Sant’Isidoro e la beata Maria Toribia

Isidoro nacque nei pressi di Madrid verso il 1070. In
giovane età lasciò la casa patea per andare a lavorare nei campi al servizio
di alcuni proprietari terrieri. In quel periodo parte della Spagna era soggetta
agli Almoravidi, musulmani berberi originari del Marocco. Quando questi
conquistarono Madrid, Isidoro si rifugiò a Torrelaguna dove conobbe e sposò la
giovane Maria Toribia. La loro unione fu caratterizzata dall’attenzione verso i
poveri, con i quali condividevano la loro casa, il loro cibo, i loro averi.
Isidoro morì il 15 maggio 1130 e venne canonizzato il 12 marzo 1622 da Papa
Gregorio XV, mentre Maria Toribia venne proclamata Beata nel 1697 da Papa
Innocenzo XII.


La vita di questi due sposi, laici illetterati dalla fede
adamantina, elevati agli onori degli altari e dichiarati – a furor di popolo –
patroni dei raccolti e della gente dei campi, si può riassumere in tre verbi:
lavorare, pregare, donare. Un programma di vita attualissimo ancora oggi.

Fa un po’ meraviglia
vedere due semplici laici – per giunta marito e moglie – con l’aureola della
santità, dato che da secoli siamo abituati a vedere figure di santi che sono
per lo più suore, monache, frati, sacerdoti, Vescovi e Papi. In genere i laici
venerati come santi lo sono in quanto martiri. Spiegateci come avete guadagnato
questa fama di santità pur vivendo come degli umili contadini?

Isidoro
e Maria Toribia:
La santità non consiste nel fare
grandi cose, ma nel fare in modo grande le piccole cose di ogni giorno. Noi
abbiamo cercato di fare sempre la volontà di Dio, vivendo con gioia la fede in
Cristo nella vita quotidiana.

A me risulta che
pregavate molto durante le vostre giornate.

Isidoro: È
vero, io passavo molto tempo in preghiera, non saprei quantificare le ore e i
minuti in quanto durante la mia epoca ci si regolava, specialmente nel lavoro
dei campi, con la luce del sole. Questo mio modo di fare ha suscitato l’invidia
degli altri lavoratori, i quali sono andati a dire al padrone bugie e
maldicenze sul mio conto: che avevo poca voglia di lavorare, che perdevo tempo
e guadagnavo il pane alle spalle delle loro fatiche.

Maria Toribia: Io ero piuttosto tiepida nella preghiera, ma vedendo il fervore di
Isidoro, ho capito che era mio dovere imitarlo. E devo dire che proprio
cominciando a pregare insieme abbiamo superato tante avversità, la più grande è
stata la perdita dell’unica creatura nata dalla nostra unione. Quando nostro
figlio è morto in tenera età, la sola consolazione l’abbiamo trovata proprio
nella preghiera.

Ai vostri tempi la
Spagna era in gran parte occupata dagli Almoravidi che erano di religione
islamica. I proprietari terrieri per i quali lavoravate erano anch’essi
musulmani?

Isidoro e Maria Toribia: Abbiamo lavorato sotto diversi padroni, quindi anche con dei padroni
che appartenevano a un’altra religione. Nella mia epoca, come dici tu, gli
Almoravidi dominavano la Spagna, essi erano una dinastia musulmana nordafricana
nata nell’undicesimo secolo ed era all’origine un movimento religioso di tipo
riformista che si era propagato fra le tribù berbere conquistando in pochi
decenni il Nord Africa e parte della Spagna. Il vasto impero almoravide però è
durato meno di un cinquantennio, fino all’apparizione degli Almohadi, che nel
1147 hanno conquistato parte dell’Africa mediterranea e i domini iberici.

Sotto di loro non
avevate problemi per la vostra vita cristiana, il culto o la pratica religiosa?

Isidoro e Maria Toribia: Assolutamente no, c’era da parte di tutti una grande tolleranza. Come
sempre, le cause delle guerre che si sono succedute, checché se ne dica, erano
più legate a conquiste territoriali per ampliare i propri possedimenti e
presentarsi così come dei grandi sovrani con molta terra e con molti popoli al
loro servizio.

Come praticavate la
vostra fede?

Isidoro
e Maria Toribia:
Ogni giorno partecipavamo alla
Messa mattutina e durante la giornata, in casa come nei campi, spesso
lasciavamo il lavoro per passare qualche momento di intimità con il Signore in
preghiera. Nonostante queste pause il risultato della nostra fatica era né più
né meno consistente di quello dei nostri compagni: tanti campi aravano loro,
tanti ne aravamo noi, tanti covoni mietevano loro, tanti ne mietevamo noi.
Qualcuno addirittura azzarda che grazie alla nostra vita di preghiera gli
angeli si sostituissero a noi nel lavoro dei campi.

Ho letto su di voi
queste cose: eravate molto caritatevoli verso i più poveri, ma i risultati
ottenuti non si spiegavano con la sola vostra capacità di lavoro. Attraverso la
vostra vita umile e semplice avvenivano dei miracoli.

Isidoro: Dicono anche che mentre trasportavo sulle spalle un sacco di
grano con il fondo bucato, i chicchi cadevano sulla neve, una vera manna per
gli uccellini nella stagione invernale. Arrivato al mulino, chissà come, il
sacco non aveva buchi ed era prodigiosamente pieno.

La
vostra epoca era caratterizzata da grandi condottieri come Alfonso VI il Bravo,
Re di Castiglia e di Leon che conquistò tante città; come Yusuf ibn Tashufin,
capo degli Almoravidi musulmani che sconfisse Alfonso incorporando ampie zone
della Spagna nel suo impero Nordafricano; come il condottiero dei condottieri,
Ruiz Diaz de Bivar, detto el Cid Campeador.

Isidoro
e Maria Toribia:
Noi non avevamo né spada né
cavallo. Quando aravamo la terra utilizzavamo i buoi del padrone e vicino casa
avevamo gli animali da cortile, come tutti i contadini. Quando vedevamo passare
questi cavalieri per andare a combattere, ci prendeva lo sconforto al pensiero
di quanti giovani avrebbero lasciato la loro vita sui campi di battaglia per
gli interessi di qualche potente.

Voi avevate un
rapporto ideale, quasi mistico con la terra. Ed è proprio questo amore
viscerale alla vita dei campi che fa di voi persone con molte cose da dire agli
uomini d’oggi.

Isidoro
e Maria Toribia:
Pur essendo dei semplici salariati,
contadini cioè che lavoravano la terra di un padrone, ricavavamo dalla terra ciò
che era necessario per vivere. Non come voi modei che avete inventato
addirittura il land grabbing impoverendo ancora di più i contadini dei paesi del Sud del
mondo.

Voi sapete cos’è il
land grabbing?

Isidoro
e Maria Toribia:
Dove siamo adesso vediamo delle
cose, è proprio il caso di dirlo, che non stanno né in cielo né in terra, come
appunto il fenomeno del land grabbing, ovvero l’accaparramento della terra per sfruttare intere zone di
paesi poveri, a favore dei paesi ricchi che non hanno spazio sufficiente per le
necessità alimentari delle loro popolazioni.

Infatti questo è un
problema serio, in molte parti del mondo i frutti della terra non restano alla
popolazione che li ha coltivati ma vengono dirottati a nazioni ricche come
l’Arabia Saudita o potenze industriali emergenti come l’India e la Cina che per
avere risorse alimentari per la loro gente non esitano a sfruttare e impoverire
i paesi già poveri.

Isidoro e Maria Toribia: E pensare che una migliore ridistribuzione dei beni darebbe cibo
sufficiente a tutto il pianeta.

Isidoro muore nel 1130 e lo seppelliscono
con una semplice cerimonia nel cimitero del villaggio in cui era sempre
vissuto. Qualche anno dopo la moglie lo raggiunge in paradiso. La loro tomba
diventa subito meta di pellegrinaggi e qualche decennio dopo, a furor di
popolo, il corpo di Isidoro viene esumato per essere sepolto nella chiesa
madrilena di Sant’Andrea. Inspiegabilmente lo trovano incorrotto. La sua fama
si diffonde subito in tutta la Spagna e in seguito nelle colonie spagnole.
Isidoro viene elevato alla gloria degli altari insieme a quattro stelle della
santità di ogni tempo: San Filippo Neri, Santa Teresa d’Avila, Sant’Ignazio di
Loyola e San Francesco Saverio. Gente con cui, di sicuro, Isidoro e Maria
Toribia si sarebbero trovati in difficoltà a parlare durante la loro vita.
Questa santità di coppia è poco conosciuta perché la
devozione popolare ha fatto prevalere l’aspetto prodigioso e miracolistico del
marito. La popolarità che Isidoro si è guadagnato come patrono dei raccolti e
dei contadini ha finito per oscurare quella di lei che pure si è fatta santa
condividendo gli stessi ideali di generosità e laboriosità del marito,
conquistando la perfezione spirituale tra casseruole, bucati e lavori nei
campi.

Mario
Bandera, Missio Novara

Mario Bandera




Edith Stein

Santa Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein, è
una delle figure più straordinarie, affascinanti e complesse del ‘900, sia per
la traccia indelebile che, nel solco di Edmund Husserl, ha lasciato nella
storia della filosofia, sia per la sua straordinaria avventura umana e
spirituale, che la portò dall’ateismo alla conversione radicale al
cattolicesimo e alla scelta vocazionale del Carmelo, alla conclusione della sua
esistenza nelle camere a gas di Auschwitz. Nel 1999 Giovanni Paolo II la
dichiarò compatrona d’Europa, insieme alle sante Caterina da Siena e Brigida di
Svezia.


Di fronte a una testimone così
autentica sono un po’ in difficoltà. Innanzitutto ti devo chiamare Edith o con
il nome da carmelitana, Teresa Benedetta?

Rimanendo
in ambito familiare preferisco Edith, anche perché Teresa Benedetta della Croce
è un nome molto impegnativo che suggella un cammino di ricerca della verità che
caratterizza tutta la mia vita.

Edith, dove sei nata? Da che
famiglia provieni? Com’è stata la tua infanzia?

Sono
nata il 12 ottobre 1891 a Breslavia, città della Germania nella regione della
Slesia, ultima di 11 figli di una famiglia della borghesia ebraica cittadina.
Sono nata proprio il giorno di Yom Kippur, la festa ebraica più
importante.

Mio
papà, che aveva un’impresa per il commercio del legname, purtroppo morì quando
avevo solo due anni; mia madre, rimasta sola, donna molto religiosa, caparbia e
tenace, si rimboccò le maniche e riuscì ad accudire la famiglia e a portare
avanti l’azienda. In questo suo spendersi in favore degli obblighi familiari e
delle necessità dell’impresa, non trovò il tempo necessario per infondere a noi
figli una fede vitale.

E così, fosti travolta dagli
eventi familiari e da una prospettiva di vita in cui Dio era assente?

Non
solo smarrii ogni riferimento a Dio, ma durante la mia adolescenza smisi, in
piena coscienza e con libera scelta, di cercare ogni riferimento al
trascendente, al divino, al mistero, quindi cessai di pregare.

E con la scuola come andò?

Bene,
trascorsi i miei anni di gioventù studiando senza fatica; conseguii
brillantemente la maturità, studiai assiduamente germanistica e storia, ma ciò
che mi attirava di più era la filosofia. Per questo, nel 1913 mi recai a Göttingen,
in Sassonia, per frequentare le lezioni universitarie di Husserl, il più
illustre dei filosofi tedeschi del tempo, e ne rimasi letteralmente
conquistata, conseguendo la laurea in filosofia con lui, divenni sua discepola
e sua assistente alla cattedra di filosofia, entrai a far parte inoltre dell’«Associazione
prussiana per il diritto femminile al voto».

