La Tratta: facciamo il punto

L’8 febbraio è la
prima «Giornata mondiale contro la tratta di esseri umani e lo sfruttamento
sessuale»1. La data è stata scelta perché coincidesse con la festa di Santa
Giuseppina Bakhita, una schiava sudanese nata nel 1869 diventata, dopo la
liberazione, una religiosa canossiana. Dopo circa trent’anni dalla comparsa del
fenomeno della tratta in Italia, Missioni Consolata, come già altre volte,
propone una riflessione sulla situazione.

Leggi articolo integrale con intervista a suor Eugenia Bonetti nello sfogliabile pdf

«La tua università è
la strada»

Hope (Speranza – nome inventato) è arrivata in Europa
dalla Nigeria in aereo, con un passaporto valido e un permesso di soggiorno per
motivi di studio in tasca. Prima ha fatto scalo in Olanda, dove, insieme a un
gruppo di coetanee, ha seguito una settimana di corso di orientamento
preliminare all’inizio degli studi. Poi le ragazze sono state divise a seconda
della destinazione finale. A Hope è toccata l’Italia, paese raggiunto
nuovamente in aereo. Una volta arrivata, è stata accompagnata a casa di una sua
connazionale che l’avrebbe ospitata durante il periodo di studio. «Domani andrò
all’università a iscrivermi ai corsi», ha detto Hope alla padrona di casa. «Non
uscirai di qui finché non lo dirò io», le ha risposto la signora. «La tua
università è la strada».

È cominciato così l’incubo di una ventenne nigeriana
convinta di venire in Italia per frequentare l’università e che ha invece
rischiato di diventare l’ennesima vittima di sfruttamento sessuale.

«Per fortuna lei ha reagito subito», spiega la
missionaria della Consolata suor Eugenia Bonetti, cornordinatrice dell’Ufficio
tratta donne e minori dell’Unione Superiori Maggiori d’Italia e presidente
dell’associazione Slaves No More (Mai più schiave) che assiste le donne
vittime di tratta. «Ha reagito prima che le botte e il terrore annientassero la
sua volontà: ha approfittato di una distrazione dei suoi carcerieri ed è
scappata, si è messa a camminare lungo i binari della ferrovia ed è arrivata a
una stazione dove ha chiesto aiuto alla polizia. Da lì, grazie alla
collaborazione della moglie del sindaco locale, che parla inglese, la rete che
cornordino è riuscita a intercettarla e ad assisterla nel realizzare l’unico
desiderio che a quel punto le era rimasto: tornare a casa».

Ma la storia di Hope non è così comune: molte di più
sono invece le nigeriane vittime della tratta incapaci di sottrarsi alla catena
di violenza che le annichilisce, ai riti vudù che le terrorizzano e ai debiti
che le inchiodano a un’esistenza in cui l’esperienza di sottomissione le
devasta fisicamente e moralmente al punto da non riuscire più a riprendersi.
Non solo. Anche quando le donne riescono a uscire dal «giro» e a regolarizzare
la loro posizione entrano in campo una serie di difficoltà: «Noi seguiamo
diverse ragazze che lavorano in Italia con regolare contratto e permesso di
soggiorno», spiega suor Eugenia, «ma quando queste persone hanno dovuto fare il
passaporto elettronico l’ambasciata nigeriana ha rifiutato il rilascio di
quarantanove documenti, perché il passaporto precedente è risultato falso e
l’impronta digitale collegata è stata utilizzata per falsificare altri
documenti. Ora queste donne rischiano di perdere permesso di soggiorno e lavoro».

In entrata, inoltre, i meccanismi legati alla richiesta
d’asilo hanno di fatto aperto un ulteriore varco per l’ingresso delle ragazze
destinate alla strada: «Una volta inoltrata la richiesta di riconoscimento
dello status di rifugiato», continua suor Bonetti, «le ragazze possono uscire
dai centri di identificazione ed espulsione in attesa dell’esito. A quel punto
vengono intercettate dalla rete criminale, che le fa letteralmente sparire nel
nulla per farle riemergere poi sulla strada. Le spese, ingenti, per la richiesta
d’asilo vengono spesso sostenute dalla stessa rete criminale e vanno poi a
ingrossare il debito, di solito nell’ordine dei cinquanta/sessantamila euro,
che le ragazze dovranno ripagare prostituendosi. Questa dinamica getta una luce
sinistra su un sottobosco di persone coinvolte nel favorire il meccanismo: ad
esempio quegli avvocati che suggeriscono alle ragazze di dichiarare la propria
provenienza da zone settentrionali della Nigeria, quelle in preda alla guerra
civile, mentre noi, in vent’anni di lotta alla tratta, abbiamo verificato che
le donne vengono piuttosto da aree, come Benin City, in cui non c’è nessun
conflitto che possa dare diritto allo status di rifugiato».

Non solo prostituzione

Se il caso delle donne nigeriane costrette a
prostituirsi è forse uno dei più riportati dai media, la tratta di esseri umani
è molto più ampia e tocca diverse categorie di persone. Donne e minori
specialmente, ma anche uomini di fatto ridotti in schiavitù e costretti a
svolgere lavori degradanti. Un po’ di dati. Secondo uno studio
dell’Organizzazione mondiale del Lavoro, nel mondo le persone vittime di lavoro
forzato sono quasi ventuno milioni; di queste, nove milioni si trovano
intrappolate nelle reti delle nuove schiavitù in seguito a una migrazione,
intea o estea. È difficile dire quante di queste siano vittime di tratta,
le persone cioè reclutate e trasportate attraverso varie forme di violenza o di
inganno per scopi di sfruttamento sessuale o lavorativo. Un rapporto di Save
the Children
del 2008 stimava che tali vittime fossero quasi tre milioni,
di cui l’ottanta per cento donne e minori, per un giro d’affari che secondo le
Nazioni unite arriva a trentadue miliardi di dollari l’anno.

Secondo Eurostat, la direzione generale della
Commissione europea incaricata di fornire alle istituzioni europee i dati
statistici relativi ai paesi dell’Unione, in Europa nel triennio 2010-2012 le
vittime della tratta documentate – cioè note alle autorità perché il crimine è
in qualche modo emerso – sono state più di trentamila, l’ottanta per cento
delle quali donne. Due terzi delle vittime erano cittadini dell’Unione europea
e i primi cinque paesi di provenienza erano Romania, Bulgaria, Paesi Bassi,
Ungheria e Polonia, mentre i primi cinque paesi extra Ue erano Nigeria, Brasile,
Cina, Vietnam e Russia.

Ma questi casi documentati sarebbero solo la punta
dell’iceberg se è vero che, in Italia, le sole nigeriane vittime di tratta fra
il 2011 e il 2013 sarebbero state quindicimila (dati Unicri, Istituto
interregionale di ricerca delle Nazioni unite sul crimine e la giustizia
,
con sede a Torino).

La situazione in Italia

L’Italia ha incassato lo scorso autunno una bocciatura da
parte del Gruppo di esperti sulla lotta contro la tratta di esseri umani
(Greta) dell’organizzazione internazionale indipendente denominata Consiglio
d’Europa. Il Greta bacchetta l’Italia per la mancanza di una strategia e di una
struttura di cornordinamento nazionale che contrasti il fenomeno. «L’Italia ha
una lunga esperienza nella lotta alla tratta per sfruttamento sessuale» si
legge nel rapporto, «ma dovrebbe prestare maggior attenzione anche alla tratta
per sfruttamento lavorativo e al traffico di bambini». Inoltre, è scritto nel
rapporto, nessuna campagna di sensibilizzazione a livello nazionale è stata
realizzata negli ultimi anni. Infine, la collaborazione a livello regionale e
locale fra autorità pubbliche e società civile ha dato buoni risultati per
quanto riguarda le procedure d’identificazione delle vittime, ma non riesce a
colmare il vuoto derivante dalla mancanza di un meccanismo d’identificazione a
livello nazionale. Il governo Renzi, a inizio incarico, aveva promesso di
approvare entro tre mesi il Piano nazionale, ma a fine 2014 ancora nulla si era
mosso. La Piattaforma nazionale anti tratta ha lanciato una petizione
nella quale sottolinea che «l’approvazione del Piano nazionale doveva avvenire
per disposizione di legge entro la fine di giugno scorso» e chiede al Goveo
di «non far morire il sistema nazionale di tutela e protezione delle vittime
della tratta e di adottare urgentemente i provvedimenti vincolanti previsti dal
decreto 4 marzo 2014 n. 24».

Chiara Giovetti
Nota:

1-
La Giornata internazionale contro la tratta è promossa da Pontificio Consiglio
per la Pastorale dei Migranti, Pontificio Consiglio della Giustizia e della
Pace, Unioni inteazionali femminili e maschili dei Superiori/e Generali (Uisg
e Usg), assieme a Caritas Inteationalis, Talita Kum, Global Freedom Network,
Ufficio tratta donne e minori dell’Usmi, associazione Slaves no more.

glossario

Definizione di tratta

Dal Protocollo delle Nazioni unite sulla prevenzione,
soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani, in particolar modo
donne e bambini (noto anche come uno dei tre Protocolli di
Palermo, 2000).

La Tratta di Persone:
«Indica il reclutamento, trasporto,
trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite la minaccia o l’uso
della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno,
abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o
ricevere somme di danaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che
ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende,
come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di
sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, la schiavitù o pratiche
analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi».

 
Tipi di sfruttamento
Eurostat distingue tre tipi di sfruttamento:

sessuale:
riguarda le persone costrette a prostituirsi o diversamente impiegate
nell’industria del sesso (esibizione in locali nottui, pornografia,
eccetera);

lavorativo:
riguarda persone costrette a lavori forzati o servitù domestica;

altre forme:
riguarda le persone costrette a mendicare, a svolgere attività criminali, a
cedere organi e a subire altri tipi di sfruttamento, come i matrimoni forzati.

Chiara Giovetti




Itinerari Mozambicani /1

Il Mozambico affronta, questo mese di ottobre, la sua quinta elezione presidenziale dal 1994, anno dell’introduzione del multipartitismo dopo una devastante guerra civile durata vent’anni e conclusa con la pace di Roma del 1992. In queste pagine racconto il viaggio che, come responsabile dell’ufficio progetti della MCO, ho fatto lo scorso giugno nel paese lusofono. Una panoramica sulla situazione politica e qualche istantanea della quotidianità nelle missioni.

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Chiara Giovetti




Cent’anni portati bene

Nel numero di maggio
di MC abbiamo raccontato l’installazione di Monsignor José Luis Ponce de Leon,
missionario della Consolata, come vescovo di Manzini, Swaziland, in occasione
del centenario dell’arrivo nel paese dei primi missionari cattolici, i Servi di
Maria. In questo numero, vi proponiamo una panoramica sulle attività della diocesi
e le testimonianze dei protagonisti, raccolte da MCO nel corso della visita
dello scorso giugno.

La Croce del Sud nel cielo notturno, le persone avvolte nelle sciarpe e
nelle giacche a vento per difendersi dai primi freddi nelle mattine di giugno,
gli alberi di frangipani e di stelle di Natale sono tutti indizi che – non
bastassero le diciassette ore di viaggio e i cambi di aereo – aiutano a
percepire quanto lo Swaziland sia distante dall’Europa. Ma più lontani ancora
appaiono lo smog delle metropoli africane, le baraccopoli di lamiera e terra,
l’asfalto che si arrende impotente ai morsi di una natura onnivora e vorace.
Manzini, il principale centro urbano del paese, è una città gradevole
incoiciata dalle colline, dove tutti sembrano affaccendati in qualche cosa:
saldare le parti di un motore, spostare frutta e verdura dentro e fuori dalle
celle frigorifere di un magazzino, entrare e uscire da un supermercato, vendere
dolciumi e ricariche telefoniche agli angoli delle strade e ai banchetti sui
marciapiedi.

Se quella dello sviluppo è una via, il piccolo regno
dello Swaziland – con un’estensione pari a quella del Lazio e circa un milione
di abitanti – sembra trovarsi fra gli stati africani che vi camminano con un
buon passo, dal momento che viene collocato nella fascia bassa dei paesi a
reddito medio. Ma uno sguardo meno superficiale che si allarghi oltre Manzini o
la capitale, Mbabane, e tocchi le aree rurali del paese permette di scorgere
una realtà meno rosea. A cominciare dal tasso di prevalenza dell’Hiv: secondo i
dati più recenti, una persona su quattro è affetta dal virus.

Saint Philip, la battaglia
contro l’Aids delle suore di Madre
Cabrini

Lungo la strada che da Manzini va a Est e poi a Sud in
direzione del Sudafrica, la cupola azzurra con i costoloni rossi della chiesa
di st. Philip appare all’improvviso oltre il tappeto verde dei campi di canna
da zucchero adagiati nel lowveld (bassopiano) della regione Lubombo. La
deviazione del fiume, che permette di coltivare, è un intervento recente in
un’area dove le colline lasciano il posto a una distesa di savana piatta
colpita da ricorrenti ondate di siccità e dalla conseguente carenza di cibo. In
questa parte del paese lavorano le suore del Sacro Cuore di Gesù, fondate da
Santa Francesca Saverio Cabrini e più note come Cabrini Sisters. La
storia della loro presenza qui comincia negli anni Settanta, ma è solo a
partire dalla fine degli anni Novanta, proprio quando la congregazione è vicina
alla decisione di lasciare lo Swaziland per spostarsi in paesi più bisognosi,
che  si intreccia con quella della
pandemia dell’Hiv/Aids.

«A un certo punto cominciarono a morire, tutti», spiega
suor Diane Dallemolle, americana di Chicago. «Io e Barbara [suor Barbara
Staley, consorella di Diane diventata lo scorso maggio superiora generale delle
suore di Madre Cabrini
] ci rendemmo conto che non c’era un solo nucleo
familiare che non avesse un membro sdraiato su una stuoia dentro casa, privo di
forze e scheletrico, in attesa della fine. Non potevamo andarcene». La speranza
di vita degli swazi crollò nel 2004 a trentasette anni; il tasso di prevalenza
del virus era intorno al quaranta per cento.

«Cominciammo ad andare in giro per le case di tutta la
zona», continua Pius Mamba, che collabora con le Cabrini Sisters da
allora, «io facevo da interprete e le suore chiedevano alla gente di farsi
prelevare un campione di sangue per fare il test Hiv». Le provette con il
sangue venivano poi mantenute al freddo con il ghiaccio e portate ottanta
chilometri più in là, al Good Shepherd di Siteki, uno dei sette ospedali
gestiti nel paese dalla diocesi di Manzini e che serve un bacino d’utenza di
duecentocinquantamila persone nella regione Lubombo. La sua scuola per
infermieri, inoltre, forma ogni anno personale qualificato che presta poi servizio
nelle strutture sanitarie di tutto il paese.

«Facevamo anche più viaggi al giorno, finché non ci fu
donato un frigo. Da quel momento cominciammo a vivere con decine di fiale di
sangue in casa».

Il governo swazi e la comunità internazionale iniziarono
a reagire alla pandemia. In alcuni paesi la disponibilità di farmaci
antiretrovirali non era costante e il rischio per i pazienti era quello di
sviluppare resistenza a causa dell’irregolare aderenza alla terapia e di dover
passare ai farmaci cosiddetti di seconda linea, più cari e ancor meno reperibili.
«Questo in Swaziland non si è mai verificato», dice suor Diane, «fin
dall’inizio la disponibilità di antiretrovirali è stata garantita dal Fondo
Globale
che ha fornito la terapia in modo costante».

Oggi, il tasso di prevalenza è al ventisei per cento,
ancora il più alto del mondo, e nonostante i farmaci anti-retrovirali siano
foiti dal sistema sanitario nazionale non sempre le persone decidono di
curarsi: la negazione, la stigmatizzazione, la diffidenza, le resistenze
culturali nelle aree più disagiate – dove i casi di stupro sono più numerosi e
la disponibilità fisica di una donna è data per scontata a partire dalla prima
adolescenza – non sono state completamente eliminate.

Il futuro del paese si gioca anche intorno a un’altra
sfida, quella degli orfani a causa dell’Hiv. «In Swaziland, sono solo ventidue
su cento i bambini che hanno entrambi i genitori», spiega suor Diane, «tutti
gli altri ne hanno perso almeno uno. E crescere bambini orfani di entrambi i
genitori non è un problema che si risolve solo costruendo orfanotrofi. Essere i
tutori di questi bambini non è semplice, non si tratta solamente di nutrirli e
di mandarli a scuola, ma anche di dare loro qualcosa di altrettanto importante:
la sensazione di appartenere a qualcuno, di essere legati a qualcuno».

Le suore di Madre Cabrini, accanto alle attività di
diagnosi e cura dell’Hiv attraverso la clinica presso la missione e le visite
alle comunità, gestiscono un programma di servizi sociali, un ostello per
orfani che lo scorso anno ha ospitato 107 bambini e numerose attività di
sensibilizzazione e formazione. Negli ultimi dieci anni, Cabrini Ministries
– questo il nome dell’organizzazione no-profit attraverso la quale le suore
agiscono in Swaziland – ha assistito seimila persone affette da Hiv/Aids e
circa millecinquecento orfani e bambini vulnerabili.

Rifugiati, sanità,
istruzione: le numerose attività della Chiesa in Swaziland

Sandlane Street è l’animata strada di Manzini che va
dalla cattedrale alla scuola salesiana. Percorrerla a piedi è forse il modo più
rapido per ottenere una sintesi visiva degli ambiti in cui la Chiesa cattolica è
attiva in Swaziland.

Proprio di fronte alla cattedrale si trova l’edificio
che ospita Caritas Swaziland, con i suoi numerosi uffici, le sale per
incontri e convegni, la libreria e l’ufficio del vescovo. Una delle attività
che ogni giorno impegnano i membri dello staff è l’assistenza ai rifugiati,
realizzata in collaborazione con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
rifugiati (Acnur), che mobilita le risorse necessarie per il mantenimento
complessivo del programma, e il governo dello Swaziland, che garantisce la
sicurezza. Caritas si occupa invece degli aspetti nutrizionali, sanitari e
dell’assistenza legale durante le procedure per l’ottenimento dello status di
rifugiato.

Dopo la Caritas ci sono la Saint Theresa primary e
high school
, per ragazze, mentre in fondo alla strada si trovano Salesian
primary school e high school
, per ragazzi. Sono centinaia gli studenti che
alla mattina convergono nel fiume colorato di uniformi che affluisce alla
scuola. Proseguendo oltre la struttura dei salesiani, s’incontra la clinica Saint
Theresa
, una delle sette strutture sanitarie della Diocesi.

La camminata su Sandlane street si conclude alla Hope
House
, un centro di cura per pazienti terminali e disabili gestito da Caritas
Swaziland
, che ha venticinque piccole unità abitative per i malati e i
familiari che li accompagnano.

La collaborazione fra la
diocesi di Manzini e Missioni Consolata Onlus

Proprio su un intervento alla Hope House si è
realizzata la prima collaborazione fra Mco e la diocesi di Manzini. La
Conferenza Episcopale Italiana ha finanziato la scorsa primavera il progetto More
Strength to Hope
– Più forza alla speranza, che prevede attività di
adeguamento strutturale, l’avviamento di un servizio di fisioterapia,
l’aggioamento del personale sanitario e la formazione dei pazienti e degli
assistenti informali (spesso membri della famiglia) che accompagnano il malato
in clinica e lo seguono poi durante la convalescenza a casa.

«La Hope House è nata nel 2001 come centro per
malati, specialmente di Hiv/Aids, giunti allo stadio terminale», spiega suor
Elsa Joseph, delle Missionary Sisters of Mary Help of Christians,
responsabile della struttura, «e l’obiettivo era quello di accompagnare queste
persone alla morte garantendo loro cure palliative e dignità. Oggi, però,
grazie alla disponibilità di antiretrovirali e di altri farmaci, la percentuale
di malati che riesce a tornare a casa in buone condizioni è del novanta per
cento».

Oltre ai malati di Hiv, il centro ospita anche persone
colpite da tubercolosi, cancro, ictus e malattie dell’apparato
cardiocircolatorio, e il servizio di fisioterapia che verrà reso disponibile
con il progetto è pensato proprio per accelerare il ripristino delle
funzionalità fisiche nei pazienti la cui mobilità è stata temporaneamente
compromessa.

Un ulteriore occasione di collaborazione si è poi
realizzata nell’ambito dell’assistenza nutrizionale che la diocesi fornisce a
circa settecentocinquanta bambini di tre parrocchie grazie alla generosità di
una fondazione statunitense. Durante la visita a due delle tre comunità, la
rappresentante delle madri dei bambini beneficiari, nel ringraziare la Chiesa
cattolica per il progetto, ha auspicato che il supporto nutrizionale possa
continuare, e ha aggiunto che ci sono ancora diversi bambini della comunità
malnutriti o a rischio malnutrizione. «La seconda cosa che la signora ha detto»,
scrive nel suo blog monsignor Ponce de Leon, presente durante le visite insieme
all’amministratore diocesano padre Peter Ndwandwe e al direttore di Caritas
William Kelly, «è quella che mi ha toccato di più, perché dà la misura del
senso di “famiglia” di queste persone: pur avendo ricevuto ciò di cui hanno
bisogno, non dimenticano i membri della loro comunità che sono in condizioni di
necessità. Non solo. Di fronte a quanto la donna ha detto, non si può fare a
meno di chiedersi come sia possibile che ci siano così tanti bambini, e anche
adulti che non hanno cibo a sufficienza in questo paese così bello. Come
Chiesa, non possiamo limitarci a distribuire cibo a chi ha fame, dobbiamo anche
cercare di capire le cause della situazione e lavorare con gli altri per
assicurarci che tutti noi viviamo con la dignità di figli di Dio».

Chiara Giovetti

Tags: cooperazione, Swaziland, Hiv/Aids, rifugiati, sanità, educazione, Manzini

Chiara Giovetti




Integrazione o disintegrazione?

Viaggio dove convergono le periferie del mondo: periferie
urbane, baraccopoli, marginalizzazione, migrazione, seconde generazioni, nuove
povertà. Ormai da anni è in corso un processo nel quale le nostre città e la
nostra società stanno cambiando volto.Con la tragedia di Lampedusa ancora negli occhi, mentre
molti media si concentrano sulle offese al ministro Kyenge e sulla polemica
intorno al reality «Mission», che cosa sta succedendo nelle nostre città? Che
cosa funziona, che cosa non funziona e perché nella trasformazione di quella
italiana in una società multietnica? Quanto contano i fattori culturale,
urbanistico, economico? MC propone una panoramica sul tema delle periferie e
sulla situazione europea e italiana che introduce un ciclo di reportage dalle
zone marginali italiane.

La lama
di un coltello posato su un piccolo tagliere di legno riflette l’azzurro del
cielo fra pezzetti di peperoni gialli e rossi tagliati in quadratini così
precisi da sembrare tessere di un mosaico; accanto, vicino a un canovaccio
candido ripiegato per fare da presina, l’acqua bolle dentro un pentolino di
metallo scaldato dalla fiamma blu di un fornello e un sacchetto di riso aperto
aspetta che una mano prelevi una manciata di chicchi e la getti nell’acqua
bollente. Il piano di lavoro di questa cucina è fatto di rocce scure e lucide
che digradano fino a tuffarsi nell’acqua; il soffitto è l’impalcato di un ponte
e i muri sono l’aria calda e asciutta dell’estate e le sponde erbose del
Tevere. Un uomo a torso nudo si muove in questa insolita cucina con movimenti
lenti e uniformi, i movimenti di qualcuno che ha imparato da tempo a fare i
conti con le irregolarità dei sassi e a mantenere l’equilibrio. La sua faccia è
rilassata, alza appena la testa ogni volta che una nuova coppia di piedi passa
all’altezza del suo naso un paio di metri più in là, sulla pista ciclabile che
costeggia il fiume.

«Ieri camminando in questa zona ho perso un ciondolo»,
gli domanda una passante, «lei per caso lo ha trovato?». «Io non so», risponde
l’uomo in un italiano stentato, «devi chiedere alla signora che sta là» e
indica un punto sul muro che riveste la scarpata, quasi all’altezza della
strada. Da qualche parte vicino al quel punto nel cemento deve esserci una
signora, probabilmente dentro a un alloggio di fortuna che un muretto nasconde
alla vista di chi passa sul lungotevere, costruito con i cartoni e le lamiere
recuperati da qualche discarica, o da un cantiere, o da un cassonetto
dell’immondizia. Quella signora forse sa che fine ha fatto il ciondolo perché
anche lei, come l’uomo che cucina i peperoni, abita lì e vede tutto quello che
nel corso di una giornata scorre, ritorna, si perde e si ritrova in quei venti metri
in riva al fiume.

La prima «rivelazione» che colpisce un osservatore delle
molteplici forme dei cosiddetti insediamenti urbani informali è che la
sensazione di disordine e di mancanza di logica che si può avere all’inizio è
in larga parte sbagliata: così come uno slum (baraccopoli) di una grande
metropoli del sud del mondo, apparentemente un agglomerato di puro caos,
polvere e sporcizia, è in realtà un micro-mondo altamente organizzato, allo
stesso modo nel nord del mondo, nelle periferie urbane e anche negli anfratti e
recessi del centro delle città, le persone si aggregano e si organizzano anche
se in condizioni abitative – ed è questo che genera la sensazione di disordine
– che risulterebbero inaccettabili per la maggior parte della popolazione urbana.

Come si legge nel dossier di Nigrizia sulle baraccopoli
d’Italia curato da Fabrizio Floris nel 2010, il cuore del problema sta in ciò
che si vede, o si crede di vedere, quando si passa accanto a questi
insediamenti: «Vedi ladri, approfittatori, gente a cui piace vivere così perché
è la loro cultura. Oppure vedi poveri da aiutare o l’effetto delle politiche
pubbliche mancate, sbagliate…». Si vede, o si pensa di vedere tutto questo,
cioè categorie, immagini, concetti: molto più raramente si vedono persone e si
percepiscono quegli spazi non come errore del sistema o bruttura da nascondere
ma come luogo che si è sviluppato all’interno di un processo storico nel corso
del quale sono cambiate le condizioni economiche, la società e, di conseguenza,
la città e i suoi spazi. Per farsi un’idea di questi meccanismi e processi
storici è utile partire dal luogo che per definizione si trova al margine: la
periferia.

Come nasce e che cos’è la periferia

In uno studio dell’Associazione nazionale dei comuni italiani del 2008 si tenta un’analisi dell’origine e della
natura delle periferie: le periferie, si legge, sono una «invenzione» della
città modea, che segue l’abbattimento – non necessariamente fisico – delle
cinte murarie di difesa che le nuove tecniche di guerra (ad esempio l’uso del
bombardamento aereo) hanno reso irrilevanti ai fini della protezione delle città.
Il vocabolario indica la periferia come «la parte estrema e più marginale,
contrapposta al centro, di uno spazio fisico o di un territorio più o meno ampio»
e la locuzione «di periferia» nell’uso comune indica non solo la collocazione
di un’area nel tessuto urbano, ma «aggiunge spesso una connotazione riduttiva,
di squallore e desolazione».

Non si tratta di un fenomeno nuovo: nasce infatti in
Europa in concomitanza con una fase avanzata del processo di
industrializzazione. In Italia, il fenomeno appare più in ritardo rispetto agli
altri Paesi europei e nelle grandi città conosce un boom negli anni della
ricostruzione successiva alla Seconda guerra mondiale. Numerose testimonianze
di quell’epoca raccontano delle condizioni di disagio e della mancanza di
servizi e infrastrutture patite dagli abitanti di queste aree periferiche. La
periferia come era intesa negli anni Cinquanta e Sessanta
era spesso una terra di nessuno ai margini delle grandi città dove gli
immigrati interni, che lasciavano le aree rurali italiane per le grandi città
dove sorgevano le industrie, potevano insediarsi, comprare un piccolo pezzo di
terra e cominciare a costruire piano piano una casa; oppure erano una sorta di
anticamera, un posto nel quale appoggiarsi fino a quando i risparmi fossero
stati sufficienti per potersi permettere una casa in quartieri più centrali
oppure, nei decenni successivi agli anni Settanta, in zone sempre estee ma
residenziali, a volte anche di lusso.

Oggi la situazione è in parte cambiata: la marginalità
sociale ed economica non corrisponde più così nettamente alla distanza dal
centro e le sacche di marginalizzazione sono distribuite sia verso l’esterno
della città sia negli spazi cittadini più centrali, se è vero che a Milano una
baraccopoli era sorta nella zona di Porta Romana (a un paio di chilometri dal
Duomo), mentre a Roma nel 2012 è stata smantellata una bidonville lungo
i binari della ferrovia nei pressi della stazione Ostiense, a meno di tre
chilometri dal Colosseo.

Gli insediamenti informali sono uno degli aspetti – forse
il più estremo – che accompagnano il disagio sociale, la povertà e la
marginalizzazione, non l’unico. Bidonville e periferia non sono
necessariamente sovrapponibili, né c’è una corrispondenza totale fra marginalità
socio-economica e nazionalità straniera.

Le periferie europee, una panoramica

Quando si pensa agli aspetti problematici legati alle
periferie urbane ritorna in mente l’episodio clamoroso degli émeutes (sommosse) nella banlieue di Parigi. Il 27
ottobre del 2005 a Clichy-sous-Bois, un comune pochi chilometri a est di Parigi
due adolescenti muoiono fulminati mentre si nascondono nella cabina del
trasformatore della Edf, la società francese dell’energia, tentando di sfuggire
alla polizia. In seguito alla diffusione della notizia scoppia una serie di
disordini che durerà tre settimane, allargandosi anche ad altre periferie del
Paese. Il bilancio finale sarà di quasi tremila arresti, oltre cinquanta
poliziotti feriti e circa novemila automobili date alle fiamme, numeri che
fanno della rivolta la più grande che si sia verificata nelle città francesi
dal maggio del 1968. Gli insorti sono quasi tutti di origine africana. Le
notizie degli scontri francesi hanno una grande risonanza mediatica
internazionale e portano alla ribalta della cronaca i temi del disagio e
dell’emarginazione nella banlieue francese raccontati in film come La haine (L’odio) di Mathieu
Kassowitz (1995).

Le altre capitali europee non sono estranee a questo
genere di tensioni. Nel 2011, dopo l’uccisione a Londra di un ventinovenne da
parte della polizia nell’ambito di un’indagine sui crimini da arma da fuoco
all’interno della comunità nera, un’ondata di violenza e saccheggi scuote la
Gran Bretagna partendo dai quartieri londinesi di Tottenham e Brixton e
estendendosi poi ad altre aree della città e del Paese. Mentre il governo e le
forze dell’ordine attribuiscono i disordini a criminali e teppisti, diversi
osservatori indicano fra le cause anche il disagio sociale, la disoccupazione e
la povertà che si stanno diffondendo a seguito della crisi finanziaria e delle
politiche economiche del governo britannico.

Un servizio della Bbc del febbraio 2012 illustra poi la
realtà degli slums ai margini di Londra, mostrando una delle zone a ovest
di Londra dove immigrati illegali provenienti prevalentemente dallo stato
indiano del Punjab vivono in circa 2.500 casette per la maggior parte abusive,
a volte prive di acqua ed elettricità, in cambio delle quali pagano affitti che
arrivano anche a ottocento sterline al mese. Attualmente, gli insediamenti
illegali a Londra sono, secondo le stime, circa diecimila.

Nemmeno la Svezia, spesso citata come modello di welfare
state
e capace, fino ad oggi, di limitare il disagio sociale, è immune dai
disordini. Nel maggio dello scorso anno, a Stoccolma la polizia uccide, nel
tentativo di disarmarlo, un immigrato di origine portoghese armato di coltello.
L’evento suscita una serie di rivolte che partono da Husby, quartiere
multietnico della capitale svedese, e si estendono nel corso di cinque giorni
ad altri quartieri ed altre città. Sebbene i disordini a Stoccolma abbiano
proporzioni differenti rispetto a quelle di Parigi e Londra, il fatto che la
pacifica e socialmente inclusiva Svezia abbia vissuto giorni di violenza e
scontri spinge molti commentatori a chiedersi: se l’instabilità può travolgere
perfino la Svezia, che cosa può succedere altrove, dove le condizioni sono già
più critiche e il disagio tangibile?

La situazione in Italia

In un articolo del 2005 il Sir (Servizio di informazione
religiosa) chiedeva a diversi esperti se i fatti di Parigi possono ripetersi
anche da noi. Francesca Zajczyk, docente di sociologia urbana all’università di
Milano-Bicocca, rispondeva che la principale differenza fra il caso francese e
quello italiano risiede nel fatto che oltralpe «la ghettizzazione riguarda
immigrati di seconda generazione, i quali sperimentano la disillusione, la fine
del sogno di integrazione e di benessere» mentre a Milano «sono immigrati di
prima generazione, spesso giunti da poco nel nostro paese. Per loro il sogno
italiano resiste ancora». Inoltre, aggiungeva la sociologa, in Italia «la
presenza straniera è più distribuita sul territorio. Questo mix sociale tende
dunque a ridurre o a stemperare la marginalità e svolge un ruolo di
ammortizzatore del disagio». Ciò premesso, concludeva Zajczyk, non si può del
tutto escludere l’ipotesi che la situazione che in Francia ha dato origine alle
rivolte interessi progressivamente pure altri paesi e, per effetto emulativo,
tocchi anche l’Italia.

Quanto al tema specifico degli insediamenti informali,
non ci sono dati certi e univoci circa il loro numero sul territorio italiano,
né è chiaro quante persone vivano in queste condizioni; le stime parlano di
circa seimila baraccopoli in tutta la penisola e di circa due milioni di
persone (non solo stranieri) interessate dal fenomeno degli alloggi informali.
Il censimento Istat del 2011 ha rivelato che in dieci anni le famiglie che
dichiaravano di vivere in baracche, tende o simili era più che triplicato:
oltre settantunomila contro le circa ventitremila del 2001.

Nel corso del 2014 Cooperando cercherà
di affrontare il tema delle periferie urbane, degli insediamenti informali e
del disagio con una serie di reportage sulle realtà e sulle esperienze in corso
in alcune città italiane. Particolare attenzione verrà data alla condizione dei
migranti, ma si cercherà di estendere il più possibile lo sguardo in modo da
far emergere un quadro il più verosimile possibile delle persone e delle storie
che abitano il margine e la periferia, ovunque questo si collochino nella città.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Non giochiamo al «cattivo selvaggio»

Gli Yanomami sono un popolo feroce, lo stato-nazione
porta la pace e i nostri tempi sono probabilmente i più pacifici che l’umanità
abbia mai vissuto. Queste, in estrema sintesi, le tesi di tre studiosi che
hanno scatenato le dure reazioni di una parte della comunità scientifica e di
attivisti per i diritti delle popolazioni indigene, che accusano i tre autori
di aver rimandato indietro di cent’anni il dibattito e di mettere in
discussione il diritto alla sopravvivenza di interi popoli, dell’Amazzonia e
non solo.

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I termini del dibattito

Ci risiamo. Napoleon Chagnon, il celeberrimo antropologo statunitense che dagli anni Sessanta studia le popolazioni Yanomami del Venezuela, torna alla carica: all’inizio di quest’anno ha pubblicato un saggio dal titolo Nobili selvaggi: la mia vita tra due tribù pericolose – gli Yanomami e gli Antropologi, che riprende in larga parte le tesi sostenute dallo stesso Chagnon nel suo Yanomami, il popolo feroce del 1968, dove gli indigeni vengono descritti come «scaltri, aggressivi e minacciosi», «feroci», «continuamente in conflitto l’uno con l’altro» e «in uno stato di guerra cronico». Quest’ultima espressione ricorda molto quella usata dal filosofo inglese Thomas Hobbes nel sedicesimo secolo per descrivere la situazione nello stato di natura e per mostrare la necessità della politica (e, in definitiva, dello stato) per rendere possibile una ordinata vita associata nella quale l’uomo non sia più lupo per l’altro uomo.

Proprio su questo punto si realizza il contatto fra il pensiero di Chagnon e quello di Jared Diamond, studioso statunitense autore di Il mondo fino a ieri (2012): dopo aver affermato che le società tradizionali, cioè i popoli come gli Yanomami, i Dani della Papua Occidentale e altri, sono interessanti da studiare per la loro prossimità evolutiva con i nostri antenati, Diamond attinge a piene mani da Chagnon per dimostrare che tali popolazioni sono intrinsecamente violente e consapevoli della misera condizione alla quale la violenza li condanna; tanto che, afferma l’autore, quando i governi coloniali intervengono con la forza a metter fine alle guerre tribali, i membri della tribù riconoscono che c’è un miglioramento della qualità di vita che da soli non sarebbero mai stati capaci di ottenere, poiché senza l’intervento di un governo non sarebbe stato possibile mettere fine alla spirale di vedette che le guerre tribali innescano.

Infine, in Declino della violenza (2011), lo psicologo evoluzionista Steven Pinker sostiene tesi molto simili a quelle di Diamond e si spinge ad affermare che quella che stiamo vivendo è l’epoca più pacifica della storia, un’argomentazione che ha diversi punti in comune con il libro di Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), sebbene Pinker stesso abbia affermato di non spingersi fino a parlare di fine della storia ma di circoscrivere il «miglioramento» alla sfera della tecnologia, del cosmopolitismo e della diffusione delle idee.

Reazioni

Di fronte a queste posizioni dei tre studiosi, numerosi esponenti del mondo accademico e le associazioni di difesa dei diritti delle popolazioni indigene, Survival (www.survival.it) in testa, sono letteralmente insorti. Gli interventi sono stati davvero tanti e una buona panoramica è disponibile su anthropologyreport.com, sito che riunisce i contributi provenienti da blog, riviste e libri di antropologia. In poche parole, le principali critiche riguardano la riproposizione da parte dei tre autori del mito del «cattivo selvaggio», l’utilizzo di una variabile come la violenza, estremamente difficile da misurare e comparare, per definire la «ferocia» dei popoli e, nel caso di Pinker e Diamond, una trattazione non rigorosa dei dati statistici sulla violenza e la guerra.

L’antropologo Greg Laden, in un articolo apparso sulla rivista The Slate lo scorso maggio, afferma che non è mai stato così facile come nelle società occidentali rovinare o distruggere senza alcuno sforzo vite umane, e la guerra è diventata mortale come non lo era mai stata prima.

Al di là della diatriba accademica, le affermazioni dei tre studiosi hanno conseguenze immediate di natura politica. Le associazioni come Survival ribadiscono che le tesi di Chagnon, Pinker e Diamond hanno effetti potenzialmente devastanti sulle società indigene: l’argomentazione del «cattivo selvaggio» che i tre accademici riportano alla ribalta, infatti, è proprio una delle leve su cui hanno fatto forza molti governi per giustificare - in diverse epoche, compresa la nostra - l’uso della forza contro interi popoli.

Infine, i rappresentanti delle comunità indigene stesse hanno detto la loro contro le tre opere. Secondo Davi Kopenawa, storico leader yanomami (vedi anche a pag. 21 di questo stesso numero, ndr), non è certo la violenza intea alle comunità a provocare vittime fra la sua gente: «I nostri veri nemici», ha dichiarato, «sono i cercatori d’oro, gli allevatori e tutti coloro che vogliono impadronirsi della nostra terra». Ancora, a detta di Benny Wenda, leader del popolo Dani della Papua occidentale: «L’Indonesia ha occupato illegalmente il nostro paese nel 1963, ed è allora che sono davvero iniziati i massacri, in tutta la Papua Occidentale. Il governo indonesiano non ci ha salvato da un circolo di violenza, come ha scritto Diamond, al contrario, ha portato una violenza che non avevamo mai nemmeno conosciuto: ha ucciso, violentato e imprigionato il mio popolo, e ha rubato la nostra terra per arricchirsi».

La situazione sul campo e la lettera di Fratel Carlo Zacquini al Papa

I missionari della Consolata lavorano con il popolo Yanomami dell’area di Catrimani (Amazzonia brasiliana) dagli anni Sessanta. La realtà che raccontano si colloca a una distanza siderale rispetto a quella descritta da Chagnon. In un’intervista a Survival dello scorso febbraio, il missionario della Consolata fratel Carlo Zacquini ha dichiarato: «Quelli che ho conosciuto – e ne ho conosciuti molti di Yanomami durante gli anni trascorsi a visitare un gran numero di comunità – non sono così [cioè non sono violenti]. Ci sono sempre tensioni, come ci sono tensioni in ogni famiglia, e in ogni paese, ma questo non è guerra. [...] Vi sono lotte, penso che siano sempre esistite, esistono in tutte le società, e qualche volta qualcuno muore, ma è davvero molto raro. Le lotte sono divenute molto più serie quando sono arrivati i cercatori d’oro e si sono diffuse le armi da fuoco. Ma non è una situazione generale, né costante [...]. Il danno provocato da queste “guerre” è decisamente minore di quello provocato da un raffreddore».

Fratel Carlo racconta, in una sua lettera dello scorso luglio, di aver sfogliato il rapporto stilato nel 1967 dal procuratore Jáder de Figueiredo Correia in seguito alle indagini affidategli dal Ministro dell’Inteo del Brasile, dopo che una commissione parlamentare di inchiesta aveva denunciato gravi irregolarità nel Servizio di Protezione degli Indios (Spi), cioè l’ente che, sulla carta, avrebbe dovuto «proteggere» i popoli indigeni. Anche a una lettura superficiale, la descrizione di alcuni fatti è, a detta di fratel Carlo, così nauseante da non poter essere riportata: i soprusi, i massacri, le violenze che gli indios hanno subito per mano del servizio nato per salvaguardarli sono tali e tanti da non reggere il confronto con le cose già gravissime e atroci che il missionario ha sentito e testimoniato nella sua lunga esperienza di lavoro con gli Yanomami.

Fratel Carlo ha di recente scritto una lettera a papa Francesco in occasione della sua visita in Brasile per la Giornata Mondiale della Gioventù: «So che tu non puoi permetterti di passare qualche giorno in un villaggio yanomami come ha fatto il re della Norvegia», scrive fratel Carlo, «ma forse potresti consigliarlo a qualcuno dei discendenti di europei o di persone di altri continenti che hanno popolato questo “grande” paese, il Brasile. [...] Forse, dunque, in quel caso, comincerebbero a capire che le dimostrazioni di ripudio e di rivolta che si ripercuotono sui mezzi di comunicazione, specialmente quelli alternativi, non sono effetto di allucinazioni di alcuni esaltati [...], ma guardano al bene delle popolazioni indigene e a quello del resto dell’umanità [...]. Come può un paese, la cui grandissima maggioranza si dice cristiana, trattare i diritti umani in questo modo?».

Oggi, il tentativo di eliminazione degli Yanomami e di molti altri popoli continua in modo sistematico, si è solo fatto meno brutale e più subdolo. La presenza di popolazioni indigene su territori spesso anche molto ricchi di risorse, in contesti di paesi in forte crescita economica, è tuttora vissuta come un fastidio e un problema da rimuovere. Quasi mai la soluzione del problema passa attraverso la mediazione, la proposta di alternative e il rispetto del diritto di quei popoli a vivere nel loro territorio.

«Non è che vogliamo convincere, né tantomeno costringere, i popoli indigeni a “fare gli indigeni” in eterno», aveva spiegato qualche anno fa fratel Carlo a chi scrive. «Se gli Yanomami, nel corso del tempo, decideranno di cedere il proprio territorio e le proprie tradizioni, questa sarà una scelta che ci rattristerà infinitamente ma non penso che potremo opporci. Ma è proprio questo il punto: la scelta. Credo che il ruolo di noi missionari consista anche nel sostenere questo popolo nel suo tentativo di ottenere gli strumenti, culturali e giuridici, perché possa difendersi e scegliere, per non essere semplicemente spazzato via da chi vuole arricchirsi devastando la sua terra. Tanto più che, come sempre ripete Davi Kopenawa, non ci sono altri mondi, ce n’è solo uno e l’Amazzonia ha un valore inestimabile, e reale, per tutti noi».

Basta, con un semplice esercizio mentale, sostituire nel paragrafo sopra «Yanomami» e «Amazzonia» con il nome del proprio popolo e territorio di appartenenza per capire che non stiamo parlando di qualcosa di così lontano.

Chiara Giovetti

Tre domande a

Francesca Bigoni e Roscoe Stanyon, antropologi che curano un progetto di ricerca sugli Yanomami con l’Università di Firenze e collaborano con padre Corrado Dalmonego, missionario della Consolata a Catrimani (Roraima, Amazzonia brasiliana).

Che cosa ne pensate della ripresa del dibattito sul «cattivo selvaggio»? Si tratta di una riproposizione di temi già noti o c’è effettivamente qualche nuovo elemento.

Forse non è un caso che questo dibattito si riaccenda in un momento drammatico in cui l’esistenza dei popoli indigeni e la salvaguardia dei territori a cui sono legati sono minacciati da ciechi interessi economici e politici. Continuare ad utilizzare i vecchi stereotipi per rappresentarli come popoli «primitivi», violenti e in antitesi al «progresso», e comunicare a vari livelli questa visione distorta è certamente strumentale a questa situazione. Sì, ci sono nuovi elementi e sono tutti in favore dei popoli indigeni, perché ora abbiamo una conoscenza migliore dei valori culturali di cui sono portatori e difensori (dimensione collettiva della loro vita sociale, relazione con l’ambiente, prospettiva spirituale).

L’antropologo Greg Laden scrive che la violenza, il tratto culturale attribuito agli Yanomami e ad altre popolazioni indigene, non è un criterio affidabile perché «è difficile da misurare» e aggiunge, per contro, che è proprio la società occidentale che ha reso la guerra mortale e la vita umana facile da rovinare e distruggere come mai lo erano state prima. Siete d’accordo con questo ribaltamento di prospettiva?

Certamente sì. Per esempio, è ora ben noto che la presunta violenza fra gruppi di Yanomami di cui parla Chagnon, ammesso che i suoi dati siano corretti, si riferisce a una limitata zona geografica e a un momento storico particolare. La sua prospettiva non è stata confermata da studi in altre vaste zone di insediamento degli Yanomami. Per esempio Giovanni Saffirio, missionario della Consolata e antropologo, nella sua lunga esperienza tra gli Yanomami del Catrimani dal 1968 fino alla metà degli anni ’90 ha provato a raccogliere dati, ma i casi di morti per violenza erano così rari che non era possibile neppure fare un confronto statistico. Quindi le generalizzazioni di Chagnon devono essere lette in maniera molto critica. Attualmente gli studi antropologici dimostrano che i comportamenti umani sono, in tutte le popolazioni, altamente flessibili e legati alla situazione particolare in cui ci si viene a trovare. D’altra parte Pinker, per sostenere la sua teoria del «declino della violenza» nella nostra cultura rispetto alle culture tradizionali come quella Yanomami considerate «feroci», utilizza limitati dati di Chagnon e di altri antropologi, confrontandoli con i tassi di omicidio nella società occidentale, ma usa criteri statistici scorretti per sostenere le sue tesi, finendo addirittura con lo sminuire la portata di avvenimenti come lo sganciamento di bombe atomiche nella nostra epoca e numerosi episodi di genocidio di popoli indigeni e non indigeni.

La storia è chiara e ci insegna che le più grandi violenze, sono state quelle con cui la cosiddetta società «civilizzata» ha causato lo sterminio dei popoli nativi in diversi continenti, un fenomeno che sembra ripetersi, magari con forme più sottili e subdole, ancora oggi.

Una domanda più per i cittadini Francesca e Roscoe cheper gli antropologi: perché un italiano, un europeo, un abitante del Nord del mondo dovrebbe interessarsi degli Yanomami e delle popolazioni indigene in genere?

Studi recenti hanno dimostrato chiaramente che nei territori in cui i popoli nativi vengono preservati con la loro cultura e la loro lingua, viene automaticamente protetta la biodiversità; al contrario la perdita delle culture tradizionali e del loro patrimonio linguistico è seguita in breve tempo dalla distruzione dell’ambiente. Se ignoriamo questo semplice fatto prepariamo l’estinzione della nostra stessa specie umana.

Chiara Giovetti
 
Chiara Giovetti




Cent’anni di Etiopia: dalle macchine Singer all’informatica,

La Missione nell’Etiopia di ieri e di oggi.

La presenza dei missionari della Consolata in un paese
tutt’altro che semplice.

La missione nell’Etiopia di ieri

«Con
santa letizia e sensi di viva gratitudine verso la S. Sede comunichiamo ai
nostri lettori un’importante notizia. La S.C. di Propaganda ha, con recente
decisione, creato una nuova prefettura Apostolica intitolata del Kaffa
meridionale, e l’ha affidata per l’evangelizzazione ai missionari del nostro
Istituto». Era il 1913, esattamente cento anni fa, quando sul numero di marzo
di La Consolata – come allora si chiamava la nostra rivista – veniva
dato l’annuncio dell’assegnazione ai missionari della Consolata della
prefettura del Kaffa in Etiopia, un territorio vasto «più che l’Italia
settentrionale (di cui) non è possibile dare notizie complete, essendo il
medesimo ancora in gran parte inesplorato». Ai missionari era affidato il
compito di portare avanti il lavoro cominciato nel 1846 dal cappuccino
monsignor Guglielmo Massaia, che fu però cacciato dall’Etiopia nel 1872.

Monsignor
Gaudenzio Barlassina, futuro superiore generale dell’Istituto Missioni
Consolata, partì nel dicembre del 1914 da Genova alla volta di Mombasa, per
entrare ad Addis Abeba due anni dopo, la sera di Natale del 1916 «travestito da
mercante, cavalcando un mulo» (vedi l’articolo Ieri e sempre di B.
Bellesi e G. Mazzotti su MC 02/2001). A rendere difficile l’entrata in Etiopia
dei missionari erano i delicati equilibri diplomatici interni e inteazionali
e la resistenza alla penetrazione di altre confessioni da parte del clero copto,
dal cui appoggio politico i regnanti etiopi non potevano prescindere.

I
primi passi della missione in Etiopia furono all’insegna della prudenza:
dall’incontro con Ras Tafari, il futuro Haile Selassie, all’epoca reggente –
mentre imperatrice era Zauditù, una delle figlie del precedente imperatore
Menelik II, – Monsignor Barlassina comprese che un permesso dato dal principe a
missionari cattolici avrebbe provocato una levata di scudi da parte del vescovo
copto che il reggente non poteva permettersi di affrontare. Barlassina decise
perciò di «travestire» la missione da impresa commerciale. Con la
collaborazione di Felice Gullino, un torinese che aveva stabilito ad Addis
Abeba un laboratorio di ebanisteria, fu creata una società che fra il 1917 e il
1918 aprì due negozi a Ghimbi e Billo, avamposti nel territorio della nuova
prefettura. Si aggiunsero poi laboratori di sartoria e, nel 1919, la
rappresentanza commerciale per le macchine da cucire Singer. Dopo il viaggio di
perlustrazione del Kaffa effettuato da Barlassina fra il gennaio e l’aprile del
1919 (e descritto nel libro di E. Borra, La carovana di Blass e in
quello di G. Tebaldi, L’ultimo carovaniere, entrambi editi da EMI), il
prefetto si fece un’idea precisa del territorio della sua prefettura e programmò
l’espansione delle missioni con l’apertura di nuove stazioni. Nel 1924
arrivarono sei suore della Consolata, autorizzate a stabilirsi nel paese come
infermiere. Questo evento rappresentò di fatto il primo passo verso l’uscita
dalla clandestinità per i missionari: «Le suore non si potevano nascondere» –
scrive padre Giovanni Crippa nel libro
I missionari della Consolata in Etiopia (Edizioni Missioni Consolata
1998), sul quale si basa questa ricostruzione. «La prudenza aveva imposto ai
missionari botteghe da mercanti e abiti civili. Le grandi sottane delle suore e
i loro crocifissi difficilmente potevano passare per un tipico costume europeo».

Agli
ambulatori – prima ad Addis Abeba e poi nel Kaffa – si affiancarono,
lentamente, le scuole, mentre più timidi e nascosti, sebbene non inesistenti,
rimanevano la ricerca di cattolici occulti e il sorgere di vocazioni fra gli
etiopi. Quando, nel 1933, Barlassina fu eletto superiore generale dei
missionari della Consolata e rientrò in Italia, la missione nella prefettura
del Kaffa poteva dirsi consolidata e godeva di una buona libertà d’azione. Il
conflitto italo–etiope portò poi nel 1935 all’espulsione dei missionari che
cominciarono a tornare in Etiopia l’anno successivo con l’occupazione fascista
in veste di cappellani militari. La parola d’ordine era «rientrare al più
presto», riporta ancora Crippa, ma l’essere al seguito di una potenza europea
affamata di colonie e accecata dal mito dell’impero rese la missione funzionale
al sistema coloniale e l’azione missionaria ne fu stravolta. Nel 1942, in
seguito alla vittoria delle truppe britanniche su quelle italiane, i missionari
vennero di nuovo espulsi dal paese.

Si
dovette attendere quasi un trentennio perché i missionari della Consolata
potessero fare ritorno in Etiopia: nel 1970 padre Giovanni De Marchi ottenne il
visto per l’entrata nel paese ma si presentò come membro dei Fatima Fathers,
per evitare di richiamare alla memoria le passate esperienze degli anni
Quaranta. Inizialmente i missionari si stabilirono nel vicariato apostolico di
Harar e solo nel 1980 assunsero la nuova prefettura di Meki dove, nel giro di
tre anni, furono messe in funzione quattro parrocchie con le relative attività
di promozione umana, cioè scuole matee, elementari, professionali, dispensari,
centri di assistenza ai bambini disabili e ai non vedenti (vedi l’articolo di
B. Bellesi su MC 05/2003, I grandi missionari: Padre Giovanni De Marchi).
Gli anni Settanta furono anche quelli dell’arrivo dei missionari della
Consolata a Gambo dove nel 1980, su richiesta delle autorità etiopi, si iniziò
ad adibire una parte del già esistente lebbrosario a ospedale generale.

Anche
oggi, a cent’anni dall’assegnazione del Kaffa all’Istituto, l’Etiopia continua
a essere un paese nel quale l’entrata e la permanenza sono tutt’altro che
scontate. Fino a poco tempo fa, riferiscono i padri attivi in Etiopia, la
Chiesa Cattolica aveva lo status di resident charity (istituzione
benefica residente) e i missionari erano autorizzati a operare in quanto membri
di tale istituzione e con incarichi specifici, determinati e a termine. Oggi,
sebbene sia di recente cambiata la legislazione, il principio sembra essere
rimasto lo stesso: la presenza nel paese è vincolata alla realizzazione di
progetti di carattere sociale e cioè nell’ambito dell’istruzione, della sanità,
della formazione.

Uno sguardo sull’Etiopia di oggi

Per
accorgersi che l’Etiopia è un paese peculiare che mal si adatta a essere
sommariamente etichettato come africano non occorre essere antropologi o
storici: basta ascoltare gli etiopi. Il loro senso di unicità, la distanza
culturale, religiosa e storica che li separa dagli altri popoli che con essi
condividono il continente sono, a loro dire, evidenti. «Pochi altri popoli
possono vantare radici così antiche», spiegava a chi scrive un adolescente
incontrato durante una visita in Etiopia nel 2009, «e probabilmente anche il
fatto di non essere mai stati colonizzati ci rende diversi dagli altri».

Che
la presenza dello stato sia più capillare e la resistenza all’occidentalizzazione
sia più decisa risulta chiaro anche a un primo sguardo alle vie di Addis Abeba:
i grandi centri commerciali e gli enormi cartelloni che pubblicizzano bibite o
capi d’abbigliamento sportivo così frequenti in molte metropoli africane sono completamente
assenti nella capitale etiope. Al loro posto ci sono piuttosto piccoli
supermercati che vendono prevalentemente prodotti locali o di importazione
cinese e poster celebrativi dell’autorità, come quello che negli anni
del governo di Meles Zenawi (morto esattamente un anno fa) ritraeva il primo
ministro con il braccio proteso in avanti come ad indicare la via verso un più
roseo futuro a un gruppo di bambini sorridenti. Sull’immagine campeggiava la
scritta «Un leader africano impegnato per la democrazia, pace e lo sviluppo» (vedi
foto qui sotto
).

Ma,
al di là dei simboli e delle generalizzazioni, l’Etiopia occupa davvero una
posizione particolare nel panorama del continente: sede dell’Unione Africana e
della Commissione Economica per l’Africa delle Nazioni Unite, il paese è
letteralmente inondato di programmi (e fondi) delle agenzie inteazionali.
Secondo i dati Ocse, l’Etiopia è il paese africano che riceve più aiuti
pubblici allo sviluppo dopo la Repubblica Democratica del Congo, con un totale
nel 2011 pari a oltre tre miliardi e mezzo di dollari. E, se gli Stati Uniti «corteggiano»
l’Etiopia – che Washington ritiene cruciale dal punto di vista geopolitico e
strategico – a suon di aiuti allo sviluppo, la Cina dal canto suo controbatte
con la strategia che sta applicando in tutto il continente, quella degli
investimenti massicci. Solo per citare il più recente, il Financial Times
riporta che Huajian – un’azienda cinese che produce scarpe da donna per brands
come Tommy Hilfiger, Guess, Naturalizer, Clarks e che ha già una
fabbrica vicino a Addis Abeba dove lavorano seicento persone – si è ora
impegnata a investire insieme alla China Development Bank due miliardi
di dollari nei prossimi dieci anni per creare una zona di produzione in Etiopia
che dovrebbe arrivare a impiegare circa centomila persone.

Con
tassi di crescita a volte anche a due cifre, l’Etiopia si trova oggi sospesa
fra la povertà oggettiva dei suoi ottanta milioni di abitanti e una politica
ambiziosa per il futuro. Il più recente e clamoroso episodio che testimonia
questa ambizione è il progetto di costruzione della «grande diga della
Rinascita» sul Nilo Azzurro, iniziativa che ha scatenato le ire dell’Egitto –
dove la maggior parte della popolazione vive nella striscia di terra bagnata dal
fiume – al punto da spingere il presidente Mohamed Morsi a dichiarare che gli
egiziani «difenderanno con il sangue ogni goccia del Nilo». Le dichiarazioni di
Morsi sono state subito ridimensionate, ma la tensione resta palpabile.
L’Etiopia, che ha affidato all’italiana Salini la realizzazione
dell’opera monumentale, ha scommesso il tutto per tutto su questa diga. Di
fronte al rifiuto da parte delle agenzie inteazionali di finanziare il
progetto in mancanza dell’assenso dei paesi rivieraschi, l’Etiopia ha deciso di
realizzae autonomamente la costruzione, che costerà circa cinque miliardi di
dollari, esortando la popolazione ad acquistare obbligazioni.

I
tempi della clandestinità di padre Barlassina sono ormai lontani; ma, oggi come
allora, la voglia di affermazione e di rivalsa del paese hanno certamente un
ruolo non secondario nel fare dell’Etiopia un luogo dove occorre sempre
chiedere permesso.

Chiara Giovetti

       Gambo, informatizzare l’ospedale                                                    

Uno dei progetti che in questo momento Mco sta sostenendo è quello
dell’informatizzazione dell’ospedale di Gambo. Dato il suo grande bacino
d’utenza – sulla carta sarebbe di circa centomila persone, ma la provenienza
dei pazienti suggerisce che quella servita sia un’area molto più ampia –
l’ospedale deve gestire una quantità notevole di pazienti e quindi di
informazioni, documenti, cartelle cliniche. Attualmente la registrazione dei
pazienti avviene in modo manuale su supporto cartaceo, ma questo metodo genera
problemi per l’identificazione univoca del paziente, la conservazione dati, la
comprensione grafica, la completa e corretta compilazione dei documenti e crea
difficoltà di cornordinamento fra i reparti dell’ospedale, il laboratorio, la
farmacia e l’amministrazione. Può succedere, cioè, che il paziente smarrisca documenti
come le prescrizioni mediche o che il personale impieghi ore nella ricerca
delle cartelle dei pazienti, a volte accatastate anche sul pavimento (vedi
foto). Con il progetto di informatizzazione si vorrebbe dunque procedere
all’acquisto di macchine e server, all’installazione dei programmi di gestione
e alla formazione del personale per l’utilizzo del sistema. I benefici
derivanti dalla realizzazione di questo progetto saranno un minor rischio di
perdita di informazioni relative al paziente e alla terapia e un alleggerimento
del carico di lavoro, oggi davvero pesante, per il personale dell’ospedale. (Chi.Gio.)

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Chiara Giovetti




Lavorare nella cooperazione: miraggio o realtà?


Sono tanti i ragazzi che, freschi di laurea o in procinto di ottenere il titolo, avanzano candidature spontanee inviando email e curriculum alle organizzazioni che operano nella cooperazione. E, d’altro canto, l’offerta formativa delle università italiane negli ultimi quindici anni si è arricchita di corsi di laurea e master in cooperazione e solidarietà internazionale proprio per rispondere alla richiesta crescente di figure professionali adatte al lavoro nelle Ong o negli enti pubblici che si occupano di sviluppo. In questo numero vi proponiamo una panoramica sul fenomeno.

«Buongiorno, mi sono appena laureato e sarei interessato a un’esperienza di qualche settimana in Africa». È più o meno così che cominciano molte delle mail che giovani neolaureati o laureandi inviano alle Ong come la nostra per proporsi in qualità di volontari e collaboratori. La laurea – o il master – può essere in cooperazione, ma anche in medicina, scienze politiche, antropologia, scienze infermieristiche, ingegneria civile o altre discipline, e a scrivere sono ragazzi alla ricerca di esperienze sul campo che permettano loro di mettere in pratica quanto hanno appreso nel corso di studi. E, il che non guasta, consentano di aggiungere al curriculum una preziosa riga sotto la voce «esperienze lavorative», aumentando così le possibilità di assunzione da parte degli enti che richiedono, appunto, esperienza pregressa.

In molti casi, i ragazzi sembrano preferire una permanenza sul campo di qualche settimana, e magari il loro intento è quello di trascorrere un periodo nel Sud del mondo per chiarirsi le idee su che cosa scegliere per specializzarsi ulteriormente, una volta rientrati dal campo. Non sono rare, tuttavia, le manifestazioni di disponibilità per esperienze più lunghe, di mesi o anche anni.

La cooperazione, almeno dai primi anni Duemila, è entrata in modo piuttosto deciso all’interno delle aule universitarie: i master su questo tema sono ormai numerosi e la loro offerta formativa spesso si completa con la possibilità di fare tirocini sul campo presso organizzazioni convenzionate con le università. In questi casi l’entrata nel mondo del lavoro è, se non più facile, almeno più regolata.

I numeri: chi lavora nella cooperazione

Ma vediamo un po’ di numeri sul lavoro nella cooperazione. Secondo il più recente censimento Industria e Servizi dell’Istat, nel 2011 la cooperazione e solidarietà internazionale – inteso dall’Istituto di Statistica come sotto settore del non profit – poteva contare su oltre 3.500 istituzioni attive con circa 1.800 dipendenti, quasi tremila collaboratori e poco meno di ottantamila volontari. Sempre secondo lo stesso studio, rispetto a dieci anni prima la cooperazione ha visto raddoppiare gli addetti del settore, più che raddoppiare i volontari e aumentare del 148% – da 1.400 a 3.500 circa – il numero di enti attivi.

Altri dati indicativi si possono ottenere da Siscos – Servizi per la cooperazione, un’associazione senza fini di lucro che fornisce a chi si occupa di cooperazione internazionale assistenza, informazione e consulenza per quanto riguarda la gestione delle risorse umane. Fra i servizi che Siscos offre c’è quello delle coperture assicurative per gli operatori delle Ong, buon indicatore del movimento di addetti che gravita nel mondo nella cooperazione per quanto riguarda le assegnazioni a incarichi all’estero. Fra le pubblicazioni Siscos c’è Un mestiere difficile, dossier dedicato appunto lavoro del cooperante. Confrontando il numero di operatori assicurati annualmente da Siscos dal 2006 al 2014 emerge che a partire sono circa seimila persone all’anno, sebbene con una lieve flessione negli ultimi anni (nel 2014 gli assicurati Siscos sono stati 5.773, mentre nel 2011 erano 6.392).

Il primo dei dossier, relativo ai dati 2006, riportava l’incremento degli operatori per anno: dai 601 operatori del 1976 si era passati agli oltre cinquemila del 2006 e fra il 1996 e il 2006 si era registrato un incremento nell’ordine del 150%, dato che sembra confermare il trend emerso dai dati Istat visti sopra.

La professione si è, nel frattempo, specializzata, poiché se negli anni Settanta a partire erano solo volontari «generici», un trentennio dopo a essere assegnati sul campo erano collaboratori e cooperanti, cioè figure professionali definite, e volontari, non più «generici», inquadrati insieme ai cooperanti nella vecchia legge sulla cooperazione (la 49/87), regolarmente stipendiati.

Nel dossier 2014, la suddivisone in fasce d’età vede prevalere gli operatori fra i 31 e i 40 anni, pari a poco meno di un terzo del totale. La fascia fra i 19 e i 25 include tredici su cento degli assicurati e quella dai 26 ai 30 il 17 per cento. La suddivisone fra maschi e femmine è quasi alla pari, con una leggera prevalenza delle donne.

I numeri: chi cerca di entrare nel settore

Vediamo ora il versante del primo ingresso nella cooperazione, a partire dagli studi e cominciando dall’offerta formativa disponibile nelle Università per chi desidera studiare cooperazione.

Universitaly, il portale del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur), elenca otto corsi di laurea di primo livello (triennale) in altrettanti atenei, e quindici corsi di secondo livello (biennale) in tredici Università. Quanto ai master, uno studio del ministero degli Affari esteri del 2007 ne contava oltre sessanta.

L’anagrafe nazionale studenti del Miur per il 2013/2014 riporta 408 laureati al corso di secondo livello in Scienze per la cooperazione allo sviluppo. Quattro anni prima erano 151. Il consorzio interuniversitario Almalaurea, che rappresenta circa il novanta per cento dei laureati italiani, effettua regolari indagini sulla loro condizione occupazionale. Per quanto riguarda chi ha completato il percorso di studi di secondo livello in cooperazione, dal campione di laureati analizzato per il 2014, a un anno dalla laurea, risulta che 114 su 254 intervistati hanno un impiego. Il non profit assorbe un quarto degli occupati, mentre oltre il 60% lavora nel privato e circa uno su dieci nel pubblico. Uno su quattro degli intervistati dice di usare molto, nel suo attuale lavoro, le competenze acquisite con gli studi mentre il 44 per cento non le utilizza per niente. Uno su tre giudica utile la propria laurea magistrale nello svolgere la propria attività lavorativa, mentre il 77 per cento sostiene che era sufficiente una laurea di primo livello o anche un titolo non universitario. Lo stipendio medio è poco meno di 1000 euro, con un divario notevole fra uomini e donne. I primi infatti percepiscono circa 1.300 euro contro i meno di novecento delle colleghe.

Per i giovani intervistati sempre nel 2014, ma laureati da cinque anni, la situazione appare meno difficile: a lavorare è il 70 per cento; la quota di chi lavora nel non profit rimane praticamente invariata (quasi il 27%), mentre il venti è impiegato nel settore pubblico e oltre il cinquanta nel privato. Si dimezza, inoltre, la percentuale di persone che non usa per niente le conoscenze ottenute grazie alla laurea e lo stipendio aumenta a poco meno di 1.300 euro: 1.479 per i maschi e 1.184 per le femmine.

Questi dati sono ovviamente molto parziali poiché si concentrano solo su chi ha scelto la cooperazione come percorso di studi specialistici e non tiene in considerazione chi invece arriva a lavorare in questo ambito per altre vie. Basta pensare a quanti medici, infermieri, economisti, antropologi, ingegneri sono attivi nei progetti realizzati sul campo – quindi a tutti gli effetti operatori del settore – per capire che gli studi in cooperazione non sono certo l’unico canale di entrata nel mondo dello sviluppo.

Emerge tuttavia un quadro nel quale i ragazzi che hanno via via scelto la cooperazione per il loro percorso di formazione è aumentato più o meno con gli stessi ritmi di crescita degli enti che si occupano di questo tema. Purtroppo l’entrata di questi laureati nel mercato del lavoro appare non impossibile ma certamente non immediata.

In rete sono molti i siti che cercano di fornire indicazioni utili per chi intende intraprendere da professionista la strada della solidarietà internazionale: dalle federazioni di Ong – che propongono spesso loro stesse master e percorsi formativi – alle università, ai blog individuali di cooperanti e addetti ai lavori, non è difficile farsi un’idea delle caratteristiche e delle difficoltà di questo lavoro. La prima di queste indicazioni è molto chiara: essere buoni non basta, occorre avere un’elevata professionalità e dotarsi di conoscenze tecniche precise. Queste conoscenze hanno a che fare con la gestione del ciclo di progetto, ma è bene tenere in considerazione anche tutta quella serie di competenze delle quali qualunque organizzazione necessita a prescindere dal settore in cui opera: amministratori, logisti, informatici, non hanno meno probabilità di venire reclutati da una Ong, anzi. Per rendersene conto basta dare un’occhiata alle offerte di lavoro sulla bacheca Volint  – da anni punto di riferimento in Italia per chi cerca lavoro nella cooperazione – o sulla pagina della vacancy di Lavorare nel mondo. Altro aspetto importante è ovviamente quello delle lingue, indispensabili per lavorare in un ambito come quello dello sviluppo che è per sua stessa natura internazionale. L’inglese prima di tutto, certo, ma senza dimenticare le altre lingue parlate nei paesi in cui si fa cooperazione, comprese quelle locali.

Chiara Giovetti


Che cosa non fare: avventurieri e improvvisatori

The Volontourist è un documentario uscito quest’anno per far riflettere sul fenomeno del «volonturismo» – termine nato dall’unione di «volontariato» e «turismo» -, sul business creatosi intorno a esso e sui danni che rischia di generare nei luoghi in cui arriva.

La campagna di raccolta fondi della Ong francese Solidarité Inteationale presenta in tre video i colloqui con potenziali volontari (interpretati da attori) che danno voce ai peggiori stereotipi legati alla cooperazione. «Non ho esperienza nell’umanitario», dice una ragazza con abiti e gioielli etnici che si offre come volontaria, «ma ne ho già parlato con mia cugina, ho fatto tantissimo la baby sitter e poi un bambino che muore di fame è come un bambino normale, ha bisogno d’amore. Qui ho un cuore e il cuore è fatto per dare amore alla gente». «Posso aiutare a fare delle iniezioni», propone invece un pensionato in un altro dei tre video, «non le ho mai fatte, ma ci posso provare». (Ch.Gio.)




Errata corrige: Quando i progetti non bastano

Dopo gli anni
Settanta e Ottanta in cui «cornoperare» significava fondi a pioggia e tanto
mattone, il mondo missionario ha vissuto – come tutta la cooperazione – una
sorta di panico da «cattedrale nel deserto», che ha tentato di superare con un
metodo di lavoro diverso capace di mettere al centro le comunità locali e la
loro capacità di trovare soluzioni. E i termini empowerment, capacity building, local ownership* sono diventati
protagonisti dei dibattiti e dei progetti. Ma i risultati non sempre sono
arrivati.

«Nel nostro quartiere, dove il 43 per cento della popolazione non va a
scuola, un progetto di formazione sarebbe anche utile. Per le ragazze che hanno
frequentato la scuola possiamo ipotizzare una specializzazione
nell’informatica, perché anche quelle che lavorano nel commerciale non vedono
mai un computer, fatta eccezione per quelle che hanno frequentato qualche
scuola seria, che però è verso il centro città (e non è accessibile a tutte);
molte a scuola si sono formate usando due o tre macchine da scrivere per
classe. Per le ragazze che hanno lasciato gli studi o non sono andate a scuola,
proporrei dei corsi di alfabetizzazione: è quello che già facciamo in piccolo
in parrocchia. Ma non basta fare studiare le persone: bisogna chiedersi quali
sono poi le effettive opportunità di lavoro. Altrimenti specializziamo la
disoccupazione».

Così padre Santino Zanchetta, missionario della
Consolata, riassume la situazione del quartiere di Saint Hilaire a Kinshasa,
Repubblica Democratica del Congo, nel quale da oltre vent’anni vive e lavora. Specializzare la disoccupazione: può sembrare una battuta, ma è anche un’istantanea
della situazione nella quale molti missionari si trovano a lavorare. Contesti
che, pur non mancando una scuola o un pozzo o un dispensario – quelli magari ci
sono e funzionano -, sono inseriti in un ambiente sociale e soprattutto
economico che non cambia, o cambia lentissimamente e non offre opportunità
diverse dal semplice sopravvivere giorno per giorno.

Così, formare un gruppo di donne in attività di
sartoria, inserendo nel corso anche sessioni di formazione igienico-sanitaria e
di gestione di micro-attività imprenditoriali, è indubbiamente un’iniziativa
che ha un’utilità a prescindere, ma si scontra con fenomeni più ampi su cui la
comunità locale non ha controllo.

«Le donne erano fortemente interessate a partecipare»,
spiega Suor Darlene Lima, delle Suore catechiste francescane, responsabile di
un corso di taglio e cucito a Boroma (Tete, Mozambico), «ma non è stato
semplice mantenere sempre alta la motivazione. Quando è il tempo della semina
nella machamba, il campo, molte donne saltano le lezioni per dedicarsi
alla terra, perché la fonte principale di sostentamento rimane l’agricoltura».
Insieme alle beneficiarie, suor Darlene e le animatrici hanno trovato una
soluzione dividendo le donne in due gruppi in modo che, a tuo, uno potesse
occuparsi della machamba e l’altro frequentare i corsi. Il corso era
stato concepito per consentire a queste donne di avviare poi attività
generatrici di reddito in ambito sartoriale per integrare i magri proventi che
l’agricoltura permette. Gli accordi presi con le scuole locali per l’acquisto
delle uniformi confezionate dalle corsiste hanno permesso alle donne di vedere
i risultati del loro sforzo. Ma le difficoltà non sono venute meno.

«Il prezzo di mercato di un’uniforme cucita dalle donne
del corso non sempre riesce a competere con quello delle uniformi importate già
disponibili sul mercato, spesso di fabbricazione cinese». Lo stesso vale per
gli abiti comuni: i mercati africani sono invasi di indumenti di seconda mano
arrivati dall’Europa e Stati Uniti e venduti a cifre tutto sommato accessibili
anche per il potere d’acquisto locale.

Anche in una realtà con un’economia più reattiva, com’è
il Kenya, è necessario a volte aggiustare il tiro: «Negli ultimi anni c’è stato
un cambio sostanziale nella formazione che il nostro istituto tecnico propone»,
spiega suor Rosa Waeni, una missionaria della Consolata direttrice della Irene
Technical Training Institute
di Maralal nella Samburu County dove si
è appena concluso un intervento finanziato dalla Conferenza episcopale
italiana, «perché i corsi di sartoria hanno sempre meno richiesta, mentre
moltissimi studenti si avvicinano alla nostra scuola attirati dalla possibilità
di specializzarsi in informatica o elettronica, le materie che danno loro un più
immediato accesso al mondo del lavoro di oggi in Kenya. Meglio allora
potenziare questi due corsi attrezzando i relativi laboratori».

Le comunità locali
alla prova della globalizzazione

In paesi come il Mozambico, in piena espansione
economica, l’esigenza che le comunità manifestano è quella di poter beneficiare
delle nuove opportunità economiche, locali o straniere che siano. Basta passare
la mattina presto nei pressi del ponte sullo Zambesi, a Tete, per vedere
schiere di operai mozambicani in tuta e casco in attesa del bus che li porterà
al lavoro nelle miniere della multinazionale brasiliana Vale (vincitrice nel
2012 dell’Oscar della vergogna – «Public Eye award» – come compagnia più
inquinatrice del mondo). Cambiando paese, basta guidare verso Nord Est sulla
Thika Road fra Thika e Sagana, in Kenya, e osservare le distese di ananas che,
a perdita d’occhio, si allungano sul lato destro della strada nella fattoria
Del Monte, o le palme da olio che hanno letteralmente invaso i campi nella zona
di Maria La Baja e Cordoba, sulla costa caraibica colombiana. Queste opportunità
economiche portano posti di lavoro ma anche salari bassi, rischi per la salute
dei lavoratori, abuso delle risorse naturali – acqua, suoli, foreste – e
conflitti legati ad esempio all’accaparramento delle terre (land grabbing, vedi articolo pag. 29) e alla distruzione della biodiversità.

È con questi fenomeni che si deve misurare oggi chi
lavora nello sviluppo. E anche quando se ne è consapevoli e si interviene con
l’intenzione di limitae gli aspetti dannosi, di estendere l’accesso a servizi
di base o di creare alternative economiche eque e sostenibili, il successo è
tutt’altro che garantito. Ne è un esempio il progetto Maji Matone (Gocce
d’acqua), realizzato da una Ong tanzaniana, Daraja (il Ponte), che ne
spiega il fallimento sul proprio blog in un articolo dal titolo «Maji Matone
non ha dato risultati. È tempo di accettare il fallimento, imparare e andare
avanti». Il progetto, concentrato su un distretto della Tanzania meridionale,
mirava a creare un sistema che foisse informazioni ai cittadini sui problemi
di approvvigionamento idrico rurale, permettesse loro di segnalare via sms i
guasti ai punti di distribuzione dell’acqua e inoltrasse le informazioni alle
autorità competenti perché potessero provvedere alle riparazioni. C’era poi un
accordo con i media locali perché dessero visibilità ai problemi segnalati in
modo da fare pressione mediatica sulle autorità per accelerae la reazione. «Perché
abbiamo fallito?», si chiedono i responsabili di Daraja. «Beh, non
abbiamo ancora raggiunto una conclusione definitiva, ma ci siamo fatti un’idea.
Motivare le persone ad agire è difficile, soprattutto quando si promette un
beneficio lontano nel tempo e poco chiaro. Forse avremmo potuto lavorare di più
sulla promozione del progetto, ma concentrandoci sulle aree rurali implica
avere a che fare con gruppi di persone più povere, meno istruite e meno
politicamente impegnate delle loro controparti che vivono nelle aree urbane. Può
esserci anche una questione di genere: nelle zone rurali della Tanzania sono le
donne a occuparsi della raccolta dell’acqua; ma hanno davvero sufficiente
accesso ai telefoni cellulari?». Nei casi in cui la segnalazione del guasto c’è
stata, le riparazioni sono effettivamente avvenute nel quaranta per cento dei
casi; ma mentre Daraja aveva ipotizzato il coinvolgimento di circa
tremila persone, di fatto sono arrivati solo 53 sms.

Per cominciare, continua l’auto-analisi di Daraja, ci siamo
concentrati troppo sugli aspetti tecnologici hi-tech del come scegliere
la piattaforma informatica adeguata per canalizzare tutte le informazioni da
condividere, e troppo poco sui problemi low-tech, cioè sul fatto che
nelle aree rurali il tasso di analfabetismo, la difficoltà ad accedere alla
rete cellulare, la mancanza di elettricità per caricare il telefonino sarebbero
stati ostacoli molto più seri. Inoltre non abbiamo affrontato in modo adeguato
le conseguenze della divisione delle responsabilità stabilita dalle istituzioni
per la gestione dell’acqua: riparare le fonti, stabilisce il ministero
tanzaniano dell’acqua, è responsabilità delle comunità locali. Questo, insieme
a una generalizzata mancanza di fiducia da parte dei cittadini nell’operato delle
autorità pubbliche, ha probabilmente portato la maggioranza dei beneficiari a
pensare che non valeva la pena mandare un sms, tanto non sarebbe servito a
nulla.

Ammettere i
fallimenti

A raccogliere esperienze simili a quella di Daraja
c’è Admitting Failure (Ammettere il fallimento), un sito lanciato dalla
sezione canadese di «Ingegneri Senza Frontiere» dove cooperanti appartenenti a
diverse organizzazioni raccontano la loro esperienza di progetti che non hanno
funzionato. Si trovano storie come quella del volontario dei Peace Corps
che in Benin avvia con quattro donne una piccola produzione di pane: 100
dollari procurati dal cornoperante e 20 da loro sono il capitale iniziale per
comprare il materiale di base. Tutto funziona molto bene, i soldi entrano: su richiesta
delle donne stesse è lui a gestire la cassa. Ma a un certo punto il volontario
decide che è il momento di cedere responsabilità alle donne, cassa compresa, e
di continuare ad affiancarle solo come supervisore della contabilità. È allora
che le donne si dividono i fondi in cassa e smettono di fare il pane, restando
senza risorse per continuare.

«Il motivo del fallimento», spiega l’operatore, «è che
avrei dovuto essere più paziente, aspettando che le donne fossero in grado di
mettere oltre il 75% del proprio capitale nel progetto; avremmo anche dovuto
iniziare con più fondi, 300 invece di 120 dollari. In questo modo, le donne
avrebbero potuto comprare subito tutto il materiale necessario e cominciare a
pagarsi invece di vedere i soldi accumularsi per i successivi acquisti di
attrezzature. Il capitale sarebbe stato in beni non liquidi, loro avrebbero
sviluppato un maggior attaccamento al progetto e non avrebbero avuto contanti
che non sapevano dove conservare senza che mariti e figli li vedessero e li chiedessero».

L’unico vero fallimento «cattivo» è quello che si ripete,
conclude Admitting Failure. E il britannico Overseas Development
Institute
(Odi), che è entrato nel dibattito sugli «Obiettivi Sostenibili
del Millennio» con uno studio dal titolo Adattare lo sviluppo, sembra
essere d’accordo: «Non bisogna aver paura di provare, fallire e riprovare», si
legge nel documento. Secondo l’Odi, che si rivolge ai governi, a chi fa le
riforme nei paesi in via di sviluppo, ai donatori inteazionali e alle Ong, i
fallimenti sono spesso dovuti al fatto che ci si concentra più su modelli
ideali che sui problemi concreti. Ad esempio, l’Uganda ha ottime leggi su
gestione dei fondi pubblici e lotta alla corruzione ma poi, nella pratica, le
leggi sono applicate pochissimo. Bisogna allora chiedersi prima di tutto che
cosa è fattibile e che cosa no in contesti politici difficili come quelli dei
paesi in via di sviluppo e sostenere i cambiamenti che nascono dentro questi
contesti per iniziativa dei diretti interessati: politici, società civile,
comunità e imprese locali.

Una tesi non dissimile era emersa chiaramente anche al
convegno «Africa, continente in cammino», organizzato dai missionari e
missionarie Comboniani nel marzo scorso: «Deve essere l’Africa a salvare
l’Africa», si era detto in quell’occasione. Il ruolo di chi fa sviluppo – non
solo in Africa – è quello di favorire, non dirigere (o peggio, ostacolare), il
cambiamento.

Chiara Giovetti

Tags: cooperazione, sviluppo, progetti

Chiara Giovetti




5×1000, la lunga strada verso la chiarezza

A un mese dalle scadenze
per la presentazione della dichiarazione dei redditi proviamo a fare il punto
sul «cinque per mille» partendo dalla deliberazione della Corte dei Conti, che
non risparmia critiche al meccanismo attuale.

Troppi enti beneficiari e poca chiarezza su quello che davvero fanno,
otto amministrazioni pubbliche coinvolte fra Agenzia delle entrate e ministeri
per gestire conteggio e erogazioni dei fondi, ritardi cronici, elevati costi
per le procedure, contribuenti esclusi dalla possibilità di scegliere e «scippi»
da parte del governo, che trattiene una parte del denaro destinato dai
contribuenti declassando il cinque per mille a un effettivo quattro. Sono delle
vere bordate quelle che la Corte dei Conti, la magistratura che vigila sul
corretto uso dei fondi pubblici, riserva alla quota dell’imposta Irpef per
finalità di interesse sociale nella deliberazione 14/2014 dell’ottobre scorso.
In essa sono riportati i risultati della richiesta di chiarimenti alle
amministrazioni governative competenti chiamate in causa dalla stessa Corte,
con una precedente deliberazione del 2013.

Elementi di debolezza

A onor del vero, una prima «correzione» fra quelle
raccomandate dai magistrati contabili è stata fatta: con la legge di stabilità
2015 (articolo 1, comma 154), l’istituto del cinque per mille non è più «precario»,
cioè non deve essere rinnovato di anno in anno con una legge ad hoc, ma
entra stabilmente nel panorama normativo italiano. Tuttavia gli «elementi di
debolezza», come li definisce la Corte, sono ancora molti. A cominciare dal
fatto – è il primo punto della deliberazione – che i beneficiari sono troppi:
cinquantamila fra enti di volontariato, ricerca scientifica, ricerca sanitaria,
Comuni, associazioni sportive dilettantistiche e di tutela dei beni culturali e
paesaggistici. Quest’ultimo ambito presenta fra l’altro un’anomalia rispetto
agli altri: chi vuole dare il proprio cinque per mille alla cultura non ha la
possibilità di scegliere un ente riportandone il codice fiscale. Deve
semplicemente limitarsi ad apporre la firma nel riquadro relativo e sarà poi il
ministero dei Beni e delle Attività culturali (Mibac) a decidere a chi
destinare i fondi per le attività culturali, assegnandoli agli enti che hanno
fatto domanda al ministero e che hanno presentato un programma di attività e
interventi.

«Ciò suscita perplessità», rilevava la Corte già nella
deliberazione del 2013, poiché non permettere al contribuente di scegliere
l’ente «è in contrasto con la ratio stessa dell’istituto del cinque per mille»,
che mira a introdurre «una forma di democrazia fiscale all’interno
dell’ordinamento italiano».

Scarsa trasparenza

In contrasto con il principio di trasparenza e lealtà
nei confronti di chi paga le tasse sono, invece, gli ostacoli che impediscono
ai cittadini di acquisire rapidamente informazioni che consentano loro una
scelta consapevole: solo dal 2014 l’Agenzia delle entrate ha cominciato a
pubblicare gli elenchi degli ammessi e degli esclusi in forma aggregata, cioè
tutti insieme in un solo documento con importi e numero di scelte. Questo, fra
le altre cose, permette anche di vedere facilmente quali enti accedono al
cinque per mille in più di una categoria, ovvero, ad esempio, sia nella ricerca
medica che nel volontariato.

Farraginosità

Quanto alla farraginosità del meccanismo di conteggio,
attribuzione ed erogazione dei fondi, basti pensare che nel 2014 le quote
ripartite sono state quelle relative alle dichiarazioni Irpef del 2012,
riferite ai redditi dell’anno precedente. Le procedure amministrative connesse
al cinque per mille – iscrizione degli enti beneficiari agli elenchi, vaglio
delle rendicontazioni, mandati di tesoreria da approntare per procedere
all’erogazione, eccetera – sono troppo complesse, si legge nel rapporto, e le
amministrazioni stanno fra loro in un rapporto di scarso cornordinamento,
aggravato dalle disfunzioni intee di ciascuna di esse. Tutto questo ha ovviamente
un costo in termini di risorse umane e materiali impegnate da Agenzia e
ministeri.

Altra disfunzione rilevata dai guardiani contabili è
quella del rischio che intermediari e consulenti, assistendo il contribuente
nel fare la dichiarazione dei redditi, tentino di influenzae la scelta. Fra i
potenziali conflitti di interesse da tenere d’occhio ci sarebbero, secondo la
Corte, i Caf (centri di assistenza fiscale) appartenenti a enti che sono anche
beneficiari del cinque per mille o che hanno chiari legami con associazioni
beneficiarie e che potrebbero fare da «suggeritori» non disinteressati.

Tagli arbitrari

Vi è poi la questione del tetto di spesa, cioè la cifra
massima che lo stato si impegna a sborsare dopo il conteggio delle effettive
scelte dei contribuenti. Un esempio, riportato nella deliberazione del 2013:
per l’anno finanziario 2011, il totale dei fondi del cinque per mille destinati
dai contribuenti era di quasi 488 milioni di euro; di questi, lo stato ne ha
stanziati 395 poiché quello era il tetto stabilito nella legge finanziaria, cioè
la cifra per cui lo stato poteva impegnarsi data la situazione delle sue
finanze. Risultato: 93 milioni di euro che pure i cittadini avevano deciso di
destinare a enti o categorie di loro scelta non sono, di fatto, stati sborsati
ma utilizzati per altri fini. Ecco come, rifacendo i conti, il cinque per mille
era diventato un quattro e qualcosa.

La legge di stabilità 2015 ha aumentato il tetto di
spesa a 500 milioni di euro, provvedimento salutato dagli enti del no profit
con reazioni molto positive; l’eliminazione del tetto, tuttavia, rimane
l’auspicio della Corte che, in alternativa suggerisce: se non è possibile
eliminare il limite, almeno non si chiami l’istituto cinque per mille ma lo si «ribattezzi»
con la reale percentuale. «E? grave», si legge nella deliberazione, «che il
patto tra lo stato e i contribuenti venga sistematicamente violato,
analogamente a quanto accade per la quota dell’8 per mille di competenza
statale, che viene, spesso, dirottato su altre finalità rispetto a quelle
indicate».

I contribuenti

Il grosso delle destinazioni del cinque per mille viene
dai 730, i modelli presentati da dipendenti e pensionati: secondo gli
ultimi dati disponibili (2010), il 70% di questi contribuenti fanno una scelta in
merito al cinque per mille, contro il 26% di chi presenta l’Unico, per
lo più liberi professionisti. Quanto a chi usa il Cud, meno di un
contribuente su cento esprime la propria preferenza. Chi, invece, ha imposta
netta pari a zero, solo in un caso su cinque appone la firma mentre fra chi non
presenta la dichiarazione dei redditi la quota di optanti scende di nuovo sotto
l’un per cento. Secondo la Corte, questo quadro mostra che «risulta
disincentivata la partecipazione all’opzione di una rilevante quota di
cittadini, generalmente quelli più a basso reddito» e che c’è, rispetto
all’accesso alla scelta del cinque per mille, una differenza di trattamento fra
questi contribuenti e coloro che presentano 730 o Unico.

Le soglie

La deliberazione da un rilievo particolare al problema
delle soglie: secondo i magistrati contabili, distribuire le somme a quegli
enti che hanno ottenuto importi minimi non aiuta nessuno e meglio sarebbe
stabilire una quota sotto la quale il cinque per mille non viene sborsato
all’ente beneficiario ma ridistribuito fra chi ha ottenuto preferenze oltre la
soglia minima. Attualmente quest’ultima è 12 euro, una cifra – a detta della
Corte – che non fa alcuna differenza sulle finanze dell’ente e quindi sui suoi
eventuali assistiti, ma la cui distribuzione appesantisce la macchina
amministrativa: anche per erogare una somma così piccola occorrono calcoli e
procedure che impegnano impiegati e risorse dell’Agenzia e dei ministeri. Al
tempo stesso potrebbe essere opportuno stabilire una soglia verso l’alto. Gli
enti che ottengono già tanto con il cinque per mille dai sostenitori
potrebbero, suggerisce la Corte, essere esclusi dalla seconda distribuzione di
fondi, quella cioè che deriva dal cinque per mille dei contribuenti che non
scelgono un ente preciso ma solo la categoria.

Ultime, dolenti note sono secondo la Corte quelle
relative alle rendicontazioni: lenta, laboriosa e costosa la procedura per
verificare i rendiconti, cioè i documenti che i beneficiari presentano per
dimostrare come hanno usato i fondi ricevuti.

Focus sul
volontariato: frammentazione e dispersione

Gli organismi di volontariato fra cui il contribuente può
scegliere sono più di quarantamila, il doppio rispetto al 2006, anno di
introduzione del cinque per mille. A voler fare un conto della serva, dividendo
la popolazione italiana per il numero di enti si ottiene che c’è
un’organizzazione ogni 1.500 abitanti. È vero che questo costante aumento
degli enti senza fini di lucro rispecchia la
frammentazione dei bisogni della nostra società, dice la Corte, ma resta il
fatto che alcuni di questi «non producono alcun tipo di valore sociale», e cita
ad esempio le fondazioni politiche – oggi più che mai al centro di un dibattito
su come si finanzia la politica in vista della fine del finanziamento pubblico
ai partiti – o le associazioni di categorie professionali di avvocati, notai,
militari eccetera. A volte capita che un’organizzazione che può contare su
contribuenti con un alto reddito ottenga cifre alte pur avendo poche firme.

A questo si aggiunge che su quarantamila enti, oltre
novemila ottengono meno di cinquecento euro, e più di mille non hanno ottenuto
nemmeno una firma, segno che nemmeno il presidente sceglie la sua stessa onlus.
Questa situazione indica che le risorse del cinque per mille si disperdono in
tanti rivoli e che, in alcuni casi, non è nemmeno chiaro come e perché
un’organizzazione continui a sopravvivere. Occorrono controlli rigorosi che
misurino la reale utilità sociale degli enti ma, rilevano i magistrati
contabili, già su questo c’è un primo incaglio: il ministero del Lavoro e delle
Politiche sociali, l’amministrazione che meglio conosce il mondo
dell’associazionismo e le sue attività, non ha competenza nella compilazione
della lista dei beneficiari del cinque per mille, che è invece redatta
dall’Agenzia delle entrate, la quale si limita a verificare che le carte siano
in ordine.

Altro elemento rilevato dalla Corte già nel 2013 è che «attraverso
le attuali modalità di iscrizione e riparto, vengono agevolati, di fatto, gli
organismi di maggiori dimensioni e più strutturati», che possono investire in
promozione pubblicitaria e ottenere maggior visibilità. Risultato: «i primi 40
beneficiari si aggiudicano, costantemente negli anni, una percentuale di circa
il 30% del totale dei contributi» della categoria volontariato; la percentuale «sale
ad oltre il 90% per la ricerca scientifica e supera costantemente il 97% per
quella sanitaria».

Fra gli enti di volontariato esclusi dal cinque per
mille ci sono gli enti di natura pubblica. Ecco che, sottolinea la
magistratura, resta fuori dai beneficiari un’organizzazione come la Croce Rossa
Italiana, «pure percepita da molti contribuenti meritevole di sovvenzionamento».

Chiara Giovetti



I numeri del cinque
per mille

Contribuenti che
esprimono la preferenza:
oltre 16 milioni (55% del totale).

Categorie beneficiarie:
volontariato, ricerca scientifica, ricerca medica, beni culturali e
paesaggistici, Comuni, associazioni sportive dilettantistiche.

Enti beneficiari:
circa 50 mila, di cui 40 mila enti del volontariato.

Cifre erogate
(ultimi dati disponibili: 2012, redditi 2011): 393 milioni di euro, di cui 264
milioni al volontariato.

Media nazionale:
intorno ai 25 euro a contribuente (ma cambia molto a seconda del reddito; media
MCOnlus 33 ca.).

Principali differenze
con l’otto per mille
: l’otto per mille va allo stato o a una confessione
religiosa, il cinque per mille a una delle sei categorie o a uno dei
cinquantamila enti sopra; inoltre, l’otto per mille non destinato viene
comunque distribuito fra stato e confessioni, mentre il cinque per mille non
destinato rimane allo stato.

Come funziona:
quando si fa la dichiarazione dei redditi, nell’apposito formulario si riporta
il codice fiscale dell’ente che si vuole sostenere e si appone la firma, oppure
si appone solo la firma scegliendo così non uno specifico ente ma una categoria.
Questo secondo tipo di scelta fa sì che i fondi siano ripartiti per i membri di
quella categoria.

_____________

Destinare il cinque per mille non ha alcun costo per il
contribuente; per contro, non destinarlo non significa tenerlo per sé perché
comunque verrà trattenuto dallo stato per le spese destinate alla produzione e
al funzionamento dei servizi pubblici.

TaG: volontariato, 5×1000, cinque per mille, tasse, stato, cooperazione

Chiara Giovetti




Roma e i migranti / 2

Nella prima puntata
di questo reportage abbiamo raccontato delle origini dell’accoglienza nella
capitale, della situazione dei migranti dal punto di vista sanitario e di
baraccopoli e occupazioni, introducendo il tema dei rifugiati. Riprendiamo da
qui, allargando la prospettiva anche alla condizione dei Rom.

 


«È impossibile essere precisi sul numero totale di rifugiati che
attualmente vivono a Roma: le stime dicono fra le otto e le diecimila unità». A
parlare è Berardino Guarino, responsabile dei progetti della Fondazione Centro
Astalli. «I percorsi che richiedenti asilo e rifugiati seguono per trovare un
posto dove stare sono tipicamente quattro: in primo luogo, ci sono i 2.500
posti gestiti congiuntamente da Comune e Servizio di Protezione dei richiedenti
asilo e rifugiati (Sprar), che hanno liste d’attesa di due o tre mesi e un tempo
di permanenza limitato. A questo primo canale si affiancano poi il circuito
degli eventuali amici e parenti, i posti messi in campo direttamente dalle
Prefetture e, infine, gli insediamenti informali, come gli stabili occupati e
le baraccopoli». In totale, gli abitanti di questi ultimi sono stimati in circa
sei-settemila, dislocati nei quattro grossi edifici come il Selam Palace (vedi
articolo precedente, ndr) e in diverse altre realtà di dimensioni più
piccole. La stragrande maggioranza degli occupanti sono migranti, quasi tutti
in possesso di permesso di soggiorno.

L’associazione Centro Astalli – sede italiana del
Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, di cui la Fondazione è la «sorella»
impegnata nel campo della formazione e sensibilizzazione – gestisce una
pluralità di attività fra le quali la mensa, che distribuisce circa ottomila
pasti al mese, i centri di accoglienza, che ospitano annualmente circa duecento
persone, il centro notturno, il cui dormitorio ha ricevuto nel 2013 oltre
duecento persone, e l’ambulatorio, con più di duemila accessi l’anno. «Anche
l’accettazione, presso la sede di Via degli Astalli, ha un’importanza
fondamentale: per presentare domanda d’asilo, i migranti devono infatti
dimostrare di essere reperibili e nel 2013 sono stati oltre seimila i
richiedenti asilo e rifugiati che si sono domiciliati da noi».

Oltre al Centro Astalli, in città sono attivi
nell’accoglienza ai migranti forzati altre organizzazioni fra cui la Caritas,
la Comunità di Sant’Egidio, l’Arci. Il cornordinamento cittadino, prosegue
Guarino, è buono, ma se la situazione rimane problematica sia nella fase
dell’accoglienza che in quelle successive è perché «a monte, l’Italia non ha
mai avuto un piano per l’integrazione. Abbiamo integrato cinque milioni di
stranieri a prescindere dallo stato». E gli errori non si limitano a questo: è
stato un errore firmare la convenzione di Dublino, è un errore pensare che
Triton, l’operazione dell’agenzia europea di controllo delle frontiere Frontex
subentrata lo scorso novembre alla missione italiana Mare Nostrum, sia la
soluzione. «Nei primi due mesi del 2015 sono sbarcati tremila migranti in più
rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Dovrebbe riflettere su questo
chi diceva che Mare Nostrum era un incentivo alle partenze in quanto missione
di salvataggio e non, come Triton, di protezione dei confini».

L’Europa ci lascia da soli a gestire l’emergenza? «Sì»,
conclude Guarino, «ci lascia soli nel senso che su diritti umani e immigrazione
non v’è certamente lo stesso cornordinamento che vediamo per le politiche
economiche. Inoltre, gli stati europei con gli standard di accoglienza più
elevati, come la Germania, temono che i paesi con meno coscienza civile non
rispettino gli impegni eventualmente presi in sede europea», facendo a scaricabarile
per non accollarsi i costi della gestione dei flussi migratori. La Germania
alla fine del 2013 ospitava circa trecentomila fra rifugiati e richiedenti
asilo a fronte dei nostri novantamila e aveva 126 mila nuove richieste d’asilo
contro le 26 mila in Italia.

La
popolazione romanì: Rom e Sinti a Roma

In Via Anicia, a due passi dalla Basilica di Santa
Cecilia in Trastevere, una ventina di persone aspetta fuori dalla porta del
Centro «Genti di Pace» della Comunità di Sant’Egidio. Un centinaio sono invece
già all’interno del centro: sono Rom e Sinti di tutte le età. Ogni venerdì
arrivano dai campi per parlare con i consulenti per l’orientamento
amministrativo e legale o per fare una visita medica presso l’ambulatorio.
Altri sono in attesa di usare le docce, di ricevere provviste alimentari, di
ritirare la loro biancheria lavata e asciugata nella lavanderia del Centro o di
prendere un indumento dagli scaffali della sala dove, impilati e divisi per
tipo, sono sistemati i capi frutto delle raccolte di vestiti usati. «Si
registrano all’accettazione», spiega Paolo Ciani, il responsabile delle attività
di Sant’Egidio con i Rom e i Sinti, «ricevono gratuitamente la tessera del
centro e da quel momento possono accedere ai servizi». Grazie anche alla
registrazione, il Centro è diventato un osservatorio sui nuovi arrivi: i più
recenti sono quelli delle comunità bulgare, da circa cinque anni a questa
parte, mentre le prime presenze delle comunità rumene risalgono al decennio fra
il 1990 e il duemila, precedute di vent’anni dai Rom della ex Jugoslavia.

«Fra campi autorizzati e campi spontanei», precisa
Ciani, «vivono a Roma fra le sei e le settemila persone». Circa il doppio del
totale dei rom e sinti in città – gli altri vivono nelle case  – e più o meno un sesto del dato nazionale,
che stima in quarantamila gli abitanti dei campi. L’assegnazione delle case
popolari a questi rom è stata, fino a tre anni fa, impraticabile: il punteggio
nelle graduatorie per chi richiede l’alloggio aumenta infatti per chi ha subito
sfratti e vive in emergenza abitativa, ma lo sgombero non era parificato allo
sfratto né i campi erano considerati luoghi a emergenza abitativa. Ora i
criteri per le graduatorie sono cambiati e il tempo dirà se lo saranno anche i
risultati.

I Rom della ex Jugoslavia sono il gruppo che più di tutti
ha vissuto in ghetti ai margini della città: molti sono nati qui, figli o
nipoti di persone che lasciarono la Jugoslavia durante la guerra e che non
hanno poi acquisito la cittadinanza di uno dei paesi nati dalla dissoluzione
del paese balcanico. «Vivono perciò in un limbo giuridico nel quale sono
apolidi de facto ma non de jure e non possono chiedere per i
propri figli il riconoscimento della nazionalità italiana».

Ma anche per chi ha una situazione giuridica meno
complicata l’uscita dalla condizione di marginalità è difficile. Uno dei banchi
di prova è quello della scuola. È «sintomatico di come lo stato ha trattato
queste comunità. Ci sono stati diversi passaggi: nel primo, le istituzioni non
erano sicure nemmeno del fatto che fosse opportuno scolarizzare i bambini rom e
i dubbi nascevano a volte da pregiudizi culturali “al contrario”, cioè di
malintesa difesa della cultura rom da quella gagé (non rom). Poi è
cominciato un percorso in cui si chiedeva alle famiglie almeno di iscrivere i
figli a scuola e dopo di iscriverli e mandarli almeno qualche volta. E a questa
sequela di “almeno” si è affiancato l’uso della scuola come “merce di scambio”
fra Rom e istituzioni: mando i miei figli a scuola se mi dai un campo
attrezzato, non ti caccio dal campo se mandi i bambini a scuola».

A questo poi poteva aggiungersi un problema legato a una
presa in carico che non coinvolgeva abbastanza le famiglie: i bambini
diventavano quasi figli delle associazioni per l’assistenza ai Rom, che si
occupavano di andare ai ricevimenti con gli insegnanti e di ritirare le pagelle
mentre i genitori stavano al campo, completamente deresponsabilizzati.

Ma senza scuola non si fanno progressi. «In questi
decenni di lavoro con i Rom abbiamo visto che dove si è riusciti a scolarizzare
una generazione, questa poi a sua volta ha mandato a scuola i propri figli e si
è innescato un circolo virtuoso». Secondo il rapporto conclusivo dell’indagine
sulla condizione di Rom, Sinti e Camminanti della Commissione diritti umani del
Senato, pubblicata a febbraio 2011, a Roma sono circa 2.200 i bambini rom
iscritti a scuola: la maggioranza, ma i dati cambiano di parecchio a seconda
che i bambini vivano o meno in campi attrezzati e raggiunti da interventi
sociali.

Quanto al modo di procurarsi denaro, gli operatori non
si stancano di ripetere che il ricorso al furto o ad altre attività criminali
interessa gruppi minoritari e diminuisce all’aumentare dell’inclusione sociale.
In una città come Roma, dove il clan dei Casamonica – Rom italiani di antico
insediamento – è nota per attività quali usura, rapine, estorsioni,
sfruttamento della prostituzione, traffico di armi e stupefacenti specialmente
nel settore Est della Capitale, è difficile evitare che chi ne legge le «gesta»
nelle cronache locali faccia poi l’equazione: zingaro uguale criminale. «Eppure»,
riprende Ciani «se ora chiedessimo ai rom qui al Centro che cosa ne pensano dei
Casamonica, molti non capirebbero nemmeno di chi stiamo parlando».

La popolazione romanì cerca di garantirsi la
sussistenza con diversi mezzi: secondo il quadro delineato da Sant’Egidio,
all’elemosina ricorrono più che altro quelli arrivati di recente. Ci sono poi i
cosiddetti rovistatori, quelli che cercano nei cassonetti dell’immondizia,
attività che crea una serie di problemi: innanzitutto, contribuisce a
diffondere la percezione che i Rom sporcano la città. Poi c’è la questione di
come e dove rivendere quanto raccolto e il timore del proliferare di mercatini
informali. Infine c’è chi la mette in termini di danno al decoro urbano, «come
se il fatto che sia brutto vedere qualcuno che rovista nell’immondizia»,
puntualizza ancora Ciani, «fosse più importante che capire perché lo sta
facendo o evitare che sia costretto a farlo». A Roma l’idea del decoro urbano
appare peraltro un po’ contraddittoria, considerando che legare una bicicletta
alla staccionata di un parco pubblico rischia di attirare l’attenzione della
polizia municipale mentre macchine in doppia fila e motorini sui marciapiedi
hanno maggiori probabilità di passare in cavalleria, quasi fossero un male
necessario.

La frase dell’assessore alle Politiche sociali del
Comune di Roma, Francesca Danese, circa la possibilità di impiegare i Rom nella
raccolta dei rifiuti ha scatenato lo scorso febbraio una tempesta di polemiche.
Secondo Paolo Ciani, la frase dell’assessore è stata recepita dai media e dal
mondo politico nel peggiore dei modi: «È ovvio che un Comune non può demandare
la differenziata ai rom. Ma ragionare su un possibile inserimento lavorativo
che valorizzi le competenze specifiche delle persone non è certo sbagliato».

E le competenze non si fermano al riciclo: la raccolta e
la lavorazione dei metalli è da sempre un altro campo nel quale i rom sono
piuttosto esperti. In diversi casi hanno aperto partite Iva e svolgono
l’attività in modo non meno regolare di altri. Hanno anche gli stessi
grattacapi dei colleghi gagé per via delle direttive Ue sulla
tracciabilità dei metalli: se i documenti non sono in ordine, i commercianti si
vedono il camion sequestrato e l’attività sospesa. Quanto ai famigerati roghi
alla diossina che si alzano dai campi e che esasperano gli abitanti dei
quartieri circostanti, in alcuni casi sono fuochi per bruciare l’immondizia, in
altri un modo per separare il rame dagli altri materiali. «E allora perché non
pensare a creare foi appositi e in regola con le normative, costruendoli
grazie a una colletta a cui partecipino i Rom stessi, piuttosto che impedire e
reprimere un lavoro, come quello della raccolta del metallo, ben avviato,
remunerativo e utile?». Ma, come Mafia Capitale ha dimostrato, l’anarchia e gli
sgomberi senza ricollocazione, che poi creavano altri insediamenti informali
pochi chilometri più in là o che foivano nuovi «clienti» ai campi gestiti
dalla cupola romana, facevano comodo a chi lucrava sulle situazioni
emergenziali, vere o presunte.

I contraccolpi dell’inchiesta sul Mondo di Mezzo per ora
non si sono avvertiti nel concreto dell’accoglienza e della gestione del
disagio, fatta eccezione per il ritardo nel piano per l’emergenza freddo
dell’inverno scorso. Ma i contraccolpi culturali sono stati pesanti:
soprattutto per il diffondersi dell’idea che non vale la pena di spendere
denari per migranti e rom, perché tanto finiscono «mangiati» dalle associazioni
che campano sul business dei poveri. Queste spesso finiscono tutte nello stesso
calderone, anche chi lavora seriamente. Per quanto riguarda i rom in
particolare, conclude il rappresentante della Comunità di Sant’Egidio, Mafia
Capitale ha anche fatto aumentare il disprezzo verso i gagé: fanno
affari sulla nostra pelle, dicono i Rom, con una generalizzazione eguale e
contraria a quella applicata a loro. E così crescono anche «il vittimismo a cui
tanti rom finiscono per abbandonarsi e la rassegnazione, che investe sia la
popolazione romanì che le istituzioni che con essa si rapportano».

È già buio, un altro autobus raccoglie il suo carico di
umanità per portarlo dalle arcate di travertino del Teatro di Marcello ai
casermoni della Magliana. Sull’autobus, tutti fanno smorfie e si tengono il
naso fra due dita per non respirare l’odore acre che ammorba l’aria. Un ragazzo
con lunghe ciocche bionde di capelli infeltriti è nell’ultimo sedile, con la
fronte pallida posata sullo schienale davanti, forse svenuto. L’orlo slabbrato
dei pantaloni lascia vedere i piedi scalzi, sudici. «Non si può vivere così»,
dice un uomo non più giovane con accento dell’Est Europa seduto accanto alla
moglie, «bisogna lavarsi! Vedi?, oggi sono stato a Via Anicia, ho vestiti
puliti, io, ho fatto la doccia».

Roma trova tanti modi per dirti che sotto alla crosta
fragile della grande bellezza i ruoli si invertono in un attimo, e quasi niente
è quello che sembra.

Chiara Giovetti

Tags: Migranti, Roma, Rom e Sinti, Rifugiati, Centro Astalli

Chiara Giovetti