ritirare gli Stati Uniti da diversi trattati o organizzazioni internazionali.

Lo scorso luglio l’amministrazione aveva notificato alle Nazioni unite e al Congresso statunitense l’avvio della procedura di uscita dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms): l’uscita diventerebbe effettiva nel luglio di quest’anno (2021), ma il presidente eletto Joe Biden ha immediatamente dichiarato di volerla revocare il primo giorno del suo mandato@.

Il presidente uscente ha motivato la scelta di abbandonare l’Oms accusando quest’ultima di avere grosse responsabilità nella diffusione su tutto il pianeta della pandemia da coronavirus e di essere troppo dipendente dalla Cina@.

Oltre che dall’Oms, Trump ha deciso nel 2017 di uscire dall’accordo di Parigi sul clima – il ritiro è diventato effettivo il 4 novembre scorso, il giorno successivo alle elezioni vinte da Joe Biden – e dal trattato Inf (Intermediate-range nuclear forces treaty) con la Russia per la messa al bando dei missili nucleari a medio raggio, accusando Mosca di averlo violato.

Gli Usa hanno poi lasciato l’organizzazione delle Nazioni unite per l’istruzione, la scienza e la cultura (Unesco): non pagavano le quote di finanziamento dal 2011, quando era in corso il primo mandato di Obama, perché l’Unesco aveva accettato la Palestina fra i propri stati membri ed esiste una legge negli Stati Uniti che proibisce di finanziare organizzazioni che ammettano gruppi «privi degli attributi internazionalmente riconosciuti di uno stato»@.

L’ultimo ritiro in ordine di tempo è stato quello, dello scorso novembre, dal Trattato sui cieli aperti (Open Skies), che cercava di aumentare la trasparenza e la fiducia fra i 34 paesi membri permettendo a ciascuno di essi di raccogliere informazioni sulle installazioni e le attività militari degli altri, effettuando sorvoli con aerei senza armi dotati di telecamere e altri sensori. Anche in questo caso, il presidente ha giustificato l’abbandono del Trattato con le violazioni da parte della Russia, che ha rifiutato agli altri stati membri il permesso di sorvolo su alcune aree come quelle di Kaliningrad e Mosca e sul confine con le regioni georgiane dell’Ossezia e dell’Abkhazia@.

L’abbandono di tutti questi accordi e istituzioni ha lasciato ampi spazi proprio all’avversario che gli Usa di Donald Trump più si sono sforzati di contrastare, cioè la Cina, che ha collocato suoi uomini@ alla testa di quattro delle principali 15 agenzie Onu. Hanno infatti un direttore generale cinese l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), quella per lo sviluppo industriale (Unido), quella per l’aviazione civile (Icao) e l’Unione internazionale per le Telecomunicazioni (Itu).

Chiara Giovetti
[fine prima puntata]




Il nostro 2020 di solidarietà

testo di Chiara Giovetti |


Nel corso di quest’anno abbiamo sostenuto diverse famiglie del Mozambico nel loro lavoro di ricostruzione delle case distrutte dalle alluvioni e dal ciclone Idai del 2019. Abbiamo poi assistito i nostri missionari impegnati a mitigare gli effetti della pandemia e rafforzato il nostro programma di sostegno a distanza. Vi raccontiamo il nostro 2020 al servizio degli ultimi reso possibile dalla generosità di tutti voi.

Era il 3 aprile del 2019 quando padre Sandro Faedi, missionario della Consolata in Mozambico e all’epoca amministratore apostolico della diocesi di Tete, scriveva@: «Qui è stato un disastro. Alluvioni come ho vissuto a Vilanculos nel 2000», anno in cui un’ondata di maltempo come non si vedeva dagli anni Cinquanta del secolo scorso e un successivo ciclone provocarono 800 vittime e oltre mezzo milione di sfollati. Nel 2019 il bilancio è stato di poco diverso: 603 morti e 400mila sfollati, causati dal ciclone Idai, che ha raggiunto l’area della grande città costiera di Beira con vento fra i 180 e i 220 chilometri orari e ha colpito con piogge intense (200 millimetri in 24 ore) le province di Sofala, Manica, Zambézia, Tete e Inhambane@.