Eri una femminista «ante litteram»!

Fatte
le debite proporzioni sì, anche se l’insegnamento di Edmund Husserl aveva il
sopravvento un po’ su tutto il mio modo di pensare.

Ma cos’è che aveva Husserl di
tanto affascinante?

Egli
attirava il pubblico illustrando un nuovo concetto di verità: l’esistenza del
mondo – secondo Husserl – veniva percepita non solo in maniera kantiana, ovvero
quello che noi chiamiamo percezione soggettiva, ma la sua filosofia portava a
una visione molto concreta della vita e della storia, definita come un «ritorno
all’oggettivismo». La conseguenza indiretta del suo modo di intendere
l’esistenza umana fu che molti studenti ritornarono alla (o scoprirono la) fede
cristiana.

Se non erro, gli anni in cui
frequentavi i corsi di Husserl coincisero con l’inizio della Prima Guerra
Mondiale.

È
vero, in quel periodo dedicai molto tempo allo studio universitario, ma lo
scoppio della guerra mi spinse a frequentare un corso di infermieristica e a
prestare servizio in un ospedale militare. Nel 1916 seguii Husserl a Friburgo,
dove conseguii la laurea con una tesi Sul problema dell’empatia,
premiata summa cum laude. Ma di fronte al dramma della guerra, a una
tragedia che toccava tanti uomini e donne, tante famiglie e tanti popoli,
cominciai a leggere per trovare il senso di tutto quello che avveniva nel mio
paese e sullo scenario europeo.

Ritornasti ancora a Breslavia
nella tua città?

Sì,
e mi misi a scrivere saggi di discipline umanistiche e a leggere
disordinatamente tutto quanto mi capitava sotto mano, che avesse in qualche modo
attinenza con la filosofia. Lessi Kierkegaard, Newmann, Ignazio di Loyola…
finché una sera in casa di amici trovai l’autobiografia di santa Teresa
d’Avila, la lessi in una notte, quando richiusi il libro dissi a me stessa: «Questa
è la verità». Qualche anno più tardi, il 1° gennaio 1922, ricevetti il
battesimo e qualche settimana dopo lo comunicai a mia madre. Mi recai a
Breslavia e non appena entrai in casa le dissi: «Mamma, mi sono convertita alla
fede cattolica». Con queste parole mi accorsi che le davo un dispiacere, ma
subito dopo ci abbracciammo piangendo lungamente.

Cosa provavi dopo questo passo,
vivendo una condizione di vita praticamente nuova.

Mano
a mano che Dio si era impossessato del mio cuore, sentivo crescere dentro di me
una forza che mi spingeva a uscire da me stessa per dedicarmi sempre più agli
altri. Un impegno questo che cercavo di svolgere pienamente in ambito
accademico.

Intanto sulla Germania calava una
luce sinistra: l’ideologia nazista che proprio in quegli anni prendeva il potere.

Avvertii
subito l’odio che i seguaci di Hitler nutrivano verso gli ebrei, e l’incessante
ripetere che la razza ariana doveva liberarsi dai corpi estranei della società
tedesca identificati soprattutto in coloro che erano di religione ebraica, mi
fece capire più che mai che dovevo rendere testimonianza non solo della mia
fede, ma anche del popolo a cui appartenevo.

Subisti conseguenze in questo
senso?

Mi
fu tolta la facoltà di insegnamento in tutte le scuole della Germania; dentro
di me avevo preso la decisione di farmi carmelitana. Andai a casa a salutare i
miei e ancora una volta l’incontro con mia mamma fu struggente e pieno di
sofferenza, in quanto lei, donna dell’antico popolo d’Israele, vedeva la figlia
sua entrare a far parte della Chiesa cattolica, una cosa che per quanto si
sforzasse di capire non gli riusciva di intendere pienamente.

Come fu il tuo ingresso tra le
carmelitane.

Il
14 ottobre 1933 entrai nel carmelo di Colonia e il 14 aprile dell’anno successivo
ci fu la cerimonia della mia vestizione. Da quel giorno la mia nuova vita fu
segnata da un nuovo nome: suor Teresa Benedetta della Croce. Il 21 aprile del
1935 presi i voti temporanei. Nel settembre del 1936 mia madre morì e avvertii
chiaramente che l’avevo al mio fianco come fedele assistente per giungere alla
meta, il cui traguardo lei aveva già superato. Il 21 aprile 1938 feci la mia
professione perpetua con voti solenni; per l’occasione feci stampare
sull’immaginetta distribuita ai presenti le parole di san Giovanni della Croce:
«La mia unica professione d’ora in poi sarà l’amore».

Un programma di vita impegnativo
di fronte all’odio contro gli ebrei che divampava in Germania e in gran parte
d’Europa, alimentato dalla propaganda nazista.

Sì!
Effettivamente i nazisti fecero di tutto per annientare il popolo di Israele,
bruciarono sinagoghe, rinchiusero gli ebrei nei ghetti e sparsero terrore fra
la mia gente. Per questo i superiori decisero che non potevo più stare in
Germania: la notte di capodanno del 1938 fui portata nel monastero delle
carmelitane di Echt, in Olanda. Lì non si respirava la tensione che c’era in
Germania, ma quando l’Olanda venne invasa dalle truppe naziste si ripresentò il
volto truce e demoniaco della svastica. Presi così coscienza che dovevo
compiere fino in fondo la volontà di Dio con una «Scientia crucis» (la
scienza della croce) che aveva caratterizzato il mio nome dal momento
dell’entrata nel Carmelo. Dal profondo del cuore pronunciavo incessantemente: «Ave,
Crux, spes unica
» (ti saluto, croce, nostra unica speranza).

A Echt ti raggiunse tua sorella
Rosa che, seguendo le tue orme, si era convertita al Cattolicesimo ed era
diventata Carmelitana.

Sì!
Ma fummo scovate dai nazisti, i quali irruppero il 2 agosto 1942 nel nostro
monastero e ci avviarono al campo di raccolta di Westerbork, da dove il 7
agosto fummo messe sul treno insieme a migliaia di altri deportati destinati
alle camere a gas di Auschwitz.

E ad Auschwitz fosti inghiottita
dall’olocausto che si compiva sul popolo d’Israele.

Giunta
ad Auschwitz mi prodigai per tutte le persone del mio popolo che erano in preda
alla disperazione e allo sconforto. Mi occupai soprattutto delle donne,
consolandole, cercando di calmarle e avendo cura dei più piccoli.

Il
9 di agosto suor Teresa Benedetta della Croce, insieme a sua sorella Rosa e a
molti altri ebrei, venne avviata alle camere a gas del campo di sterminio, dove
trovò la morte, una sorte toccata a sei milioni di ebrei e che noi oggi
ricordiamo col termine Shoah.

Ebrea
per nascita, cristiana per scelta, dopo un lungo cammino di ricerca, elevandosi
alle più alte vette della spiritualità delle due religioni che tanto avevano
inciso nella sua esistenza, è diventata esempio affascinante e luminoso per
quanti cercano la verità con amore tenace e coraggioso. Il 1° maggio 1987
Giovanni Paolo II nel duomo di Colonia, nella cerimonia liturgica di
beatificazione dichiarò che era: «Una figlia d’Israele, che durante le
persecuzioni dei nazisti è rimasta unita con fede e amore al Signore crocifisso
Gesù Cristo, quale cattolica, e al suo popolo, quale figlia d’Israele”.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera




Santa Idelgarda di Bingen

Ildegarda nasce nell’estate del
1089 a Bermersheim, presso Alzey, nell’Assia-Renana in Germania, ultima di
dieci fratelli. Fin da bambina ha delle visioni che l’accompagneranno per tutta
la vita. A otto anni i suoi genitori, Ildeberto e Matilda di Vendersheim,
l’affidano al monastero di Disibodenberg, dove viene educata da Jutta di
Sponheim. A quindici anni emette la professione monastica e si avvia con
entusiasmo allo studio di opere patristiche e teologiche. Alla morte di suor
Jutta, intorno al 1136, Ildegarda le succede come magistra. Di salute
malferma, ma vigorosa nello spirito, si impegna a fondo per il rinnovamento
della vita religiosa del suo tempo e mantiene un intenso scambio epistolare con
personaggi di rilievo. Scrive inoltre trattati di filosofia e teologia, di
medicina, scienza e persino cosmologia; trova il tempo di comporre anche brani
musicali. Colpita da malattia nell’estate del 1179, Ildegarda si spegne in fama
di santità nel monastero del Rupertsberg, presso Bingen, il 17 settembre dello
stesso anno.

A essere sincero sono molto emozionato
nell’entrare in dialogo con una donna consacrata come te, una monaca
contemplativa, che durante la sua vita incise non poco nelle vicende ecclesiali
del suo tempo, in particolare nella sua terra, la Germania. Mi faccio forza
quindi, e ti chiedo di parlarci un po’ della tua vita.

Fin
dalla mia infanzia sono stata prescelta da Dio, che mi ha fatto dono di un
fenomeno molto particolare, ossia delle visioni celestiali che, data la mia
giovane età. Inizialmente non riuscivo a capire, ma in seguito pian piano
imparai a riconoscerle come doni del Signore affinché io mi dedicassi e
consacrassi totalmente a Lui.

I tuoi genitori come vivevano questo
fatto? Ne erano spaventati oppure tentavano di nascondere quello che tu stavi
vivendo per non suscitare troppo clamore attorno a te?

Certo
erano anche loro meravigliati di quello che mi succedeva, perciò all’età di
otto anni mi affidarono al monastero di Disibodenberg. Non appaia questo, a voi
modei, un gesto coercitivo. Ai miei tempi infatti era abbastanza normale che
sin da bambini si entrasse a far parte della comunità di un monastero. Del
resto, anche altre Sante entrarono in monastero in età piuttosto giovane, per
non dire adolescenziale.

Appartenente a una famiglia nobile e
affidata a una comunità monastica, fu abbastanza facile per te ricevere
un’istruzione di prim’ordine e nel contempo essere educata secondo le regole di
San Benedetto.

In
convento ebbi la fortuna di avere come Madre Maestra (Mater Magistra
come si diceva allora), Jutta di Sponheim, una nobile tedesca che si era
consacrata al Signore, dotata di un’intelligenza fuori dal comune e molto
addentro alle questioni teologiche, filosofiche di quel tempo. Fui presa sotto
la sua ala protettrice e grazie a lei ebbi un’istruzione di prim’ordine,
imparando ad accostarmi ai testi teologici e della nascente teologia scolastica
medioevale, che, data la presenza di personaggi di spicco miei contemporanei
come san Beardo e sant’Anselmo d’Aosta e influenze come quelle della scuola
di Chartres, cominciavano a circolare e a essere conosciuti nei circoli
accademici, nonché ovviamente in ambito religioso.

Ti piaceva studiare, addentrarti nei
meandri della Patristica e della teologia?

Molto,
in questa passione mi buttai a capofitto leggendo quasi tutti i testi dei santi
Padri in circolazione e i libri dell’enciclopedismo medioevale. Avevo una
particolare preferenza per san Dionigi l’Areopagita e il grande padre della
Chiesa, sant’Agostino di Ippona.

Con l’istruzione che hai avuto quindi non
ti deve essere costato molto scrivere anche ciò che sperimentavi durante le tue
visioni.

