Processo di pace: facciamo il punto

In queste pagine offriamo un quadro sintetico della situazione
di conflitto endemico tra stato e guerriglia che da anni insanguina la
Colombia. In questo contesto nel Caquetá, sta nascendo il progetto «Centri
d’incontro e ascolto» da un’idea di p. Renzo Marcolongo, missionario della Consolata
e psicologo clinico con un’esperienza di 24 anni come terapeuta e moderatore di
seminari sull’ascolto empatico.

Colombia. Sviluppo rurale,
partecipazione politica, smobilitazione, narcotraffico e diritti delle vittime
del conflitto. Sono questi i cinque temi discussi dal governo colombiano
guidato dal presidente Juan Manuel Santos e dalle Farc (Fuerzas Armadas
Revolucionarias de Colombia
) nel corso delle negoziazioni lanciate
nell’ottobre 2012 a Oslo, in Norvegia, e continuate poi con i colloqui a
l’Avana (Cuba). I colloqui hanno avuto uno stallo dopo che un momento di
tensione a fine gennaio – il sequestro da parte delle Farc di due agenti di
polizia e l’uccisione di quattro militari – ha rischiato di far saltare il
tavolo delle trattative, ma a marzo il settimo round di negoziazioni si è
svolto regolarmente. Ognuno dei cinque punti nasconde un’insidia sia per il
governo colombiano, che non può permettersi di concedere troppo, sia per i
vertici delle Farc, che non possono permettersi di ottenere troppo poco.

I protagonisti

Il
governo di Santos ha nell’estate 2014 la scadenza per presentarsi al paese con
un successo in tasca: l’anno prossimo, infatti, si svolgeranno le elezioni
presidenziali e legislative e il partito del presidente, a prescindere dalla
decisione di Santos di correre o meno per un secondo mandato, avrebbe un
fondamentale punto a suo favore nella campagna elettorale se potesse affermare
di essere stato la forza politica capace di chiudere il conflitto armato che da
oltre mezzo secolo devasta il paese.

I
rappresentanti delle Farc, dal canto loro, devono fare i conti con
l’indebolimento ormai evidente della loro forza militare, che nel corso degli
ultimi anni ha visto ridursi il numero dei combattenti dai ventimila delle prime
negoziazioni con il governo (tardi anni Novanta) ai circa ottomila della fine
del secondo mandato del presidente Alvaro Uribe (2010). Sotto la presidenza
Uribe, le Farc hanno ricevuto duri colpi dall’esercito colombiano e hanno visto
decapitata la propria dirigenza. Il 2008 è stata l’anno della scomparsa, fra
gli altri, di Pedro Antonio Marín, alias Tirofijo, capo fondatore delle
Farc. Se Tirofijo è morto di infarto, il suo successore, noto come Alfonso
Cano, è caduto invece in seguito a un bombardamento da parte dell’esercito
nella regione del Cauca. Il capo supremo è oggi il cinquantaduenne Rodrigo
Londoño, detto Timochenko, cui spetta il difficile compito di
traghettare fuori dalla clandestinità una compagine in cui fra l’altro esiste
un forte scollamento fra vertici e retrovie.

Secondo
padre Feando Patiño, missionario della Consolata colombiano, una delle chiavi
di volta per i successi dell’esercito sulle Farc è stata la superiorità
tecnologica: «Basta pensare», spiega padre Feando, «a come hanno catturato el
Mono Jojoy, capo militare e secondo nella linea di comando delle Farc, tradito
da un paio di stivali nei quali l’intelligence era riuscita a infilare un
microchip prima della consegna a Jojoy, individuando così l’esatta posizione
Gps del campo nel quale lui si trovava».

Il fantasma del Caguán

Le
attuali negoziazioni non sono le prime nella storia del conflitto fra governo
colombiano e Farc. Il precedente è rappresentato dai colloqui intercorsi fra il
1998 e il 2002 durante la presidenza di Andrés Pastrana. In quell’occasione, il
presidente decise di smilitarizzare la zona del Caguán e di svolgere lì i
colloqui, ma il processo si concluse con un pesante fallimento e con un
rafforzamento delle Farc, che approfittarono dell’assenza di controllo militare
governativo nel Caguán per far entrare grandi quantità di armi. Oggi, però, ci
sono differenze rispetto ai primi anni Duemila, differenze che possono far
pensare a una conclusione positiva dei colloqui. Nel settembre 2012, il
settimanale colombiano La Semana sintetizzava così queste differenze: «Oggi
c’è uno stato più forte da un punto di vista sia politico che militare, mentre
la guerriglia ha vertici molto indeboliti; c’è una strategia chiara per porre
fine al conflitto, strategia che include un pre-accordo e delle regole di
funzionamento; i colloqui si svolgono all’estero e non esigono la sospensione
immediata delle ostilità; infine, pesano l’influenza del defunto presidente
venezuelano Hugo Chavez e dell’accompagnamento internazionale [di Norvegia, Venezuela,
Cuba e Cile, ndr] nei colloqui e il contesto interno colombiano, a metà
di una legislatura di un governo con prospettive di rielezione».

La
scomparsa del presidente venezuelano ha aperto qualche interrogativo sul ruolo
del Venezuela nelle negoziazioni. Il successore, Nicolas Maduro, da Caracas, fa
sapere che in ossequio al giuramento fatto al suo comandante (Chavez, appunto)
il Venezuela continuerà a impegnarsi nel processo di pace colombiano. Christian
Völkel, analista dell’Inteational Crisis Group, osserva poi che per
quanto il ruolo del Venezuela sia stato importante nella fase segreta dei
colloqui, ora le negoziazioni hanno abbastanza forza in se stesse per reggersi
senza bisogno di supporti estei.

I rospi da ingoiare

Bastano
alcuni esempi per farsi un’idea della complessità della situazione. A proposito
del primo punto, relativo alla distribuzione delle terre, secondo Marco Romero,
analista della Consultoría para los Derechos Humanos y el Desplazamiento,
i colloqui dovranno trovare un punto di convergenza fra il modello di sviluppo
agroindustriale, che pare più vicino alla linea politica del governo e agli
impegni che la Colombia ha assunto con i trattati inteazionali di libero
commercio, e l’appoggio al campesinado, cioè ai piccoli agricoltori, che
le Farc indicano come prioritario.

Altro
aspetto da affrontare sarà la partecipazione politica delle Farc: una prima
difficoltà sarà di natura legale, poiché in Colombia una legge impedisce
l’entrata in politica a chi ha pendenze con la giustizia. C’è poi la questione
dei diritti delle vittime del conflitto, a sua volta strettamente legata alla
distribuzione delle terre e alle modalità della partecipazione politica delle
Farc: secondo i critici del processo, una pace davvero sostenibile non può basarsi
sull’impunità dei perpetratori delle violenze.

In
nome della pace, avverte il presidente Santos, occorrerà comunque «ingoiare
qualche rospo». Resta da vedere se la digestione di questi rospi sarà
abbastanza indolore da tenere in piedi un processo di pace che, rispetto al
precedente, sembra avere davvero il potenziale per liberare la Colombia da uno
dei suoi conflitti più sanguinosi. Anche nell’ipotesi di successo resteranno in
Colombia molti nodi da sciogliere, relativi ad esempio alla presenza dei
paramilitari e al peso del narcotraffico. Ma nessun effetto domino di
pacificazione del paese sembra possibile senza la caduta della prima tessera,
rappresentata appunto dall’accordo fra governo e Farc.

Chiara Giovetti
__________________

Arturo
Wallace
di Bbc Mundo ha sintetizzato in modo molto efficace le sfide
connesse a ciascuno dei cinque punti sul tavolo delle negoziazioni: la sua
analisi è disponibile all’indirizzo web

http://www.bbc.co.uk/mundo/noticias/2012/10/121006_colombia_proceso_de_paz_nudos_aw.shtml 

Chiara Giovetti




Cooperazione per l’acqua

Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2013 anno internazionale
della cooperazione per l’acqua e hanno incaricato l’Unesco, la loro agenzia più
multidisciplinare, di cornordinare le iniziative legate a questo tema che tocca
in modo trasversale ambiti diversi, dalle scienze naturali e sociali,
all’istruzione, alla cultura, alla comunicazione.