A Tete, continuava il racconto di padre Sandro, «centinaia di famiglie, si dice 860, sono state prese di sorpresa durante la notte, e hanno salvato a malapena la vita. Casa, oggetti, utensili, tutto alla malora. I morti… non si sa, forse una quarantina».

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

Ricostruzione dopo il ciclone

Insieme a padre Diamantino Guapo Antunes, superiore dei missionari in Mozambico che di lì a poco sarebbe diventato vescovo di Tete, padre Faedi ha identificato un gruppo di dodici famiglie di Nkondezi, un villaggio vicino a Tete particolarmente colpito dalle alluvioni. Grazie a donatori privati negli Usa, nell’aprile del 2019 e, a inizio 2020, al contributo della mostra di Solidarietà degli Amici di Missioni Consolata a Torino, è stato possibile raccogliere i fondi grazie ai quali le case di queste famiglie sono di nuovo in piedi.

«La costruzione delle case», scriveva lo scorso ottobre monsignor Antunes (diventato vescovo il 12 maggio), «è iniziata il 15 settembre 2019 dopo la cerimonia di benedizione della prima pietra. Un’azienda locale ha svolto il lavoro sotto la mia supervisione. Non tutte le case sono state costruite a Nkondezi come previsto.  Gravi situazioni di povertà urbana e solitudine degli anziani ci hanno spinto a sostenere la costruzione di case nella periferia della città di Tete, colpita anch’essa dagli effetti del ciclone Idai».

Monsignor Antunes segnalava un leggero ritardo rispetto ai tempi previsti per completare le case: ci sono state infatti delle difficoltà nel procurarsi cemento – il cantiere principale era distante dalla città di Tete, dove si trovano le materie prime – e anche alcuni rallentamenti causati dalla pandemia di Covid-19, che ha reso più complicato lo svolgimento dei lavori.

La costruzione delle casette è terminata il 1° luglio 2020, riferiva ancora il vescovo. Le famiglie hanno partecipato attivamente a tutte le fasi della realizzazione del progetto, collaborando secondo le loro possibilità e aderendo a una raccolta fondi locale per contribuire alla copertura di alcune spese. Anche la comunità ha collaborato offrendo manodopera non qualificata. Il costo della costruzione di ogni casa è stato 2.500 euro, per un totale di 30mila euro.

Ricostruzione di casette dopo il ciclone Idai

Coronavirus, il ciclone planetario

A metà marzo di quest’anno i nostri missionari in Africa e America Latina, hanno iniziato a inviare i primi brevi aggiornamenti sulla situazione dei contagi nei rispettivi paesi, e sulle prime misure adottate dai governi per contenere la diffusione del nuovo coronavirus.

Al di là dei numeri, che la scorsa primavera non erano ancora molto elevati nei due continenti, è apparso subito evidente che in paesi come quelli subsahariani o nelle zone amazzoniche di Brasile e Colombia, l’unico modo realistico per tentare di reagire efficacemente alla pandemia era fare prevenzione, cioè contrastarla diffondendo informazioni, disinfettante e dispositivi di protezione per evitare il contagio. Le strutture sanitarie, infatti, non avrebbero mai potuto reggere l’impatto di un numero elevato di pazienti e il tempo e le risorse per adeguare o costruire ospedali erano chiaramente insufficienti.

Dustribuzione di cibo a Daveyton in Sudafrica.

«La maggioranza dei paesi nel continente», ammoniva l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) lo scorso maggio, «non ha la capacità di gestire molti pazienti Covid-19 in condizioni critiche. Secondo un’indagine basata sui rapporti presentati dai 47 paesi membri della Regione Africa dell’Oms, i letti in terapia intensiva sono in media nove per milione di abitanti», meno di uno per centomila: in Italia a inizio pandemia i posti in terapia intensiva era intorno ai 5.100, una proporzione di 8,6 per 100mila abitanti, mentre la Germania ne aveva poco meno di 34@.