Di
certe cose ero piuttosto restia a parlare. Ma dopo i quarant’anni capii che i
doni che il Signore mi faceva dovevo condividerli con gli altri. Incominciai a
scrivere con particolare intensità tutto ciò che avveniva in me. Io non le
definivo visioni del cuore o della mente, ma, essendo visioni che prendevano tutto
il mio essere, fisico, psichico e spirituale, preferivo chiamarle: «Visioni
dell’anima».

Immagino che avendo tu acquisito una certa
notorietà per la santità di vita e per i trattati che hai scritto e che
cominciavano a circolare, molta gente ricorresse a te per avere dei consigli o
preziosi aiuti spirituali.

Sì.
Ma oltre a queste cose, cominciavano anche a chiamarmi a predicare nei villaggi
e nelle città. Del resto tutta la comunità civile e religiosa sentiva il
bisogno di una riforma morale del clero, dei monaci e del popolo. In questo
senso compii diversi viaggi pastorali e predicai nelle cattedrali di Colonia,
di Treviri, di Liegi, di Magonza, di Metz e di altre città.

Beh, per l’immagine che abbiamo noi del
Medioevo: quella di un’epoca triste e buia, sapere di una donna – sia pure
monaca – che predicava alla gente e al clero nelle cattedrali delle città
tedesche provoca un certo effetto.

Qualcuno
pensa che questo mio modo di fare sia l’antesignano del femminismo come lo
conoscete voi. In realtà il ruolo della donna nella Chiesa è sempre stato un
ruolo importante, anche se ha compiti diversi da quelli degli uomini. Inoltre,
all’interno dei nostri monasteri e dei nostri conventi, si provvedeva a
eleggere democraticamente i superiori, una cosa che neanche la società civile
medioevale riusciva a concepire. Questo per dire come bisogna smontare gli
stereotipi che, da un certo momento in poi, hanno fatto da padroni nella storia
della Chiesa.

Prova a sintetizzare la specificità della
tua predicazione e delle tue riflessioni teologiche che avevano tanto successo
e che ti ponevano ben al di sopra di tanti eruditi del tempo?

Cercavo
di manifestare la straordinaria armonia che esiste tra la Parola di Dio, la
dottrina cristiana che ne consegue e la vita quotidiana. Per capire sempre
meglio e sempre di più qual era il disegno che il Signore aveva su di me,
approfondivo le radici bibliche, liturgiche e patristiche alla luce della
Regola di san Benedetto, dando così origine e consistenza a una riflessione che
incideva sia nella prassi del popolo cristiano, che nella vita dei consacrati.
In questo modo, la pratica dell’obbedienza alla regola di vita del nostro
grande fondatore, san Benedetto da Norcia, faceva sì che la semplicità
dell’esistenza, l’ospitalità e la carità verso gli altri, fossero vissute come
una totale imitazione di Cristo. Proprio attraverso questa testimonianza si
riesce a lasciare traccia del mistero di Dio che agisce nella nostra vita.

Immagino che la considerazione culturale
che ti eri conquistata e la tua fama di santità abbiano richiamato discepoli –
o meglio, discepole – che volevano vivere la vita comunitaria accanto a una
persona così straordinaria, benedetta dal Signore con grazie particolari.

Quella
fu una stagione meravigliosa, le sorelle cominciarono ad arrivare e a un certo
punto diventammo così numerose che intorno al 1150 fondammo un monastero sul
colle chiamato Rupertsberg, nei pressi di Bingen, dove mi trasferii insieme a
diverse consorelle. Nel 1165, ne istituii un altro a Eibingen, sulla riva
opposta del Reno. In entrambi i monasteri fui nominata badessa, ma la mia
preoccupazione principale fu quella di curare sempre il bene spirituale e
materiale delle consorelle, che sentivo ormai figlie mie, favorendo in modo
particolare l’armonia della vita comunitaria, l’istruzione delle persone e una
pratica liturgica sempre accurata. Nei nostri monasteri davamo rilievo
all’ospitalità: accogliere cioè chi ricercava un luogo per riposare, pregare,
istruirsi e stare un po’ di tempo insieme al Signore.

Durante la tua vita sei entrata in
contatto con personaggi illustri del tuo tempo, ce ne vuoi parlare?

Ebbi
uno scambio di lettere con l’imperatore Federico Barbarossa, con il conte
Filippo d’Alsazia, con san Beardo di Chiaravalle e con il Papa Eugenio III.
L’imperatore Federico Barbarossa si pavoneggiava un po’ dicendo che lui era il
mio protettore, ma quando si schierò contro il Papa Alessandro III, nominando
ben due antipapi, io e Beardo da Chiaravalle gli scrivemmo una lettera di
fuoco per aiutarlo a riconsiderare la cosa. Devo dire che Federico accettò il
nostro richiamo e non intraprese nessuna iniziativa punitiva nei nostri
confronti.

Se non vado errato, ti sei occupata oltre
che di teologia, di politica, ecc., anche di scienza e di medicina.

Beh,
con le conoscenze del tempo, più che di scienza e di medicina, badavo al
rapporto che l’uomo, con le sue emozioni e con la sua razionalità, può avere
con la natura, perché questa è una preziosa alleata quando si tratta di guarire
dalle malattie. C’è un’energia vitale tra la creatura e il creato che sfugge a
un’esperienza empirica, ma che è profondamente vera e autentica in una
dimensione spirituale. Il rapporto, infatti, tra la persona e l’universo, è un
rapporto fondamentale che Dio stesso ha voluto. Bisogna aver cura quindi di ciò
che ci circonda. Il nostro pianeta, se trattato bene, saprà ridare il centuplo
all’uomo che ha nei suoi confronti un’attenzione tutta particolare.

Cara sant’Ildegarda, pur essendo tu una
figura di spicco del XII secolo, sei più modea di tanti nostri contemporanei.

Il
Signore, nella sua divina sapienza e benevolenza, fa in modo che le persone
considerate punti di riferimento per la loro vita cristallina non siano
soltanto ammirate da chi vive durante la loro epoca, ma siano esempio per ogni
tempo.

Sant’Ildegarda
di Bingen morì il 17 settembre 1179. Fu proclamata Santa a furor di popolo
quasi subito. Papa Giovanni Paolo II nella ricorrenza dell’ottocentesimo
anniversario della sua morte, la definì «la profetessa della Germania», una
donna «che non esitò ad uscire dal convento per incontrare, intrepida
interlocutrice, vescovi, autorità civili, e lo stesso imperatore Federico
Barbarossa». Alla santità del genio di Ildegarda, Papa Wojtyla fa cenno
nell’Enciclica sulla dignità femminile, Mulieris Dignitatem. Nel maggio
del 2012, Benedetto XVI l’ha proclamata Dottore della Chiesa.

 
Don Mario Bandera, Direttore Missio Novara

Mario Bandera




Pedro Claver

Missionario gesuita spagnolo
originario della Catalogna, è il santo che maggiormente ha impressionato per il
suo apostolato in mezzo agli schiavi africani deportati nelle Americhe. È una
delle figure più straordinarie della prima evangelizzazione del Nuovo Mondo. Si
calcola che nella sua vita abbia battezzato più di 300 mila africani che,
strappati dalla loro terra, erano stati brutalmente riversati sulle rive del
continente scoperto da Cristoforo Colombo.

Pedro, sei una persona
eccezionale, un santo unico nel tuo genere, uomini come te sono rari e preziosi
per la testimonianza che danno ai cristiani di ogni tempo. Parlaci un po’ di
te.

Sono
nato a Verdú, una cittadina vicina a Lérida nella regione catalana del Regno di
Spagna, il 25 giugno 1581, da una famiglia di modeste condizioni. I miei
genitori volevano che conseguissi un titolo di studio per poter emergere nel
contesto della società del tempo.

Che scuole hai fatto?

Mi
iscrissi alle scuole che i gesuiti avevano aperto in diverse città della
Spagna, studiai materie umanistiche a Maiorca e mi laureai all’Università di
Barcellona, approfondendo filosofia e psicologia. Poi fui conquistato dal
carisma del nuovo ordine fondato da Ignazio di Loyola e, sull’esempio di
Francesco Saverio che era andato in India e in Giappone, decisi di farmi
missionario anch’io e di partire per i Nuovi Mondi che iniziavano allora a
essere conosciuti dagli europei.

Hai un ricordo particolare di quel
periodo?

Mentre
studiavo a Maiorca il frate portinaio del convento, fra’ Alfonso Rodriguez, un
mercante di Segovia rimasto solo per la morte di tutti i suoi famigliari, mi
indicò quale doveva essere la mia missione specifica, ovvero partire per le
Americhe. Egli incise profondamente non solo nella mia vita: con il suo modo di
fare umile e servizievole, divenne un maestro di spiritualità per tanti giovani
aspiranti gesuiti. La sua stanza era un’altra aula scolastica dove imparavamo
la spiritualità del servizio verso i più poveri e più bisognosi.

Una bella lezione di vita… e poi
come andò?

Completati
gli studi ed emessi i voti religiosi, fui mandato in America: nel 1610 sbarcai
a Cartagena, nell’attuale Colombia, in piena crescita tumultuosa e caotica.
Quella fu la terra che mi accolse e dove svolsi il mio apostolato per 44 lunghi
anni.

Cosa ti colpì di più della nuova
realtà?

Una
cosa terrificante, come un tremendo pugno nello stomaco, fu constatare di
persona come erano ridotti gli uomini dalla pelle nera, catturati in Africa e
venduti come schiavi nelle nuove colonie. Colpito da questo fatto, capii che
dovevo impegnarmi a vivere solo per queste persone, un proposito condensato nel
motto: «Aethiopum semper servus», totalmente a servizio degli «etiopi»,
come venivano chiamati a quei tempi quelli che provenivano dall’Africa.

Saresti in grado di definire
quanti schiavi arrivavano in un anno a Cartagena?

Alcuni
storici calcolano che nei secoli segnati dalla tratta degli schiavi siano stati
deportati circa 15 milioni di esseri umani. Si può dire che ai miei tempi a
Cartagena arrivavano ogni anno migliaia di schiavi africani ed erano quasi
tutti giovani, perché i razziatori non catturavano invalidi o vecchi, ma i
sani, i robusti dell’uno e dell’altro sesso.

Il
«lavoro infame» di razziare e catturare le persone nell’interno del continente
era fatto dagli arabi, di religione islamica, mentre comandanti ed equipaggi
delle flotte che trasportavano quei poveretti lungo la tratta atlantica erano
cristianissimi e cattolicissimi… Quando si tratta di far soldi le coscienze
sporche dell’una e dell’altra religione non vanno per il sottile!

In che cosa consisteva la tua
azione in favore di questi poveretti?

Quando
veniva segnalato l’arrivo di un carico di schiavi andavo loro incontro con una
mia barca in mare aperto e portavo loro cibo, soccorso e conforto e mi
guadagnavo così la loro fiducia, una cosa che mi risultava preziosa una volta
sbarcati e ammassati a Cartagena, dove potevo continuare a incontrarli e a
offrire quel poco di consolazione che potevo dar loro.

E come facevi per la lingua?

Radunai
delle persone che parlavano dialetti diversi, facendo così un gruppo di
interpreti di varie etnie che con il tempo diventarono anche dei validi
catechisti. Alla domenica soprattutto passavo gran parte della giornata con
loro, specialmente con i nuovi arrivati, andando incontro alle loro necessità e
cercando di difenderli, come potevo, dai loro oppressori.

Nel prenderti cura di queste
persone, che cosa ti stava più a cuore?