Obiettivo dell’Anno Internazionale, si legge
nel sito dell’agenzia Onu che si occupa dell’acqua, Un Water, è quello
di accrescere la consapevolezza sia delle aumentate possibilità di cooperazione
su questo tema sia delle sfide relative alla gestione dell’acqua. Sarà anche
un’occasione, conclude Un Water, per sfruttare il momentum, lo slancio
generato dalla Conferenza Onu sullo sviluppo sostenibile, nota come Rio+20
poiché si è svolta vent’anni dopo una precedente conferenza organizzata proprio
a Rio de Janeiro, in Brasile, sullo stesso tema.

A
quale momentum le Nazioni Unite si riferiscano rimane piuttosto dubbio,
visto che molti degli esponenti della società civile internazionale intervenuti
a Rio+20 hanno giudicato l’evento un flop e il documento conclusivo, intitolato
Il futuro che vorremmo, una semplice raccolta di buoni propositi priva
di qualunque rilevanza operativa e concreta. Non sono state date risposte
efficaci a gridi d’aiuto come quello di una donna mozambicana riportato da p.
Alex Zanotelli su Nigrizia nei suoi articoli da Rio: «La multinazionale
brasiliana Vale do Rio Doce – ha urlato la donna al microfono – sta costruendo
una diga nel mio paese, derubandoci delle nostre terre e delocalizzando la
nostra gente».

L’importanza
dell’acqua per la vita umana è di un’evidenza che non richiede dimostrazioni,
ma è interessante citare alcuni esempi di come la sua gestione crei diatribe
che si trasformano molto spesso in veri e propri conflitti armati. World
Water
, un progetto del pluripremiato istituto di ricerca Pacific
Institute
di Oakland, Califoia, ha stilato una lista che conta 225
conflitti legati all’acqua dal 3.000 a.C. al 2010. Il sito del Centro di
Documentazione dei conflitti ambientali
, con sede a Roma, fornisce i
dettagli di oltre sessanta conflitti in corso che riguardano la gestione
dell’acqua: deviazione di fiumi, costruzione di dighe, fumigazione di
coltivazioni illegali e altri interventi simili stanno pesantemente inquinando
le acque del globo e mettendo in discussione l’esistenza di interi popoli.

Avere a disposizione acqua pulita fa la differenza fra
vivere e morire in moltissimi contesti. Secondo Un Water, la diarrea
rimane la principale causa di malattia e morte nel mondo e nove casi di decesso
su dieci, tra quelli causati da malattie intestinali, sono dovuti alla mancanza
di acqua potabile e di igiene. Ogni venti secondi un bambino muore a causa
delle condizioni igieniche insufficienti. Lavarsi le mani con il sapone e acqua
pulita potrebbe ridurre di quasi la metà queste morti.

Altro esempio: il tracoma, infezione agli occhi diffusa
nel sud del mondo, colpisce circa quaranta milioni di persone; circa sei
milioni sono gli abitanti del pianeta oggi privi della vista a causa di questa
malattia, che si diffonde principalmente dove le condizioni igieniche sono
insufficienti per la mancanza di acqua e di sanificazione. Secondo l’Unicef,
intervenire per migliorare l’accesso a fonti idriche adeguate potrebbe ridurre
del 25% l’infezione.

Unicef ricorda poi che anche nella lotta all’HIV l’acqua
ha un ruolo cruciale: i pazienti affetti da Aids sono più suscettibili alle
malattie legate all’acqua di quanto lo siano gli individui sani e si ammalano
più gravemente per questo tipo di infezioni rispetto a persone il cui sistema
immunitario non è compromesso. Per questo è ancora più importante garantire
loro accesso ad acqua adeguata.

Molti
sarebbero gli esempi da citare per illustrare il peso decisivo dell’acqua nel
salvare vite umane o anche solo nel garantire standard di vita accettabili;
altrettanti, però, sono gli esempi di abuso delle risorse idriche che minaccia
la piena fruizione di questo bene fondamentale. Questa rivista si occupa da
anni di segnalare tali abusi, che vanno dal prosciugamento delle falde
acquifere del Kerala (India) da parte di Coca Cola Company (vedi Moiola,
Acqua del rubinetto? Sì, grazie!
, MC 6/2006) all’utilizzo di acqua nella
coltivazione di fiori per i mercati europei in paesi, come il Kenya (ma non
solo), pur afflitti con cadenza annuale da ondate devastanti di siccità
(Anataloni, La vergogna della fame, MC 9/2011).

I missionari della Consolata per l’acqua

L’accesso
all’acqua è uno dei temi portanti del lavoro dei missionari della Consolata nel
mondo e i progetti realizzati nelle missioni spaziano dai micro-interventi alle
iniziative di più ampia portata, dalla risposta alle emergenze all’ascolto
delle esigenze quotidiane delle comunità. Qui, per ragioni di spazio, ne
vediamo solo alcuni fra i più recenti e significativi.

Africa – Kenya


Il
più monumentale degli interventi legati all’acqua è probabilmente quello che da
quarant’anni fratel Giuseppe Argese porta avanti a Mukululu con il Tuuru
Water Scheme
. I numeri del sistema idrico messo in piedi da fratel Argese
con la diocesi di Meru fanno impressione: oltre un quarto di milione di persone
e oltre settantamila capi di bestiame della zona circostante la foresta di
Nyambene ricevono acqua grazie a questo enorme impianto che, con i suoi 250
chilometri di tubature, conta centinaia di punti di erogazione d’acqua e serve
dispensari, strutture sanitarie, scuole e privati. Ciò che vale la pena di
ricordare è che fratel Argese sta portando avanti i lavori – con tutte le
difficoltà connesse – per costruire la terza diga, che permetterebbe di
risolvere in maniera definitiva i problemi di siccità della zona (vedi
Anataloni, Mukululu: ricominciare, sempre, MC 1/2013). Su questo
progetto si è critto molto negli anni e c’è buona documentazione. L’iniziativa
di sponsorizzare i punti di distribuzione dell’acqua sta raccogliendo buoni
consensi. Il progetto si può sostenere anche online attraverso ilMiDono.

Meno noto è il grande lavoro delle diocesi di Marsabit e
di Maralal, perennemente alle prese con la mancanza di acqua o con la presenza
di acqua salata. Hanno scavato centinaia di pozzi, sistemato cistee per la
raccolta di acqua piovana vicino a ogni tetto di asili, scuole, centri sanitari
e missioni, piazzato mulini a vento, risanato sorgenti dividendo l’accesso del
bestiame da quello delle persone, aiutato la gente a costruire piccoli bacini
artificiali per la raccolta della pioggia, propagandato l’uso corretto
dell’acqua per vincere le malattie attraverso corsi di formazione per donne,
leader, operatori sanitari… una miriade di iniziative che hanno certo
contribuito al miglioramento della vita in una regione semi-desertica. L’enorme
diocesi di Marsabit, prima della divisione da Maralal, aveva un gruppo
specializzato per seguire esclusivamente i numerosissimi progetti sull’acqua su
tutto il territorio. Ora le due diocesi continuano l’impegno attraverso i
rispettivi Uffici dello Sviluppo.

Sempre
in Kenya, Missioni Consolata Onlus ha seguito l’anno scorso la realizzazione di
un progetto idrico – sostenuto con fondi messi a disposizione da Caritas
e da un’associazione calabrese amica – che ha premesso alla scuola secondaria
di Mukothima, nel Tharaka, di dotarsi di una fonte d’acqua per irrigare il
campo adiacente alla scuola. Grazie al campo e alla serra costruita accanto a
esso, è ora possibile coltivare frutta e verdura per la mensa della scuola e
abbattere così i costi di gestione.

RD Congo e Mozambico


In
Repubblica Democratica del Congo, presso l’ospedale Notre Dame della Consolata
di Neisu, è in corso un progetto finanziato dalla Water Right Foundation della
Toscana e da altri partner della zona dell’ATO3 Medio Valdao. Il
progetto prevede la costruzione di tre pozzi nei dispensari che fanno capo
all’ospedale e la formazione della popolazione locale sul corretto uso delle
risorse idriche e, in Italia, diverse iniziative di sensibilizzazione
sull’acqua (vedi MC 3/2013).