Un reportage di Reuters del maggio scorso segnalava che i tre giganti del continente africano – Nigeria, Etiopia ed Egitto – disponevano di 1.920 posti in terapia intensiva a fronte dei loro complessivi 400 milioni di abitanti e che vi erano spesso discrepanze fra i dati ufficiali e la reale capacità delle terapie intensive sul campo. L’Uganda, ad esempio dichiarava di avere 268 letti disponibili, ma secondo Arthur Kwizera, professore di anestesia e terapia intensiva all’Università di Makerere, vicino alla capitale Kampala, meno di un quarto avevano effettivamente il personale e gli strumenti per funzionare@.

La risposta sanitaria alla pandemia

A fine aprile, grazie alla generosità di alcuni donatori, sono dunque partiti i primi aiuti per tre delle strutture sanitarie dei missionari della Consolata in Africa: l’ospedale di Neisu, in Repubblica democratica del Congo, e i centri sanitari di Dianra e Marandallah, in Costa d’Avorio.

A partire da maggio, poi, diversi centri sanitari e missioni in Kenya, Uganda, RD Congo e Costa d’Avorio hanno ottenuto fondi messi a disposizione dalla Conferenza episcopale italiana, che ha distribuito un totale di circa 9 milioni di euro per 541 progetti in tutto il mondo.

Questi contributi hanno permesso di realizzare intense e capillari campagne informative, da un lato, e di acquistare mascherine, guanti, disinfettanti, pulsossimetri, dispositivi per l’ossigenoterapia, bombole di ossigeno, abbigliamento protettivo per il personale sanitario, termometri a infrarossi e altro materiale necessario per far fronte all’emergenza.

Donne rifugiata dal Malawi in Sudafrica, in attesa della distribuzione di cibo.

Un’iniziativa emblematica della collaborazione con i sistemi sanitari nazionali è stata quella realizzata in eSwatini (Swaziland fino al 2018) dalla diocesi di Manzini, il cui vescovo è un missionario della Consolata, monsignor José Luis Ponce de León.

In un post sul suo blog@, il vescovo ha raccontato come i fondi della Cei siano stati usati a Manzini per un’attività apparentemente insolita, cioè l’acquisto di radio. «Devo confessare la mia sorpresa quando qualcuno ha parlato di questa ipotesi», scriveva a settembre monsignor Ponce de León. «Sul serio? C’è bisogno di fornire radio alle famiglie?». Presto però l’esigenza è apparsa evidente: «Il governo ha fatto un ottimo lavoro di sensibilizzazione attraverso diversi media sia in siswati (la lingua del regno di eSwatini, ndr.) che in inglese, ma se le persone non hanno accesso a quei media. il messaggio non le raggiungerà».

Non solo salute: il sostegno alle comunità vulnerabili

Un altro aspetto della pandemia che è emerso immediatamente nei paesi africani e latinoamericani dove lavorano i missionari della Consolata, è stato quello dei danni economici inflitti dai lockdown alle già fragili economie delle famiglie. «Qui non ci sono ammortizzatori sociali, strumenti per iniettare liquidità nelle famiglie e nelle imprese», constatava padre Matteo Pettinari dalla Costa d’Avorio lo scorso marzo. Il confinamento per molte persone in Africa e America Latina ha significato non poter più disporre delle risorse economiche per nutrirsi, dall’oggi al domani.

Per questo una significativa parte del sostegno che i missionari hanno ricevuto dai donatori si è tradotto in sostegno al reddito delle famiglie.

Le comunità della Terra indigena Raposa Serra do Sol, in Roraima, Brasile, hanno quindi potuto beneficiare di un aiuto in generi alimentari di base, dispositivi di protezione e igienizzanti che stanno permettendo alle persone più vulnerabili di affrontare il confinamento.

Lo stesso vale per le comunità di migranti africani e di famiglie povere che vivono nelle periferie delle grandi città dove operano i missionari della Consolata in Sudafrica. A Daveyton, Johannesburg, 73 famiglie migranti e sudafricane hanno ricevuto i generi alimentari necessari per superare il periodo del lockdown durante il quale non era possibile nemmeno trovare uno di quei lavori giornalieri la cui paga, per quanto bassa, rendeva possibile procurare cibo per sé e per i propri familiari. A Mamelodi, township di Pretoria, le famiglie migranti e locali assistite sono 97 nella parrocchia di Saint Mary e 46 in quella di Saint Peter Claver.

Anche a San Pedro, grande città portuale della Costa d’Avorio, cinquanta famiglie locali hanno ricevuto aiuti alimentari – riso, olio, zucchero, salsa di pomodoro, latte in polvere – e igienizzante per far fronte alle ristrettezze derivanti dalle chiusure. «Alcuni si sono commossi quando ci hanno visto arrivare con gli aiuti», spiega padre Daniel Yoseph Baiso, missionario etiope responsabile del progetto, «non si aspettavano che qualcuno si occupasse di loro e che lo facesse senza distinzioni di credo religioso. Non avevano nessun modo alternativo per procurarsi cibo, tutto era chiuso. Chi ha potuto è andato a passare il lockdown nei villaggi intorno a San Pedro, ma chi è rimasto in città ha passato un momento veramente difficile».

I missionari della Consolata, inoltre, hanno anche sensibilizzato la comunità del quartiere attraverso messaggi diffusi via whatsapp, facebook e altri social network, sulle buone pratiche per evitare l’infezione avvalendosi della collaborazione di un gruppo di giovani molto attivo che frequenta la missione e, prima della pandemia, organizzava giornate di raccolta dei rifiuti nelle strade della zona e formazione alle tematiche ambientali.

Risposta Covid a San Perdo in Costa d’Avorio.

Il sostegno a distanza non si ammala di Covid

Missioni Consolata Onlus ha un programma di sostegno a distanza iniziato nei tardi anni Novanta. La persona che da oltre vent’anni coordina il programma, Antonella Vianzone, ricordava@ in un’intervista del 2012 che le adozioni sono nate come evoluzione naturale delle attività dell’ufficio cooperazione, aperto già nel 1970 grazie a una intuizione di padre Mario Valli, diretto poi da padre Giuseppe Ramponi nei primi anni Duemila e ora guidato da Antonella.

Oggi i sostegni a distanza sono circa 1.300, suddivisi in nove paesi fra Africa, America Latina e Asia. Nemmeno la pandemia ha scoraggiato i donatori, che hanno continuato a sostenere i bambini nonostante le difficoltà che dalle chiusure di marzo ad oggi rendono molto più complicato per tante persone riservare una quota del proprio reddito alla solidarietà.

«Qualcuno mi ha scritto o chiamato per chiedere di suddividere la donazione in più tranche oppure di ritardarne l’invio», spiega Antonella, che non si stanca mai di ricordare come il rapporto diretto, che ha di persona o per telefono, con i donatori – l’ascolto, il dialogo, l’empatia – sia una parte imprescindibile del suo lavoro. «Quasi nessuno ha annullato l’adozione: soltanto due persone hanno dovuto sospenderla, per quanto a malincuore, perché avevano perso il lavoro a causa della pandemia, non ce la facevano a continuare».

A partire dalla primavera inoltrata sono arrivate anche richieste di avviare nuovi sostegni. «Credo che sia la concretezza dell’aiuto a convincere le persone», riflette la responsabile. «In un tempo così incerto e difficile, chi dona vuole essere sicuro di aiutare davvero. E che cosa c’è di più essenziale e fondamentale di garantire a un bambino istruzione e salute?». Alcuni, conclude Vianzone, hanno avviato un sostegno proprio in memoria di un familiare mancato a causa del Covid-19, «quasi a voler dare alla persona cara che hanno perso nuova vita attraverso un atto di generosità».

Chiara Giovetti

In queste tre foto, il bello del sostegno a distanza: Malina (figlia della terra Samburu in Kenya) in prima elementare, al primo anno delle superiori e dopo l’esame di maturità, finito con ottimi voti, mentre è in attesa della chiamata all’università, coronavirus permettendo.




Clima e ambiente, adesso è il tempo per cambiare

Lo sostiene e lo argomenta il rapporto della Coalizione italiana contro la povertà – Gcap, che mostra quanto la pandemia abbia aperto spazi per un cambio radicale nelle politiche pubbliche. A patto che queste siano coerenti fra loro, altrimenti si rischia di fare con una mano e disfare con l’altra.

La pandemia da Covid-19 ha causato cambiamenti radicali e richiede provvedimenti imponenti. I prossimi mesi saranno decisivi per capire se l’Italia, l’Europa, il mondo, sceglieranno di orientare questi cambiamenti e provvedimenti verso un ritorno alla situazione pre-Covid o, viceversa, in direzione di un mutamento del nostro modo di abitare il pianeta che ci permetta di affrontare – e possibilmente risolvere – i problemi che c’erano già prima dell’epidemia, a cominciare dal cambiamento climatico e dai danni all’ambiente.

Questo è il presupposto da cui muove il rapporto 2020 della Gcap – Coalizione italiana contro la povertà@, capitolo italiano della più ampia rete della Global call to action against poverty, che riunisce undicimila organizzazioni della società civile in 58 paesi.

Il rapporto mira a incidere, con una serie di raccomandazioni, sul processo decisionale che porterà l’anno prossimo alla revisione della strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile@, e mette in evidenza i legami fra cambiamento climatico e crisi ambientale da un lato e, i vari settori inclusi negli Obiettivi di sviluppo sostenibile dall’altro (Sdg nell’acronimo inglese, gli obiettivi che le Nazioni unite hanno elaborato nel 2015 per il quindicennio che arriverà al 2030, da cui il nome di Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile).

Al di là dei tecnicismi, comunque, la concretezza del rapporto e dei problemi che solleva emerge nella serie di domande avanzate dagli estensori del primo capitolo, cioè Maria Grazia Midulla, Responsabile Clima ed energia del Wwf, Andrea Stocchiero, responsabile delle attività di policy e advocacy della Focsiv, e Massimo Pallottino, co portavoce Gcap Italia.

«È possibile», si chiedono i tre autori, «garantire una vera transizione ecologica se si continuano a fornire sussidi per le energie fossili? È possibile avviare un vero percorso di riduzione delle disuguaglianze se si mantiene un sistema economico che proprio nell’esistenza e nell’aggravamento delle disuguaglianze trova il proprio motore principale? È possibile arrestare la corsa verso il collasso ecologico, fatto di riscaldamento climatico e di riduzione della biodiversità, se continuano ad aumentare i consumi e lo spreco di risorse?».

Il riscaldamento continua

Cominciamo dal clima: «Gli ultimi cinque anni», ricorda il rapporto Gcap, «sono stati i più caldi della storia, così come lo è stato l’ultimo decennio, 2010-2019. Dagli anni Ottanta, ogni decennio successivo è stato più caldo dei precedenti». Quanto a quest’anno, occorrerà aspettare le rilevazioni dell’ultimo trimestre, ma l’estate 2020 è risultata la più calda di sempre nell’emisfero boreale stando alle rilevazioni dell’Amministrazione nazionale oceanica e atmosferica (Noaa) degli Stati Uniti, agenzia federale che studia il clima, il meteo e le condizioni degli oceani e delle coste.

Il lockdown non ha ridotto significativamente la presenza nell’atmosfera dell’anidride carbonica (CO2) e degli altri gas responsabili dell’effetto serra. Se è vero che lo scorso aprile si è registrata una diminuzione del 17 per cento nelle emissioni di anidride carbonica rispetto all’anno precedente, già a giugno la riduzione era solo del cinque per cento. Ma quel che più conta è che queste riduzioni non sono bastate per far diminuire la concentrazione dei gas serra che, anzi, ha continuato ad aumentare fra il 2019 e il 2020 come se nulla fosse successo@.

Se molte persone hanno avuto durante il lockdown la sensazione di un miglioramento della qualità dell’aria e di una riduzione dell’inquinamento, spiegava@ lo scorso 10 settembre il fisico del clima Antonello Pasini durante la presentazione del rapporto Gcap, è perché con le chiusure della scorsa primavera sono effettivamente diminuiti gli inquinanti che hanno un tempo di vita in atmosfera di quindici giorni: un blocco della attività di due mesi è quindi sufficiente a ridurli in modo molto evidente. La CO2, però, ha poi precisato Pasini, ha un tempo di vita in atmosfera di alcuni decenni. Per ridurne la concentrazione, quindi, servono prolungate e significative riduzioni delle emissioni, che possono essere solo l’effetto di decisioni politiche da parte dei governi di tutto il mondo.

L’inquinamento dell’aria

L’inquinamento dell’aria è responsabile di quasi nove milioni di morti all’anno, sottolinea il rapporto citando i dati@ della Commissione su inquinamento e salute del Lancet, prestigiosa pubblicazione medica britannica. La cifra, che è il doppio rispetto a precedenti stime dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), rappresenta il 16 per cento dei decessi annuali e nove vittime su dieci vivono in paesi a medio e basso reddito.

Il costo dell’inquinamento – inteso come lavoro perso, spese mediche affrontate, tempo libero non goduto a causa delle malattie legate all’inquinamento – è pari a 4.600 miliardi all’anno, equivalente a circa il sei per cento del Pil mondiale.

Guardando alla sola Europa, lo scorso settembre l’Agenzia europea per l’ambiente (Eea) ha pubblicato un rapporto – basato su dati 2012, i più recenti forniti dall’Oms – secondo il quale nell’Unione le morti dovute all’inquinamento sono 630mila, di cui 400mila riconducibili all’inquinamento dell’aria e dodicimila all’inquinamento acustico.

Inoltre, benché si tratti di ipotesi ancora in corso di verifica, diversi studi hanno evidenziato una correlazione fra l’inquinamento dell’aria – in particolare la presenza di inquinanti come il particolato (le polveri fini dette PM10 e PM2,5 ) – e l’aumento di infezioni e morti per Covid-19@.

Ambiente e sanità

Per affrontare cambiamento climatico e inquinamento, dicevamo sopra, sono necessarie decisioni politiche strutturali e durature. Ma, insiste il rapporto Gcap, queste decisioni possono portare dei risultati solo se non ne vengono contemporaneamente prese altre che le annullano. Questo vale per tutti gli ambiti: dal commercio alla finanza, dalla sanità all’agricoltura, dalle migrazioni alla giustizia intergenerazionale, e il rapporto dedica un capitolo a ciascuno di questi settori. Qui possiamo approfondirne solo alcuni.

Rispetto alla coerenza delle politiche nell’ambito sanitario, ad esempio, il rapporto richiama One Health (Una sola salute), un approccio che riconosce la relazione esistente tra salute umana, animale e ambientale.

Un esempio – in negativo e da correggere – della relazione fra questi tre ambiti, è quello relativo alla resistenza agli antibiotici che, secondo le stime dell’Oms, è responsabile a livello mondiale di 700mila morti all’anno, e potrebbe provocare dieci milioni di vittime entro il 2050.

Il fenomeno dell’antibiotico-resistenza (Amr, Antimicrobial resistance) «ha cause molteplici, ma è legato in larghissima misura all’uso massiccio e improprio di antibiotici in medicina e veterinaria, all’abuso di farmaci antibiotici per uso non medico negli allevamenti intensivi, alla diffusione e dispersione nell’ambiente dei fitofarmaci usati nell’agricoltura industriale e intensiva. Gli antibiotici continuano a essere utilizzati in zootecnia per la crescita rapida degli animali e per la prevenzione delle malattie, a fronte delle scarsissime condizioni di benessere vigenti nella maggior parte degli allevamenti intensivi, anziché essere prescritti per uso medico in caso di effettiva necessità. Queste pratiche scorrette, e ampiamente documentate, contribuiscono alla comparsa di batteri resistenti agli antimicrobici negli animali, che possono poi essere trasmessi all’uomo attraverso la vendita della carne».

Clima, ambiente e cibo

Un altro esempio è rappresentato poi dal settore dell’agricoltura, dell’allevamento e della silvicoltura, responsabili di quasi un quarto delle emissioni di gas serra, specialmente il metano, generato dai processi digestivi dei bovini e dal letame immagazzinato, e l’ossido nitroso, derivante dai concimi ricchi di azoto.

In questo caso, per l’Unione europea la coerenza consisterebbe nell’approfittare della imminente riforma della Politica agricola comune (Pac) per inserire nella programmazione per i prossimi sei anni provvedimenti più decisi nella direzione di un’agricoltura più sostenibile.

Coerenza significa, inoltre, evitare di adottare politiche protettive dell’ambiente e del clima «in casa» spostando poi all’estero il problema.

A questo proposito, è stato molto dibattuto negli ultimi mesi l’accordo – ancora da firmare e, almeno alla data in cui scriviamo questo articolo, abbastanza in bilico@ – fra l’Unione europea e i quattro paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay).

L’accordo permetterebbe@, l’importazione in Europa dai paesi del Mercosur di una serie di prodotti fra cui le carni bovine. Queste potrebbero entrare a dazi ridotti (7,5 per cento) e fino a raggiungere la quota di 99mila tonnellate. L’Ue ha precisato che questa quantità è «poco più dell’1% del consumo totale di carne bovina dell’Ue, pari alla metà delle importazioni provenienti attualmente dai paesi del Mercosur. Inoltre, tale quota non sarà applicata integralmente fino al 2027 e verrà gradualmente ripartita in sei rate annuali».

Ma, nonostante le rassicurazioni@ che escludono un aumento della produzione di carne bovina nel Mercosur in conseguenza all’eventuale accordo, diversi osservatori hanno comunque obiettato@ che la firma di un accordo come questo è in netta contraddizione con il piano presentato dalla Commissione europea lo scorso settembre, che prevede una riduzione delle emissioni entro il 2030 non più del 40 per cento, come era previsto nel precedente piano, ma del 55 per cento@.

Scelta discutibile

Per semplificare, il dibattito sembra svolgersi in questi termini: l’Ue dice che le quantità importate non si tradurranno in maggiore produzione nel Mercosur, e non genereranno ulteriore deforestazione e aumento delle emissioni di gas serra; le organizzazioni della società civile, puntualizzano invece che se davvero vogliamo ridurre i danni dovuti alle emissioni di gas serra l’obiettivo è ridurre la produzione globale, non mantenerla uguale continuando, fra l’altro, a buttarne una parte.

Nell’agosto del 2019 questa rubrica aveva riportato i dati Fao sullo spreco di cibo: «Ogni anno eliminiamo cibo equivalente a 3.700 miliardi di mele, un miliardo di sacchi di patate, 75 milioni di mucche, 763 miliardi di confezioni di pasta – cento per ogni abitante del pianeta –, 574 miliardi di uova, tre miliardi di salmoni atlantici e undicimila piscine olimpioniche di olive». E ancora: «La produzione di questo cibo che poi non si utilizza è responsabile dell’otto per cento delle emissioni di gas serra a livello mondiale: lo spreco alimentare emette gas serra come Russia e Giappone messi insieme»@.

Chiara Giovetti

Che fine ha fatto l’anticiclone delle Azzorre

«I più anziani si ricorderanno il colonnello Bernacca, che aspettava con ansia l’arrivo dell’anticiclone delle Azzorre, che segnava l’inizio dell’estate: bene, adesso questo anticiclone è un po’ latitante», così il fisico del clima Antonello Pasini, ospite dell’evento di presentazione del Rapporto Gcap, ha iniziato la sua spiegazione.

«Con il riscaldamento globale di origine antropica», ha continuato Pasini, «si è espansa verso Nord quella che noi chiamiamo la cellula di Hadley, cioè la cellula equatoriale della circolazione atmosferica. Espandendosi la cellula verso Nord, gli anticicloni che prima stavano stabilmente sul deserto del Sahara adesso ogni tanto entrano nel Mediterraneo, portando un caldo molto più feroce di quello dell’anticiclone delle Azzorre, con siccità e ondate di calore». (Chi.Gio.)