In
un ambiente pieno di sofferenza e disperazione, io davo loro speranza,
presentando loro la figura di Gesù di Nazareth. A gente che non aveva più
nulla, che aveva perso tutto, specialmente il rispetto degli altri uomini,
facevo presente quanto fosse importante non perdere la propria dignità.
Acquistai quindi la loro fiducia e molta gente incominciò a confidarsi con me e
ad avvicinarsi al Vangelo di Cristo.

Io
non lo so di preciso, ma alcuni calcolano che abbia battezzato più di 300 mila
persone, una cosa impressionante per i miei tempi, soprattutto se si calcola
che a questa gente il battesimo veniva dato dopo un cammino catecumenale e non
imposto con metodi coercitivi, come facevano gli hacienderos con gli
indigeni.

Com’era vista dai conquistatori
spagnoli
e dalle famiglie creole la tua
azione a favore di questi sfortunati dalla pelle nera?

Fui
accusato di tutto e di più: di azione incauta, di profanare i sacramenti, in
quanto li davo a creature che «a malapena possedevano un’anima» (sic!). Le
nobildonne di Cartagena si rifiutavano di entrare nelle chiese dove io riunivo
questi poveretti. Queste critiche, purtroppo, influenzarono anche alcuni miei
superiori. Ma io continuavo imperterrito per la mia strada, accettando pesanti
umiliazioni e aggiungendo penitenze rigorose per la buona riuscita delle mie
opere di carità. Sentivo dentro di me che quello che facevo rispondeva al piano
di Dio, che vuole la salvezza di tutti i suoi figli.

Nella tua azione in favore degli
schiavi eri solo o qualcuno ti aiutava?

Con
me c’era il padre Alonso de Sandoval, a cui va il merito di aver tenuto conto
per iscritto da quale porto dell’Africa erano partite le navi ed enumerato le
etnie che componevano il loro carico. Egli iniziò, e io continuai, a riscattare
alcuni schiavi di diverse lingue africane che furono di grande aiuto; un’azione
che oggi chiamano mediazione culturale.

Non ti venne mai in mente di
denunciare la schiavitù come qualcosa da abolire, perché contraria alla dignità
delle persone?

Questo
è un modo di travisare la storia: non si possono applicare i concetti di lotta
di classe agli schiavi dell’antica Roma; così pure non si possono applicare
alla mia epoca idee e concetti che sono andati maturando lungo i secoli
seguenti.

Durante
quel periodo non si facevano teorizzazioni dottrinali sul problema della
schiavitù, né denunce alle autorità per i soprusi che venivano compiuti. La
preoccupazione mia, di padre Sandoval e di altri missionari, era quella di una
totale dedizione nel quotidiano servizio agli schiavi, in un certo qual modo la
nostra era una vicinanza tesa molto più a ridare speranza e dignità che a
mettere in libertà gli schiavi.

Però in quel tempo si cominciò a
prendere coscienza dell’idea che nessun uomo potesse essere padrone di altri
uomini.

Altri
missionari avviarono il cammino della difesa giuridica degli schiavi e della
denuncia pubblica contro la schiavitù, Gesuiti, Domenicani e Cappuccini, a
Cuba, in Colombia e in Venezuela, cominciarono a denunciare con parole
durissime la schiavitù. Padre Francisco Josè de Jaca e padre Epifanio de
Moirans, scrivevano che «la schiavitù africana è ingiusta… i negri non
soltanto si rendono liberi ricevendo il battesimo; lo sono già prima per
diritto naturale. Non esiste solo l’obbligo di restituire loro la libertà, bensì,
in forza della giustizia, si deve pagare loro ciò che hanno perso durante la
schiavitù, il lavoro e i danni subiti…».

Queste prese di posizione che
influenza ebbero sulla società del tempo?

Il
Consiglio delle Indie ripudiò l’atteggiamento antischiavista dei due cappuccini
affermando che: «Senza la schiavitù dei neri le Americhe sarebbero condannate
alla rovina totale». Del resto negli Stati Uniti per abolire la schiavitù ci fu
bisogno di una guerra civile e l’ultimo paese latinoamericano che la abolì fu
il Brasile nel 1871, con la così detta «Lei do Ventre Livre», in cui non
si dava la libertà agli schiavi, ma a partire da quella data i figli degli
schiavi sarebbero nati liberi; successivamente, con la «Lei Aurea» del
1888, fu restituita la piena libertà a tutti.

Come sempre i privilegi dei più
forti prevalsero sui diritti e sulla dignità di milioni di esseri umani.

Una
logica ben radicata ai miei tempi ma non del tutto scomparsa nel vostro mondo:
con forme più sottili, la schiavitù sulle persone, la tratta degli esseri
umani, e purtroppo anche dei bambini, continuano ancora in questi giorni
nell’indifferenza generale di una società che si dice più avanzata, libera e
democratica di quella del mio tempo.

San Pedro Claver Corberó muore consumato dalla febbre e dalle
malattie l’8 settembre 1654, i suoi ultimi anni li vive offrendo la sua
condizione di persona debole e fragile al Signore per il riscatto dei suoi
figli africani. Viene canonizzato nel 1888 da Leone XIII insieme ad Alfonso
Rodriguez, il fratello portinaio di Maiorca che gli preconizzò il cammino che
doveva fare. È patrono delle missioni cattoliche tra i popoli dell’Africa nera
e degli afroamericani.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera




Perpetua e Felicita

Perpetua
e Felicita, nobildonna cartaginese la prima e schiava/amica fedele la seconda,
sono protagoniste di un evento straordinario di testimonianza della loro fede
cristiana nella città di Cartagine del III secolo. Durante la persecuzione
dell’imperatore Settimio Severo, invitate a bruciare incenso alla statua
dell’imperatore, esse risposero con un fermo rifiuto. Il loro processo è uno
dei rari documenti pervenuti fino a noi di condanna a morte dei cristiani. Esse
sono ricordate nel canone romano dell’Eucarestia.

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Carissime, di fronte a voi che avete saputo dare la vita per essere fedeli a Cristo Signore, mi sento piuttosto imbarazzato. Volete presentarvi?

Perpetua: Sono una giovane donna, di poco più di vent’anni, sposata e madre di un bambino. Appartengo al ceto sociale più alto della città di Cartagine. Nella mia casa vivono anche diverse persone che la logica del tempo considerava schiave, ma che, dopo aver incontrato il Vangelo di Gesù e la sua straordinaria prospettiva di vita, sono diventate per me come fratelli e sorelle, a cui è la mia famiglia che ha la responsabilità di garantire una vita degna.

Felicita: Io, che nella condizione di schiava vivo presso Perpetua, mia padrona, mi sento più una persona di casa che una serva sfruttata per fare dei lavori pesanti.

E com’è che nel III secolo dopo Cristo Cartagine è una delle città più importanti del Nord Africa, parte integrante dell’Impero Romano?

Perpetua e Felicita: La posizione naturale della nostra città ne fa un punto nodale dei traffici, sia per mare che per terra, nonché base di partenza per le carovane dirette verso Sud, verso il grande deserto e allo stesso tempo è un porto strategico per il commercio con Roma imperiale, «caput mundi».

Resto stupito nel vedere che una città dell’Africa lontana da Gerusalemme abbia fra le sue mura, nel III secolo dopo la nascita del Salvatore, una fiorente comunità cristiana.

Perpetua e Felicita: Una delle cose più sconvolgenti che anche a noi stessi causa meraviglia è il constatare come il messaggio di amore e tenerezza portato da Gesù di Nazareth si sia diffuso così velocemente in tutto l’Impero Romano e in modo particolare nell’area mediterranea. Per usare le parole di sant’Agostino, un padre della Chiesa che diede lustro alla nostra terra africana: «Tre sono le cose incredibili e tuttavia avvenute: è incredibile che Cristo sia risuscitato nella sua carne, è incredibile che il mondo abbia creduto ad una cosa tanto incredibile, è incredibile che pochi uomini, sconosciuti, inermi, senza cultura abbiano potuto far credere con tanto successo al mondo, e in esso anche ai dotti, una cosa tanto incredibile!». Difficile non scorgere in questi avvenimenti il piano di Dio.

Cos’ha di così affascinante la Buona Notizia di Gesù di Nazareth da coinvolgere così tante persone e far loro cambiare drasticamente il genere di vita che conducono?

Felicita: Per noi schiavi il messaggio di Gesù di Nazareth è qualcosa di sconvolgente e meraviglioso allo stesso tempo. Nella scala sociale siamo considerati all’ultimo posto e la nostra vita è legata agli umori dei nostri padroni. Venire a sapere che puoi rivolgerti a Dio chiamandolo Padre e scoprire che la tua dignità di persona vale tanto quanto quella dell’imperatore, è sufficiente perché questo nuovo stile di vivere ti conquisti e tu non desideri altro che vivere il Suo amore dando testimonianza di ciò che ha insegnato.

Perpetua: Lo stesso discorso, anche se in maniera diversa, vale per i nobili della società dell’Impero Romano. È straordinario scoprire l’umanità di chi ti circonda e scoprire che nel mondo non conta avere tanti benefici se si ha un cuore arido incapace di accogliere la tenerezza di Dio e l’affetto del prossimo. Il messaggio del Vangelo va ben oltre le aspettative esistenti di un cambiamento, in quanto ciò che viene realmente modificato è il proprio cuore e la propria coscienza, per cui anche coloro che possiedono molto, sentono impellente e bruciante il bisogno di condividere i propri beni con altri più sfortunati di loro.

Come avvenne il vostro arresto?

Perpetua e Felicita: Durante la persecuzione, scatenata contro i cristiani dall’imperatore Settimio Severo, venne emanato un editto in cui ai governatori delle province veniva data la possibilità di «stanare» i cristiani, obbligandoli a bruciare incenso alla statua dell’imperatore, ritenuto dalla religione pagana un dio in terra. Questo per la nostra fede è inaccettabile, quindi fummo fatti sfilare davanti alle autorità romane, le quali avevano messo un braciere acceso ai piedi della statua dell’imperatore e venimmo invitati a gettare un po’ di incenso nel fuoco, attestando così lo status di divinità dell’imperatore. Ovviamente noi ci rifiutammo e fummo arrestati.

E che successe dopo?

Perpetua e Felicita: Nella disgrazia fummo fortunate; in carcere c’erano dei cristiani che alimentavano in noi la speranza, non di essere esentati dai supplizi e dai tormenti, ma di incontrare presto il Signore nel suo Regno e di stare con lui per l’eternità. E siccome noi non avevamo completato l’iniziazione cristiana, essendo ancora dei catecumeni, con noi in carcere era finito anche Satiro, il nostro catechista, il quale provvide, nelle lunghe giornate in cui aspettavamo la sentenza, a completare la nostra formazione e a battezzarci, offrendoci così quella grazia santificante e quella fortezza di spirito più che mai necessaria per affrontare quelle terribili prove che ci aspettavano.

Quali erano le condizioni del carcere?

Perpetua: Terribili! In ambienti angusti, con poca aria e luce a disposizione, erano rinchiuse molte persone, anche se tutti si mostravano gentili e disponibili verso di noi, in quanto io avevo il mio bambino ancora lattante con me, mentre Felicita contava i giorni che la separavano dal lieto evento della nascita di una creatura che aveva in grembo.

Felicita: Pur essendo rinchiusi in celle umide e malsane e con numerosi compagni imprigionati come noi per la loro fede, la mia amatissima sorella Perpetua aveva delle visioni che prefiguravano la nostra entrata nel Regno dei Cieli dopo quella terribile prova, che è paragonabile a ciò che visse Gesù sul Calvario.

E il processo come fu?

