Una sosta per capire (Gv 7)


Il settimo capitolo del Vangelo secondo Giovanni a prima vista non è di quelli che restino impressi nella memoria dei lettori. Parrebbe quasi un momento di passaggio, interlocutorio, come una pausa per prendere respiro.

E invece non è così. L’evangelista non vuole lasciarci riposare, e ce lo dice sottolineando più volte che ci troviamo alla festa delle Capanne. Si trattava, soprattutto al tempo di Gesù, di una festa autunnale molto sentita. La sua origine era contadina, legata agli ultimi racconti dell’anno, soprattutto quello dell’uva. Nel tempo, però, era stata collegata, come lo è ancora oggi, agli anni vissuti da Israele nel deserto, quando pur nella precarietà, il popolo era comunque nelle mani affidabili di Dio. Il dormire in capanne di frasche, anche solo simboliche, voleva richiamare quel tempo in cui gli ebrei vivevano in tende e non avevano altra certezza che la presenza protettrice di Dio.

Precarietà e fiducia

E Giovanni sembra proprio costringerci a muoverci in quello spazio incerto. Così, nel capitolo 7, ci descrive un Gesù «rifugiato» in Galilea, a causa delle minacce di morte dei giudei, che dice di non voler tornare in Giudea per la festa delle capanne, ma che poi ci va di nascosto. Un Gesù che a metà dei giorni di festa si mette a predicare nel tempio suscitando attorno a sé dibattiti e divisioni sulla sua identità. La gente discute anche sulla veridicità delle parole di Gesù che affermano esserci chi vuole la sua morte (v. 20), mentre invece c’è proprio chi attivamente cerca di procurargliela (vv. 1.30.32.45).

La gente si domanda: chi è costui? È vero che spiega con profondità e autorevolezza la Bibbia, ma non ha studiato (v. 14-15). Qualcuno crede che Gesù sia il messia, altri invece no, perché quando il messia verrà «nessuno saprà di dove sia» (v. 27). Qualcun altro ricorda che la Scrittura dice che il messia forse verrà da Betlemme (v. 42). Non può quindi essere Gesù: tutti, infatti, sono sicuri che lui è di Nazaret (v. 41). Altri pensano: se le autorità religiose lo lasciano parlare in pubblico, di certo deve dire cose giuste (v. 26), ma non sanno che in realtà proprio quelle stesse autorità stanno cercando di imprigionarlo. C’è chi vede che è buono e fa gesti grandiosi (vv. 12.31) e chi lo ritiene indemoniato (v. 20).

Di Gesù sembra potersi dire tutto e il contrario di tutto. A chi credere?

Anche alcuni di quelli che più sono vicini a Gesù, che lo conoscono meglio, non credono in lui; ma, nello stesso tempo, i gesti che compie, e soprattutto le parole che condivide, sembrano aprire prospettive di profondità, di vita, di nutrimento e acqua fresca. Come ha detto Pietro a nome dei dodici poco prima: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,69).

La testimonianza del Padre (Gv 7,14-25)

È Gesù stesso a offrire una chiave di comprensione, anche se potrebbe sembrarci persino più astrusa. Dice, infatti, che è il Padre ad avergli mostrato tutto, e che, se si vuole vagliare la sua credibilità, è al Padre che bisogna guardare (vv. 16-18).

Da una parte, come dicevamo, questo ci complica le cose. Finora era sembrato che fosse Gesù a farci conoscere il Padre, a mostrarcelo, e che si potesse guardare a Gesù esattamente per conoscere meglio il Padre. Ora però Gesù ci dice che, per credere al Figlio, si deve fare riferimento alla testimonianza del Padre… che però noi conosciamo tramite il Figlio. Sembra di annodarci in un ragionamento senza uscita.

Se ci pensiamo, però, è proprio questa la logica delle relazioni umane. Gesù sostanzialmente dice che se si guarda a ciò che il Padre ha fatto nella storia, e che si conosce dal Primo Testamento, si può cogliere la coerenza con ciò che insegna lui. Non siamo di fronte a un ragionamento filosofico o matematico (da A si ricava B, da B si ottiene C), ma di coerenza intima: «Ciò che insegno non è forse coerente con ciò che Dio ha sempre fatto?». Di fronte a questo appello, chi ascolta non può più semplicemente mettersi alla finestra come un giudice che stabilisce se il ragionamento tiene, ma deve coinvolgersi, decidere, schierarsi. È come trovarsi di fronte a un’opera d’arte: magari non siamo artisti, ma per capire un quadro dobbiamo seguire i suggerimenti del pittore, ripercorrere la sua intuizione, dobbiamo farci un po’ artisti.

Ecco perché così tanti discepoli e persone vicine a Gesù, in questa parte del vangelo, non credono più in lui. Perché non si tratta più solo di ascoltare e valutare, ma di prendere posizione, di credere o no. Come in un’amicizia, come in una relazione, ci può essere un tempo in cui provare a vagliare se quei segni di vicinanza sono affidabili, ma poi arriva il momento in cui non si può più stare alla finestra, perché bisogna scommettere se quella relazione può essere autentica, e quindi conviene darle fiducia e farla crescere, o se invece la riteniamo ingannevole o pericolosa e allora va abbandonata (cfr. il v. 12, dove si ipotizza proprio che Gesù «inganni la folla»). Tenersi neutrali non è possibile, è come rifiutarla.

Da qui in poi, allora, il discorso sul Padre da parte di Gesù si farà più intimo e complesso, perché non potremo più semplicemente porci come spettatori e ascoltatori. Dobbiamo entrare in gioco.

Tra afferrare e lasciare scorrere (Gv 7,30-39)

Cogliamo così il legame che c’è tra due temi che noi, forse, non avremmo messo vicini.

Da una parte c’è chi cerca di afferrare Gesù, invano (vv. 30.32.45), per arrestarlo: le autorità, i sommi sacerdoti e i farisei. Cercano di zittirlo, non di controbattere o di entrare in dialogo, di provare a capire e a rispondere, ma di farlo tacere, così come sono riusciti a mettere a tacere chi si interrogava su Gesù (v. 13).

E qui entra prepotente la mano dell’evangelista, che afferma che si potranno mettere le mani su Gesù soltanto quando sarà il momento. Giovanni non è interessato a scrivere una cronaca, e quasi non ci spiega perché le autorità non riescano ad arrestare Gesù. Ci dice solo, verso la fine del capitolo, che le stesse guardie, persone abituate a ubbidire senza farsi domande, affermano che «mai un uomo ha saputo parlare così!» (v. 46). L’attenzione non è sulle azioni di Gesù, ma sulla sua sapienza, sulle sue parole che sanno evocare un desiderio umano profondo.

Giovanni, che non a caso chiama «segni» i miracoli, insiste sul fatto che non è lo stupore o l’interesse a portarci stabilmente verso Gesù, ma le parole di vita che sa donare, la vita promettente che sa evocare.

Dall’altra parte, infatti, contro coloro che vorrebbero «afferrarlo» e rinchiuderlo, Gesù si erge in piedi, solenne, a gridare, nell’ultimo giorno della festa, che chiunque ha sete è chiamato ad andare a dissetarsi da lui. «Fiumi d’acqua viva fluiranno dalle sue viscere!» (v. 38), dice Gesù affermando di citare la Scrittura, anche se non si capisce di preciso a quale passo stia pensando (Ezechiele? Zaccaria? I salmi?). Non si capisce quindi di preciso se l’intimo, il cuore, le viscere da cui scaturiranno fiumi d’acqua viva siano di Gesù o di chi va a lui. Ma in realtà questa ambiguità è probabilmente voluta. È Gesù che dona acqua viva, ma sarà anche chi si affida a lui che potrà fare come Gesù. L’acqua, ciò che non si può restringere, non si può chiudere in confini, non può essere «afferrata» e rinchiusa. Acqua viva, che continua a scorrere, che sa dissetare senza risparmio, senza paura, che purifica e rinfresca.

Da una parte c’è chi pretende di chiudere la fedeltà a Dio in regole, silenzio e ubbidienza; dall’altra ci sono parole che evocano la libertà e l’appagamento di acque vive. E il Padre, dice Gesù, è da questa seconda parte.

Germi di ascolto (Gv 7,40-52)

Non è allora per ripetizione che Giovanni torna a recuperare sia la domanda sull’origine di Gesù (vv. 40-43), sia il tentativo di afferrarlo e rinchiuderlo (vv. 44-47). Questi due temi, apparente-
mente slegati, sono invece intrecciati, e l’evangelista, ripetendoli, ci suggerisce che dobbiamo connetterli e non dimenticarli.

Perché, sembra dirci, è giusto farsi domande su Gesù, sulla sua pretesa di comunicarci il Padre e sul suo legame con Lui. È giusto perché non è una realtà evidente, che si imponga. Non è una dimostrazione matematica, che ci costringa a riconoscerne la verità. È invece un’intuizione profonda, autentica, esistenziale che ci chiede di prendere posizione, di decidere da che parte stare.

Assomiglia alle relazioni umane, perché ciò che Dio cerca è esattamente una relazione. Non ci sono infatti parole dure, nei vangeli, nei confronti di chi fatica a credere. Perché l’incertezza, l’insicurezza, sono comprensibili. I giudizi pesanti, invece, sono verso chi vorrebbe far tacere Gesù e le domande, anche a costo di mentire.

Alle guardie che, contro la loro natura e la loro etica, mandate ad arrestare Gesù, si fermano perché «mai un uomo ha saputo parlare così», i capi religiosi ribattono che soltanto gli stupidi, «la folla, ignorante della Legge», si è lasciata sedurre da Gesù. È l’obiezione dei presuntuosi, che guardano i titoli di merito («dove ha studiato, costui?», v. 15) e non si lasciano coinvolgere dalla possibilità di parole di vita. E che mentono, affermando che solo gli ignoranti si farebbero ingannare da questo presunto messia.

Giovanni lo fa subito notare, perché uno del sinedrio, quel Nicodemo «che prima era andato a lui di notte» (v. 50), non prende posizione netta a favore di Gesù, ma si rifiuta di condannarlo senza prima ascoltarlo, peraltro facendo appello proprio alla Legge.

Nicodemo è una figura incantevole del Vangelo di Giovanni, perché, pur non prendendo posizione, si mette in ascolto: va a parlare a Gesù, pur con molte diffidenze e senza volersi far notare (Gv 3,1-21), e sarà tra coloro che si prenderà cura del corpo del crocifisso (Gv 19,39). Non un discepolo in senso pieno, ma una persona che si lascia coinvolgere, che vuole ascoltare e capire, che si lascia scomodare.

È uno di quei discepoli «in spirito e verità» (Gv 4,23-24) che il Padre cerca e spera. Non necessariamente persone che abbiano già deciso definitivamente e con fermezza, ma che si lasciano mettere in discussione, che ascoltano e meditano, che non hanno verità preconcette.

Perché, come nelle nostre relazioni, nel nostro orientamento di vita, in tutte le questioni più profonde, Gesù e il Padre sanno che non è facile affidarsi, decidersi, scegliere, e comprendono chi fatica, chi è incerto. Perché il messaggio di Gesù sul Padre non è un teorema matematico incontrovertibile, ma una parola di vita, promettente ma senza garanzie previe. L’unica risposta sbagliata è quella di chi non vuole neppure ascoltare.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 09 – continua)




Dieci anni dopo, l’Isis c’è ancora


Era il 2014 quando l’Isis entrò a Mosul instaurando il Califfato. Furono tre anni di dominio drammatico, soprattutto per le minoranze yazida e cristiana. L’organizzazione islamista non è però scomparsa. Anzi, si sta riorganizzando in vari paesi.

Sono trascorsi dieci anni da quando l’Isis issò la bandiera nera sulla città di Mosul, in Iraq. Il sogno era quello di costituire uno Stato islamico (Daesh), tra l’Iraq e la Siria, con leggi e regole che mettevano una dura ipoteca su diritti e libertà da poco conquistati, sia pure in misura limitata, in un’area del pianeta comunque da sempre instabile.

A farne le spese fino alla liberazione (avvenuta nel 2017), furono le minoranze, soprattutto quella cristiana e quella yazida. Ma stragi e lutti colpirono anche la stessa comunità musulmana, soprattutto la minoranza sciita.

Nadia Murad

Nadia Murad a Washington, nel 2018.

Simbolo della resistenza a quella che è stata una delle pagine più cupe della storia recente, è senza dubbio Nadia Murad. Nata a Kocho (distretto di Sinjar), sulle alture irachene di Ninive, di religione yazida, nell’agosto del 2014, come tante ragazze della sua comunità, venne rapita e tenuta in ostaggio dai terroristi del Daesh. Resa schiava, picchiata, violentata, riuscì a scappare, nel novembre dello stesso anno, dalla sua prigione. Da allora non ha mai smesso di testimoniare la sua storia e quella del suo popolo perseguitato tanto da essere insignita, nel 2018, del Premio Nobel per la pace.

Nelle celebrazioni del decennale, che si sono tenute all’inizio del mese di agosto di quest’anno nella sua terra, il Sinjar, regione irachena incastonata tra il Kurdistan, la Turchia e la Siria nordorientale, Nadia Murad ha sottolineato: «Dieci anni fa, la mia vita e quella di centinaia di migliaia di yazidi furono sconvolte e distrutte. Ritrovarci insieme ad altri sopravvissuti dieci anni dopo per commemorare il decimo anniversario a Sinjar lancia un messaggio potente a coloro che hanno cercato di sradicarci dalla nostra patria e di metterci a tacere attraverso una campagna di genocidio e violenza sessuale: avete fallito. I sopravvissuti sono più resistenti che mai e hanno smascherato la malvagia ideologia dell’Isis».

Per non dimenticare quanto accaduto in quei mesi del 2014 nel Sinjar è sorto, anche grazie al coraggio e all’intraprendenza dell’attivista, ormai nota in tutto il mondo, lo Yazidi genocide memorial.

La fuga e un parziale ritorno

Dolori e lutti hanno investito e decimato anche la comunità cristiana. Era il 10 giugno del 2014 quando l’Isis dichiarò l’istituzione di un califfato introducendo la legge islamica. I cristiani furono costretti a scegliere tra lasciare le loro città, pagare l’esosa tassa di protezione o vedere la confisca delle loro proprietà. Qualche giorno dopo, le porte delle loro case vennero segnate con la lettera «n» in arabo, marchiati perché «nazareni», ovvero seguaci di Gesù. Era solo la premessa di quella grande fuga, avvenuta nella notte tra il 6 e il 7 agosto dello stesso anno, di circa 120mila persone che dalla piana di Ninive raggiunsero il più sicuro Kurdistan, e si stabilirono soprattutto nel quartiere di Ankawa a Erbil. Fuggirono con ogni mezzo a disposizione, la maggior parte a piedi, portando con sé soltanto quanto avevano indosso.

A distanza di dieci anni solo una parte di loro è tornata nei villaggi dove abitavano fino al 2014, nonostante il messaggio di incoraggiamento, lanciato proprio a Mosul, da papa Francesco nel suo storico viaggio in Iraq del 2021. Con la papamobile Francesco ha attraversato e toccato le macerie della guerra e della devastazione. Dalla cattedrale di Qaraqosh, dedicata all’Immacolata Concezione, che i jihadisti avevano trasformato in un poligono di tiro, ma che era stata tirata a lucido proprio per la visita, il Pontefice ha esortato: «Non smettete di sognare! Non arrendetevi, non perdete la speranza!».

Per tanti cristiani, però, non è stato possibile ricominciare. Non c’erano solo le case e le chiese da ricostruire, ma anche una vita intera, dalle attività economiche chiuse al rapporto di fiducia con i vicini di casa che, in quei cupi mesi di dieci anni fa, fu compromesso, quando non completamente disintegrato.

Le cicatrici, dunque, sono ancora profondamente impresse in quei territori, nonostante siano stati liberati nel 2017 e le case, scuole e chiese rimesse in piedi dalle Chiese locali sostenute da agenzie umanitarie, come la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre o la Caritas. «Solo il 60 per cento circa dei cristiani ha fatto rientro a Mosul e nei villaggi della piana di Ninive», ha detto in una recente intervista al Sir il cardinale Louis Raphael Sako, patriarca dei caldei. «Tanti – ha spiegato – hanno scelto di restare nel Kurdistan», la regione che li aveva accolti nel momento della disperazione.

L’Isis non dorme

Sembra un secolo fa, con il mondo alle prese con nuove emergenze, tra le quali un conflitto nel cuore dell’Europa e la guerra in Medio Oriente. Eppure l’Isis, che ha dovuto abbandonare il sogno della fondazione di un sedicente Stato islamico, continua ad esistere, a fare stragi, a mietere vittime. Accade soprattutto in alcune zone dell’Africa, con cellule locali che rispondono a quella stessa filosofia del fondamentalismo islamista, ma troppo spesso lontane dai riflettori. Si contano sempre più adepti anche nel Sud Est asiatico, soprattutto nelle Filippine, in Indonesia e Malaysia.

Non solo: l’attacco terroristico al Crocus City Hall di Mosca, nel mese di maggio di quest’anno, costato la vita ad oltre 140 persone, è stato rivendicato proprio dall’Isis. Più precisamente dall’Isis-K, la nuova sigla che abbiamo imparato a conoscere proprio con l’eccidio che ha sorpreso Mosca nel corso di un concerto che aveva richiamato tante famiglie. Di fatto, Isis-K è una delle configurazioni territoriali dello Stato islamico, che ha l’obiettivo di creare un califfato nella regione storica del Khorasan. Secondo lo stesso gruppo, esso comprenderebbe parti di Afghanistan, Pakistan, Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan e Iran.

Ancora edifici distrutti a Sinjar. Foto Levi Meir Clancy – Unsplash.

Minacce e attentati

I jihadisti hanno anche minacciato gli Europei di calcio in Germania, come pure i Giochi olimpici che si sono svolti ad agosto a Parigi. Tutte occasioni, fortunatamente sventate dalle intelligence occidentali, che avrebbero potuto ridare visibilità ai terroristi.

Secondo quanto riferito dalle forze di sicurezza americane, militanti dell’Isis si erano preparati a colpire anche grandi eventi musicali, con la partecipazione di migliaia e migliaia di persone, soprattutto giovani, come i concerti in Europa della cantautrice statunitense Taylor Swift.

Porterebbe il timbro dell’Isis anche l’attacco al Festival cattolico che si stava tenendo ad agosto a Solingen, in Germania. Tre morti e otto feriti nell’attentato per il quale è stato arrestato un uomo siriano che, secondo la Procura federale tedesca, è «fortemente sospettato» di essere affiliato proprio all’Isis. D’altronde, l’organizzazione terroristica aveva subito rivendicato l’azione: «L’autore dell’attacco a un raduno di cristiani nella città di Solingen in Germania era un soldato del gruppo dello Stato islamico», si sottolineava in una dichiarazione dell’agenzia di stampa jihadista Amaq su Telegram, il giorno dopo. L’attacco è stato effettuato «per vendetta per i musulmani in Palestina e ovunque», si aggiungeva.

Il conflitto in Medio Oriente, dunque, viene messo al centro della nuova azione di coloro che vorrebbero rivedere in auge quella bandiera nera issata dieci anni fa nelle città conquistate dall’Isis. Cellule dormienti, ma non troppo.

Il nuovo salto di qualità è arrivato anche con la recente creazione di un notiziario governato dall’intelligenza artificiale, nell’ambito di un nuovo programma multimediale lanciato dallo stesso Daesh. I video, pubblicati settimanalmente, sono realizzati per assomigliare a un qualsiasi telegiornale e forniscono informazioni sulle «attività» dello Stato islamico nel mondo. «Per l’Isis, l’intelligenza artificiale è un punto di svolta -ha affermato Rita Katz, cofondatrice del Site intelligence group -. Sarà un modo rapido per diffondere e parlare dei loro attacchi sanguinosi in ogni angolo del mondo».

L’Isis dunque «non è morto», come sottolinea la fondazione Aiuto alla Chiesa che soffre. E se i cristiani sono stati in Iraq e Siria il target privilegiato del gruppo terrorista, non si può dimenticare che, sotto attacco, ci sono state, e ci sono tuttora, anche le altre minoranze religiose. «Molti bambini yazidi sono ancora sfollati dalle loro comunità. Molti vivono in ambienti non sicuri», sottolineava un rapporto dell’Ong Save the children due anni fa.

Questi dieci anni sono stati costellati anche dagli eccidi contro i musulmani, soprattutto sciiti. Una carneficina che ha visto saltare in aria moschee a Mosul in Iraq, a Shiraz in Iran, a Kunduz in Afghanistan. E sempre lo stesso scenario con decine di morti e feriti e i luoghi di preghiera ridotti in macerie.

Lo «Yazidi genocide memorial», voluto dall’organizzazione di Nadia Murad, a Sinjar. Foto Nadia’s Initiative.

Migliaia di miliziani

Oggi l’Isis sembra si stia riorganizzando. Secondo i dati diffusi dal responsabile dell’antiterrorismo delle Nazioni Unite, Vladimir Voronkov, ad agosto 2022 si contavano almeno 10mila miliziani ancora operativi tra Siria e Iraq.

A fine agosto, nell’Iraq occidentale, un’operazione militare ha colpito ed eliminato una quindicina di combattenti, come comunicato dal «Comando militare statunitense per il Medio Oriente» (Centcom). Il gruppo era dotato di numerose armi, granate e cinture esplosive. «L’Isis rimane una minaccia per la regione. I nostri alleati e il nostro Paese – ha sottolineato in una nota ufficiale il Centcom – continueranno a perseguire attivamente questi terroristi», ha aggiunto.

Gli Stati Uniti hanno circa 2.500 soldati in Iraq e 900 in Siria come parte della coalizione internazionale anti Isis.

Peraltro, lo scorso settembre Baghdad e Washington hanno annunciato un accordo per il ritiro delle truppe, accordo graduale che culminerà nel settembre del 2026.

Papa Francesco a Mosul, nella piazza di fronte alle rovine della chiesa siro cattolica dell’Immacolata Concezione durante il suo viaggio iracheno del marzo 2021. Foto Vincenzo Pinto – AFP.

Quel viaggio papale

Al momento, la risposta internazionale sembra, dunque, basarsi solo sulla forza militare e non anche su quella opera di riconciliazione, invocata dal Papa nel suo viaggio del marzo del 2021. Un viaggio che Francesco volle affrontare nonostante la pandemia del Covid in corso e la minaccia di attentati che si ripeterono fino a pochi giorni dalla sua partenza.

«Questo è il momento di risanare non solo gli edifici, ma prima ancora i legami che uniscono comunità e famiglie, giovani e anziani», aveva detto Papa Francesco in uno dei suoi discorsi. Dopo avere ascoltato la struggente testimonianza di Doha, una donna che aveva visto ucciso il suo bambino che giocava nel cortile di casa a Qaraqosh e che disse di avere perdonato, il Papa invitò la gente a seguire questa via, anche se dolorosa e difficile.

«Perdono: questa è la parola chiave. Il perdono è necessario per rimanere nell’amore, per rimanere cristiani. La strada per una piena guarigione potrebbe essere ancora lunga, ma vi chiedo, per favore, di non scoraggiarvi. Ci vuole capacità di perdonare e, nello stesso tempo, coraggio di lottare. So che questo è molto difficile. Ma crediamo che Dio può portare la pace in questa terra».

Dal Medio Oriente all’Africa

Dall’Iraq e dalla Siria all’Africa: è in questo continente la nuova centrale delle cellule terroristiche che portano altri nomi ma sono affiliate o – comunque – si ispirano ai terroristi del Daesh.

Nel mese di agosto 2024 la fondazione Aiuto alla Chiesa che soffre, con le sue fonti locali, ha messo in evidenza la carneficina attuata in Burkina Faso, dove gli attentati terroristici sono sempre più frequenti.

Il 25 agosto scorso nel villaggio di Sanaba, diocesi di Nouna, nell’Ovest del Paese, un folto gruppo di miliziani affiliati all’Isis ha circondato la comunità, radunato la popolazione e legato tutti i maschi di età superiore ai 12 anni di religione cristiana o tradizionale e, in generale, quanti erano stati considerati oppositori dell’ideologia jihadista. I terroristi hanno poi condotto gli uomini in una vicina chiesa protestante e lì ne hanno sgozzati ventisei, tra cui cattolici. L’attacco è avvenuto il giorno dopo la strage di Barsalogho, diocesi di Kaya, dove erano state uccise almeno 150 persone, «anche se il numero effettivo potrebbe essere a 250, secondo fonti locali, con 150 feriti gravi», riferisce ancora Acs. Le stesse fonti riferiscono di attacchi verificatisi nei giorni scorsi ai danni di tre parrocchie vicino al confine con il Mali, sempre nella diocesi di Nouna. «Circa cinquemila donne e bambini hanno cercato rifugio nella città di Nouna. Non c’è un solo uomo tra loro. Il luogo in cui si trova la popolazione maschile è ancora incerto, non sappiamo se siano fuggiti, se si nascondano o se siano stati uccisi», riferiva la fonte locale all’organizzazione umanitaria.

La diocesi di Nouna ha visto altri attacchi negli ultimi mesi, con un gran numero di luoghi di culto cattolici, protestanti e tradizionali saccheggiati o bruciati. Si ritiene che, dal maggio 2024, circa cento cristiani siano stati uccisi nella regione pastorale di Zekuy-Doumbala, mentre altri sono stati rapiti, senza che si sappia dove si trovino.

Dalla Repubblica democratica del Congo al Kenya, dal Mozambico all’Uganda, le sigle sono diverse ma i metodi sono sempre gli stessi: eccidi, stupri, rapimenti, case bruciate. Tutto questo nell’apparente affanno di una comunità internazionale alle prese con quella «terza guerra mondiale a pezzi» di cui da anni, profeticamente, parla papa Francesco.

Manuela Tulli

 




Giuseppe Allamano santo


I 20 ottobre scorso i Missionari, le Missionarie, i Laici della Consolata, la Chiesa torinese e quella universale hanno vissuto l’immensa gioia della canonizzazione di Giuseppe Allamano. Il lungo cammino che ha portato a proclamarne la santità è iniziato il 7 ottobre 1990, quando san Giovanni Paolo II l’ha dichiarato «Beato».

Il miracolo attribuito alla sua intercessione si riferisce alla guarigione miracolosa dell’indigeno Sorino Yanomami che, assalito il 7 febbraio 1996, da un giaguaro nella foresta amazzonica di Roraima (Brasile), nonostante la copiosa emorragia di sangue e le lesioni al cervello, non solo è sopravvissuto, ma ha potuto anche riprendere la sua vita normale senza alcuna conseguenza del trauma subito.

Il significato di questo miracolo conferma l’attualità degli insegnamenti di Giuseppe Allamano e il cammino missionario che la Chiesa sta seguendo. Come Dio guarda con cura a tutti gli uomini, l’Allamano, fondatore di una famiglia missionaria ad gentes, ha fatto suo lo stesso sguardo e lo ha infuso nei suoi discepoli. Così, sotto l’impulso dello Spirito, ha formato i primi missionari e missionarie per una missione incarnata nella realtà e oggi, tramite il miracolo avvenuto per sua intercessione, ha mostrato di accompagnare i suoi figli e la Chiesa tutta a vivere la missione con uno stile universale, audace e prudente, aperto all’incontro e al dialogo con le culture e i popoli.

I Missionari e le Missionarie della Consolata hanno vissuto i giorni di attesa della canonizzazione del loro santo fondatore con una intensa preparazione spirituale, affinché questo evento diventasse per i due Istituti e per la Chiesa intera un’occasione di rinnovamento nella grazia carismatica.

La canonizzazione di Giuseppe Allamano è stata un dono immenso che invita ad ascoltare il fondatore per attingerne la ricchezza. «Ecco, o miei cari, la santità che io vorrei da voi: non miracoli ma far tutto bene. Farci santi nella via ordinaria. Il Signore, che ha ispirato questa fondazione, ne ha anche ispirate le pratiche, i mezzi per acquistare la perfezione e farci santi. Se egli ci vorrà sollevare ad altre altezze, ci penserà lui, noi non infastidiamoci. I santi sono santi non perché abbiano fatto dei miracoli, ma perché “bene omnia fecerunt” (hanno fatto bene ogni cosa)».

padre Sergio Frassetto

Padre Barlassina visita un villaggio kikuyu e cura gli occhi dei bambini


Murang’a 2 – seconda parte

Presentiamo la seconda parte della relazione storica di monsignor Giovanni Crippa sulle «Conferenze di Murang’a» (vedi la prima parte in Mc – agosto/settembre 2024, pagg. 70-71) tenute dai primi missionari giunti in Kenya, dal 1° al 3 marzo 1904. Quanto in esse venne proposto era frutto dell’esperienza già collaudata nella vita quotidiana dei missionari. Dal confronto di questa realtà con i principi appresi in Italia e con i metodi sperimentati da altri missionari, il gruppo di «principianti» del Kikuyu cercò un proprio metodo di evangelizzazione.

Un nuovo metodo di evangelizzazione

Scartati altri metodi o perché si sarebbero protratti troppo nel tempo o perché considerati troppo onerosi, i missionari riuniti a Murang’a elaborarono un proprio piano di evangelizzazione così formulato: «Dato il carattere e i costumi degli Akikuyu, i mezzi migliori per iniziare le nostre relazioni con essi pare si possano ridurre ai seguenti: catechismi – scuole – visite ai villaggi – ambulatori alla missione – formazione d’ambiente».

Con i catechismi, che richiesero quasi subito la formazione di un corpo di catechisti, si inculcavano le prime nozioni di religione naturale. Le scuole miravano a formare una èlite che avrebbe coadiuvato i missionari nell’approccio con i Kikuyu. Gli ambulatori, che segnarono la prima attività a favore degli indigeni in missione, venivano intesi come mezzo per rendere credibile il missionario e assicurargli la simpatia della gente. Le visite ai villaggi, che ricordavano il metodo del cardinale Guglielmo Massaia, assunsero caratteristiche proprie: servivano alla conoscenza reciproca ed erano il mezzo più valido per l’enunciata formazione dell’ambiente, consistente nell’istruire la popolazione in modo che in massa fosse preparata a ricevere il battesimo, qualora si desse il caso di pericolo di morte.

A Murang’a si stabilirono norme che riguardavano anche la vita interna di missione e comprendevano, tra l’altro, la compilazione di un «Diario di missione», il modo con cui scrivere la lingua Kikuyu e la relazione trimestrale che ogni superiore di missione doveva inviare a Torino.

Unità di intenti

«Per i Missionari della Consolata nel Kikuyu le conferenze tenute a Murang’a nel 1904 segnarono un punto di riferimento anche per molti anni successivi, sebbene siano state ripetute con regolarità annuale. Il Fondatore, a Torino, le incoraggiava e ne vagliava i risultati che venivano di volta in volta approvati. Il principio della “uniformità” fu ritenuto necessario nella prima evangelizzazione e condiviso da tutti. Per attuarlo si escogitò il “Rapporto serale”».

Ogni sera, padri, fratelli e suore delle singole missioni si incontravano per informarsi reciprocamente sul lavoro della giornata, correggerne i difetti, orientarne le prospettive per il giorno seguente e far conoscere a tutti lo stato del settore assistito. Il lavoro così inteso diveniva un efficace strumento di comunicazione interpersonale e di orientamento della pastorale e favoriva l’«unità di intenti» che l’Allamano voleva tra i suoi. Esso arricchiva dell’esperienza comune soprattutto i missionari nuovi arrivati e permetteva al superiore di missione non solo di controllare il lavoro di tutti, ma anche di sostenere le iniziative più valide e di intervenire nelle emergenze più impellenti.

La missione esige un metodo

L’Allamano non ebbe e non poteva avere una metodologia missionaria: in missione non andò mai. Ebbe però un metodo per fare apostolato che così egli stesso descrisse: «… datevi toto corde et omnibus viribus all’opera dell’evangelizzazione. È per questo speciale fine che per farvi santi sceglieste la via delle missioni, preferendo il nostro istituto a tante altre Congregazioni che attendono ad altri ministeri. Ma perché il vostro lavoro ottenga il frutto desiderato deve avere tre qualità, che sia perseverante, concorde ed illuminato» (Lettera ai missionari del Kenya, 2 ottobre 1910).

Perseveranza: è richiesta dall’esigenza di far sorgere e crescere la fede. Non fu facile convertire il Kikuyu, la delusione per una realtà diversa e dura è espressa costantemente nei diari.

Per perseverare occorre affezionarsi alla gente, imparare a volere bene, avere viscere di carità. Prima che con la parola, si evangelizza con la bontà.

Concordia: «L’unione di mente e di cuore – continua l’Allamano – mentre rende leggera la fatica, fa la forza ed ottiene la vittoria».

Il missionario che non ricerca la concordia, secondo il fondatore, «lavorerà invano e forse distruggerà il bene fatto dagli altri». «Lavorate concordi e Dio benedirà le vostre fatiche». Non siamo noi o gli altri, ma Dio che deve dire bene (benedire) del nostro lavoro.

Illuminato: «Vengo al terzo carattere del vostro lavoro, quello che chiamo illuminato riguardo al metodo da seguire. Bisogna degli indigeni farne tanti uomini laboriosi per poi poterli fare cristiani: mostrare loro i benefizi della civiltà per tirarli all’amore della fede: ameranno una religione che oltre a offrire le promesse dell’altra vita, li rende più felici su questa terra» (2 ottobre 1910).

Fu così che i primi missionari della Consolata nel Kenya, sebbene giunti in Africa da poco più di un anno, riuscirono a darsi delle norme da seguire nel lavoro apostolico. La via, tracciata con un impegno quotidiano costante, avanzò sotto la guida lontana dell’Allamano, e la trazione in loco di padre Filippo Perlo, che indirizzarono l’opera dei missionari verso l’unico fine di giungere presto alla conversione dei Kikuyu.

+ Giovanni Crippa, Imc
Vescovo di Ilhéus


Roraima: diocese in festa

Il miracolo attribuito san Giuseppe Allamano è avvenuto nella missione Catrimani, appartenente alla diocesi di Roraima, nel nord del Brasile. Il vescovo della diocesi, monsignor Evaristo Pascoal Spengler, ha pubblicato un messaggio indirizzato al popolo di Dio della sua diocesi e alla famiglia Consolata, in cui esprime la sua gioia per il «lieto annuncio della canonizzazione del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata, presenti nella nostra Chiesa di Roraima dal 1948».

Ha scritto il vescovo: «Questo è il Dio misericordioso ancora una volta all’opera nella nostra storia. Dio non si stanca mai di sorprenderci con il suo amore e la sua bontà».

Questo miracolo è motivo di gioia per i missionari e le missionarie, ma lo è anche per la chiesa di Roraima «perché si riconosce l’intercessione del beato Allamano a favore dell’indigeno yanomami Sorino, che vive nella nostra diocesi, nella missione Catrimani, nel territorio indigeno del popolo yanomami di Roraima.

La guarigione miracolosa dell’indigeno, in un momento in cui le cure tradizionali e la scienza medica potevano solo attendere la sua morte, è stata il frutto della fervente preghiera delle Missionarie della Consolata, che hanno chiesto aiuto al loro fondatore, il beato Giuseppe Allamano nel primo giorno della novena a lui dedicata».

Il messaggio ricorda i passi compiuti durante il processo, prima nella fase diocesana, e racconta come si è svolto. Si sottolinea inoltre che «l’annuncio della canonizzazione del beato Giuseppe Allamano è motivo di consolidamento dell’opzione evangelizzatrice della missione Catrimani, di conferma della storia dell’alleanza della nostra diocesi di Roraima con i popoli indigeni e un motivo di benedizione e di speranza per la nostra diocesi, che celebra 300 anni di evangelizzazione in queste terre di Macunaíma».

Infine, il vescovo di Roraima ha annunciato che «istituiremo una commissione nella nostra diocesi per celebrare il dono della fecondità dell’annuncio del Vangelo tra noi, confermato dal miracolo operato sul nostro fratello Sorino, per intercessione di san Giuseppe Allamano».

 


Io carmelitana

Sono una povera e anziana carmelitana scalza dell’ex Carmelo Sacro Cuore in Torino, nata e vissuta a Torino in prossimità del Santuario della Consolata, imparando fin dalla mia fanciullezza a invocare la Vergine Consolata.

Quando il canonico Allamano fu dichiarato «beato», nel nostro Carmelo ci fu grande gioia, e lo festeggiammo con entusiasmo, come si gioisce per un dono fatto a una persona cara. Per più di cento anni, infatti, i padri della Consolata sono saliti tutte le mattine da corso Ferrucci fino al nostro Carmelo, non senza fatica, ma con una grande fedeltà: non un giorno ci è mancata la celebrazione della santa Messa, né il dono dell’Eucaristia, e tante volte anche quello di poter accedere al Sacramento del perdono amministrato con piena disponibilità e tanta misericordia.

Attendevamo con speranza questo giorno in cui il beato Allamano sarebbe stato proclamato santo e il nostro cuore esulta di gioia e gratitudine al Signore perché il nostro desiderio è stato esaudito.

Quello che scrivo vuole essere una umile testimonianza della santità, fecondità e amore che i suoi figli e le sue figlie sanno portare e donare al mondo.

C’è infine un legame profondo tra il nostro monastero e i figli dell’Allamano: per settantacinque anni abbiamo condiviso la nostra vita con la cara suor Teresina del Bambino Gesù, sorella di sangue di padre Giovanni Calleri, l’eroico missionario della Consolata morto martire in Amazzonia.

Suor Maria Luisa del Volto Santo
Carmelitana scalza

 




L’autonomia dell’egoismo


La Costituzione italiana ha creato le Regioni come soggetti decentrati dello Stato. La questione è sempre stata: cosa possono fare e con quali soldi? E ancora: deve prevalere la solidarietà nazionale o l’egoismo regionale?

Secondo molti, la cosiddetta «autonomia differenziata» è un progetto che produrrà uno spezzatino legislativo e accrescerà le disuguaglianze fra territori. Il tema riguarda l’autonomia delle Regioni italiane, ossia quanto ognuna di esse possa fare per conto proprio nei vari ambiti che riguardano la vita dei cittadini.

Secondo la visione dei padri costituenti, le Regioni avevano essenzialmente il compito di attuare in ambito locale i servizi decisi dal governo centrale. Solo su materie molto ristrette a forte valenza locale potevano anche legiferare. Alcune di queste erano le fiere e i mercati, la caccia, l’artigianato, l’agricoltura, le foreste, la beneficenza e l’assistenza sanitaria. Ma era ben specificato che le leggi regionali dovevano rimanere dentro i limiti tracciati dai principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, né potevano essere in contrasto con l’interesse nazionale o quello di altre Regioni. In conclusione, le Regioni erano concepite come strumenti di decentramento amministrativo in un progetto di avanzamento di tutta la nazione secondo logiche di solidarietà. Pertanto, i cittadini delle regioni più benestanti erano chiamati a contribuire anche per quelli residenti in regioni più disagiate in modo da garantire gli stessi servizi da un capo all’altro d’Italia.

Nord e Sud

La Costituzione italiana è stata emanata nel 1947 ed è entrata in vigore nel 1948, ma le regioni entrarono nel pieno delle loro funzioni solo nel 1970 quando si tennero le prime elezioni regionali. Per circa un ventennio la navigazione procedette senza eccessivi scossoni, ma sul finire degli anni Ottanta nel Nord Italia si sviluppò un movimento, poi battezzato Lega Nord, che arringava le folle sostenendo che il Nord era sfruttato dal Sud. La tesi era che il Nord laborioso produce ricchezza e il Sud parassita se ne appropria per mezzo dei travasi operati dal fisco e del salasso causato dalla macchina burocratica allestita dal governo centrale. La soluzione era l’autonomia regionale, compresa quella fiscale, affinché ogni Regione potesse utilizzare al proprio interno tutti i soldi versati dai propri cittadini modulando i propri servizi in base alla ricchezza disponibile. Un progetto, insomma, spudoratamente egoistico di cui non si faceva mistero. Dimenticando che la ricchezza del Nord era stata prodotta anche grazie al sudore di centinaia di migliaia di immigrati meridionali, al congresso della Lega Nord del 5 febbraio 1994, Gianfranco Miglio, ideologo del partito, tenne il suo discorso incentrato su pidocchi e parassiti: «Il Paese che siamo chiamati a cambiare è ammalato da un esercito di pidocchi. Centralismo e parassitismo sono due fenomeni strettamente legati fra loro. Senza mutare il sistema costituzionale centralizzato noi non riusciremo a sopravvivere». Che tradotto significava riformare la Costituzione affinché venisse riconosciuta alle Regioni la facoltà di trattenere il gettito fiscale generato nel proprio territorio da utilizzare a uso esclusivo dei propri cittadini.

La (brutta) riforma del Centrosinistra

Sulla scia dei successi elettorali dei leghisti, la «questione settentrionale» si era imposta al dibattito pubblico e un po’ tutti i partiti, sinistra compresa, si affrettavano a metterci sopra il cappello. L’Ulivo stesso, in occasione delle elezioni 1996, aveva inserito al terzo posto dei punti programmatici, la voce «Autogoverno locale e federalismo cooperativo», forse pensando che se fosse riuscito a introdurre il regionalismo prima della Lega, il responso elettorale si sarebbe spostato a proprio favore. Effettivamente quella tornata elettorale venne vinta dal Centrosinistra che nel 2001, sul finire della legislatura, varò una riforma costituzionale per garantire alle Regioni maggiori spazi di autonomia fiscale, amministrativa e legislativa. In tutto, gli articoli della Costituzione modificati furono dieci, mentre cinque furono addirittura abrogati. Ma quelli che subirono i cambiamenti più profondi furono il 116 e il 117 che definiscono i compiti delle Regioni e dello Stato. La riforma stabilì che alcune materie, come l’immigrazione, la difesa, l’ordine pubblico, sono di competenza esclusiva dello Stato, mentre altre, come sanità, trasporti, protezione civile, sono materie concorrenti, ossia di competenza congiunta di Stato e Regioni: lo Stato definisce i principi fondamentali, le Regioni gli aspetti di dettaglio.  L’articolo 116, tuttavia, stabilisce che sulle materie concorrenti, le Regioni possono godere di «condizioni particolari di autonomia», ma non precisa quanto possa essere ampia. Dice solo che deve essere richiesta dalla Regione interessata e che sarà una legge specifica, approvata dal Parlamento, ad attribuirla. Dunque, ogni Regione avrà la propria autonomia, ciascuna con contenuti diversi a seconda di ciò che più le interessa. Per questo si parla di autonomia differenziata.

La legge Calderoli

Stabilito che il supplemento di autonomia non è né automatico né predeterminato, serviva una legge ordinaria per definire il percorso utile ad ottenerlo.  Quella legge è arrivata ventitré anni dopo, nel giugno 2024 per iniziativa del ministro (leghista) per gli Affari regionali Roberto Calderoli. Ma è arrivata in un momento di ripensamento politico da parte della sinistra che ora vede l’autonomia differenziata come un pericolo, anziché una conquista. Per cui ha deciso di dare battaglia per mezzo di un referendum e, se tutto procederà secondo le previsioni dei promotori, nella primavera 2025 dovremmo essere chiamati a dire se vogliamo mantenere o abrogare la legge numero 86/2024, meglio nota come legge Calderoli.

Formata da 11 articoli, la legge definisce il percorso da seguire per ottenere l’autonomia supplementare e gli ambiti per la quale può essere richiesta. Ciò che colpisce in questa legge è il ruolo marginale previsto per il Parlamento. La procedura comincia con la richiesta di supplemento di autonomia da parte della Regione interessata con la precisazione delle materie su cui la richiede. Dopo di che si apre un tavolo di negoziato con il governo per dare forma concreta all’autonomia richiesta. L’accordo raggiunto sarà poi trasmesso al Parlamento che lo trasforma in legge senza possibilità concreta di modificarne il contenuto: l’accordo è accolto o rigettato in blocco.

Rispetto agli ambiti di gestione, la legge Calderoli fa una distinzione fra le materie che rientrano nei diritti civili e sociali (sanità, istruzione, tutela ambientale) e tutti gli altri (protezione civile, ricerca scientifica, previdenza sociale complementare). Le materie del secondo gruppo possono essere discusse subito. Quelle del primo gruppo debbono aspettare il varo di altri adempimenti legislativi prima di essere negoziati. La distinzione è d’obbligo perché l’articolo 117 della Costituzione stabilisce che non si può effettuare nessun intervento sulle materie inerenti i diritti sociali e civili se prima non sono stati definiti i livelli minimi da garantire su tutto il territorio nazionale. Si tratta dei famosi Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) che devono essere determinati dallo Stato. Il compito è stato attribuito al governo che legifererà non si sa quando, anche perché si attende il pronunciamento di una commissione appositamente costituita sotto la direzione del giurista Sabino Cassese.

In ogni caso è inutile fossilizzarsi su questa o quella tecnicalità: la legge Calderoli è presa di mira come strategia per congelare l’attuazione dell’autonomia differenziata, in attesa, forse, che un’altra maggioranza rimetta di nuovo mano alla Costituzione per ripristinare un testo simile a quello che avevamo prima della riforma del 2001.

Le criticità

Le principali obiezioni avanzate dagli oppositori dell’autonomia differenziata sono due. La prima è che, da un punto di vista normativo, l’Italia rischia di diventare uno spezzatino che metterà in difficoltà cittadini e operatori economici. Ad esempio, in materia ambientale si potrebbe avere una tale pluralità di assetti normativi rispetto a procedure, autorizzazioni e controlli, da mandare in confusione chi possiede attività economiche in più regioni. Per di più la libertà normativa può incitare le regioni a lanciarsi in una pericolosa gara di permissivismo per attirare in casa propria le imprese in cerca di siti produttivi.  L’obiezione più rilevante, tuttavia, è che l’autonomia differenziata aumenterà le disuguaglianze fra regioni ricche e regioni povere. In materia finanziaria la riforma costituzionale del 2001 non introduce novità di rilievo rispetto alla versione originaria del 1947.

Entrambe le versioni affermano che le Regioni possono godere di tributi propri e partecipare a quelli erariali destinati allo Stato centrale. Ma la versione del 1947 precisava che l’autonomia finanziaria si attua «nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica». La versione del 2001 è più vaga lasciando la porta aperta a vie di definizione meno controllabili come il tavolo di negoziazione che il governo avvia con le singole regioni richiedenti il supplemento di autonomia. In effetti l’articolo 5 della legge Calderoli stabilisce che «l’intesa individua le modalità di finanziamento delle funzioni attribuite attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale».

Secondo la Corte dei Conti, nel 2021 le regioni a statuto ordinario si sono finanziate per il 35% con tributi propri come il bollo sull’auto, l’Irap, l’addizionale Irpef, e per il 65% attingendo al gettito Iva raccolto sul proprio territorio. Allo stato attuale le regioni possono trattenere una quota massima di Iva territoriale pari al 70% e debbono destinarla alla sanità che rappresenta il 62% della spesa regionale complessiva.

Attraverso un calcolo piuttosto complicato, ogni anno il governo definisce l’importo di Iva che ogni regione può effettivamente trattenere. Il calcolo avviene mettendo a confronto l’ammontare di Iva raccolto sul proprio territorio, limitatamente al 70%, con la parte di spesa sanitaria che la stessa deve finanziare. Se la spesa risulta più alta dell’ammontare raccolto, la regione riceverà dallo Stato dei soldi a compensazione; se risulta più bassa, la regione verserà l’eccesso a un apposito fondo definito «fondo di solidarietà interregionale», che lo Stato utilizza, assieme ad altre entrate, per sostenere la spesa sanitaria delle regioni in affanno. Nel 2019 le regioni che hanno contribuito al fondo di solidarietà sono state sette. In testa c’è la Lombardia con un contributo pari a 2 miliardi di euro, seguita da Lazio, Emilia Romagna, Piemonte, Veneto, Toscana, Liguria, per un totale di 5 miliardi di euro. Fra quelle che hanno beneficiato del fondo c’è prima di tutto la Campania, che ha ricevuto 2,1 miliardi. A seguire la Puglia, la Calabria e altre cinque regioni.

Oggi, in nome dell’autonomia differenziata, le regioni più ricche possono chiedere di trattenere le loro eccedenze per fornire ai propri cittadini servizi aggiuntivi. Del resto, è per questo che hanno rivendicato il supplemento di autonomia. Sarà quindi il fondo di solidarietà a rimetterci, con il rischio che si prosciughi fino ad azzerarsi, mettendo in difficoltà lo Stato, prima ancora delle regioni più fragili, perché esso dovrà trovare altre forme di entrata per finanziare i servizi essenziali da garantire da un capo all’altro d’Italia. Se avessimo avuto una sinistra più attenta ai suoi valori storici piuttosto che alle convenienze elettorali, oggi non ci troveremmo in questo pasticcio che potrà essere risolto solo con un forte intervento popolare.

Francesco Gesualdi


Il Ssn e i livelli essenziali

L’acronimo Lea sta per «Livelli essenziali di assistenza» e indica le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket). I Lea vennero introdotti con una legge del 1992 sulla constatazione che c’erano zone d’Italia dove non si garantivano nemmeno i servizi sanitari più elementari. Pertanto, si sentì il bisogno di definire quei servizi che dovevano essere assicurati a tutti i cittadini d’Italia, ovunque essi vivessero. Il loro elenco è rivisto periodicamente ed è suddiviso in tre sezioni: prevenzione collettiva e sanità pubblica, assistenza distrettuale, assistenza ospedaliera. L’ultimo aggiornamento risale al 2017.

Una legge del 2000 introdusse il Sistema di garanzia, un metodo di verifica che ha lo scopo dì appurare quanto sono effettivamente garantiti i servizi sanitari essenziali nelle diverse regioni d’Italia. L’indagine si basa sull’utilizzo di un centinaio di indicatori di qualità. L’ultima rilevazione relativa al 2018 certifica che esistono ancora differenze molto marcate fra le diverse regioni d’Italia. Quella più virtuosa è l’Emilia Romagna che garantisce i Lea al 98%. All’ultimo posto c’è la Calabria con un livello di adempimento del 44%.

L’acronimo Lep sta, invece, per «Livelli essenziali di prestazioni» e indica le prestazioni e i servizi che la collettività è tenuta a garantire a tutti i cittadini rispetto ai diritti civili e sociali. I Lep, dunque, sono un concetto più ampio dei Lea. I Lep sono stati introdotti dall’articolo 117 della Costituzione, per definire i servizi che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. L’articolo 117 si limita ad affermare il principio dei Lep, lasciando che sia una legge ordinaria a definirne le modalità d’attuazione. La legge Calderoli tratta i Lep all’articolo 3 indicando i settori interessati e l’organo che deve dettagliarli. Per quanto riguarda i settori ne individua quattordici, dall’istruzione ai trasporti passando per la sanità. Quanto a chi deve dettagliarli, la legge stabilisce che sarà il governo a farlo, previa consultazione di rappresentanze regionali e di alcune commissioni parlamentari. A molti è sembrato grave che non sia previsto nessun ruolo per il Parlamento come organo collegiale, perché i Lep non sono una questione formale, ma di grande  sostanza politica e sociale. Dalla loro definizione dipendono i diritti dei cittadini, la qualità delle loro vite, perfino il livello di equità presente nella società italiana. Rimettere questioni tanto importanti alla sola valutazione del governo è davvero molto pericoloso. Ragione di più per chiedere l’abrogazione della legge Calderoli affinché sia dato, quanto meno, più potere al Parlamento.

F.G.

 




Progetti idrici, una panoramica


Il mondo non ha fatto sufficienti progressi verso il raggiungimento dell’obiettivo 6 dell’Agenda 2030 dell’Onu, quello relativo all’accesso all’acqua e ai servizi igienici. Nelle missioni della Consolata si continua  a lavorare per garantire acqua pulita a famiglie, scuole e strutture sanitarie.

Nel 2023 i casi di colera nel mondo sono stati oltre 535mila, in aumento rispetto ai quasi 473mila dell’anno precedente, e le morti a causa della malattia sono passate da 2.349 del 2022 a 4.007 dell’anno scorso. Lo riportava a settembre un rapporto@ dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), secondo cui quella in corso è la settima pandemia di colera dal XIX secolo a oggi. Nel complesso, riportava una scheda informativa dell’Oms a marzo@, le malattie diarroiche, tra le quali il colera, continuano a essere la terza causa di morte di bambini sotto i 5 anni: ogni anno a causa della diarrea muoiono circa 444mila bambini fra 0 e 5 anni e  altri 51mila fra i 5 e 9 anni.

Si tratta di malattie per le quali i trattamenti esistono e sono anche economici. A questo proposito, sul New York Times dello scorso settembre, Philippe Barboza, a capo del team che si occupa di colera nel programma delle emergenze sanitarie dell’Organizzazione mondiale della sanità, definiva inaccettabile che nel 2024 le persone muoiano perché non possono permettersi una bustina di sali per la reidratazione orale che costa 50 centesimi.

Prevenire le malattie diarroiche sarebbe poi ancora più semplice: basterebbe avere a disposizione acqua pulita per bere, cucinare e lavarsi le mani, eliminando batteri come il vibrio cholerae, l’escherichia coli e altri responsabili di queste patologie.

Ma, a oggi, il raggiungimento dell’obiettivo 6 dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, quello che riguarda appunto l’acqua e i servizi igienico sanitari, non sembra vicino. Secondo il rapporto 2023 sugli obiettivi di sviluppo sostenibile@, nonostante alcuni miglioramenti, più di 2 miliardi di persone non hanno accesso ad acqua potabile gestita in modo sicuro e oltre 700 milioni sono privi di servizi idrici di base; 3,5 miliardi di persone non dispongono di servizi igienico sanitari adeguati e 2 miliardi non hanno le strutture per lavarsi le mani a casa con acqua e sapone.

Aggiunta di un serbatoio per l’acqua per l’asilo di shambo in Etiopia

C’è pozzo e pozzo

Le proposte di progetto in ambito idrico che i Missionari della Consolata hanno elaborato negli ultimi quattro anni, confermano che garantire acqua pulita continua a essere una priorità. Questo sforzo, infatti, ha assorbito in media almeno 100mila euro l’anno. Gli interventi, realizzati soprattutto in Africa, ma anche in America Latina, hanno riguardato perforazioni di pozzi per portare acqua a ospedali e dispensari, scuole e studentati, comunità e villaggi.

Ci sono diversi tipi di pozzi che possono essere realizzati: uno di questi è il pozzo artesiano, la cui caratteristica è quella di attingere da una falda artesiana, cioè da un accumulo di acqua fra le rocce del sottosuolo che nella parte superiore sono impermeabili e tengono l’acqua sotto pressione. A causa di questa pressione, una volta realizzata la perforazione, l’acqua risale in superficie in modo spontaneo e può essere attinta anche senza usare una pompa. I pozzi freatici attingono invece da falde freatiche, che hanno nella parte superiore rocce permeabili: l’acqua non è in pressione e per estrarla serve una pompa.

I pozzi non sono i soli interventi che i missionari si trovano a realizzare per garantire l’accesso all’acqua: a volte la perforazione esiste già, ma la parete di roccia del foro è crollata o danneggiata, oppure l’estrazione dell’acqua dipende da una pompa azionata da un generatore a gasolio, costoso e inquinante. O, ancora, non c’è un adeguato sistema di raccolta e distribuzione dell’acqua, per cui servono cisterne sollevate da terra dove pompare l’acqua, e tubature collegate per distribuirla sfruttando la forza di gravità.

Inoltre, alcuni interventi idrici riguardano il collegamento di una sorgente – cioè il punto da cui l’acqua sotterranea sgorga spontaneamente in superficie – con le strutture e gli edifici dove verrà utilizzata.

Momento dell’uscita dell’acqua durante lo scavo del pozzo a Neisu, Congo Rd

Congo, tanta acqua ma non per tutti

La Repubblica democratica del Congo è uno dei paesi con maggiori risorse idriche del pianeta: circa due terzi del bacino del fiume Congo si trova infatti all’interno del suo territorio e la sua foresta pluviale è la seconda al mondo per estensione dopo quella amazzonica. Eppure, si legge@ sul sito dell’agenzia Onu per l’acqua Unwater, solo il 12% della popolazione – poco più di un congolese su dieci – dispone di acqua potabile sicura e solo uno su cinque ha la possibilità di lavarsi le mani con acqua e sapone a casa. L’acqua ha un ruolo fondamentale in servizi come quelli sanitari: per questo, negli anni, una delle priorità dell’ospedale di Neisu, che i Missionari della Consolata gestiscono nel Nordest del Congo, è stata quella di dotare non solo l’ospedale ma anche i 12 centri e posti di salute della sua rete sanitaria di almeno un pozzo. «Qui da noi in genere i pozzi sono profondi 13-15 metri», spiega Ivo Lazzaroni, laico missionario della Consolata responsabile dell’ospedale. «La gente comincia a scavare con zappe e picconi e poi continua con il badile, scendendo fino a che non si trova l’acqua».

Una volta scavato, per rinforzare il muro di terra e roccia del foro – che ha un diametro di un metro o un metro e mezzo – i lavoratori preparano quattro o cinque cilindri di cemento (buse) e li calano uno dopo l’altro nello scavo, aiutandosi con un cerchione della ruota di un’auto e delle corde, in modo che si formi un condotto di cemento appoggiato al fondo. Si costruisce poi un muretto circolare di mattoni in superficie e si deposita sul fondo del pozzo uno strato di ghiaia, accompagnato a volte da un sacco di carbone spezzettato, per filtrare l’acqua.

Questi pozzi (freatici), tuttavia, rimangono asciutti quando la stagione secca è molto intensa e per questo Ivo, grazie al generoso sostegno di un donatore, ha deciso di realizzare un pozzo per l’ospedale a 40 metri di profondità (artesiano): «Per realizzare il pozzo, però, abbiamo chiamato il camion con la perforatrice meccanica: hanno fatto un forage (un buco) di 20 centimetri di diametro e inserito dei tubi di plastica a protezione del foro».

Ora la disponibilità d’acqua dell’ospedale dovrebbe essere garantita anche durante la stagione secca.

Scavare pozzi in Congo, si capisce dai racconti di Ivo, significa spesso anche venire a contatto con credenze e usanze locali: c’è ad esempio la convinzione che, una volta trovata l’acqua, occorra togliere il fango dal fondo del pozzo almeno cinque volte per far sì che questo non si asciughi più. Inoltre, c’è la credenza che la ricerca dell’acqua non può avere successo se i leader tradizionali non svolgono prima determinati riti per placare gli spiriti degli antenati. C’è poi chi fa ricorso alla rabdomanzia, una pratica che non ha però alcun riscontro scientifico: i rabdomanti sostengono di essere in grado di individuare il punto del sottosuolo nel quale si trova l’acqua «interpretando» le vibrazioni di un bastone di legno tenuto nelle loro mani.

Siccità nel Nord del Kenya.

Stress idrico in Kenya

Nelle nostre missioni in Kenya, scrive da Nairobi Naomi Nyaki, la responsabile dell’ufficio progetti dei missionari della Consolata, ci sono principalmente tre tipi di pozzi, qui definiti per il modo in cui vengono realizzati: i dug wells, scavati nel terreno con un badile a una profondità fra i 10 e i 30 metri, permettono di prelevare l’acqua con un secchio; i drilled wells, perforati con macchinari appositi, possono raggiungere i 300 metri di profondità e richiedono una pompa per portare l’acqua in superficie; e i driven wells, che sono pozzi in genere poco profondi realizzati inserendo un tubo nel terreno fino alla falda acquifera e collegando poi una pompa per portare l’acqua in superficie.

A volte, continua Naomi, il pozzo è sul terreno della missione o della parrocchia gestita dai missionari della Consolata, ma a beneficiarne sono comunque centinaia di persone: nella parrocchia di San Giovanni XXIII a Rabour, Kenya occidentale, il pozzo è a disposizione dei parrocchiani servendo così i due missionari che lavorano lì e i 1.700 abitanti dell’area.

E ancora: a Makima, città del Kenya centrale a circa 130 chilometri da Nairobi, il pozzo garantisce acqua a 14mila persone: «Profondo 280 metri, questo pozzo fornisce una grande quantità di acqua pulita, sufficiente per essere incanalata e raggiungere la township (insediamento informale) di Kitololoni, due scuole elementari, una scuola secondaria, un dispensario e la fattoria della missione cattolica di St. Paul».

Secondo i dati Unwater, in Kenya@ il 72% della popolazione dispone di una fonte di acqua potabile sicura: più del doppio della media regionale dell’Africa subsahariana, che è al 31%. Ma su altri indicatori il Kenya ha maggiori difficoltà, ad esempio quello dello stress idrico: quando un territorio preleva il 25% o più delle sue risorse rinnovabili di acqua dolce, si dice che è in «stress idrico» e il Kenya ne preleva il 33%.

Tanzania, acqua dalla montagna

Trivellatrice nel momento in cui raggiunge la falda acquifera a Irole, Tanzania

La Tanzania ha un prelievo idrico più contenuto del Kenya: estrae infatti solo il 13% delle sue risorse idriche rinnovabili e non è, quindi, in stress idrico. Ma la quota di popolazione che ha accesso all’acqua pulita, pari all’11%, è molto sotto la media regionale. Per garantire l’acqua alle comunità con cui lavorano, scrive da Iringa la responsabile dall’ufficio progetti Imc, Modesta Kagali, i missionari della Consolata hanno costruito diversi tipi di pozzi che vengono scavati a mano o con una perforatrice, a seconda delle situazioni, e hanno profondità comprese fra i 10 e i 150 metri. A volte, però, ricorrono anche alla raccolta di acqua piovana o alla canalizzazione da fiumi o da sorgenti montane.

Nella missione di Ikonda, ad esempio, i missionari hanno realizzato un acquedotto, convogliando l’acqua dalla montagna attraverso un sistema di tubature e canali per raggiungere l’ospedale, le case del personale e il villaggio circostante di Ikonda. L’ospedale può così servire migliaia di pazienti – nel 2023, i ricoveri sono stati quasi 18mila – e anche la popolazione del villaggio. Come in Kenya, anche in Tanzania i missionari usano l’acqua per irrigare i campi delle fattorie che gestiscono, ma anche gli orti di seminari e scuole per abbattere i costi di gestione, coltivando frutta e verdura per le mense scolastiche.

Fasi di lavoro per la costruzione del pozzo per il vaccaro del progetto bestiame

Pozzi artesiani in Amazzonia

L’acqua che proviene dai rilievi circostanti è stata a lungo la principale risorsa idrica anche per molte comunità che vivono nella Terra indigena Raposa Serra do Sol (Tirss), nello stato di Roraima, Amazzonia brasiliana. Negli ultimi anni, però, difficoltà nella manutenzione e stagioni più secche hanno reso meno costante la disponibilità di acqua.

Spiegava nel 2022 padre Jean-Claude Bafutanga, allora in missione nella Tirss a Baixo Cotingo: «Ci sono spesso interruzioni nel sistema idrico che porta l’acqua a valle. In inverno l’acqua c’è, ma se piove troppo i canali si intasano per l’accumularsi di foglie; d’estate, invece, abbiamo avuto siccità così intense che l’acqua non c’era più».

Nella Tirss, completa padre Joseph Mampia, che lavora alla missione di Raposa, non esiste un sistema di raccolta e distribuzione dell’acqua come nelle città. Molti utilizzano l’acqua piovana accumulata negli igarapé, (ruscelli), che però si seccano d’estate e spesso portano acqua non potabile. Il garimpo, cioè l’estrazione mineraria illegale, infatti, ha peggiorato la situazione, inquinando l’acqua@. Per questo, concordano i due missionari, il pozzo artesiano è la soluzione migliore in questa zona: è abbastanza profondo da evitare le contaminazioni causate dal garimpo e l’acqua sgorga in modo spontaneo.

Chiara Giovetti

Contemplando l’acqua nel pozzo




Angelelli e Gerardi


Il tempo delle giunte militari in America Latina ha visto fiorire molte esperienze di lotta nonviolenta per la giustizia. Tra queste, quelle del vescovo argentino Enrique Angelelli (1923-1976) e del vescovo guatemalteco Juan Gerardi (1922-1998), entrambi per una Chiesa dei poveri. Entrambi ammazzati dai regimi.

Anselmo Palini, insegnante e saggista di San Giovanni di Polaveno, Brescia, attivo sui temi dei diritti umani e della nonviolenza, ha pubblicato diverse biografie, quasi tutte per l’editore Ave, di testimoni del nostro tempo impegnati per la giustizia e la pace.

Tra questi, ci sono, oltre ai più noti Oscar Romero e Hélder Câmara, altri due vescovi latinoamericani, assassinati dalle giunte militari dei loro Paesi perché testimoni scomodi del Vangelo.

Sono l’argentino Enrique Angelelli (1923-1976) e il guatemalteco Juan Gerardi (1922-1998).

Enrique Angelelli

Enrique Ángel Angelelli Carletti, rettore del seminario di Cordoba, Argentina, e assistente della Joc (gioventù operaia cristiana) e della Juc (gioventù universitaria cristiana), diventa vescovo ausiliario della diocesi nel 1960 schierandosi subito a fianco di campesinos (contadini) e operai.

Durante il Concilio Vaticano II, che lo segna profondamente, è uno dei firmatari del «Patto delle

Catacombe» (16/11/’65), nel quale «i vescovi si impegnano a vivere in povertà, rinunciare ai simboli del potere, mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale, operare per la giustizia e per un nuovo ordine sociale».

Nel 1968, la seconda Conferenza dell’episcopato latinoamericano a Medellin, in Colombia, conferma questa direzione di impegno e, quando viene nominato vescovo di La Rioja, celebra la messa nel barrio Cordoba Sud, uno dei più poveri della città.

A causa delle sue denunce, le autorità proibiscono la trasmissione per radio della messa. Viene allora diffuso un documento nel quale si afferma: «È possibile far tacere una trasmissione radiofonica, ma non la Chiesa, perché la forza e la ragione stessa della sua esistenza sono radicati nella presenza misteriosa dello Spirito di Cristo, che è vivo in ciascun uomo di questa terra, bagnata dal sangue dei suoi figli, versato per difendere la propria dignità».

Nel 1973, durante la festa in onore di Sant’Antonio, nella parrocchia di Anillaco, Angelelli viene aggredito a sassate da sicari dei latifondisti. Il papa Paolo VI gli fa sentire il suo sostegno attraverso una visita del superiore dei Gesuiti, Pedro Arrupe, e di Jorge Mario Bergoglio.

Già prima dell’avvento della giunta militare, gli squadroni della morte della Tripla A (la neofascista Alleanza anticomunista argentina) uccidono preti e laici impegnati, finché, nel 1976, il golpe militare instaura la dittatura che durerà fino al 1983.

Dopo l’ennesimo assassinio di due preti, padre Gabriel Josè Rogelio Longueville e fratel Carlos de Dios Murias, nell’orazione funebre Angelelli invoca: «Mi rivolgo a coloro che hanno preparato, organizzato ed eseguito l’assassinio dei due sacerdoti: aprite gli occhi, fratelli, se vi chiamate cristiani! Rendetevi conto del sacrilegio e del crimine che avete commesso».

Nei giorni successivi raccoglie dai parrocchiani testimonianze e prove di quanto accaduto e prepara un rapporto da trasmettere alla Conferenza episcopale, per evitare che tutto sia insabbiato.

Il 4 agosto 1976, mentre ritorna a La Rioja accompagnato dal vicario episcopale, Arturo Pinto, la sua auto è affiancata da un’altra che la spinge fuori strada facendola ribaltare.

Nonostante i tentativi di farlo passare per un incidente stradale, la verità del crimine non potrà essere nascosta a lungo.

Dopo l’assassinio del vescovo Angelelli, la repressione in Argentina continua. Migliaia di persone sono arrestate e scompaiono, sono rinchiuse nelle caserme, torturate, gettate in mare con i voli della morte. I familiari non riescono ad avere notizie.

Il 30 aprile 1977 un gruppo di quattordici donne, le Madres de Plaza de Mayo, si presentano davanti alla Casa Rosada, il palazzo del Governo, in silenzio e con le foto di figli, mariti, fratelli scomparsi, per avere notizie.

Tutte le settimane, per anni, queste donne saranno lì, con la loro muta presenza, a denunciare l’orrore della dittatura, inaugurando una protesta nonviolenta che risuonerà in tutto il mondo.

Un colpo per la giunta golpista sarà il riconoscimento del Premio Nobel per la pace nel 1980 all’attivista nonviolento cattolico Adolfo Perez Esquivel, che è imprigionato per quattordici mesi e liberato nel 1978.

Dopo la fine della dittatura, nel 1985, il rapporto Nunca Mas, che ricorda anche l’assassinio del vescovo Angelelli, consentirà di avviare i processi contro i militari accusati di gravi violazioni dei diritti umani e porterà alla condanna all’ergastolo dei generali Videla, Massera e altri.

Il 27 aprile 2019 monsignor Enrique Angelelli viene beatificato da papa Francesco.


Juan Gerardi

Il testo di Palini su Juan José Gerardi Conedera riporta nel sottotitolo: «Nunca mas. Mai più».

Anche il Guatemala, infatti, come altri stati latinoamericani, ha vissuto sul proprio territorio la stagione delle dittature militari sostenute dagli Stati Uniti.

Richiamandosi alla dottrina Monroe del 1823 che affermava la supremazia degli Stati Uniti sul continente americano, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, la politica statunitense guarda all’America Latina come al «cortile di casa», da controllare contro il pericolo comunista rappresentato dalla rivoluzione cubana del 1959.

Anche in Guatemala si crea così una stretta alleanza tra gli interessi dell’oligarchia terriera latifondista e le multinazionali statunitensi come la United fruit company, per controllare le monocolture di caffè e banane contro le rivendicazioni contadine e la riforma agraria realizzata dall’unica esperienza democratica guatemalteca, tra il 1945 e il 1954, sotto i governi di Juan José Arevalo (1945-52) e Jacobo Arbenz Guzman (1952-54).

Durante questa breve parentesi viene varata una Costituzione democratica e creato un Codice del lavoro, nasce il Partito guatemalteco del lavoro e la riforma agraria aiuta 100mila famiglie contadine.

Nel 1954, però, un’invasione dall’Honduras guidata dal colonnello guatemalteco Carlos Alberto Castillo Armas, con un gruppo di mercenari e con il diretto aiuto della Cia per respingere il «pericolo rosso», costringe alle dimissioni il presidente Arbenz Guzman.

La giunta militare che si instaura elimina tutte le conquiste democratiche, ripristina il lavoro gratuito degli indigeni, incarcera tutti i sospetti di «comunismo», inaugura un nuovo periodo di repressione e di violazioni dei diritti umani, soprattutto nei confronti delle popolazioni native.

Se in un primo periodo la Chiesa guatemalteca sostiene la dittatura, in seguito, soprattutto dopo il Concilio e la citata Conferenza di Medellin, si diffonde l’«opzione preferenziale per i poveri», di cui Gerardi diventa uno degli esponenti più autorevoli.

Ordinato prete nel 1946, vive tutta l’esperienza del passaggio da una Chiesa schierata con le forze conservatrici a una Chiesa conciliare, attraverso il contatto con le popolazioni rurali, lavorando con le comunità dei popoli indigeni, promuovendo l’uso delle lingue locali nell’alfabetizzazione e nel movimento dei «delegati della parola». Perché, osserva Gerardi, il fatto che esistano culture distinte è una manifestazione della diversità in cui Dio si rivela e agisce all’interno di tutta la cultura umana.

È presidente della Conferenza episcopale del Guatemala dal 1972 al 1976, e poi dal 1980 al 1982. Nel 1976 è il primo firmatario di un documento nel quale i vescovi «denunciano le situazioni di violenza istituzionalizzata, caratterizzate da strutture sociali ingiuste, da emarginazione e miseria».

Per far fronte a tutto ciò, la Chiesa indica la necessità di una radicale riforma agraria, e imputa alle profonde disuguaglianze sociali l’estendersi della rivolta armata, che a sua volta determina l’inasprirsi della repressione. Dunque una spirale di violenza senza fine. Denuncia poi l’esistenza di gruppi paramilitari, l’uso sistematico della tortura, la violazione dei più elementari diritti umani.

Anche la radio diocesana denuncia le violenze e gli assassinii, come lo stesso Gerardi ricorderà: «In quel periodo eravamo vittime di una persecuzione continua. La radio della diocesi era stata accusata dall’esercito di fiancheggiare la guerriglia. Un giorno trovammo un cadavere davanti all’ingresso della radio, con un cartello sul quale era scritto “Padre Lans è morto. Così moriranno tutti gli altri della radio”».

In un anno, dal 1977 al 1978, sono assassinati 143 leader contadini, preti e catechisti.

Nel 1980, anno dell’assassinio in El Salvador di monsignor Oscar Romero, le forze di sicurezza del regime del generale Fernando Romeo Lucas Garcia compiono il massacro all’ambasciata di Spagna: 37 vittime tra contadini e studenti che ne hanno occupato i locali, compresi quattro diplomatici spagnoli.

Lì perde la vita anche il padre di Rigoberta Menchù, futura premio Nobel per la pace nel 1992.

La diocesi di Santa Cruz, guidata da Gerardi, da cui provenivano i contadini che avevano occupato l’ambasciata, emette un duro comunicato di condanna: «Da quattro anni il Quichè sopporta il peso di una violenza estrema, aggravato dall’occupazione militare della zona nord e da altre misure che, di fatto, colpiscono il popolo a beneficio di una minoranza. Come causa di fondo scopriamo uno schema di sviluppo economico, sociale e politico che non tiene conto degli interessi dei poveri e si appoggia alla Dottrina della sicurezza nazionale, che sottomette le persone a un regime di terrore. […] Per questa ragione facciamo nostra la denuncia dei contadini che sono morti per il popolo del Quichè, nell’ambasciata di Spagna».

Ma le uccisioni di dirigenti sindacali, preti, operatori pastorali continuano, compresa la madre di Rigoberta Menchù, rapita, torturata e lasciata agonizzante per giorni.

Sfuggito a un attentato, nello stesso anno Gerardi decide di chiudere la diocesi per mettere al riparo sacerdoti e catechisti, e si rifugia presso vari conventi, mentre molte famiglie contadine vanno in montagna, dove formano le Comunità di popolazione in resistenza (Cpr) «che sviluppano forme di convivenza e sistemi di lavoro collettivi e che, grazie alla perfetta conoscenza del territorio, sono in grado di difendersi dall’esercito».

Dopo un viaggio a Roma, a colloquio con papa Giovanni Paolo II, monsignor Gerardi, per sicurezza, non rientra in Guatemala (si scoprirà in seguito, infatti, che era è stato preparato un attentato contro di lui), e si rifugia in Costa Rica fino al 1982.

Nel 1981, una missione di Pax Christi internazionale, guidata da monsignor Luigi Bettazzi, visita Nicaragua, El Salvador, Honduras e Guatemala. Nel rapporto che ne segue si legge: «Sono gli interessi dell’economia occidentale a spingere i sedicenti Paesi liberi e democratici a tenere in piedi quei regimi dittatoriali che assicurano vendite di materie prime e scambi economici in termini vantaggiosi per i Paesi industrializzati che dominano il mondo. Che in questi Paesi del Centroamerica non esista la democrazia, che piccoli gruppi di famiglie straricche dominino e sfruttino la maggioranza della popolazione in miseria, questo non sembra avere molta importanza. Così l’assurda e spietata dittatura del Guatemala serve da punto di riferimento e di ritrovo degli interessi economici e militari di diversi Paesi dagli Stati Uniti a Israele».

Nel 1983, sia il Tribunale permanente dei popoli in seduta a Madrid, sia Amnesty international, condannano le gravissime violazioni dei diritti umani compiute dalla dittatura guatemalteca, in particolare dopo il colpo di stato di Efrain Rios Montt del 1982, che persegue l’annientamento delle comunità Maya, facendo terra bruciata intorno a loro e reclutando a forza i ragazzi per contrastare la guerriglia. Prima di essere deposto da un ennesimo colpo di stato nell’agosto 1983, i suoi diciassette mesi di governo sono tra i più sanguinari della storia del Guatemala.

Il mutato clima internazionale induce ad avviare un processo di transizione politica che consegni il potere ai civili: nel 1985 si svolgono elezioni generali che portano alla vittoria del democristiano Vinicio Cerezo Arévalo, ma il Paese è ancora dilaniato dalla guerra tra esercito e gruppi della guerriglia.

Il vescovo Gerardi, nel 1986 fa parte della Commissione nazionale di riconciliazione, frutto dei primi passi verso un processo di pace nel Paese.

Nel 1989 l’arcivescovo di Città del Guatemala, Prospero Penado del Barrio, gli affida il compito di creare un Ufficio per i diritti umani nella diocesi.

Nella veste di coordinatore di questo ufficio, negli anni parteciperà alla Commissione Onu per i diritti umani, con sede a Ginevra, denunciando l’impunità che regna nel suo Paese.

Dopo il Premio Nobel per la pace a Rigoberta Menchù nel 1992, anche Gerardi riceve diversi riconoscimenti internazionali.

Nel 1994 a Oslo viene sottoscritto un accordo tra il governo del Guatemala e la Unidad Revolucionaria nacional guatemalteca (Urng), che prevede l’istituzione di una Commissione di indagine sulle violenze perpetrate nel Paese. Gerardi propone di integrarla con il progetto Remhi (Recuperacion de la memoria historica), un lavoro da lui coordinato, che si concluderà con la pubblicazione di quattro volumi dal titolo Guatemala. Nunca mas, per documentare le uccisioni, le sparizioni, la repressione e le violazioni dei diritti umani tra il 1956 e il 1996.

L’arcivescovo Penado del Barrio, nella Presentazione del rapporto scrive: «Con questa guerra in cui si è torturato, si è assassinato e si sono fatte scomparire intere comunità, che sono rimaste terrorizzate e indifese in questo fuoco incrociato, in cui si è distrutta la natura, che nella cosmovisione indigena è sacra, la madre terra, è anche stata spazzata via, come un uragano impetuoso, la parte più viva dell’intellighenzia del Guatemala. Il Paese è rimasto improvvisamente orfano di cittadini autorevoli».

Nel 1995 Gerardi partecipa in Italia alla Marcia Perugia-Assisi.

Nel 1996 è firmato finalmente l’accordo di pace, e nel 1998 il rapporto Nunca mas è consegnato a Rigoberta Menchù.

Due giorni dopo la presentazione dei risultati del progetto Remhi, il vescovo Gerardi è assassinato nel suo garage.

Per il delitto saranno condannati il colonnello Byron Lima Estrada, suo figlio, il capitano Byron Lima Oliva, il soldato Obdulio Villanueva e il viceparroco Mario Orantes in qualità di complice, ma i mandanti, gli alti vertici militari e politici, rimarranno liberi.

Angela Dogliotti
Centro studi Sereno Regis


I LIBRI DI ANSELMO PALINI

  •  Hélder Câmara. «Il clamore dei poveri è la voce di Dio», Ave, Roma 2020, pp. 240, 14,00 €.
  •  Don Pierino Ferrari. «Vestito di terra, fasciato di cielo», Ave, Roma 2020, pp. 304, 14,00 €.
  •  Teresio Olivelli. Ribelle per amore, Ave, Roma 2018, pp. 318, 20,00 €.
  •  Oscar Romero. «Ho udito il grido del mio popolo». Ave, Roma 2018, pp. 290, 20,00 €.
  •  Una terra bagnata dal sangue. Oscar Romero e i martiri di El Salvador, Paoline, Milano 2017, pp. 224, 16,00 €.
  •  Marianella Garcìa Villas. «Avvocata dei poveri, difensore degli oppressi, voce dei perseguitati e degli scomparsi», Ave, Roma 2014, pp. 272, 12,00 €.

Primo Mazzolari. Un uomo libero, Ave, Roma 2009, pp. 304, 16,00 €.




Pillole «Allamano» /10. Prima di tutto santi


Carissimo Padre, buon Natale.
Uso l’appellativo Padre invece di Canonico (oggi un po’ demodé), o di Rettore (troppo accademico), per sottolineare la paternità spirituale che hai avuto e continui ad avere su di noi, missionari e missionarie della Consolata. Grazie per queste pillole di spiritualità che, oggi come ieri, ci aiutano a dare un senso alla nostra vita, per poterne essere i protagonisti e non dei comprimari. I tuoi consigli hanno permesso a missionari e missionarie di camminare diritti e spediti durante tanti anni e in moltissime parti del mondo; crediamo che possano servire anche a noi, nella nostra Europa attuale, per riproporci come persone che hanno a cuore il Regno di Dio, e lo vogliono promuovere lì dove si trovano. In fin dei conti, questo è lo spirito con cui abbiamo provato ad assumerle durante questi mesi e chissà se ci aiuteranno ad alzare un po’ il tiro, iniziando da questo periodo natalizio.

A Natale si dovrebbe essere tutti più buoni o, come forse suggeriresti tu stesso, un pochino più santi. Ti è sempre piaciuta questa parola: santo.  Hai parlato tanto di santità, ma soprattutto hai vissuto in modo da rendere esplicito, visibile, toccabile con mano ciò che cercavi di esprimere a parole. Hai soprattutto cercato di mostrare che la santità è nient’altro che il coronamento di un cammino nella fede «fatto bene», con rispetto del ruolo che si occupa nel mondo, senza pensare di essere Dio, ma soltanto povere creature che cercano di fare al meglio la Sua volontà (a dirla tutta, se c’è qualcosa che veramente contraddice lo spirito del Natale è proprio questa tendenza a credersi dei padreterni; altro che spirito dell’incarnazione!).

La Torino dei tuoi tempi poteva vantare degli esempi di santi mica da ridere: ci si sarebbe potuta fare una squadra di calcio con tanto di riserve contando tutte le persone che hanno dato la loro vita per la causa del Vangelo, e a tale ragione sono assurti alla gloria degli altari. Altri ancora hanno vissuto la loro vita cristiana in maniera più nascosta, o forse meno «eroica», e non vengono ricordati liturgicamente, ma hanno comunque lasciato un segno che rimane vivo ancora oggi, eredità di una vita dedicata a Dio e al servizio dei fratelli. Alcuni parlano di loro come «santi sociali», proprio per sottolineare il loro forte impegno al servizio dei poveri del tempo, fra i giovani, gli operai, i carcerati, gli ammalati…

Molti li hai incontrati tu stesso di persona. In particolare non si può non citare le due figure a te più vicine, non fosse altro per la comune provenienza, visto che eravate tutti originari di Castelnuovo, in provincia di Asti: Giuseppe Cafasso, tuo zio, e Giovanni Bosco. Oggi il tuo paese, adagiato sulle colline del Basso Monferrato astigiano, ha preso il nome di Castelnuovo don Bosco, dal concittadino più famoso, anche se dovrebbe essere battezzato «Castelnuovo dei Santi» perché ben quattro (va aggiunto infatti anche Domenico Savio) sono i santi che lì hanno avuto i loro natali in uno spazio di tempo davvero ristretto.

Santi vicini, santi in famiglia, santi le cui vite si sono sfiorate lasciando segni indelebili sulle altrui esistenze. Sì, diciamo che sei anche stato un po’ fortunato ad avere la possibilità di entrare in contatto con persone di quel calibro. Da loro hai attinto molto, pur conservando una tua precisa personalità, che non si è confusa né con lo spirito, né tantomeno con la missione altrui. Da Giovanni Bosco, anche se soltanto per un breve periodo di tempo, sei andato a scuola nell’Oratorio da lui fondato, luogo da cui poi ti sei allontanato alla chetichella, per non dare un dispiacere a chi ti aveva ospitato fra i suoi ragazzi e che probabilmente, vedendo la pasta di cui eri fatto, aveva iniziato a pensare che un giorno avresti potuto dargli una bella mano. Del resto, non lo hai fatto per capriccio (le persone capricciose non ti sono mai andate troppo a genio e non ti sei stancato di ripeterlo in continuazione a tutti coloro che erano affidati alla tua formazione), ma per seguire quella che a te sembrava essere la tua strada, indirizzandoti verso il Seminario metropolitano di Torino.

A Giuseppe Cafasso devi sicuramente molto di più, pur avendolo personalmente incontrato tutto sommato poche volte. Hai respirato sin da piccolo la sua presenza e hai sempre saputo e creduto di avere un «Santo zio» in famiglia, al punto che quando è stata l’ora ti sei dedicato anima e corpo, fra mille altre cose, anche ai processi di beatificazione e canonizzazione, dando così alla Chiesa intera un modello di prete a cui ispirarsi.

Creazione di David Ongaro per la chiesa di Maria Regina delle Missioni in Torino: san Giuseppe Allamano con i suoi santi. Da sinistra a destra: s. Chiara regge con lui il quadro della Consolata, s. Ignazio di Loyola, s. Caterina da Siena, s. Giovanni Bosco, s. Francesco di Sales, s. Teresa d’Avila, s. Francesco, s. Teresina di Gesù Bambino, s. Fedele da Sigmaringen, s. Giuseppe Benedetto Cottolengo, s. Francesco Saverio e s. Giuseppe Cafasso, suo zio.

La santità che hai conosciuto tu, di cui hai fatto esperienza diretta vedendola riflessa nelle esistenze degli altri, era la conseguenza di una vita buona, vissuta bene, con sacrificio, determinazione, fede, perseveranza. Dio lancia il seme, e questo cade in una terra più o meno fertile. Nel vostro caso terra fertilissima, perché preparata, lavorata, concimata quotidianamente con la pazienza e anche la fatica del contadino. Niente di eccezionale, verrebbe da dire, una santità alla portata di tutti, fatta di piccoli gesti buoni ripetuti nel tempo. È la santità di tante nostre famiglie, quella che non fa rumore ma permette al bene di incunearsi nel tessuto della società e lo fa scorrere a dispetto di tanti messaggi a esso contrari, segnali di male, morte, disperazione che mettono in pericolo la speranza.

L’eccezionalità sta appunto in questo lavoro costante su di sé, sulla propria crescita umana e spirituale. «Vivere l’ordinario in modo straordinario» è il motto che hai proposto a chi guardava a te come modello di uomo e prete. Lo hai attinto dalla spiritualità di San Giuseppe Cafasso, ma lo hai fatto diventare come parte del tuo stile di vita. Il tuo punto di riferimento era Cristo, ma il tuo terreno di gioco è sempre stato il quotidiano, le ventiquattro ore della giornata, cui dare un senso, giorno dopo giorno, con l’Eucaristia a fare da metronomo: preparazione, celebrazione e ringraziamento; e così via, in una serie continua di istanti in cui la vita dell’uomo si fonde in quella di Dio.

Il santo è la persona che vive in profondità questa unione di Dio con la sua storia passata, presente e futura; è colui o colei che permette a Dio di incarnarsi nel suo vissuto, di vivere nella sua famiglia, di frequentare la stessa scuola o di interessarsi degli stessi problemi di lavoro degli altri. Il santo è la persona della porta accanto, quella capace di praticare iniezioni di bene con la sua presenza discreta e silenziosa, che permette a Dio di essere Dio, e lo fa lasciando che questi entri nella propria vita, concedendogli spazio e diventando a sua volta strumento di salvezza.

Caro don Giuseppe, tu sei stato questo tipo di persona per molti tuoi contemporanei, che istantaneamente hanno riconosciuto in te i segni di una presenza più grande. Il tuo spirito di preghiera, l’amore per l’eucaristia, la relazione cuore a cuore con Maria Consolata. Tuttavia, la tua santità ha assunto dei connotati speciali che restano un’eredità unica per noi missionari e per tutti gli amici che, a vario titolo e in varie occasioni, si sono avvicinati al nostro carisma e ne sono rimasti affascinati.

Innanzitutto, la tua è stata una santità extra large; hai guardato oltre i confini di Torino, dell’Italia, più in là sempre e comunque. Sicuramente più in là dei tuoi comodi – avresti potuto infatti vivere un’esistenza decisamente tranquilla e rilassata invece di perdere pace, salute e soldi nel correre dietro all’ideale missionario – a cui hai però volentieri rinunciato per rispondere all’imperativo che sentivi dentro di te di annunciare a tutti la consolazione del Vangelo. In questo momento storico in cui la chiesa è invitata a uscire, ad andare alle periferie, a essere lì dove la gente si trova, a non perdere la voglia di annunciare, ci offri un modello di santità molto attuale. Dà coraggio pensare che hai vissuto in maniera totale la tua missionarietà senza mai allontanarti, se non per brevi viaggi, dal tuo amato Santuario della Consolata. Sei un invito vivente per tante persone e famiglie che forse non ce la fanno proprio a trovare tempo e risorse per «partire» e vivere la loro vocazione missionaria in terre lontane. C’è chi dona partendo e chi parte donando. Da sempre la missione si è nutrita del dono del tempo, dei beni materiali, della preghiera di tanti benefattori che pur senza oltrepassare l’uscio di casa hanno reso l’attività dei missionari possibile, partecipando a tutti gli effetti, pienamente, della missione della chiesa.

Inoltre la tua è stata una santità «inclusiva», che si è nutrita e arricchita dei contributi di culture nuove e lontane, di cui leggevi attraverso i racconti dei tuoi missionari. Il senso di vicinanza all’altro che hai trasmesso ai tuoi, l’enfasi posta sulla necessità di imparare, e imparare bene, le lingue straniere per meglio comunicare con le persone, la passione di capire l’altro per entrare nel profondo della sua cultura, con rispetto, in punta di piedi… sono elementi che hanno caratterizzato il tuo insegnamento e restano parte di quello spirito che sempre hai voluto trasmettere personalmente ai tuoi missionari. I nostri confratelli che lavorano in Asia sempre ripetono l’importanza di essere sul posto, presenti, sussurrando il Vangelo, con tatto, rispetto e discrezione, senza imporre, ma proponendo coraggiosamente la buona notizia di Gesù.

In questo mondo così controverso e contraddittorio, alla cui tensione verso la globalità rispondono movimenti di chiusura e intolleranza assolutamente non evangelici, la ferma delicatezza della tua parola è garanzia di un messaggio di accoglienza e di fraternità che rincuora e dà coraggio.

Grazie caro Padre per quest’ultima tua pillola che, in fondo, contempla tutte le altre. Siate santi missionari; anzi, «prima santi, poi missionari», come ripetevi instancabilmente allora e continui a ripetere anche a noi oggi. Ai nostri giorni il tuo appello assume una valenza particolarmente pregnante perché immettersi in un cammino di santità significa andare due volte contro corrente. Mentre noi missionari e missionarie della Consolata desideriamo profondamente che tu, già beato, possa essere riconosciuto finalmente santo, tu vuoi soprattutto che siamo noi a santificarci, anche senza riconoscimento ufficiale da parte della chiesa. Ci chiedi soltanto di condurre una vita evangelicamente certificata e di testimoniare con coerenza i valori del Vangelo attraverso il carisma speciale che ci hai lasciato.

Penso che, corroborati da un anno di pillole ricostituenti da te fornite, possiamo tentare di metterci su questo cammino chiedendoti, ancora una volta, di essere padre e guida dei tuoi missionari e degli amici fraterni che ne accompagnano le iniziative apostoliche. Siamo convinti che, diventando più santi, noi spianeremo anche a te la strada per il riconoscimento universale della tua santità. Prendi questo nostro impegno come un piccolo regalo di Natale. E ancora tanti auguri.

Ugo Pozzoli


Tutte le 10 parole

Per finire con gioia

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Pillole «Allamano» /9. Non dire mai non tocca a me


Ho visto di recente, insieme ad altri missionari che lavorano in Europa, il film «Terraferma» di Emanuele Crialese, premio della giuria al Festival del cinema di Venezia 2011. Racconta la storia di una famiglia di pescatori che vive in un’isola al largo della Sicilia e che, insieme alla comunità del posto, si trova a vivere un conflitto fra tradizione e modernità. Gli abitanti sono infatti intrappolati nel dilemma: continuare con una vita di pesca o aprirsi al turismo e, di conseguenza, al consumismo di marca occidentale? Quello che si preannuncia all’inizio del film come un conflitto generazionale (c’è un’eco dei Malavoglia nella storia narrata) assume connotati nuovi con l’irruzione dell’emergenza migranti che viene a sconvolgere la vita degli abitanti e il loro rapporto con il mare.

Non tutti gli isolani sono inclini a sopportare passivamente la marea umana che si abbatte sulle loro spiagge. Il turismo, la nuova dimensione appena scoperta e che apre le porte a un futuro di minori sacrifici e stenti, viene messo a dura prova da questa ennesima sfida che arriva dal mare. Eppure, in mezzo a tutto il marasma che sconvolge la placida esistenza della gente del posto, si viene a creare uno spazio favorevole per la solidarietà e l’altruismo. Tanto il codice del mare, che non prevede di lasciar morire un uomo in balia delle onde, come il senso di fraternità che tocca l’animo dei protagonisti investono gli abitanti dell’isola di un imprevedibile e nuovo senso di responsabilità.

È inutile dire che la storia fittizia di «Terraferma» ricalca quella purtroppo vera e sofferta di Lampedusa. Come non ricordare del resto i gesti di accoglienza dei lampedusani, per altro lodati anche dal Papa? Si tratta di gesti compiuti da gente semplice, sovente povera, messa in crisi da una situazione diventata ingestibile. Nonostante tutto, di fronte all’emergenza per molti di loro è impossibile dire: «Non tocca a me».

Per la (nostra) generazione cresciuta a pane e Alberto Sordi è costato rinunciare al mito dell’italiano «tutto sommato brava gente», sempre pronto a redimersi da una vita da brigante grazie a un atto di eroismo finale e catartico con cui prende finalmente e responsabilmente in mano la propria vita. Basta avere la possibilità di andare un po’ in giro per il mondo, oppure la magnanimità di incontrare chi da fuori viene a vivere nel nostro paese, per capire che non siamo più buoni o meno buoni di tanta altra gente. Anche qui in Italia c’è chi incassa la testa fra le spalle e tira diritto senza voltarsi, lasciando che l’altrui persona badi a se stessa, risolva i suoi problemi da sola. Anche qui c’è chi pensa: «Chissenefrega, io cosa c’entro … non ho tempo, non mi sento, non sono capace e, alla fine della fiera, non sono problemi miei!». Se così non fosse, e non fosse sempre stato, Giuseppe Allamano non avrebbe avuto bisogno di dare, all’epoca, una pillola dei cui effetti benefici si sente il bisogno anche oggi.

Certamente l’ambito a cui preferibilmente l’Allamano si riferiva era quello formativo dei missionari della Consolata. Tante sono le volte in cui ricorreva questa espressione, segno dell’importanza che egli dava all’aspetto della partecipazione alla vita comunitaria ai fini della missione e alla dimensione della responsabilità personale. «Non dire mai non tocca a me» è infatti più di una raccomandazione, è un appello alla responsabilità e alla vocazione cristiana, prima ancora che religiosa e missionaria. Anzi, proprio perché indirizzato alla compartecipazione nella vita sociale e alla creazione di migliori relazioni fra le persone, questo appello puntava a una crescita che doveva essere innanzi tutto umana.

In un mondo dove si considera etico chi osserva il principio di reciprocità, la radicalità di questa pillola è un elemento che spariglia le carte, confonde, mette in crisi. Il do-ut-des è un regolatore sociale potente. «Io do perché tu mi hai dato» oppure «do perché aspetto di ricevere». Se contravvengo a questa consuetudine vengo punito. In questo contesto, io dirò «tocca a me» soltanto quando sarà il mio turno, aspettando che tu abbia fatto il tuo e Tizio il suo; in caso contrario mi sentirò autorizzato, e giustamente, a non fare assolutamente niente. Se tu vuoi che io faccia, inizia tu a fare quanto ti compete. Meglio che nulla, verrebbe da dire; meglio che l’inazione dovuta a pigrizia (non ne ho voglia), a ignoranza non contrastata (non sono capace), alla pretesa di un diritto acquisito (non l’ho mai fatto, non vedo perché dovrei farlo ora, non mi compete), ecc. La lista potrebbe essere lunga. Quante meravigliose ragioni per dire: «Non tocca a me!».

Kenya, quattro che hanno preso sul serio il loro compito: padre Giacomino Camisassa, uno dei primi catechisti, suor Irene (ora beata) e mons Filippo Perlo

Nel mondo del lavoro, dove relazioni e competenze sono regolate da un contratto, diventa più difficile uscire da schemi di reciprocità che stanno normalmente alla base di un qualsiasi accordo fra le parti. Non mancano per fortuna esempi, anche se pochi, di circoli virtuosi operati in alcuni luoghi in cui il datore di lavoro fa un po’ più di quello che gli spetta e il dipendente non si tira indietro nei momenti del bisogno. Questi pochi, ma illuminati esempi ci dicono che rifiutare «il non tocca a me» può diventare persino eversivo se ci si crede, se si entra in una dinamica differente, se si spezza il vincolo del do-ut-des.

Non sfuggono elementi abbastanza contraddittori che caratterizzano il momento attuale e lo rendono complesso, articolato, difficile da decifrare. Da una parte sembra evidente che la gratuità stenta a imporsi nelle relazioni fra le persone. Tutto va pagato, retribuito, tutto ha un prezzo: ti do se mi dai o, al massimo, darai. Se non s’intravedono possibilità di guadagno, gratificazione, crescita, ci si sgancia: «Non tocca a me, sorry». Questo, verrebbe da dire, capita anche nelle migliori famiglie!

Oggi, purtroppo, si avverte infatti un crescente disimpegno a vari livelli. La persona ne accusa le conseguenze, senza però rendersi conto del ruolo che lei stessa potrebbe positivamente giocare, o senza forse avere il coraggio di fare il primo passo per dare alle relazioni un indirizzo differente. La famiglia è il primo ambito in cui tale disimpegno appare evidente e tale fenomeno assume aspetti devastanti, per le ripercussioni che si hanno in molti altri ambiti. La scuola sente il disimpegno della famiglia, così come la comunità cristiana, ecc. Tutti gli ambiti educativi sono coinvolti e ciascuno reclama un’attenzione maggiore dell’altro, mettendo a nudo un circolo, questa volta decisamente vizioso, da cui sembra impossibile uscire.

Per contro, bisogna anche sottolineare una certa reazione a questo modo diffuso di interpretare la vita. Da poco l’Istat ha pubblicato uno studio sul volontariato oggi in Italia, evidenziando come, nonostante notevoli differenze fra una zona e l’altra del paese, il tasso percentuale di persone impegnate in attività di volontariato sia oggi aumentato notevolmente. Sono più di 6 milioni gli italiani di età superiore ai 14 anni che hanno svolto nel 2013 un’attività di volontariato. Oltre 4 milioni di essi lo ha fatto in collaborazione con organizzazioni di vario tipo, mentre i restanti hanno prestato servizio direttamente, in maniera indipendente, a favore di altre persone, di comunità o dell’ambiente. Il tasso di volontariato è oggi pari al 12,6 per cento della popolazione, ovvero un italiano su 8. Dà speranza a pensare che nel 1993 il tasso era del 6,9 per cento e raggiungeva il 10% nel 2011.

Dati incoraggianti che ci dicono che esiste dunque una via per interpretare la realtà in modo differente; il cristiano dovrebbe esserne innanzitutto cosciente e saperla indicare a tutti in modo chiaro e luminoso. Nel Vangelo, infatti, la logica del rapporto padrone–dipendente viene spezzata per sempre. L’uomo è figlio, non servo. Partecipa degli utili «chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna», Mt 19, 29, ma è anche chiamato a farsi carico degli oneri. In particolare, deve condividere la «politica aziendale» ed essere pronto a sacrificarsi per i beni di famiglia («se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua», Lc 9, 23). Il cristiano è invitato a essere coerede del creato di cui è parte, ma di cui è anche custode responsabile, project manager del lavoro di redenzione di Dio.

Ciò significa imparare a dire dei sì e dei no, significa assumere delle responsabilità sentendosi piloti e non passeggeri della propria vita e di quanto ci circonda. Le famiglie (o le comunità religiose, a cui Giuseppe Allamano si rivolgeva direttamente) sono ottimi banchi di prova per vedere se uno cresce in questa dimensione o se rimane fermo a mercificare diritti e doveri cercando di farli quadrare in bilancio, riuscendo magari pure a guadagnarci qualche cosa.

«Non dire mai non tocca a me, perché tocca a tutti». L’Allamano lo raccomandava anche ai missionari partenti, come un lascito importante, una di quelle cose da mettere in valigia, magari all’ultimo momento, ma da non dimenticare assolutamente. «Dobbiamo essere tutti uniti fra noi», interessandoci delle cose comuni, superando la mentalità di chi si vede realizzato solo ed esclusivamente nel compito che gli viene dato. Parafrasando un esempio da lui fatto: il gas lasciato acceso è un pericolo per la casa, forse nessuno è stato incaricato di spegnerlo, e allora che cosa si fa? Ci si adopera in un’azione preventiva o si aspettano i pompieri perché tanto «tocca a loro»?

Oggi, sta purtroppo diventando stereotipata l’immagine del religioso accomodato nella sua vita e, proprio per questo motivo, accomodante nei confronti di tutto ciò che minaccia la vita del Regno. Il ripetere «non tocca a me» ammazza lo spirito stesso della vita religiosa che presuppone la sequela di qualcuno, Cristo, che ha rifiutato la tentazione del «passi da me questo calice» per farsi carico, responsabile fino in fondo della missione affidatagli. Giuseppe Allamano, che vedeva nella vocazione missionaria la perfezione di quella religiosa e sacerdotale, non tollerava spiriti tiepidi, non desiderosi di dare il 101% alla causa del Vangelo.

Non si può non leggere nella pillola di questo mese il desiderio profondo di vedere una cristianità con le maniche rivoltate, pronta a offrire impegno, creatività e testimonianza in tutti gli aspetti della vita in comune. «Tocca a me» partecipare della vita politica del mio paese, contribuire a migliorare l’educazione dei figli, creare modelli di convivenza pacifici e solidali sul territorio, inventare strategie di economia sostenibile o scegliere che tipo di ambiente voglio lasciare a chi verrà dopo di me.

È un’illusione pensare che il girare la testa dall’altra parte lasci le cose come stanno. Sul lungo termine le cose peggiorano e s’incancreniscono, così come i cuori diventano più aridi, incapaci di dare, di aprirsi all’altro, di creare qualcosa di nuovo.

Nella sua famosa «Lettera ai giudici», Don Milani ricordava questo come uno dei principi fondanti della sua pedagogia: «Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande I care. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario del motto fascista “Me ne frego”». Di sicuro, per il priore di Barbiana il principio era irrinunciabile e rimaneva valido anche di fronte alla tentazione di una vita più comoda, ma meno realizzante: «Stasera ho provato a mettere un disco di Beethoven per vedere se posso ritornare al mio mondo e alla mia razza e sabato far dire a Rino: – Il priore non riceve perché sta ascoltando un disco –. Volevo anche scrivere sulla porta – I don’t care più –, ma invece me ne care ancora, molto.» (Lettera di Don Milani a Francuccio Gesualdi, 4 aprile 1967).

Ugo Pozzoli


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Pillole «Allamano» 8: Fare bene il bene … e senza rumore


«I miei anni sono più pochi, ma fossero pur molti, voglio spenderli in fare il bene e farlo bene: io ho l’idea del Ven. Cafasso, che il bene bi sogna farlo bene, e non rumorosamente» (Conferenze IMC, I, 116).

Un tempo si usava portare a scuola un quaderno, lasciarlo nelle mani dei compagni affinché ciascuno a turno potesse scrivere un messaggio, un augurio o fare semplicemente una decorazione come ricordo. Ovvia mente anche l’insegnante era chiamata in causa e doveva corredare le pagine di tutti gli alunni con un saluto, un disegno, una massima beneaugurante. Ricordo a questo proposito una storiella che si raccontava in casa, forse proprio nel pe riodo in cui era iniziato questo scambio di diari anche con i compagni miei e di mio fratello. La maestra di non ricordo più quale membro della nostra famiglia aveva restituito il quaderno al mio povero parente con tre o quattro pagine strappate e diverse cancellature ancora visibili, segno evidente che l’operazione le era costata fatica e si era dimostrata più complicata del previsto. Il risultato di tanto sforzo, condensato in una massima scritta a incoraggiamento morale del mio congiunto, prendeva forma alla fine di tutta quella devastazione. Era una sorta di testamento spirituale che potesse rimanere a imperitura memoria del corpo docente (cosa che di fatto avvenne), il cui testo recitava: «Fai bene ciò che fai!». Era chiaro l’intento educativo che sottolineava l’importanza di mettere impegno nel fare le cose, agendo in modo consapevole e non trasandato. Peccato che in quell’occasione alla predica non fosse seguita un’applicazione adeguata. Sulla necessità di fare il bene, in effetti, vi sono poche controversie. Il problema, semmai, è riuscire a farlo bene.

Il primo articolo della «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» recita: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratel lanza». Mi sembra interessante il fatto che prima di elencare e affermare i diritti inalienabili dell’essere umano, il testo dica ciò l’essere umano è (libero, uguale agli altri in fatto di dignità e diritti, razionale e dotato di coscienza…), ed esprima il mandato uni versale ad agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. L’articolo termina dunque con un appello a costruire il bene comune, a «fare il bene» perché valore condiviso, di tutti, universale. «Fare il bene» è un’attività che appartiene alla sfera dell’umano, alla legge naturale che regola l’ordine delle cose di questo mondo. Il bene non è soltanto un’idea tra scendente che va al di là del quotidiano, la realtà dove l’individuo vive ed agisce, ma anche ciò che l’uomo mette in pratica per vivere in maniera armonica la sua vita sociale e politica. Quella di questo mese è dunque una pillola che può essere assunta da chiunque, credente o non cre dente, per il solo fatto che punta alla felicità del l’uomo nella sua dimensione personale e sociale, in dipendentemente dalle convinzioni di carattere filosofico, culturale o religioso. Del resto, chi non vorrebbe poter condurre una vita armonica, felice e se rena?

Chiaramente, letto in ottica cristiana, il consiglio di Giuseppe Allamano assume una profondità ulte riore. Il precetto di fare il bene si radica nella mis sione propria dell’uomo di continuare l’opera crea trice e redentiva di Dio. Dio crea, e vede che quanto creato è buono. Questa bontà deve essere preservata perché il disegno di Dio non comprende il male, se non come frutto di un esercizio improprio della libertà dell’uomo. Anzi, nel progetto originale, l’uomo viene nominato il custode della creazione, creato a immagine e somiglianza di Dio, creato buono per fare il bene.

Tuttavia, basta poco per rendersi conto come le cose non funzionino esattamente così. Anzi, basta vivere in maniera cosciente per costatare come il male imponga spesso la sua presenza, una presenza misteriosa che non si può comprendere fino in fondo e, per questa ragione, tanto più angosciante. Fiumi di parole si sono scritte e si scrivono sul problema del male; ma anche lì dove pare che una scintilla di ragione riesca a imporsi sul buio, un’ingiusti zia, un lutto, un atto di cattiveria gratuita, una malattia fanno improvvisamente piombare nel buio del mistero chi cerca di capire.

Cristo è la risposta di Dio all’esistenza del male. Gesù non spiega, ma carica sulle sue spalle la croce e assume su di sé il male del mondo, esprimendo con la sua azione la massima espressione di bene: dare la vita per i propri fratelli. Fare il bene sempre e comunque è la risposta di Dio all’esistenza del male. Lasciarsi vincere dal risentimento o dalla disperazione di fronte a una situazione di dolore significa, per quanto umanamente comprensibile, fare il gioco del male, lasciarsi avvolgere dalle sue spire, restarne imprigionato. Rispondere con il bene dà un senso nuovo alla nostra vita. È la logica dell’a more incondizionato, del perdono e della riconcilia zione con se stessi, gli altri, il mondo ciò che costruisce e conserva il bene.

Decembre 1902, partenza delsecondo gruppo di missionari per il Kenya

Fare il bene …e farlo bene

Tuttavia, il bene è fragile e va trattato con cura. Non solo: il confine tra bene e ciò che non lo è risulta essere molto più labile di quanto si possa pensare. Sul fatto che sia ne cessario, anzi imperativo, fare il bene ci possiamo trovare quasi tutti d’accordo. Più difficile è stabilire confini di quando il bene è di fatto tale, o di quanto non lo è. Il bene imperfetto non è un bene. L’unico bene è quello fatto bene e perché sia veramente tale occorre farlo con prudenza e con sapienza. Un atto può essere buono o cattivo in sé, ma vi sono al tri fattori importanti, che vanno tenuti in conto. L’intenzione di chi compie l’atto non inficia la bontà dell’atto, che in sé continua a essere buono o cattivo, ma un’intenzione non retta fa indubbiamente perdere punti morali alla mia azione. Il narcotrafficante colombiano Pablo Escobar è stato in sé un grande benefattore e molti poveri hanno beneficiato del suo aiuto. Tuttavia, sebbene migliaia di persone ne scortarono il feretro il giorno del suo funerale, le biografie non lo ricordano esattamente come un angelo della carità. Parimenti, inutile dirlo, una buona intenzione non può convertire un atto cattivo in qualcosa di diverso. Rubare, ammazzare, giurare il falso sono sempre atti in sé non buoni, in dipendentemente dalle intenzioni di chi li compie. Detto questo, salta immediatamente all’occhio l’im portanza di un terzo elemento: quello delle circo stanze. La lettura sapiente di queste ultime è ciò che ci aiuta ad avere tutti gli elementi affinché si possa fare il bene e farlo davvero bene. Atti buoni, sostenuti da intenzioni altrettanto buone e gene rose, possono diventare occasione di un bene non fatto bene e creare situazioni di dipendenza nelle persone che vorremmo fare oggetto del nostro bene, oppure non rispondere agli effettivi bisogni della situazione su cui si vuole intervenire. O ancora, si può fare una buona azione, con rettissima intenzione, ma farlo con tale malagrazia, prepotenza, sufficienza, arroganza, paternalismo, ecc. da far risultare il nostro bene un completo fallimento. È chiaro che sull’argomento si potrebbero spendere fiumi di inchiostro. Pensiamo a quante esperienze si potrebbero raccogliere facendo raccontare episodi di vita vissuta in cui il bene non è stato fatto bene. Genitori, insegnanti, religiosi… Chiunque nella sua vita ha avuto modo di relazionarsi con gli altri potrebbe, raccontandosi, arricchire il campionario di errori, più o meno involontari, commessi nel tenta tivo di fare del bene.

Giuseppe Allamano desiderava che i suoi missionari potessero salvaguardarsi da questo rischio. Da uomo pratico qual’era, si dimostrava cosciente del fatto che la perfezione non apparteneva a questo mondo, ma allo stesso tempo cercava di preparare i suoi alle esigenze della missione, che richiedeva, perché molto impegnativa, delle risposte eccellenti.

Giuseppe Allamano, vero innamorato della preghiera, era anche cosciente che quest’ultima dovesse essere «aiutata» dalla persona stessa ad incarnarsi nelle situazioni che avevano bisogno di essere toccate e illuminate. Alcune sue insistenze di ventano per noi un insegnamento importante per poter fare bene il bene da compiere.

La prima è l’attenzione che egli vuole i suoi missionari mettano nel conoscere la realtà che li circonda. Conoscere bene lingua, cultura, storia, usi e costumi di un posto aiuta ad analizzare le circostanze e prevedere le conseguenze dei nostri atti. Fare il bene bene presuppone conoscere l’altro. Per fare ciò bisogna innanzitutto essere presenti, stare con l’altro lì dove egli vive. Questo vale per un genitore con i figli, così come per un educatore con le persone che gli sono affidate o per un prete con la sua comunità. Le relazioni «toccata e fuga» si nutrono di buone in tenzioni, ma nella maggior parte dei casi non sanno esprimere un bene ben fatto. Anche lo studio aiuta e Giuseppe Allamano era oltremodo esigente in merito con i suoi missionari a conoscere il contesto e a operare bene. La lunga permanenza dell’Allamano in confessionale, esercizio in cui era pignolo con i preti a lui affidati, lo aveva poi reso esperto nell’arte dell’ascolto. Chi l’ha conosciuto e ne ha dato testimonianza ha ricordato come si fosse sentito da lui ascoltato e, per questo motivo, capito. Fare il bene costa: fatica, tempo, energie e a volte anche denaro. Eppure, quante risorse e quante opportunità sono andate sprecate per aver semplicemente equivocato il bisogno vero dell’altro, per non averlo saputo ascoltare.

Vi sono poi due consigli specifici per fare bene il bene che Giuseppe Allamano trae da suo zio San Giuseppe Cafasso, a cui deve molto della sua ricchezza spirituale, e sono diretti a migliorare la persona in quanto tale, affinché questa ponga attenzione ai dettagli del proprio agire, per permettere al bene di rendersi evidente togliendo spazio al male. Oggi, usando un termine a noi più familiare, potremmo dire che l’Allamano consigliava la pratica del discernimento: mettersi davanti a Gesù e chiedersi come lui si sarebbe comportato in una determinata situazione, arricchendo così la lettura della realtà con quell’abbandono nella fede che dovrebbe guidare ogni azione del buon cristiano. Dopodiché, una volta identificato il come agire, buttarsi a capofitto, «come se quell’azione fosse l’ultima della vostra vita», affinché la mancanza di determinazione o di energia non debba successivamente penalizzare i buoni effetti del nostro fare il bene.

Si capisce che per Giuseppe Allamano «fare il bene bene» significa soprattutto «essere bene». Formarsi al bene permette di dare agli altri ciò che si è, con naturalezza, spontaneità, competenza… amore. Essere bene vuole anche dire volere il bene dell’altro in quanto altro, escludendo o non considerando i benefici, le grazie, i favori che ne potrei conseguire come agente del bene. Escludere i secondi fini per mette di vivere il bene con la vera umiltà di chi vuole farlo perché l’altro e soltanto l’altro ne possa beneficiare. Forse è vero che il bene non lo si fa: il bene in quanto tale è, e noi lo possiamo soltanto rappresentare, convertendolo magari anche in un qualcosa di concreto. Nel nostro delirio di occidentali tutti dediti al fare, il non essere protagonisti del bene che facciamo, ma lasciare diventare gli altri protagonisti del bene che noi semplicemente testimoniamo, sarebbe una rivoluzione copernicana, di quelle di cui sono capaci i Santi, come Giuseppe Al lamano.

Una volta stabilito questo si capisce perfettamente che il bene deve essere «silenzioso», deve sapersi presentare alla ribalta senza pompa e senza trombe. pubblicizzare incessantemente ciò che facciamo non aiuta a essere migliori di ciò che siamo, anzi! Il bene fa fatto bene… e senza rumore.

Ugo Pozzoli

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L’ecologia profonda


Il filosofo e alpinista norvegese Arne Dekke Eide Næss è il padre della riflessione ecologista del Novecento. Ha contribuito a comprendere che «tutto è collegato» e che ciascuno, con il proprio stile di vita, può affrontare la crisi ecologica e, allo stesso tempo, vivere meglio.

«Introduzione all’ecologia» è un’antologia di scritti del noto filosofo (e alpinista) norvegese Arne Dekke Eide Næss (Oslo, 1912-2009).

«Arne Næss – si legge sul sito delle edizioni Ets – è stato il fondatore del movimento dell’ecologia profonda e il padre della filosofia dell’ecologia, ed è riconosciuto come il più importante filosofo norvegese. […] Personaggio eccentrico e geniale, ha alternato la sua attività accademica all’alpinismo (ha guidato la prima ascensione al Tirich Mir, 7708 metri slm in Pakistan) e alla passione per il pianoforte. Già membro del Circolo di Vienna, ha approfondito diversi ambiti filosofici, dall’epistemologia, alla psicologia, all’etica, alla metafisica, alla filosofia del linguaggio, sviluppando un’originale filosofia della vita («ecosofia T») ispirata ad un tempo alla tradizione occidentale (Spinoza, in particolare) e orientale (Gandhi e il buddismo)».

La visione di Næss s’identifica con l’ontologia della Gestalt, per la quale «tutto è collegato» (traduzione dell’inglese «everything hangs together»), «tutto dipende da tutto»: il primo principio dell’ecologia.

Næss invita il lettore a considerare le connessioni tra il pensiero del filosofo olandese del XVII secolo, Baruch Spinoza, e quello ecologico. Lo fa per 36 pagine fitte fitte, dalla 127 alla 163.

Ci aiutano un utile Indice analitico, l’Elenco delle fonti e una specie di condensato dei fondamenti dell’ecologia profonda proposto in otto punti a pagina 46 nel capitolo intitolato I fondamenti del movimento dell’ecologia profonda.

  1. Version 1.0.0

    La prosperità della vita umana e non umana sulla Terra ha un valore intrinseco. Il valore delle forme di vita non umana è indipendente dall’utilità del mondo non umano.

  2. La ricchezza e la diversità delle forme di vita sono anch’esse valori in se stessi.
  3. Gli uomini non hanno il diritto di ridurre tale ricchezza e diversità, tranne che per soddisfare i loro bisogni reali.
  4. L’attuale interferenza umana nei confronti del mondo non-umano è eccessiva.
  5. Le politiche devono essere modificate.
  6. La situazione risultante sarà profondamente differente da quella odierna e renderà possibile un’esperienza più gioiosa della connessione di tutte le cose.
  7. Il cambiamento ideologico è principalmente quello di apprezzare la qualità della vita piuttosto che cercare un tenore di vita sempre più alto.
  8. Ci sarà una consapevolezza profonda della differenza tra il grande e l’intenso.

L’uomo Arne

Il filosofo è ben raccontato nella sua dimensione umana in un’intervista del 10 febbraio 2015 a Kit-Fai Næss, la sua terza moglie.

Sull’amore di Arne Næss per la montagna e per la musica: «Era un grande pianista», dice la moglie, e quando dovette scegliere se proseguire con la musica o con la filosofia, da giovane esclamò: «Non posso portare ovunque il pianoforte. Mentre, se faccio il filosofo, posso continuare a fare alpinismo».

Per quanto riguarda il futuro dell’ecologia, Arne ricordava spesso che ci sono tre tematiche da approfondire, che fanno capo a tre grandi movimenti: il movimento della giustizia sociale, il movimento dell’ecologia profonda e il movimento pacifista.

In riferimento all’ecologia profonda, per Arne è necessario modificare i nostri comportamenti, per poter cambiare il mondo. Una volta modificati, sarà più facile – quasi naturale – cambiare anche stile di vita. L’ecologia profonda si rivolge più a noi e a come viviamo che ai mezzi tecnologici che usiamo.

In merito alla crisi ecologica, Arne Næss, in alcuni suoi scritti, sembra essere alquanto pessimista sulle possibilità umane di affrontarla e risolverla. Sicuramente, però, per lui l’umanità non è il cancro del pianeta. Probabilmente la sua idea di uomo si avvicina a quella di Aldo Leopold per il quale siamo destinati a essere i custodi della Terra.

Di fondo, però, il filosofo era una persona generalmente molto ottimista: sosteneva che nel XXII secolo l’uomo avrebbe cambiato i propri comportamenti.

Tuttavia, per ora, le cose vanno male, e devono andare male, affinché l’umanità possa modificare il suo modo di vivere.

Essere positivi

L’invito di Næss all’ottimismo emerge anche dalle parole dell’amico Alan Drengson, la cui intervista del 2015 si trova in appendice dopo quella già citata alla moglie. Dal momento che il filosofo norvegese si esprimeva spesso tramite slogan, l’intervistatore domanda all’amico come sintetizzare in una frase, in una sorta di «messaggio in bottiglia», l’eredità filosofica e culturale di Næss.

«Sii positivo in ogni circostanza – è la risposta -; riconosci la tua innata capacità creativa, quella dei tuoi amici e di ogni altra persona, in tutti gli esseri viventi e nella natura. Ama il contatto con la natura e con le sue forme di vita: dedicale del tempo. Allontana ogni mezzo tecnologico e riposati nella natura. Rispetta ogni persona e ogni essere vivente che incontri sul tuo cammino».

Cinzia Picchioni


Piccola bibliografia

Bruno Bignami, Terra, aria, acqua e fuoco. Riscrivere l’etica ecologica, EDB, Edizioni Dehoniane Bologna 2012, pp. 214, 20,50 €.

Franco Nasi e Luca Valera (a cura di), Arne Næss, Quodlibet, Macerata 2023, pp. 376, 24 €.

Fritjof Capra et al., La cura della casa comune, Fondazione italiana di bioarchitettura (a cura di), Libreria editrice Fiorentina, Firenze 2020, pp. 258, 18 €.

Leo Hickman, La vita ridotta all’osso. Un anno senza sprechi: le disavventure di un consumatore coscienzioso, Ponte alle Grazie, Milano 2007, pp. 268, 12 €.

Bill Devall e George Sessions, Ecologia profonda. Vivere come se la natura fosse importante, Nanni Salio (a cura di), Castelvecchi, Roma 2022, pp. 354, 20 €.

Gary Snyder, La grana delle cose, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987, pp. 270.

Mathis Wackernagel e Bert Beyers, Impronta ecologica. Usare la biocapacità del pianeta senza distruggerla, Edizioni Ambiente, Milano 2020, pp. 312, 20 €.