Ai progetti classici sull’acqua, che comprendono la
costruzione di pozzi (come quello ultimato l’anno scorso a Nseue, Mozambico), l’installazione
di cistee per le scuole e le risposte alle emergenze siccità come quella del
2012 nel nord del Kenya, i missionari affiancano ormai da diversi anni altre
iniziative che riguardano meno il fare, il costruire e si
concentrano invece più sulla formazione delle persone. Si stanno cioè
moltiplicando i progetti che, da un lato affiancano alla foitura dell’acqua i
corsi di formazione su come gestirla correttamente e, dall’altro mirano ad
aumentare nelle comunità la consapevolezza del proprio diritto all’acqua.

Obiettivo
di questa formazione è sostenere la popolazione locale nel suo tentativo di
relazionarsi con le istituzioni pubbliche locali per esigere dai propri
amministratori interventi incisivi che ampliino l’accesso all’acqua pulita.
Indicativo è stato l’esempio del Mozambico, al quale Mco ha dedicato la
campagna di Natale del 2012: i missionari della Consolata che operano nel
gigante lusofono dell’Africa meridionale hanno segnalato all’unisono e con
molta decisione l’urgenza di mettere le comunità locali in condizione di
partecipare alla crescita economica del paese, creando in esse competenze
professionali e conoscenze giuridiche attraverso le quali tentare di avere voce
in capitolo nella ripartizione delle risorse nazionali, fra cui l’acqua, che
rischiano oggi di essere invece alienate e svendute a multinazionali straniere.

America Latina


Mco
ha seguito lo scorso anno due progetti a Bahia (Regione Nordeste del
Brasile), a Monte Santo e Jaguararì. Le due municipalità si trovano nel
cosiddetto poligono della siccità, caratterizzato dal bioma della caatinga,
foresta grigia, nome che deriva dalla presenza di piante che sono per la
maggior parte dell’anno secche. Le precipitazioni sono cronicamente scarse e la
struttura geologica della zona rende molto difficile raccogliere e
immagazzinare acqua. I fiumi sono stagionali e nella maggior parte dei casi
l’acqua del sottosuolo è salina, utilizzabile per la pulizia e l’abbeveraggio
del bestiame ma inadatta al consumo umano. Nell’entroterra,
una grande parte della popolazione locale riceve acqua potabile attraverso il
cosiddetto carro-pipa (camion cisterna), un servizio fornito
dall’esercito, mentre le città sono alimentate dalla Empresa Baiana de Águas
e Saneamento
(Embasa), una società privata il cui maggior azionista è il
governo dello stato di Bahia. Il rifoimento di acqua avviene una volta al
mese.

Durante
l’estate 2012, quest’area ha sperimentato la peggiore siccità degli ultimi
quarantasette anni (vedi MC 7/2012). Per dodici mesi non ci sono state
precipitazioni e le dighe e i fiumi che, in condizioni normali, riescono a
rifoirsi di acqua durante le piogge, si sono completamente prosciugati. «La
gente di Monte Santo», scriveva all’epoca dell’emergenza p. Stanley Thinwa
Muriuki, «spende anche un’intera giornata a cercare fonti spostandosi a piedi o
a dorso d’asino per lunghe ore. I bambini, anche loro coinvolti in questo
sforzo, sono costretti a perdere le lezioni scolastiche per aiutare le famiglie
a procurarsi acqua. Gli animali, spesso unica fonte di sostentamento in una
zona dove coltivare è praticamente impossibile, sono sempre più debilitati».

Per
far fronte a questa emergenza P. Stanley e P. Vidal Moratelli hanno proposto
una serie di iniziative che Mco ha riunito in una campagna di raccolta fondi
lanciata nel corso dell’estate 2012: oltre alla risposta immediata, che
prevedeva il trasporto di acqua alle comunità attraverso camion cisterna e
taniche, i missionari hanno previsto anche la perforazione di pozzi e
l’installazione di cistee che possano, in futuro, mettere al riparo la
popolazione dai danni della siccità endemica nella zona.

Jaguararì, a circa 150 chilometri da Monte Santo,
condivide gli stessi problemi. Per questo, i padri Domingos Forte e Aquileo
Fiorentini si sono impegnati nella costruzione di cistee da installare presso
le abitazioni delle famiglie della zona in modo che possano immagazzinare acqua
durante la stagione delle piogge e far fronte così ai momenti più difficili.
Grazie al sostegno di diversi donatori, l’intervento procede in modo lento ma
costante e di recente otto nuove cistee sono state installate. «In un primo
momento sono state scelte le aree dove era più grave la mancanza di acqua»,
scriveva p. Aquileo lo scorso novembre raccontando lo svolgimento del progetto,
«per poi passare all’identificazione delle famiglie più bisognose, cioè quelle
più numerose e con presenza di bambini. Famiglie che vivono vicine hanno
accettato di condividere una cisterna. Un bel segno di condivisione». E di
cooperazione. Per l’acqua.

Chiara Giovetti
Alcuni articoli sull’acqua in MC:
C. Giovetti, Acqua per la salute, 3/2013.
J. Patias, Questione di vita o di morte, 7/2012.
L. Anataloni – S. Tavella, Come una goccia di rugiada, 9/2010.
U. Pozzoli, Acqua delle nostre brame, 5/2009.
L. Anataloni, Mukiri, l’uomo dell’acqua, 2/2008.
AA.VV., Le mani sull’acqua (dossier), 6/2006.

Chiara Giovetti




Acqua per la salute (a Neisu)

Un
progetto per l’ospedale di Neisu nel Nord-Est della RD
Congo finanziato
da Water Right Foundation della Toscana.

Il
progetto «Acqua per la salute» in corso all’Ospedale Nostra Signora della
Consolata di Neisu (RD Congo) è al giro di boa: dopo sei mesi dall’inizio delle
attività, avviate nel settembre 2012, è tempo di tracciare un parziale bilancio
dell’iniziativa proposta da Mco e «Annulliamo la Distanza» alla Water Right
Foundation
e ai comuni di Calenzano e Scandicci, che hanno accolto e
finanziato il progetto.

L’intervento
prevedeva la costruzione di tre pozzi (con pannelli fotovoltaici, pompa,
cisterna e lavabi) in altrettanti dispensari periferici collegati all’ospedale
di Neisu, la sostituzione della pompa dell’ospedale e l’organizzazione di corsi
di formazione della popolazione e attività di sensibilizzazione sul corretto
utilizzo dell’acqua. Allo stato attuale, la pompa è stata acquistata, il corso
di formazione realizzato e i pozzi sono in fase di completamento. Vediamo nel
dettaglio la genesi e lo sviluppo dell’intervento.

L’Ospedale di Neisu, la forza di una rete sanitaria

Una delle caratteristiche che contraddistingue
l’Ospedale di Neisu è quella di essere il centro attorno a cui gravita una rete
sanitaria: tredici dispensari periferici, denominati centres o postes
de santé
(centri o postazioni di salute) a seconda delle dimensioni e dei
servizi offerti, fanno capo all’ospedale vero e proprio e garantiscono la
copertura capillare di un territorio difficile, privo di infrastrutture e di
collegamenti, che dall’esterno si raggiunge praticamente solo volando da Kampala,
in Uganda, e impiegando fino a una settimana di viaggio lungo i percorsi
dissestati che collegano l’Uganda alla Provincia Orientale della Repubblica
Democratica del Congo, dove si trova Neisu.

Il centro più lontano dall’ospedale si trova a oltre
sessanta chilometri dal villaggio di Neisu, in una zona totalmente priva di
strade asfaltate dove i tempi di percorrenza in 4×4 possono arrivare a intere
giornate per poche decine di chilometri. Il mezzo di trasporto più conveniente
per percorrere i laghi fangosi in cui si trasformano le strade durante la
stagione delle piogge sono le moto di piccola cilindrata, che possono seguire
la minuscola striscia di terra asciutta ai bordi della strada principale. Sono
diffuse anche le biciclette, che non di rado si rivelano le uniche ambulanze
possibili e vengono perciò riadattate con una seduta posteriore (spesso una
semplice sedia di legno legata al portapacchi) per il trasporto del paziente.

In un contesto del genere, la presenza di centri
sanitari periferici è fondamentale perché raggiungere l’ospedale centrale
richiede tempi che possono mettere seriamente a rischio la sopravvivenza del
malato. Fino all’approvazione del finanziamento da parte della Water Right
Foundation
, tre dei centri periferici non disponevano ancora di un pozzo.
Gli infermieri responsabili delle piccole strutture, dunque, erano costretti a
recarsi ai vicini fiumi per procurarsi l’acqua e dovevano poi procedere a
depurarla con metodi – come la bollitura – che richiedevano tempo sottratto
all’assistenza ai pazienti senza garantire una soddisfacente salubrità
dell’acqua. Con il completamento dei pozzi, la qualità dell’acqua e
dell’assistenza sanitaria subirà un decisivo miglioramento.

Il lavori di scavo e costruzione dei pozzi sono stati
effettuati a mano, da una squadra di operai armati di badili e picconi. A
Neisu, dove il suolo è costituito da rocce relativamente friabili di caolino,
limonite e argilla e dove basta scavare una ventina di metri per trovare
l’acqua, lo scavo manuale è certamente difficoltoso ma comunque possibile. Ciò
che invece risulterebbe impossibile è trasportare sulle strade sterrate locali
trivelle e attrezzature meccaniche per lo scavo.

L’altro intervento strutturale previsto dal progetto era
l’acquisto e installazione di una pompa per l’ospedale principale, poiché
quella in uso stava dando preoccupanti segni di cedimento. «Abbiamo subito
comprato la pompa», scrive padre Richard Larose, responsabile del progetto
all’ospedale di Neisu, «ma abbiamo preferito non installarla fino alla fine
della stagione delle piogge: non volevamo rischiare che un fulmine ce la
bruciasse subito». Certo, il problema dei fulmini si ripresenterà alla prossima
stagione delle piogge; ma evitare un danno nell’immediato e assicurare qualche
mese in più all’attrezzatura a disposizione è spesso l’unica strategia che un
missionario può mettere in atto in una zona come Neisu.


L’importanza dell’acqua pulita

Che
ci sia una relazione diretta, e fondamentale, fra acqua pulita e qualità del
servizio sanitario è ovvio: basta pensare all’importanza dell’acqua per la
pulizia e sanificazione degli ambienti e strumenti sanitari e alla quantità di
patologie (ferite da taglio o malattie sessualmente trasmissibili, solo per
fare due esempi) che vengono aggravate dalla presenza di agenti patogeni
nell’acqua utilizzata per lavarsi. È vero che la falda da cui attinge il pozzo
non è necessariamente pulita e diversi accorgimenti vanno utilizzati pur avendo
a disposizione un pozzo. Ma la probabilità che l’acqua di un pozzo si contamini
è significativamente più bassa rispetto a quella di un fiume, dove vengono
scaricati i rifiuti dei villaggi vicini e dove è possibile trovare elementi
inquinanti come le carcasse di animali.

Ciò
che è meno ovvio, invece, è che in una realtà come Neisu siano chiare e note le
regole per l’utilizzo corretto dell’acqua e per avere comportamenti
igienicamente adeguati. «La formazione sull’acqua prevista da questo progetto è
fondamentale», scriveva la dottoressa Barbara Terzi, in forze all’Ospedale di
Neisu fino al 2012. «A volte mi capita di vedere mamme che cambiano il
pannolino ai loro bambini e subito dopo danno loro da mangiare, senza lavarsi
le mani. O, ancora, c’è chi va a prendere acqua al fiume prelevandola a poca
distanza da un animale in decomposizione».

Spiegando
che certi accorgimenti possono salvare vite, sarà possibile alleggerire il
carico di lavoro dell’ospedale prevenendo malattie evitabili. A questo scopo,
sono stati coinvolti nel progetto i membri dei cosiddetti comitati di salute (Codesa)
dei villaggi dove si trovano i centri periferici. I comitati, composti da
alcuni membri delle comunità, hanno una funzione fondamentale poiché sono
l’anello di congiunzione fra struttura sanitaria e popolazione locale. Queste
persone ricevono periodicamente una formazione che permette loro di diffondere
nei villaggi conoscenze relative alle pratiche igieniche corrette e ai servizi
a disposizione presso le strutture della rete sanitaria; al tempo stesso,
operano una costante osservazione delle patologie che si manifestano nelle
proprie comunità e riferiscono al personale sanitario in modo che questo possa
intervenire il più tempestivamente possibile. Nel caso di questo progetto, i
membri dei Codesa hanno seguito un corso di formazione sull’acqua di
cinque giorni a Neisu e sono ora al lavoro per condividere con il resto della
comunità quanto hanno imparato.

Educare al valore dell’acqua: le
attività in Italia

Parte
integrante dell’iniziativa sono anche una serie di eventi pubblici in Italia il
primo dei quali è stato una conferenza stampa di presentazione del progetto che
si è tenuta a fine settembre 2012 a Calenzano; il secondo evento, realizzato a
metà ottobre durante la fiera di Scandicci, ha visto i partner del
progetto impegnati in un dibattito pubblico dal titolo «Una goccia d’acqua per
tutti», che ha registrato una buona partecipazione.

La
Water Right Foundation, come ha ricordato nel corso degli incontri uno
dei suoi referenti, Oliviero Giorgi, nasce per volontà di Publiacqua
l’azienda che gestisce il servizio idrico nel territorio dell’Ato 3 Medio
Valdao
– con il contributo degli enti locali e del mondo scientifico e
accademico. Accantonando un centesimo di euro per ogni metro cubo di acqua
consumato dagli utenti, Publiacqua ha costituito il Fondo «L’Acqua è di
tutti» e ne ha affidato la gestione alla Wrf che da anni finanzia numerose
iniziative in paesi dove l’acqua è carente o male utilizzata.

Monica
Squilloni, assessore alla Cooperazione internazionale del Comune di Calenzano e
Gabriele Coveri, suo omologo al Comune di Scandicci, hanno ribadito
l’importanza di sostenere la solidarietà internazionale e hanno sottolineato il
ruolo delle istituzioni locali italiane nel continuare a sensibilizzare i
propri cittadini a valorizzare le risorse idriche ed evitare gli sprechi. I
prossimi eventi sono previsti a fine progetto, a settembre 2013, e daranno
conto dei risultati ottenuti nel corso dei dodici mesi di attività.

Chiara Giovetti

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Chiara Giovetti




IL MONDO CATTOLICO E LA COOPERAZIONE

Nel
numero di dicembre
abbiamo raccontato il Forum Cooperazione che si è svolto lo scorso ottobre
a Milano, rilevando
fra l’altro l’assenza di una rappresentanza organizzata
e coesa delle Ong d’ispirazione cattolica e degli istituti missionari
all’evento. Eppure
il mondo cattolico s’interroga sulla mondialità e
fa cooperazione, eccome. Il «Forum Mondialità e pedagogia dei fatti in tempo di
crisi», organizzato
dalla Caritas Italiana a Roma il 14 e 15 novembre
2012, è stato anche un’occasione
per fare il punto della situazione.

«Operare
nella solidarietà internazionale per educare alla cittadinanza globale». Il
sottotitolo del forum sulla mondialità promosso dalla Caritas non lascia spazio
a dubbi: anche il modo di esprimersi testimonia l’interesse della Chiesa
cattolica per i temi affrontati dal Forum Cooperazione di Milano. La specificità
della Chiesa, dunque, sta nel trattare i medesimi problemi utilizzando
strumenti e linguaggio propri, perché quegli strumenti e quel linguaggio sono
il concretizzarsi di qualcosa di molto profondo che viene dall’umanità
realizzata nello «stare al mondo» di Gesù di Nazareth.

Che
i temi al centro del dibattito siano gli stessi rispetto al mondo «laico» lo si
è visto fin dalle prime battute del Forum Caritas, che si è aperto con la
presentazione del quarto rapporto di ricerca su finanza e povertà, ambiente e
conflitti dimenticati dal titolo «Mercati di guerra», realizzato da Caritas
Italiana
, Il Regno e Famiglia Cristiana e edito da Il
Mulino
. È un rapporto dettagliato e puntuale sui legami fra finanza,
mercati e guerra e va dritto al cuore del problema, a cominciare dal capitolo
sul cibo come elemento scatenante dei conflitti.

Che
Caritas sia una risorsa imprescindibile nell’analisi delle dinamiche odiee
non è un dato nuovo: come ha ricordato al forum don Antonio Sciortino,
direttore di Famiglia Cristiana, negli anni i rapporti Caritas sui
migranti sono stati fondamentali nel fare piazza pulita delle false
informazioni e privare di fondamento tanti pregiudizi sul fenomeno
dell’immigrazione in Italia. Semmai, aggiunge Sciortino, rivolgendosi a chi fa
informazione, è tempo di fare un passo oltre e di essere non più cronisti
distaccati ed equidistanti, ma coinvolti ed «equivicini».

Tanto
più che il cristiano, ha argomentato un altro dei relatori, Carmelo Dotolo
della Pontificia Università Urbaniana, è in una posizione privilegiata per
avvicinarsi a una realtà di crisi come quella di oggi: «Il cristianesimo»,
infatti, «è una religione della crisi»; vivere e produrre cambiamenti fa parte
del suo Dna, e far teologia è anche lo sforzo, la fatica di mettere in
relazione l’essere credenti con la realtà storico-culturale in cui si vive,
anche quando questo significa essere contro-culturali.

Un’analisi che annaspa

Nel
forum della Caritas, come in quello di Milano, non ci sono state grosse novità
per quanto riguarda l’analisi della globalità e del fenomeno della
globalizzazione: dai tempi di Dueling Globalizations, il celebre botta e
risposta fra il direttore di Le Monde Diplomatique, Ignacio Ramonet, e
l’editorialista del New York Times, Thomas Friedman – era il 1999 -,
l’acqua passata sotto i ponti del pensiero politico non ha portato con sé
intuizioni decisive, fatta eccezione per qualche elaborazione che ci ha messo a
disposizione aggettivi (come il «liquido» e il «glocale» di Zygmunt Bauman) con
cui definire in modo più immediato, quotidiano e fruibile i fenomeni
contemporanei. Mentre l’analisi annaspa nella difficoltà di immaginare il
domani, l’oggi ha visto realizzarsi le profezie nefaste dei primi anni Duemila:
gli effetti devastanti della tracotanza della finanza internazionale sono
evidenti a tutti. Questo rende ancora più urgente proporre soluzioni concrete
che implicano una traduzione in linee d’azione di quella innata vocazione del
cristianesimo al cambiamento che Dotolo sottolinea.

Dalle idee ai fatti

Ma
tradurre in pratica le conclusioni teoriche è questione molto complicata; al
forum Caritas è toccato ad Antonio Nanni (Centro di educazione alla mondialità
– CEM) misurarsi con l’ingrato compito di definire il che fare. In un lungo
intervento dal titolo «Educare alla cittadinanza globale oggi, in tempo di
crisi. Obiettivi, strumenti, linguaggio», Nanni ha descritto le difficoltà
dell’azione educativa a partire dall’analisi della crisi in cui versa
l’educazione stessa. Particolarmente interessante la riflessione sui valori:
appellarsi a essi, ha detto Nanni, è paradossalmente controproducente in un
contesto come quello contemporaneo, perché aumenta la frammentazione invece di
diminuirla. Come se l’appello ai valori, un tempo potente magnete in grado di
attrarre o respingere (e quindi riordinare) fenomeni, eventi e gruppi umani,
avesse perso il suo potere su una realtà che non reagisce più, o reagisce solo
in parte. Quell’appello non più un agente ordinatore ma un’ulteriore spinta
alla separazione.

Nanni
ha poi indicato una serie di obiettivi – formulazione di un nuovo pensiero,
solidarietà e giustizia sociale, integrazione, partecipazione, global
governance
– e proposto una vera e propria «cassetta degli attrezzi» per
raggiungerli. Fra gli strumenti, la Tobin Tax, la promozione del
servizio civile volontario, la partecipazione ai Gruppi di acquisto solidale
(Gas), la definizione e la difesa dei beni comuni, la diffusione dei contenuti
di diversi documenti di riferimento (raccomandazioni del Parlamento europeo,
documentari sull’integrazione, testi del Pontificio Consiglio della Giustizia e
della Pace, eccetera), la predisposizione di eventi e spazi di condivisione
come le feste dei popoli e i centri interculturali, e molto altro.

Rispetto
al Forum Cooperazione di Milano, dove le indicazioni sull’agire sono mancate
quasi del tutto, il Forum Mondialità registra certamente un passo in avanti
nella direzione di una maggior concretezza. L’intervento di Nanni, pur non
proponendo strumenti nuovi, rappresenta un’ottima – e necessaria – raccolta e
sistematizzazione di quelli esistenti, che vanno quindi potenziati e sostenuti.

Cooperazione missionaria

Attento
all’esigenza delle comunità cristiane di declinare in modo praticabile
l’educazione alla cittadinanza globale, il forum Caritas ha poi proposto gruppi
di lavoro tematici organizzati nei quali all’esposizione di un tema da parte di
un esperto (tecnico) seguiva l’intervento di un esponente di un organismo ecclesiale
che lo declinava in termini pastorali.

Il
gruppo di lavoro «Educare alla cittadinanza globale e agli obiettivi di
sviluppo del millennio» (Campagna Beyond 2015) ha visto dunque la
partecipazione di Andrea Stocchiero (Federazione Organismi Cristiani Servizio
Internazionale Volontario – Focsiv) in veste di esperto e di don Gianni Cesena
(direttore dell’Ufficio Nazionale Cei per la cooperazione missionaria tra le
Chiese) come referente pastorale. La relazione di Stocchiero ha evidenziato
come nei paesi che hanno ottenuto maggior successo nell’avvicinarsi agli
obiettivi del millennio l’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) ha avuto un ruolo
marginale. Quei paesi non stanno meglio grazie agli aiuti, ma grazie alla loro
capacità di attirare investimenti stranieri e alle rimesse dei loro cittadini
che lavorano all’estero (le rimesse sono pari a tre volte il totale dell’Aps).
Un dato, questo, che ha un peso evidentemente cruciale nel valutare l’efficacia
dell’aiuto.

L’intervento di don Gianni Cesena, infine ha proposto
riflessioni e dati sulla cooperazione missionaria e ha indicato una serie di
esempi concreti da applicare a livello di consigli pastorali parrocchiali per
valutare se e quanto i messaggi relativi all’educazione alla cittadinanza
globale sono effettivamente inseriti nelle attività delle comunità cristiane.

A proposito degli obiettivi del millennio, don Cesena ha
precisato che non sono stati formulati all’interno della Chiesa o con un suo
coinvolgimento e che pertanto traslarli nella pastorale sarebbe una forzatura.
Tuttavia, ha concluso, anche in essi è possibile riconoscere la «quota di
Spirito» che può giustificare l’impegno e la volontà di recepie alcuni
aspetti. Il suo intervento si è poi concluso con l’indicazione di due stili
missionari oggi superati: nella cooperazione missionaria, ha detto don Cesena,
non c’è più posto per «eroi e navigatori solitari» e il dono non può più essere
un gesto unilaterale ma uno scambio.

La «Quota di spirito»

Forse,
proprio a partire dall’espressione «quota di Spirito» si possono trarre lumi
per spiegare, almeno in parte, la partecipazione in sordina del mondo
missionario e delle Ong cattoliche al Forum Cooperazione di Milano. Le Ong
cattoliche sono molto spesso il braccio operativo della realtà missionaria che
le ha fondate, si tratti di un istituto, di un centro missionario diocesano o
di un gruppo di persone legate a un particolare sacerdote. Queste realtà vivono
la cooperazione allo sviluppo come uno dei tanti strumenti
dell’evangelizzazione e, in particolare, uno strumento per l’evangelizzazione
attraverso le opere sociali, che non sono le sole opere contemplate dall’agire
missionario. Per questo, l’ordine nella scala delle priorità che i religiosi
(e, di conseguenza, le loro Ong) attribuiscono a un evento come il Forum di
Milano dipende – per usare il linguaggio di don Cesena – dalla «quota di
Spirito» che i religiosi stessi scorgono nella cooperazione allo sviluppo. Se
questo è vero, rimane da chiedersi perché il mondo missionario ha giudicato la
quota di Spirito a Milano troppo ridotta per mobilitarsi e fare sentire la
propria voce.

Chiara Giovetti

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Chiara Giovetti




Colorare di speranza…

Il sostegno a distanza di MCO visto da dentro

Nel numero di giugno abbiamo pubblicato la prima puntata dell’articolo in cui abbiamo descritto che cos’è e come funziona il Sostegno a distanza (SaD), mostrando il suo peso fondamentale nel comporre la cifra annuale che in Italia si destina alla cooperazione e alla solidarietà internazionale.
Abbiamo anche proposto ai lettori una breve panoramica del SaD nel nostro paese dove, accanto a giganti delle adozioni come ActionAid o Avsi, ci sono tante altre associazioni di dimensioni medie e piccole (come quelle che sostengono tanti progetti legati alle missioni della Consolata) e cornordinamenti nazionali come il ForumSad e La Gabbianella che riuniscono molte di queste realtà intorno a una carta dei principi condivisa e a dei criteri di qualità.
Abbiamo, infine, raccontato com’è cambiato il sostegno a distanza nel tempo, anche in seguito agli scandali degli anni Novanta, nell’ottica di garantire maggior trasparenza nei confronti dei donatori e superare alcuni limiti come il talvolta scarso coinvolgimento della comunità nella quale vive il bambino adottato.

Mco gestisce circa 7.000 adozioni a distanza attraverso il suo Ufficio Adozioni dove Antonella Vianzone da 15 anni segue una per una le pratiche e risponde alle richieste dei donatori.
Antonella, com’è nato il programma SaD di Missioni Consolata Onlus?
È nato come una delle attività dell’ufficio cooperazione, aperto nel 1970 da p. Mario Valli, sostituito qualche anno fa da p. Giuseppe Ramponi. Da una fase iniziale, in cui ai missionari che seguivano le adozioni sul campo non erano richieste informazioni particolarmente dettagliate, si è poi passati a una seconda fase, iniziata negli anni Novanta, in cui i donatori hanno cominciato a voler sapere di più dei bambini adottati per seguirli meglio e con maggior frequenza di contatti. Questo cambiamento è coinciso con una riorganizzazione intea, poiché i missionari che non se la sentivano di far fronte a queste nuove richieste hanno preferito rinunciare per evitare figuracce con i donatori. Le primissime adozioni sono state fatte in Kenya e in Etiopia, allargandosi poi agli altri paesi. Oggi abbiamo sostegno a distanza in quasi tutte le presenze Imc in Africa, in Brasile, in Ecuador e in Colombia. Anche la Mongolia dovrebbe entrare a pieno regime nel programma in un prossimo futuro.
Una volta avviato il sostegno a distanza, ci sono tre appuntamenti annuali nei quali il donatore viene contattato: a Natale e Pasqua quando, insieme agli auguri, gli vengono mandate alcune notizie del bambino, e un terzo momento in cui si informa il donatore dei progressi scolastici e della vita quotidiana del bambino in modo più dettagliato. Sono i missionari che si occupano direttamente di scrivere ai donatori in queste occasioni (aggiungendo magari anche la lettera o il disegno fatto dal bambino). In alcuni casi, inviano notizie anche più spesso delle tre volte stabilite. Devo dire che l’impegno paga: più i missionari mandano notizie, più le adozioni che gestiscono tendono ad aumentare. Anche perché spesso i nostri donatori diventano tali grazie al passaparola ed è chiaro che, se un missionario ha fama di essere puntuale e preciso, più persone si fideranno di lui.
In che cosa consiste esattamente il lavoro del tuo ufficio?
Io intervengo innanzitutto nella fase iniziale di molte adozioni, quando i donatori chiamano per avere informazioni preliminari e quando richiediamo ai missionari le garanzie necessarie ad accertarci che rispetteranno le scadenze. Inoltre mi attivo in tutti quei casi in cui, per qualche motivo, il donatore non ha ricevuto le notizie che si aspettava e chiama il mio ufficio segnalandomi il disguido. In ufficio conservo le schede e le foto di ciascun bambino perciò posso rapidamente risalire al missionario responsabile, capire le cause del ritardo e riferire al donatore.
Quante chiamate ricevi in una giornata?
Di solito sono circa dieci, che aumentano specialmente durante le feste di Natale, momento nel quale riceviamo più richieste di adozione rispetto agli altri mesi. C’è un rapporto umano costante con i donatori, che attribuiscono molta importanza al fatto di poter sentire una voce e non solo ricevere lettere e email. A volte alcuni chiamano anche solo per fare una chiacchierata… Forse questo è il nostro principale valore aggiunto: la presenza di un punto di riferimento, qualcuno che si può chiamare o anche vedere di persona, tanti donatori vengono qui in ufficio proprio per poter parlare con una persona reale.
Come hai visto cambiare il sostegno a distanza in questi vent’anni?
Alcune cose non sono cambiate molto, ad esempio la preferenza delle persone per l’adozione individuale e non per un gruppo: vogliono avere la percezione chiara che stanno aiutando un bambino preciso e seguirlo passo passo. Sta cambiando invece l’età dei donatori. Oggi ci sono più giovani che nel passato e questo è rivelatore di una positiva mentalità di solidarietà. Immutati sono la volontà e il desiderio di fare del bene.
Puoi tracciare un «identikit» del donatore?
Non c’è un profilo che valga per tutti. Ci sono persone che arrivano all’adozione dopo un’esperienza personale dolorosa. Allora l’adozione diventa un modo positivo di reagire al dolore vissuto, donandosi a qualcuno nel bisogno. Ci sono delle famiglie che la vivono come momento educativo nei confronti dei propri figli per aiutarli alla sobrietà e condivisione e per insegnare loro il rispetto di altri popoli e culture. Molti sono anche i benefattori anziani che così si sentono ancora utili. Ci sono anche molte scuole che promuovono adozioni per stimolare i bambini all’accoglienza del lontano e alla solidarietà con i poveri del mondo. Ci sono poi donatori che hanno richieste molto particolari e altri che semplicemente dicono di «dare a chi ha più bisogno».
Ci sono richieste difficili da soddisfare?
Sì, ci sono richieste impossibili. A volte – anche se raramente – qualcuno chiede che il bambino abbia certe caratteristiche specifiche come un certo nome o una ben precisa data di nascita. Ovviamente è quasi impossibile esaudire simili desideri. Succede anche che qualcuno mi chiami per avere informazioni su un bambino adottato trent’anni fa in una missione che è già stata consegnata al clero diocesano o al tempo di un padre che magari è già andato in paradiso. Allora devo spiegare che normalmente si seguono i ragazzi fino ai 17-18 anni, alla fine della scuola secondaria o della scuola tecnica, dopo di che diventa quasi impossibile mantenere traccia del bambino ormai cresciuto che può anche essersi trasferito in un’altra parte del paese.
Quali sono le difficoltà principali?
Le difficoltà? Beh, tante, certamente. C’è chi fa una donazione attraverso un conto corrente, senza scrivere il proprio indirizzo e poi chiama prendendomi a «male parole» perché ha fatto la donazione e non ha saputo più niente… Ma noi non avevamo proprio idea di come fare a mandare una ricevuta o una lettera di conferma. C’è chi vorrebbe notizie più regolari dell’adottato, ma il missionario non scrive molto, non manda foto o lettere. Allora è difficile spiegare che bisogna aver pazienza, che probabilmente quel missionario è preso da tanti impegni, che ci sono oggettive difficoltà di comunicazione, che ci sono missionari che scrivono solo a Natale e raramente a Pasqua, ma che comunque si prendono cura dei bambini, li seguono a scuola e fanno tutto il necessario. Spesso mi capita di dover fare l’avvocato difensore dei missionari. Ti assicuro che alcuni dei missionari fanno perdere la pazienza anche a me. So bene che tutto quello che ricevono va per i loro beneficati, ma se scrivessero qualche volta di più, faciliterebbero certamente il mio servizio.
Trovo anche difficile far capire ai donatori la scelta di alcuni missionari di «adottare» una scuola invece che singoli individui. È una scelta che viene fatta da alcuni soprattutto quando tutto il contesto sociale è molto povero e tutti i bambini hanno bisogno di aiuto. Ma dal punto di vista delle pubbliche relazioni è più difficile da spiegare, perché molti benefattori preferiscono adozioni individuali.
Oltre a queste difficoltà ci
saranno anche tante soddisfazioni…
Certo, assolutamente. A volte qualcuno chiama e dice: «Sai, stavo male, ero proprio abbattuto, ma poi è arrivata la lettera del bambino che ho adottato e mi sono sentito meglio». Oppure quando un missionario passa a visitarmi in ufficio e mi racconta di questo e di quello e di come sono aiutati i bambini e dei loro progressi. Entusiasma anche me a continuare il questo servizio.
Ci sono state disdette di adozioni a causa della crisi economica?
Sembra incredibile, ma abbiamo avuto solo due disdette in due anni… praticamente niente. Anzi, stanno perfino arrivando nuove adozioni. Pensa che ci sono persone che pur avendo perso il lavoro continuano a sostenere il bambino, magari sacrificando altre spese.
Che consiglio daresti a qualcuno che vuole fare un’adozione a distanza?
Consiglierei di vivere l’adozione come un’esperienza in cui si impara a aprire gli occhi sul mondo, senza voler nulla in cambio, di vedere il sostegno a distanza non come carità ma come uno scambio in cui si ha l’occasione di conoscere, oltreché di aiutare, un’altra persona e il luogo dove vive. Penso che il tutto possa essere riassunto davvero in questa frase: «Colora di speranza la vita di un bambino»!

Chiara Giovetti


Chiara Giovetti




Il sostegno a distanza pilastro della cooperazione

Cooperando…

«Mi piacerebbe fare qualcosa per quelle persone nel Terzo mondo a cui manca tutto, a cominciare dal cibo. Ma con tutti questi progetti, associazioni, organizzazioni e campagne non ci si capisce niente. E poi chissà che fine fanno i miei soldi. Se adotto un bambino a distanza magari farò solo qualcosa di piccolo, ma almeno sono certo che quel bambino potrà studiare, mangiare, curarsi se si ammala e che per lui qualcosa cambierà davvero».

È certamente successo a tanti di sentire parole come queste pronunciate da un familiare, da un amico o da un conoscente. E, a tanti, è successo di essere addirittura chi le pronunciava, se è vero, come rileva un recente studio dell’Agenzia per il Terzo Settore, che sono oltre due milioni gli italiani coinvolti nel sostegno a distanza. Un moto istintivo come quello di andare in aiuto di un bambino genera, sommato a milioni di altri gesti simili, un movimento di risorse pari a cento milioni di euro all’anno: un quarto dell’intero ammontare annuo delle iniziative di solidarietà e cooperazione internazionale.
Questo è il quadro tratteggiato dalle fonti ufficiali, in realtà, la galassia del sostegno a distanza appare più complessa e variegata. Lo studio dell’Agenzia per il Terzo Settore, infatti, si riferisce a 111 organizzazioni no-profit italiane considerate più rappresentative, ma non tiene conto delle numerosissime realtà, spesso missionarie, che sono comunque attive nel sostegno a distanza. Secondo il Forum permanente del Sostegno a distanza (ForumSaD), infatti, le organizzazioni che si occupano di SaD sarebbero oltre 400 e raccoglierebbero circa 360 milioni di euro. A prescindere dalla quantificazione precisa, comunque, si tratta certamente di cifre in grado di dare un impulso decisivo al settore della solidarietà internazionale.

Una panoramica del SaD
«Sostegno a distanza» (SaD) è il termine usato per riferirsi a quelle iniziative di solidarietà attraverso le quali un donatore garantisce con il suo contributo periodico la sussistenza, l’istruzione e l’assistenza sanitaria a una persona o a un gruppo di persone. I contributi sono veicolati dalle diverse associazioni, Onlus e Ong, che fanno da ponte fra chi dona e chi riceve. La definizione «adozione a distanza» è largamente utilizzata nel linguaggio comune per riferirsi al SaD, ma a livello istituzionale non si parla di adozione poiché quest’ultima ha una valenza giuridica e sociale che il sostegno a distanza non ha.
Quella del sostegno a distanza è una declinazione della solidarietà ormai consolidata anche in Italia, sebbene abbia avuto origine all’estero: Save the Children, il colosso inglese della cooperazione internazionale, ha avviato questo genere di attività fin dagli anni Trenta del XX secolo; oggi l’organizzazione che gestisce il numero più elevato di adozioni è World Vision, con quattro milioni di bambini che hanno beneficiato, direttamente o indirettamente, del sostegno a distanza, seguita da Compassion inteational, con 1,2 milioni di bambini beneficiari. Compassion è una realtà significativa anche nel nostro Paese, dove gestisce, grazie alla sua sede italiana, oltre quindicimila adozioni. Ma la palma di autentico gigante delle adozioni a distanza in Italia va certamente ad ActionAid che, con i suoi oltre ottantasette mila SaD, distacca l’Avsi, secondo colosso, di più di cinquantamila unità. Il contributo richiesto dalle organizzazioni di SaD ai donatori si aggira intorno ai 300 euro annuali e in genere comprende le spese per la frequenza scolastica, per il cibo e per le eventuali cure mediche. Molte organizzazioni prevedono una trattenuta sulla donazione per i costi di gestione; le quote sono variabili e arrivano a un massimo del 25%.

Come è cambiato il sostegno a distanza
Pioniere delle adozioni a distanza in Italia è il Pontificio Istituto per le Missioni Estere (Pime), che ha avviato le prime iniziative nel 1969. Da allora questa forma di solidarietà ha cominciato a diffondersi fino all’impennata degli anni Novanta, in cui si è assistito a un vero e proprio boom. Molte organizzazioni (fra le quali anche MCO) hanno a quel punto avvertito l’esigenza di dotarsi di strutture e personale adeguati per gestire quella che stava diventando una mole enorme di materiale e informazioni da trasmettere ai donatori perché questi continuassero ad avere la certezza della massima trasparenza nell’utilizzo dei fondi. Tuttavia, con l’istituzionalizzazione e l’affermazione, specialmente all’estero, di vere e proprie multinazionali dell’adozione, hanno cominciato a sorgere i primi casi di mala gestione dei fondi.
Una bordata al mondo delle adozioni a distanza arrivò, nel 1998, dai risultati di un’inchiesta di tre anni condotta da alcuni giornalisti del Chicago Tribune. Dopo aver constatato le dimensioni che il fenomeno stava assumendo negli Stati Uniti (fra il 1992 e il 1996 gli americani avevano donato più di 850 milioni di dollari solo alle quattro più grandi organizzazioni statunitensi), i reporter del Chicago Tribune – senza rivelare la loro professione – iniziarono a sostenere a distanza dodici bambini appartenenti ai programmi delle quattro ong e si recarono poi nei paesi di residenza dei bambini per verificare di persona i benefici ricevuti dai piccoli. Accanto a risultati positivi e dimostrazioni di effettiva trasparenza, i giornalisti scoprirono anche una serie di gravi distrazioni di fondi: in un feroce articolo dal titolo Instancabili campagne di false promesse (Relentless campaigns of hollow promises), i reporter documentarono episodi nei quali le organizzazioni avevano accettato migliaia di dollari per bambini che erano morti da anni, in alcuni casi anche scrivendo a nome dei piccoli lettere false, o avevano usato il denaro destinato ai bambini per acquistare computer o pagare lezioni di ballo o, ancora, avevano negato i farmaci antimalarici ai bambini nel programma di sostegno con la scusa che fornire assistenza sanitaria avrebbe creato dipendenza nei beneficiari. Lo scandalo che ne seguì contribuì certamente a spingere il mondo delle organizzazioni attive nel SaD a dotarsi di criteri, linee guida e principi che regolamentassero in maniera rigorosa la gestione dei fondi e i meccanismi di rendicontazione nei confronti del donatore.

L’oggi: nuove consapevolezze
Questa maggior tensione verso la trasparenza non ha purtroppo impedito che si ripetessero episodi di utilizzo improprio dei fondi SaD, anche da parte di organizzazioni italiane, ma ha certamente contribuito a creare una maggior consapevolezza nel donatore di quelli che sono i mezzi a sua disposizione per verificare il buon operato dell’ente al quale ha scelto di destinare i fondi.
Di più: la riflessione scaturita dagli scandali ha portato il mondo della cooperazione a confrontarsi con una serie di pro e contro delle adozioni a distanza.
Un documento del DfID (il dipartimento per lo sviluppo internazionale britannico) riassume in modo molto efficace questi pro e contro. Da un lato, si legge nel documento, il SaD ha dalla sua una serie di grandi vantaggi:
– innanzitutto permette di «dare un volto a questioni complesse» suscitando nel donatore la volontà di comprendere le problematiche del luogo in cui vive il bambino «adottato» e verificando grazie al contatto con il bambino i progressi reali;
– inoltre aiuta a stabilire un legame non solo con il singolo bambino ma anche con la sua comunità, che viene così coinvolta attivamente;
– infine, poiché il SaD dura di solito fino alla conclusione degli studi del bambino sostenuto, è possibile per le organizzazioni inserire l’intervento in un arco temporale più ampio e graduale che permette maggior programmazione e sostenibilità.
D’altro canto, è anche vero che il SaD implica spesso costi amministrativi elevati (si pensi alla necessità di raccogliere foto e lettere e inviarle ai donatori) e che risolve solo problemi immediati come l’accesso all’istruzione e al cibo o l’acquisto di vestiario, senza però riuscire a influire su problemi più ampi come la lotta all’HIV o la regolamentazione del commercio internazionale, che sono fra le principali cause della povertà. Infine, capita che il SaD finisca per essere il nome che si dà a quello che in effetti è lo sviluppo comunitario e che i fondi delle adozioni finiscano per mescolarsi ad altre donazioni per sostenere progetti a beneficio di tutta la comunità invece di essere diretti solo al bambino «adottato». Da questo punto di vista, tuttavia, negli ultimi anni si è registrata anche una maggior consapevolezza da parte dei donatori rispetto al fatto che il sostegno isolato e riservato solo a un bambino perde parte del suo significato se il contesto circostante non partecipa dei benefici.

I Missionari della Consolata e il SaD
I Missionari della Consolata fanno adozione a distanza fin dai primi tempi della loro attività missionaria in Kenya, anche se in quei tempi non si chiamava certamente così. Il cosiddetto «Collegio dei Principini» a Fort Hall, l’orfanotrofio per bambini nella fattoria del Mathari, le prime scuole per ragazze (completamente gratuite), gli orfanotrofi in varie missioni, erano possibili solo grazie al sostegno continuo dei benefattori. Per questo ogni anno, a gennaio, puntualmente, l’allora bollettino «La Consolata» presentava la foto di bambini che ringraziavano i benefattori per la loro generosità.
La diocesi di Marsabit, fin dalle sue origini ha investito tantissimo nella scuola creando una rete incredibile di asili in tutti i villaggi raggiunti, con scuole elementari in tutte le missioni e scuole secondarie a livello distrettuale. Migliaia hanno studiato in queste istituzioni rese possibili, soprattutto all’inizio, esclusivamente dal sostegno a distanza di tanti benefattori. Lo stesso è accaduto in tutte le nazioni africane dove sono presenti, dall’Etiopia al Congo RD, dal Tanzania al Mozambico. In America Latina in ogni missione c’erano (e ci sono) grandi collegi, dove, accanto a coloro che possono pagare, c’è un grande numero di studenti poveri aiutati da qualche progetto di sostegno a distanza organizzato dalla missione locale. Fare il nome di tutte queste iniziative è quasi impossibile. Spesso sulle pagine di questa rivista abbiamo dato spazio a racconti e relazioni che trattavano di questo argomento, dalla Familia ya Ufariji di Nairobi al progetto scolastico per gli Yanomami, dalla grande scuola negli slum di Guayaquil in Equador alle scuole nell’Etiopia.
Per anni questo è stato realizzato con uno stile semplice e famigliare, senza strutture, per poter investire il 100% di quanto ricevuto dai benefattori a vantaggio dei bambini, con una visione che teneva conto del contesto globale: non il bambino singolo, ma il bambino nella sua comunità e nella sua scuola. Questo per dei motivi molto semplici:
– un bambino in una scuola mal gestita e di scarsa qualità non ha alcun profitto;
– non si creano privilegiati: bambini con benefattori «ricchi» e bambini con benefattori «poveri», così ognuno riceve quello che è indispensabile per la scuola, per la salute e – se necessario – anche per il sostentamento fuori della scuola in caso di famiglie molto povere;
– evitare situazioni imbarazzanti, soprattutto nel caso di una corrispondenza diretta tra bambini e benefattori, con richieste di beni non necessari o scambio d’informazioni che possono creare aspettative sproporzionate nei bambini/studenti;
– ridurre al minimo i costi di gestione;
– evitare di attirare la cupidigia di autorità e politici locali, tentati di appropriarsi dei programmi di adozione a proprio vantaggio.
Questo, in molti casi, continua ancora, ma per far meglio fronte alle nuove situazioni sia nei paesi del sud del mondo che in Italia, ecco che è nata Missioni Consolata Onlus (Mco) a cui fanno riferimento tantissimi donatori e con cui cornoperano anche decine di altre Onlus o Ong impegnate nelle adozioni e legate a questo o quel missionario, a questa o quella missione.
Ve ne parleremo nella prossima puntata con un’intervista ad Antonella Vianzone, la signora che da oltre 15 anni segue questo settore nella Mco.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




IL BUON SAMARITANO… COMUNISTA

Su Missioni Consolata di gennaio
2002 leggo «la parabola di Luca
» attualizzata. Ed ecco che un comunista
viene a darci la lezione del
«buon samaritano», votando contro
la guerra in Afghanistan. Beh, proprio
un comunista? Quando l’Unione
Sovietica invase l’Afghanistan (e
lo fece per conquistare il paese ed
instaurarvi il regime comunista), da
che parte stava quel comunista? Le
bombe sovietiche erano di cartapesta?
Nel regime sovietico non c’era posto
per la pietà, sopraffatta da ben
altri sentimenti; e a chi la pensava
diversamente e non si sottometteva
era riservato un trattamento speciale:
gulag, gulag, e ancora gulag! Ce
ne siamo scordati? Si legga «Arcipelago
Gulag» di Aleksandr Solzenicyn.
Nell’ottobre scorso l’America ha
intrapreso l’azione bellica in Afghanistan,
perché terribilmente provocata
e con ben altri propositi da
quelli dell’Urss: primo fra tutti quello
di combattere il terrorismo. Per
questo ha avuto quasi un universale
sostegno. L’intento, poi, di convertire
alla democrazia un paese musulmano
è impresa ardua. Ora, dopo
tre mesi di bombardamenti, la prosecuzione
del metodo di lotta al terrorismo
va certo ripensata.
Non sono uno scrittore; reagisco
istintivamente quando vengo
tirato per la barba, ormai
bianca. Mi definisco un cristiano
credente, non indifferente
al senso di pietà unito
al timor di Dio. Rammento
al comunista
della «parabola»
che la maggior parte
delle organizzazioni
umanitarie
nel mondo ha
un’impronta cristiano-
cattolica…
Anch’io ho una storiella
da raccontare.
Eccola: «Ricordo un natale,
trascorso in India
con le suore di Madre
Teresa. Eravamo a cena
e suonarono alla porta.
Una suora andò ad aprire e ritoò
con un cestino, che mise sul tavolo
senza scoprirlo. Tutti pensarono che
contenesse dei doni. Poi guardammo
dentro e scoprimmo che c’era un
bambino che dormiva. Tutte le suore,
piene di gioia, esclamarono: “Gesù
bambino! Gesù bambino è venuto
tra noi!”. E dire che avevano 500
bambini nell’orfanotrofio…». Il racconto
è del vescovo Paolo M. Hnilica.

Grazie della testimonianza squisitamente
missionaria e grazie anche dell’invito
alla coerenza.
Durante l’invasione dell’Afghanistan
da parte dell’Unione Sovietica (1979-
89), gli Stati Uniti sostennero la resistenza
dei locali mujaheddin musulmani
e gradivano che un certo Osama
Bin Laden combattesse contro l’impero
sovietico, ritenuto «il regno del male
» (cfr. Gilles Kepel, Jihad, ascesa e
declino, Carocci, Roma 2001). Oggi invece,
per il governo di George Bush, la
Russia di Vladimir Putin è un’alleata
importante contro il terrorismo di Bin
Laden, divenuto il nemico numero uno.
Alleata politica degli Stati Uniti è
pure la Cina, che ha messo da parte le
proprie divergenze.
Quale sarà il prezzo che gli Usa dovranno
pagare ai due alleati? Non vorremmo
che il conto preveda concessioni
anche in materia di
diritti umani: per esempio,
negli «scontri armati in Cecenia
» e nella «assimilazione
delle 55 minoranze cinesi alla
maggioranza degli han» (cfr.
Le Monde diplomatique,
febbraio 2002).
Su che cosa si fonda la
coerenza politica e
quanto dura?

A. DE ANGELI