Perpetua e Felicita: Fu una farsa, era già tutto stabilito. Gli atti dei nostri interrogatori sono una delle poche pagine giunte sino a voi di come procedeva la giustizia romana verso coloro che considerava dei nemici. Agli inviti che i giudici facevano a noi affinché - vista la nostra condizione - abiurassimo la nostra fede e così ci salvassimo per rimanere accanto ai nostri figli, rispondevamo che alle nostre creature avrebbero pensato i nostri familiari, a noi premeva restare fedeli a Colui che ci aveva dato il vero senso di vivere, il significato di un’esistenza la cui fedeltà a Lui nel momento della morte ci avrebbe spalancato la porta del Regno dei Cieli.

E come vi comportaste voi?

Perpetua e Felicita: Alle domande che ci venivano rivolte rispondevamo con libertà e franchezza, non temevamo affatto il confronto con i nostri persecutori. In alcuni momenti avevamo la sensazione quasi palpabile che a parlare non fossimo noi, ma prestavamo la nostra voce alle risposte che Gesù stesso dava ai nostri inquisitori. Scoprimmo quell’atteggiamento che va sotto il nome di «parresia», ovvero quella franchezza di linguaggio che ci permetteva di rispondere a testa alta e senza remore alle domande più subdole e ai tranelli più iniqui che i funzionari dell’impero romano, ci tendevano.

Come viveste la sentenza?

Felicita: Nel momento in cui veniva pronunciata la condanna a morte che per noi fu applicata nel modo più orribile che si immaginasse a quei tempi, cioè tramite bestie feroci che ci avrebbero sbranati, il marito di Perpetua, che era ancora pagano, proruppe in alte grida invitandola a rinnegare la propria fede, ma la mia padrona, o meglio mia sorella nella fede, rimase ferma nel suo proposito di essere fedele al Signore Gesù e quindi, deposto tra le braccia del marito il suo bambino, si avviò tranquilla verso la gloria dei martiri.

Perpetua: Dopo la sentenza, nei giorni passati in carcere, in attesa che arrivasse una festa in cui ci fossero dei giochi e tra questi lo spettacolo orribile offerto alla folla di belve scatenate che si avventavano contro i cristiani, la mia cara Felicita partorì una creatura che fu affidata a una sua parente. Dopo alcuni giorni, tenendoci per mano, insieme ad altri cristiani, cantando entrammo nell’arena. Lì, guardando con occhi solo umani, si sarebbe consumato il nostro sacrificio, che noi, invece, dal punto di vista della fede, consideravamo l’incontro con il Signore Gesù, questa volta per rimane accanto a Lui per sempre.

Perpetua durante il periodo del carcere mantenne un diario in cui annotò tutto quello che stava vivendo lei e la sua schiava Felicita, ma non poté narrare l’epilogo della loro vicenda. Altri cristiani che assistettero al loro martirio scrissero, descrivendo gli ultimi istanti della loro vita, completando così la loro testimonianza di fede. Ciò che restò come documento scritto divenne un punto di forza e di edificazione. Dalla semplicità dello stile si coglie una fede diamantina e un amore sconvolgente per Gesù, certezza assoluta dei primi martiri cristiani; c’è il coraggio e la fermezza con la quale seppero affrontare i patimenti e la morte nel nome di Cristo, che, gioverà ricordare, ha assicurato ai discepoli di ogni tempo, che i persecutori e gli aguzzini possono uccidere il corpo, ma non possono nulla contro le anime, le coscienze e gli ideali che essi incarnano. Le annotazioni di Perpetua furono poi raccolte nella «Passione di Perpetua e Felicita», opera - si dice - di Tertulliano, padre della Chiesa d’Africa dei primi secoli, per essere consegnati alla memoria futura delle generazioni cristiane.

 
Don Mario Bandera
Direttore Missio Novara
Mario Bandera




Bartolomé De Las Casas

Bartolomé De Las Casas (1484 – 1566) una delle figure più
rappresentative dell’opera evangelizzatrice e di difesa degli indios del
continente scoperto (o conquistato?) da Cristoforo Colombo, ha accettato di
colloquiare con noi sulla sua vita avventurosa e suggestiva.

Da parte mia c’è un po’ di
soggezione di fronte a una persona così carismatica, ma allo stesso tempo sono
ansioso di porti alcune domande. Innanzitutto presentati ai nostri lettori.

Sono
nato a Siviglia nel 1484. Mio padre e mio zio avevano partecipato alla seconda
spedizione di Cristoforo Colombo nel 1493. Nel 1502, all’età di 18 anni, misi
piede per la prima volta in America, sull’isola di Hispaniola (l’attuale Santo
Domingo) al seguito del governatore Nicolás de Ovando. A partire dal 1505 mi fu
assegnato in encomienda un certo numero di indios che lavoravano per me
nelle miniere e nelle terre, facendo prosperare i miei affari.

Parli di «encomienda»: per noi del
XXI secolo è un termine non facile da capire fino in fondo. Di che cosa si
trattava?

L’encomienda
coloniale, che in italiano si può tradurre con «incarico», consisteva
nell’affidare a degli encomenderos, cioè a noi spagnoli, determinati
territori abitati da un gruppo di indigeni con lo scopo di rendere fruttuosa la
terra con le nuove tecniche agricole. Gli indigeni dovevano quindi lavorare
(gratis) per noi che avevamo l’obbligo di colonizzarli e cristianizzarli. L’encomienda
fu quindi una geniale istituzione che permise alla Corona di Spagna di
consolidare la colonizzazione dei nuovi territori, attraverso l’assoggettamento
fisico, morale e religioso delle popolazioni precolombiane.

Quindi il tuo andare nelle terre
appena scoperte non era legato a motivi prettamente religiosi come portare alla
fede gli indigeni e diffondere il Vangelo?

Niente
affatto. Partii per le Americhe con l’idea di far fortuna e rimpinguare il
patrimonio di famiglia, assottigliatosi per una serie di disavventure
familiari.

Cosa cambiò la tua visione di vita
dopo aver preso conoscienza della nuova realtà?

Durante
una messa celebrata sull’isola di Hispaniola nel dicembre 1511, il frate
domenicano Antonio Montesinos pronunciò un vibrante sermone in difesa della
vita e dei diritti degli indios. La sua omelia era il risultato della
riflessione e dell’impegno di una piccola comunità domenicana, presente da poco
tempo sull’isola; una comunità che si era lasciata interrogare dalla realtà
drammatica in cui viveva e che aveva trovato il coraggio di denunciare il
comportamento dei conquistadores. Ne rimasi affascinato e colpito!

Fu lì che ebbe inizio la tua
conversione?

Direi
proprio di sì! Anzi, dirò di più: il sermone di fra’ Montesinos, in quella
terra appena conquistata dagli spagnoli, ha avviato un processo importante che
ha attraversato i secoli. Da quel giorno nell’Ordine Domenicano è nata una
riflessione in cui la figura dell’indigeno veniva vista in maniera diversa, un
cambio di prospettiva che con il tempo creò addirittura le basi della
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

Che effetto fecero su di te quelle
parole?

Presi
coscienza che non potevo sfruttare gli indigeni, gente che fino a pochi anni
prima viveva libera sulla propria terra e che solo alcuni decenni dopo era
assoggettata al volere dei nuovi arrivati. Vedevo sempre più deperire gli
indigeni, ammalarsi e, quello che è peggio, perdere qualsiasi prospettiva per
il futuro con un minimo di speranza per la vita loro e per i loro figli. Toai
in Europa, entrai nell’Ordine dei Domenicani, dove nel 1507 venni ordinato
sacerdote di Cristo.

Però in Europa non sei rimasto a
lungo.

Dopo
alcuni anni ritornai nelle Americhe; in quel periodo viaggiai molto: Guatemala,
Nicaragua, Cuba, Santo Domingo, Puertorico, Messico, mettendomi al servizio dei
nativi e allo stesso tempo cercando di convincere i nuovi arrivati a trattare
questi esseri umani nello stesso modo in cui trattavano i loro simili. Ma il
mio modo di fare e quello dei miei confratelli cozzava contro la sete di
conquista e di potere che avevano gli avventurieri, approdati nel nuovo mondo
al solo scopo di far fortuna e arricchirsi.

Di fronte all’insensibilità dei
tuoi compatrioti quale linea di azione hai seguito?

Nell’ottobre
1515, insieme a fra’ Antonio de Montesinos, decidemmo di ritornare in Spagna
per informare la Corona sulle ingiustizie commesse contro gli indigeni e sulle
sofferenze che essi pativano.

Foste ricevuti dal re?

Certamente.
Lo ponemmo al corrente di quello che succedeva nelle sue colonie nel nuovo
mondo. Impressionato da quanto gli esponevamo, ci fissò una seconda udienza,
purtroppo il re morì qualche mese dopo. Tutto rischiava di finire in una bolla
di sapone.

Come vi siete comportati allora?

Decidemmo
di andare nelle Fiandre per parlare col principe Carlo, diventato l’imperatore
Carlo V. Prima però incontrammo a Madrid i cardinali Francisco Jiménez de
Cisneros e Adriaan Florenszoon Boeyens, il futuro papa Adriano VI, e li
mettemmo al corrente sulla realtà creatasi nelle colonie. L’imperatore emanò
uno scritto in cui ordinava di applicare agli indigeni gli stessi atteggiamenti
riservati agli spagnoli. Il cardinal Cisneros mi nominò addirittura «protettore
degli indios» e inviò una delegazione per verificare la situazione. Dopo tali
delibere tornai in America.

E che trovasti al tuo ritorno?

Purtroppo
la delegazione, venuta a controllare le condizioni degli indigeni, si lasciò
abbindolare dai conquistadores e ne assunsero le posizioni: giudicarono
gli indigeni persone di poco conto, da trattare poco meglio degli animali.
Indignato, tornai in Spagna per informare l’imperatore di come gli spagnoli
trattavano i nativi. Purtroppo anche in Spagna stava attecchendo l’idea assurda
che gli indigeni fossero esseri inferiori agli uomini bianchi.

Non ci posso credere!

Figurati,
che un intellettuale del tempo, tale Juan Gines de Sepúlveda, sosteneva
l’inferiorità degli indios e la necessità di sottometterli per evangelizzarli.
Egli definiva i nativi americani non come uomini ma come «humuncoli»,
cioè esseri di razza inferiore. Tuttavia, i pensatori domenicani in Europa e
nelle Americhe, l’Università di Salamanca non erano d’accordo e sostenevano che
i nativi americani fossero uomini come noi, con tutti i nostri stessi diritti.

Di fronte a tali idee, che
rischiavano di compromettere tutto il lavoro che portavate avanti, non
rimanesti con le mani in mano.

Carlo
V volle che la controversia fosse discussa a livello accademico tra Sepúlveda e
il sottoscritto. Io sostenevo che gli indios americani fossero uguali a noi,
mentre Sepúlveda sosteneva che essi non avevano la stessa dignità degli
europei. La disputa si tenne a Valladolid e durò diversi mesi senza esclusione
di colpi da una parte e dall’altra, ma alla fine la spuntai e quella che era la
dottrina tradizionale della Chiesa, del pieno rispetto e piena dignità di ogni
uomo, schiavo, pagano o cristiano che fosse, alla fine trionfò. Le idee di Sepúlveda
vennero condannate e gli scritti proibiti; ma il confronto ebbe il merito di
sollevare il problema dell’evangelizzazione dei nuovi popoli.

Qual era il punto più spinoso con
cui bisognava fare i conti?

