Roma e i migranti / 1

Il ciclo di reportage
su periferie delle grandi città, disagio e migranti, ci porta questa volta a
Roma, ancora scossa per le rivelazioni dell’inchiesta «Mafia Capitale» e per i
tumulti di Tor Sapienza.

L’autobus 105 è fermo al capolinea di Piazzale
dei Cinquecento, di fronte alla stazione di Roma Termini. Attraverso le sue
quattro porte aperte, persone avvolte in sciarpe e giacconi guadagnano un
sedile o più probabilmente un posto in piedi e aspettano che lo scatolone di
plastica e metallo lungo diciotto metri cominci la sua corsa nell’aria fredda
delle sere del febbraio romano. Qualcuno scenderà dalle parti del Pigneto, per
raggiungere gli amici in qualche bar dell’isola pedonale e partecipare al rito
importato dell’aperitivo. Molti altri, invece, proseguiranno verso Tor
Pignattara, Centocelle e oltre, fino a quella Tor Bella Monaca che nel
quotidiano capitolino è da anni sinonimo di luogo della marginalità e del
degrado. L’umanità del 105 è un fedele spaccato della pancia di una città che
cerca, o semplicemente non può evitare, di scoprirsi multietnica: signore
dell’Est europeo con buste di plastica gonfie posate sulle ginocchia e i tratti
stanchi di chi ha fatto pulizie in qualche appartamento del centro, bengalesi
con in mano i bastoni per selfie che non sono riusciti a vendere ai turisti,
ragazzi cinesi con un libro fra le mani e gli auricolari alle orecchie, giovani
africani carichi di grossi sacchi che lasciano intravedere borse con le griffe
dell’alta moda. Quelle stesse borse che poche ore prima erano disposte in bella
mostra sui sampietrini a due passi dal Colonnato o dalla scalinata di Trinità
dei Monti, poi agguantate per i manici e portate via di corsa, lontano dalla
vista della polizia arrivata di soppiatto a scompigliare l’improvvisato
mercato.

Un bengalese parla al telefono, a voce alta. «Ma che
urla quello? Certo che ’sti immigrati fanno proprio come je pare…» commenta
spazientita una donna. «Che vuole, signo’, non siamo manco più padroni a casa
nostra, ormai», le risponde un’altra, un sedile più avanti. Questa non è l’aria
che tira a Roma, è solo una delle sue correnti. Ma è la corrente che fischia più
forte, che fa svolazzare i giornali, che scoperchia i tetti e rompe i vetri
nelle periferie.

Tor Sapienza, con le immagini degli scontri e delle
proteste anti-immigrati dello scorso novembre, è sempre lì, nello stesso
spicchio di città che il 105 attraversa, in quella Roma Est che secondo la
rivista online Vice era fino a pochi anni fa «poco meno che un mistero»
per i giornali e per gli altri abitanti dell’Urbe. Ma Tor Sapienza è, nella
recente memoria collettiva romana, dove rimarrà impressa per molto tempo, anche
quella frase pronunciata in una intercettazione dal presidente della Cooperativa
29 Giugno
, Salvatore Buzzi, oggi detenuto nel carcere nuorese di massima
sicurezza di Badu ’e Carros dopo che l’operazione Mondo di Mezzo
condotta dai Ros, ha portato alla luce nel dicembre scorso il suo ruolo chiave
nella vasta rete criminale di stampo mafioso facente capo all’ex Nar Massimo
Carminati: «Tu c’hai idea di quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di
droga rende di meno».

Spetterà a nuove indagini e ai successivi processi
chiarire le responsabilità della vicenda di Mafia Capitale, comprese le
ipotesi di manipolazione della protesta di novembre proprio da parte della
cupola romana di Carminati e Buzzi. Ma che la mala gestione del fenomeno
migratorio e, più in generale, del disagio, accenda le micce in quella che i
media hanno chiamato la «polveriera delle periferie» è evidente, da tempo.

A Corcolle – zona del VI Municipio a venti chilometri da
Termini, estremo brandello orientale della città – basta un nubifragio perché
le strade e le case siano sommerse dall’acqua. Il manto stradale è in
condizioni pessime, l’Adsl non arriva, e solo lo scorso ottobre l’Asl ha
approvato l’apertura di un servizio di pediatria, finora assente nonostante la
presenza di un migliaio di bambini. Anche Corcolle, prima di Tor Sapienza, ha
vissuto giorni di tensione fra residenti e migranti. Ma, se la presenza degli
stranieri è stata la goccia, pronto a traboccare c’era tutto un vaso.

Gli inizi
dell’accoglienza

Eppure, la città non si è certo accorta ieri del
fenomeno migratorio: «Il centro di ascolto stranieri di via delle Zoccolette»,
racconta Lorenzo Chialastri, responsabile del Centro Ascolto Stranieri
di Via delle Zoccolette dal 2003 e dell’Area Immigrazione della Caritas
di Roma dal 2013, «ha aperto nel 1981, probabilmente fra i primi in Italia.
All’epoca, i migranti in città erano eritrei, filippini e capoverdiani che
andavano via via sostituendo gli italiani come lavoratori domestici.
Probabilmente nella percezione nazionale lo spartiacque è stato il 1991, anno
dell’arrivo in Puglia dei barconi con i ventisettemila migranti albanesi.
L’anno successivo, il comune di Roma ha aperto l’Ufficio Speciale per
l’Immigrazione
».

Dal 1981, il centro di ascolto della Caritas ha
registrato oltre 250 mila schede personali, ogni anno conta seimila nuovi
utenti che effettuano più di venticinquemila richieste di servizi allo
sportello. Offre ascolto dei bisogni, orientamento nella ricerca di alloggio e
di lavoro, corsi di italiano e assistenza legale, con particolare attenzione
agli utenti più vulnerabili come i rifugiati e le vittime di tratta.

Nove assistiti su dieci sono immigrati regolari; quanto
alla presenza di immigrati irregolari in città, come per i dati nazionali, è
difficile azzardare una stima. Lo scorso anno a fronte di 170 mila arrivi in
Italia sono state avanzate solo sessantamila richieste d’asilo. Che fine hanno
fatto gli altri? Quanti sono rimasti in Italia? Molti rifiutano di farsi
prendere le impronte digitali perché vogliono potersi spostare in altri paesi
europei senza rischiare di essere «dublinati», cioè rimandati in Italia sulla
base del Regolamento di Dublino, il quale stabilisce che i migranti
richiedenti asilo devono risiedere nel paese competente a esaminare la loro
domanda, cioè quello di prima accoglienza, dove è avvenuta l’identificazione. è chiaro che al rifiuto dei migranti di
farsi registrare si accompagna un equivalente lasciar correre delle autorità
italiane, atteggiamento che gli altri paesi europei hanno bacchettato,
accusando l’Italia di utilizzare questo metodo per «liberarsi» dei migranti.

«Abbiamo visto questa dinamica all’opera ad esempio con
l’arrivo di quindici migranti trasferiti da Augusta, in Sicilia, a
Civitavecchia, e da lì al nostro centro d’accoglienza a Roma», spiega
Chialastri. «Sono arrivati con in mano un numero scritto su un foglietto, non
erano state prese loro le impronte digitali. Due sono spariti nel nulla nel
giro di pochi giorni».

 

La salute,
tema su cui ci si incontra

In
via Marsala, la strada che costeggia la stazione Termini, la Caritas di Roma
gestisce un poliambulatorio (attivo già dal 1983) del quale Salvatore Geraci,
laureato in Medicina e Chirurgia alla Sapienza, è responsabile dal 1991. Geraci
non si stanca di insistere sull’importanza dei quattro pilastri su cui si regge
l’operato dell’ambulatorio: «I servizi sanitari sono ovviamente fondamentali»,
precisa il medico, «ma dobbiamo dedicarci con lo stesso impegno alla conoscenza
dei fenomeni, alla formazione degli operatori sanitari e al nesso fra salute e
diritti dei migranti. Altrimenti si fa solo assistenzialismo».

Il poliambulatorio ha assistito in un trentennio più di
centomila pazienti, specialmente migranti irregolari e persone senza fissa
dimora; annualmente eroga fra le dodici e le ventimila prestazioni sanitarie a
una media di seimila pazienti, e ha registrato nel 2014 un aumento di assistiti
pari a 1.200 unità. Fra gli utenti sono in aumento gli italiani, che si
rivolgono al poliambulatorio soprattutto per ottenere gratuitamente i farmaci
di fascia C, quelli per cui non è possibile ottenere esenzioni. Le malattie più
frequenti sono quelle che il responsabile indica come tipiche della povertà e
cioè quelle dell’apparato respiratorio, del sistema osternomuscolare,
dell’apparato digerente e della pelle. «Ma non dimentichiamo le ferite
invisibili», precisa Salvatore Geraci, «quelle generate dai traumi psicologici
subiti dalle persone vittime del conflitto, della tratta, della violenza
intenzionale e delle torture» al centro di un progetto nel quale un’équipe di
operatori specializzati offre un servizio di ascolto e di psicoterapia
transculturale.

Il poliambulatorio, oltre che sul personale dedicato, si
regge sul lavoro di 380 volontari. Qualcuno è un ex paziente. «Mi viene in
mente il caso di una coppia di cinesi che avevamo curato qui al poliambulatorio»,
ricorda con un sorriso il dottor Geraci. «L’idea di prestare lavoro senza
ricevere un compenso – cioè il volontariato – 
è inconcepibile per i cinesi, non è nelle loro cornordinate culturali. La
gratitudine nei confronti di chi li ha aiutati però lo è. Per questo, quando i
coniugi sono riusciti tramite il ricongiungimento familiare a far venire a Roma
il figlio, lo hanno praticamente obbligato a venire a dare una mano».

 
I rifugiati

A pochi passi dal poliambulatorio c’è la sede di Prime
Italia
, un’associazione di volontariato che si occupa di promuovere
l’integrazione dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione
internazionale (www.prime-italia.org). Fra le sue attività ci sono i corsi di
scuola guida gratuiti e a prezzo agevolato per rifugiati finanziati grazie ai
fondi dell’otto per mille della Tavola valdese e dell’Automobile Club
Roma
.

Da Termini, in venti minuti di metropolitana, si
raggiunge Ponte Mammolo dove dal 2003, all’interno di un più vasto insediamento
spontaneo abitato da famiglie rom, ne esiste uno più piccolo dove vivono
rifugiati in prevalenza eritrei, un’ottantina in tutto, suddivisi in una
cinquantina di piccole abitazioni di un vano. Alcune sono in muratura, altre in
lamiera, cartone, plastica. Due generatori alimentano le aree comuni adibite a
cucina e spazio ricreativo, ma le «case» mancano dei mezzi per scaldarsi e
conservare il cibo.

«A partire dal 2013» spiega Guglielmo Micucci,
presidente di Prime, «dopo aver gradualmente cercato di creare un rapporto
di fiducia con i rifugiati, abbiamo avviato una serie di attività nel campo»:
fra queste, la distribuzione di sacchi a pelo e una collaborazione con Leroy
Merlin Italia
che ha permesso la riqualificazione dei servizi sanitari.
Fabiola Zanetti, responsabile delle attività Prime a Ponte Mammolo,
racconta soddisfatta un lieto risvolto inatteso del progetto con Leroy
Merlin
: «Augusto, uno dei ragazzi del campo, ha dato una mano nella
ristrutturazione dei bagni. Notando il suo impegno, Leroy Merlin gli ha
offerto un tirocinio: ha iniziato a metà gennaio 2015».

Quello di Ponte Mammolo è il più piccolo dei principali
insediamenti e occupazioni informali nei quali vivono richiedenti e titolari di
protezione internazionale. Gli altri sono il Selam Palace (ex Enasarco)
di Anagnina – Romanina, che ospita circa 700 persone prevalentemente di
nazionalità etiope, eritrea, somala e sudanese, e l’edificio di via Collatina
385, sette piani per un numero di etiopi ed eritrei che varia da 400 a 600. Al centro
Ararat
in zona Testaccio vivono poi un’ottantina di curdi e, se
l’insediamento di Stazione Ostiense è stato sgomberato nel 2012, l’anno
successivo è stato occupato uno stabile di cinque piani in piazza Indipendenza,
a due passi da Termini, dove abitano circa 500 rifugiati in maggioranza
eritrei. Sono circa duemila persone in gran parte uomini, ma non mancano le
donne e i bambini.

Chiara Giovetti

(1 –
continua)

tags: migranti, accoglienza, Centro Astalli, rom, integrazionediritti umani

Chiara Giovetti




Cooperazione: coi soldi di chi?

Chi finanzia lo
sviluppo? E chi la cooperazione allo sviluppo? Un’istantanea sul flusso dei
finanziamenti ai paesi del Sud del mondo e una panoramica sull’Italia. Con uno
zoom sul ruolo – in crescita – dei fondi privati e un cameo sulle Ong italiane
e l’otto per mille.

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Aiuto pubblico allo sviluppo: quanto aiuta?

Centotrentaquattro miliardi di dollari, ecco la cifra che i paesi donatori hanno speso nel 2013 - ultimo dato disponibile - per aiuto pubblico allo sviluppo (Aps): la più alta mai raggiunta. L’incremento, precisa l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), è stato di sei punti percentuali rispetto all’anno precedente e la tendenza all’aumento potrebbe essere confermata anche dai dati 2014.

Ma quanto sono 134 miliardi di dollari? Non poco, constata l’Ocse, se si considera che la maggior parte delle economie dei paesi è alle prese con sempre più severi tagli alla spesa imposti dalla difficile congiuntura economica internazionale. Pochino, invece, se li si confronta con i 1.700 miliardi che il mondo destina annualmente alle spese di difesa, o con le altre voci che compongono i flussi di risorse economiche verso i paesi in via di sviluppo. Bisogna moltiplicare per almeno quattro i 134 miliardi di aiuto, ad esempio, per ottenere il totale degli investimenti stranieri diretti nei paesi del Sud del mondo, quelli cioè che sono puri investimenti senza agevolazioni e che vanno rimborsati fino in fondo con gli interessi. Quanto alle rimesse dei migranti, cioè il denaro che i lavoratori immigrati inviano nei loro paesi d’origine, ammontano a più di tre volte l’aiuto pubblico: nel 2014 hanno raggiunto i 435 miliardi di dollari.

Questi paesi, insomma, crescono più grazie ai soldi dei loro migranti e degli investitori stranieri che alla cooperazione bi/multilaterale. Ma è anche vero, notano vari osservatori, che i flussi in sé non inducono automaticamente miglioramenti a infrastrutture, sanità, sistema educativo. Sempre l’Ocse, nel rapporto 2014 sulla cooperazione allo sviluppo, sottolinea ad esempio come le rimesse siano «tradizionalmente percepite come risorse da utilizzare per i consumi diretti (medicine, cibo, automobili, ecc.) più che per investimenti produttivi, e questo può generare dipendenza da ulteriori rimesse». Accanto a casi positivi in cui una correlazione fra rimesse e salute o rimesse e investimenti si è effettivamente registrata, ce ne sono altri nei quali questi flussi di denaro hanno anche creato sperequazioni nella distribuzione del reddito. Evidentemente molto dipende dalle decisioni politiche locali nei paesi beneficiari e dal grado di consapevolezza e responsabilità con cui questa fonte di ricchezza viene gestita. L’aiuto pubblico allo sviluppo ha invece in questi miglioramenti sistemici il proprio principale obiettivo; il dibattito semmai è su quanto efficacemente lo raggiunga.

I primi dieci paesi beneficiari dell’aiuto pubblico allo sviluppo sono l’Afghanistan, con cinque miliardi di dollari, seguito da Myanmar, Viet Nam, India, Indonesia, Kenya, Tanzania, Costa d’Avorio, Etiopia e Pakistan. I dieci principali donatori sono gli Stati Uniti, con 31 miliardi di dollari, seguiti da Regno Unito, Germania, Giappone, Francia, Svezia, Norvegia, Paesi Bassi, Canada e Australia; ma a superare la soglia dello 0,7 per cento del prodotto interno lordo destinato all’aiuto (fissata dalle Nazioni Unite nella Dichiarazione del millennio come impegno da realizzare entro il 2015) sono solo Norvegia, Svezia, Lussemburgo, Danimarca e Regno Unito.

Un discorso a parte meritano poi i paesi cosiddetti non Dac, cioè non membri del comitato per l’assistenza allo sviluppo dell’Ocse (il cui acronimo in inglese è, appunto, Dac) a cui invece si riferiscono i dati sin qui riportati. Si tratta dei cosiddetti paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e di una ventina di altri stati fra cui Emirati arabi uniti, Turchia, Israele, Kuwait. La loro quota d’interventi assimilabili all’aiuto pubblico allo sviluppo perché i criteri per definirlo in questi paesi sono diversi da quelli dell’Ocse - ammonterebbe a quasi 17 miliardi di dollari. L’aiuto fornito da questi stati sembra essere in aumento e il principale donatore è la Cina, con cinque miliardi e mezzo di dollari.

Aiuto privato: a quanto ammonta?

Una fonte di finanziamento per lo sviluppo in forte crescita è data dai fondi privati: organizzazioni non governative, fondazioni, aziende, associazioni non profit. Secondo le stime dell’Ocse, nel 2011 questi fondi erano pari a 45 miliardi di dollari, due terzi dei quali provenienti dagli Stati Uniti, il cui aiuto privato allo sviluppo eguaglia quello pubblico. Oltre la metà dei fondi provengono dalle organizzazioni non governative, mentre il resto è diviso abbastanza equamente fra fondazioni e donazioni da parte di aziende. Questo tipo di finanziamento sta ricevendo crescente attenzione da parte dell’Ocse e degli altri enti che si occupano di misurare il polso della cooperazione allo sviluppo. Questo perché, se è vero che la quantità di fondi è relativamente limitata a confronto con i flussi di cui abbiamo parlato prima, è anche vero che - come l’aiuto pubblico e a differenza di rimesse e investimenti - ha come scopo dichiarato proprio lo sviluppo e ha quindi un potenziale molto più elevato di incidere su quello rispetto ad altri tipi di risorse in entrata nei paesi beneficiari.

Si tratta però di una categoria della quale è difficile tracciare contorni chiari sia per quanto riguarda i soggetti, che vanno da colossi come la Bill & Melinda Gates Foundation alle piccole realtà associative, sia relativamente all’impatto e alla tracciabilità dei fondi erogati, cioè a quanto e come questi fondi arrivano ai beneficiari finali. In mancanza di dati certi, è molto difficile inserire questa risorsa nella programmazione degli interventi di cooperazione: se si tratta di un ente come la Gates Foundation, infatti, il suo contributo ai programmi di cooperazione è noto e spesso cornordinato con quello dei partner pubblici. Ma nel caso del volontariato, delle piccole associazioni, delle realtà meno strutturate, la presenza di forme di cornordinamento è molto più episodica. Anche per questo tipo di fondi occorre tener conto dei flussi privati dai paesi non Dac, che ammonterebbero a trentacinque miliardi di dollari.

Il caso dell’Italia

L’Italia ha destinato in aiuto pubblico allo sviluppo 3,4 miliardi di dollari nel 2013, pari allo 0,17 per cento del proprio Pil e al 2,5 per cento del totale dei paesi donatori. Al contrario della media degli altri paesi donatori, la maggior parte dell’aiuto italiano raggiunge i paesi beneficiari tramite il canale multilaterale: oltre il settanta per cento, infatti, consiste in fondi girati dal governo italiano alle istituzioni inteazionali, specialmente all’Unione europea. L’Italia è il quarto maggior contribuente al budget della cooperazione allo sviluppo comunitaria dopo Germania, Francia e Regno Unito.

Per la parte bilaterale, cioè di rapporti diretti fra il governo italiano e i paesi riceventi, una parte consistente degli 850 milioni di dollari totali è data dall’assistenza ai rifugiati in Italia, pari a 403 milioni. La cancellazione del debito ai paesi beneficiari, anche questa considerata parte dell’aiuto pubblico allo sviluppo, si è ridotta a poco più di tre milioni di dollari ma nel 2011 era un’altra delle voci più «pesanti»: 648 milioni, il 37% del totale. Tentiamo un’analisi di questo quadro. L’Italia ha certamente fatto passi avanti nel dare credibilità al proprio impegno per lo sviluppo. Come conferma l’esame effettuato dall’Ocse nel 2014, il nostro paese ha invertito la tendenza aumentando il volume dell’aiuto. Ma la limitatezza del canale bilaterale dà l’impressione di un paese al traino, che non ha una propria strategia chiara e si affida più alle agenzie multilaterali che a una propria pianificazione diretta con i paesi beneficiari. Non solo. Assistenza ai rifugiati e cancellazione del debito sono certamente voci fondamentali, tanto più che la seconda vincola in teoria i paesi altamente indebitati a impegnarsi in politiche di riduzione della povertà in cambio della cancellazione. Ma, come sottolineava lo scorso giugno nel sul blog ZeroVirgolaSette il consigliere del Ministero degli esteri Iacopo Viciani, «in passato varie Ong, da ActionAid alla piattaforma Concord, avevano contestato che le operazioni di cancellazione del debito o le spese per sensibilizzare il pubblico ai problemi dello sviluppo globale o quelle per accogliere i rifugiati nel paese donatore o le spese amministrative e di gestione dei progetti fossero registrate come Aps. Non costituirebbero infatti un trasferimento effettivo di risorse al paese». Sarebbe, cioè, una forma di aiuto «passiva» non in grado di incidere sulle cause della povertà e non basata su una effettiva concertazione fra paesi donatori e beneficiari per individuare e realizzare interventi che portino ad esempio a un miglioramento dei sistemi sanitari ed educativi, a un potenziamento delle infrastrutture, a un rafforzamento del tessuto economico dei paesi che ricevono i flussi di aiuti.

L’aiuto italiano e le Ong

In Italia, riporta l’esame (peer review) Ocse 2014, il settanta per cento dell’aiuto pubblico allo sviluppo è gestito dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e riguarda la cooperazione multilaterale, mentre al Ministero per gli affari esteri e la cooperazione internazionale (Maeci), che si occupa di cooperazione bilaterale compresi i finanziamenti a dono, resta un dieci-quindici per cento, il resto essendo gestito dalla Presidenza del Consiglio e da altri enti, fra cui le amministrazioni locali.

È da questi fondi che vengono i finanziamenti per i cosiddetti progetti promossi dalle Ong. Secondo i dati Ocse, l’Italia gestisce attraverso le Ong circa un decimo dell’aiuto pubblico allo sviluppo e la più ampia fetta di questi fondi va a progetti decisi dal donatore istituzionale (ministero) e affidati alle Ong per la realizzazione; meno del dieci per cento resta per i progetti che nascono dall’iniziativa delle Ong.

Per avere un’idea della situazione, basta pensare che la previsione per il 2015 è che il Maeci destini ai progetti delle Ong circa dieci milioni di euro, la stessa cifra che la Chiesa valdese mette a disposizione per la cooperazione allo sviluppo grazie alle entrate che le derivano dall’otto per mille. La Chiesa cattolica, attraverso la Conferenza episcopale italiana, nel 2014 ha allocato 85 milioni di euro alla voce «interventi caritativi nei paesi del Terzo Mondo» (contabilizzati comunque come aiuto pubblico allo sviluppo nei dati che l’Italia fornisce all’Ocse), mentre la Caritas Italiana ha distribuito fondi per dieci milioni di euro di cui otto milioni in programmi di sviluppo e il resto in aiuti d’emergenza e micro-progetti. Quanto alla quota di otto per mille Irpef assegnata allo stato italiano e teoricamente destinata a «fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati e conservazione di beni culturali», il governo l’ha utilizzata nel 2013 per coprire altre voci di bilancio, mentre nel 2014 ha finanziato quattro progetti per un totale di quattrocento mila euro su 170 milioni di entrata totale dall’Irpef.

La Corte dei Conti ha di recente pubblicato uno studio nel quale si sottolinea che allo stato attuale il meccanismo dell’otto per mille non permette una vera scelta da parte del contribuente: la maggior parte dei fondi derivano di fatto dalla quota inespressa di preferenze, cioè dal denaro dei contribuenti che non hanno messo la croce né sullo stato né su una delle dieci confessioni religiose nella loro dichiarazione dei redditi, ma che vedono comunque la loro quota di otto per mille trattenuta e ripartita secondo le proporzioni determinate dai contribuenti che invece hanno espresso la preferenza. Il profilo che emerge dallo studio è di uno sbilanciamento dei fondi in favore delle confessioni (un miliardo e cento milioni di euro, di cui un miliardo e cinquanta alla Chiesa cattolica) e di uno stato che si disinteressa completamente della propria quota di otto per mille e tradisce così il «patto» con i contribuenti. Ma, al netto del dibattito sulla necessità di ripensare l’otto per mille e di quello sull’utilizzo effettivo dei circa 350 milioni di euro che le Ong gestiscono fra (pochi) fondi pubblici italiani, fondi pubblici europei e donazioni dei sostenitori - questa rivista ha affrontato l’argomento in Carità? Per carità!, MC giugno 2013 -, l’impressione di massima che emerge è quella di una cooperazione italiana che si è sin qui limitata, peraltro con altei successi, a «fare i compiti» abdicando completamente alla possibilità di avere autorevolezza e prestigio sulla scena internazionale attraverso una relazione diretta e costante con i paesi beneficiari e una valorizzazione più decisa della propria società civile.

Chiara Giovetti
Tags: Cooperazione, aiuto pubblico, aiuto privato, finanziamento sviluppo
Chiara Giovetti




Milano e i migranti /2 Il valore aggiunto oltre il bisogno

Continuando la nostra
passeggiata milanese, arriviamo in via Padova, nella zona più multietnica della
città. Di seguito, visitiamo Baranzate, comune nato nel 2004 e situato proprio
a ridosso dell’area dell’Expo 2015, che oggi conta la maggiore concentrazione
di stranieri. Don
Paolo Steffano, il parroco della chiesa di Sant’Arialdo, che si trova nel
quartiere più densamente abitato del comune, ci aiuta a capire la situazione
con i suoi  problemi e i suoi segni di
speranza.

Il XXIII rapporto di immigrazione di Caritas e Migrantes (2013)
riporta una notizia apparsa sul quotidiano la Repubblica nell’agosto
dell’anno scorso: nella classifica dei cognomi più frequenti fra i residenti di
Milano, Rossi e Hu sono quasi alla pari: 4.345 i Rossi e 4.101 gli Hu. Al terzo
posto vengono i Colombo, poi Ferrari, Bianchi e Russo. All’ottavo posto si
classificano Chen e al nono Zhou che, con oltre milleseicento ricorrenze,
superano il cognome milanese per antonomasia, Brambilla, al decimo posto.
All’undicesimo posto si trova Esposito, seguito da Sala, Romano e Cattaneo. Al
ventitreesimo c’è Mohamed e al quarantacinquesimo Ahmed.

Al di là delle statistiche, in via Padova le vetrine dei
negozi parlano di un quartiere dove almeno il commercio ha in parte già
superato i confini etnici: «Alimentari africani, asiatici e sudamericani», si
legge sulle insegne di esercizi che espongono sacchetti di derrate con scritte
in quattro, cinque lingue. Dopo una camminata, verso Nord, in una delle vie più
etnicamente variegate e animate della città, fare due passi nei pochi metri del
quieto borghetto medievale di via Domenico Berra, traversa di via Padova, ha un
che di irreale. Proprio dall’altra parte dell’incrocio si imbocca via Adriano
e, dopo una manciata di passi, si comincia a intravedere la facciata gialla
della Casa della carità, un’istituzione «pensata e voluta dal cardinal
Martini proprio in questa zona di migranti per dare un chiaro segno di
accoglienza», come spiega il responsabile dell’ufficio stampa Paolo Riva.

Attualmente alla Casa della carità, che dal 2004
ha ospitato oltre millesettecento persone, risiedono gratuitamente 135 ospiti
mentre altri 138 vivono in trentuno appartamenti estei. Una giornata di
accoglienza ha un costo medio di circa quaranta euro. Presso la struttura sono
disponibili un centro d’ascolto, che l’anno scorso ha ricevuto oltre settecento
richieste d’aiuto, un servizio docce e guardaroba per le persone che non è
possibile ospitare, un centro medico e di assistenza psicologica, un’area di
assistenza legale, i servizi di formazione e avviamento al lavoro, una
biblioteca e un centro anziani. Gli utenti ai quali, in dieci anni di attività,
la Casa si è rivolta sono membri delle comunità rom, migranti, persone
senza dimora, detenuti ed ex detenuti, anziani e pazienti affetti da problemi
di salute mentale.

Ma oltre all’accoglienza e assistenza quotidiane, la
fondazione che gestisce la Casa, promuove un lavoro di riflessione sui
temi e i problemi che emergono nella realtà metropolitana. Don Virginio
Colmegna, presidente della Fondazione Casa della carità dal 2004,
sceglie Hannah Arendt, Marc Augé e Zygmunt Bauman per guidare l’interlocutore
nel percorso di approfondimento che la Fondazione sta portando avanti:
parla di «diritto di difendere i diritti» e di «vite di scarto», le vite di
coloro che il processo di globalizzazione ha spinto ai margini e ridotto a
rifiuti umani. «Serve una diversa visione strategica delle periferie», dice don
Colmegna, «che vanno guardate non come i nonluoghi dove si manifesta il
bisogno, ma come spazi di complessità e conoscenza. Il fenomeno migratorio ci
sta cambiando e, insieme all’impegno quotidiano dell’accoglienza, il lavoro
culturale è fondamentale».

Don Colmegna si sofferma su un tema particolare: su
cento persone assistite dalla Casa, quaranta sono passate dai servizi di
salute mentale. «Le sofferenze patite durante il tragitto migratorio, le esperienze
– vissute specialmente dalle donne – di devastazione nel corpo, i traumi legati
all’impatto religioso e culturale sono le principali cause dei problemi mentali
delle persone che accogliamo».

A poche decine di metri dalla Casa della carità,
via Padova comincia ad animarsi per il traffico dell’ora di punta serale; la
luce rosa di uno dei primi tramonti primaverili si diffonde sui muri della
galleria T12 Lab di via dei Transiti, dove gli artisti maliani Ousmane
Garba Kounta, Aboubakar Fofana e Sidiki Traoré espongono i loro lavori
nell’ambito della piattaforma Nomad Extreme, «un’iniziativa visionaria
dedicata ai designers che si trovano ai confini del mondo».

«Il riciclo e la valorizzazione della cultura maliana
sono alla base del mio lavoro», spiega Ousmane mentre mostra ai visitatori le
sue opere, sedie e poltrone fatte con coa bovine recuperate presso i macelli.
I lavori di Ousmane, insieme alle sculture di metallo riciclato di Sidiki e ai
manufatti di tessuti e colori naturali realizzati da Aboubakar con le tecniche
dei maestri della tradizione tessile del Mali, proiettano scorci di Sahel e di
Sahara sullo sfondo di cemento, asfalto e metallo di una metropoli del Nord del
mondo. Milano e il suo cammino multiculturale passano anche da qui.

Chiara Giovetti


Due passi a Baranzate
con don Paolo Steffano

Don Paolo Steffano è il parroco di Sant’Arialdo, la
chiesa del quartiere Gorizia a Baranzate, comune della prima cintura milanese.
Da dieci anni vive e lavora qui, nel comune d’Italia a più alta concentrazione
di stranieri. Risponde alle mie domande mentre mi fa da guida nel quartiere e
si ferma a salutare le persone, ad accordarsi con qualcuno per appuntamenti e
attività in programma, ad ascoltare storie e notizie.

Don Paolo, a
Baranzate cercavo una periferia degradata, ma a guardare la bacheca con le
attività organizzate dalla parrocchia, i murales con la scritta «Il mondo nel
quartiere», le strutture sportive e le sedi delle associazioni come Quadrivium,
non sembra poi così male. E ora io che cosa scrivo?

Don Paolo ride mentre mi fa strada nel prato vicino alla
chiesa dove gli operai stanno ultimando i lavori della parte da pavimentare: «Immaginati
come sarà questo prato nelle sere d’estate, tutto pieno di candele e di gente
che chiacchiera. Questa qui è la Svizzera di Baranzate!». Poi torna serio
mentre percorriamo la strada che costeggia la piazzetta del quartiere: «Vedi?»,
e indica le serrande abbassate dei negozi, «questi hanno tutti chiuso, non ce
la facevano ad andare avanti. Le difficoltà ci sono, e anche tante, ma tutti
insieme stiamo cercando di trovare delle soluzioni».

«Tutti insieme» significa la parrocchia, le associazioni
di quartiere, il comune, che ha regalato una macchina perché le associazioni
potessero svolgere le proprie attività, e i privati, uno dei quali ha donato
una sala da cento posti. Per mostrarmi un esempio di collaborazione
interculturale mi porta a visitare il negozio di usato per bambini gestito da
due mamme, una boliviana e una italiana.

«Non è un quartiere facile, addirittura passa per essere
invivibile. La situazione è questa: nel quartiere, che ospita una settantina di
etnie, vivono 3.800 persone su 11.800 abitanti totali di Baranzate: la
sproporzione abitativa c’è e si vede. Molti palazzi non hanno il riscaldamento,
chi può se lo fa autonomo, gli altri usano le stufette, con tutti i rischi
connessi. Il centro psicosociale segue una marea di casi, il tasso di natalità è
davvero alto ma non c’è nemmeno un pediatra. Lo spaccio di droga, specialmente
hashish e cocaina, è florido. Ora, in vista dell’Expo, hanno sgomberato un
campo nomadi e distribuito venti famiglie rom nel quartiere, il che ha
provocato parecchi scompensi».

Don Paolo,
quanto tempo ci vorrà perché io non debba più venire qui a farle tutte queste
domande per scrivere un articolo su migranti, disagio e periferie?

«Senti, mettiamola così: io sono milanese di Sant’Ambroeus,
ho il pedigree», scherza. «Quando andavo a scuola, mio padre leggeva la
lista dei miei compagni di classe e, trovando un cognome del Sud, alzava la
testa e diceva: questo qua è un terùn. Lui lo notava, com’era ovvio che
fosse, da milanese che aveva visto la sua città cambiata dai flussi migratori
dal Sud Italia. Ma per me quel nome corrispondeva semplicemente a un compagno
di giochi, non mi importava che fosse di Bari o di Palermo. Ecco, io credo che
succederà la stessa cosa. Anzi, a camminare per le strade di questo quartiere,
forse anche tu hai avuto l’impressione che sia già successo».

Chiara Giovetti

Per aiutare i progetti di MCO:

Chiara Giovetti




Milano e i migranti / 1 Il valore aggiunto oltre il bisogno

Secondo il rapporto Caritas
Migrantes
del 2013, la sola provincia di
Milano conta poco meno di 360mila stranieri residenti, un numero appena
inferiore al totale di quelli che risiedono nell’intero Piemonte. La Lombardia è,
nel suo insieme, la prima regione in Italia per numero di stranieri residenti:
un milione e ventottomila persone.
Il gruppo più numeroso è rappresentato dai rumeni (137mila), seguiti da
marocchini, albanesi, egiziani, cinesi, indiani e altri. In questo numero, MC
racconta un percorso di quarantacinque chilometri fra centro e periferie della
Milano multiculturale.

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Milano, uscita della metropolitana, fermata Duomo. A metà delle scale che portano in superficie, un uomo - dai tratti potrebbe essere originario dell’Asia centrale - sta seduto con un bicchiere di carta in mano, in attesa che qualcuno vi depositi qualche spicciolo. Alle sue spalle, un maxischermo sulla facciata di marmo bianco del Duomo riproduce la pubblicità di uno smartphone. Per un attimo, un effetto prospettico crea l’illusione che l’uomo col bicchiere e il telefonino siano parte della stessa proiezione. Salendo la scale l’illusione scompare, ma la suggestione ci mette un po’ a dissolversi. La tentazione di pensare che quell’immagine sia un emblema è forte, ma Milano si muove troppo velocemente e in troppe direzioni per lasciarsi incastrare in una generalizzazione.

Tra la Fiera del Mobile, quasi una prova generale dell’Expo 2015, e la Chinatown di via Paolo Sarpi, a nemmeno un chilometro dalla storica sede del Corriere della Sera in via Solferino; fra i manifesti della Lega contro «Bruxelles che uccide» accanto alla stazione centrale, e i fogli con la scritta «Via i leghisti da San Siro» attaccati sui nomi delle vie intorno a piazzale Selinunte; fra questi frammenti di città e molti altri, c’è «la piazza»: ecco il luogo dell’incontro, delle reti di solidarietà e dei tentativi di condivisione. Ma anche lo spazio delle quotidiane tensioni, degli stili di vita difficili da conciliare, del costante viavai di persone e di culture che a volte non si fermano abbastanza per osservarsi e poi riconoscersi.

Una panoramica sulla città vista dall’Ufficio per la pastorale dei migranti

«“Fate incontrare la gente”: questo è il mio incoraggiamento per i sacerdoti che delle parrocchie». A parlare è don Alberto Vitali, dell’Ufficio per la pastorale dei migranti (Upm) della Diocesi di Milano. Quando le persone si accorgono di avere problemi comuni, come crescere i figli, trovare un lavoro, accudire un malato, continua don Vitali, diventa meno difficile capirsi e venirsi incontro. La Caritas ambrosiana si occupa della promozione umana e del sociale. «Noi ci concentriamo sul fatto che un migrante è un credente», spiega don Alberto, «e partiamo da questo presupposto per organizzare il lavoro della cappellania generale, che conta trenta realtà etniche diverse».

Il sacerdote traccia un quadro molto chiaro delle generazioni di migranti con i quali svolge il proprio lavoro: la prima generazione ha fra le sue caratteristiche un forte legame identitario con il paese d’origine, e vive nel mito del ritorno, anche se spesso è costretta a rassegnarsi al fatto che tale ritorno non avverrà mai a causa della mancanza di risorse economiche. La seconda generazione, invece, è quella della piena crisi di identità. Quest’ultima, che rimane sopita nei bambini, affiora nell’adolescenza, quando magari arrivano le prime «cotte» per un coetaneo e ci si sente rifiutati perché stranieri. Sentirsi improvvisamente diversi genera nei ragazzi un trauma non semplice da superare, e spesso si innesca una ricerca del gruppo di «uguali» nel quale sentirsi accettati. In alcuni casi, che rimangono comunque limitati, questi gruppi di uguali finiscono per essere le gang criminali giovanili di cui si sente ogni tanto parlare. «È paradossale», aggiunge don Vitali, «che in questi casi la voglia di essere “uguali” porti di fatto a unirsi a altri “diversi”». Quanto alla terza generazione, si tratta di persone completamente integrate.

A Milano, spiega Simona Beretta, anche lei in forze all’Upm e curatrice, oltre che ideatrice, del concorso di scrittura Immicreando, sono tre i tipi di enti che si occupano di migranti: il comune, la Chiesa e le associazioni e onlus, ad esempio il Naga. Non c’è una rete strutturata che unisca queste entità. Nonostante ciò, il cornordinamento funziona grazie a costanti contatti e incontri. Nelle singole realtà di quartiere, poi, la presenza di una situazione di difficoltà viene spesso gestita grazie alla comunicazione fra associazioni, parrocchie, uffici pubblici presenti in loco che si segnalano gli uni gli altri i casi di disagio e si cornordinano per dare una risposta. Quanto all’idea di periferia, a Milano occorre tenee in considerazione due tipi: quella dei comuni della prima cintura, e poi il cosiddetto hinterland. «Ma anche per Milano, come per Torino», chiarisce Simona, «la corrispondenza fra migranti e margine geografico non è automatica: basta pensare a posti come via Padova, una delle strade più multietniche della città, che comincia da piazzale Loreto, una zona tutt’altro che periferica». Che la marginalità e il disagio siano, almeno in parte, un effetto di un fallimento urbanistico è un’ipotesi che Simona non rifiuta: «Non si può dire che ci sia stato un vero e proprio progetto di ghettizzazione, ma nemmeno c’è mai stato un progetto per spezzare queste catene urbanistiche. Il resto, poi, lo ha fatto il mercato immobiliare: i prezzi più bassi nelle zone più disagiate hanno attirato, a loro volta, persone alle quali le difficoltà economiche non permettevano di vivere in zone più costose».

Caritas ambrosiana: il valore di un percorso

Il Servizio accoglienza immigrati (Sai) di Caritas ambrosiana nasce nel 2002 per fornire consulenza e orientamento a immigrati e datori di lavoro a seguito della sanatoria prevista dalla legge 189/2002 (Bossi - Fini). Si consolida poi come più ampia risposta alle problematiche migratorie a Milano, in linea con la sensibilità e le priorità dell’allora arcivescovo di Milano, cardinal Carlo Maria Martini, confermato e sostenuto poi dai suoi successori, cardinali Dionigi Tettamanzi e Angelo Scola. Al Sai, che vede la presenza continuativa e operativa di assistenti sociali, avvocati, consulenti di area legale, operatrici dell’area orientamento al lavoro e della segreteria, e la preziosa collaborazione di venticinque volontari, accedono oggi fra le sei e le settemila persone all’anno. Il Servizio offre ascolto, accoglienza temporanea, accompagnamento sociale, consulenza legale. Nelle situazioni di particolare vulnerabilità è previsto un intervento di sostegno diretto. «Ma il soddisfacimento immediato di un bisogno attraverso l’elargizione di denaro per pagare un debito o un servizio necessari all’immigrato», sottolinea il responsabile del Servizio, Pedro
Di Iorio, «è qualcosa a cui ricorriamo il meno possibile. Cerchiamo piuttosto di leggere il bisogno e condividere con la persona che si rivolge a noi l’idea di un piccolo progetto finalizzato a una possibile maggiore autonomia e miglioramento della propria situazione, un percorso durante il quale, ovviamente, ci impegniamo con possibili azioni di accoglienza, accompagnamento ai servizi territoriali e anche di piccolo sostegno economico». Pedro ci tiene molto a dare rilievo a questo aspetto: ciò che gli sta a cuore è scongiurare per quanto possibile il rischio che «il viandante, così come l’operatore sociale che fornisce il servizio, finiscano per fare del bisogno il solo codice di identificazione relazionale, tralasciando invece il valore aggiunto». Un migrante, cioè, non è solo un bisognoso, ma qualcuno cui proporre, nel territorio, percorsi di socializzazione e conoscenza.

«Nei confronti di chi cerca lavoro, Caritas non può intervenire direttamente come fosse un’agenzia interinale: il nostro ruolo è quello di aiutare la persona per un miglior posizionamento nella ricerca attiva del lavoro. Gli strumenti disponibili sono di natura formativa, di base e professionalizzante, di orientamento e informazione che la “piazza” spesso non è in grado di dare».

«Piazza» è un termine che Pedro usa spesso: la definisce il luogo del passaparola, dei network etnici, dove i migranti hanno notizia dei servizi, come quelli offerti dalla Caritas; ma è anche uno spazio frammentato, dove non sempre i canali da percorrere per far fronte alle proprie necessità sono chiari: «Per questo diventa ancora più importante far attenzione a non creare aspettative ingiustificate rispetto a qualunque bisogno che ci viene esposto e fornire ai migranti informazioni che alla gratuità uniscano la qualità».

La mole di lavoro per il cosiddetto front-office, che si occupa fra l’altro di codificare il bisogno il più rapidamente possibile, è ragguardevole: sono quindicimila all’anno le telefonate a cui gli operatori rispondono, una media di quaranta al giorno. «I richiedenti asilo/titolari di protezione internazionale rappresentano il quindici per cento del flusso complessivo di richieste che riceviamo; per il medesimo target di riferimento (protezione internazionale), a Milano il comune svolge azioni di accoglienza e accompagnamento affidate, attraverso una convenzione, alla cornoperativa Farsi Prossimo che gestisce quattro centri d’accoglienza per uomini e uno per donne. I “migranti economici” sono circa l’ottantacinque per cento: l’Italia sta diventando meno appetibile come meta per chi cerca un impiego e anche i migranti della prima ora, quelli che erano stati protagonisti di storie di successo e che oggi si trovano sempre più spesso in condizioni di precarietà, con quel che ne consegue in termini di sgretolamento delle famiglie e di impatto devastante dal punto di vista psicologico».

Oltre due terzi degli utenti del Sai hanno una situazione abitativa che nella migliore delle ipotesi consiste in un posto letto (oneroso) in coabitazione con altri connazionali. Altre volte si tratta di persone ospitate nei centri di accoglienza, come il rifugio Caritas vicino alla Stazione Centrale, o nei centri di accoglienza gestiti dal comune o da istituzioni religiose. Spesso l’alternativa è la strada o l’area dismessa. Lo scalo della stazione di Porta Romana è un esempio di quest’ultimo tipo di sistemazioni: «Dal ponte sulla ferrovia in Corso Lodi si vedono solo le passerelle dove i passeggeri aspettano i treni», racconta Pedro, «ma se cammini lungo i binari arriverai a intravedere, di notte, i fuochi accesi dalle decine, a volte centinaia, di persone che passano la notte nelle strutture dismesse dello scalo».

Quanto all’ipotesi di rientrare nei paesi di provenienza, Pedro ribadisce che nella maggior parte dei casi «da sconfitti a casa non si torna». Qualcuno sceglie comunque il recupero degli affetti anche se il prezzo è ammettere il fallimento, ma molto dipende anche dalle condizioni messe in campo dal paese di provenienza. «Ad esempio, in Perù sono attivi progetti di reinserimento degli emigrati che rientrano e questo aiuta a creare le condizioni per i rimpatri».

Via Padova, le declinazioni dell’accoglienza

Via Padova è un’arteria di oltre quattro chilometri che collega piazzale Loreto a Crescenzago. Quattro anni fa la zona fu al centro dell’attenzione dei media per l’assassinio di un giovane egiziano a opera di una banda di latinos.

Nel quartiere che si estende intorno alla chiesa di San Gabriele, nella parte di via Padova vicina a piazzale Loreto, la popolazione straniera è al quaranta per cento. «La maggioranza degli immigrati» spiega don Davide Caldirola, «proviene dall’America Latina, specialmente Ecuador e Perù, e dall’Egitto. Raramente si tratta di famiglie, spesso sono assembramenti di persone, ed è più difficile stabilire un contatto con loro».

Qui molte sono case di ringhiera, dove il contatto diretto fra condomini è inevitabile, ma gli avvicendamenti sono frequenti: gli affitti sono alti e la gente non si ferma molto. «Qualche giorno fa», riporta don Davide, «una signora mi ha detto che se fosse per lei sarebbe ben contenta di conoscere i vicini di casa, ma cambiano ogni tre settimane...».

Accanto agli stranieri, nel quartiere vivono parecchie persone anziane che si sono stabilite qui da anni e le difficoltà a conciliare le loro esigenze con quelle dei nuovi abitanti non è sempre semplice. «Non si può chiedere a un anziano di imparare l’egiziano per poter stabilire un rapporto con i vicini e a volte anche le forme un po’ chiassose di convivialità di alcuni gruppi di migranti creano disagio in persone che desidererebbero un po’ più di quiete». Sui principi della condivisione e dell’accoglienza, dice don Davide, non si può che essere tutti d’accordo; spesso, però, nel concreto, la partita della multiculturalità non si gioca sui principi ma su tanti piccoli episodi quotidiani che creano tensioni.

Come parrocchia, a San Gabriele si è scommesso su quello che don Caldirola definisce un «puntare alla normalità», assecondando cioè l’incontro che già sta avvenendo nelle nuove generazioni. «All’oratorio uno su tre dei bambini che ricevono i sacramenti ha genitori stranieri. La nostra struttura accoglie tutti i bambini, cristiani o non cristiani, perché crescano insieme e sostituiscano all’appartenenza etnica i valori dell’amicizia».

Chiara Giovetti
(1 - continua)

Tags:
migranti, accoglienza, Milano, Caritas, pastorale migranti, periferie, Via Padova
Chiara Giovetti




Luce e speranza a Marandallah

Dopo una guerra civile e dieci anni di conflitto latente la Costa
d’Avorio, ex perla dell’Africa occidentale, conosce oggi una crescita economica
sostenuta. Ma la riconciliazione nazionale e il miglioramento delle condizioni
di vita della popolazione avanzano lentamente. Mentre l’ex presidente Laurent
Gbagbo resta in carcere all’Aja e l’attuale capo di stato Alassane Ouattara
affronta in patria accuse di parzialità e inefficienza, il paese si prepara a
tornare alle ue l’anno prossimo.
I missionari della Consolata lavorano a Marandallah, nel Nordovest. Attraverso
progetti di sanità e alfabetizzazione cercano di sostenere lo sforzo di un
paese che vuole rimettersi in piedi.

Zoppicando verso le
elezioni

Laurent Gbagbo resta in prigione. È questa la decisione
della prima camera preliminare della Corte penale internazionale (Cpi)
dell’Aja lo scorso 12 marzo, in risposta alla richiesta di scarcerazione
avanzata dalla difesa del ex capo di stato della Costa d’Avorio. Gbagbo,
presidente ivoriano dal 2000 al 2010, era stato arrestato nell’aprile del 2011
insieme alla moglie Simone Ehivet Gbagbo, anche lei in seguito perseguita dalla
Cpi, dopo aver dato avvio a un’ondata di violenze per il rifiuto di lasciare il
potere al suo oppositore Alassane Dramane Ouattara, detto Ado, vincitore delle
lelezioni di fine 2010. Le violenze avevano causato la morte di circa tremila
persone e la fuga di poco meno di un milione d’ivoriani che trovarono rifugio
nei paesi limitrofi o si spostarono in aree del paese meno turbolente.

La Costa d’Avorio aveva già sperimentato un quinquennio
di conflitto fra il 2002 e il 2007, durante il quale i ribelli controllavano il
Nord del paese mentre il Sud era dominato dalle forze governative. Fra i
principali motivi del contendere c’erano il controllo del mercato del cacao e i
diritti della popolazione di origine straniera insediata da decenni nel paese (vedi
dossier sulla Costa d’Avorio in MC, marzo 2007 e febbraio 2011
). Le
elezioni del 2010 dovevano mettere fine a questa situazione di tensione dopo
che il presidente e il capo dei ribelli, Guillaume Soro, avevano accettato di
convivere in un governo di transizione – con Gbagbo presidente e Soro primo
ministro – per traghettare la Costa d’Avorio fuori dall’impasse politica. Ma
subito dopo il voto, il popolo ivoriano si è visto ripiombare nell’incubo della
guerra civile.


Rifugiati, sfollati,
apolidi, stranieri: l’eterno rompicapo della politica ivoriana

A oggi, sebbene si siano registrati diversi ritorni dei
rifugiati e degli sfollati alle loro case, la situazione rimane tutt’altro che
risolta. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, a metà 2013 i
rifugiati ivoriani erano ancora centomila, due terzi dei quali nella sola
Liberia. Il timore di subire rappresaglie e vendette una volta rientrati in
patria resta il principale motivo che spinge i rifugiati ivoriani a ritardare
il loro ritorno.

Inoltre, circa settecentomila persone risultano apolidi,
cioè prive di nazionalità. Quello della nazionalità è un problema di vecchia
data nel paese, dove poco meno di sei milioni di persone, cioè oltre un quarto
della popolazione, sono immigrati provenienti dai paesi limitrofi. Una gran
parte di questi immigrati si sono stabiliti in Costa d’Avorio molti anni fa,
attirati dalle opportunità di lavoro nelle piantagioni di cacao e in altri
settori ai tempi – erano gli anni Settanta – in cui l’economia ivoriana era il
motore della sub-regione e Abidjan, la capitale economica del paese con i suoi
grattacieli e le sue tangenziali sopraelevate, era chiamata la Manhattan dei
tropici. L’esodo dai paesi confinanti è proseguito anche negli anni successivi
al periodo d’oro, ma in moltissimi casi i migranti hanno continuato fino a oggi
a vivere in un limbo giuridico che non permette loro di godere di una serie di
diritti, fra cui quello alla terra e al voto.

Nel 2013 l’annuale studio dell’autorevole Fondazione
Mo Ibrahim
, creata dal magnate delle comunicazioni anglo-sudanese Mohamed
Ibrahim per incoraggiare il buon governo in Africa, ha collocato la Costa
d’Avorio fra i dieci stati africani che hanno avuto i risultati peggiori in
campi come i diritti umani, lo sviluppo, la sostenibilità economica e la
legalità. Diversi osservatori, inoltre, cominciano ad avanzare preoccupazione
rispetto all’imminenza delle nuove elezioni, previste per l’anno prossimo: la
pacificazione fra i gruppi in conflitto sembra ancora lontana e gli oppositori
criticano il presidente Ado accusandolo di parzialità soprattutto verso i
perpetratori dei crimini del 2010-2011, dato che in prigione ci sono solo i
sostenitori dell’ex presidente Gbagbo. La commissione indipendente che dovrebbe
aggioare le liste elettorali è stata sciolta dopo le elezioni del 2010 e non è
ancora stata ricostituita.

Nonostante un altro conflitto sembri per ora scongiurato
e la crescita del Pil sia stata pari al 8,7 per cento nel 2013, la Costa
d’Avorio conserva nelle città grosse sacche di povertà, mentre nelle zone
rurali della parte occidentale del paese il conflitto e la violenza rimangono
elementi del quotidiano.

La sanità in Costa d’Avorio

Fra le presenze dei missionari della Consolata in Costa
d’Avorio c’è quella di Marandallah, un villaggio di circa quattromila abitanti
che di fatto è il punto di riferimento per oltre trentamila persone dei
dintorni. Si trova nella regione di Worodougou, nella parte centro
settentrionale del paese, a poco meno di cinquecento chilometri da Abidjan. Con
il Nord della Costa d’Avorio, Marandallah condivide un maggior svantaggio
economico rispetto al Sud del paese e una mancanza di infrastrutture che
rendono molto difficili gli spostamenti e le comunicazioni. «La situazione dei
trasporti qui è veramente critica», scrive padre João Nascimento, uno dei
missionari. «Ci si muove quasi esclusivamente su piste sterrate piene di buche
e crepe e durante le piogge tutto si complica ulteriormente». Anche energia
elettrica e acqua potabile scarseggiano, soprattutto dopo gli scontri del
decennio 2002-2011 che hanno gravemente danneggiato gli impianti di
distribuzione e le infrastrutture.

Uno studio del 2012, effettuato su un campione nazionale
di circa diecimila famiglie dal ministero della sanità e dall’istituto di
statistica ivoriani in collaborazione con diverse agenzie ed enti inteazionali,
descrive la situazione sanitaria della zona come peggiore della media
nazionale. Per quanto riguarda la salute matea, ad esempio, se nella città di
Abidjan 97 donne su cento ricevono cure e assistenza durante la gravidanza,
nella regione Nordovest, solo 75 ne beneficiano. I parti assistiti da personale
sanitario qualificato sono l’88% a Abidjan mentre nella regione di Worodougou
ad assistere le partorienti sono le levatrici tradizionali o i familiari in
almeno un caso su due. Inoltre, la pratica delle mutilazioni genitali
femminili, con tutte le sue conseguenze dannose per la salute della donna, è
presente nel Nord e nell’Ovest del paese molto di più che nelle altre zone e
tocca circa sette donne su dieci.

Il dispensario di Marandallah

Le testimonianze dei missionari sono in linea con i dati
del rapporto: «È molto difficile trovare il personale sanitario», conferma
padre Ramón Lázaro Esnaola, responsabile del Centro sanitario cattolico Notre
Dame de la Consolata (Cscndc) di Marandallah, fondato nel 2007, «perché in
pochi sono disposti a venire a vivere in un luogo dove mancano acqua e
elettricità. Mancando la corrente, poi, diventa molto più complicato anche
offrire servizi di base come le vaccinazioni: per ottenere i vaccini occorre
infatti andare a Mankono, una città che si trova a quasi settanta chilometri da
qui e, viste le condizioni delle piste sterrate, è facile immaginare quanto
tempo, energie e denaro se ne vadano per fornire un servizio così fondamentale».

Il centro è nato per sopperire alla mancanza di copertura
sanitaria nella zona: la struttura più vicina, infatti, si trova a circa
novanta chilometri, una distanza proibitiva per la maggior parte della
popolazione locale. Il Cscndc offre servizi di medicina generale, ha una
mateità ed esegue analisi di laboratorio avvalendosi del lavoro di un medico,
un infermiere, due biotecnici, un’assistente sociale, due aiuto infermiere, tre
agenti sanitari comunitari, tre addetti alle pulizie e due guardiani nottui.
Ha dodici posti letto più altri sei nella mateità e effettua oltre tremila
consultazioni all’anno, mentre la mateità segue circa 170 parti e il reparto
chirurgia esegue più di duecento operazioni l’anno. Dal 2008 le attività
relative alla lotta all’Hiv/Aids si svolgono con il sostegno tecnico di
Icap-Costa d’Avorio, l’Inteational Centre for Aids Care and Treatment
Programs
gestito dalla statunitense Columbia University e dal
governo Usa. La cura della malnutrizione avviene con il supporto della
statunitense Father Norman Gies Foudation.

Più energia alla
salute e gli altri progetti sanitari

Nel 2013, con il sostegno di Caritas microprogetti, è
stato avviato «Più energia alla salute», un intervento per l’installazione di
un sistema fotovoltaico: «A lavori ultimati», spiega padre Ramon, «grazie
all’energia prodotta con i pannelli solari non dovremo più temere i tagli di
corrente frequenti nella zona e avremo una affidabile catena del freddo:
potremo cioè far funzionare regolarmente il frigo che ci è stato donato dal
sistema sanitario nazionale ivoriano per conservare i vaccini – senza doversi
spostare sempre fino a Mankono – e anche il sangue per le trasfusioni».

Un’altra componente dell’intervento è quella di
informatizzare la farmacia del dispensario in modo da avere un controllo più
dettagliato sullo stock e prevedere meglio i tempi e le necessità per i nuovi
acquisti. «Per procurarci i farmaci dobbiamo andare fino ad Abidjan», continua
padre Ramon. «Per questo è importante programmare il viaggio sapendo con precisione
quali farmaci devono essere reintegrati. Fare i conteggi “a vista” e segnarli
su una lista cartacea non è impossibile e lo si è sempre fatto, ma il margine
di errore e il dispendio di tempo sono molto maggiori. L’uso del computer
dovrebbe ridurre il numero di viaggi e, di conseguenza, i costi per il
mantenimento del centro».

Anche a Dianra, altro centro a una cinquantina di
chilometri da Marandallah, i missionari fanno funzionare un piccolo
dispensario. L’obiettivo per il futuro è costruire anche presso il centro
sanitario di Dianra una mateità, che per ora manca. Sono invece già attivi i
servizi di formazione del personale sanitario, svolta in cornordinamento con il
centro di Marandallah, e le missioni di visita ai villaggi che hanno
un’importanza fondamentale nella prevenzione delle malattie più comuni.

L’alfabetizzazione,
strumento per superare l’odio

Secondo lo studio a campione citato prima, la situazione
della regione di Nordovest rispetto all’alfabetizzazione è problematica tanto
quanto quella sanitaria: delle persone intervistate per la raccolta dei dati
statistici, sessantasei uomini e ottantotto donne su cento non sanno leggere né
scrivere mentre ad Abidjan – presa ancora una volta come esempio «virtuoso» –
le donne e gli uomini in questa condizione sono rispettivamente il quaranta e
il diciotto per cento. Tre quarti delle donne intervistate e circa metà degli
uomini hanno dichiarato di non avere alcun titolo di studio e di non leggere
giornali né utilizzare altre fonti di informazione. I bambini che frequentano
la scuola elementare a livello nazionale sono 68 su cento, ma nel Nordovest
sono mediamente dodici in meno.

«È vero», conferma padre João, «qui l’analfabetismo è più
diffuso che altrove. È un insieme di fattori che crea questa situazione:
l’isolamento, il fatto che la popolazione locale sia in parte di origine
straniera e mai integrata e anche, a volte, un senso di apatia e di
rassegnazione».

Grazie a fondi dell’Opera di promozione
dell’alfabetizzazione nel mondo
(Opam), padre João ha realizzato il
progetto A scuola di pace all’apatam, un intervento che prevedeva la
costruzione di sei strutture tipicamente africane note anche come paillotes,
in altrettante località intorno alla missione. Ora negli apatam si
stanno svolgendo i corsi di alfabetizzazione per gli adulti e per i bambini non
scolarizzati. La prossima tappa del progetto sarà fornire alle piccole
strutture l’illuminazione con impianti fotovoltaici, perché i corsi si tengono
quasi sempre di sera, dopo la giornata lavorativa, e un’illuminazione adeguata è
indispensabile per la buona riuscita della formazione. È previsto anche
l’acquisto di una moto che permetta all’équipe di cornordinamento di visitare le
comunità.

Oltre che all’alfabetizzazione vera e propria i corsi
serviranno anche a sensibilizzare e informare su temi come diritti umani,
diritto alla terra e riconciliazione fra comunità. «Leggere e scrivere non è
indispensabile solo per poter affrontare le attività quotidiane che comportano
la lettura o la compilazione di documenti amministrativi, ma anche per essere
in grado di comprendere meglio ciò che sta accadendo nel paese», conclude padre
João. Essere più consapevoli e più informati aiuta a sentirsi parte delle
dinamiche sociali, economiche e politiche della società in cui si vive.
L’obiettivo è dissolvere a poco a poco la paura, la diffidenza e il
risentimento e ridurre l’isolamento non solo geografico ma anche culturale in
cui la popolazione di Marandallah si trova a vivere.

Chiara Giovetti




Tags: sanità, salute, dispensario, Marandallah

Chaira Giovetti




Torino, gli strumenti per non avere paura

Reportage periferie /
1

Erano gli anni
Sessanta quando cartelli affissi sulle porte degli edifici del capoluogo
piemontese avvertivano: «Non si affitta a meridionali». Nel 2014 sono ancora
tanti i torinesi che ricordano quegli anni e citano quelle scritte quasi a
sottintendere che la città ha già affrontato massicci flussi migratori e ha
saputo reagire, accogliere e integrare. Oggi basta salire su un tram come il 16
o spingersi nel quartiere Barriera di Milano per toccare con mano una città che
resta fedele alla sua lunga tradizione di accoglienza e, pur nelle difficoltà e
nelle contraddizioni, continua a cambiare volto.

Nell’inverno 2014 gli enti locali torinesi hanno siglato diversi accordi
il cui tema di fondo era la relazione con le comunità di migranti. Solo per
citare alcuni esempi, sono dello scorso febbraio l’adesione della Provincia di
Torino al protocollo d’intesa sulla prevenzione e il contrasto della tratta degli
esseri umani, e la formalizzazione della collaborazione fra la polizia
municipale e la comunità marocchina per la prevenzione dell’abbandono
scolastico, per la mediazione nei casi di conflitti tra i giovani immigrati e
per l’assistenza alle vittime di violenza domestica.

I temi relativi ai migranti hanno certamente un peso
notevole nel dibattito e nell’agenda politica della città che, sia attraverso
le istituzioni pubbliche sia con l’apporto del cosiddetto «privato sociale», si
attiva per cercare soluzioni ai problemi legati all’accoglienza e
all’integrazione delle comunità straniere. Non mancano ovviamente le polemiche
e le accuse a enti pubblici e associazioni di dare precedenza ai bisogni degli
stranieri rispetto a quelli dei torinesi. Ma in una città dove sono già
presenti le seconde generazioni, dove la crisi economica si fa sentire con tale
forza da spingere talvolta gli immigrati stessi ad abbandonare l’Italia per
rientrare nei paesi d’origine o per spostarsi in altre nazioni europee, dove le
scuole sono da anni laboratori di interculturalità, la rassicurante divisione
noi/loro è un semplicismo che fatica ogni giorno di più a descrivere la realtà.

Il lavoro dell’Upm

L’ufficio per la pastorale migranti (Upm) della diocesi
di Torino è un punto di riferimento fondamentale per le comunità straniere.
Offre numerosi servizi fra i quali lo sportello per il lavoro, le consulenze
legali, l’insegnamento dell’italiano e molti altri. Sergio Durando, direttore
dell’Upm, traccia una sintesi della situazione: «Metà dei 385 mila immigrati
del Piemonte vivono a Torino: sono 200 mila nella provincia di cui 150 mila nel
territorio comunale». Secondo il XXIII Rapporto immigrazione 2013 (vedi
articolo pag. 28) di Caritas e Migrantes, nella regione la comunità più nutrita
è quella rumena, con 137 mila presenze, seguita dalle comunità marocchina,
albanese, cinese e peruviana. Un punto di partenza per provare a mettere ordine
nel complesso insieme di fenomeni legato ai migranti, suggerisce Sergio, può
essere il tema del lavoro: il Piemonte è la regione con il più alto tasso di
disoccupazione al Nord (9,8% nel 2013); l’agricoltura dà ancora lavoro ma
ovviamente non nel contesto urbano del capoluogo piemontese, dove i settori
colpiti dalla crisi sono l’edilizia, in cui tendono a concentrarsi i lavoratori
di origine rumena, l’industria e il settore manifatturiero, nei quali le
comunità di migranti maggiormente rappresentate sono quella marocchina e quella
albanese. «Il problema occupazionale», continua Durando, «si traduce facilmente
in un problema abitativo sia per i cittadini di origine italiana che per gli
stranieri, e per i migranti la marginalità economica diventa anche giuridica,
con la perdita dei permessi di soggiorno: nel 2012 i permessi persi sono stati
maggiori dei permessi di ingresso».

Categorie speciali: rifugiati
e titolari di protezione internazionale

All’interno della comunità dei migranti ci sono poi
delle categorie speciali: i rifugiati e i titolari di protezione
internazionale. Per quanto riguarda i rifugiati, il ministero dell’interno
guidato da Angelino Alfano, nel 2013, aveva aumentato da tremila a diciottomila
il numero dei richiedenti asilo che potevano essere accolti. Ma i tempi di
accoglienza, l’arretrato, l’accumulo di richieste e la difficoltà di reale
inserimento lavorativo rendono di fatto molto difficile approfittare
dell’aumento effettuato. «A Torino le strutture occupate da rifugiati, profughi
e titolari di protezione internazionale, sono sette più una casa di religiosi»,
interviene don Claudio Curcetti, sacerdote assegnato dalla diocesi all’Upm, «e
la situazione più esplosiva è forse quella del ex Moi, il villaggio olimpico
costruito nel 2006 e attualmente occupato da circa quattrocento persone» (vedi MC
8-9/2013, pp. 59-63
). Si tratta di uomini, donne e bambini giunti in Italia
a causa della cosiddetta emergenza Nord Africa, cioè l’arrivo in massa di
migranti in fuga dai paesi del Maghreb interessati dalla guerra, a partire da
quella libica.

L’accoglienza dei rifugiati su tutto il territorio nazionale
è costata mediamente ventitremila euro a persona per circa ventimila persone,
ma gli interventi sono stati disorganizzati e approssimativi: i fondi – a
partire dal rimborso di 40 euro al giorno per rifugiato – hanno raggiunto solo
in minima parte i beneficiari, che si sono spesso trovati abbandonati, relegati
a spazi abitativi degradati e privati di un piano di rientro alla fine
dell’emergenza.

«Uno dei problemi è che le politiche nazionali in
materia di migranti sono più preoccupate della sicurezza che dell’accoglienza», continua don Claudio, «ma questo
genera enormi storture che oltretutto aumentano la tensione e l’insicurezza».
Per non parlare di costi: un «centro di identificazione e espulsione» (Cie)
costa circa 45 euro al giorno per singolo individuo trattenuto; un rimpatrio
arriva a seimila euro. Le periferie e il degrado, conclude Curcetti, sono in
fondo il fallimento di una società la cui amministrazione e la cui urbanistica
non sono state in grado di distribuire il disagio in modo da «diluirlo» nel
tessuto urbano, ma lo hanno concentrato e, in questo modo, amplificato. «Se in
un condominio o in un quartiere ci sono settanta famiglie in condizioni
economiche dignitose e trenta disagiate, le prime possono più facilmente
cercare di andare incontro ai bisogni delle seconde e aiutarle a uscire dal
disagio. Ma se le proporzioni sono invertite, come si può pensare che un trenta
per cento di persone si faccia carico dei bisogni del settanta per cento? È
ovviamente impossibile».

I Rom

La corrispondenza fra periferia e disagio si è andata
allentando negli ultimi decenni, ma resta attuale nel caso dei Rom. Dagli anni
Settanta a oggi la provenienza delle popolazioni rom presenti a Torino è
cambiata, ma le aree in cui risiedono sono rimaste le stesse: baraccopoli ai
margini della città. Gli insediamenti abusivi di Lungo Stura Lazio hanno visto,
a partire dai primi mesi del 2014, un processo di graduale sgombero nell’ambito
di un progetto che mira a coinvolgere le famiglie stesse nello smantellamento
delle baracche attraverso l’autodemolizione. Del programma fanno poi parte la
sottoscrizione da parte dei Rom di un patto di emersione, l’accettazione delle
regole di convivenza e legalità, la compartecipazione alle spese e
l’inserimento in complessi di social housing, cioè soluzioni pensate per
le categorie che, prevalentemente per motivi economici, non sono in grado di
rispondere da sole ai propri bisogni abitativi.

L’intervento di Lungo Stura Lazio, oltre ad aver
provocato le ire degli esponenti della Lega («ai Rom le case popolari, ai
torinesi la mini-imu», ha commentato un esponente torinese), suscita qualche
apprensione anche fra gli addetti ai lavori. Finora lo sgombero di un campo,
avverte uno di loro che preferisce restare anonimo, ha spesso innescato un
processo simile alla mitosi cellulare, ha portato cioè alla formazione di più
campi sparsi. Inoltre occorrerebbe sfatare alcuni miti: ad esempio il fatto che
i Rom vivono nei campi per una questione culturale quando in realtà sono i
primi a non volerli; oppure il pregiudizio per cui l’avversione al lavoro è un
tratto caratteristico dei Rom quando invece ci sono, ad esempio, casi di
ragazze assunte come badanti o colf, le quali, fra l’altro, si guardano bene
dal rivelare che vivono in un campo. In questi casi, l’inserimento lavorativo è
avvenuto al prezzo del rinnegamento della propria origine.

Molto difficoltoso appare infine ridare vigore al patto
scolastico in base al quale i Rom si erano impegnati a mandare i loro figli a
scuola: molti Rom sembrano pensare che dopo quarant’anni di presenza in Italia,
e nonostante la scolarizzazione dei bambini, per loro nulla è cambiato, perché
continuare a impegnarsi?

Imparare per non
avere paura

Se si guarda al settore dell’istruzione, la situazione
appare non meno articolata. In una scuola come la Gabelli di Barriera di
Milano, sempre a Torino, gli alunni con genitori di origine straniera sono il
settanta per cento e salgono al novanta per cento nelle prime classi. Siamo in
un borgo storico caratterizzato dalle cosiddette case di ringhiera, dove gli
affitti sono meno cari e per questo attirano famiglie a basso reddito, come
spesso sono quelle dei migranti. Lavorare in scuole come la Gabelli o la vicina
Pestalozzi richiede competenze specifiche e una professionalità avanzata che
permettano di gestire situazioni complesse come i casi delle iscrizioni ad anno
iniziato, di livelli diversi di conoscenza della lingua italiana e di
situazioni familiari molto difficili. A volte i bambini mostrano chiaramente di
non voler rientrare a casa dopo la scuola, segno questo della presenza di un
ambiente familiare teso, o spiegano di non aver fatto i compiti perché non sono
riusciti a leggere e scrivere a lume di candela, oppure ancora perché nel lungo
e freddo inverno torinese il problema principale della sera è quello di trovare
un modo di scaldarsi sotto le coperte in assenza di riscaldamento. I doveri
scolastici passano così in secondo piano anche a causa dei tagli delle utenze
elettrice, spesso abusive, che rendono ostile perfino l’ambiente domestico.

Ma i lati positivi dell’interculturalità in scuole come
queste non mancano: innanzitutto, i figli di stranieri hanno spesso sviluppato
un grado di autonomia e maturità maggiore e si rivelano più rispettosi delle
regole e più attentamente monitorati dai genitori che non i bambini italiani, i
quali vivono in quelle stesse aree degradate perché spesso appartengono a
famiglie disagiate e problematiche. I pochi italiani che decidono liberamente
di portare i figli in queste scuole, inoltre, lo fanno per una precisa volontà
di preparare i loro bambini a vivere nella Torino che verrà e sono generalmente
entusiasti dell’esperienza che i ragazzi, e loro stessi – spesso attivamente
impegnati nei consigli d’istituto – stanno vivendo.

Per quanto riguarda il doposcuola, molto attiva è
l’Associazione animazione interculturale (Asai), già protagonista fin dagli
anni Novanta dei primi e fruttuosi esperimenti di interculturalità a San
Salvario. Nella sede di via Gené, a Porta Palazzo, il «Cantiere S.O.S.» (Scuola
oltre la Scuola) offre, grazie ai suoi operatori e ai volontari, un servizio di
doposcuola ad almeno un centinaio di bambini delle elementari e medie, corsi di
italiano per minori e adulti e laboratori artistici. Un progetto in corso, spiegano
Fabrizio e Roberto, due degli educatori, è quello di giustizia riparativa (sul
tema, dossier MC 12/2013) che nasce da una collaborazione fra Asai,
Polizia municipale e Tribunale dei minori. «Nei casi di bullismo e reati minori»,
spiega Fabrizio, «la collaborazione consente l’inserimento dei ragazzi in un
percorso di servizio di riparazione alla comunità, mentre la Polizia municipale si occupa
della mediazione con la vittima». «Quello che si cerca di fare qui, attraverso
il progetto di giustizia riparativa come in tutte le altre attività con i
ragazzi» gli fa eco Roberto, «è di dare loro più strumenti per avere meno paura
di ciò che vivono giorno per giorno. Abbiamo visto miglioramenti oggettivi in
diversi casi di adolescenti problematici: se si liberano della paura cominciano
piano piano a liberarsi anche della rabbia».

Il lavoro con gli adolescenti si estende poi a quello
con la comunità. Riccardo, anche lui educatore Asai, racconta delle esperienze
di coinvolgimento dei cittadini in quartieri come San Salvario ma non solo.
L’obiettivo è creare una rete sul territorio che metta insieme le famiglie, i
commercianti, chiunque voglia spendersi per il quartiere, conoscere altre
persone e vivere una realtà più integrata. Riccardo cornordina un collettivo
interculturale di giovani musicisti che si chiama Barriera Republic: «Anche
un quartiere non facile come questo», spiega Riccardo, «è capace di generare
senso di appartenenza. Ci sono ragazzi con grandi capacità come musicisti,
videomaker, attori… Bisogna solo incanalare queste loro abilità in modo che
creino condivisione, confronto, inclusione».

Quanto agli immigrati adulti, è a loro che si rivolge
l’offerta formativa (che comprende anche corsi di italiano) del «Centro
territoriale permanente» per l’istruzione e la formazione in età adulta di
Porta Palazzo (Ctp Parini). «Stiamo sperimentando una vera e propria emergenza
alfabetizzazione che, combinata con leggi complesse e con l’aumento della
burocratizzazione, genera sempre maggior esclusione per tutti coloro, e sono davvero
tanti, che non sanno leggere e scrivere, non sono in grado di compilare moduli
o di acquisire informazioni», avverte Rocco, uno degli operatori del centro. Il
Ctp Parini ha circa duemila utenti di cui un migliaio sono frequentanti. A un
analfabeta occorrono tre o quattro anni per arrivare al livello di
alfabetizzazione A1 del quadro europeo (livello base). Molti, dopo aver
raggiunto quel livello si rendono conto di quanto importante sia lo strumento
che prima non possedevano e decidono di continuare a frequentare.

Chiara Giovetti

I missionari della
Consolata e i migranti

Dal 2013
il lavoro dei missionari della Consolata con migranti di Torino si è
intensificato: padre Antonio Rovelli, responsabile della cooperazione di Mco,
fa ora parte del team di cornordinamento dell’Upm, e padre Godfrey Msumange,
coadiuvato dai viceparroci padre Nicholas Muthoka e padre Francesco Discepoli,
è parroco di Maria Speranza Nostra, una vasta parrocchia nel cuore di Barriera
di Milano a Torino.
I missionari vi hanno iniziato il loro servizio il 20 ottobre del 2013,
giornata missionaria mondiale, e hanno cominciato ad ascoltare, osservare,
visitare le famiglie e programmare. «È un quartiere molto vario», spiega padre
Nicholas, «che ha accolto immigrati del Sud Italia e del Veneto in passato e
che ora ha visto l’arrivo di rumeni, albanesi, nigeriani, polacchi, eritrei,
marocchini, tunisini e diversi latinoamericani». «Per il momento» aggiunge
padre Godfrey «stiamo attivando, o prevediamo di attivare, servizi come lo
sportello lavoro, la distribuzione di cibo e il centro d’ascolto, oltre
all’oratorio che adesso è dedicato all’aggregazione. Ma vorremmo sviluppare
anche attività di doposcuola, corsi e laboratori».

Altra
realtà è quella di San Gioacchino a Porta Palazzo, una parrocchia con sacerdoti
nigeriani, in cui padre José Jesus Ossa Tamayo, missionario della Consolata
colombiano, segue la comunità dei latinos, i migranti provenienti
dall’America Latina. «I latinos sono ventimila in Piemonte, seimila
nella sola Torino», spiega padre Jesus, «e per guadagnarsi da vivere lavorano
spesso come badanti o facendo le pulizie. Hanno una grande fame di Dio e, al di
là della messa, si rivolgono al parroco come a un punto di riferimento per
tante cose: farsi accompagnare a un colloquio di lavoro, chiedere consigli sui
problemi di coppia». A volte le situazioni familiari e le condizioni abitative
sono molto difficili: padre Jesus racconta dell’esperienza di un’anziana che è
stata portata in Italia dai figli perché non restasse sola in patria, ma ha
problemi di mobilità che le impediscono di fare le scale e la costringono in
casa dove «piange, piange e piange, tutto il giorno. Con persone come lei»,
conclude padre Jesus «il ruolo di noi missionari è la presenza: andare e
“piangere” con lei. Ultimamente i parrocchiani si sono offerti di far costruire
un bell’altare: per loro è molto importante, è un segno di appartenenza. Lo
faremo, certo, ma ho detto loro che il primo altare a cui devono pensare è la
vecchietta che piange, o il fratello che non lavora e non ha di che nutrirsi».

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




L’umanitario, che noia. Ma se arriva il VIP… 

Dal concerto Live Aid del 1985 in poi, la
raccolta fondi e la sensibilizzazione passano anche attraverso la musica, il
cinema e i testimonial eccellenti. I Vip riescono a focalizzare l’attenzione su
temi spesso percepiti come noiosi e tristi: tragedie e situazioni di difficoltà
dei paesi del Sud del mondo. Una delle soluzioni più in voga per avvicinare il
grande pubblico sembra essere quella di rendere l’aiuto umanitario qualcosa di
cornol. E oggi sono tanti i Vip che fanno ottenere più visibilità alle campagne
per le quali s’impegnano. Ma a quale prezzo?

«Non andate al pub stasera, restate a casa e dateci il vostro denaro. Ci
sono persone che stanno morendo in questo preciso momento, perciò dateci i
soldi!». Era il 13 luglio del 1985 quando ai microfoni della Bbc Bob Geldof, il
musicista irlandese noto per la sua scarsa propensione a usare mezzi termini,
prorompeva rabbiosamente in questo accorato appello a favore dell’Etiopia in
emergenza carestia. In sottofondo, il bornato delle settantaduemila persone che formavano
il pubblico dello stadio londinese di Wembley accompagnava le esibizioni dei
mostri sacri del rock che si avvicendavano sul palco del Live Aid, il
concerto organizzato dallo stesso Geldof e da Midge Ure, musicista e attivista
scozzese. Il Live Aid era in qualche modo l’approdo di un percorso le
cui tappe precedenti erano state le canzoni Do They Know It’s Christmas
(sempre di Geldof e Ure) e We Are The World, del gruppo di star
statunitensi Usa for Africa.

L’unico precedente di portata e dimensioni comparabili
al Live Aid era stato il concerto per il Bangladesh organizzato dall’ex
Beatle George Harrison e dal musicista indiano Ravi Shankar nel 1971 al Madison
Square Garden di New York, al quale assistette un pubblico di quarantamila
persone e che portò donazioni iniziali per duecentoquarantamila dollari, salite
poi a quattro milioni di dollari con i proventi della vendita dell’album del
concerto.

Ma il Live Aid oscurò di gran lunga il risultato
ottenuto dal pioniere Harrison, imponendosi come uno dei momenti musicalmente
più memorabili del secolo scorso e, dal punto di vista delle donazioni,
raggiungendo nell’immediato circa cinquanta milioni di sterline, e un totale di
centocinquanta milioni aggiungendo i proventi della successiva campagna.

Una cifra colossale destinata ad aiuti umanitari alle
popolazioni del Nord dell’Etiopia afflitte da una carestia che, combinata alle
politiche agricole del governo locale, avrebbe provocato circa quattrocentomila
vittime. Le polemiche non si fecero attendere: cinque mesi dopo l’evento, un
articolo del Washington Post elencava una lunga serie di episodi di
disorganizzazione e incomprensioni fra la Fondazione Live Aid che
gestiva i fondi e le organizzazioni impegnate sul campo per alleviare le
sofferenze degli etiopi. Nel 2005, mentre Geldof stava preparando il Live 8,
un altro mega concerto di sensibilizzazione ai problemi della povertà a
vent’anni dall’illustre precedente, l’opinionista americano David Rieff scrisse
per il Guardian un articolo durissimo in cui spiegava che forse il Live
Aid
aveva permesso, come affermavano i suoi sostenitori, di dimezzare le
vittime della carestia, ma al tempo stesso aveva fornito al governo etiope – il
Derg di Menghistu Hailè Mariam – un sostegno economico che Menghistu usò
per deportare circa seicentomila persone dal Nord al Sud del paese e «villaggizzae»
(cioè riunire forzatamente in villaggi) altri tre milioni. Ufficialmente le
deportazioni e risistemazioni avevano avuto l’obiettivo di salvare la
popolazione da quella carestia che aveva ricevuto ampia attenzione dai media
inteazionali proprio grazie all’iniziativa di Geldof e Ure. In realtà, affermò
Rieff, lo scopo principale del Derg era stato quello di creare un
meccanismo di controllo capillare della popolazione e di contrastare i
movimenti di opposizione intea.

Oltre alle considerazioni riguardanti le conseguenze del
Live Aid sulla popolazione etiope, Rieff avanzava una serie di critiche
che, a ben guardare, possono essere estese anche oggi a tutti gli eventi di cui
la kermesse del 1985 è la madre. Innanzitutto, si chiedeva il
giornalista nel 2005, come si spiegava che l’Africa stesse peggio di vent’anni
prima nonostante le tante iniziative benefiche promosse da personaggi illustri?
E ancora: perché le cause della carestia etiope, che era imputabile non solo
alla natura ma a precise scelte umane (del governo di Menghistu), erano state
totalmente ignorate dagli organizzatori che avevano privilegiato, invece, una
comunicazione basata su semplicismi relativi ai concetti di bisogno, aiuto e
dovere morale?

Le campagne di successo in rete

L’avvento della rete ha offerto ulteriori strumenti alla
mobilitazione e alla sensibilizzazione. Si pensi al caso di Kony 2012.
La campagna contro il sanguinario leader del Lord Resistance Army in
Uganda, Joseph Kony, e le atrocità da lui commesse a danno della popolazione
civile e in particolare dei bambini ha mostrato come un prodotto ben
confezionato dal punto di vista video e altrettanto ben promosso attraverso i social
networks
e i testimonial d’eccezione (due fra tutti: Angelina Jolie e
George Clooney) può ottenere in breve tempo una grande esposizione mediatica.

Anche in quel caso i critici hanno insistito sul
pressappochismo delle informazioni – le operazioni dell’esercito di Kony non si
svolgevano più in Uganda da anni all’epoca della diffusione del video -, sul
fuorviante ricorso a immagini e termini che, pur in grado di coinvolgere
emotivamente lo spettatore, restituivano una visione distorta della realtà e su
come la campagna indicasse come atto umanitario l’invio di truppe statunitensi
in Uganda per «fermare Kony». Eppure, il video è arrivato nel giro di sei
giorni a cento milioni di click fra YouTube e Vimeo, due fra i
principali siti di condivisione dei video.

Italia, il «caso» Mission

Che anche nel mondo della cooperazione italiana stiano
prendendo piede in modo deciso la caccia al testimonial e la conquista
del grande pubblico attraverso una comunicazione spettacolarizzata non è una
novità. Ma Mission, il programma trasmesso in due serate lo scorso
dicembre da RaiUno, è probabilmente l’esempio che più di tutti ha generato
polemiche e sollevato dubbi tutto sommato inediti. Mission, che nelle
parole del direttore della rete Giancarlo Leone è stato «un progetto di social
tv
e non un reality show», ha portato alcuni volti noti della tv e
del giornalismo italiani (Al Bano e le sue figlie, Paola Barale, Emanuele
Filiberto di Savoia, Barbara De Rossi, Michele Cucuzza e altri) per due
settimane nei campi profughi di Giordania, Repubblica Democratica del Congo,
Sud Sudan, Ecuador e Mali allo scopo di prendere parte alle attività delle
organizzazioni umanitarie e di raccontare poi la loro esperienza in studio
commentando le riprese effettuate sul campo. Alla preparazione del programma,
alle riprese e alla trasmissione stessa hanno partecipato funzionari dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) e cooperanti dell’Ong
Intersos, il cui ruolo è stato quello di fornire ai Vip e alla Rai le
informazioni necessarie per evitare di cadere in quella che molti critici, fin
dall’annuncio dell’inizio delle riprese, avevano definito «pornografia
umanitaria». La trasmissione ha ottenuto circa due milioni e duecentomila
spettatori a puntata: un flop per la Rai, ma una mole di persone comunque
irraggiungibile per qualunque campagna di sensibilizzazione di una Ong italiana
di medie o piccole dimensioni.

Se, da un lato, c’è chi ha dato un giudizio positivo su Mission
perché ha acceso le luci su temi che i programmi di prima serata di RaiUno di
solito non affrontano, dall’altro lato molto più numerosi sono stati i critici.
Eugenio Melandri del Coordinamento Iniziative Popolari di Solidarietà
Internazionale (Cipsi) ha parlato di «marchettone natalizio». Luciano
Scalettari di Famiglia Cristiana lo ha definito «il trionfo del dilettantismo e
della noia», «un’occasione sprecata» che ha reso «protagonisti i personaggi
famosi anche se non sanno di cosa stanno parlando». Non così negativa, invece,
l’opinione espressa dal blog Info-cooperazione, punto di riferimento per
gli operatori della cooperazione in Italia, che ha definito Mission un «reportage
compassionevole, il trionfo dell’aiuto assistenziale condito da una televendita
continuativa dell’agenzia Onu per i rifugiati» ma, complessivamente, «nei limiti
della decenza».

Un bilancio

Al di là dei giudizi sulle singole iniziative, ciò che
emerge da una loro analisi è una serie di domande: ottenuta l’attenzione di
milioni di persone, che cosa ne hanno fatto i promotori degli eventi? Quali
messaggi, quali informazioni hanno veicolato? Hanno effettivamente comunicato i
temi dello sviluppo e contribuito a cambiare la percezione del grande pubblico
su di essi? L’impressione è che se l’obiettivo era raccogliere fondi da mettere
poi nelle mani di esperti e tecnici della cooperazione o della risposta alle
emergenze, il bilancio è tutto sommato positivo. Ma se lo scopo era invece
creare consapevolezza nel pubblico, i grandi eventi hanno fallito miseramente.
Il continuo ricorso a termini, immagini e ricostruzioni emotivamente
coinvolgenti ma approssimative e semplicistiche spinge a dubitare che anche
solo uno dei fruitori di queste iniziative sia oggi davvero più informato.
Sarebbe stato necessario mettere in evidenza nel programma televisivo quali
sono gli interessi e i fattori economici, politici e geostrategici che
scatenano conflitti e causano l’esodo in massa di milioni di profughi.

«L’assenza di un’analisi di questo tipo (sulle cause, ndr.)
non ha affatto aiutato i telespettatori a capire come le guerre nei vari paesi
toccati dal reality show facciano guadagnare i commercianti di armi, chi
le produce, le banche che si prestano alle transazioni della compravendita di
armi e i paesi interessati a tener vivo questo business».

«Senza questa essenziale informazione, il programma Mission
ha sollecitato il pubblico a gesti di carità ma ha ridotto l’impegno a un
buonismo sterile che serve solo a superare il nostro senso di colpa. Non è
stato capace, invece, di invitare i telespettatori a un impegno di pace, a individuare
le cause e le complicità che protraggono questi conflitti». Così ha commentato
la Federazione della stampa missionaria italiana di cui MC fa parte.

Che fare?

Resta da capire la parte più importante: perché questa
scelta di comunicazione? Il sospetto è che questo genere di messaggi ed eventi
sia preferito, semplicemente, perché è il più rapido ed efficace per la
raccolta fondi. Esso infatti non richiede un grande lavoro di analisi dei
contesti, e nemmeno uno sforzo di traduzione di quelle analisi in un linguaggio
adatto ai non addetti ai lavori capace di descrivere, spiegare e coinvolgere
senza banalizzare.

La sfida non è quella di raggiungere milioni di persone.
La vera sfida è raccontare storie comprensibili. Coinvolgenti perché più simili
alle loro di quanto non si pensi, o perché riguardano problemi che oggi non
appartengono più a una parte sola del globo, ma a tutti, seppure in misura
diversa da un paese all’altro.

Vengono in mente provocazioni come quella del «meme»
recentemente apparso su Inteet, un’immagine di un panorama africano
accompagnato dalla scritta: «Ogni sessanta secondi, in Africa, è passato un
minuto», in evidente polemica con il modo in cui spesso vengono esposti i dati
sulla mortalità e sulle malattie nel sud del mondo (i vari «Ogni sessanta
secondi in Africa la malaria uccide un bambino» e simili). Oppure ancora lo
spassosissimo video realizzato dal Fondo per l’assistenza internazionale
degli studenti e accademici norvegesi
in cui un paffuto bambino africano
che fa da protagonista per uno spot dal titolo «Salviamo l’Africa!» consola una
giovane donna europea dalle lacrime facili e discute con il regista dello spot
che lo esorta a rispettare il copione. «Dobbiamo creare impegno costruito sulla
conoscenza, non sugli stereotipi», recita la didascalia del video.

Forse, a trent’anni dal Live Aid e considerando i
risultati fin qui ottenuti dalla spettacolarizzazione della comunicazione sullo
sviluppo, gli operatori della solidarietà internazionale, che in definitiva
sono quasi sempre gli attori a cui Vip, media e pubblico in generale  devono appoggiarsi per raggiungere le realtà
di crisi, dovrebbero concentrarsi su strumenti e messaggi più simili a questi
nel ripensare le loro strategie di comunicazione.

Chiara Giovetti

3 DOMANDE A:

Elias Gerovasi,
ideatore e curatore di Info-cooperazione,
il blog degli operatori della cooperazione.

Elias, Info-cooperazione è stato una bella novità degli ultimi anni
nel panorama dell’informazione in Italia, utile non solo per tenere d’occhio i
bandi ma anche per informarsi e partecipare al dibattito sulla cooperazione.
Come è nata l’idea del tuo blog e per quali interlocutori lo hai concepito?

L’idea del blog nasce da alcune esigenze di chi lavora
nella cooperazione, conosciute attraverso il confronto con colleghi che, come
me, operano nel settore per una Ong. Tenersi informati in tempo reale sulle
opportunità di finanziamento è infatti fondamentale per chi deve trovare
quotidianamente le risorse per i progetti. Eppure le informazioni vengono
spesso riservate a cerchie ristrette per interesse sia dei finanziatori che dei
possibili beneficiari. Questo in passato ha limitato molto la competizione tra
Ong e associazioni, e ha anche ristretto le opportunità di partenariato. Poi
c’era una questione di trasparenza che ci stava a cuore: si tratta quasi sempre
di risorse pubbliche, e quindi ci deve essere massima pubblicità e trasparenza.
Fino a pochi anni fa, e forse anche oggi, era difficilissimo sapere come
venissero spesi i soldi, quali fossero, per esempio, gli esiti dei bandi
pubblici. Con il blog abbiamo voluto dare una risposta a questi bisogni e
questo è stato fortemente gradito soprattutto dagli operatori e dai volontari
di Ong e associazioni che non hanno capacità di lobby presso i donatori e le
istituzioni. Certo, abbiamo anche reso la vita più difficile a qualcun altro:
mi viene in mente l’esempio di una Fondazione che normalmente riceveva una
trentina di proposte progettuali da finanziare ogni anno e se ne è viste
arrivare oltre 600 dopo la pubblicazione del bando su Info-cooperazione.

Col passare dei mesi ci siamo resi conto che la
limitazione d’informazioni non riguardava solo le opportunità finanziarie.
Qualche migliaio di operatori del settore, infatti, sentiva una mancanza di
rappresentanza e la necessità di uno spazio di discussione. La rete ha dato
questa opportunità con lo strumento banale e semplice di un blog. Tanti
colleghi hanno iniziato a contribuire mandando suggerimenti su temi da trattare
o articoli con opinioni sugli argomenti caldi che la cooperazione si trova ad
affrontare in un periodo come quello odierno definito ormai da tutti di «crisi
di identità». Il resto si è fatto grazie al tempo e all’interesse dei lettori
che non ci aspettavamo assolutamente potessero arrivare alle cifre attuali.
Tieni conto che il blog si fa nei ritagli di tempo e nel weekend, ed è basato
sul contributo volontario, in tutti i sensi. 

Live Aid, Live 8, star di Hollywood come testimonial; qui
da noi, Lorella Cuccarini a Goma nel 2006 con Trenta ore per la vita e,
più di recente, l’esperienza di Mission. Qual è il tuo bilancio su
questo ruolo, negli ultimi trent’anni, dei grandi eventi e dei grandi
personaggi per comunicare la solidarietà internazionale?

Purtroppo anche questa dinamica è già arrivata alla sua
esasperazione. I testimonial si trovano sui cataloghi delle agenzie di Pr (Public
relations
, ndr) e comunicazione. Trovare testimonial veri e impegnati come
ai tempi di Live Aid è oggi quasi impossibile. Non credo si debba
condannare il coinvolgimento di testimonial in sé. Quando è stato fatto in modo
genuino l’ho trovato anche utile e interessante.

Ma oggi non è più così, le Ong per garantirsi un impatto
forte in termini di visibilità e raccolta fondi si affidano al marketing
e ai comunicatori che replicano su questo settore logiche commerciali molto
raffinate incontrando gli interessi dello show business e dei personaggi
noti alla ricerca di una charity da aiutare. Nel settore ambientale gli
inglesi lo chiamano green-wash, quando un’azienda inquinante sostiene
attività «verdi» per ripulire la propria immagine. Qui in molti casi si tratta
di charity-wash (ripulire la propria immagine attraverso gesti di «carità»).

Purtroppo trattandosi di una simbiosi perfetta credo che
il fenomeno sia destinato a un’ulteriore esasperazione, tanto che alcuni Vip
faranno solo questo di mestiere e alcune Ong avranno più testimonial che
volontari.

Molti, fuori dal «recinto» degli addetti ai
lavori, trovano la solidarietà e lo sviluppo temi noiosi, o tristi, o troppo
impegnativi. Secondo te è un dato di fatto che si tratti di argomenti non
facilmente comunicabili? O siamo noi operatori della cooperazione che sbagliamo
strategia e, in questo caso, che cosa dovremmo cambiare?

Che si tratti di temi tristi e impegnativi non c’è
dubbio. Ma non è vero che non siano comunicabili. Credo che il «problema madre»
del nostro settore in fatto di comunicazione sia solo uno: pretendere di
sensibilizzare l’opinione pubblica e contemporaneamente di raccogliere fondi .
O meglio, in molti casi, sensibilizzare al solo fine di raccogliere fondi.

Hai fatto l’esempio di Mission, la trasmissione
di RaiUno che ritengo abbia rappresentato in pieno questo modello diventando
un’occasione persa. Il mondo dei rifugiati è stato raccontato in modo melenso,
pietista e superficiale al solo fine di veicolare una campagna di raccolta
fondi e di fare il charity-wash della Rai. Eppure in passato mi è
capitato di vedere film o documentari e sentire canzoni che mi hanno fortemente
sensibilizzato su diversi temi legati alla povertà e alla giustizia sociale, ma
non avevano uno scopo di raccolta fondi e credo abbiano raggiunto il loro
obiettivo, quello di aprire gli occhi dell’opinione pubblica su drammi e
ingiustizie del mondo. Ritengo che la sfida di comunicare al grande pubblico,
seppur difficile, sia possibile affrontarla e vincerla soprattutto se si sta
alla larga dal fund raising.

E poi non c’è solo la Tv, pensa ai milioni di email e
lettere che ogni mese le nostre Ong recapitano ad altrettanti italiani: anche
questa è comunicazione e potrebbe essere utilizzata per veicolare qualche
contenuto.

Se ti mando una lettera con una gigantografia di un
bambino denutrito morente accompagnata da un bollettino postale dicendoti che
solo tu potrai salvare quel bimbo, voglio sensibilizzarti sulla malnutrizione
infantile in Africa o semplicemente scucirti soldi raccontandoti una storia
semplice, parziale e volontariamente drammatizzata? Anche queste sono occasioni
perse e perpetuano una comunicazione errata della povertà e dello sviluppo
globale.

Ma prepariamoci al peggio, in futuro questo capiterà
anche con la politica con l’avvento della raccolta fondi dei partiti a seguito
della progressiva abolizione dei finanziamenti pubblici. Pensa ai partiti che
dovranno convincere i cittadini a donare e firmare il 2×1000 dell’Irpef nelle
dichiarazioni dei redditi, non voglio pensare a cosa manderanno nelle nostre
caselle postali!

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Micro è bello (e fa bene)

Il 2 luglio del 1971 Paolo VI istituisce la Caritas
Italiana, organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana per la
promozione della carità, che formalizza e lancia uno strumento di fatto
presente dal 1969: la microrealizzazione. Oggi, quarantadue anni dopo, le
microrealizzazioni portate a termine sono oltre tredicimila. Viaggio alla
scoperta di un’idea di solidarietà che continua a godere di ottima salute.

Micro azioni per macro valori

1967
– 1970: guerra del Biafra.
Le immagini e le storie di
milioni di persone colpite dal conflitto e dalla fame nella regione
sudorientale della Nigeria fanno il giro del mondo. L’entusiasmo per la
stagione della decolonizzazione – inaugurata nel 1946 in Medio Oriente da
Libano e Siria e nel Sudest asiatico dalle Filippine, mentre a Sud del Sahara
il primato spetta al Ghana di Kwame Nkrumah nel 1957 – lascia progressivamente
il posto alla presa di coscienza che nuovi drammi e crescente povertà stanno
soffocando il sogno di un’umanità pacificata e incamminata verso un avvenire di
benessere e pace per tutti dopo l’immane tragedia della seconda guerra
mondiale.

Il
Terzo mondo, termine che fino a quel momento aveva indicato quasi asetticamente
il blocco di paesi diversi da quelli aderenti alla Nato o al Patto di Varsavia,
diventa sinonimo di povertà, fame e sottosviluppo.

È
in questo contesto che sui bollettini Italia Caritas appaiono analisi in cui si
denuncia che il 30% dell’umanità dispone dell’85% delle risorse, si afferma che
«i poveri non ce la fanno da soli», che la risposta agli squilibri e
ineguaglianze può venire non solo da grandi interventi e cospicui investimenti
ma anche da piccole opere che incidano sul quotidiano e, infine, che nelle
comunità donatrici, così come in quelle riceventi, occorre un impegno politico
nutrito dalla conoscenza dettagliata delle realtà disagiate per intervenire
davvero sulle cause strutturali e non solo sui sintomi della povertà. La rete
che rende possibile la comunicazione fra le comunità è costituita da Caritas
italiana, Caritas diocesane e parrocchiali, che fanno da ponte fra i gruppi
umani coinvolti nel Nord e nel Sud del mondo e favoriscono uno scambio in
entrambe le direzioni.

La
microrealizzazione, recita il sussidio «Micro azioni per macro valori» della
Caritas (EDB, 2011), si configura come «la messa in opera, in loco, di
un’iniziativa intesa a risolvere con rapidità alcuni bisogni contingenti di una
piccola comunità» e «destinata a sviluppare sul piano umano e sociale il
livello di vita delle persone, delle comunità e quindi di tutto il territorio».
Dal punto di vista di chi dona, non si tratta di semplice «slancio emotivo e
contingente», ma di «crescita nella comprensione della carità che […] è sempre
necessaria come stimolo e completamento della giustizia». Ecco perché gli
elementi fondanti della microrealizzazione (termine sostituito progressivamente
dalla più «tecnica» definizione di «microprogetto») sono la relazione solidale
diretta fra due comunità – una, nel Sud del mondo, che chiama, e una, nel Nord,
che risponde – e l’educazione alla mondialità, che fornisce quelle informazioni
e conoscenze grazie alle quali si supera l’elemento puramente emotivo e si
percepisce la solidarietà come impegno nei confronti di altri inquilini della «casa
comune»: il mondo. Tutti siamo responsabili di tutti, scrive Giovanni Paolo II
nell’enciclica Sollicitudo rei socialis del 1987, come a voler
sintetizzare proprio questa idea.

Il
povero, dunque, non è più qualcuno che passivamente riceve aiuto e assistenza,
ma una persona che realizza la sua dignità in una comunità capace di individuare
i propri problemi, proporre soluzioni e mettersi in contatto con un’altra
comunità in grado di mobilitare le risorse necessarie per attuare quelle
soluzioni, in una collaborazione il cui obiettivo è quello di liberare dal
bisogno, di riparare la barca comunitaria e non solo di tamponare
temporaneamente una falla. Questa spinta dal basso è concepita come elemento
fondamentale anche nel determinare le scelte dall’alto: la consapevolezza dei
meccanismi alla base della povertà, da un lato, e la partecipazione attiva
all’individuazione delle soluzioni, dall’altro, hanno il potenziale di indurre
anche una serie di comportamenti diversi quanto a stili di vita e scelte
politiche dei cittadini e elettori, nel Nord come nel Sud del mondo. Nel
microprogetto, insomma,
carità e giustizia trovano la loro sintesi, sintesi che in tempi più recenti ha
cominciato a concretizzarsi anche attraverso la microfinanza, in particolare il
microcredito: questo tipo di intervento è forse quello che più di tutti
valorizza il beneficiario come persona titolare di diritti e in grado di
assumersi responsabilità di fronte alla propria comunità, che si impegna a
garantire per il singolo coprendo collettivamente i costi di un mancato
rimborso del credito. Non solo. La microfinanza porta con sé una critica
all’attuale economia disumanizzata e incurante dei diritti della persona: la
garanzia, infatti, non è data da un bene che il beneficiario mette a copertura
del credito ricevuto (ad esempio attraverso un’ipoteca sulla casa), ma viene
dal rapporto di fiducia fra il beneficiario e la comunità e fra questa e la
comunità donatrice. L’obiettivo della microfinanza è quella di permettere ai
soggetti cosiddetti non bancabili (che, cioè, non potrebbero avere accesso al
credito delle banche) di disporre comunque di un fondo con cui avviare
un’attività. Tale attività, poi, non ha il solo scopo di garantire il benessere
del beneficiario, ma di migliorare la condizione collettiva di una comunità e
di includere ulteriori persone nell’accesso al credito. La più che
quarantennale esperienza delle microrealizzazioni dimostra che sono proprio gli
anelli più deboli della catena comunitaria ad aver risposto in modo più
soddisfacente alla proposta della microfinanza e ad essee valorizzati: le
donne e i giovani emarginati.

Missioni Consolata Onlus e i microprogetti

Il
microprogetto ha un vantaggio fondamentale rispetto agli altri, più estesi e
complessi, progetti di cooperazione allo sviluppo: è concreto, immediato e più
facilmente gestibile. In un contesto come quello missionario in cui il grado di
conoscenza dei «nuovi» strumenti di solidarietà (nuovi rispetto alla più
classica forma della donazione da parte di un benefattore) varia molto da
contesto a contesto e da missionario a missionario, il microprogetto è il modo
più efficace per coniugare semplicità e rigore e per consentire alle comunità
di acquisire dimestichezza con lo strumento del progetto.

Missioni
Consolata Onlus collabora con Caritas da anni. Solo dal 2010 a oggi sono
quattordici i progetti dei missionari della Consolata che Caritas ha sostenuto
in Africa, Asia e America Latina. Ne passiamo brevemente in rassegna alcuni,
quelli che meglio permettono di illustrare i diversi tipi di intervento.

Il
progetto Emergenza zud ha permesso di assecondare lo sforzo dei
missionari nel sostenere le comunità colpite nel 2010 in Mongolia da un’ondata
anomala di gelo che aveva messo in ginocchio migliaia di persone e il bestiame
da cui queste dipendevano. Si è trattato di un tipo di intervento contemplato
da Caritas, quello appunto di risposta alle emergenze, che però riserva fin da
subito un occhio attento al «dopo» per non creare dipendenza nelle popolazioni
soccorse e per ideare fin da subito strategie di stabilizzazione post-crisi
umanitaria.

Il
progetto Avvio di un allevamento di capre a Monte Santo, Bahia
(Brasile) è un esempio di attività generatrice di reddito impeiata
sull’acquisto e distribuzione di capre a un gruppo di famiglie locali, che si
sono impegnate a fornire come contributo locale i serragli per il bestiame. Nel
medio periodo, l’intenzione è quella di passare dalla produzione di latte per
l’autoconsumo alla vendita a una cornoperativa locale che produce latticini.

Il
progetto Formazione professionale delle ragazze di Bisengo Mwambe,
Kinshasa (RD Congo) ha permesso a sessantadue ragazze congolesi di ricevere
formazione in sartoria e disporre delle macchine da cucire e della stoffa
necessarie per la pratica e la produzione, a fine corso, di manufatti per la
vendita.

Chiara Giovetti

 
L’Opinione
 


Tre domande a Francesco Carloni,


di Caritas Italiana

1. Puoi fare uno o più esempi di microprogetti «di successo»,
cioè piccoli progetti che più di altri hanno generato nella comunità ampie
ricadute innescando meccanismi di consapevolezza e volontà di elaborare autonomamente
soluzioni ai problemi della comunità stessa?

Il primo microprogetto di sviluppo, finanziato e realizzato
nel giugno del 1970, riguardava l’acquisto di materiale e attrezzatura
sanitaria per un reparto di pediatria a Maracha in Uganda; quel piccolo
intervento fu determinante per accreditare l’ospedale nel più vasto circuito
della sanità del paese. Nel 2013 l’ospedale è ancora funzionante, a pieno
regime. Da allora, senza soluzione di continuità, sono stati finanziati oltre
tredicimila microprogetti in quasi tutti i paesi e in oltre la metà delle
diocesi del mondo. Durante questo lungo percorso di cooperazione con le chiese
e le comunità locali, tanti sono stati gli ambiti di bisogno che sono stati
oggetto di microprogetto. Oltre ai tradizionali settori d’intervento, come
l’acqua, l’agricoltura, la sanità, negli ultimi anni molte delle richieste
pervenute hanno avuto come oggetto il lavoro.

Mi chiedi alcuni esempi: in Paraguay, con un finanziamento
di 3.200 euro, 15 famiglie indios trasferitesi a Ciudad del Este hanno
acquistato 10 carretti per intraprendere autonomamente la raccolta di carta e
ferro ottenendo in pochi mesi un aumento significativo del proprio reddito. In
Guinea Conacry, con 4.500 euro, 50 detenuti della prigione di Zérékoré hanno acquistato
attrezzature e materiali per avviare un laboratorio che produce sapone per il
mercato locale. In Vietnam 200 famiglie, con 5.000 euro, hanno potuto
acquistare 35 kg di semi di riso per riprendere la produzione nelle loro risaie
devastate da un tifone: la solidarietà vicendevole permette loro oggi di
congiungere la produzione per la vendita e la ridistribuzione dei semi.

2. L’educazione alla mondialità è fondamentale, specialmente
oggi, ma a volte rischia di raggiungere solo gli addetti ai lavori e chi già ha
sviluppato questo tipo di sensibilità. Che cosa si può fare per raggiungere
fasce sempre più ampie di cittadini e come la si può «raccontare» in modo che
emerga in modo comprensibile a tutti la sua rilevanza nell’oggi?

Per uscire dalla «cerchia degli addetti ai lavori» una
strada, che ritengo vincente oggi, è quella di riproporre con forza, a tutti
gli uomini di buona volontà, dei segni concreti che riportino la dimensione
della mondialità a essere trasversale e strettamente connessa alle azioni di
solidarietà internazionale e tutela dei dritti: significa costruire, proporre,
realizzare progetti «parlanti».

3. Una domanda scomoda: che cosa risponderesti a chi dice
che i microinterventi rischiano di essere delle «pezze» che tengono
faticosamente insieme nell’immediato delle realtà nel Sud del mondo? Non pensi
che richiederebbero un ripensamento molto più ampio circa le dinamiche alla
base della povertà, dell’ingiustizia, dell’esclusione e un cambio di rotta più
netto (specialmente da parte delle élites politiche locali) nella direzione di
una più equa distribuzione della ricchezza?

Rispondo che l’efficacia di un microprogetto di sviluppo
pensato, progettato e realizzato dagli stessi soggetti che si trovano in un
determinato bisogno, ha fin dalla sua fase di studio la stessa altissima
possibilità di successo di un grande progetto, che in fondo è costituito da
tanti microprogetti. La costruzione di risposte dal basso, pensate da chi ne
dovrà beneficiare, rappresenta in tutte le parti del mondo, oggi in particolar
modo, non una «pezza» ma un vestito di tessuto pregiato, il pregio derivando
dal fatto che trama e ordito sono un originale intreccio di peculiarità,
conoscenze e «voglia di fare» locali. (C. Gio.)


Chiara Giovetti




Uno sviluppo a tutto biogas

Produrre energia pulita con prodotti, rifiuti e residui
biodegradabili locali, liberandosi progressivamente della dipendenza dai
combustibili fossili come il petrolio e dai conflitti a essi legati, e
diminuendo i costi per i cittadini e le aziende. Non si tratta di uno slogan
che descrive il sogno a occhi aperti di un manipolo di visionari, ma di una
realtà che va prendendo forma nella vita di milioni di persone, e che getta
tutto il suo peso sulla bilancia dei temi che decidono le consultazioni elettorali.

Le
fonti di energia rinnovabili hanno oggi un peso che era impensabile solo pochi
anni fa, se è vero che nelle recenti elezioni tedesche, che hanno confermato Angela
Merkel alla guida del paese, sono state uno dei temi caldi. Quel tipo di fonti è
responsabile di ben un quinto della produzione energetica della Germania.
L’ambizioso piano tedesco per abbandonare i combustibili fossili entro il 2050
si sta rivelando più costoso del previsto per i cittadini, che si sono trovati
un aumento di circa il venti per cento sulla quota della bolletta che va a
sostenere gli incentivi alle rinnovabili (da 5,3 a 6,5 centesimi di euro per
chilowattora).

Fra queste fonti rinnovabili ci sono le biomasse che la
Direttiva Europea 2009/28/CE definisce come «la frazione biodegradabile dei
prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura
(comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie
connesse, comprese la pesca e l’acquacoltura, nonché la parte biodegradabile
dei rifiuti industriali e urbani». Sottoponendo una biomassa a un processo di
digestione o fermentazione anaerobica (cioè in assenza di ossigeno) è possibile
produrre biogas, composto per circa il settanta per cento da metano, che può
essere usato per la combustione (cioè ad esempio per far funzionare un
fornello) oppure, attraverso un ulteriore passaggio in un cogeneratore,
trasformato in energia elettrica. Il digestato, cioè il sottoprodotto della
digestione, può essere utilizzato come fertilizzante. Oltre al metano, il
processo di digestione produce anidride carbonica (CO2); questo,
tuttavia, non ha effetti sul riscaldamento globale poiché quella quantità di
anidride carbonica sarebbe stata prodotta comunque dalla biomassa nel suo
naturale decomporsi.

Secondo il rapporto 2012 della Iea, l’agenzia
internazionale per l’energia fondata dall’Organizzazione per la Cooperazione e
lo sviluppo economico (Ocse), i biocombustibili, fra cui il biogas,
rappresentano a livello mondiale circa il dieci per cento della produzione
totale di energia. In Italia, secondo il rapporto 2013 dell’Osservatorio
Agroenergia, a fine 2012 erano 850 gli impianti di biogas in funzione, per un
fatturato complessivo di due miliardi e mezzo di euro e un potenziale di
produzione pari a 5,6 miliardi di metri cubi l’anno. L’Osservatorio ha
calcolato che «il biometano può arrivare a coprire fino al dieci per cento del
consumo lordo di energia (scenario di “crescita accelerata”) o circa il 5%
(scenario di “crescita moderata”) al 2020». Il Consorzio italiano biogas stima
in un miliardo e mezzo di euro il risparmio che deriverebbe dal non dover
comprare gas dall’estero e ricorda che l’industria italiana del biogas dà
attualmente lavoro a circa dodicimila addetti.

Sulla carta, quindi, quella delle biomasse è
un’opportunità da non perdere per ridurre la dipendenza italiana dal gas
importato, pari a circa settanta miliardi di metri cubi l’anno. La
realizzazione pratica, tuttavia, non si sta svolgendo senza intoppi. Da un
lato, infatti, ci sono casi di successo come quello di Bertiolo, in provincia
di Udine, dove il biogas è stato ribattezzato il «petrolio verde». L’impianto
della Greenway, società che riunisce dieci aziende agricole locali,
produce oltre ottomila megawattora di elettricità in dodici mesi e ha creato un
giro d’affari di circa un milione di euro all’anno. La filiera corta, cioè
basata su operatori che agiscono in un territorio circoscritto e in contatto diretto
fra loro, è indicata dai produttori come una condizione imprescindibile per il
successo dell’iniziativa: i produttori, infatti, ricavano da circa trecento
ettari di coltivazioni locali tutta la materia prima necessaria per far
funzionare l’impianto, senza spese aggiuntive per trasporti delle materie prime
e creando un indotto importante per i piccoli paesi della zona.

Ma accanto a casi virtuosi come quello friulano, ce ne
sono altri nei quali la situazione non è così rosea: a Ponte Guerro, in
provincia di Modena, i cittadini hanno ingaggiato una lunga battaglia con Hera,
il gestore dell’impianto di biogas, esasperati dai miasmi prodotti dalla
centrale locale; il Centro Documentazione Conflitti Ambientali, nell’ambito
della campagna Green Lies (Bugie Verdi) che indaga i lati oscuri della green
economy
ha poi raccolto in un documentario le testimonianze dei cittadini
di Bondeno (Ferrara) e Mezzolara (Bologna) dai quali emerge che l’alimentazione
degli impianti a biogas previsti dal piano energetico regionale richiederebbero
seicentomila ettari di mais coltivati localmente e il conseguente
sconvolgimento dell’uso tradizionale dei terreni agricoli del ferrarese e del
bolognese.

Il documentario segnala inoltre «mancanza totale di
coinvolgimento e corretta informazione dei cittadini (…); piani di sviluppo
lontani dalle necessità e dall’esigenza dei territori e dei cittadini che lo
abitano; sistemi di incentivi sregolati che non permettono lo sviluppo graduale
e sostenibile di nuove economie locali a medio e lungo termine; assenza di
reali e efficienti misure di valutazione dei progetti, di controllo degli
impianti e del trattamento dei residui pericolosi e di future misure di
bonifiche; mancanza di conoscenza e curiosità tecnica da parte dei decisori che
avallano progetti inadatti».

Infine va considerato lo stravolgimento dei prezzi di
mercato nei casi di siccità (come è successo nel 2012) e, quindi, di scarsa
produzione, perché il bisogno di biomasse assorbe anche il prodotto vergine
destinato all’alimentazione animale e umana.

In assenza di una regolamentazione chiara e univoca e
guardando al biogas nella sola ottica del business, insomma, il rischio è
quello di trasformare una possibile occasione di crescita economica in
un’attività che danneggia il territorio. L’Energy & Strategy Group
del Politecnico di Milano, proprio partendo dall’analisi di questi rischi, ha
raccomandato di tornare al principio del chilometro zero: piccoli impianti
sostenibili alimentati da scarti agricoli e forestali locali e non da biomasse
vergini, cioè da prodotti coltivati ex-novo con lo scopo di essere
utilizzati per la produzione di biogas.

Il biogas nel Sud del mondo

Il biogas sta rivelandosi una novità dai risvolti
potenzialmente decisivi anche per le economie del Sud del mondo. Si
moltiplicano, anno dopo anno, i progetti sostenuti dalle istituzioni
inteazionali e dalle Ong con l’obiettivo di rispondere alla crescente domanda
di energia dei paesi in via di sviluppo, e diversi rapporti illustrano i
vantaggi di cui beneficia chi si è lanciato nella nuova avventura del biogas.
La Thomas Reuters Foundation riporta il caso di Parshottambhai Shanabhai
Patel, un contadino dello Stato di Gujarat, nell’India nord-occidentale, che
dal 2009 produce biogas grazie al quale fa funzionare il suo impianto di
irrigazione. Con duecento chili al giorno di letame delle sue vacche riesce a
produrre energia per otto – dieci ore e non deve più affrontare il costo, pari
a quattrocento euro l’anno, per il gasolio che alimentava la pompa. Inoltre,
soddisfatti i bisogni della propria fattoria, Patel può vendere l’energia in
avanzo agli altri coltivatori per sessanta rupie (circa un dollaro) all’ora.

Il Christian Science Monitor illustra poi
l’esempio della scuola di Gachoire, nel Kenya centrale, dove le acque reflue
delle latrine usate dagli oltre ottocento ragazzi della scuola vengono
convogliate nel digestore e convertite in gas per i fornelli della cucina. E
ancora, secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), gli
scarti di un mattatornio a Dagoretti e la raccolta dei rifiuti a Kibera (due slums
di Nairobi) permettono di soddisfare, rispettivamente, il fabbisogno energetico
per il funzionamento del mattatornio e il fornello comunitario. I benefici per
l’ambiente derivano ovviamente anche dal fatto che i rifiuti animali del
macello non finiscono più nel vicino fiume (che era stato ribattezzato «il
fiume di sangue») e che la raccolta di rifiuti ha migliorato la salubrità del
quartiere.

Energypedia,
l’enciclopedia dell’energia avviata fra gli altri dall’agenzia di cooperazione
internazionale tedesca (Giz – Gesellschaft für Inteationale Zusammenarbeit),
riporta che il consumo energetico kenyano viene soddisfatto per oltre due terzi
dalla legna da ardere e dalla carbonella; la richiesta di legna sarebbe pari a
trentacinque milioni di tonnellate annue e rimane inevasa per oltre la metà.
Con questi numeri, è evidente che il rischio di deforestazione per il paese è
altissimo e il biogas può davvero rappresentare una svolta verso una soluzione
che impedisca la devastazione del patrimonio forestale del paese.

Mediamente, nei paesi in via di sviluppo, gli impianti
sono di piccole, se non piccolissime, dimensioni e vanno a sopperire alla
richiesta energetica di singole famiglie o comunità. Il rischio, nel Sud del
mondo come nel Nord, è quello delle speculazioni da parte di grandi produttori
industriali o società finanziarie.

Chiara
Giovetti

Progetto_____________________

La Fiamma di Natale

Quest’anno, la campagna di
Natale di Missioni Consolata Onlus si concentra su un tema
apparentemente poco natalizio: il biogas.

Questa volta abbiamo dato
un’interpretazione diversa del «regalare la vita» (lo slogan delle nostre
passate campagne): «preservare la vita che ci dà la Terra».

Su un pianeta che si sta
suicidando, utilizzando indiscriminatamente le risorse naturali a vantaggio di
pochi, l’attenzione per i temi dell’ambiente non può essere un lusso radical
chic
da occidentali ma un problema di tutti, ovunque. Un cittadino del Sud
del mondo ha diritto come chiunque altro a vivere in un ambiente pulito,
salubre, in un territorio non devastato da disastri ambientali provocati dalla
deforestazione e dall’inquinamento. L’energia, che permette di cucinare, di
pulire, di illuminare deve poter essere a disposizione di tutti.

Ecco perché quest’anno
abbiamo scelto di sostenere il progetto biogas di Familia ya Ufariji, a
Kahawa West, un quartiere della periferia di Nairobi.

Familia ya Ufariji
(Famiglia della Consolazione) è una casa d’accoglienza per bambini e ragazzi di
strada fondata nel 1996 dai Missionari della Consolata. Oggi ospita sessanta
bambini cui fornisce vitto e alloggio, istruzione e cure mediche. Da anni, Familia
ha avviato una serie di attività agricole che hanno il doppio risultato di
permettere alla struttura di contribuire al proprio mantenimento e ai ragazzi
ospitati di collaborare alle attività, apprendendo tecniche agricole che
permetteranno loro di avere una competenza professionale da utilizzare per il
proprio sostentamento.

Nella piccola fattoria di Familia
ci sono attualmente sei vacche e tre vitelli che possono fornire letame per far
funzionare un impianto per la produzione di biogas. Il gas prodotto sarà
utilizzato per integrare ed eventualmente sostituire la legna, il gas Gpl e gli
scarti del mais attualmente utilizzati per il fuoco della cucina. Un digestore
di ventiquattro metri cubi sarà sufficiente per fornire il gas a un fornello.

Padre Lorenzo Cometto e
fratel Kenneth Wekesa si occuperanno della realizzazione del progetto,
coadiuvati da tecnici locali specializzati per garantire che il piccolo
impianto sia costruito e messo in funzione nel rispetto delle norme di
sicurezza. Il costo del progetto è di 8.156 euro. Anche una piccola donazione
può servirci per acquistare le cistee, il cemento, i tubi e tutto il
materiale necessario alla realizzazione del digestore e alla sua messa in
funzione. (Chi. Gi.)

Maggiori informazioni sui dettagli del progetto sono
disponibili sul sito di Missioni Consolata Onlus:
www.missioniconsolataonlus.it

Chiara Giovetti




Carità? Per carità!

Due libri provocano un acceso dibattito sulla cooperazione: «L’industria
della carità» di Valeria Furlanetto e «La carità che uccide» di Dambisa Moyo.
Il primo, recentissimo, si riferisce alla cooperazione delle organizzazioni
no-profit, il secondo, del 2010, è critico sugli aiuti mandati da nazioni ed
enti inteazionali. Quando la cooperazione si riduce a carità» – non certo
quella evangelica – invece di far crescere può uccidere o mantenere nella
dipendenza.

La carità che non funziona

Feste
a base di alcol e musica cornol in mega-ville stile Califoia alle porte
di città africane martoriate dalla guerra, jeep che sfrecciano sugli sterrati
del Sud del mondo per portare i cooperanti dall’ufficio alla palestra e poi al
ristorante di lusso, bilanci non pubblicati o non trasparenti, donazioni che si
perdono per strada, milioni di euro spesi in marketing e pubblicità. E
ancora: volontari che strattonano vecchiette terremotate per trascinarle
davanti a una telecamera e farsi riprendere mentre le «aiutano»; offerte
investite in titoli azionari invece che inviate sul campo; bambini fatti
diventare magicamente orfani con un tratto di penna su un documento per darli
in adozione a ignare coppie nel Nord del mondo; organizzazioni no-profit
tramandate ereditariamente di padre in figlio come fossero aziende; manager
strapagati e accordi con i «cattivi» delle multinazionali. Il mondo della
beneficenza che Valentina Furlanetto descrive nel suo libro L’industria
della carità
, uscito nel gennaio 2013 e edito da Chiarelettere, assomiglia
più a un brutto cine-panettone che all’ambiente virtuoso dove opera «l’Italia
migliore che non teme il mondo», come l’ex ministro per la Cooperazione Andrea
Riccardi ha definito gli operatori della solidarietà internazionale al Forum di
Milano dello scorso autunno.

Criticato
ancora prima che uscisse, il libro è stato definito dai suoi (tanti) detrattori
«scientificamente inconsistente» (Stefano Zamagni, presidente della non più operativa Agenzia per il Terzo Settore), «un
pasticcio dove si mescolano tutto e il contrario di tutto» (Andrea Pinchera di Greenpeace),
«un’occasione persa» (Konstantinos Moschochoritis di Medici senza Frontiere),
solo per citare alcune opinioni. Che realtà anche molto diverse (Ong, onlus,
cornoperative, livello nazionale e internazionale, aiuti pubblici e privati)
vengano nel libro superficialmente sovrapposte e appiattite è un dato di fatto;
che lo stile dell’autrice tradisca a volte la volontà di polemizzare più che
quella di mantenere l’obiettività – tante lo occasioni in cui dice: «dovrebbe
essere così. Peccato che sia cosà» – è pure vero. Che alcuni dati
citati siano discutibili o approssimativi è indubbio. Infine, che a pagina 189
la lingua dell’Etiopia diventi l’aramaico (invece che l’amarico) fa perfino un
po’ sorridere.

Al
netto di questi tanti limiti anche chi scrive trova che il libro della
Furlanetto sia un’occasione persa, ma per motivi opposti a quelli dei critici
citati sopra: è un’occasione persa per fare autocritica. E per provare a
spiegare al pubblico come stanno le cose senza facili indignazioni, altezzosa
autoreferenzialità e quell’orribile linguaggio «sviluppese» che non solo è
sgradevole, ma anche incomprensibile ai più, vediamo in dettaglio alcuni punti.

Cose che il libro non dice

Furlanetto
non dice che il mondo del no-profit è tutto un magna-magna. Non
sono forse di cooperanti delle Ong (Viviana Salsi, Enrico Crespi, Silvana e gli
altri) le critiche più feroci al «circo umanitario» citate nel libro? Segno che
l’autrice sa che la solidarietà (o beneficenza, che però è tutta un’altra cosa;
ma su questo toeremo dopo) non consiste solo in sprechi, errori, distrazioni
di fondi, ma è fatta anche di persone e organizzazioni oneste e appassionate.
Di Medici Senza Frontiere, ad esempio, Furlanetto ricorda la serietà di cui
l’organizzazione diede prova, nel 2004, nel comunicare che i fondi raccolti per
lo tsunami avevano superato le capacità operative dell’organizzazione e
nell’offrire ai donatori di scegliere tra farsi restituire i soldi o dare
l’assenso perché fossero impiegati altrove.

Fatta
eccezione per questi contenuti, l’autrice non parla del buono e dà ampio spazio
al marcio. Ma il titolo del libro non è «Trattato sulla cooperazione», non ha
pretese di esaustività e analizza dichiaratamente un lato, o un volto, di un
fenomeno. Si trattasse anche di un Giano bifronte, se non di un poliedro a più
facce, resta chiaro che c’è almeno un altro volto e che, semplicemente,
Furlanetto non lo sta raccontando.

La
giornalista trevigiana, però, sembra sbilanciata (forse un po’ demagogicamente)
verso il lato dei piccoli donatori interessati a sapere che fine fanno i loro
soldi, mentre la sensazione è che la presenza di questo interesse da parte di
chi dona non sia sempre così scontata. Siamo sicuri che chi invia due euro via
sms dopo aver visto il viso sfigurato dal pianto di un bambino di Haiti voglia
davvero sapere, vedere, toccare con mano il fatto che quei due euro sono
diventati il riso che quel bambino sta mangiando? In Italia gli utenti iscritti
a Facebook sono ventidue milioni: possibile che chi è tecnologicamente
alfabetizzato abbastanza per scambiarsi battute su un social network con gli
amici non sia anche in grado di scrivere una mail a un’associazione per
chiedere conto dell’utilizzo dei fondi? Eppure non succede, o succede solo
molto di rado: perché? Perché spesso la solidarietà in Italia è appunto solo
carità (non nel senso usato nell’editoriale di MC 3/2013, ndr), se non
una mera reazione di pancia, non interessata a capire e conoscere quello che
sta attorno all’immagine del bambino che piange e come quell’attorno,
passaggio dopo passaggio, arrivi fino al nostro quotidiano, al carrello delle
spesa, al telefonino che compriamo, al mezzo con cui ci spostiamo.

La
misura del fallimento della solidarietà internazionale – italiana come estera –
non è solo nel saldo fra danno e utile nelle azioni compiute sul campo, ma
anche, e forse soprattutto, nei numeri irrisori di persone che le
organizzazioni sono state fin qui capaci di sensibilizzare e informare davvero.
Se ci fosse un modo semplice ed efficace per illustrare, ai donatori e al
pubblico in generale, come quello che scegliamo di comprare, mangiare, usare ha
conseguenze molto più ampie di quel che sembra e rischia di elidere i benefici
portati da una donazione, la solidarietà internazionale cambierebbe
radicalmente. Ma un modo semplice non c’è. Ed è proprio nella ricerca di un
metodo efficace che le organizzazioni di solidarietà internazionale si sono
miseramente arenate, cedendo invece a un marketing a volte pietistico
che nulla ha a che fare con lo sforzo di informare – «educare» è un termine di
cui preferiamo non abusare – l’audience esposta ai messaggi promozionali.

Cose che il libro dice

Furlanetto
parla di sprechi, di truffe e di cooperanti che in Italia pagherebbero duecento
euro per un letto in una stanza doppia alla periferia di una grande città e
invece sul campo hanno begli appartamenti con cuoco, servizio di pulizia,
autista e guardiano; di funzionari che parlano di «progetti che vendono», di
manager di Ong inteazionali che guadagnano quanto i loro omologhi delle
multinazionali, di colossi del profit che si lavano coscienza e immagine
collaborando con enti no-profit e di Ong che si prestano a questi
connubi sostenendo che in tal modo possono meglio controllare i «cattivi».

Che
faccia più notizia uno di questi eccessi di quanto lo facciano i progetti e le
realtà che funzionano non è nulla di nuovo; ciò non toglie che gli eccessi
esistano davvero e chiunque è stato nel Sud del mondo per più di una settimana
ha avuto modo di imbattersi in una o più di queste situazioni. Molte delle
critiche al libro utilizzano la formula: «È vero, la mala gestione esiste, ma
le cose che funzionano sono di più di quelle che non funzionano». Ma è anche
vero che ci sono tonnellate di campagne di promozione dei progetti e di
comunicati stampa che ci spiegano quanto bene operino le organizzazioni attive
nell’umanitario o nelle emergenze e quante belle cose facciano. Per questo le
bordate à la Furlanetto – ovviamente quando verificate, ben documentate
e equilibrate – controbilanciano quell’incensare se stesse in cui le
organizzazioni spesso finiscono per indulgere.

A
questo proposito, l’autrice insiste molto proprio sulla grande quantità di
risorse che vengono impiegate dalle Ong per marketing e promozione.
Furlanetto non è sola nell’avanzare perplessità. Il 43° World Economic Forum
di Davos, Svizzera, ha dedicato un approfondimento proprio al mondo delle Ong,
rilevando che queste appaiono sempre più perse nella burocrazia e sottolineando
che chi vince nella raccolta fondi è spesso non chi fa meglio il proprio lavoro
ma chi è più efficace nella comunicazione.

La carità che uccide

Ma
non è solo quello che non funziona che merita di essere dibattuto e il rischio
connesso alle discussioni provocate da L’industria della carità è quello
di spostare l’attenzione da temi che stanno un passo indietro (o un gradino
sopra) rispetto alla mala gestione, e cioè la riflessione sul perché, più che
sul come, della cooperazione.

Un
merito del libro della Furlanetto è quello di riprodurre in modo abbastanza
fedele il punto di vista del grande pubblico attraverso semplici scelte
lessicali: termini come «beneficenza», «carità», «generosità» e «aiuto» ci
dicono forse molto di più di quello che era nelle intenzioni dell’autrice e cioè
che nel nostro paese (e probabilmente anche all’estero) la solidarietà continua
a essere percepita più come un gesto di buoni sentimenti a senso unico che una
effettiva partecipazione a bisogni e assunzione di responsabilità che sempre di
più travalicano i confini nazionali e riguardano la comunità umana nel suo complesso.
Nei forum sulla cooperazione continuano a emergere in maniera sempre più
chiara una serie di dati di fatto che mettono in discussione il senso stesso
della cooperazione, se è vero che il più grande contributo al benessere dei
paesi del Sud del mondo viene dalle rimesse dei loro stessi cittadini emigrati
all’estero e che paesi un tempo beneficiari degli aiuti sono ora potenze
economiche in ascesa.

Non
solo. Non si era ancora spenta l’eco delle polemiche suscitate dal libro della
sociologa camerunese Axelle Kabou, E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?
– uscito in Italia nel 1995 e fortemente critico nei confronti delle élite e
delle popolazioni africane a suo parere responsabili del sottosviluppo quanto,
se non di più, dei paesi ex colonizzatori e delle istituzioni finanziarie
inteazionali – che l’economista zambiana Dambisa Moyo ha rincarato la dose
con il suo La carità che uccide.

Il
testo di Moyo, anch’esso criticatissimo, parte dalla constatazione che dopo
cinquant’anni di interventi e mille miliardi di dollari in aiuti allo sviluppo
riversati sul continente nero dalle istituzioni inteazionali (Moyo non si
occupa di Ong) l’Africa sta peggio di prima e si chiede, quindi, se non sia il
momento di interrogarsi seriamente sul senso stesso di questo aiuto che ha
creato nazioni di mendicanti condannate a una perenne adolescenza economica.
Secondo l’economista zambiana, la via che l’Africa dovrebbe seguire per uscire
dalla dipendenza sarebbe quella di prendere esempio dalle economie emergenti
asiatiche, incoraggiare le politiche cinesi di investimento su larga scala in
Africa, battersi per una reale apertura al libero commercio in ambito agricolo,
promuovere la microfinanza, rendere meno costoso per gli emigrati l’invio delle
rimesse e riconoscere agli abitanti delle baraccopoli il titolo di proprietà
legale sulla casa in modo che questa possa essere usata come garanzia. Kabou e
Moyo concentrano la loro attenzione sull’Africa; ovviamente Asia e America
Latina meriterebbero una trattazione a parte dei loro problemi specifici.
Tuttavia, molte delle riflessioni sulla dipendenza creata dagli aiuti e sulla
differenza fra carità e giustizia valgono anche per continenti diversi
dall’Africa.

Ben
vengano i dibattiti provocati da libri che raccontano storie di mala
cooperazione. Quella di una comunità umana con legami sempre più inestricabili
che vive drammi globali tangibili per tutti, però, è un’altra storia e non si
racconta né si fa con un sms.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti