La cooperazione nel carrello della spesa

 

In questo numero proponiamo una riflessione e qualche indicazione per chi vuole fare solidarietà internazionale tutti i giorni. A partire dalla spesa al supermercato. O, meglio ancora, nel piccolo negozio di quartiere e di paese.

Cominciamo con un esempio concreto. Sono le sette di sera e ti trovi al supermercato di quartiere per fare la spesa settimanale. Mentre metti nel carrello i soliti prodotti, tuo figlio, accanto a te, ben esposto a un bel po’ di cartoni animati mescolati a pubblicità, sta facendo di tutto per sottrarti la guida del carrello e condurlo a velocità supersonica lungo le corsie de negozio. All’improvviso si ferma come folgorato davanti al banco frigo: ha visto la sua merendina preferita. Cerchi di convincerlo a provae un’altra, che costa un po’ meno e forse è anche più sana, ma lui pianta una grana epocale che rischia di finire con lacrimoni caldi e grida disperate fra gli sguardi indignati degli altri clienti. Alla fine cedi: dopo una lunga giornata di lavoro e a pochi minuti dalla chiusura del supermercato non hai proprio le energie per gestire una scenata.

Toi a casa e, dopo cena, t’imbatti in un articolo sul giornale: la multinazionale Merendinia, produttrice del dolcetto tanto amato da tuo figlio, è accusata di sfruttare il lavoro minorile in Costa d’Avorio, nelle piantagioni di cacao dalle quali viene uno degli ingredienti della merendina. Ripensi allo scorso Natale, quando hai donato cinquanta euro a un’organizzazione che lavora proprio in Costa d’Avorio, dove i bambini sono spesso costretti a lasciare la scuola per andare a lavorare, in condizioni di semi schiavitù, nelle piantagioni locali. L’obiettivo dell’organizzazione è quello di contrastare il fenomeno sostenendo attraverso il microcredito le famiglie dei bambini e riportando questi ultimi a scuola.

E se fossero gli stessi bambini? Se è così, allora significa che con cinquanta euro dati all’associazione per Natale fai studiare un bambino, mentre con un euro di merendina a settimana per cinquanta settimane all’anno finanzi chi impedisce a quel bambino di andare a scuola.

Sull’onda della scoperta appena fatta ti metti a navigare su internet e poi a esplorare la tua casa: il detersivo per i piatti, nell’etichetta posteriore, reca il logo di un’altra grande multinazionale, anche questa accusata di gravi violazioni dei diritti dei lavoratori, così come il cibo per la gatta, che leggi essere prodotto con pesce pescato da piccoli schiavi birmani in Thailandia. Te ne vai a dormire con un bel mal di testa: sembra che qualsiasi cosa faccia (o compri), sbagli.

behind-the-brandsChe cosa c’è a monte?

È ovvio che questa ricostruzione del quotidiano di una persona è fittizia e si limita a connettere fra di loro alcune informazioni: è difficile risalire con questa accuratezza la catena che porta nelle nostre case cibo e oggetti la cui produzione ha causato un danno a un preciso essere umano in Africa, Asia, America Latina.

E, tanto per complicare ulteriormente la faccenda, c’è anche il panorama visto dal Sud del mondo: i lavoratori delle piantagioni Del Monte in Kenya, infatti, non hanno alcuna intenzione di boicottare la multinazionale. Dicono: «Noi la vogliamo eccome, la Del Monte, perché ci dà lavoro. Vogliamo solo che ci paghi meglio e che non ci faccia perdere la salute». Che dire poi del latte in polvere – spesso Sma milk (prima di proprietà della farmaceutica Pfizer e dal 2012 della Nestlè) o Bebelac (Danone) – che si vede fra le braccia dei bambini nei campi di rifugiati siriani? Ovvio che nell’immediato serve il latte Danone in Siria e serve il lavoro offerto dalla Del Monte in Kenya. Ma che cosa sta a monte della malnutrizione dei bambini siriani o delle lotte dei contadini keniani? Se c’è un campo rifugiati con dei bambini malnutriti è perché c’è un’emergenza umanitaria generata da un conflitto. Se i lavoratori keniani chiedono salari più alti e diritti basilari è perché non li hanno.

Il punto, allora, è come evitare che una soluzione immediata – il latte, il lavoro – ipotechi una soluzione più duratura, stabile ed equa. Come evitare, cioè, che una multinazionale sia così potente da imporre sempre, e non solo nei casi di emergenza, il latte in polvere? O che le grandi piantagioni trasformino i paesi del Sud del mondo in infei ambientali abitati da masse di salariati a basso costo dove non è più possibile alcuna iniziativa autonoma locale e da cui le persone continueranno a emigrare, come e più di oggi?

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Il potere del consumatore

Ma che c’entrano il genitore e la merendina con questi fenomeni così vasti e lontani? C’entrano per il fatto stesso di fare la spesa. Facendo la spesa si compie un gesto apparentemente insignificante: basta mettersi sul cavalcavia di un’autostrada e osservare il gran numero di camion che trasportano i prodotti che consumeremo per sentire noi stessi e la nostra borsa della spesa irrilevanti.

Ma il consumo può essere un’arma molto potente. In un piccolo supermercato di quartiere, in un negozio di paese, la scelta di un solo cliente sposta poco o nulla. Ma quella di dieci consumatori già appare nelle tendenze di vendita che il negoziante esamina a fine mese. E quella di cento consumatori lo costringe a cambiare gli ordini ai fornitori.

Sulle conseguenze economiche e politiche delle scelte consapevoli di consumo è in corso una approfondita riflessione: il «votare con il portafoglio» di cui parla ad esempio l’economista Leonardo Becchetti.

Il mondo del consumo consapevole, però, non è né semplice né lineare. Somiglia, in certe sue sfaccettature, al mondo che ci hanno raccontato le nonne, in cui era impensabile mangiare lasagne di martedì, si lavavano i panni con la cenere e non si buttava niente. Dopo decenni di ipermercati e di consumo compulsivo, quella sobrietà sta – per scelta o per necessità – tornando pian piano ad apparire nel dibattito pubblico. Ma la narrativa delle origini a volte sembra più che altro al servizio del marketing e rimanda alla naturalità di un’età dell’oro forse mai esistita. Non negli ultimi cent’anni, almeno, se è vero che anticrittogamici e concimi chimici erano in uso in Italia già negli anni Venti del secolo scorso e che a partire dagli anni Sessanta diverse varietà di frumento sono state irradiate: uno degli esempi più noti è il grano Creso, ottenuto nel 1974 dopo un processo di irraggiamento del grano Senatore Cappelli.

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Il chilometro zero

Ma veniamo agli aspetti del consumo consapevole legati alle economie (e quindi agli abitanti) del Sud del mondo e limitiamoci per brevità all’ambito alimentare. Uno dei principi molto in voga negli ultimi anni è quello del chilometro zero, cioè, in estrema sintesi, il consumo di prodotti il più vicino possibile alla zona di produzione. Al di là dell’ovvio vantaggio per i produttori locali, il chilometro zero favorirebbe l’ambiente perché trasporti più brevi implicano meno emissioni di CO2. Quelle stesse emissioni di cui tanto s’è parlato al Cop21 – la conferenza sull’ambiente che si è svolta a Parigi alla fine dello scorso anno – e il cui effetto nefasto sul clima colpirebbe specialmente i paesi del Sud del mondo. Ecco dunque che il consumo locale in Europa o Stati Uniti aiuta indirettamente anche i paesi del Sud del mondo attraverso la riduzione delle emissioni. Tutto bene, allora? Quasi. Se il consumo locale viene da serre riscaldate con impianti fotovoltaici forse sì. Ma se, per alzare la temperatura nelle serre, si bruciano tonnellate di gasolio, allora forse no. In questo caso può darsi che trasportare frutta dall’Africa o dall’America Latina produca meno danno all’ambiente del chilometro zero di serra. La stagionalità dei prodotti, dunque, è l’altro elemento da considerare: a gennaio sono sostenibili i cavolfiori, non i pomodori.

Ma non è finita qui: secondo uno studio del britannico Istituto Internazionale per l’ambiente e lo sviluppo (Inteational Institute for Environment and Development), circa un milione e mezzo di coltivatori africani dipendono dal consumo dei loro prodotti nel Regno Unito. Vale la pena, si chiede lo studio, di privare del sostentamento un milione e mezzo di persone per ridurre le emissioni britanniche dello 0,1 per cento eliminando i voli dall’Africa carichi di frutta e verdura? Non sarebbe meglio ridurre invece gli oltre duecento chilometri che in media un inglese percorre in auto annualmente per andare ad acquistare cibo? Le emissioni prodotte da questi spostamenti rappresentano lo 0,38 per cento del totale annuale, quattro volte quelle generate dal trasporto aereo di frutta e verdura dall’Africa.

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Il commercio equo

Altro grande protagonista del consumo consapevole è il commercio equo e solidale, o fair trade di beni provenienti dal Sud del mondo prodotti con criteri non solo orientati al profitto ma anche a garantire un reale beneficio per le comunità locali. Le più recenti critiche al fair trade vengono da una ricerca di un’università inglese, la Scuola di studi Orientali e Africani (Soas), e dallo studio dell’economista senegalese Ndongo Samba Sylla della Rosa Luxemburg Foundation. In breve, le conclusioni raggiunte dallo studio Soas sono che in Etiopia e Uganda – i paesi presi in esame dalla ricerca – le condizioni dei lavoratori appartenenti al circuito del commercio equo sarebbero addirittura peggiori rispetto a quelle dei lavoratori del circuito tradizionale, mentre Sylla insiste specialmente sui limiti del sistema di certificazione per ottenere il «bollino fair trade» che, a detta del ricercatore senegalese, penalizza proprio i paesi più poveri e meno organizzati, in particolare quelli africani. A partire dallo studio di Sylla, l’Economist si è spinto a concludere che il commercio equo è servito più a tranquillizzare le coscienze nei paesi ricchi che a contrastare seriamente la povertà nei paesi in via di sviluppo. Come se l’eticità stessa fosse anch’essa un bene di consumo che si compra insieme alle banane. Secondo i critici del fair trade, insomma, il cibo soddisfa un bisogno fisico, il fatto che il cibo sia «etico» soddisfa un bisogno morale, ma entrambe le cose sono, in definitiva, merce.

La risposta di Agices, l’Assemblea generale italiana del commercio equo e solidale, non si è fatta attendere: il presidente Alessandro Franceschini ha ammesso che, in effetti, su «15 milioni di euro di importazioni da produttori di commercio equo da parte delle organizzazioni nostre socie, solo l’11% arriva dal continente africano». E che «c’è ancora molto da lavorare». Ma ha anche sottolineato che lo studio Soas prende in considerazione solo due paesi foendo perciò una lettura parziale. Quanto alle certificazioni, il sistema rappresentato da Agices si basa sulla relazione tra organizzazioni nel Nord e nel Sud del mondo, «il cui lavoro è reciprocamente garantito», più che sulla certificazione.

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Quasi un secondo lavoro

Si potrebbero fare molti altri esempi, non solo relativi al cibo, di come le nostre scelte di consumo pesano sui luoghi e le persone nel Sud del mondo che hanno prodotto ciò che consumiamo. Come si fa a orientarsi? Difficile sottoscrivere senza riserve affermazioni come: se compri prodotti fair trade, se fai acquisti a chilometro zero, allora sei sicuro di non far danni. E questa forse è una prima indicazione: aderire una volta per tutte, in maniera fideistica, a una linea di consumo critico è… acritico.

Per informarci su quel che consumiamo ci sono strumenti come il sito promosso dalla Ong Oxfam Scopri il Marchio che, per ogni prodotto selezionato, mostra una valutazione della multinazionale produttrice basata sul trattamento dei lavoratori, sul rispetto del diritto alla terra, sull’attenzione per l’ambiente. Altro strumento è il rapporto diretto e fiduciario con chi vende, un rapporto che la Grande distribuzione organizzata (Gdo) ha indebolito ma che ci permetterebbe di ottenere informazioni e chiedere conto della provenienza di quel che acquistiamo.

Inutile illudersi: tutto questo si scontra con i colossi della Gdo e della grande produzione, con le loro efficientissime macchine di marketing che remano nella direzione opposta, e trovare le informazioni per contrastare questi fenomeni richiede tempo, a volte così tanto che sembra quasi un secondo lavoro.

E, naturalmente, il presupposto è che fare questa operazione di conoscenza ci interessi: il genitore che fa la spesa di corsa e probabilmente con un limite di spesa preciso spesso non ha né tempo né voglia di approfondire e compra quel che è più conveniente. Ma il prezzo di questo apparente risparmio di tempo e denaro è piuttosto salato: significa rinunciare in partenza a tentare di scegliere non solo quello che mettiamo nel carrello, ma anche quali salari avremo domani se il mercato mondiale ci impone di renderli competitivi con il quelli bassi del Sud del mondo, o quanti migranti economici e ambientali busseranno ancora alle porte dell’Europa perché i loro paesi sono stati devastati da cambiamento climatico, monocolture su grande scala, estrazione mineraria selvaggia.

Chiara Giovetti




Pornografia del dolore

Qualcuno la chiama «pornografia del dolore», e la definisce uno sfruttamento dei drammi altrui per ottenere denaro. Qualcun altro, invece, pensa che mettere lo spettatore di fronte a immagini forti serva per spingerlo a reagire a un’ingiustizia. Il dibattito va avanti da anni e, nel mondo della cooperazione, con particolare intensità. Lo riprendiamo ora per capire a che punto siamo.

 

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Per parlare delle immagini con cui rappresentiamo i paesi in via di sviluppo bisognerebbe cominciare dal principio. Cioè dalla fonte dell’immagine, colui o colei che ne è il soggetto. A chiunque abbia passato più di qualche giorno in viaggio in Africa è capitato di puntare l’obiettivo della macchina fotografica o della videocamera e di trovare, dall’altra parte della lente, una mano aperta a coprire il volto e la voce di qualcuno che dice pas de fotos, no picture: niente foto (o video). Chiedere perché no? ottiene una serie di possibili risposte. Fra queste: «perché ho vergogna», «perché poi la usi per fare soldi», «perché in Europa fate vedere solo che siamo poveri». Queste frasi non rappresentano, ovviamente, l’unico punto di vista, ma sarebbe fuorviante non tenee conto.

Quando ci si trova in un paese in via di sviluppo perché si è operatori di Ong o organizzazioni inteazionali, però, le persone con cui si hanno contatti sono nella maggioranza dei casi i beneficiari dei progetti di cooperazione. È raro che una mano si frapponga fra volto e obiettivo perché in genere c’è un rapporto di fiducia fra chi raccoglie le immagini (di solito un membro dell’organizzazione oppure un professionista da questa incaricato) e chi viene ritratto, che è informato e consapevole.

Però, anche con queste premesse, che uso è davvero corretto fare di quelle immagini? È giusto mostrare persone in un momento di sofferenza, dolore, difficoltà estrema se lo scopo è coinvolgere attraverso tv e giornali quanta più gente possibile a sostenere iniziative che mirano a eliminare quella sofferenza, difficoltà e dolore? Ed è lecito tentare di allargare l’audience servendosi di personaggi famosi in grado di catturare l’attenzione di quella parte di pubblico che meno s’interessa di questi problemi? Queste sono le domande intorno alle quali ruota il dibattito che, ciclicamente, rimette in discussione i metodi usati dalle organizzazioni per la raccolta fondi.

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Spot contro la fame o fame di spot?

L’episodio che negli ultimi mesi ha riaperto la polemica è uno spot della ong Save The Children, che dal 2013 ha lanciato una campagna di raccolta fondi sostenuta da video. L’ultimo, dell’inizio 2015, mostra «John», un bambino malnutrito, che respira con affanno, con la pancia gonfia, la pelle disidratata e lo sguardo intontito. Dopo di lui, una bambina piange sommessamente e un altro piccolo è appoggiato al fianco della madre, debolissimo e con le ossa visibili sotto la pelle. (La versione inglese del video include anche, alla fine, l’immagine di una borsa con il logo della ong che i donatori riceveranno come ringraziamento per il contributo).

«Immagini strazianti che durano un’eternità», hanno commentato Pier Maria Mazzola e Marco Trovato di Africa, la rivista dei Padri Bianchi, in un editoriale dal titolo Fame di spot. Dopo i bambini degli altri video, rincarano gli autori, «adesso tocca a John impietosire i telespettatori per strappar loro nove euro al mese». Questo «ripescare il crudele cliché dello scheletrino africano», spinge Mazzola e Trovato a chiedersi che ne è stato della Carta di Treviso, il protocollo su informazione e minori approvato nel 1990 da Ordine dei giornalisti italiani e Telefono Azzurro: è un documento che disciplina solo l’informazione giornalistica, «ma la questione riguarda tutti». Al punto 7 la Carta afferma che «nel caso di minori malati, feriti, svantaggiati o in difficoltà occorre porre particolare attenzione e sensibilità nella diffusione delle immagini e delle vicende al fine di evitare che, in nome di un sentimento pietoso, si arrivi a un sensazionalismo che finisce per divenire sfruttamento della persona». «Vale solo per i bambini bianchi?», chiedono gli autori.

Quello della tutela dei minori non è l’unico problema. Ce n’è un altro al quale, ammettono gli editorialisti, anche i missionari in passato hanno contribuito: quello di rafforzare «il già ben radicato immaginario coloniale dell’Occidente sull’Africa». Cioè di continuare a dipingere il continente – e il Sud del mondo in genere – come un luogo bisognoso e indifeso il destino del quale deve essere deciso altrove, sdoganando così un colonialismo «a fin di bene».

Daniele Timarco, direttore dei programmi inteazionali di Save the Children Italia, intervistato da Eleonora Camilli su Redattore Sociale, ha opposto che quelle immagini sono quelle viste ogni giorno dagli operatori impegnati sul campo: «Proprio perché inaccettabili, sono immagini anche giuste da trasmettere con l’obiettivo di sensibilizzare e spingere le persone a reagire con indignazione». «Le immagini sono state realizzate con il consenso dei genitori», ha aggiunto Timarco, «con il coinvolgimento dei bambini e delle bambine e della comunità stessa. Molto spesso sono le famiglie stesse che ci chiedono di raccontare la loro vera storia, di far vedere la drammaticità delle loro situazioni». Quel che interessa Save the Children, ha concluso il suo funzionario, è «toccare la coscienza delle persone al di là del contributo economico».

Di confine fra sensibilizzazione e pornografia del dolore, peraltro, si era già parlato con Mission, il «reality umanitario» che vedeva impegnati diversi personaggi televisivi – Al Bano, Paola Barale, Emanuele Filiberto di Savoia e altri – in viaggi su campo in diversi paesi africani e latinoamericani. In quell’occasione la reazione del mondo delle Ong fu altrettanto polemica e le argomentazioni a favore e contro molto simili (vedi MC 3/2014 p. 74).

La situazione normativa

Il dibattito si è riaperto lo scorso novembre con la proposta di Nino Santomartino, responsabile della comunicazione dell’Associazione delle ong italiane (Aoi), di avviare un tavolo di lavoro con organizzazioni no profit, realtà della comunicazione e dell’informazione, professionisti, consulenti e ricercatori. Obiettivo: arrivare a «un codice di condotta e a un organismo autonomo di autodisciplina». I riferimenti normativi non mancano, vedi il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale emanato dall’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria. L’articolo 46 del codice è tutto dedicato alla comunicazione sociale, che deve evitare di «sfruttare indebitamente la miseria umana nuocendo alla dignità della persona, né ricorrere a richiami scioccanti tali da ingenerare ingiustificatamente allarmismi, sentimenti di paura o di grave turbamento».

Vi sono poi diversi testi che possono orientare la riflessione, come le linee guida elaborate dalla soppressa Agenzia per il Terzo settore o la Carta di Trento per una migliore cooperazione, documento la cui redazione ha coinvolto molte realtà no profit italiane. Molto citato è il Codice di condotta adottato dalle Ong irlandesi: i principi cardine richiedono, fra le altre cose, di rappresentare non solo il contesto specifico ma anche quello più ampio, di evitare immagini e messaggi che possano creare uno stereotipo, discriminare persone, situazioni o luoghi o creare sensazionalismo, di non utilizzare immagini, messaggi, e casi di studio senza la piena comprensione, partecipazione e autorizzazione dei soggetti coinvolti, garantendo loro la possibilità di comunicare le loro storie o versione dei fatti e rispettare la loro volontà di essere o meno nominati o identificati.

Ma il problema sta nelle immagini?

In attesa delle evoluzioni normative che il tavolo di lavoro proporrà, vale comunque la pena di chiedersi se questa vicenda non sia il riflesso di un insuccesso che ha radici più lontane.

Save the Children ha fatto sapere che la campagna ha permesso alla ong di «acquisire più di 14.000 nuovi donatori regolari». Il punto, allora, non è solo «il cliché dello scheletrino africano», il punto è che quel cliché funziona. I donatori di Save the Children sono «colonialisti a fin di bene»? Forse. Impegnarsi a contribuire ogni mese non è più il non informarsi per pigrizia e il limitarsi a lavarsi la coscienza per Natale. Però, forse, potrebbero fare un salto di qualità in più, che non riescono ancora a fare perché nessuno ha fornito loro le informazioni che permetterebbero di tenere a bada le emozioni e di ragionare, come ricorda il sociologo Fabrizio Floris, sul fatto che «la fame ha cause legate alla iniqua distribuzione delle terre fertili, alla mancanza d’acqua, al cambiamento climatico, alle guerre, alle dittature che usano gli aiuti in cambio di consenso, alla scarsa produttività agricola e zootecnica: la pancia gonfia è l’effetto».

Chi doveva fornire queste informazioni se non le organizzazioni che lavorano sul campo e perché, dopo trent’anni di cooperazione, ancora questi temi faticano a uscire dal recinto degli addetti ai lavori?

Mettere un limite normativo all’uso d’immagini è un modo per evitare di diffondere un messaggio parziale e fuorviante. Trovare un modo efficace di diffondere un messaggio corretto, però, è un’altra storia. La mani aperte a proteggere i visi dagli obiettivi probabilmente servono anche a dire che è mancato questo.

Chiara Giovetti

 

5 domande a padre Gigi Anataloni

direttore di Missioni Consolata

 

Direttore, la compassione è un tema caro ai cristiani e mai come ora, con il Giubileo sulla misericordia in atto. Come si distingue fra compassione e pietismo?

Compassione è «patire con». Ha compassione non tanto chi versa una lacrima, mette una monetina o stacca un assegno e poi continua come prima, ma chi si sporca le mani, chi fa diventare l’emozione uno stimolo per cambiare il suo stile di vita oltre che per aiutare gli altri a migliorare la propria.

«Poografia del dolore» significa usare il dolore per vendere. Sei d’accordo con questa definizione, usata da chi critica l’uso d’immagini forti per le campagne di raccolta fondi?

L’espressione è provocatoria e fa riflettere. La condivido, certo, e mi chiedo perché proprio quel mondo che ha criticato tanto i missionari del passato accusandoli di patealismo, oggi senta il bisogno di comunicare così. Mi sa tanto di una mossa quasi disperata in risposta all’assuefazione e all’indifferenza, alla crisi economica che attanaglia tutto e tutti, ai tagli degli aiuti pubblici per la cooperazione, al moltiplicarsi di onlus (anche micro) che erodono l’efficacia del 5×1.000 e frammentano la base dei sostenitori, e all’aggravarsi dei problemi di tutti in questa situazione di «terza guerra mondiale» e di emergenza climatica. Il rischio, nell’uso di immagini simili, è quello di peggiorare sia l’assuefazione che l’indifferenza. Ma quando le proposte ragionate non funzionano, che fare?

Lo spot di Save The Children, come a suo tempo il reality Mission, sono solo gli episodi più recenti di un fallimento comunicativo che sembra avere radici più lontane. Che cosa si doveva fare diversamente – anche nel mondo missionario – per comunicare il Sud del mondo senza pietismi e stereotipi?

Più che di fallimento comunicativo direi che si tratta di un cambiamento profondo nel modo di comunicare. Un tempo, e vado indietro anche cent’anni, erano solo le poche riviste missionarie, come MC, che pubblicavano immagini forti. Anzi, posso dire che le edulcoravano perfino per renderle più accettabili al nostro pubblico (per esempio, mettevano i vestiti a chi normalmente non li aveva). Il risultato era comunque garantito, sia nel cercare di presentare con rispetto che nel suscitare sentimenti di partecipazione. Oggi, invece, le immagini forti arrivano a tutti: tante, troppe, insistenti. Il disastro diventa spettacolo e si confonde con la fiction. Di conseguenza, ecco il problema: come far capire che non si tratta di una fiction e come catturare l’attenzione abbastanza a lungo da far sì che l’emozione diventi azione, sia pur breve, puntuale e mirata? Ecco le immagini che toccano prima il cuore, nella speranza che arrivino anche alla ragione. Un nome, una storia, un’immagine penetrano più di un ragionamento. Solo una minoranza – e sono quelli che già si impegnano nella solidarietà a vari livelli – hanno voglia di andare oltre le prime emozioni per approfondire e cambiare il proprio modo di vivere.

Credo che il mondo missionario cerchi da anni di offrire una comunicazione onesta sul Sud del mondo. Il risultato? Forse un frutto sono le centinaia (o migliaia) di Ong (e le persone che in esse si impegnano non solo a dare qualcosa ma anche a camminare con…) che fanno una cooperazione diversa e responsabile. Perché altrimenti ci sarebbe da essere scoraggiati: le riviste missionarie sono drasticamente ridimensionate, i missionari sono una specie in via estinzione, al volontario subentra il volonturista, le disuguaglianze sociali sono aumentate ovunque – primo mondo compreso, c’è la «pornografia del dolore»…

Immagini «pugno nello stomaco», gadget, accessori alla moda in regalo ai donatori: le Ong si sono adeguate a un approccio più tipico del profit. E il profit, dal canto suo, si sta avvicinando, almeno superficialmente, alla cooperazione allo sviluppo (vedi iniziative delle aziende, specialmente quelle più grandi, volte a farle apparire impegnate nel sociale). Come giudichi questa «contaminazione»?

Mi confonde che Ong e onlus, ma anche noti santuari e Istituti di carità, si affidino ad agenzie specializzate nell’e-commerce e fundraising, soprattutto in periodi ad alto impatto emotivo come il Natale. O dovrei consolarmi con «il fine giustifica i mezzi»? Mi domando però cosa possa significare in questo contesto la frase di Gesù «semplici come colombe e scaltri come serpenti». E non ho risposte certe. Conosco la difficoltà oggettiva di chi ha urgenza di fondi e non riesce a convincere i donatori nel modo corretto e nel rispetto dei beneficiati. Allora, anche per i più motivati e responsabili, c’è il rischio di cedere alla tentazione del «lassativo» del diavolo, come diceva un vecchio missionario: «Il denaro è sterco del diavolo, ma se trovassi il lassativo giusto gli farei avere una bella diarrea». Però – e credo fortemente in questo – penso che a lungo temine sia meglio rischiare l’impopolarità della correttezza che cercare il risultato immediato. Anche una sola persona in più che aiuti per le giuste ragioni è più importante di cento che sganciano soldi per togliersi il disturbo o per sentirsi a posto.

Sulla base di quali criteri e principi MC sceglie le immagini che pubblica?

Bellezza, rilevanza, verità. L’immagine deve essere «bella» e presentare bene e con rispetto la persona che vi è rappresentata. Idealmente l’immagine dovrebbe essere quasi un’opera d’arte. Poi deve essere «rilevante» rispetto alla storia raccontata ed essere «veritiera» (rispecchiare quanto più possibile la verità della situazione e dei fatti, senza manipolarla). In quale ordine usare questi tre criteri? Dipende. Certo la bellezza passa a volte in secondo piano, perché molti dei nostri corrispondenti non sono fotografi professionisti e fanno foto esteticamente «povere», nonostante abbiano molta verità da comunicare.

La verità, però, non è sempre piacevole. E se è discutibilissimo che un’Ong debba sfruttare l’immagine dei vari piccoli «John» del mondo, è ancor più discutibile, anzi è vergognoso, che esistano ancora dei bambini che vivano nelle condizioni di quel piccolo. E questo bisogna avere il coraggio di dirlo, con forza.

Chi.Gio.




TTIP, sogno  o incubo?

Qualcuno ne parla
come di una «Nato economica», pensata per rafforzare le relazioni commerciali
nel blocco Usa-Ue, che da solo conta 850 milioni di persone e rappresenta il
40% del Pil mondiale. Altri lo dipingono come il peggiore dei mali:
consegnerebbe le nostre economie alle multinazionali e cancellerebbe anni di
lotte per i diritti di consumatori e lavoratori. A che punto siamo e che cosa
sappiamo sul Ttip, il Partenariato transatlantico per il commercio e gli
investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership).

«Con il Ttip vogliamo aiutare i cittadini e le imprese, grandi e piccole,
attraverso le seguenti azioni: apertura degli Usa alle imprese dell’Ue;
riduzione degli oneri amministrativi per le imprese esportatrici; definizione
di norme per rendere più agevole ed equo esportare, importare e investire». Così
la Commissione Europea, nella guida Il Ttip visto da vicino, riassume
gli obiettivi dell’accordo che dal 2013 è oggetto delle negoziazioni fra la
stessa Commissione e il governo statunitense. Si tratterebbe, in sostanza, non
solo di eliminare i dazi doganali, che peraltro sono già molto ridotti (circa
al 3%) per la maggior parte dei beni, ma soprattutto di ridurre le cosiddette
barriere non tariffarie, cioè tutto quell’insieme di norme, standard e
regolamenti che di fatto impediscono l’ingresso delle merci in un mercato. Ma
la riduzione di tali barriere avrebbe conseguenze devastanti, controbattono i
detrattori del Ttip. Un esempio? È grazie agli standard Ue, più elevati
rispetto a quelli Usa, che la carne dei bovini americani, allevati con ormoni,
non ha potuto, fino a ora, arrivare sulle tavole europee. Tale uso, infatti, è
consentito negli Usa e vietato in Europa. Lo stesso vale poi per gli organismi
geneticamente modificati e per i prodotti alimentari trattati con pesticidi
banditi nel vecchio continente ma non negli Stati Uniti (se ne contano ben 82).

Altro tema caldo del trattato è il meccanismo di
arbitrato internazionale per risolvere eventuali controversie in materia di
investimenti, il cosiddetto Isds, Investor-State Dispute Settlement, che
prevede il ricorso a un tribunale indipendente nel quale gli arbitri – si legge
sul sito del Parlamento europeo – non sono giudici a tempo pieno, ma avvocati
specializzati in diritto commerciale. Per capire come funziona in concreto
l’Isds, basti pensare ai due casi «Vattenfall contro Germania». Nel primo caso,
la Vattenfall, azienda svedese del settore energetico e costruttrice della
centrale a carbone di Amburgo, fece ricorso contro i parametri che la città
tedesca nel 2009 voleva imporre per legge allo scopo di migliorare la qualità
delle acque che la centrale a carbone della compagnia svedese riversava nel
fiume Elba. Nel secondo caso, il ricorso della Vattenfall fu invece contro
l’abbandono del nucleare deciso dalla cancelliera tedesca Angela Merkel nel
2011 dopo il disastro di Fukushima: l’azienda svedese gestiva infatti due
centrali atomiche nel Nord del paese. In entrambi i casi il colosso svedese
sostenne che le decisioni tedesche generavano aumenti dei costi o perdite, in
violazione del Trattato energetico europeo, che protegge gli
investimenti nel settore energetico, e chiese compensazioni per 1,4 miliardi di
Euro nel primo caso e per 3,7 nel secondo.

 

Tutto in gran segreto

Prima ancora che il Ttip nei suoi contenuti, comunque, a
scatenare la polemica è stata la segretezza delle trattative, affidate a un
gruppo di negoziatori guidati, per l’Ue, dallo spagnolo Ignacio Garcia Bercero,
capo della Direzione Generale del Commercio e, per gli Stati Uniti, da Dan
Mullaney, rappresentante commerciale aggiunto degli Usa per l’Europa e il Medio
Oriente. Dal luglio 2013 al luglio 2015 si sono svolti dieci round di
negoziati, ma i dettagli dell’accordo sono rimasti per lo più segreti. In più,
quando la Commissione ha deciso, lo scorso gennaio, di rendere pubblica una
parte dei documenti, lo ha fatto in modo ambiguo: lo scorso agosto, infatti, il
giornale britannico The Independent, rivelava che ai parlamentari
europei è possibile prendere visione dei documenti riservati solo in
un’apposita sala di lettura sorvegliata, alla quale non si può accedere con
dispositivi elettronici come cellulari e tablet. La vicenda ha anche assunto
contorni da spy story quando Wikileaks ha messo una sorta di taglia
sul Ttip, lanciando una raccolta fondi per centomila euro da consegnare come
premio a chi sia in grado di fornire informazioni e documenti segreti
riguardanti i negoziati.

Il dato certo, per il momento, è che c’è un vero e
proprio abisso fra gli scenari inquietanti di «macdonaldizzazione» dell’Europa
tratteggiati dai movimenti contrari, come la campagna Stop-Ttip, e le
rassicuranti e un po’ asettiche infografiche della Commissione europea che
cercano di smontare i «falsi miti sul trattato».

 

I numeri del Ttip

Secondo uno studio indipendente citato dalla
Commissione, il Ttip dovrebbe portare un incremento annuo di 120 miliardi di
euro all’economia europea e di 95 miliardi a quella statunitense entro il 2027,
facendo espandere di mezzo punto percentuale il Pil del vecchio continente e
dello 0,4% quello a stelle e strisce. Per le famiglie europee tutto questo si
tradurrebbe in un guadagno di cinquecento euro all’anno.

Le esportazioni dall’Europa agli Usa aumenterebbero di
quasi un terzo per un totale di 187 miliardi di euro. I benefici, continua lo
studio, interesserebbero quasi tutti i beni e servizi, ma toccherebbero in
particolare i settori del metallo, dei cibi lavorati, dei prodotti chimici, e
dei mezzi e attrezzature di trasporto. A vivere un vero e proprio boom sarebbe
il settore automobilistico: l’export di veicoli europei crescerebbe infatti del
149%. Si creerebbero quindi decine di migliaia di nuovi posti di lavoro su
entrambe le sponde dell’Atlantico, e le ricadute sul commercio planetario
indurrebbero un incremento del Pil mondiale di ulteriori cento miliardi di euro.

Un’occasione da non perdere, insistono i promotori
dell’accordo, forti dei numeri riportati nello studio.

 

Che cosa dicono i critici

Lo studio citato dalla Commissione è tutto meno che
indipendente, oppongono i detrattori: il suo autore è, infatti, il britannico
Cepr, Centre for Economic Policy Research, che dedica una pagina del suo
sito web ai ringraziamenti nei confronti dei suoi finanziatori, fra i quali
figurano tutte le banche centrali europee e i colossi bancari mondiali, da
Citibank e JP Morgan alle italiane Intesa San Paolo e Unicredit.

E questo è ancora il meno: la Commissione, infatti,
sostiene che a beneficiare del Ttip saranno in primis i cittadini
europei, ma allora – si chiede il centro di ricerca canadese Global Research
– perché nei 597 incontri a porte chiuse con le parti interessate, la
Commissione si è confrontata nell’88% dei casi con i lobbisti del mondo del
business, e solo nel 9% dei casi con gruppi che si occupano di temi di pubblico
interesse come l’ambiente o i diritti dei consumatori e dei lavoratori? E, se
il Ttip ha come obiettivo di aiutare «le imprese, grandi e piccole», perché la Direzione
generale Ue del Commercio
, fra il 2012 e il 2014 – cioè nelle fasi preparatorie
e nei primi cicli di negoziati – ha avuto la stragrande maggioranza degli
incontri con sei raggruppamenti di lobby fra cui Efpia (European Federation
of Pharmaceutical Industries and Associations
– Federazione europea di
Industrie e associazioni farmaceutiche), che rappresenta, fra gli altri,
GlaxoSmithKline, Pfizer, Novartis, Sanofi e Roche, e FoodDrinkEurope, il più
grande gruppo di pressione dell’industria alimentare europea, che dà voce agli
interessi di Nestlé, Coca Cola e Unilever? Dal canto loro, le associazioni di
categoria come l’Unione europea dell’artigianato e delle piccole e medie
imprese
(Uapme) – di cui fanno parte, ad esempio, Confartigianato e Cna –
vedono di buon occhio il trattato ma insistono sulla necessità di salvaguardare
gli standard di qualità europei e di essere maggiormente coinvolte nel processo
negoziale.

I segnali preoccupanti riguardanti il grande peso dei
poteri forti, in effetti, non mancano, se è vero – come riporta il quotidiano
inglese
The Guardian – che all’inizio di quest’anno alcuni
alti funzionari Ue avrebbero insabbiato uno studio che avrebbe contribuito a
identificare e mettere al bando trentuno pesticidi contenenti sostanze che
alterano la funzionalità del sistema endocrino. L’insabbiamento sarebbe avvenuto
in seguito a pressioni esercitate da funzionari del commercio statunitensi, e
anche da colossi della chimica come Bayer e Basf. Questo nonostante diversi
studi scientifici associno le sostanze contenute in quei pesticidi a un aumento
delle mutazioni genitali, dell’infertilità maschile, delle anomalie del feto e
della riduzione del quoziente intellettivo, e stimino in 150 miliardi di euro i
costi sanitari connessi ai danni provocati.

 

Le raccomandazioni del Parlamento europeo

In questa ridda di voci, fughe di notizie, smentite e
precisazioni, un punto fermo che chiarisce almeno un po’ che cosa c’è sui
tavoli negoziali, è la risoluzione adottata lo scorso 8 luglio dal Parlamento
europeo
. Essa contiene una serie di raccomandazioni, tra cui una
riguardante il meccanismo dell’arbitrato internazionale che propone un sistema
alternativo nel quale «i possibili casi siano trattati in modo trasparente da
giudici togati, nominati pubblicamente e indipendenti durante udienze pubbliche».

Vi è poi la richiesta dell’europarlamento ai negoziatori
di escludere dal trattato ambiti nei quali le legislazioni Ue e Usa sono molto
diverse: «I servizi sanitari pubblici, gli Ogm, l’impiego di ormoni nel settore
bovino, il regolamento Reach [relativo alle sostanze chimiche, ndr]
e la sua attuazione, e la clonazione degli animali a scopo di allevamento».
Altre raccomandazioni riguardano la protezione dei dati personali dei cittadini
europei, la tutela delle indicazioni geografiche, la garanzia della
tracciabilità ed etichettatura, il rispetto della normativa sul lavoro. I
critici del Ttip hanno accolto con disappunto anche questa risoluzione perché
colpevole, a loro dire, di essere troppo vaga e di costituire di fatto un
avallo al trattato.

«Se il Ttip sarà un accordo misto (cioè con competenze
condivise fra Unione europea e Stati membri, ndr)», ha dichiarato il
presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, «e ne sono certo, i Parlamenti
nazionali e quello europeo dovranno sottoporlo ad attenta verifica, secondo il
proprio ordinamento». Il commissario europeo per il commercio, Cecilia Malmström,
ha affermato che l’impegno è quello di concludere entro il 2015: l’anno
prossimo infatti terminerà il secondo mandato di Barack Obama e gli Stati Uniti
avranno una nuova amministrazione che potrebbe ridefinire le priorità
statunitensi. In più

Washington sta negoziando anche un secondo trattato, il
Tpp, con undici Stati del Pacifico.

 

I risvolti per i paesi in via di sviluppo

Gli analisti concordano nel dire che attualmente è
ancora presto per immaginare quali potranno essere le ripercussioni
dell’eventuale accordo Usa-Ue per i paesi in via di sviluppo. Tuttavia, alcune
considerazioni preliminari sono emerse, anche di segno positivo: ad esempio
quelle che sottolineano come l’esistenza di un blocco nordatlantico con regole
unificate permetterebbe ai produttori dei paesi terzi di adeguare i loro
prodotti a un solo standard per l’esportazione verso Europa e Stati Uniti, e
non più a due, con un possibile calo dei costi di produzione.

Ma c’è anche chi è più cauto e invita a fare studi più
approfonditi: lo scorso febbraio, la commissione sviluppo del Parlamento
europeo chiedeva ai negoziatori di Bruxelles di considerare il rischio di una «possibile
deviazione degli scambi e degli investimenti per alcuni paesi in via di
sviluppo». Il direttore di Oxfam Germania, Marion Lieser, chiarisce il punto: «Se
l’Unione europea e gli Stati Uniti aprono ulteriormente i loro mercati, le
importazioni da paesi terzi, fra cui quelli in via di sviluppo, potrebbero diminuire.
Prendiamo il caso della Florida, stato della costa orientale statunitense
produttore di frutta esotica: se aumentasse il flusso di questi prodotti dalla
Florida verso l’Europa è plausibile che simili frutti provenienti dai paesi in
via di sviluppo perdano parte della loro quota di mercato». Solo a negoziati
conclusi sarà possibile azzardare previsioni più precise.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Moringa, l’albero contro la fame

La moringa oleifera è
una pianta nativa dell’Himalaya e diffusa specialmente in India ma molto
presente anche nel resto dell’Asia e in Africa. È oggetto di attenzione
crescente per il suo alto valore nutrizionale. Vi proponiamo un excursus sullo
stato delle conoscenze a proposito di questa pianta e sul ruolo che potrebbe
avere nella lotta alla malnutrizione.

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«Questa pianta potrebbe da sola risolvere metà dei problemi nutrizionali del paese. Anzi, dell’Africa». Non aveva dubbi padre Julius Gichure Mwangi, quando a Cuamba, Mozambico, nel luglio 2014, facendomi visitare il centro nutrizionale gestito dai missionari della Consolata, indicava le piccole tondeggianti foglie verde brillante che tremolavano sui rami di un albero accarezzato dal venticello dell’inverno australe. «Il fatto è che la gente non sempre lo sa: qui nel Niassa, ad esempio, la usano come ultima risorsa, quando non hanno più carne o pesce o altre cose più saporite con cui accompagnare la chima (polenta di manioca o di mais diffusa in tutta l’Africa con diversi nomi che vanno da fufù a ugali a, appunto, chima o shima, ndr). Per questo va benissimo monitorare il peso dei bambini e distribuire cibo, ma altrettanto importante è formare le mamme, informarle su che cosa è meglio che mangino. Contro la malnutrizione hanno un’arma potente che cresce spontaneamente dietro casa e magari nemmeno la conoscono».

Le foglioline verdi, i rami e l’albero a cui sono attaccati vanno sotto il nome botanico di moringa oleifera e mai come negli ultimi anni si è parlato di questa pianta, che è presente sul pianeta in una decina di specie oltre alla oleifera. Sul sito della Fao, che l’ha nominata coltivazione del mese nel settembre 2014, si legge che «la moringa è una coltura importante in India, Etiopia, Filippine e Sudan» e diverse specie della pianta sono coltivate in quasi tutta l’Africa, l’Asia tropicale, l’America Latina, i Caraibi, la Florida e le isole del Pacifico. La moringa oleifera è la specie dal valore economico più elevato. In Africa anglofona è spesso chiamata drumstick tree, «albero delle bacchette da tamburo», per via della forma allungata dei baccelli che ne contengono i semi, mentre in Asia è nota come malunggay.

Ma vediamo nel dettaglio quello che sappiamo per certo e quello che ancora è da verificare circa i benefici di questa pianta.

Che cosa sappiamo sulla moringa

Andreas Ebert del World Vegetable Center, citato dalla rivista Nature, sostiene che la moringa è una delle piante più salutari, sia dal punto di vista nutrizionale che medico.

l Secondo uno studio FAO del 2012 sulla composizione degli alimenti dell’Africa Occidentale, la moringa, a parità di porzioni da cento grammi, ha più potassio della banana, più vitamina C dell’arancia - ne basta mezza porzione per soddisfare il fabbisogno giornaliero di un adulto - quasi tre volte il calcio contenuto in uno yogurt, poco meno delle proteine foite dall’equivalente quantità di uova, più vitamina A e addirittura quattro volte il beta-carotene delle carote. Ha inoltre numerose altre sostanze nutritive, antiossidanti, antinfiammatorie.

l Dalle ricerche effettuate dall’Università di Uppsala (Svezia)è emerso che i semi della moringa sono inoltre efficaci nella purificazione dell’acqua: le proteine dei semi macinati, infatti, si legano meglio di altre sostanze alle particelle contenute nell’acqua, «catturate» e aggregate le quali diventa più semplice ottenere acqua potabile attraverso il filtraggio.

l La polvere di moringa, inoltre, è efficace come detergente per le mani. Uno studio, pubblicato nel 2014 e condotto da ricercatori della London School of Hygiene and Tropical Medicine, ha dimostrato che quattro grammi di moringa hanno lo stesso effetto del normale sapone nel rimuovere gli E.coli, batteri coliformi responsabili di diverse gastroenteriti e della diarrea che ancora oggi uccide annualmente mezzo milione di bambini sotto i cinque anni.

l Altro aspetto importante dell’uso della moringa oleifera è quello relativo alla produzione di latte vaccino: è molto citata in rete una ricerca effettuata dieci anni fa in Nicaragua da due studiosi austriaci che dimostrerebbe un incremento anche del trenta per cento nel latte prodotto da vacche che abbiano visto inserita nella propria dieta la moringa.

l Ulteriore uso della pianta è quello derivante dai suoi semi: da maturi, contengono fra il trenta e il quaranta percento di olio che può fare da combustibile per lampade. è in fase di approfondimento il suo utilizzo come agrocombustibile per un impiego su più ampia scala. Il valore aggiunto sarebbe che, oltre a fornire olio adatto alla combustione, la moringa è anche una pianta commestibile e dall’alto valore nutrizionale e per questo la sua coltivazione porterebbe benefici sia in termini di sicurezza alimentare che di energia sostenibile. Altre coltivazioni di agrocombustibili, ad esempio la jatropha - che pure aveva conosciuto all’inizio degli anni Duemila un momento di grande popolarità -, hanno al contrario il limite di sottrarre terra e acqua alla produzione di cibo.

 «L’albero dei miracoli», così chiamano la moringa diversi siti web che ne promuovono l’utilizzo e la commercializzazione sotto forma di integratori, polvere e foglie essiccate per infusi. «Un supermercato sopra un tronco», la definisce più prosaicamente il rapporto del 2006 Lost Crops in Africa citato dalla rivista Nature. Ma alcuni aspetti necessitano ancora di maggiori verifiche.

Che cosa non sappiamo

l Innanzitutto occorrono studi più rigorosi per stabilire l’eventuale differenza nell’efficacia delle foglie a seconda che si consumino crude, cotte o essiccate. La cottura, ad esempio, pare diminuire il contenuto di vitamina C ma aumentare la fruibilità di altre sostanze, come il ferro.

l Anche l’uso della moringa nella medicina tradizionale - ampiamente documentato ad esempio in India - ha ricevuto nell’ultimo decennio maggiori attenzioni. Già nel 2005 Jed W. Fahey, del Dipartimento di Farmacologia e Scienze molecolari della Johns Hopkins School of Medicine, affermava che «una pletora di richiami della medicina tradizionale ne attestano il potere curativo», ma «purtroppo, molti di questi richiami non sono supportati da sperimentazioni cliniche randomizzate e controllate contro placebo, né sono stati pubblicati in riviste ad alta visibilità».

l Altra importante verifica, direttamente connessa alla precedente, è quella del possibile ruolo della moringa oleifera nella prevenzione e nel trattamento di particolari patologie: il sito web The inteational moringa germplasm collection cita studi che sembrano deporre a favore della sua efficacia nel ridurre i livelli di glucosio nel sangue, dato rilevante per la cura del diabete, e della sua attività antibiotica nel proteggere dall’Helicobacter pylori, batterio che può causare l’ulcera; altri studi ancora suggeriscono un’efficacia della moringa nella prevenzione e cura del cancro e nella riduzione degli effetti collaterali della chemioterapia. Ovviamente la comunità scientifica mette in guardia contro il sensazionalismo e i facili entusiasmi a cui alcuni siti web sembrano cedere e annuncia il primo «Simposio internazionale sulla moringa» che si terrà a Manila, Filippine, dal 15 al 18 novembre prossimi. Il titolo dell’evento, che per le Filippine è il sesto simposio nazionale su questo tema, sarà «Moringa: un decennio di progressi nella ricerca e nello sviluppo».

Perché è importante

In un articolo dell’agosto 2014 dal titolo «Fame zero» pubblicato sulla rivista Science, uno dei padri della cosiddetta «rivoluzione verde» in India, Mankombu Sambasivan Swaminathan - peraltro aspramente criticato dall’attivista Vandana Shiva proprio per aver promosso la meccanizzazione e l’uso di prodotti chimici imposti da quella rivoluzione negli anni Sessanta - afferma che oggi occorre puntare non più sulla sicurezza alimentare ma soprattutto sulla sicurezza nutrizionale. «L’impulso a ridurre la fame nel mondo si è largamente poggiato su colture come il grano e il riso per fornire calorie. Ma aumentare solo le calorie non va bene. Diete migliori e buona salute richiedono un rinforzo nutrizionale. L’agricoltura commerciale», continua Swaminathan, «tende a promuovere monocolture più sensibili alle leggi di mercato che alla corretta nutrizione, mentre quella familiare è più diversificata e per questo è più adatta a soddisfare i bisogni nutrizionali specifici di ciascun luogo. Vegetali come le patate dolci, il frutto dell’albero del pane, la moringa e vari tipi di bacche, tutti ricchi in micronutrienti come ferro, zinco, vitamina A e vitamina C, dovrebbero trovare uno spazio maggiore nell’agricoltura familiare».

D’altra parte, anche papa Francesco ha sottolineato nell’enciclica Laudato si’ l’importanza di questo genere di agricoltura. «Vi è una grande varietà di sistemi alimentari agricoli e di piccola scala», scrive Francesco, «che continua a nutrire la maggior parte della popolazione mondiale, utilizzando una porzione ridotta del territorio e dell’acqua e producendo meno rifiuti, sia in piccoli appezzamenti agricoli e orti, sia nella caccia e nella raccolta di prodotti boschivi, sia nella pesca artigianale». Tuttavia, continua il papa, gli sforzi di diversificazione si infrangono contro l’impossibilità per molti di questi produttori a accedere ai mercati locali o globali o contro l’infrastruttura di vendita e di trasporto asservita alle grandi imprese.

Ecco, dunque, che cosa dovranno tenere d’occhio nell’immediato futuro coloro che hanno a cuore la lotta alla malnutrizione: che la ricerca chiarisca sempre meglio il potenziale di risorse come la moringa e altre piante «dimenticate» e che la priorità sia utilizzarle per creare contesti di agricoltura sostenibile che mirino a contribuire innanzitutto alla corretta nutrizione delle popolazioni maggiormente svantaggiate, evitando che questi alleati naturali diventino l’ennesima preda dei colossi agro industriali da trasformare magari in cosmetici, rimedi anti età e integratori per diete dimagranti.

A questo proposito Mark Olson, esperto di dell’Instituto di Biologia all’Università Nazionale Autonoma del Messico e principale autore del sito sopra citato, The inteational moringa germplasm collection, efficacemente ironizza: «Se puoi mangiare broccoli, perché dovresti preferire la moringa? Se hai bisogno di vitamina A mangia qualche carota o cucinati un po’ di patate dolci. Se hai voglia di qualche buona verdura verde, fatti un piatto di spinaci, di bietole, di cavolo riccio coltivati da qualche produttore della tua zona. […] Il punto è che la moringa è l’albero dei miracoli non perché offre a persone ricche in paesi temperati quel che hanno già in abbondanza. La moringa è l’albero dei miracoli perché offre a chi non li ha gli stessi benefici finora riservati a chi vive nei paesi ricchi».

Chiara Giovetti
Chiara Giovetti




La Tratta: facciamo il punto

L’8 febbraio è la
prima «Giornata mondiale contro la tratta di esseri umani e lo sfruttamento
sessuale»1. La data è stata scelta perché coincidesse con la festa di Santa
Giuseppina Bakhita, una schiava sudanese nata nel 1869 diventata, dopo la
liberazione, una religiosa canossiana. Dopo circa trent’anni dalla comparsa del
fenomeno della tratta in Italia, Missioni Consolata, come già altre volte,
propone una riflessione sulla situazione.

Leggi articolo integrale con intervista a suor Eugenia Bonetti nello sfogliabile pdf

«La tua università è
la strada»

Hope (Speranza – nome inventato) è arrivata in Europa
dalla Nigeria in aereo, con un passaporto valido e un permesso di soggiorno per
motivi di studio in tasca. Prima ha fatto scalo in Olanda, dove, insieme a un
gruppo di coetanee, ha seguito una settimana di corso di orientamento
preliminare all’inizio degli studi. Poi le ragazze sono state divise a seconda
della destinazione finale. A Hope è toccata l’Italia, paese raggiunto
nuovamente in aereo. Una volta arrivata, è stata accompagnata a casa di una sua
connazionale che l’avrebbe ospitata durante il periodo di studio. «Domani andrò
all’università a iscrivermi ai corsi», ha detto Hope alla padrona di casa. «Non
uscirai di qui finché non lo dirò io», le ha risposto la signora. «La tua
università è la strada».

È cominciato così l’incubo di una ventenne nigeriana
convinta di venire in Italia per frequentare l’università e che ha invece
rischiato di diventare l’ennesima vittima di sfruttamento sessuale.

«Per fortuna lei ha reagito subito», spiega la
missionaria della Consolata suor Eugenia Bonetti, cornordinatrice dell’Ufficio
tratta donne e minori dell’Unione Superiori Maggiori d’Italia e presidente
dell’associazione Slaves No More (Mai più schiave) che assiste le donne
vittime di tratta. «Ha reagito prima che le botte e il terrore annientassero la
sua volontà: ha approfittato di una distrazione dei suoi carcerieri ed è
scappata, si è messa a camminare lungo i binari della ferrovia ed è arrivata a
una stazione dove ha chiesto aiuto alla polizia. Da lì, grazie alla
collaborazione della moglie del sindaco locale, che parla inglese, la rete che
cornordino è riuscita a intercettarla e ad assisterla nel realizzare l’unico
desiderio che a quel punto le era rimasto: tornare a casa».

Ma la storia di Hope non è così comune: molte di più
sono invece le nigeriane vittime della tratta incapaci di sottrarsi alla catena
di violenza che le annichilisce, ai riti vudù che le terrorizzano e ai debiti
che le inchiodano a un’esistenza in cui l’esperienza di sottomissione le
devasta fisicamente e moralmente al punto da non riuscire più a riprendersi.
Non solo. Anche quando le donne riescono a uscire dal «giro» e a regolarizzare
la loro posizione entrano in campo una serie di difficoltà: «Noi seguiamo
diverse ragazze che lavorano in Italia con regolare contratto e permesso di
soggiorno», spiega suor Eugenia, «ma quando queste persone hanno dovuto fare il
passaporto elettronico l’ambasciata nigeriana ha rifiutato il rilascio di
quarantanove documenti, perché il passaporto precedente è risultato falso e
l’impronta digitale collegata è stata utilizzata per falsificare altri
documenti. Ora queste donne rischiano di perdere permesso di soggiorno e lavoro».

In entrata, inoltre, i meccanismi legati alla richiesta
d’asilo hanno di fatto aperto un ulteriore varco per l’ingresso delle ragazze
destinate alla strada: «Una volta inoltrata la richiesta di riconoscimento
dello status di rifugiato», continua suor Bonetti, «le ragazze possono uscire
dai centri di identificazione ed espulsione in attesa dell’esito. A quel punto
vengono intercettate dalla rete criminale, che le fa letteralmente sparire nel
nulla per farle riemergere poi sulla strada. Le spese, ingenti, per la richiesta
d’asilo vengono spesso sostenute dalla stessa rete criminale e vanno poi a
ingrossare il debito, di solito nell’ordine dei cinquanta/sessantamila euro,
che le ragazze dovranno ripagare prostituendosi. Questa dinamica getta una luce
sinistra su un sottobosco di persone coinvolte nel favorire il meccanismo: ad
esempio quegli avvocati che suggeriscono alle ragazze di dichiarare la propria
provenienza da zone settentrionali della Nigeria, quelle in preda alla guerra
civile, mentre noi, in vent’anni di lotta alla tratta, abbiamo verificato che
le donne vengono piuttosto da aree, come Benin City, in cui non c’è nessun
conflitto che possa dare diritto allo status di rifugiato».

Non solo prostituzione

Se il caso delle donne nigeriane costrette a
prostituirsi è forse uno dei più riportati dai media, la tratta di esseri umani
è molto più ampia e tocca diverse categorie di persone. Donne e minori
specialmente, ma anche uomini di fatto ridotti in schiavitù e costretti a
svolgere lavori degradanti. Un po’ di dati. Secondo uno studio
dell’Organizzazione mondiale del Lavoro, nel mondo le persone vittime di lavoro
forzato sono quasi ventuno milioni; di queste, nove milioni si trovano
intrappolate nelle reti delle nuove schiavitù in seguito a una migrazione,
intea o estea. È difficile dire quante di queste siano vittime di tratta,
le persone cioè reclutate e trasportate attraverso varie forme di violenza o di
inganno per scopi di sfruttamento sessuale o lavorativo. Un rapporto di Save
the Children
del 2008 stimava che tali vittime fossero quasi tre milioni,
di cui l’ottanta per cento donne e minori, per un giro d’affari che secondo le
Nazioni unite arriva a trentadue miliardi di dollari l’anno.

Secondo Eurostat, la direzione generale della
Commissione europea incaricata di fornire alle istituzioni europee i dati
statistici relativi ai paesi dell’Unione, in Europa nel triennio 2010-2012 le
vittime della tratta documentate – cioè note alle autorità perché il crimine è
in qualche modo emerso – sono state più di trentamila, l’ottanta per cento
delle quali donne. Due terzi delle vittime erano cittadini dell’Unione europea
e i primi cinque paesi di provenienza erano Romania, Bulgaria, Paesi Bassi,
Ungheria e Polonia, mentre i primi cinque paesi extra Ue erano Nigeria, Brasile,
Cina, Vietnam e Russia.

Ma questi casi documentati sarebbero solo la punta
dell’iceberg se è vero che, in Italia, le sole nigeriane vittime di tratta fra
il 2011 e il 2013 sarebbero state quindicimila (dati Unicri, Istituto
interregionale di ricerca delle Nazioni unite sul crimine e la giustizia
,
con sede a Torino).

La situazione in Italia

L’Italia ha incassato lo scorso autunno una bocciatura da
parte del Gruppo di esperti sulla lotta contro la tratta di esseri umani
(Greta) dell’organizzazione internazionale indipendente denominata Consiglio
d’Europa. Il Greta bacchetta l’Italia per la mancanza di una strategia e di una
struttura di cornordinamento nazionale che contrasti il fenomeno. «L’Italia ha
una lunga esperienza nella lotta alla tratta per sfruttamento sessuale» si
legge nel rapporto, «ma dovrebbe prestare maggior attenzione anche alla tratta
per sfruttamento lavorativo e al traffico di bambini». Inoltre, è scritto nel
rapporto, nessuna campagna di sensibilizzazione a livello nazionale è stata
realizzata negli ultimi anni. Infine, la collaborazione a livello regionale e
locale fra autorità pubbliche e società civile ha dato buoni risultati per
quanto riguarda le procedure d’identificazione delle vittime, ma non riesce a
colmare il vuoto derivante dalla mancanza di un meccanismo d’identificazione a
livello nazionale. Il governo Renzi, a inizio incarico, aveva promesso di
approvare entro tre mesi il Piano nazionale, ma a fine 2014 ancora nulla si era
mosso. La Piattaforma nazionale anti tratta ha lanciato una petizione
nella quale sottolinea che «l’approvazione del Piano nazionale doveva avvenire
per disposizione di legge entro la fine di giugno scorso» e chiede al Goveo
di «non far morire il sistema nazionale di tutela e protezione delle vittime
della tratta e di adottare urgentemente i provvedimenti vincolanti previsti dal
decreto 4 marzo 2014 n. 24».

Chiara Giovetti
Nota:

1-
La Giornata internazionale contro la tratta è promossa da Pontificio Consiglio
per la Pastorale dei Migranti, Pontificio Consiglio della Giustizia e della
Pace, Unioni inteazionali femminili e maschili dei Superiori/e Generali (Uisg
e Usg), assieme a Caritas Inteationalis, Talita Kum, Global Freedom Network,
Ufficio tratta donne e minori dell’Usmi, associazione Slaves no more.

glossario

Definizione di tratta

Dal Protocollo delle Nazioni unite sulla prevenzione,
soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani, in particolar modo
donne e bambini (noto anche come uno dei tre Protocolli di
Palermo, 2000).

La Tratta di Persone:
«Indica il reclutamento, trasporto,
trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite la minaccia o l’uso
della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno,
abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o
ricevere somme di danaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che
ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende,
come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di
sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, la schiavitù o pratiche
analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi».

 
Tipi di sfruttamento
Eurostat distingue tre tipi di sfruttamento:

sessuale:
riguarda le persone costrette a prostituirsi o diversamente impiegate
nell’industria del sesso (esibizione in locali nottui, pornografia,
eccetera);

lavorativo:
riguarda persone costrette a lavori forzati o servitù domestica;

altre forme:
riguarda le persone costrette a mendicare, a svolgere attività criminali, a
cedere organi e a subire altri tipi di sfruttamento, come i matrimoni forzati.

Chiara Giovetti




Itinerari Mozambicani /1

Il Mozambico affronta, questo mese di ottobre, la sua quinta elezione presidenziale dal 1994, anno dell’introduzione del multipartitismo dopo una devastante guerra civile durata vent’anni e conclusa con la pace di Roma del 1992. In queste pagine racconto il viaggio che, come responsabile dell’ufficio progetti della MCO, ho fatto lo scorso giugno nel paese lusofono. Una panoramica sulla situazione politica e qualche istantanea della quotidianità nelle missioni.

Leggi Cooperando nello sfogliabile. Clicca sulla foto.

Chiara Giovetti




Cent’anni portati bene

Nel numero di maggio
di MC abbiamo raccontato l’installazione di Monsignor José Luis Ponce de Leon,
missionario della Consolata, come vescovo di Manzini, Swaziland, in occasione
del centenario dell’arrivo nel paese dei primi missionari cattolici, i Servi di
Maria. In questo numero, vi proponiamo una panoramica sulle attività della diocesi
e le testimonianze dei protagonisti, raccolte da MCO nel corso della visita
dello scorso giugno.

La Croce del Sud nel cielo notturno, le persone avvolte nelle sciarpe e
nelle giacche a vento per difendersi dai primi freddi nelle mattine di giugno,
gli alberi di frangipani e di stelle di Natale sono tutti indizi che – non
bastassero le diciassette ore di viaggio e i cambi di aereo – aiutano a
percepire quanto lo Swaziland sia distante dall’Europa. Ma più lontani ancora
appaiono lo smog delle metropoli africane, le baraccopoli di lamiera e terra,
l’asfalto che si arrende impotente ai morsi di una natura onnivora e vorace.
Manzini, il principale centro urbano del paese, è una città gradevole
incoiciata dalle colline, dove tutti sembrano affaccendati in qualche cosa:
saldare le parti di un motore, spostare frutta e verdura dentro e fuori dalle
celle frigorifere di un magazzino, entrare e uscire da un supermercato, vendere
dolciumi e ricariche telefoniche agli angoli delle strade e ai banchetti sui
marciapiedi.

Se quella dello sviluppo è una via, il piccolo regno
dello Swaziland – con un’estensione pari a quella del Lazio e circa un milione
di abitanti – sembra trovarsi fra gli stati africani che vi camminano con un
buon passo, dal momento che viene collocato nella fascia bassa dei paesi a
reddito medio. Ma uno sguardo meno superficiale che si allarghi oltre Manzini o
la capitale, Mbabane, e tocchi le aree rurali del paese permette di scorgere
una realtà meno rosea. A cominciare dal tasso di prevalenza dell’Hiv: secondo i
dati più recenti, una persona su quattro è affetta dal virus.

Saint Philip, la battaglia
contro l’Aids delle suore di Madre
Cabrini

Lungo la strada che da Manzini va a Est e poi a Sud in
direzione del Sudafrica, la cupola azzurra con i costoloni rossi della chiesa
di st. Philip appare all’improvviso oltre il tappeto verde dei campi di canna
da zucchero adagiati nel lowveld (bassopiano) della regione Lubombo. La
deviazione del fiume, che permette di coltivare, è un intervento recente in
un’area dove le colline lasciano il posto a una distesa di savana piatta
colpita da ricorrenti ondate di siccità e dalla conseguente carenza di cibo. In
questa parte del paese lavorano le suore del Sacro Cuore di Gesù, fondate da
Santa Francesca Saverio Cabrini e più note come Cabrini Sisters. La
storia della loro presenza qui comincia negli anni Settanta, ma è solo a
partire dalla fine degli anni Novanta, proprio quando la congregazione è vicina
alla decisione di lasciare lo Swaziland per spostarsi in paesi più bisognosi,
che  si intreccia con quella della
pandemia dell’Hiv/Aids.

«A un certo punto cominciarono a morire, tutti», spiega
suor Diane Dallemolle, americana di Chicago. «Io e Barbara [suor Barbara
Staley, consorella di Diane diventata lo scorso maggio superiora generale delle
suore di Madre Cabrini
] ci rendemmo conto che non c’era un solo nucleo
familiare che non avesse un membro sdraiato su una stuoia dentro casa, privo di
forze e scheletrico, in attesa della fine. Non potevamo andarcene». La speranza
di vita degli swazi crollò nel 2004 a trentasette anni; il tasso di prevalenza
del virus era intorno al quaranta per cento.

«Cominciammo ad andare in giro per le case di tutta la
zona», continua Pius Mamba, che collabora con le Cabrini Sisters da
allora, «io facevo da interprete e le suore chiedevano alla gente di farsi
prelevare un campione di sangue per fare il test Hiv». Le provette con il
sangue venivano poi mantenute al freddo con il ghiaccio e portate ottanta
chilometri più in là, al Good Shepherd di Siteki, uno dei sette ospedali
gestiti nel paese dalla diocesi di Manzini e che serve un bacino d’utenza di
duecentocinquantamila persone nella regione Lubombo. La sua scuola per
infermieri, inoltre, forma ogni anno personale qualificato che presta poi servizio
nelle strutture sanitarie di tutto il paese.

«Facevamo anche più viaggi al giorno, finché non ci fu
donato un frigo. Da quel momento cominciammo a vivere con decine di fiale di
sangue in casa».

Il governo swazi e la comunità internazionale iniziarono
a reagire alla pandemia. In alcuni paesi la disponibilità di farmaci
antiretrovirali non era costante e il rischio per i pazienti era quello di
sviluppare resistenza a causa dell’irregolare aderenza alla terapia e di dover
passare ai farmaci cosiddetti di seconda linea, più cari e ancor meno reperibili.
«Questo in Swaziland non si è mai verificato», dice suor Diane, «fin
dall’inizio la disponibilità di antiretrovirali è stata garantita dal Fondo
Globale
che ha fornito la terapia in modo costante».

Oggi, il tasso di prevalenza è al ventisei per cento,
ancora il più alto del mondo, e nonostante i farmaci anti-retrovirali siano
foiti dal sistema sanitario nazionale non sempre le persone decidono di
curarsi: la negazione, la stigmatizzazione, la diffidenza, le resistenze
culturali nelle aree più disagiate – dove i casi di stupro sono più numerosi e
la disponibilità fisica di una donna è data per scontata a partire dalla prima
adolescenza – non sono state completamente eliminate.

Il futuro del paese si gioca anche intorno a un’altra
sfida, quella degli orfani a causa dell’Hiv. «In Swaziland, sono solo ventidue
su cento i bambini che hanno entrambi i genitori», spiega suor Diane, «tutti
gli altri ne hanno perso almeno uno. E crescere bambini orfani di entrambi i
genitori non è un problema che si risolve solo costruendo orfanotrofi. Essere i
tutori di questi bambini non è semplice, non si tratta solamente di nutrirli e
di mandarli a scuola, ma anche di dare loro qualcosa di altrettanto importante:
la sensazione di appartenere a qualcuno, di essere legati a qualcuno».

Le suore di Madre Cabrini, accanto alle attività di
diagnosi e cura dell’Hiv attraverso la clinica presso la missione e le visite
alle comunità, gestiscono un programma di servizi sociali, un ostello per
orfani che lo scorso anno ha ospitato 107 bambini e numerose attività di
sensibilizzazione e formazione. Negli ultimi dieci anni, Cabrini Ministries
– questo il nome dell’organizzazione no-profit attraverso la quale le suore
agiscono in Swaziland – ha assistito seimila persone affette da Hiv/Aids e
circa millecinquecento orfani e bambini vulnerabili.

Rifugiati, sanità,
istruzione: le numerose attività della Chiesa in Swaziland

Sandlane Street è l’animata strada di Manzini che va
dalla cattedrale alla scuola salesiana. Percorrerla a piedi è forse il modo più
rapido per ottenere una sintesi visiva degli ambiti in cui la Chiesa cattolica è
attiva in Swaziland.

Proprio di fronte alla cattedrale si trova l’edificio
che ospita Caritas Swaziland, con i suoi numerosi uffici, le sale per
incontri e convegni, la libreria e l’ufficio del vescovo. Una delle attività
che ogni giorno impegnano i membri dello staff è l’assistenza ai rifugiati,
realizzata in collaborazione con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
rifugiati (Acnur), che mobilita le risorse necessarie per il mantenimento
complessivo del programma, e il governo dello Swaziland, che garantisce la
sicurezza. Caritas si occupa invece degli aspetti nutrizionali, sanitari e
dell’assistenza legale durante le procedure per l’ottenimento dello status di
rifugiato.

Dopo la Caritas ci sono la Saint Theresa primary e
high school
, per ragazze, mentre in fondo alla strada si trovano Salesian
primary school e high school
, per ragazzi. Sono centinaia gli studenti che
alla mattina convergono nel fiume colorato di uniformi che affluisce alla
scuola. Proseguendo oltre la struttura dei salesiani, s’incontra la clinica Saint
Theresa
, una delle sette strutture sanitarie della Diocesi.

La camminata su Sandlane street si conclude alla Hope
House
, un centro di cura per pazienti terminali e disabili gestito da Caritas
Swaziland
, che ha venticinque piccole unità abitative per i malati e i
familiari che li accompagnano.

La collaborazione fra la
diocesi di Manzini e Missioni Consolata Onlus

Proprio su un intervento alla Hope House si è
realizzata la prima collaborazione fra Mco e la diocesi di Manzini. La
Conferenza Episcopale Italiana ha finanziato la scorsa primavera il progetto More
Strength to Hope
– Più forza alla speranza, che prevede attività di
adeguamento strutturale, l’avviamento di un servizio di fisioterapia,
l’aggioamento del personale sanitario e la formazione dei pazienti e degli
assistenti informali (spesso membri della famiglia) che accompagnano il malato
in clinica e lo seguono poi durante la convalescenza a casa.

«La Hope House è nata nel 2001 come centro per
malati, specialmente di Hiv/Aids, giunti allo stadio terminale», spiega suor
Elsa Joseph, delle Missionary Sisters of Mary Help of Christians,
responsabile della struttura, «e l’obiettivo era quello di accompagnare queste
persone alla morte garantendo loro cure palliative e dignità. Oggi, però,
grazie alla disponibilità di antiretrovirali e di altri farmaci, la percentuale
di malati che riesce a tornare a casa in buone condizioni è del novanta per
cento».

Oltre ai malati di Hiv, il centro ospita anche persone
colpite da tubercolosi, cancro, ictus e malattie dell’apparato
cardiocircolatorio, e il servizio di fisioterapia che verrà reso disponibile
con il progetto è pensato proprio per accelerare il ripristino delle
funzionalità fisiche nei pazienti la cui mobilità è stata temporaneamente
compromessa.

Un ulteriore occasione di collaborazione si è poi
realizzata nell’ambito dell’assistenza nutrizionale che la diocesi fornisce a
circa settecentocinquanta bambini di tre parrocchie grazie alla generosità di
una fondazione statunitense. Durante la visita a due delle tre comunità, la
rappresentante delle madri dei bambini beneficiari, nel ringraziare la Chiesa
cattolica per il progetto, ha auspicato che il supporto nutrizionale possa
continuare, e ha aggiunto che ci sono ancora diversi bambini della comunità
malnutriti o a rischio malnutrizione. «La seconda cosa che la signora ha detto»,
scrive nel suo blog monsignor Ponce de Leon, presente durante le visite insieme
all’amministratore diocesano padre Peter Ndwandwe e al direttore di Caritas
William Kelly, «è quella che mi ha toccato di più, perché dà la misura del
senso di “famiglia” di queste persone: pur avendo ricevuto ciò di cui hanno
bisogno, non dimenticano i membri della loro comunità che sono in condizioni di
necessità. Non solo. Di fronte a quanto la donna ha detto, non si può fare a
meno di chiedersi come sia possibile che ci siano così tanti bambini, e anche
adulti che non hanno cibo a sufficienza in questo paese così bello. Come
Chiesa, non possiamo limitarci a distribuire cibo a chi ha fame, dobbiamo anche
cercare di capire le cause della situazione e lavorare con gli altri per
assicurarci che tutti noi viviamo con la dignità di figli di Dio».

Chiara Giovetti

Tags: cooperazione, Swaziland, Hiv/Aids, rifugiati, sanità, educazione, Manzini

Chiara Giovetti




Integrazione o disintegrazione?

Viaggio dove convergono le periferie del mondo: periferie
urbane, baraccopoli, marginalizzazione, migrazione, seconde generazioni, nuove
povertà. Ormai da anni è in corso un processo nel quale le nostre città e la
nostra società stanno cambiando volto.Con la tragedia di Lampedusa ancora negli occhi, mentre
molti media si concentrano sulle offese al ministro Kyenge e sulla polemica
intorno al reality «Mission», che cosa sta succedendo nelle nostre città? Che
cosa funziona, che cosa non funziona e perché nella trasformazione di quella
italiana in una società multietnica? Quanto contano i fattori culturale,
urbanistico, economico? MC propone una panoramica sul tema delle periferie e
sulla situazione europea e italiana che introduce un ciclo di reportage dalle
zone marginali italiane.

La lama
di un coltello posato su un piccolo tagliere di legno riflette l’azzurro del
cielo fra pezzetti di peperoni gialli e rossi tagliati in quadratini così
precisi da sembrare tessere di un mosaico; accanto, vicino a un canovaccio
candido ripiegato per fare da presina, l’acqua bolle dentro un pentolino di
metallo scaldato dalla fiamma blu di un fornello e un sacchetto di riso aperto
aspetta che una mano prelevi una manciata di chicchi e la getti nell’acqua
bollente. Il piano di lavoro di questa cucina è fatto di rocce scure e lucide
che digradano fino a tuffarsi nell’acqua; il soffitto è l’impalcato di un ponte
e i muri sono l’aria calda e asciutta dell’estate e le sponde erbose del
Tevere. Un uomo a torso nudo si muove in questa insolita cucina con movimenti
lenti e uniformi, i movimenti di qualcuno che ha imparato da tempo a fare i
conti con le irregolarità dei sassi e a mantenere l’equilibrio. La sua faccia è
rilassata, alza appena la testa ogni volta che una nuova coppia di piedi passa
all’altezza del suo naso un paio di metri più in là, sulla pista ciclabile che
costeggia il fiume.

«Ieri camminando in questa zona ho perso un ciondolo»,
gli domanda una passante, «lei per caso lo ha trovato?». «Io non so», risponde
l’uomo in un italiano stentato, «devi chiedere alla signora che sta là» e
indica un punto sul muro che riveste la scarpata, quasi all’altezza della
strada. Da qualche parte vicino al quel punto nel cemento deve esserci una
signora, probabilmente dentro a un alloggio di fortuna che un muretto nasconde
alla vista di chi passa sul lungotevere, costruito con i cartoni e le lamiere
recuperati da qualche discarica, o da un cantiere, o da un cassonetto
dell’immondizia. Quella signora forse sa che fine ha fatto il ciondolo perché
anche lei, come l’uomo che cucina i peperoni, abita lì e vede tutto quello che
nel corso di una giornata scorre, ritorna, si perde e si ritrova in quei venti metri
in riva al fiume.

La prima «rivelazione» che colpisce un osservatore delle
molteplici forme dei cosiddetti insediamenti urbani informali è che la
sensazione di disordine e di mancanza di logica che si può avere all’inizio è
in larga parte sbagliata: così come uno slum (baraccopoli) di una grande
metropoli del sud del mondo, apparentemente un agglomerato di puro caos,
polvere e sporcizia, è in realtà un micro-mondo altamente organizzato, allo
stesso modo nel nord del mondo, nelle periferie urbane e anche negli anfratti e
recessi del centro delle città, le persone si aggregano e si organizzano anche
se in condizioni abitative – ed è questo che genera la sensazione di disordine
– che risulterebbero inaccettabili per la maggior parte della popolazione urbana.

Come si legge nel dossier di Nigrizia sulle baraccopoli
d’Italia curato da Fabrizio Floris nel 2010, il cuore del problema sta in ciò
che si vede, o si crede di vedere, quando si passa accanto a questi
insediamenti: «Vedi ladri, approfittatori, gente a cui piace vivere così perché
è la loro cultura. Oppure vedi poveri da aiutare o l’effetto delle politiche
pubbliche mancate, sbagliate…». Si vede, o si pensa di vedere tutto questo,
cioè categorie, immagini, concetti: molto più raramente si vedono persone e si
percepiscono quegli spazi non come errore del sistema o bruttura da nascondere
ma come luogo che si è sviluppato all’interno di un processo storico nel corso
del quale sono cambiate le condizioni economiche, la società e, di conseguenza,
la città e i suoi spazi. Per farsi un’idea di questi meccanismi e processi
storici è utile partire dal luogo che per definizione si trova al margine: la
periferia.

Come nasce e che cos’è la periferia

In uno studio dell’Associazione nazionale dei comuni italiani del 2008 si tenta un’analisi dell’origine e della
natura delle periferie: le periferie, si legge, sono una «invenzione» della
città modea, che segue l’abbattimento – non necessariamente fisico – delle
cinte murarie di difesa che le nuove tecniche di guerra (ad esempio l’uso del
bombardamento aereo) hanno reso irrilevanti ai fini della protezione delle città.
Il vocabolario indica la periferia come «la parte estrema e più marginale,
contrapposta al centro, di uno spazio fisico o di un territorio più o meno ampio»
e la locuzione «di periferia» nell’uso comune indica non solo la collocazione
di un’area nel tessuto urbano, ma «aggiunge spesso una connotazione riduttiva,
di squallore e desolazione».

Non si tratta di un fenomeno nuovo: nasce infatti in
Europa in concomitanza con una fase avanzata del processo di
industrializzazione. In Italia, il fenomeno appare più in ritardo rispetto agli
altri Paesi europei e nelle grandi città conosce un boom negli anni della
ricostruzione successiva alla Seconda guerra mondiale. Numerose testimonianze
di quell’epoca raccontano delle condizioni di disagio e della mancanza di
servizi e infrastrutture patite dagli abitanti di queste aree periferiche. La
periferia come era intesa negli anni Cinquanta e Sessanta
era spesso una terra di nessuno ai margini delle grandi città dove gli
immigrati interni, che lasciavano le aree rurali italiane per le grandi città
dove sorgevano le industrie, potevano insediarsi, comprare un piccolo pezzo di
terra e cominciare a costruire piano piano una casa; oppure erano una sorta di
anticamera, un posto nel quale appoggiarsi fino a quando i risparmi fossero
stati sufficienti per potersi permettere una casa in quartieri più centrali
oppure, nei decenni successivi agli anni Settanta, in zone sempre estee ma
residenziali, a volte anche di lusso.

Oggi la situazione è in parte cambiata: la marginalità
sociale ed economica non corrisponde più così nettamente alla distanza dal
centro e le sacche di marginalizzazione sono distribuite sia verso l’esterno
della città sia negli spazi cittadini più centrali, se è vero che a Milano una
baraccopoli era sorta nella zona di Porta Romana (a un paio di chilometri dal
Duomo), mentre a Roma nel 2012 è stata smantellata una bidonville lungo
i binari della ferrovia nei pressi della stazione Ostiense, a meno di tre
chilometri dal Colosseo.

Gli insediamenti informali sono uno degli aspetti – forse
il più estremo – che accompagnano il disagio sociale, la povertà e la
marginalizzazione, non l’unico. Bidonville e periferia non sono
necessariamente sovrapponibili, né c’è una corrispondenza totale fra marginalità
socio-economica e nazionalità straniera.

Le periferie europee, una panoramica

Quando si pensa agli aspetti problematici legati alle
periferie urbane ritorna in mente l’episodio clamoroso degli émeutes (sommosse) nella banlieue di Parigi. Il 27
ottobre del 2005 a Clichy-sous-Bois, un comune pochi chilometri a est di Parigi
due adolescenti muoiono fulminati mentre si nascondono nella cabina del
trasformatore della Edf, la società francese dell’energia, tentando di sfuggire
alla polizia. In seguito alla diffusione della notizia scoppia una serie di
disordini che durerà tre settimane, allargandosi anche ad altre periferie del
Paese. Il bilancio finale sarà di quasi tremila arresti, oltre cinquanta
poliziotti feriti e circa novemila automobili date alle fiamme, numeri che
fanno della rivolta la più grande che si sia verificata nelle città francesi
dal maggio del 1968. Gli insorti sono quasi tutti di origine africana. Le
notizie degli scontri francesi hanno una grande risonanza mediatica
internazionale e portano alla ribalta della cronaca i temi del disagio e
dell’emarginazione nella banlieue francese raccontati in film come La haine (L’odio) di Mathieu
Kassowitz (1995).

Le altre capitali europee non sono estranee a questo
genere di tensioni. Nel 2011, dopo l’uccisione a Londra di un ventinovenne da
parte della polizia nell’ambito di un’indagine sui crimini da arma da fuoco
all’interno della comunità nera, un’ondata di violenza e saccheggi scuote la
Gran Bretagna partendo dai quartieri londinesi di Tottenham e Brixton e
estendendosi poi ad altre aree della città e del Paese. Mentre il governo e le
forze dell’ordine attribuiscono i disordini a criminali e teppisti, diversi
osservatori indicano fra le cause anche il disagio sociale, la disoccupazione e
la povertà che si stanno diffondendo a seguito della crisi finanziaria e delle
politiche economiche del governo britannico.

Un servizio della Bbc del febbraio 2012 illustra poi la
realtà degli slums ai margini di Londra, mostrando una delle zone a ovest
di Londra dove immigrati illegali provenienti prevalentemente dallo stato
indiano del Punjab vivono in circa 2.500 casette per la maggior parte abusive,
a volte prive di acqua ed elettricità, in cambio delle quali pagano affitti che
arrivano anche a ottocento sterline al mese. Attualmente, gli insediamenti
illegali a Londra sono, secondo le stime, circa diecimila.

Nemmeno la Svezia, spesso citata come modello di welfare
state
e capace, fino ad oggi, di limitare il disagio sociale, è immune dai
disordini. Nel maggio dello scorso anno, a Stoccolma la polizia uccide, nel
tentativo di disarmarlo, un immigrato di origine portoghese armato di coltello.
L’evento suscita una serie di rivolte che partono da Husby, quartiere
multietnico della capitale svedese, e si estendono nel corso di cinque giorni
ad altri quartieri ed altre città. Sebbene i disordini a Stoccolma abbiano
proporzioni differenti rispetto a quelle di Parigi e Londra, il fatto che la
pacifica e socialmente inclusiva Svezia abbia vissuto giorni di violenza e
scontri spinge molti commentatori a chiedersi: se l’instabilità può travolgere
perfino la Svezia, che cosa può succedere altrove, dove le condizioni sono già
più critiche e il disagio tangibile?

La situazione in Italia

In un articolo del 2005 il Sir (Servizio di informazione
religiosa) chiedeva a diversi esperti se i fatti di Parigi possono ripetersi
anche da noi. Francesca Zajczyk, docente di sociologia urbana all’università di
Milano-Bicocca, rispondeva che la principale differenza fra il caso francese e
quello italiano risiede nel fatto che oltralpe «la ghettizzazione riguarda
immigrati di seconda generazione, i quali sperimentano la disillusione, la fine
del sogno di integrazione e di benessere» mentre a Milano «sono immigrati di
prima generazione, spesso giunti da poco nel nostro paese. Per loro il sogno
italiano resiste ancora». Inoltre, aggiungeva la sociologa, in Italia «la
presenza straniera è più distribuita sul territorio. Questo mix sociale tende
dunque a ridurre o a stemperare la marginalità e svolge un ruolo di
ammortizzatore del disagio». Ciò premesso, concludeva Zajczyk, non si può del
tutto escludere l’ipotesi che la situazione che in Francia ha dato origine alle
rivolte interessi progressivamente pure altri paesi e, per effetto emulativo,
tocchi anche l’Italia.

Quanto al tema specifico degli insediamenti informali,
non ci sono dati certi e univoci circa il loro numero sul territorio italiano,
né è chiaro quante persone vivano in queste condizioni; le stime parlano di
circa seimila baraccopoli in tutta la penisola e di circa due milioni di
persone (non solo stranieri) interessate dal fenomeno degli alloggi informali.
Il censimento Istat del 2011 ha rivelato che in dieci anni le famiglie che
dichiaravano di vivere in baracche, tende o simili era più che triplicato:
oltre settantunomila contro le circa ventitremila del 2001.

Nel corso del 2014 Cooperando cercherà
di affrontare il tema delle periferie urbane, degli insediamenti informali e
del disagio con una serie di reportage sulle realtà e sulle esperienze in corso
in alcune città italiane. Particolare attenzione verrà data alla condizione dei
migranti, ma si cercherà di estendere il più possibile lo sguardo in modo da
far emergere un quadro il più verosimile possibile delle persone e delle storie
che abitano il margine e la periferia, ovunque questo si collochino nella città.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Non giochiamo al «cattivo selvaggio»

Gli Yanomami sono un popolo feroce, lo stato-nazione
porta la pace e i nostri tempi sono probabilmente i più pacifici che l’umanità
abbia mai vissuto. Queste, in estrema sintesi, le tesi di tre studiosi che
hanno scatenato le dure reazioni di una parte della comunità scientifica e di
attivisti per i diritti delle popolazioni indigene, che accusano i tre autori
di aver rimandato indietro di cent’anni il dibattito e di mettere in
discussione il diritto alla sopravvivenza di interi popoli, dell’Amazzonia e
non solo.

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I termini del dibattito

Ci risiamo. Napoleon Chagnon, il celeberrimo antropologo statunitense che dagli anni Sessanta studia le popolazioni Yanomami del Venezuela, torna alla carica: all’inizio di quest’anno ha pubblicato un saggio dal titolo Nobili selvaggi: la mia vita tra due tribù pericolose – gli Yanomami e gli Antropologi, che riprende in larga parte le tesi sostenute dallo stesso Chagnon nel suo Yanomami, il popolo feroce del 1968, dove gli indigeni vengono descritti come «scaltri, aggressivi e minacciosi», «feroci», «continuamente in conflitto l’uno con l’altro» e «in uno stato di guerra cronico». Quest’ultima espressione ricorda molto quella usata dal filosofo inglese Thomas Hobbes nel sedicesimo secolo per descrivere la situazione nello stato di natura e per mostrare la necessità della politica (e, in definitiva, dello stato) per rendere possibile una ordinata vita associata nella quale l’uomo non sia più lupo per l’altro uomo.

Proprio su questo punto si realizza il contatto fra il pensiero di Chagnon e quello di Jared Diamond, studioso statunitense autore di Il mondo fino a ieri (2012): dopo aver affermato che le società tradizionali, cioè i popoli come gli Yanomami, i Dani della Papua Occidentale e altri, sono interessanti da studiare per la loro prossimità evolutiva con i nostri antenati, Diamond attinge a piene mani da Chagnon per dimostrare che tali popolazioni sono intrinsecamente violente e consapevoli della misera condizione alla quale la violenza li condanna; tanto che, afferma l’autore, quando i governi coloniali intervengono con la forza a metter fine alle guerre tribali, i membri della tribù riconoscono che c’è un miglioramento della qualità di vita che da soli non sarebbero mai stati capaci di ottenere, poiché senza l’intervento di un governo non sarebbe stato possibile mettere fine alla spirale di vedette che le guerre tribali innescano.

Infine, in Declino della violenza (2011), lo psicologo evoluzionista Steven Pinker sostiene tesi molto simili a quelle di Diamond e si spinge ad affermare che quella che stiamo vivendo è l’epoca più pacifica della storia, un’argomentazione che ha diversi punti in comune con il libro di Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), sebbene Pinker stesso abbia affermato di non spingersi fino a parlare di fine della storia ma di circoscrivere il «miglioramento» alla sfera della tecnologia, del cosmopolitismo e della diffusione delle idee.

Reazioni

Di fronte a queste posizioni dei tre studiosi, numerosi esponenti del mondo accademico e le associazioni di difesa dei diritti delle popolazioni indigene, Survival (www.survival.it) in testa, sono letteralmente insorti. Gli interventi sono stati davvero tanti e una buona panoramica è disponibile su anthropologyreport.com, sito che riunisce i contributi provenienti da blog, riviste e libri di antropologia. In poche parole, le principali critiche riguardano la riproposizione da parte dei tre autori del mito del «cattivo selvaggio», l’utilizzo di una variabile come la violenza, estremamente difficile da misurare e comparare, per definire la «ferocia» dei popoli e, nel caso di Pinker e Diamond, una trattazione non rigorosa dei dati statistici sulla violenza e la guerra.

L’antropologo Greg Laden, in un articolo apparso sulla rivista The Slate lo scorso maggio, afferma che non è mai stato così facile come nelle società occidentali rovinare o distruggere senza alcuno sforzo vite umane, e la guerra è diventata mortale come non lo era mai stata prima.

Al di là della diatriba accademica, le affermazioni dei tre studiosi hanno conseguenze immediate di natura politica. Le associazioni come Survival ribadiscono che le tesi di Chagnon, Pinker e Diamond hanno effetti potenzialmente devastanti sulle società indigene: l’argomentazione del «cattivo selvaggio» che i tre accademici riportano alla ribalta, infatti, è proprio una delle leve su cui hanno fatto forza molti governi per giustificare - in diverse epoche, compresa la nostra - l’uso della forza contro interi popoli.

Infine, i rappresentanti delle comunità indigene stesse hanno detto la loro contro le tre opere. Secondo Davi Kopenawa, storico leader yanomami (vedi anche a pag. 21 di questo stesso numero, ndr), non è certo la violenza intea alle comunità a provocare vittime fra la sua gente: «I nostri veri nemici», ha dichiarato, «sono i cercatori d’oro, gli allevatori e tutti coloro che vogliono impadronirsi della nostra terra». Ancora, a detta di Benny Wenda, leader del popolo Dani della Papua occidentale: «L’Indonesia ha occupato illegalmente il nostro paese nel 1963, ed è allora che sono davvero iniziati i massacri, in tutta la Papua Occidentale. Il governo indonesiano non ci ha salvato da un circolo di violenza, come ha scritto Diamond, al contrario, ha portato una violenza che non avevamo mai nemmeno conosciuto: ha ucciso, violentato e imprigionato il mio popolo, e ha rubato la nostra terra per arricchirsi».

La situazione sul campo e la lettera di Fratel Carlo Zacquini al Papa

I missionari della Consolata lavorano con il popolo Yanomami dell’area di Catrimani (Amazzonia brasiliana) dagli anni Sessanta. La realtà che raccontano si colloca a una distanza siderale rispetto a quella descritta da Chagnon. In un’intervista a Survival dello scorso febbraio, il missionario della Consolata fratel Carlo Zacquini ha dichiarato: «Quelli che ho conosciuto – e ne ho conosciuti molti di Yanomami durante gli anni trascorsi a visitare un gran numero di comunità – non sono così [cioè non sono violenti]. Ci sono sempre tensioni, come ci sono tensioni in ogni famiglia, e in ogni paese, ma questo non è guerra. [...] Vi sono lotte, penso che siano sempre esistite, esistono in tutte le società, e qualche volta qualcuno muore, ma è davvero molto raro. Le lotte sono divenute molto più serie quando sono arrivati i cercatori d’oro e si sono diffuse le armi da fuoco. Ma non è una situazione generale, né costante [...]. Il danno provocato da queste “guerre” è decisamente minore di quello provocato da un raffreddore».

Fratel Carlo racconta, in una sua lettera dello scorso luglio, di aver sfogliato il rapporto stilato nel 1967 dal procuratore Jáder de Figueiredo Correia in seguito alle indagini affidategli dal Ministro dell’Inteo del Brasile, dopo che una commissione parlamentare di inchiesta aveva denunciato gravi irregolarità nel Servizio di Protezione degli Indios (Spi), cioè l’ente che, sulla carta, avrebbe dovuto «proteggere» i popoli indigeni. Anche a una lettura superficiale, la descrizione di alcuni fatti è, a detta di fratel Carlo, così nauseante da non poter essere riportata: i soprusi, i massacri, le violenze che gli indios hanno subito per mano del servizio nato per salvaguardarli sono tali e tanti da non reggere il confronto con le cose già gravissime e atroci che il missionario ha sentito e testimoniato nella sua lunga esperienza di lavoro con gli Yanomami.

Fratel Carlo ha di recente scritto una lettera a papa Francesco in occasione della sua visita in Brasile per la Giornata Mondiale della Gioventù: «So che tu non puoi permetterti di passare qualche giorno in un villaggio yanomami come ha fatto il re della Norvegia», scrive fratel Carlo, «ma forse potresti consigliarlo a qualcuno dei discendenti di europei o di persone di altri continenti che hanno popolato questo “grande” paese, il Brasile. [...] Forse, dunque, in quel caso, comincerebbero a capire che le dimostrazioni di ripudio e di rivolta che si ripercuotono sui mezzi di comunicazione, specialmente quelli alternativi, non sono effetto di allucinazioni di alcuni esaltati [...], ma guardano al bene delle popolazioni indigene e a quello del resto dell’umanità [...]. Come può un paese, la cui grandissima maggioranza si dice cristiana, trattare i diritti umani in questo modo?».

Oggi, il tentativo di eliminazione degli Yanomami e di molti altri popoli continua in modo sistematico, si è solo fatto meno brutale e più subdolo. La presenza di popolazioni indigene su territori spesso anche molto ricchi di risorse, in contesti di paesi in forte crescita economica, è tuttora vissuta come un fastidio e un problema da rimuovere. Quasi mai la soluzione del problema passa attraverso la mediazione, la proposta di alternative e il rispetto del diritto di quei popoli a vivere nel loro territorio.

«Non è che vogliamo convincere, né tantomeno costringere, i popoli indigeni a “fare gli indigeni” in eterno», aveva spiegato qualche anno fa fratel Carlo a chi scrive. «Se gli Yanomami, nel corso del tempo, decideranno di cedere il proprio territorio e le proprie tradizioni, questa sarà una scelta che ci rattristerà infinitamente ma non penso che potremo opporci. Ma è proprio questo il punto: la scelta. Credo che il ruolo di noi missionari consista anche nel sostenere questo popolo nel suo tentativo di ottenere gli strumenti, culturali e giuridici, perché possa difendersi e scegliere, per non essere semplicemente spazzato via da chi vuole arricchirsi devastando la sua terra. Tanto più che, come sempre ripete Davi Kopenawa, non ci sono altri mondi, ce n’è solo uno e l’Amazzonia ha un valore inestimabile, e reale, per tutti noi».

Basta, con un semplice esercizio mentale, sostituire nel paragrafo sopra «Yanomami» e «Amazzonia» con il nome del proprio popolo e territorio di appartenenza per capire che non stiamo parlando di qualcosa di così lontano.

Chiara Giovetti

Tre domande a

Francesca Bigoni e Roscoe Stanyon, antropologi che curano un progetto di ricerca sugli Yanomami con l’Università di Firenze e collaborano con padre Corrado Dalmonego, missionario della Consolata a Catrimani (Roraima, Amazzonia brasiliana).

Che cosa ne pensate della ripresa del dibattito sul «cattivo selvaggio»? Si tratta di una riproposizione di temi già noti o c’è effettivamente qualche nuovo elemento.

Forse non è un caso che questo dibattito si riaccenda in un momento drammatico in cui l’esistenza dei popoli indigeni e la salvaguardia dei territori a cui sono legati sono minacciati da ciechi interessi economici e politici. Continuare ad utilizzare i vecchi stereotipi per rappresentarli come popoli «primitivi», violenti e in antitesi al «progresso», e comunicare a vari livelli questa visione distorta è certamente strumentale a questa situazione. Sì, ci sono nuovi elementi e sono tutti in favore dei popoli indigeni, perché ora abbiamo una conoscenza migliore dei valori culturali di cui sono portatori e difensori (dimensione collettiva della loro vita sociale, relazione con l’ambiente, prospettiva spirituale).

L’antropologo Greg Laden scrive che la violenza, il tratto culturale attribuito agli Yanomami e ad altre popolazioni indigene, non è un criterio affidabile perché «è difficile da misurare» e aggiunge, per contro, che è proprio la società occidentale che ha reso la guerra mortale e la vita umana facile da rovinare e distruggere come mai lo erano state prima. Siete d’accordo con questo ribaltamento di prospettiva?

Certamente sì. Per esempio, è ora ben noto che la presunta violenza fra gruppi di Yanomami di cui parla Chagnon, ammesso che i suoi dati siano corretti, si riferisce a una limitata zona geografica e a un momento storico particolare. La sua prospettiva non è stata confermata da studi in altre vaste zone di insediamento degli Yanomami. Per esempio Giovanni Saffirio, missionario della Consolata e antropologo, nella sua lunga esperienza tra gli Yanomami del Catrimani dal 1968 fino alla metà degli anni ’90 ha provato a raccogliere dati, ma i casi di morti per violenza erano così rari che non era possibile neppure fare un confronto statistico. Quindi le generalizzazioni di Chagnon devono essere lette in maniera molto critica. Attualmente gli studi antropologici dimostrano che i comportamenti umani sono, in tutte le popolazioni, altamente flessibili e legati alla situazione particolare in cui ci si viene a trovare. D’altra parte Pinker, per sostenere la sua teoria del «declino della violenza» nella nostra cultura rispetto alle culture tradizionali come quella Yanomami considerate «feroci», utilizza limitati dati di Chagnon e di altri antropologi, confrontandoli con i tassi di omicidio nella società occidentale, ma usa criteri statistici scorretti per sostenere le sue tesi, finendo addirittura con lo sminuire la portata di avvenimenti come lo sganciamento di bombe atomiche nella nostra epoca e numerosi episodi di genocidio di popoli indigeni e non indigeni.

La storia è chiara e ci insegna che le più grandi violenze, sono state quelle con cui la cosiddetta società «civilizzata» ha causato lo sterminio dei popoli nativi in diversi continenti, un fenomeno che sembra ripetersi, magari con forme più sottili e subdole, ancora oggi.

Una domanda più per i cittadini Francesca e Roscoe cheper gli antropologi: perché un italiano, un europeo, un abitante del Nord del mondo dovrebbe interessarsi degli Yanomami e delle popolazioni indigene in genere?

Studi recenti hanno dimostrato chiaramente che nei territori in cui i popoli nativi vengono preservati con la loro cultura e la loro lingua, viene automaticamente protetta la biodiversità; al contrario la perdita delle culture tradizionali e del loro patrimonio linguistico è seguita in breve tempo dalla distruzione dell’ambiente. Se ignoriamo questo semplice fatto prepariamo l’estinzione della nostra stessa specie umana.

Chiara Giovetti
 
Chiara Giovetti




Cent’anni di Etiopia: dalle macchine Singer all’informatica,

La Missione nell’Etiopia di ieri e di oggi.

La presenza dei missionari della Consolata in un paese
tutt’altro che semplice.

La missione nell’Etiopia di ieri

«Con
santa letizia e sensi di viva gratitudine verso la S. Sede comunichiamo ai
nostri lettori un’importante notizia. La S.C. di Propaganda ha, con recente
decisione, creato una nuova prefettura Apostolica intitolata del Kaffa
meridionale, e l’ha affidata per l’evangelizzazione ai missionari del nostro
Istituto». Era il 1913, esattamente cento anni fa, quando sul numero di marzo
di La Consolata – come allora si chiamava la nostra rivista – veniva
dato l’annuncio dell’assegnazione ai missionari della Consolata della
prefettura del Kaffa in Etiopia, un territorio vasto «più che l’Italia
settentrionale (di cui) non è possibile dare notizie complete, essendo il
medesimo ancora in gran parte inesplorato». Ai missionari era affidato il
compito di portare avanti il lavoro cominciato nel 1846 dal cappuccino
monsignor Guglielmo Massaia, che fu però cacciato dall’Etiopia nel 1872.

Monsignor
Gaudenzio Barlassina, futuro superiore generale dell’Istituto Missioni
Consolata, partì nel dicembre del 1914 da Genova alla volta di Mombasa, per
entrare ad Addis Abeba due anni dopo, la sera di Natale del 1916 «travestito da
mercante, cavalcando un mulo» (vedi l’articolo Ieri e sempre di B.
Bellesi e G. Mazzotti su MC 02/2001). A rendere difficile l’entrata in Etiopia
dei missionari erano i delicati equilibri diplomatici interni e inteazionali
e la resistenza alla penetrazione di altre confessioni da parte del clero copto,
dal cui appoggio politico i regnanti etiopi non potevano prescindere.

I
primi passi della missione in Etiopia furono all’insegna della prudenza:
dall’incontro con Ras Tafari, il futuro Haile Selassie, all’epoca reggente –
mentre imperatrice era Zauditù, una delle figlie del precedente imperatore
Menelik II, – Monsignor Barlassina comprese che un permesso dato dal principe a
missionari cattolici avrebbe provocato una levata di scudi da parte del vescovo
copto che il reggente non poteva permettersi di affrontare. Barlassina decise
perciò di «travestire» la missione da impresa commerciale. Con la
collaborazione di Felice Gullino, un torinese che aveva stabilito ad Addis
Abeba un laboratorio di ebanisteria, fu creata una società che fra il 1917 e il
1918 aprì due negozi a Ghimbi e Billo, avamposti nel territorio della nuova
prefettura. Si aggiunsero poi laboratori di sartoria e, nel 1919, la
rappresentanza commerciale per le macchine da cucire Singer. Dopo il viaggio di
perlustrazione del Kaffa effettuato da Barlassina fra il gennaio e l’aprile del
1919 (e descritto nel libro di E. Borra, La carovana di Blass e in
quello di G. Tebaldi, L’ultimo carovaniere, entrambi editi da EMI), il
prefetto si fece un’idea precisa del territorio della sua prefettura e programmò
l’espansione delle missioni con l’apertura di nuove stazioni. Nel 1924
arrivarono sei suore della Consolata, autorizzate a stabilirsi nel paese come
infermiere. Questo evento rappresentò di fatto il primo passo verso l’uscita
dalla clandestinità per i missionari: «Le suore non si potevano nascondere» –
scrive padre Giovanni Crippa nel libro
I missionari della Consolata in Etiopia (Edizioni Missioni Consolata
1998), sul quale si basa questa ricostruzione. «La prudenza aveva imposto ai
missionari botteghe da mercanti e abiti civili. Le grandi sottane delle suore e
i loro crocifissi difficilmente potevano passare per un tipico costume europeo».

Agli
ambulatori – prima ad Addis Abeba e poi nel Kaffa – si affiancarono,
lentamente, le scuole, mentre più timidi e nascosti, sebbene non inesistenti,
rimanevano la ricerca di cattolici occulti e il sorgere di vocazioni fra gli
etiopi. Quando, nel 1933, Barlassina fu eletto superiore generale dei
missionari della Consolata e rientrò in Italia, la missione nella prefettura
del Kaffa poteva dirsi consolidata e godeva di una buona libertà d’azione. Il
conflitto italo–etiope portò poi nel 1935 all’espulsione dei missionari che
cominciarono a tornare in Etiopia l’anno successivo con l’occupazione fascista
in veste di cappellani militari. La parola d’ordine era «rientrare al più
presto», riporta ancora Crippa, ma l’essere al seguito di una potenza europea
affamata di colonie e accecata dal mito dell’impero rese la missione funzionale
al sistema coloniale e l’azione missionaria ne fu stravolta. Nel 1942, in
seguito alla vittoria delle truppe britanniche su quelle italiane, i missionari
vennero di nuovo espulsi dal paese.

Si
dovette attendere quasi un trentennio perché i missionari della Consolata
potessero fare ritorno in Etiopia: nel 1970 padre Giovanni De Marchi ottenne il
visto per l’entrata nel paese ma si presentò come membro dei Fatima Fathers,
per evitare di richiamare alla memoria le passate esperienze degli anni
Quaranta. Inizialmente i missionari si stabilirono nel vicariato apostolico di
Harar e solo nel 1980 assunsero la nuova prefettura di Meki dove, nel giro di
tre anni, furono messe in funzione quattro parrocchie con le relative attività
di promozione umana, cioè scuole matee, elementari, professionali, dispensari,
centri di assistenza ai bambini disabili e ai non vedenti (vedi l’articolo di
B. Bellesi su MC 05/2003, I grandi missionari: Padre Giovanni De Marchi).
Gli anni Settanta furono anche quelli dell’arrivo dei missionari della
Consolata a Gambo dove nel 1980, su richiesta delle autorità etiopi, si iniziò
ad adibire una parte del già esistente lebbrosario a ospedale generale.

Anche
oggi, a cent’anni dall’assegnazione del Kaffa all’Istituto, l’Etiopia continua
a essere un paese nel quale l’entrata e la permanenza sono tutt’altro che
scontate. Fino a poco tempo fa, riferiscono i padri attivi in Etiopia, la
Chiesa Cattolica aveva lo status di resident charity (istituzione
benefica residente) e i missionari erano autorizzati a operare in quanto membri
di tale istituzione e con incarichi specifici, determinati e a termine. Oggi,
sebbene sia di recente cambiata la legislazione, il principio sembra essere
rimasto lo stesso: la presenza nel paese è vincolata alla realizzazione di
progetti di carattere sociale e cioè nell’ambito dell’istruzione, della sanità,
della formazione.

Uno sguardo sull’Etiopia di oggi

Per
accorgersi che l’Etiopia è un paese peculiare che mal si adatta a essere
sommariamente etichettato come africano non occorre essere antropologi o
storici: basta ascoltare gli etiopi. Il loro senso di unicità, la distanza
culturale, religiosa e storica che li separa dagli altri popoli che con essi
condividono il continente sono, a loro dire, evidenti. «Pochi altri popoli
possono vantare radici così antiche», spiegava a chi scrive un adolescente
incontrato durante una visita in Etiopia nel 2009, «e probabilmente anche il
fatto di non essere mai stati colonizzati ci rende diversi dagli altri».

Che
la presenza dello stato sia più capillare e la resistenza all’occidentalizzazione
sia più decisa risulta chiaro anche a un primo sguardo alle vie di Addis Abeba:
i grandi centri commerciali e gli enormi cartelloni che pubblicizzano bibite o
capi d’abbigliamento sportivo così frequenti in molte metropoli africane sono completamente
assenti nella capitale etiope. Al loro posto ci sono piuttosto piccoli
supermercati che vendono prevalentemente prodotti locali o di importazione
cinese e poster celebrativi dell’autorità, come quello che negli anni
del governo di Meles Zenawi (morto esattamente un anno fa) ritraeva il primo
ministro con il braccio proteso in avanti come ad indicare la via verso un più
roseo futuro a un gruppo di bambini sorridenti. Sull’immagine campeggiava la
scritta «Un leader africano impegnato per la democrazia, pace e lo sviluppo» (vedi
foto qui sotto
).

Ma,
al di là dei simboli e delle generalizzazioni, l’Etiopia occupa davvero una
posizione particolare nel panorama del continente: sede dell’Unione Africana e
della Commissione Economica per l’Africa delle Nazioni Unite, il paese è
letteralmente inondato di programmi (e fondi) delle agenzie inteazionali.
Secondo i dati Ocse, l’Etiopia è il paese africano che riceve più aiuti
pubblici allo sviluppo dopo la Repubblica Democratica del Congo, con un totale
nel 2011 pari a oltre tre miliardi e mezzo di dollari. E, se gli Stati Uniti «corteggiano»
l’Etiopia – che Washington ritiene cruciale dal punto di vista geopolitico e
strategico – a suon di aiuti allo sviluppo, la Cina dal canto suo controbatte
con la strategia che sta applicando in tutto il continente, quella degli
investimenti massicci. Solo per citare il più recente, il Financial Times
riporta che Huajian – un’azienda cinese che produce scarpe da donna per brands
come Tommy Hilfiger, Guess, Naturalizer, Clarks e che ha già una
fabbrica vicino a Addis Abeba dove lavorano seicento persone – si è ora
impegnata a investire insieme alla China Development Bank due miliardi
di dollari nei prossimi dieci anni per creare una zona di produzione in Etiopia
che dovrebbe arrivare a impiegare circa centomila persone.

Con
tassi di crescita a volte anche a due cifre, l’Etiopia si trova oggi sospesa
fra la povertà oggettiva dei suoi ottanta milioni di abitanti e una politica
ambiziosa per il futuro. Il più recente e clamoroso episodio che testimonia
questa ambizione è il progetto di costruzione della «grande diga della
Rinascita» sul Nilo Azzurro, iniziativa che ha scatenato le ire dell’Egitto –
dove la maggior parte della popolazione vive nella striscia di terra bagnata dal
fiume – al punto da spingere il presidente Mohamed Morsi a dichiarare che gli
egiziani «difenderanno con il sangue ogni goccia del Nilo». Le dichiarazioni di
Morsi sono state subito ridimensionate, ma la tensione resta palpabile.
L’Etiopia, che ha affidato all’italiana Salini la realizzazione
dell’opera monumentale, ha scommesso il tutto per tutto su questa diga. Di
fronte al rifiuto da parte delle agenzie inteazionali di finanziare il
progetto in mancanza dell’assenso dei paesi rivieraschi, l’Etiopia ha deciso di
realizzae autonomamente la costruzione, che costerà circa cinque miliardi di
dollari, esortando la popolazione ad acquistare obbligazioni.

I
tempi della clandestinità di padre Barlassina sono ormai lontani; ma, oggi come
allora, la voglia di affermazione e di rivalsa del paese hanno certamente un
ruolo non secondario nel fare dell’Etiopia un luogo dove occorre sempre
chiedere permesso.

Chiara Giovetti

       Gambo, informatizzare l’ospedale                                                    

Uno dei progetti che in questo momento Mco sta sostenendo è quello
dell’informatizzazione dell’ospedale di Gambo. Dato il suo grande bacino
d’utenza – sulla carta sarebbe di circa centomila persone, ma la provenienza
dei pazienti suggerisce che quella servita sia un’area molto più ampia –
l’ospedale deve gestire una quantità notevole di pazienti e quindi di
informazioni, documenti, cartelle cliniche. Attualmente la registrazione dei
pazienti avviene in modo manuale su supporto cartaceo, ma questo metodo genera
problemi per l’identificazione univoca del paziente, la conservazione dati, la
comprensione grafica, la completa e corretta compilazione dei documenti e crea
difficoltà di cornordinamento fra i reparti dell’ospedale, il laboratorio, la
farmacia e l’amministrazione. Può succedere, cioè, che il paziente smarrisca documenti
come le prescrizioni mediche o che il personale impieghi ore nella ricerca
delle cartelle dei pazienti, a volte accatastate anche sul pavimento (vedi
foto). Con il progetto di informatizzazione si vorrebbe dunque procedere
all’acquisto di macchine e server, all’installazione dei programmi di gestione
e alla formazione del personale per l’utilizzo del sistema. I benefici
derivanti dalla realizzazione di questo progetto saranno un minor rischio di
perdita di informazioni relative al paziente e alla terapia e un alleggerimento
del carico di lavoro, oggi davvero pesante, per il personale dell’ospedale. (Chi.Gio.)

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Chiara Giovetti