Il
punto più controverso era quello di stabilire se era giusto usare la forza per
evangelizzare i nativi oppure – come sostenevo io – se bisognava rispettare la
loro coscienza e procedere nell’annuncio del Vangelo nel pieno rispetto della
dignità della persona.

Il tuo compito era concluso in
terra di Spagna?

Direi
di sì. La Corona promulgò degli editti in cui era fatto divieto ai conquistadores
di maltrattare e obbligare gli indios ai loro voleri. Purtroppo tali leggi
furono largamente disattese! E il prezzo di questa miopia la pagate ancora
oggi.

Le tue mosse successive quali
furono?

Con
questa vittoria, teologica per un verso e morale per un altro, feci ritorno nel
Nuovo Mondo, dopo essere stato consacrato vescovo, con ben quaranta missionari,
anche loro decisi a procedere con l’evangelizzazione nel rispetto più totale
delle persone.

Come ti accolsero al tuo ritorno?

Gli
spagnoli, in virtù dell’opera di convincimento a favore degli indigeni che
avevo fatto presso la Corona, mi ricevettero con freddezza e ostilità. Il
governatore non fu molto tenero nei miei confronti: fedele al principio «promoveatur
ut amoveatur
», mi assegnò una diocesi nel territorio di Ciudad Real, in una
zona del sud-est messicano, denominata Chiapas (oggi San Cristóbal de Las
Casas).

E come operasti nella nuova sede
in Chiapas?

Come
vescovo mi adoperai subito per visitare tutti i villaggi e feci in modo che i
nativi della zona fossero trattati con umanità e rispetto. Nei sinodi che si
tenevano in quel tempo cercai di portare avanti ciò che mi stava più a cuore:
il rispetto verso quelle creature il cui destino era stato particolarmente
ingrato.

Sei rimasto in America fino alla
fine dei tuoi giorni?

Dopo
alcuni decenni di apostolato in terra messicana, ammalato, vecchio e stanco, ma
con l’indomabile ardore di sempre, feci ritorno in Spagna dove completai la
scrittura di diverse opere, sempre in difesa degli indios, la più famosa delle
quali è: Brevissimo rapporto sulla distruzione delle Indie. E in Spagna
conclusi la mia vita terrena, conservando fino all’ultimo nel cuore l’affetto e
il rispetto sconfinato per i miei indios americani.

Don Mario Bandera
Direttore Missio Novara

Mario bandera




San Francesco di Sales

San Francesco di Sales (1567-1622), vescovo di Ginevra e
dottore della Chiesa, è certamente un santo che ha realizzato nel migliore dei
modi il detto popolare: «Si prendono più mosche con un cucchiaio di miele che
con un barile di aceto». Vissuto in un tempo in cui le guerre di religione tra
i vari stati europei lasciavano tracce indelebili nelle popolazioni coinvolte
per la violenza con cui si consumavano e producevano lacerazione nelle
coscienze per motivi di fede, egli seppe arrivare al cuore degli avversari
attraverso un modo di essere e di relazionarsi, caratterizzato da uno stile
sobrio e pacato nell’esporre le sue ragioni e, soprattutto con scritti
raffinati ed eleganti, seppe guadagnarsi la stima di tutti.


Sei un santo un po’ speciale,
parlaci della tua vita.

Sono
nato in Savoia il 21 agosto 1567 nel castello di Sales, proprietà della mia
antica e nobile famiglia. Fin dalla più tenera età ho ricevuto un’accurata
educazione che ho completato con gli studi in giurisprudenza nelle Università
di Parigi e di Padova.

Quindi la tua carriera era già
definita fin dall’infanzia; in fondo un giovane ricco e nobile, laureato a
pieni voti in Università così rinomate, aveva la strada spianata per il futuro.

Infatti ritornato in patria fui subito nominato avvocato
del Senato di Chambéry, capitale della Savoia, dove però rimasi pochi anni perché
la vocazione sacerdotale, che avevo avvertito fin dai primi anni della mia
giovinezza, mi portò verso gli studi di teologia: ricevetti l’ordinazione nel
dicembre del 1593, con grande delusione dei miei familiari e di quanti si
aspettavano che seguissi le orme dei miei avi.

Se non vado errato, sei vissuto in
un’epoca caratterizzata dalle conseguenze della Riforma protestante avviata da
Lutero e da altri riformatori come Calvino, Zwingli, ecc.

È vero. Il clima sociale e religioso era quello
travagliato e tormentato del periodo tra il XVI e il XVII secolo: alla Riforma
protestante faceva seguito la Riforma Cattolica (spesso chiamata erroneamente
Controriforma). Buona parte dei principi tedeschi aveva abbracciato le idee di
Lutero, trascinando con sé le popolazioni da loro governate e, ancor peggio, i
loro eserciti.

Erano proprio tempi cupi allora?

Alcuni
avvenimenti aiutano a comprendere meglio la realtà nella quale vivevo: nel 1600
l’Inquisizione aveva mandato al rogo Giordano Bruno e nel 1622 (anno della mia
morte) iniziava il processo a Galileo. Guerre e sommosse religiose scandivano
gli anni come un doloroso rosario intriso di sangue e sofferenze. Nel 1571
avvenne la battaglia di Lepanto contro i turchi-ottomani, battaglia che
contrapponeva cristiani contro musulmani; l’anno seguente (1572) ci fu la notte
di San Bartolomeo, dove furono assassinati migliaia di ugonotti francesi (gli
storici parlano di 20-30 mila), aprendo così una ferita profonda fra i
cristiani cattolici, evangelici e riformati, il cui strascico è visibile ancora
oggi.

Come e in che misura poteva
incidere in quella realtà la tua azione sacerdotale?

Come
sacerdote cercai di testimoniare con un’irreprensibile condotta di vita e di
avvicinare tutti con una preparazione meticolosa e meditata delle omelie. Ma
visti gli scarsi frutti, passai alla pubblicazione di foglietti volanti che io
stesso facevo scivolare sotto gli usci delle case o affiggevo ai muri.

E così sei diventato patrono dei
giornalisti!

Ai
miei tempi non c’erano giornali. Fu molto apprezzato non tanto l’aver scritto
trattati in difesa della fede cattolica, ma piuttosto il fatto di stampare su
dei fogli volanti le mie riflessioni e prediche: non era come i giornali di
oggi, ma vi assomigliava. I risultati iniziali furono scarsi, ma col tempo
migliaia di calvinisti ritornarono in seno alla Chiesa Cattolica.

Nel 1602 fosti nominato vescovo di
Ginevra, caposaldo della predicazione di Calvino, come ti accolsero da quelle
parti?

Ginevra,
città di lingua e cultura francese, aveva abbracciato la fede «riformata»
predicata da Giovanni Calvino e i suoi compagni (Guglielmo Farel, Theodore
Beza, John Knox), per cui la presenza di un vescovo cattolico non era per
niente gradita. Per tutti i miei 20 anni di episcopato risiedetti ad Annecy;
come vescovo profusi il meglio delle mie energie visitando ad una ad una tutte
le 450 parrocchie, curai molto il catechismo dei fanciulli e, perché fosse
insegnato come si doveva, addestrai un discreto numero di laici creando la così
detta «Confrateita della Dottrina Cristiana».

Alla fine, anche i protestanti,
che disprezzavano i cattolici chiamandoli papisti, impararono a rispettarli:
come ci sei riuscito?

Ho
seguito il principio della 1a lettera di San Pietro: essere «sempre pronti a
rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi; ma questo
sia fatto con dolcezza e rispetto». Il modo di confrontarsi con chi non la
pensa come te deve essere improntato soprattutto alla comprensione di ciò che
l’altro vuole dire e al tempo stesso all’esposizione di ciò che porti nel cuore
con chiarezza e senza rancore, con dolcezza e tenerezza. Bisogna imparare a
dialogare non con i pugni chiusi ma con le palme aperte.

Anche i tuoi scritti, come «L’introduzione
della vita devota» e «Il trattato del divino amore», sono diventati dei
classici: ti valsero il titolo di dottore della Chiesa, ti diedero fama di
grande scrittore anche nel mondo laico.

È
vero. Nella letteratura francese la mia prosa viene additata per la vivacità
delle immagini, la ricchezza delle espressioni, la serena affabilità del
discorso; tutto ciò lo facevo per creare un dialogo proficuo con quelli che non
la pensavano come me e si erano allontanati dalla fede cattolica.

Quindi il proverbio citato
all’inizio si addice perfettamente al tuo carattere.

Direi
proprio di sì. Ma quel proverbio deve trasformarsi in stile di vita che
conquisti le persone. Proclamare la verità con una faccia scura o imporre con
coercizioni di ogni tipo la partecipazione ai riti religiosi può essere
proficuo in un primo tempo, ma alla lunga più nessuno ti segue.

Una bella lezione anche per noi,
più propensi a mostrare le difficoltà ad essere un bravo cristiano, che la
gioia dell’incontro con il Signore Gesù.

Soprattutto
in campo ecumenico, pur esprimendo il proprio pensiero, tutto venga fatto nella
gioia dell’incontro con chi la pensa diversamente. Mi sembra che, dopo secoli
di scomuniche reciproche, il cammino ecumenico intrapreso sia proprio questo,
anche se la strada è ancora lunga. Da colui che è Padre ci siamo allontanati un
po’ tutti; ora, ritornando a Lui, impariamo a vivere da fratelli che
condividono la gioia di essere figli dello stesso Padre. Papa Roncalli, che per
certi versi mi assomiglia, aprendo il Concilio ha chiesto di distinguere sempre
tra «errore ed errante»; lo stile da assumere con chi non è «dei nostri» è
proprio quello avviato dal sottoscritto, in tempi difficili, ma esaltanti dal
punto di vista del dialogo.

Come nacque l’amicizia con
Giovanna de Chantal?

A
Digione, durante una visita pastorale, incontrai una nobildonna: era appunto
Giovanna Francesca de Chantal, con la quale avviai un rapporto di sincera e
spirituale amicizia che nel tempo, attraverso una tenerissima corrispondenza
epistolare, diede i suoi frutti nella fondazione della congregazione religiosa
della Visitazione. L’idea originale alla base del nostro carisma fu di chiamare
le religiose fuori dal chiostro, nel mondo, per predicarvi la carità, senza
trascurare l’importanza della preghiera, creando nel contempo un ramo
contemplativo accanto a uno di vita attiva.

In
un tempo come il vostro si fa fatica a capire e accettare tutto questo, eppure è
proprio così; del resto io stesso curai molto le amicizie e, oltre a Giovanna
Francesca de Chantal, ebbi come figlio spirituale Vincenzo de Paoli e Madre
Angelica Aauld, oltre a molte altre persone di ogni ceto. Con tutti loro ebbi
una fitta corrispondenza epistolare.

Oltre al rapporto particolare con
i poveri, normale per un santo, curasti una forte relazione con gli
intellettuali del tuo tempo, fondando per loro addirittura un’accademia,
denominata «Florimontana», o sbaglio?

Tutt’altro! Questa mia idea di mettere insieme gli
intellettuali in una fondazione in cui potessero liberamente confrontarsi sui temi
più svariati, fu copiata nientemeno che dal cardinale Richelieu, che diede vita
alla famosa Académie française. Non bisogna mai lesinare fatiche ed
energie per costituire dei luoghi e avviare dei percorsi in cui confrontarsi.
Ai miei tempi (ma anche ai vostri!) invece di dialogare si preferisce inveire,
sbraitare e condannare; così facendo il dialogo si inaridisce e le posizioni si
irrigidiscono, tutto a scapito del rispetto reciproco e della carità
vicendevole.

Il tuo esempio fu seguito da altri
santi che, ispirandosi alla tua azione pastorale, seppero leggere i segni dei
loro tempi.

Per
Vincenzo de Paoli, che ebbi come figlio spirituale, fu abbastanza facile
seguire le mie indicazioni; ma il santo che più si ispirò al mio modo di fare,
muovendosi in un altro contesto e avendo un carisma particolare per i giovani
fu Giovanni Bosco, originario della regione italiana più vicina alla Savoia;
visti i santi «sociali» torinesi coevi a don Bosco, si può dire che l’aria di
queste zone favorisce uno stile del tutto speciale per chi vuole seguire il
cammino del Vangelo.

Per concludere che suggerimenti
dai a noi cristiani del XXI secolo?

Considerando
che avversari alla Verità ce ne sono sempre, in ogni tempo e luogo, imparate a
gestire il confronto con chi non la pensa come voi dialogando con affabilità e
rispetto: condanne e scomuniche non portano da nessuna parte; e ricordatevi
sempre che questo mondo prima di voi è stato amato fino all’inverosimile da
nostro Signore Gesù Cristo, che per salvarci tutti non ha esitato a dare la sua
vita per tutti, cattolici e calvinisti, credenti e non credenti.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera




FRANCESCA SAVERIO CABRINI

Una santa nasce, cresce, si forma,
sviluppa la sua fede e scopre il suo carisma in terra lombarda; espressione
genuina di quella spiritualità dell’azione che diventa originale servizio per
gli emigranti italiani: erano i veri poveri del nostro paese. Negli anni
successivi l’Unità d’Italia, centinaia di migliaia di persone emigrarono alla
ricerca di un lavoro – specialmente in Nord e Sud America – per procurare da
vivere a sé e alle proprie famiglie. Per essere al loro fianco e per svolgere
meglio il suo servizio negli Usa, ella prende la cittadinanza americana, quindi
nella Chiesa è la prima cittadina statunitense a essere proclamata Santa.

Francesca, prova a presentare la
tua vita ai nostri lettori…

Sono
nata a Sant’Angelo Lodigiano il 15 luglio 1850, in una famiglia dalle solide
tradizioni cristiane. Durante la scuola per diventare maestra elementare, al
collegio del Sacro Cuore di Arluno in provincia di Milano, ho maturato la mia
vocazione religiosa, che ho coronato emettendo i voti di povertà, castità e
obbedienza nel 1874.

Fin dall’inizio, però, volevi
essere suora in un modo nuovo: consacrarti al Signore per rispondere alle
necessità dei poveri, con un carisma che rispondesse ai segni dei tempi, o
sbaglio?

No,
non sbagli. La mia giovinezza, per quanto vissuta interamente in Lombardia,
regione che oggi risulta essere il traino dell’Italia e certamente una delle
regioni dal reddito pro capite più alto del nostro paese, ai miei tempi era,
specialmente nelle campagne, una regione con una povertà diffusa e una forte
emigrazione. Vedevo giocare i bambini per strada nelle pozzanghere perché le
mamme lavoravano in filanda e i papà erano emigrati all’estero; decisi allora
di rispondere a queste sfide, fondando insieme ad alcune compagne la
congregazione delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù che si prendesse cura
di coloro che, a causa della miseria in cui vivevano, lasciavano il loro paese
alla ricerca di una vita più dignitosa. La congregazione delle Missionarie del
Sacro Cuore di Gesù è stata la prima ad affrontare l’impegno e il servizio
verso i nostri emigranti, un lavoro affidato sino ad allora a congregazioni
maschili.

Questa preoccupazione, però, non
l’avevi solo tu; altri nella Chiesa, proprio ai tuoi tempi, si aprivano al
servizio verso gli emigranti…

È
vero, mons. Giovan Battista Scalabrini vescovo di Piacenza, preoccupato dalla
partenza verso le Americhe di molte persone che svuotava intere comunità
parrocchiali, fondò più o meno in quegli anni la congregazione dei Missionari
di San Carlo Borromeo, conosciuti dal nome del loro fondatore come «Scalabriniani».
Così, per rispondere alle mutate esigenze dei tempi, nacquero in quel periodo
nuove congregazioni come quella delle Apostole del Sacro Cuore di Gesù, fondate
da suor Clelia Merloni di Forlì.

Al tuo nome, per essere
missionaria fino in fondo, hai aggiunto quello del patrono delle missioni:
Francesco Saverio…

Sì,
e ho voluto mantenerlo al maschile proprio per non togliere il copyright
di andare in tutto il mondo al servizio dei fratelli, del più intrepido e
valoroso dei missionari di tutti i tempi.

Qual è stato il tuo campo di
azione?

Nel
1889 mi recai negli Stati Uniti per prestare assistenza agli immigrati
italiani. A quei tempi il viaggio verso le Americhe durava qualche mese in nave
e confesso che l’aver attraversato l’oceano mi diede una carica indicibile:
sbarcai a New York, ma non mi fermai in quella che voi chiamate la «Grande mela»,
mi addentrai nell’interno, alla ricerca di comunità di emigranti italiani per
dare loro tutto il nostro aiuto. Devo dire che più le nostre attività si organizzavano
attorno alle comunità dei nostri emigranti, più le necessità di dare un
servizio accurato e di strutturare meglio il nostro lavoro mi portavano ad
attraversare l’oceano Atlantico: lo feci ventotto volte sui bastimenti di
allora. In più attraversai le Ande per raggiungere Buenos Aires, partendo da
Panama. Erano viaggi faticosi che avrebbero stroncato chiunque.

In un ambiente maschile come
quello dell’emigrazione italiana, qualche curiosità dovevano pur crearla delle
suore che a dorso di mulo si addentravano verso il selvaggio West di quelli che
sarebbero diventati gli Stati Uniti d’America…

Non vi dico i commenti, che arrivavano specialmente dai Wasp
(White Anglo-Saxon Protestant, bianco anglosassone protestante). Però,
quando cominciammo a costruire asili, scuole e convitti per studentesse,
orfanotrofi, case di riposo, ospedali, il discorso cambiò radicalmente.
Cominciarono a rispettarci e ad aiutarci.

Con la lingua come te la cavavi?

Oltre
all’inglese, imparai anche lo spagnolo e gesticolavo una miriade di dialetti
italiani per poter comunicare con la gente della mia terra, che a mala pena
sapeva parlare l’italiano; ma nel 1909 proprio per affermare la mia
inculturazione nel nuovo continente, presi la cittadinanza americana.

Le tue iniziative benefiche e le
tue opere caritative, ben presto si svilupparono e divennero dei punti di
riferimento importanti per i nostri connazionali…

Certamente.
E mi è caro sottolineare che, dal punto di vista economico, mettevamo al primo
posto l’autogestione delle opere aperte, grazie agli aiuti che ci venivano
dati, oltre a una piccola quota, imposta a quanti tra i beneficiari lavoravano,
per il buon funzionamento di quanto avevamo realizzato per loro.

Immagino che la vostra azione
avesse molteplici sfaccettature, così pure le iniziative dovevano essere
diversificate per rispondere alle differenti esigenze legate ai problemi
dell’immigrazione.

Ti
dirò, la cosa più importante era dare ai nostri connazionali la possibilità di
esprimersi nella lingua del paese che li aveva accolti, per cui proponevamo
incessantemente corsi di lingua inglese, davamo assistenza burocratica ai nuovi
arrivati e curavamo la corrispondenza con le famiglie di origine rimaste in
Italia. Cercavamo poi di raggiungere i più emarginati e lontani logisticamente,
visitare gli infermi e quelli che finivano in carcere.

Certo che per gli americani
dell’Ottocento vedersi arrivare queste migliaia (col tempo milioni) di
disperati dall’Italia non doveva essere una cosa facile da ingoiare, seppur
bisognosi di mano d’opera, covavano in animo sentimenti di antipatia e
avversione non indifferenti, o sbaglio?

Guarda,
ti rispondo facendoti leggere una relazione dell’ispettorato per l’Immigrazione
del Congresso degli Stati Uniti d’America del 1912 che dice così:

«Generalmente
sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro
puzzano anche perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si
costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove
vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro
affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due
e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro,
sei, dieci, venti. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente
antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, ma
sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre
anziani invocano pietà, con toni lamentosi o petulanti. Fanno molti figli che
faticano a mantenere e sono assai uniti fra di loro. Dicono che siano dediti al
furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché
poco attraenti e selvatici, ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri
consumati dopo agguati in strade periferiche, quando le donne tornano dal
lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma,
soprattutto, non hanno saputo selezionare fra coloro che entrano nel nostro
paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura,
attività criminali. Propongo che si privilegino i lombardi e i veneti, tardi di
comprendonio e ignoranti, ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad
abitazioni che gli americani rifiutano purché le famiglie rimangano unite, e
non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di
questa relazione, provengono da altre regioni d’Italia. Vi invito a controllare
i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere
la prima preoccupazione».

Sembra di leggere un comunicato
che riflette sentimenti di rifiuto dello straniero, del diverso presenti in
certi ambienti nostrani…

È
proprio vero che la storia è maestra di vita, ma il più delle volte essa è
inascoltata; ai poveracci che,ancora oggi varcano i mari, intraprendendo veri e
propri viaggi pericolosi per sfuggire a guerre, violenze, calamità naturali o
più semplicemente per dare un futuro dignitoso ai propri figli attraverso il
lavoro che nei loro paesi non c’è, viene negata quella dignità insita in ogni
persona umana, creata a immagine di Dio, e questo dovrebbe far riflettere.

Ieri
io, Francesca Saverio Cabrini, insieme a donne che non avevano paura di
affrontare prove e sacrifici, ho cercato di dare una risposta ai segni dei
tempi, oggi mettetevi in gioco pure voi, le occasioni non mancano. Buon lavoro
ragazzi.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

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Mario Bandera




3. Francesco Saverio

4 chiacchiere con…

Avere di fronte Francisco Xavier, meglio conosciuto da noi come San Francesco Saverio, significa trovarsi davanti al più missionario degli uomini intrepidi e al più intrepido dei missionari di tutti i tempi. Del resto la sua storia personale rimane forse la parabola luminosa più incisiva degli annunciatori del Vangelo. Iniziamo il nostro colloquio con lui.

Come nasce la tua vocazione missionaria?
Inizio col dire che sono un discendente di una nobile casata della città di Xavier, nella provincia di Navarra, ridotta alla miseria per la confisca di tutti i beni a opera di Ferdinando il Cattolico, re di Spagna, dopo la vittoria conseguita sugli abitanti della zona che volevano una loro autonomia contando sull’aiuto della Francia. Dopo questa catastrofe per sfuggire a un futuro incerto mi rifugiai in Francia, iscrivendomi alla facoltà di teologia della prestigiosa Università della Sorbona di Parigi. Lì incontrai Iñigo de Loiola o come dite voi italiani: Ignazio di Loyola, il quale dopo essere stato ferito in battaglia, passò tre lunghi mesi immobile a letto, durante i quali leggendo diversi testi spirituali e in modo particolare il Vangelo, decise di cambiar vita. Anch’egli però desiderava accrescere la sua cultura, in quanto vivevamo tempi contrassegnati da conflitti religiosi che andavano acuendosi ogni giorno di più. Fui letteralmente conquistato dal modo di fare d’Ignazio; la sua fama di uomo d’arme convertito in discepolo mansueto di Cristo e, allo stesso tempo, il suo desiderio di combattere con le armi della ragione e dell’intelligenza gli eretici del tempo, mi attirarono sempre più nella sua orbita e con me altri giovani che sentivano il bisogno di rinnovare la Chiesa rinnovando se stessi.

Mi sembra un ottimo programma, soprattutto perché oggi molti desiderano cambiare la Chiesa senza mettersi minimamente in discussione, che avvenne dopo?
Mi tremano i polsi al solo pensarci: il 15 agosto del 1534, Ignazio, io e altri cinque giovani andammo nella chiesa di Saint Pierre di Montmartre dove ci impegnammo a vivere in povertà e castità, fondando così la Società di Gesù, in quanto volevamo essere pellegrini in Terra Santa o nel caso ciò non fosse stato possibile metterci a completa disposizione del papa.

Erano nati i Gesuiti se capisco bene.
Certo! Ignazio optò per il termine Società di Gesù in quanto due grandi santi che lo avevano preceduto, san Domenico e san Francesco, avevano dato origine a due ordini religiosi che presero il nome dei loro fondatori, Domenicani e Francescani per l’appunto. Ignazio non voleva che la nostra Compagnia fosse segnata dal suo nome, voleva che tutto riconducesse a Gesù Cristo nostro Salvatore. 

E com’è che sei finito in India, nelle Molucche, in Giappone e per un pelo non hai messo piede in Cina?
Le cose andarono così: nel 1540, Giovanni III re del Portogallo, chiese al papa, che in quel tempo era Paolo III, di inviare dei missionari per evangelizzare i popoli delle nuove colonie che i portoghesi avevano appena conquistato nelle Indie Orientali. Il Papa indicò la Compagnia di Gesù a cui affidare questo compito e sant’Ignazio scelse me come responsabile dell’attività missionaria nei nuovi territori.

Il viaggio deve essere stato lungo e faticoso immagino.
Non me ne parlare! Adesso prendete un aereo e dopo qualche ora sbarcate in qualsiasi capitale del mondo, ma a quel tempo i viaggi erano tutti via mare, con navi sospinte dal vento, io partii da Lisbona nella primavera del 1541 e arrivai a Goa in India nel maggio dell’anno successivo.

Come fu l’impatto con la realtà asiatica?
Per certi versi traumatico: a Goa vidi i portoghesi che pensavano solo a fare affari e ad arricchirsi, poco interessati all’annuncio del Vangelo. Dovetti pertanto richiamare i portoghesi a un atteggiamento più consono al messaggio cristiano e allo stesso tempo iniziai a dedicarmi ai derelitti e ai poveri che vivevano in quella città. Dopo qualche anno mi trasferii alle Molucche, dove i portoghesi avevano impiantato delle colonie e anche lì rimasi due anni.

Che traguardi raggiungesti?
Intanto cominciai a testimoniare con i miei compagni l’amore di Dio verso tutti gli uomini, a qualunque razza, lingua e popolo essi appartenessero. Venni a contatto con persone provenienti da altri paesi e mi resi conto che Goa doveva essere un trampolino di lancio verso nuovi orizzonti.

Con la lingua come te la cavavi?
Male purtroppo! Iberico di nascita parlavo sia lo spagnolo che il portoghese, essendo vissuto in Francia parlavo anche il francese e avendo fatto gli studi in latino lo conoscevo alla perfezione, me la cavavo discretamente anche con l’italiano, ma come puoi ben capire erano tutte lingue neolatine. Per parlare con la gente del posto avevo sempre bisogno di un interprete; in una città di mare non è difficile trovare al porto persone che parlano diverse lingue: lì incontrai anche alcuni giapponesi che affascinati dal messaggio evangelico mi proposero di andare ad annunciare la Buona Notizia nel loro paese, il paese del Sol Levante.
 
Quindi decidesti di partire per il Giappone. E là cosa successe?
L’incontro con la realtà nipponica modificò radicalmente il mio modo di evangelizzare: incontrai un popolo nobile e fiero e capii che Dio ci aveva già preceduti con l’azione dello Spirito. Approdato a Nagasaki, chiesi di incontrare lo Shogun, e per mostrargli in tutta povertà lo spirito del Vangelo, decisi di andare a Kyoto in veste povera e dimessa, ma non venni ricevuto. Imparai la lezione e, indossando quanto di più raffinato mi ero portato dall’Europa, chiesi di incontrare l’influente principe di Yamaguchi. Questa volta venni accolto cordialmente e ottenni il permesso di risiedere e di annunciare il Vangelo in quella città.
Ci furono conversioni?
Sì. La gente era colpita da questo Dio che poteva chiamare Padre, pieno di tenerezza verso l’umanità peccatrice, un Dio che desidera salvare gli uomini più che condannarli; negli anni che passai a Nagasaki diverse persone chiesero di essere battezzate. Feci ogni sforzo per far crescere la piccola comunità cristiana che si era formata e offrire loro un’istruzione catechistica che potesse incidere nella loro vita.

Come mai dal Giappone decidesti di partire per la Cina?
Per i Giapponesi, i Cinesi erano i maestri indiscussi di ogni scibile. Dato che i bonzi si opponevano sempre alla mia predicazione, dicendo che se la religione cristiana fosse stata vera, i cinesi l’avrebbero già conosciuta, decisi di andare in Cina per iniziare l’opera di evangelizzazione.

Però in Cina non ci sei arrivato
No! Dopo anni di intenso apostolato, di lunghi viaggi via mare, di fatiche inenarrabili, consumato anche da malattie contratte in quel periodo, ero molto debilitato, ma non per questo rassegnato a non arrivare in Cina. Riuscii ad avere un passaggio su una nave diretta a Canton, giunto però all’isola di Sancian capii che era arrivata la mia ora. Difatti lì si concluse il mio impegno missionario; negli occhi avevo l’immagine del paese a cui più di ogni altro desideravo accedere. Il mio desiderio di portare in Cina il Vangelo fu però raccolto da altri miei confratelli, tra cui il vostro Matteo Ricci, i quali qualche tempo dopo riuscirono a installarsi alla corte imperiale di Pechino, ponendo così le basi per un’azione di evangelizzazione di cui oggi vediamo spuntare i germogli.

I tempi del Signore non seguono le nostre stagioni, vero?

I suoi frutti però arrivano sempre a maturazione.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera




Santa Rosa da Lima e santa Teresa di Lisieux

4 chiacchere con…

23 agosto – 1 ottobre
Poco più di un mese separa la memoria liturgica di due donne straordinarie,
mistiche e sante, la cui vita si intreccia in modo viscerale
con l’attività missionaria della Chiesa.

Per iniziare il nostro colloquio devo fare una domanda un po’ scontata: com’è che due sante come voi che hanno passato gran parte della loro vita in preghiera e meditazione sono, una dottore della Chiesa e protettrice delle missioni e l’altra patrona delle Americhe, delle Filippine e delle Indie Occidentali?

Teresa – Vissi in un tempo (le ultime decadi del secolo XIX) in cui il progresso scientifico e tecnologico si stava imponendo prepotentemente nella società. Appresi così che era stato inventato per le case dei ricchi (sempre più grandi e sempre più alte) uno strumento meccanico chiamato ascensore, che faceva risparmiare la fatica del fare le scale. Per cui mi sono chiesta: perché io, che sono così piccola per anelare alla vetta della perfezione, non posso avere a disposizione un ascensore che mi porti fino al cielo? Scoprii ben presto che l’ascensore che mi avrebbe innalzato verso il cielo, non potevano essere che le amorevoli braccia del Signore Gesù.

Rosa – La mia è una storia un po’ diversa: nata nel ricco Perù il 20 aprile del 1586 da una nobile famiglia di origine spagnola, mi trovai ben presto inserita in una realtà che praticava soprusi e violenze di ogni genere, soprattutto nei confronti degli indios. Decisi pertanto, nella mia piccolezza, di dedicare la mia vita al Padre di tutti gli uomini, affinché attraverso la preghiera incessante si potesse arrivare a convivere nella giustizia e nella pace.

Quindi voi due, pur restando una nel monastero di Lisieux e l’altra nella sua casa di Lima, dove si era creata una nicchia personale al fine di passarvi ore di preghiera e contemplazione, siete riuscite a immettere nel motore della missione la «super» della preghiera, un’impresa veramente notevole, non c’è che dire.

Rosa – Di per sé, io non avevo solo creato un ambiente in cui isolarmi, anche se di quella nicchia avevo assolutamente bisogno per stare con il Signore. Data la posizione della mia famiglia che apparteneva alla nobiltà spagnola, avevo però allestito anche una sorta di ricovero per i bisognosi, in particolar modo per quelli di origine india. A differenza di Teresa io non entrai in convento ma, avendo avuto la possibilità di leggere gli scritti di Santa Caterina da Siena, decisi di fae il mio modello di vita, vivendo fino in fondo l’amore per Cristo, per la Chiesa e per i fratelli indios.

Teresa – Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia dove la fede trasudava da ogni poro della pelle dei miei famigliari, mamma e papà, in particolare papà, che furono degli autentici maestri di vita spirituale per me, tanto che nel Carmelo di Lisieux entrarono altre mie sorelle. Tutto ciò mi aiutò a scoprire che la scala della perfezione non era tanto quella di una dura ascesi da vivere attraverso laceranti mortificazioni, ma bastava vivere la gioia quotidiana nella consapevolezza che il Signore mi avrebbe presa tra le sue mani innalzandomi verso il cielo.

Però entrambe siete passate in quella prova straordinaria che San Giovanni della Croce definisce come: «La notte oscura».

Teresa – Si è vero, l’abbandono totale a Dio è una scelta radicale e anche se io ero molto giovane capii benissimo che la mia doveva essere una spiritualità dell’essere e non del fare. Più che abbandonarmi alle sicurezze delle «opere buone» intrapresi la strada dello spogliamento assoluto, consapevole di comparire alla sera della vita davanti a Dio con le mani vuote, ma anche avendo ben presente l’insegnamento del grande mistico Giovanni della Croce il quale dice che «alla fine della vita saremo giudicati sull’amore». Abbandonarmi a Dio ha significato per me abbracciare il mondo e vivere intensamente la missione della Chiesa.

Rosa – Anch’io sono passata dalla prova della notte oscura che durò ben quindici anni, nella cella di due metri quadrati che mi ero costruita nel giardino di casa mia, dove trascorrevo gran parte delle mie giornate in contemplazione del Signore, cercavo di offrire a Lui tutte le necessità e i bisogni della gente della mia terra. In modo particolare di coloro che subivano la conquista degli spagnoli attraverso soprusi e violenze di ogni genere. Gli indios che erano emarginati e vilipesi, mi aiutarono a capire e a scoprire più radicalmente il mistero della Croce di Cristo. Devo dire anche che quando i calvinisti olandesi assaltarono la città di Lima, corsi ad abbracciare il Tabeacolo per difenderlo dall’assalto degli invasori. Questo a significare che il mondo della contemplazione vive gli stessi drammi e le stesse sofferenze della popolazione dentro la quale le comunità sono inserite.

Quindi si può dire che per vivere da autentici missionari a volte bisogna fare come San Paolo o San Francesco Saverio, a volte invece come voi, in quanto ciascuno può partecipare allo sforzo missionario attraverso l’offerta della propria preghiera affinché il Vangelo sia annunciato a tutte le genti.

Rosa e Teresa – Per essere autentici missionari non occorre fare grandi cose; più semplicemente bisogna saper fare in modo grande le piccole cose di ogni giorno e la Missio Ad Gentes si vive non solo andando lontano, ma avendo il coraggio di andare e pregare per i “lontani”, che il più delle volte vivono poco distanti da noi.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera