I Perdenti 9. Mons. Vincent Prennushi


Una delle persecuzioni contemporanee più feroci contro le confessioni religiose di ogni tipo fu perpetrata, a pochi chilometri dalle coste italiane, in Albania. Con la presa del potere da parte del regime di Enver Hoxha nel 1944, musulmani, ebrei, cristiani ortodossi e cattolici, furono presi di mira affinché sparisse ogni traccia di sentimento religioso nel popolo albanese. Hoxha voleva fare dell’Albania «il primo stato ateo del mondo». Con il consolidamento del potere in tutti i gangli della società del popolo albanese, l’accanimento contro le comunità e le persone che vivevano una loro fede divenne durissimo, e in modo particolare i cattolici furono considerati gli avversari più pericolosi del regime. Sull’Albania calò così una cappa pesante che bloccò ogni relazione con il mondo esterno. La piccola nazione illirica divenne praticamente un lager a cielo aperto, nonostante avesse sviluppato nei secoli un profondo senso di identità grazie a Giorgio Castriota Scanderberg, una delle figure europee più rappresentative del XV secolo, precursore dell’indipendenza albanese, che difese l’Albania, nonché l’Europa e i suoi valori religiosi cristiani, dall’invasione ottomana. Per tale motivo ottenne da Papa Callisto III gli appellativi di Atleta di Cristo e Difensore della Fede ed è considerato l’eroe nazionale.

Con la fine della Seconda Guerra Mondiale migliaia di credenti di ogni confessione furono imprigionati, torturati e moltissimi di loro uccisi. La Chiesa cattolica pagò un prezzo altissimo alla follia di un regime ateo e sanguinario che vedeva in ogni pratica religiosa e in ogni persona di fede un nemico dello stato. Con questa intervista ideale a mons. Nikolle Vinçenc (Vincent) Prennushi, arcivescovo di Durazzo, nato a Scutari nel 1885, vittima della persecuzione del regime comunista nel marzo del 1949, alziamo il velo su una storia di sofferenza e martirio consumata negli scorsi decenni alle porte di casa nostra.

Caro mons. Prennushi, pur essendo noi italiani così vicini geograficamente alla sua terra, conosciamo ben poco della vostra storia, ci vuole dire qualcosa dell’Albania?

L’Albania è una piccola nazione che si affaccia sul mare Adriatico situata a ridosso dei Balcani. Il suo popolo non va confuso con quelli circostanti: serbi, montenegrini, macedoni, ecc., né tanto meno con i greci. Siamo i discendenti degli antichi illirici, per meglio dire degli abitanti di quella zona che sotto l’impero Romano era denominata Illiricum. La nostra bandiera rossa con un’aquila a due teste sta a significare che dobbiamo difendere i nostri confini sia da una parte che dall’altra.

Però durante i secoli l’Albania è diventata un crogiuolo di razze e una mescolanza di religioni non indifferente.

Con l’andar del tempo il cemento unificante del nostro popolo, al di là delle etnie o delle religioni, divenne la lingua, difatti i serbi usano l’alfabeto cirillico mentre i greci ancora oggi usano il loro tipico alfabeto, noi abbiamo voluto mantenere l’alfabeto latino. Questo non è poca cosa perché già nello scrivere affermiamo la nostra identità.

Il cristianesimo si diffuse in Albania fin dai primi secoli?

San Paolo affermò di aver predicato il Vangelo nell’Illiria (Rom 15,19), qualcuno dice che passò anche per Durazzo, ma l’evangelizzazione vera e propria fu portata avanti da missionari inviati da Roma e da Costantinopoli. Non dimenticate che la via Egnatia, che univa le due capitali, attraversava tutta l’Albania.

Come mai in Albania c’è una presenza di confessioni cristiane diverse?

La maggioranza degli albanesi che vivevano al Nord, dopo lo scisma d’Oriente del 1054, rimasero fedeli alla Chiesa di Roma, mentre gli albanesi del Sud entrarono nell’orbita della Chiesa ortodossa bizantina che faceva capo a Costantinopoli.

Ma nonostante questa divisione entrambe le comunità resistettero impavidamente contro i tentativi ottomani di occupare l’Albania.

Scanderberg riuscì a tenere lontani i Turchi, ma dopo la sua scomparsa, l’influenza religiosa dell’ambiente islamico, la persecuzione contro i cristiani perpetrata da alcuni fanatici governatori e la politica ottomana che concedeva facili carriere civili e militari agli albanesi purché fossero musulmani, provocarono un graduale passaggio all’Islam di intere famiglie oltre che di interi villaggi.

Storicamente la presenza della Chiesa cattolica ha inciso nella cultura del popolo albanese?

Grazie alla protezione che l’Austria garantiva al clero e alle opere cattoliche, i francescani e i gesuiti aprirono diverse scuole in varie città, e con la geniale invenzione delle «missioni volanti» raggiunsero i luoghi più impervi delle montagne favorendo così un maggior fervore religioso e un’istruzione di base.

Quindi anche dal resto della popolazione albanese l’opera portata avanti dalla Chiesa cattolica era apprezzata?

Al momento dell’indipendenza dall’Impero ottomano a fine 1912, i cattolici godevano di un prestigio eccezionale, sia per il loro impegno nella lunga lotta di liberazione, sia per la loro elevatezza culturale. Si può dire che il cattolicesimo aveva dato l’impronta decisiva all’identità nazionale. I più grandi poeti, scrittori e giuristi albanesi erano in gran parte cattolici e quasi tutti appartenenti al clero.

Per dirla tutta, una situazione del genere stava sullo stomaco a un tipo come Enver Hoxha.

Non per niente questo tiranno si accanì come una furia contro i preti cattolici, ritenuti i maggiori ostacoli alla nuova ideologia. Per 46 anni (1944 – 1990) una dittatura spietata, ridusse il paese a una grande prigione. Due generazioni di albanesi sono cresciuti in un regime di terrore, in un clima di sospetto in cui non ci si poteva fidare di nessuno, neanche dei propri familiari per paura di essere denunciati.

Se a questo aggiungiamo anche la presenza ossessiva della «Sigurimi», la famigerata polizia segreta che controllava ogni aspetto della vita sociale e personale, abbiamo un’idea di come per oltre quarant’anni l’Albania abbia vissuto in un regime che definire terroristico è dir poco.

Il potere di Hoxha rase al suolo tutti i campanili esistenti in Albania, distrusse molte chiese e moschee e gli edifici di culto risparmiati da questa furia furono trasformati in sale di cultura, palestre, magazzini, qualcuno addirittura in stalla. Per non parlare dei singoli credenti che vennero incarcerati, perseguitati e torturati, molti inviati nei campi di lavoro, diversi fucilati, solo perché volevano continuare a vivere la loro fede.

Anche contro di te il regime si accanì con particolare durezza.

Nel 1945 ebbi un colloquio burrascoso con Enver Hoxha in cui lui mi chiese di formare una Chiesa nazionale antagonista alla Chiesa di Roma. In quegli anni ero il Primate della Chiesa cattolica in Albania, risposi che non potevo separarmi dalla sede di Pietro usando queste parole: «Un petalo non può restare staccato dal fiore al quale appartiene». La reazione fu forte, nel senso che rifiutarono l’ingresso al Nunzio Apostolico e io nel 1947 fui condannato a vent’anni di carcere duro.

Enver Hoxha fece altri tentativi di creare una Chiesa nazionale albanese?

Sì, ma anche tutti gli altri vescovi ribadirono la mia stessa posizione e furono tutti condannati ai lavori forzati. La comunità cattolica albanese, privata dei suoi pastori entrava in un tunnel oscuro vivendo una tragedia immane che è durata oltre quarant’anni.

Oltre alle celebrazioni liturgiche vennero proibite anche le cose più semplici legate alla fede.

Nella tradizione sia cattolica che ortodossa, nel periodo pasquale si dipingono con colori vivaci le uova sode che, dopo essere state benedette nelle messe di Pasqua, vengono consumate in famiglia e si scambiano con i vicini di casa. Ebbene gli insegnanti delle scuole elementari avevano il compito di chiedere ai bambini più piccoli, quindi per loro natura più innocenti, se in famiglia avevano dipinto le uova.

Così quei bambini diventavano dei delatori inconsapevoli.

Purtroppo sì. Subito dopo scattava il meccanismo dell’emarginazione totale della famiglia e, nei casi più gravi, i genitori «colpevoli di questi atti criminali» venivano indirizzati ai campi di rieducazione.

Con questo modo di operare, come si collacava l’Albania nel contesto internazionale?

Col passare degli anni pur entrando nell’orbita dei paesi socialisti, se ne distaccò progressivamente e ruppe addirittura con l’Unione Sovietica, mantenendo i legami solo con la Cina di Mao Tse Tung. La quale la utilizzò come grimaldello per entrare nelle Nazioni Unite. Fu infatti l’Albania che presentò all’Onu la richiesta cinese di essere ammessa nel consesso internazionale delle Nazioni Unite.

Quindi per l’Albania fu un periodo segnato da eventi importanti sul piano internazionale ma, per quanto riguarda la sua popolazione quei decenni furono tragici. La tua storia è emblematica.

Come ho già accennato, la furia distruttiva contro ogni espressione religiosa ebbe dei momenti tragici. Fin dal 1945 bersagli preferiti diventarono il clero e i fedeli: «Ogni fascista portatore di un vestito clericale deve essere ucciso con una pallottola in testa e senza processo», diceva uno dei motti del regime. Vescovi, preti e religiosi furono arrestati, malmenati in pubblico, torturati, fucilati, imprigionati e inviati nei campi di lavoro. Le suore furono obbligate a lasciare l’abito, quelle che rifiutavano venivano sottoposte al pubblico ludibrio e inviate ai lavori forzati. Molti di loro furono vittime di processi farsa che venivano diffusi via radio e riassunti in uno speciale la domenica mattina all’ora della messa con il titolo: «L’ora giorniosa».

Nonostante tutto quello che avete passato, mano a mano che i regimi comunisti dell’Europa dell’Est cadevano grazie al crollo del muro di Berlino, anche in Albania spirò un vento nuovo che fece uscire dalle catacombe i credenti perseguitati.

Pur con il controllo ferreo del regime sui mezzi d’informazione, attraverso le radio clandestine la popolazione albanese captò la notizia del crollo dei regimi comunisti europei. Con coraggio alcuni sacerdoti ripresero a dire Messa pubblicamente nei cimiteri e la gente accorreva a queste celebrazioni eucaristiche, finché anche in Albania crollò il regime ormai marcio di Enver Hoxha e iniziò il periodo democratico della sua storia che – grazie a Dio – continua ancora oggi.

Monsignor Vincent Prennushi morì di stenti, probabilmente il 19 marzo 1949, in un campo di prigionia dove era stato rinchiuso dopo un processo farsa, martire insieme a molti altri albanesi che non si piegarono al regime di Enver Hoxha, che affrontavano la morte al grido di: «Viva Cristo Re». Alla fine del 2002 è stato aperto il processo per la beatificazione dei Martiri Albanesi vittime della persecuzione religiosa durante gli anni della dittatura comunista. Sorprende come una comunità così piccola abbia dato alla Chiesa dei nostri giorni tanti martiri. Va segnalato inoltre che una delle figure più splendide del cattolicesimo del XX Secolo è l’albanese Agnese Gonxhe Bojaxhiu, meglio conosciuta come Madre Teresa di Calcutta.

Don Mario Bandera
Missio Novara

Mario Bandera




I Perdenti 6: San Maurizio e la legione Tebea

La celebre
Legione Tebana (o Tebea) è così chiamata perché, secondo la tradizione, era
composta interamente da legionari di fede cristiana provenienti dalla Tebaide,
in particolare dalla città di Tebe, terre e genti egiziane facenti parte
dell’Impero Romano del III secolo dC, una delle zone evangelizzate fin dagli
albori del cristianesimo.

Secondo
sant’Eucherio di Lione (380-450 dC), il primo che raccolse e raccontò nel suo Passio
Acaunensium martyrum
la storia della Legione Tebana, attorno al 286 essa
era di stanza in Gallia, presso la città di Agaunum (odiea Saint Maurice
nell’attuale Cantone Vallese in Svizzera) per reprimere una delle cicliche
rivolte dei Galli Bagaudi. Conclusa vittoriosamente la campagna, Massimiano
Erculeo, co-imperatore con Diocleziano, ordinò alle legioni di sacrificare
all’imperatore e di eseguire una spedizione punitiva per distruggere alcuni
villaggi del Vallese convertiti al cristianesimo. Gli ufficiali della Legione
Tebana, Maurizio, Esuperio e Candido, insieme ai loro centurioni e legionari,
si rifiutarono di adempiere gli ordini, dichiarando apertamente di essere
cristiani loro stessi. Massimiano ordinò la decimazione della legione (un
soldato ogni dieci doveva essere ucciso dai suoi stessi compagni). Dopo la
prima decimazione, ne ordinò una seconda, perché la Legione Tebana continuò a
rifiutarsi di compiere i massacri. All’ennesimo rifiuto, Massimiano chiamò
soldati di altre legioni per punire quella ribelle. La tradizione vuole che la
carneficina sia durata diversi giorni e abbia fatto almeno seimila e seicento
vittime.


La devozione
al santo martire Maurizio e ai soldati suoi compagni si diffuse in tutta la
zona alpina ed è molto radicata ancora ai nostri giorni.


Gli
storiografi avanzano diversi dubbi su alcuni aspetti del racconto di Eucherio,
ma il nucleo di verità rimane: nella persecuzione, anche in quella più
spietata, come è stata quella vissuta dai cristiani sotto l’imperatore
Diocleziano, i fedeli di Gesù Cristo sono capaci di obiezione di coscienza e di
martirio.

Maurizio, vuoi
parlarci dei tuoi tempi e della vita militare sotto l’Impero romano?

L’Impero di Roma in quel periodo aveva raggiunto l’apice del suo
splendore e della sua potenza, le sue legioni avevano sconfitto e soggiogato
quasi tutti i popoli che abitavano in quello che era allora il mondo
conosciuto. A noi legionari era affidato il compito di mantenere l’ordine e la
legalità nell’immenso territorio conquistato.

La tua vicenda risale alla fine del terzo
secolo, il che vuol dire che il messaggio di Gesù di Nazareth ai tuoi tempi si
era già ampiamente diffuso in Europa, arrivando fino ai «limes» dell’Impero.

Effettivamente la religione cristiana si era diffusa rapidamente,
tanto da insidiare il primato della vecchia religione pagana. Molti membri
dell’esercito avevano abbracciato la nuova fede, pur non mettendo mai in
discussione la fedeltà a Roma e all’Imperatore. Anche noi ci eravamo convertiti
al Vangelo, eravamo quindi coscienti che sopra di tutti c’era Dio Padre che per
manifestare agli uomini il suo Amore e la sua tenerezza aveva mandato sulla
terra il Figlio suo Gesù Cristo per rivelarlo, e nonostante fosse stato
condannato e crocifisso, dopo tre giorni era risuscitato e aveva inviato lo
Spirito Santo, tramite i suoi Apostoli, a vivificare la terra.

Voi che avete conosciuto questo messaggio
di salvezza diverse generazioni dopo l’annuncio dei primi discepoli, come vi
rapportavate a quello che era il nucleo centrale della fede cristiana?

Attraverso l’insegnamento di Gesù avevamo preso coscienza che ogni
essere umano, uomo o donna che fosse, nasceva con la stessa dignità di fronte a
Dio, fosse egli figlio di uno schiavo o di un membro del Senato di Roma, quindi
tutti gli uomini di fronte a Dio erano sullo stesso piano, un’uguaglianza in
dignità che aveva dello straordinario. Una novità questa di difficile
comprensione per la mentalità vigente nell’antica Roma in cui la divisione tra
plebe e patriziato, tra cittadini romani e popoli barbari era fortemente
radicata. L’invito a perdonare chi ti offende, il rifiuto della vendetta su chi
ti fa del male, erano cose inaudite ai miei tempi. Se poi aggiungi l’attenzione
da prestare a chi è malato, sofferente o debole, e l’invito da mettere al
centro della vita di tutti i giorni i poveri, ti renderai conto che il suo
messaggio era una vera rivoluzione.

Già, ma Gesù di Nazareth non si era
limitato a quello, aveva anche detto che la violenza non era una strada da
percorrere, perciò come si conciliava quest’affermazione con la politica
dell’Impero di cui le legioni romane erano il «braccio armato»?

Guarda, pur essendo noi militari inquadrati in una delle più
superbe legioni romane, il nostro compito non era di far del male ad altri, ma
di difendere quello che era il territorio di Roma dalle invasioni dei popoli
barbari. Dovevamo difendere i suoi cittadini, le sue leggi, la sua cultura, in
una parola quella che veniva chiamata la «Pax Romana».

Era per quello allora che ti trovavi di
stanza nelle Alpi?

Con i miei legionari ero stato destinato in quelle zone per
contrastare le continue sommosse e rivolte dei Galli tra i quali la tribù dei
Bagaudi composta in gran parte da «teste calde» che mal sopportavano la
disciplina e le leggi di Roma. Noi avevamo il compito di mantenere l’ordine
nelle vallate alpine.

È vero che voi avete scritto una lettera
all’Imperatore manifestando la vostra fedeltà a Roma, ma ribadendo il principio
secondo cui, come militari di fede cristiana, avevate il compito di difendere,
oltre che il territorio, i più deboli e i più indifesi?

Proprio così! Noi scrivemmo all’Imperatore dicendo: «Siamo tuoi
soldati ma anche servi di Dio, cosa che noi riconosciamo francamente. A te
dobbiamo il servizio militare, a Lui l’integrità e la salute, da te percepiamo
il salario, da Lui il principio della vita. Alzeremo le nostre mani contro
qualunque nemico, ma non le macchieremo mai con il sangue degli innocenti. Noi
facciamo professione di fede in Dio Padre Creatore di tutte le cose e crediamo
che suo Figlio Gesù Cristo sia Dio».

Non c’è che dire, una lettera coraggiosa!

Che nasceva dalla convinzione che l’essere cristiani e, in modo
particolare, vivere la condizione di soldato al servizio delle leggi di Roma ci
rendeva leali cittadini, fedeli sudditi dell’Impero, ma anche difensori dei più
deboli che si affidavano a noi per poter vivere e lavorare tranquillamente. Nel
contempo la fede in Cristo ci impediva di usare violenza verso le popolazioni
inermi e di commettere soprusi gratuiti.

Il servizio militare, obbligatorio per
ogni cittadino romano, era parte integrante della vita, in quanto ogni maschio
valido doveva impegnarsi a difendere Roma, a diffondere le sue leggi, a
espandere la civiltà che essa incarnava.

Pur non deponendo le armi, anzi, avendone cura non proprio come
arma di offesa quanto piuttosto di difesa, si può dire che per la prima volta
nella storia l’utilizzo delle forze armate era visto, grazie a noi, non tanto
come un’occasione per conquistare territori, quanto piuttosto come un
mantenimento integerrimo e responsabile della pace e dell’ordine, e come
contributo alla sicurezza della gente. Grazie al nostro esempio quindi, le
legioni romane erano percepite non tanto come truppe di occupazione ma come
garanzia di pace e tranquillità, il tutto ovviamente in una visione globale in
cui Roma «Caput Mundi» riscuoteva le tasse, mentre le legioni garantivano la
pace.

Resta il fatto che il vostro martirio
affrontato coraggiosamente vi fa antesignani di tutti gli obiettori di
coscienza. In più esso si è così impresso nelle vallate alpine che ancora oggi
da quelle parti la devozione nei vostri confronti è molto viva e attuale.

È vero, seimila soldati passati a fil di spada perché si
rifiutarono di uccidere inermi valligiani, civili indifesi, fu un fatto
eclatante che rimase impresso nella coscienza di quelle popolazioni.
L’iconografia classica che si sviluppò successivamente ci rappresentò, infatti,
come dei soldati con la palma del martirio in mano, lo stendardo con croce
rossa in campo bianco, da cui la Svizzera si è ispirata per la sua bandiera, e
la croce mauriziana dipinta sulle nostre armature. La devozione popolare ha
visto in ciascuno di noi, oltre che dei legionari fedeli all’Imperatore che
avevano il compito di difendere il territorio loro affidato, delle persone che
hanno avuto il coraggio di manifestare apertamente la fede cristiana in tempi
non certo favorevoli a gesti simili.

Oltre a ciò la vostra vicenda ha dato
origine anche all’Ordine Cavalleresco di San Maurizio, che fu fondato dalla
casa dei Savoia quando questa conquistò per un certo periodo il Vallese.

Oltre a ciò i Savoia portarono a Torino parte delle reliquie della
Legione Tebana, nonché la mia spada e il nostro simbolo, ovvero la croce
mauriziana, conservati in una cappella della chiesa in cui è custodita anche la
Sacra Sindone.

Oltre che della casa Savoia siete
diventati i protettori anche di altre istituzioni?

Con i miei compagni siamo i patroni degli Alpini Italiani, delle
Guardie Svizzere e delle truppe alpine dell’Esercito Francese. Le chiese
dedicate a San Maurizio e ai Santi della Legione Tebana si diffusero, e sono
presenti ancora oggi, in Valle d’Aosta, Piemonte, Francia, Germania e Svizzera.
In quest’ultima nazione, nel Canton Grigioni, mi fu dedicata la città di Saint
Moritz e anche in Francia molti paesi furono chiamati con il mio nome proprio
per ricordare il valore e la testimonianza della Legione Tebana. La più celebre
è Bourg Saint Maurice in Savoia e per non essere da meno anche in Piemonte
vennero affidate alla nostra protezione San Maurizio Canavese vicino a Ivrea,
nonché San Maurizio D’Opaglio nel novarese, dove, secondo la tradizione,
eravamo transitati, e infine Porto Maurizio in Liguria.

Gli abitanti di queste città sanno che il
loro patrono proveniva dall’Egitto?

Sì, credo che lo sappiano.

La devozione per i martiri della Legione
Tebea si è diffusa anche presso la Chiesa copta.

Sì, quella copta è una Chiesa storica egiziana che venera non solo
me, San Maurizio, ma tutti i miei valorosi compagni, le cui reliquie si
ritrovano in numerose chiese sia in Europa che in Africa.

Se non vado errato, qualche anno fa furono
donate al Patriarca di Alessandria e di tutta l’Africa della Chiesa Copta, Papa
Shenuda III, alcune preziose reliquie dei Santi della Legione Tebana (nel
1991).

È vero, il nostro sacrificio ha aperto anche un originale cammino
ecumenico in quanto altre Chiese orientali venerano i Martiri della Legione
Tebea. Il martirio da noi subito è anteriore ai vari scismi succedutisi nella
Chiesa attraverso i secoli. Anche nel mondo protestante c’è una devozione
legata alla nostra testimonianza.

Il vostro martirio alla luce della fede
cristiana vi trasforma da perdenti in testimoni della fede, come per Gesù di
Nazareth, il vostro sacrificio invece di essere visto come una sconfitta è
diventato un segno di speranza per i cristiani di tutti i tempi.

La fede nella Risurrezione è questa: offrire la propria vita per
essere fedeli fino in fondo ai valori del Vangelo che Cristo ci ha lasciato!

San Maurizio e i suoi
compagni, che hanno versato il proprio sangue per la confessione della fede
cristiana, restano ancora oggi dei testimoni esemplari di come si possa andare
incontro al martirio con coerenza e coraggio. Il loro esempio deve essere di
stimolo per noi a vivere in pienezza la fede in Cristo Gesù, senza quei
compromessi che rischiano di annacquarla di fronte al mondo. Di tutta questa
vicenda, una delle cose sorprendenti è quella di scoprire che molti paesi e
città delle nostre vallate alpine hanno come Santi protettori delle persone che
oggi definiremmo «extracomunitari» in quanto provenienti dall’Egitto, ovvero
dal continente africano.

Mario Bandera, Missio Novara

Tags: Santi, obiezione di coscienza, San Maurizio, Legione Tebea, Martirio

Mario Bandera




I Perdenti 5. Montezuma e Atahualpa

 

Montezuma (1466 circa – 29 giugno 1520),
ultimo imperatore azteco, prima di salire al potere era un capo locale
lungimirante e un buon amministratore. Fra i suoi compiti c’era anche quello di
esercitare il sacerdozio a servizio degli dei del suo popolo. Dopo la sua
ascesa al trono nel 1502, tutto cambiò: divenne dispotico e violento,
superstizioso e con un carattere insicuro e altalenante. Il giorno della sua
incoronazione fece uccidere diverse migliaia di prigionieri sacrificandoli agli
dei perché lo proteggessero e lo custodissero lungo tutta la sua vita.

Le poche volte
che si mostrava ai suoi sudditi si presentava sempre con abiti sfarzosi ed
eleganti. Viveva in una enorme reggia dove le sue due mogli e le numerose
concubine erano circondate da un lusso inimmaginabile.

Atahualpa (20 marzo 1497 – 23 agosto 1533), è
stato l’ultimo sovrano dell’Impero Inca, giunto al potere dopo aver sconfitto
il fratellastro Huascar alla fine di una lunga guerra civile, regnò di fatto
solo un paio d’anni, quelli cruciali dell’incontro delle due culture indigena
ed europea. Nelle diverse biografie che ci sono giunte viene presentato come un
sovrano che goveò senza saggezza il vasto impero che aveva conquistato. Di
famiglia nobile, era legato con vincoli di parentela alle famiglie che
controllavano porzioni del suo territorio, una situazione instabile che di
volta in volta determinava conflitti o accordi precari con vari maggiorenti
dell’impero.

Voi due siete gli
ultimi sovrani degli imperi Azteco e Inca. Avete vissuto un momento cruciale
della storia dei vostri popoli: l’incontro con due personaggi come Hean
Cortés e Francisco Pizarro, che incarnavano la sete di conquista e la bramosia
di ricchezza dei conquistadores.


Parlateci un po’ di voi, come si svolgeva la vita della vostra gente prima
dell’arrivo degli spagnoli?

Montezuma: Considerando che l’impero Azteco di
cui io ero il monarca assoluto, aveva praticamente sconfitto tutte le popolazioni
(Maya compresi) che vivevano in quello che adesso è grosso modo il territorio
del Messico, del Guatemala e di altri paesi centroamericani, si può dire che
vivevamo senza grosse preoccupazioni e con un certo benessere.

Atahualpa: Noi Incas vivevamo in quello che
adesso è il territorio del Perù, dell’Ecuador e del Nord del Cile. Un
territorio immenso di difficile controllo, tant’è vero che una delle attività
principali dei sovrani incaici era appunto quella di mantenere in buono stato
una rete di strade e sentirneri per far sì che i funzionari potessero arrivare
nel più breve tempo possibile fino ai villaggi posti agli estremi confini
dell’impero.

L’arrivo dei
conquistadores fu allora come un fulmine a ciel sereno.

Montezuma: In un primo momento fummo affascinati
da questi uomini bianchi dalle lunghe barbe, benché puzzassero oltre ogni
immaginazione; avevano strani bastoni lucenti che provocavano il tuono e la
folgore e ancora più strani ed enormi animali dai piedi di argento.

Atahualpa: Il fatto di vederli sopra quelle
bestie che noi non avevamo mai visto, in quanto gli animali più grossi presenti
nelle nostre terre erano il lama, l’alpaca e la vicuña, li rendeva ai nostri
occhi delle persone eccezionali, capaci di percorrere distanze molto superiori
a quelle che abitualmente facevamo noi a piedi.

Avevate coscienza che
prima o poi sarebbero arrivate genti da Oriente?

Montezuma: Rileggendo alcuni fatti antecedenti
l’arrivo dei conquistadores, capimmo una vecchia leggenda che annunciava alcuni
segni premonitori del crollo dell’impero Azteco. Infatti negli ultimi tempi era
apparsa una cometa in pieno giorno, alcuni avevano visto una colonna di fuoco
nel cielo notturno, un fulmine aveva colpito il tempio dei sacrifici e c’era
stata un’inondazione spaventosa come non se ne erano viste mai. Tutti segni di
morte che non lasciavano prevedere niente di buono per il futuro.

Atahualpa: I nostri saggi si tramandavano da
generazioni una profezia che parlava di genti diverse provenienti dal mare e da
terre lontane. Essi non entravano nei dettagli per non spaventare il popolo con
i foschi presagi della distruzione del nostro impero.

Quando vi siete
trovati davanti i conquistadores, qual è stata la vostra prima reazione?

Montezuma: Quando gli uomini bianchi arrivarono
nella nostra città, noi andammo loro incontro accogliendoli con tutti gli onori
dovuti agli ospiti e cercammo in ogni modo di soddisfare le loro richieste.

Atahualpa: Visto che non erano neanche un
centinaio, non mi preoccupai più di tanto, anzi, pensavo che proprio
l’accoglierli come ospiti di riguardo avrebbe permesso a me e alla mia gente di
vivere in pace con loro.

Quindi li faceste
entrare nei vostri palazzi.

Montezuma: Riservai a Cortés, il loro capo, uno
degli appartamenti regali e lasciai che i suoi uomini si sistemassero nelle
case di Tenochtitlan.

Atahualpa: Anch’io feci alloggiare il
comandante Pizarro in una casa riservata alla nobiltà, mentre i suoi uomini
venivano ospitati dalla gente che viveva vicino al palazzo imperiale.

Però dopo poco tempo
vi rendeste conto di quale fosse ciò che stava più a cuore a questi uomini.

Montezuma: Essi non facevano altro che
chiederci dove potevano trovare l’oro, se questo minerale fosse lontano dalla
costa e di come avrebbero potuto trasportarlo rapidamente alle loro navi.

Atahualpa: Anche da noi sembrava che la
richiesta maggiore fosse legata proprio all’oro, da noi utilizzato solo per
rendere più lucenti determinati oggetti di uso domestico.

Ma voi li sentivate
come avversari e nemici o come ospiti che, come erano giunti, prima o poi se ne
sarebbero andati?

Montezuma: La loro insistenza nel richiedere
oro e nell’avanzare pretese di ogni tipo riguardo le nostre donne, insinuò in
noi il dubbio che non fossero poi tanto cordiali come volevano presentarsi.
Anzi!

Atahualpa: Considerando le armi che possedevano
e gli animali che avevano, pensai addirittura di farmeli alleati per
fronteggiare eventuali nemici che insidiassero il mio Regno.

Come arrivaste ad
avere un conflitto con loro?

Montezuma: Ogni giorno che passava i nuovi
arrivati si comportavano sempre più da padroni, si appropriarono di quella che
era la nostra terra e quello che è peggio, prendevano i nostri giovani e li
facevano lavorare per loro trattandoli come schiavi.

Atahualpa: Si installarono nel mio palazzo e
praticamente mi tolsero ogni libertà di azione, pur rimanendo io il capo del
mio popolo, erano loro che davano gli ordini. Per la mia libertà arrivarono a
chiedere un riscatto: riempire un grande locale con tutto l’oro che riuscivamo
a trovare. Purtroppo anch’io caddi nella loro trappola invitando il mio popolo
ad assecondare i loro desideri.

Oltre a queste
richieste, ci furono altri motivi di attrito tra voi e gli spagnoli?

Montezuma: Cortés, comandante degli spagnoli,
diede ordine ai suoi uomini di distruggere tutte le immagini dei nostri dei e
le decorazioni sacre che li onoravano. Mentre compivano queste devastazioni, la
folla si sollevò dando così il pretesto per un eccidio che passò alla storia
come «Massacro del Tempio Grande». Per evitare ulteriori sofferenze mi
affacciai al balcone invitando la mia gente a ritirarsi. Credendo che io fossi
complice di quell’efferatezza, il mio popolo scagliò pietre e frecce anche contro
di me.

Atahualpa: I notabili spagnoli mi dissero che
essi erano giunti nelle mie terre perché il mio popolo si convertisse al
cristianesimo e noi riconoscessimo l’autorità di Re Carlo I di Spagna. Risposi
che io non sarei mai stato sottomesso a nessun re, a quel punto Pizarro diede
l’ordine di attaccare i miei uomini e di distruggere tutto ciò che trovavano
sul loro cammino. Fu una vera ecatombe, morirono migliaia di Incas, mentre io
durante la battaglia rimanevo in piedi circondato dai nobili più fedeli. Alla
fine fui catturato e imprigionato nel Tempio del Sole.

Questi avvenimenti
così drammatici posero fine alla vostra vita?

Montezuma: Ferito dalle pietre e dalle frecce
che mi avevano tirato, caddi a terra circondato dai conquistadores, i quali dopo
alcuni giorni mi tolsero la vita facendomi ingerire oro fuso.

Atahualpa: Nonostante il pagamento dell’enorme
riscatto, venni processato e condannato a bruciare sul rogo. Se avessi
accettato di convertirmi al cattolicesimo la mia pena sarebbe stata commutata.
Nella mia cultura era importante conservare l’integrità del corpo per accedere
all’immortalità, pertanto accettai di essere battezzato e fui ucciso mediante
strangolamento.

 

Con la morte dei loro
capi, il popolo Azteco e quello Inca, attraversarono un momento di sbandamento,
iniziarono la loro parabola discendente e vennero soggiogati dai nuovi
arrivati. La storia di queste comunità quindi, si mescola con la storia di
altri popoli precolombiani che subirono la stessa sorte. Gli spagnoli,
conquistate le loro terre, li inglobarono nella nuova realtà e nella società
che stava nascendo. Sterminate in larga misura le popolazioni amerinde e fatti
arrivare

dall’Africa gli
schiavi neri per sopperire alla scarsità di mano d’opera per le immense
coltivazioni che si avviavano in quegli anni, il continente americano diede
vita a una nuova umanità. Ben riassunta, questa, da una lapide posta nella
piazza delle Tre Culture a Città del Messico per ricordare l’incontro-scontro
fra popoli diversi, dove sono scolpite queste suggestive e commoventi parole:
«No fue triunfo ni derrota. Fue el doloroso nacimiento del pueblo mestizo que
es el Mexico de hoy». (Non fu trionfo né sconfitta. Fu la dolorosa nascita del
popolo meticcio che è il Messico di oggi).

Don Mario Bandera, Missio Novara

Mario Bandera




I Perdenti 4: Metz Yeghérn, il Grande Male

 

Il 24 aprile
si è commemorato il centenario del genocidio del popolo armeno, un crimine
efferato che la Turchia non ha ancora riconosciuto come una delle pagine più
nere della sua storia, in cui furono steminate e deportate milioni di persone.
Per capire l’origine del Grande Male o Metz Yeghé, come è definito il
genocidio in lingua armena, bisogna risalire al 1877. Dopo una guerra tra la
Russia zarista (sostenuta dall’Impero Austroungarico) e l’Impero Ottomano
(sostenuto dall’Inghilterra), Romania, Montenegro e Serbia divennero
indipendenti, nacque la grande Bulgaria tributaria dell’impero e il territorio
dell’Armenia venne diviso tra le due potenze contendenti. Nel trattato di pace
che ne seguì (pace di Santo Stefano, 3 marzo 1878) venne inserita una clausola
che affidava alla Russia la tutela della minoranza armena, in gran parte
cristiana ortodossa, presente nell’Impero Ottomano. Questa clausola non fu mai
del tutto accettata dalla Sublime Porta (così veniva chiamata la Corte del
Sultano a Kostantiniyye, l’antica Costantinopoli, dal 1923 rinominata
Istanbul) né dagli Ufficiali del Movimento dei Giovani Turchi che di lì a pochi
anni avrebbero preso il potere. Volendo realizzare una nazione etnicamente
omogenea, ogni enclave era vista come possibile testa di ponte delle potenze
straniere ostili che già avevano umiliato l’impero. L’Armenia era vista per
questo come una minaccia permanente. Nacque tra la popolazione turca, e venne
alimentato ad arte dai suoi governanti, un sentimento di ostilità nei confronti
degli armeni che si concretizzò in massacri di innocenti, costringendo i
sopravvissuti a penose migrazioni. Nel nostro colloquio con donna Zorair, icona
immaginaria, vittima di quella persecuzione, cerchiamo di essere fedeli alla
verità storica per ridare dignità a un popolo profondamente umiliato nel corso
della storia.


Zorair,
perché tanto odio da parte dei Turchi nei confronti della tua gente?

Non riusciamo a capire neanche noi. Per
secoli avevamo vissuto all’interno dell’Impero Ottomano in pace, seppur gravati
da tasse extra (la jizya, tassa di protezione) in quanto cristiani.
Tutto sommato eravamo rispettati e ben voluti, anzi ti dirò di più, il nostro millet
(con questo termine la Sublime Porta definiva le varie comunità etnico
religiose che componevano il variegato mondo che faceva riferimento a
Costantinopoli, ndr) era uno di quelli più tenuti in considerazione.

Ma
all’origine di tutto, se non sbaglio, ci fu una guerra tra la Russia zarista e
l’Impero Ottomano.

Sì. Nel 1877 ci fu una vera guerra tra queste
due potenze e l’Impero Ottomano, già considerato il grande malato da tutte le
cancellerie europee, fu sconfitto, umiliato e privato di molti dei suoi
territori. Nel trattato di pace che seguì venne inserita una clausola in cui si
diceva che la Russia zarista diventava «garante e protettrice» delle comunità
cristiane che vivevano all’interno di quel che rimaneva del pur sempre vasto
impero.

In
questo modo, però, ogni comunità cristiana era vista alla stregua di una
possibile testa di ponte delle cosiddette potenze cristiane.

Credo proprio di sì. I Giovani Turchi, il
gruppo di ufficiali che faceva capo a Kemal Ataturk, vedendo profilarsi
all’orizzonte la disgregazione dell’Impero Ottomano e preconizzando una Turchia
basata su un unico popolo, una lingua e una fede, pur dichiarandosi laici,
cominciarono a vedere i cristiani come corpi estranei, potenzialmente
pericolosi, da sorvegliare ed eventualmente da eliminare.

Allora
è per questo che quella che per anni è stata considerata la laicissima Turchia
non ha nessuna comunità cristiana consistente se non piccolissime minoranze?

Certo. Per quanto riguarda la base etnica
della sua popolazione, dopo aver eliminato gli Armeni nel 1915, ha lasciato che
i pochi superstiti si rifugiassero nell’Armenia, stato allora indipendente ma
poi fagocitato nel 1922 nell’Unione Sovietica. Allo stesso tempo ha confinato i
Curdi in zone periferiche definendoli «turchi delle montagne». La tragedia del
nostro popolo è che può definirsi «perdente» per antonomasia, proprio perché,
dopo essere stati incarcerati, deportati, uccisi, siamo stati ignorati dal
resto del mondo per troppo tempo, forse perché le potenze europee non erano
esenti da responsabilità nel causare l’odio turco nei nostri confronti.

Quello
che l’Impero Ottomano non aveva fatto per secoli, l’ideologia Kemalista l’ha
realizzato in pochi anni.

È proprio così. Questa soluzione finale noi
la chiamiamo Metz Yeghe o Grande Male ed è all’origine della diaspora
armena. Ricordo che il mio popolo, oltre che essere stato il primo nella storia
a definirsi «Regno cristiano», è sempre stato illuminato da una cultura
vivacissima che ha trovato nella poesia e nella letteratura uno straordinario veicolo
di coesione nazionale.

Quando
cominciarono i primi soprusi nei vostri confronti?

Nel 1909, dopo che si era affermato il
movimento dei Giovani Turchi. Questi, per paura che la popolazione armena si
alleasse con la Russia zarista, spinsero il governo a emanare delle leggi che
ne restringessero sempre più il campo d’azione, e nella regione della Cilicia
vennero eliminate almeno trentamila persone.

Perché
celebrate la data del genocidio armeno il 24 aprile?

Perché nella notte di quel giorno, nel 1915, vennero
eseguiti i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli e si ufficializzò
l’eliminazione fisica degli armeni dell’Impero Ottomano. In pochi giorni furono
uccisi più di mille intellettuali armeni, scrittori, poeti, giornalisti,
perfino delegati al Parlamento; quindi furono compiuti arresti di massa e si
iniziarono le deportazioni verso l’interno dell’Anatolia con massacri lungo la
strada.

Le
deportazioni inflissero sofferenze e patimenti inenarrabili alla popolazione
armena…

Queste deportazioni furono definite «marce
della morte» e coinvolsero circa un milione e mezzo di persone. Centinaia di
migliaia, in maggioranza donne e bambini, morirono lungo il percorso di fame,
sfinimento e malattie.

La
responsabilità di questi eventi è da imputare solo all’Impero Ottomano?

L’organizzazione e la cura delle deportazioni
furono compiute in massima parte dai militari che facevano riferimento ai
Giovani Turchi, questi a loro volta erano addestrati da ufficiali dell’esercito
tedesco, in virtù di un accordo tra l’Impero Germanico e l’Impero Ottomano.
Miglia di persone inoltre furono massacrate nei loro villaggi o negli
spostamenti che ne seguirono dalle milizie curde e dall’esercito turco.

Negli
anni in cui si compì la tragedia della deportazione e dell’eccidio degli armeni
le Cancellerie Europee non reagirono?

Tutte le legazioni diplomatiche europee non
mancarono di riferire ai rispettivi governi ciò che succedeva nella nostra
terra, ma essi restarono indifferenti all’immane tragedia che si stava
consumando. Queste notizie non influirono minimamente su nessuna delle
Cancellerie europee.

Si
può dire quindi che la brutalità nei vostri confronti messa in atto dai Giovani
Turchi, che arrivò a compiere il primo genocidio del secolo ventesimo, non
provocò nessuna reazione, né politica né militare né diplomatica?

Purtroppo il genocidio perpetrato contro gli
armeni fece scuola. Narrano i biografi di Hitler che, pianificando lo sterminio
degli ebrei, egli si sia lasciato scappare una frase illuminante: «Del genocidio
degli Armeni chi ne parla più ormai?». Erano passati poco più di vent’anni e si
programmava un altro sterminio, l’Olocausto del popolo ebraico.

Il governo turco continua ancora oggi a
rifiutare di riconoscere il genocidio a danno degli Armeni, preferendo la
versione che sia stata una guerra civile aggravata dalla carestia, un fatto
interno all’Impero Ottomano. L’Unione Europea però ha posto il riconoscimento
del genocidio armeno come una delle clausole per l’ammissione della Turchia
all’Ue. La Francia punisce con il carcere la negazione del genocidio armeno. Al
contrario la magistratura turca infligge la stessa punizione a coloro che
nominano in pubblico l’esistenza del genocidio armeno, ritenendolo un atto anti
patriottico. Va segnalato che ultimamente la Turchia sembra aver dato prova di
buona volontà riaprendo alcune chiese armene nel Sud del paese, ma non va
sottaciuto però che la gran parte dell’opinione pubblica si oppone tenacemente
a queste misure.


Fare memoria oggi di quei tragici
avvenimenti, ricordare i drammi del passato, non dimenticare i morti innocenti,
è un monito illuminante per tutti noi che non vogliamo più che simili crimini
si compiano nella storia.

Don Mario Bandera,
Missio Novara

Tags: Armeni, genocidio, Grande Male, perdenti

Mario Bandera




I Perdenti 3. Giovanna d’Arco  

Nacque a Domrémy,
Francia, nel 1412 circa, da una famiglia contadina. Lasciò giovanissima la casa
patea per seguire il volere di Dio rivelatole da voci misteriose, secondo le
quali avrebbe dovuto liberare la Francia dagli Inglesi. Presentatasi alla corte
di Carlo VII, ottenne dal re di cavalcare alla testa di un’armata e, incoraggiando
le truppe con la sua ispirata presenza, riuscì a liberare Orleans e a riportare
la vittoria di Patay. Lasciata sola per la diffidenza della corte e del re,
Giovanna non poté condurre a termine, secondo il suo progetto, la lotta contro
gli Anglo-Borgognoni. Fu dapprima ferita alle porte di Parigi e nel 1430,
mentre marciava verso Compiegne, fu fatta prigioniera dai Borgognoni, che la
cedettero per denaro agli Inglesi. Tradotta a Rouen davanti a un tribunale di
ecclesiastici, dopo estenuanti interrogatori fu condannata per eresia e arsa
viva il 30 maggio 1431. Riabilitata nel 1456, nel 1920 Benedetto XV la proclamò
Santa e Patrona della Francia.

Giovanna, tu sei una
santa molto nota ma forse pochi conoscono bene la tua vita, per cominciare puoi
parlarci della tua infanzia?

Sono nata in una famiglia di contadini di umili condizioni, fin da
bambina quindi ho dovuto aiutare i miei nel lavoro dei campi e nell’accudire
gli animali.

Quindi non hai
frequentato la scuola?

Ai miei tempi l’istruzione era solo per i figli dei ricchi che
potevano permettersi insegnati privati e per coloro che entravano in un
monastero o in un seminario. Non esistevano le scuole come le intendete voi.
Però io frequentando le funzioni religiose amavo assorbire tutto quello che
veniva insegnato dai sacerdoti del mio tempo.

Sì, ma tu sei famosa
perché fin da giovane ti sei fatta un nome prendendo le armi e difendendo la
tua patria.

Tutta la mia vita fu caratterizzata dalla Guerra dei cento anni,
che anzi durò di più in quanto cominciò nel 1337 e si concluse nel 1453. Gli
inglesi lungo tutto quel periodo occupavano gran parte della Francia e questo a
noi francesi non andava proprio bene.

Allora cosa hai fatto?

Nel 1429, seguendo la voce di Dio che veniva dal profondo della
mia coscienza e mi spingeva ad agire, riuscii a incontrare il Delfino (erede al
trono) di Francia ovvero il futuro Carlo VII e gli dissi che l’Arcangelo
Michele e le Sante Caterina di Alessandria e Margherita d’Antiochia, mi avevano
parlato dicendomi che avrei scacciato gli inglesi e insediato lui sul trono. Lo
convinsi ad affidarmi il compito di difendere il suolo francese mettendomi a
disposizione dei cavalieri e delle truppe da battaglia. Del resto, un’antica
profezia francese diceva che solo una ragazza coraggiosa avrebbe salvato il
paese dai nemici.

Si dice che per
guidare dei soldati ti sia vestita come un uomo e abbia indossato un’armatura.
Una cosa inaudita e scandalosa per i tuoi tempi.

Certamente, ma solo così potevo guidarli in battaglia senza
correre rischi inutili. Per questo mi feci fare una armatura modellata sulla
mia persona. Riportai la prima vittoria liberando Orleans da un lungo assedio.
Da quel giorno i soldati cominciarono a chiamarmi «la Pulzella d’Orleans».
Qualche settimana dopo ci fu un’altra battaglia più dura e più cruenta a Patay,
dove infliggemmo agli inglesi una dura sconfitta, riconquistando il territorio
francese fino alla città di Reims, luogo in cui da sempre avvenivano le
incoronazioni dei Re di Francia.

Si può dire quindi che
la tua missione si era conclusa positivamente?

Sì, ma purtroppo una volta incoronato Re, Carlo VII fu preso dal
tipico spirito di compromesso di molti politicanti. Decise quindi da solo,
senza consultare nessuno, di trattare con gli inglesi.

Ovviamente tu non eri
d’accordo con le sue scelte.

Ero convinta che la mia missione non fosse ancora compiuta, perché
gli inglesi continuavano a occupare buona parte della Francia. Decisi così di
continuare da sola con i soldati rimasti a me fedeli senza l’appoggio della
Corona. Ma il 24 maggio 1430 caddi in un’imboscata dei Borgognoni, i quali pur
essendo francesi erano alleati degli inglesi. Gli uomini del duca di Borgogna
mi vendettero agli anglosassoni in cambio di una forte somma di denaro
(equivalente a circa sei milioni di euro attuali).

Quindi fosti
imprigionata e gettata in carcere?

Mi rinchiusero nelle celle sotterranee del castello di Rouen per
essere processata per eresia e stregoneria, naturalmente i miei nemici
allestirono un falso tribunale dell’inquisizione con dei giudici simoniaci al
soldo degli inglesi che dovevano trovare ragioni per condannarmi a morte.

Su questo tuo processo
si sono scritti molti libri e girati diversi film che hanno evidenziato la
dignità con cui ti sei difesa…

Fin dalle prime udienze trovai in me una grande forza d’animo per
rispondere punto per punto alle accuse che mi erano mosse e, a essere sincera,
mi sono anche divertita a punzecchiarli un po’. Nel rispondere ai giudici ho
usato spesso non solo umorismo, ma anche sarcasmo. Vista la difficoltà che essi
stessi avevano nel portare avanti un processo farsa, decretarono che le udienze
si tenessero a porte chiuse.

Secondo te i giudici
cercavano davvero di conoscere la verità della tua missione?

Per niente. Dovevano condannarmi sia per levarmi di too che per
infangare il mio nome. I giudici nel cercare appigli per condannarmi erano
quasi patetici, per non dire ridicoli. Mi chiedevano che aspetto avevano gli
angeli, perché indossavo abiti maschili, perché me ne ero andata da casa e
altre tematiche che non avevano niente a che vedere con la fede. Riuscirono
comunque a mettere insieme circa settanta capi d’accusa, molti dei quali
palesemente falsi e non suffragati da nessuna testimonianza. Con questo
castello di menzogne mi condannarono a morte!

Con che spirito
accettasti questa sconfitta? Ti sentisti una fallita?

Mi sono sempre sentita uno strumento nella mani di Dio. Non avevo
iniziato quell’avventura di mia iniziativa. Avevo la consapevolezza di aver
agito sempre per il bene della mia patria, la Francia e in questo di aver fatto
sempre la volontà di Dio! Anche se prigioniera di uomini, sapevo di essere
nelle sue mani. Accettai quindi la sentenza ma non le motivazioni che
l’accompagnavano. Del resto il popolo francese era tutto dalla mia parte e la
dice lunga il fatto che, mentre venivo condotta al luogo del supplizio il 30
maggio 1431, fossi accompagnata da ben duecento soldati incaricati di tener
lontano la gente dal patibolo.

Pur condannata per
eresia ti fu concesso di ricevere i Sacramenti, un gesto col quale i tuoi
stessi giudici si sconfessavano e riconoscevano la giustezza delle tue
posizioni…

Infatti, pur condannata per eresia – e allora quella era un capo
d’accusa gravissimo – ho avuto il permesso, contro ogni regola ecclesiastica,
di ricevere l’Eucarestia. Le mie ultime parole, appena investita dalle fiamme,
furono semplicemente: «Gesù». Il rogo consumò oltre che la mia esistenza, tutta
la mia carne. Per evitare che la gente costruisse un santuario in mio onore nel
luogo in cui avvenne la mia esecuzione, i miei resti e le ceneri del rogo
furono gettati nella Senna.

Neanche vent’anni
dopo Carlo VII riaprì il processo subito da Giovanna. Nel frattempo anche una
nuova indagine ecclesiastica fu avviata su indicazione del Papa, e dopo aver
ascoltato oltre un centinaio di testimoni il processo precedente venne
dichiarato nullo e Giovanna D’Arco fu completamente riabilitata imponendosi
come una delle figure più straordinarie della storia della Francia.

Dalla vita di questa
grande santa possiamo capire alcune cose.

Che l’amor patrio è
un valore cristiano, combattere con le armi deve essere sempre una «extrema ratio»,
bisogna lottare per la verità e non per il potere. Che come si ama la propria
famiglia, così si deve amare anche la propria nazione.

Difendere la propria
patria significa anche potere e dovere in alcuni casi combattere per essa.
Quando una nazione viene ingiustamente aggredita e non c’è altro mezzo
diplomatico e incruento, come insegna la Dottrina sociale della Chiesa, per
scongiurare l’aggressione, la nazione aggredita ha il dovere di difendere se
stessa con ogni mezzo.

Santa Giovanna D’Arco
nella difesa libera e totale della sua terra, accettò anche il ricorso alle
armi, ma questo la portò a essere tradita e sconfitta e a perdere tutto, anche
la vita. Ma alla luce della storia e della santità, la sua azione verrà
riconsiderata più tardi come un’azione utile e giusta, a servizio della Chiesa
e del proprio paese. E Giovanna, umiliata da un ingiusto processo e
«cancellata» dai suoi nemici, diventerà un esempio di santità e modello di vita
per i francesi.

Don Mario Bandera, Missio Novara

Mario Bandera




2. Massimiliano Kolbe

Massimiliano
Maria Kolbe nasce in Polonia a Zdunska-Wola, una cittadina nei pressi di Lodtz,
l’otto gennaio del 1894. Giovanissimo entra nell’Ordine dei Frati Minori
Conventuali e, pur ammalato di tubercolosi, svolge un intenso apostolato
missionario prima in Europa e successivamente in Asia. Durante
l’occupazione della sua patria da parte dei nazisti, nel 1941 è fatto
prigioniero e deportato ad Auschwitz. In questo campo di sterminio offre la sua
vita al posto di quella di un padre di famiglia, suo compagno di prigionia. Condannato a
morire di fame, è finito con un’iniezione letale il 14 agosto 1941.


Padre Kolbe, il tuo
conterraneo papa san Giovanni Paolo II ti ha chiamato: «Patrono del nostro
difficile secolo». Si riferiva ovviamente a tutto il Novecento, secolo di
progresso ma caratterizzato da tragedie immani come le due Guerre Mondiali.
Puoi parlarci un po’ di te e della tua infanzia?

Sono nato a Zdunska-Wola, nel cuore della Polonia, l’8
gennaio 1894, i miei genitori erano ferventi cristiani. Mio papà Giulio,
operaio tessile, era un patriota che non sopportava la divisione della Polonia
di allora in tre parti dominate rispettivamente da Russia, Germania e Austria.
La nostra era una famiglia che aveva scarse risorse finanziarie e, a causa di
questo, solo mio fratello maggiore poté frequentare la scuola.

In quanti fratelli
eravate?

Eravamo cinque fratelli, ma solo tre riuscirono ad
arrivare all’età dell’adolescenza. Non potendo frequentare regolarmente le
scuole, imparai a leggere e scrivere con l’aiuto di un sacerdote e del
farmacista del paese. I Frati Minori Conventuali che conoscevano la difficile
situazione della mia famiglia proposero ai miei genitori di accogliere me e i
miei fratelli nel loro collegio.

Si può dire allora
che fin da piccolo il rapporto con i Conventuali Francescani ebbe un’importanza
fondamentale per te e per la tua famiglia.

Proprio vero. Il destino volle che un po’ tutta la
famiglia si legasse sempre di più all’Ordine dei Conventuali Francescani, sia
il papà che la mamma divennero terziari francescani e noi tre fratelli passammo
direttamente dal collegio al loro noviziato.

Una famiglia
esemplarmente francescana dunque.

Sì, ma mio fratello Francesco dopo alcuni anni lasciò la
vita religiosa per dedicarsi alla carriera militare. Prese parte alla Prima
Guerra Mondiale e, dopo essere stato catturato, morì in un campo di prigionia.
L’altro, finiti gli studi, si inserì nel mondo lavorativo.

Tu invece?

Dopo il noviziato fui inviato a Roma, dove restai sei anni
laureandomi in filosofia all’Università Gregoriana e in Teologia al Collegio
Serafico. Nella «Città Etea» venni ordinato sacerdote il 28 aprile 1918.

Che ricordi hai di quel
periodo della tua giovinezza vissuta a Roma?

Ricordo due fatti in particolare: un giorno, mentre
giocavo a pallone, cominciai a perdere sangue dalla bocca. Fu l’inizio di una
malattia, la tubercolosi, che tra alti e bassi mi accompagnò per tutta la vita.
In secondo luogo, prima di diventare sacerdote, fondai la «Milizia
dell’Immacolata», un’associazione religiosa avente per finalità la conversione
di tutti gli uomini per mezzo di Maria.

Dopo aver completato
gli studi hai fatto ritorno nella tua patria, che compiti ti furono affidati?

Pur essendomi laureato a pieni voti, a causa della mia
salute malferma che mi impediva di parlare a lungo, ero inadatto
all’insegnamento e alla predicazione. Così, una volta ritornato nella mia
Polonia, pensai di fondare un giornale di poche pagine, «Il cavaliere
dell’Immacolata», per alimentare lo spirito e la diffusione della «Milizia».

E le cose come
proseguirono?

A Grodno, una cittadina situata a 600 chilometri da
Cracovia, dove ero stato destinato dai miei Superiori, impiantai la tipografia
per la stampa del giornale con vecchi macchinari. Nel contempo con mio grande
stupore, molti giovani desiderosi di condividere una vita francescana e allo
stesso tempo di dedicarsi a una nuova forma di apostolato legata alla nascente
editoria cattolica, cominciarono a confluire nella mia comunità.

Pur nella limitatezza
dei mezzi a disposizione, la tua intraprendenza e il tuo ardore fecero il
miracolo di attirare sempre più gente accanto a te.

Effettivamente la Provvidenza ci venne in aiuto in maniera
formidabile: un conte ci donò un terreno vicino a Varsavia, e lì fondai «Niepokalanow»,
la «Città di Maria». Quello che avvenne negli anni successivi ebbe del
miracoloso. Dalle prime capanne si passò a edifici in mattoni, dalla vecchia stampatrice,
si passò alle modee tecniche di stampa e composizione, dai pochi operai agli
oltre settecento religiosi di dieci anni dopo. Il «Cavaliere dell’Immacolata»,
inoltre, raggiunse la tiratura di milioni di copie. A esso si aggiunsero altri
sette periodici.


La tua terra però ti
stava «stretta» e tu volevi spaziare su orizzonti più vasti.

Sì, nel 1930 partii per il Giappone
dove, a Nagasaki, con l’aiuto della piccola ma tenace comunità cattolica
locale, impiantai una tipografia e feci sorgere una cittadella sul modello
della «Città di Maria» che avevo lasciato in patria.

E come reagì la
comunità cattolica nipponica?

Anche in Giappone la Provvidenza fece meraviglie: la
tiratura delle nostre riviste raggiunse ben presto 18.000 copie e, pur essendo
i cattolici una piccolissima minoranza, riuscimmo a produrre dei giornali che
attiravano l’interesse anche dei giapponesi che non professavano la nostra
stessa fede.

Ma anche l’Estremo
Oriente non ti fu sufficiente, volevi allargare sempre più il tuo campo d’azione.

È vero, per conoscere maggiormente la realtà asiatica feci
un viaggio con la Transiberiana e mi misi a studiare il russo. Tra i miei sogni
c’era anche il progetto di una missione in India. Inoltre, vista la buona
tiratura dei nostri giornali, pensavo con i miei collaboratori di stamparli in
diverse lingue e diffonderli in tutto il mondo.

Ma
un’attività così intensa certamente avrà prostrato il tuo fisico considerando
anche la tua malattia.

Il poco riguardo per la mia salute portò la mia
tubercolosi a un vistoso peggioramento, perdevo sangue in maniera più
consistente e più frequentemente. I miei superiori mi imposero perciò una
visita medica approfondita. Il responso fu abbastanza crudo: i medici dissero
che mi restavano pochi mesi di vita. Decisi allora di tornare in Polonia. In
patria ebbi modo di curarmi e la salute migliorò.

Alla fine degli anni
’30 la Polonia viveva tempi difficili…

Purtroppo, dopo che Hitler ebbe annesso alla Germania
l’Austria e la Cecoslovacchia, il primo settembre 1939 le truppe naziste al
comando del generale Guderian, invasero la mia terra. Duemila aerei della
Lutwaffe bombardarono Varsavia, dando così inizio alla Seconda Guerra mondiale.

L’occupazione nazista
fu particolarmente brutale nei vostri confronti.

Secondo la loro ideologia esisteva la
razza ariana superiore a tutte le altre, e noi popoli slavi eravamo visti come
mano d’opera che doveva servire i nuovi padroni. I nazisti arrivarono ai
cancelli della nostra comunità il 19 settembre del 1939 e ci arrestarono tutti
perché il nostro giornale non era gradito al governo di occupazione.

Dove vi portarono?

Ci divisero e ci sbatterono in diverse carceri dei paesi
occupati, a volte ci spostavano senza darci nessun preavviso. Questi viaggi
avvenivano in vagoni bestiame riempiti all’inverosimile, senza servizi, con le
porte sprangate dall’esterno. Regnava fra i prigionieri un clima di
rassegnazione: tutti temevano il peggio. Ebbene io mi feci forza e intonai un
canto religioso cui subito si unirono molti altri. Questo nostro modo di fare:
cantare su carri bestiame diretti ai campi di sterminio, la ritengo una delle
forme più alte di preghiera che in quel momento potevamo fare.

Quale fu la tua
destinazione finale?

Il 28 maggio del ’41 mi trasferirono ad Auschwitz insieme
ad altri 320 compagni di sventura. Una volta arrivati in quel tristemente
famoso campo di sterminio, fui messo insieme agli ebrei perché sacerdote, e mi
diedero una casacca con il numero 16670.

Com’era la vita al
campo?

Ricordo con sofferenza gli appelli che le guardie si
divertivano a fare a tutte le ore, anche nel cuore della notte, per vedere se
qualche prigioniero era fuggito. Io venni inserito nella squadra adibita ai
lavori più umilianti come il trasporto dei cadaveri raccolti nelle camere a gas
e destinati al crematorio. La vita di ognuno non contava proprio nulla agli
occhi degli aguzzini di Auschwitz. Alla fine di luglio fui destinato alla
squadra addetta alla mietitura nei campi, un lavoro certamente più dignitoso di
quello che ero stato costretto a fare fino ad allora.

Quindi, pur nella
terribile condizione di prigioniero in un campo nazista, perlomeno potevi
uscire per mietere il grano.

Questo, che innegabilmente era, rispetto allo standard
della vita dei prigionieri, un vantaggio, si trasformò in un incubo quando uno
dei miei compagni riuscì a sottrarsi al controllo delle guardie e a fuggire.
Secondo l’inesorabile legge che vigeva ad Auschwitz, per ogni prigioniero che
fuggiva, altri dieci venivano destinati al bunker della morte. Ci radunarono
quindi nello spiazzo centrale e a caso i nazisti prelevarono dieci disgraziati
da sopprimere.

Chissà che tortura anche per chi non era
punito, assistere a quelle scene.

Effettivamente… una volta scelti i dieci disgraziati, vidi
uno di loro disperarsi lanciando alte grida al cielo, urlando che lui era un
papà di famiglia e che i suoi figli aspettavano la fine della guerra per
rivederlo. Presi allora la decisione di offrirmi al suo posto.

Un uomo con una forte
personalità come la tua, che aveva ottenuto risultati brillanti in ogni parte
del mondo, si ritrovava così nella condizione terribile e sublime allo stesso
tempo di offrire la propria vita per salvae un’altra.

In quel preciso istante mi sentii per un attimo un «perdente»
sotto ogni aspetto, ma subito risuonò in me la parola del Signore che diceva: «Non
c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Capii
allora che se volevo contribuire a vincere l’iniquità del peccato calato su
tutta l’Europa, era necessario donare tutto me stesso, perdermi totalmente nei
gorghi del male per ritrovare nuovamente la mia vita trasformata in Cristo.

Questo
per i nazisti non comportò nessun problema?

No, per loro dovevano essere giustiziati dieci
prigionieri, non importava chi fossero. Ci rinchiusero pertanto in minuscole
celle dove potevamo a malapena sederci. Le celle vennero poi murate. La
condanna prevedeva la morte per mancanza di cibo e acqua. Un’agonia lunghissima
che si consumava tra disperazione e atroci sofferenze. Decisi allora di
alleviare la disperazione dei miei compagni pregando ad alta voce e innalzando
canti religiosi al Signore.

E i tuoi compagni di
sventura come reagirono a questa tua iniziativa?

Alcuni unirono le loro voci alle mie preghiere e ai miei
canti, dopo alcuni giorni però i più deboli cominciarono a spegnersi. Dopo ben
quattordici giorni in quattro eravamo ancora in vita. I nazisti decisero allora
di sopprimerci con una iniezione di acido fenico. Così ebbero termine le nostre
sofferenze.

Padre Massimiliano Kolbe si spense il 14 agosto
1941, le sue ultime parole, mentre gli facevano la letale iniezione nel braccio,
furono: «Ave Maria». Insieme ai suoi compagni venne quindi gettato nel foo
crematorio e le sue ceneri si mescolarono a quelle di tanti altri sventurati.
Così finì la vita terrena di una delle più belle figure del francescanesimo
della Chiesa polacca e universale. Papa Paolo VI lo beatificò il 17 ottobre
1971, mentre papa Giovanni Paolo II lo proclamò Santo il 10 ottobre 1982. Il
suo fulgido martirio resta una testimonianza esemplare della coerenza cristiana
vissuta in tempi e ambienti terribili.

Don Mario Bandera,
Missio Novara


Mario Bandera




Juliette Colbert, marchesa di Barolo

Donna straordinaria del nostro
Risorgimento, la sua vita precorre il modo di agire dei grandi Santi sociali
del Piemonte dell’Ottocento. Nata il 27 giugno 1785 in una nobile famiglia
della Vandea francese, terra di forte tradizione cristiana, pronipote di J. B.
Colbert, ministro delle finanze di Luigi XIV, il Re Sole, dopo la Rivoluzione
francese entra a far parte della corte di Napoleone Bonaparte, dove conosce il
marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo. Se ne innamora, si sposano e vanno
ad abitare a Torino. Colpita dalla situazione di povertà ed emarginazione che
investe vasti strati della popolazione del Regno Sabaudo, comincia a farvi
fronte con intraprendenza, determinazione e… fantasia.

La devo chiamare col
suo titolo nobiliare o col più familiare Juliette?

Mi
chiami Juliette, come mi chiamava mio marito e come mi chiamavano le persone
amiche.

Bene, diamoci anche
del «tu», così l’intervista diventa più facile. Parlaci della tua infanzia
negli anni in cui si scatenava la Rivoluzione francese.

Ero
bambina quando la Rivoluzione francese si abbatté sulle nostre esistenze. La
mia famiglia, come quella di tutti i nobili, venne coinvolta nelle violenze che
si abbatterono in Vandea, dove eravamo perseguitati dai «sanculotti» non solo
in quanto nobili ma anche per la nostra fede cristiana. Per salvarci fummo
costretti a espatriare, prima in Germania, poi in Olanda e quindi in Belgio.

I tuoi genitori non
persero mai la speranza, anzi, seppero trasmetterti una fede così forte che con
il tempo si caratterizzerà nella tua vita in forme di carità e di solidarietà
veramente notevoli.

Nel
1792 ci stabilimmo insieme ad altri fuoriusciti dalla Francia a Coblenza, in
Germania, dove i miei genitori vollero che ricevessi un’educazione di
prim’ordine. Grazie quindi a maestri scelti mi formai una cultura largamente
superiore a quella delle donne del mio tempo e, se devo essere sincera, anche
alle donne del mio rango.

Rimanemmo
in esilio per dieci anni, poi, nell’aprile del 1802, Napoleone concesse
l’amnistia a quasi tutti gli esiliati. Però volle che i nobili frequentassero
la sua corte a Parigi.

E fu a corte che
incontrasti quello che sarebbe diventato tuo marito?

Proprio
così. Là mi incontrai con l’ultimo discendente di una delle più ricche e
antiche famiglie piemontesi: Carlo Tancredi Falletti, marchese di Barolo. I
suoi tratti gentili e il modo di fare mi conquistarono subito, mi innamorai di
lui e nel 1807 ci sposammo.

Dopo il matrimonio vi
trasferiste a Torino?

Carlo
desiderava a ogni costo che la mia presenza rallegrasse il palazzo della
famiglia Barolo, così ci spostammo a Torino, anche se trascorrevamo parecchi
mesi dell’anno viaggiando e ritornando spesso a Parigi.

Immagino che, vista
la vostra posizione, non vi fosse difficile incontrare personaggi di spicco
della cultura e della politica.

Questo
è vero, incontrammo molti personaggi famosi, ma solo alcuni esercitarono
un’influenza positiva sulle azioni caritative messe in atto più tardi da me e
da Carlo. Ricordo con piacere l’abate Dupanloup (Félix Antornine Philibert
Dupanloup, 1802-1878) rettore del Seminario di Parigi e grande amico di
Federico Ozanam (Frédéric Antornine Ozanam, 1813–1853) fondatore della Società di
San Vincenzo, e la marchesa Adelaide Pastoret (1766-1843) promotrice e
organizzatrice dei primi asili d’infanzia, oppure l’abate Legris-Duval (René-Michel
Legris-Duval 1765-1819) particolarmente attento al problema del recupero sociale
delle così dette «fanciulle perdute».

Nella capitale
sabauda invece conosceste altra gente che vi aiutò nel realizzare le opere di
carità che avevate programmato.

Casa
nostra era frequentata da molti nobili e intellettuali piemontesi, tra cui ricordo
con piacere soprattutto Silvio Pellico, che accogliemmo sotto il nostro tetto
dopo la dura esperienza del carcere allo Spielberg. Questi, pur avendo un’idea
della società condizionata dalla classe di appartenenza, erano desiderosi sia
di risolvere il problema dell’assistenza agli emarginati che di propugnare
riforme politiche e sociali, secondo gli ideali del Risorgimento, che
portassero all’unità d’Italia, in quel tempo frazionata e divisa.

Queste aspirazioni ti
coinvolgevano da vicino?

Proprio
così. Però la cosa che mi interessava di più non era la politica, bensì la
situazione sociale, in quanto vedevo molte persone che vivevano nella massima
povertà e indigenza. Io non volevo fare qualcosa per i poveri, ma con i poveri.
Perché per noi aristocratici offrire un po’ di denaro o di risorse materiali è
fin troppo facile, mentre invece dare la responsabilità ai poveri affinché
imparino a gestire la propria vita è molto più impegnativo e richiede un amore
vero e sincero verso di loro.

Quando iniziarono le
tue attività?

Nel
1815 mi iscrissi alla Compagnia della Misericordia dedicandomi alla
distribuzione di viveri per i detenuti di Torino. Qualche anno dopo ebbi il
permesso di entrare nelle carceri dove il contatto diretto, specialmente con le
detenute, provocò in me uno shock terribile. Vedere quelle donne, per lo più
provenienti dalle fasce sociali più emarginate, dietro le sbarre in condizioni
disumane, alimentò nei loro confronti un forte desiderio di consolarle e
affrancarle da quella situazione.

Come si svolgeva il
tuo apostolato in mezzo a queste donne che agli occhi della società del tempo
erano viste come persone non recuperabili?

Mi convinsi che oltre a operare su un piano materiale,
dovevo lavorare sull’aspetto morale. Mi fermavo a conversare a lungo con ognuna
di loro, ed esse compresero che ero loro amica. Lasciavo anche intravedere che
il mio modo di vivere era caratterizzato dalla fede cristiana. In questo modo
cercavo di gettare un seme di speranza nella loro vita. Certo, continuavano a
essere delle recluse, ma si andavano creando le condizioni affinché all’interno
del carcere ci fosse un clima più tollerabile.

Questo tuo modo di
agire ebbe dei riflessi anche in altri ambienti carcerari a Torino?

La
mia azione fra le detenute suscitò interesse in alcuni membri della casa reale.
Grazie a loro ottenni di poter riunire tutte le detenute torinesi in un unico
edificio, dove potei realizzare i miei progetti.

Spiegati meglio.

Innanzi
tutto cominciai a separare le donne che erano inquisite da quelle che erano già
state condannate. Poi, con il coinvolgimento di tutte loro, si stese un
regolamento di disciplina. Stabilimmo dei compiti quotidiani in cui tutte erano
coinvolte, dalle pulizie delle camerate ai bagni, alla cucina ecc. Non ultimo,
promossi una paziente opera di alfabetizzazione che coinvolse quasi tutte. Il
risultato più grande fu di sostituire le guardie con delle suore (le «Suore di
S. Anna», fondate col marito nel 1834), che io e il mio amato sposo promuovemmo
proprio per venire incontro a queste situazioni.

Questo fece
migliorare la vita delle carcerate?

Pensa
che qualcuno arrivò a dire che nel 1838, quando le suore andarono ad abitare
nel carcere, questo assomigliava più a un convento che a un penitenziario.
Subito dopo ci rendemmo conto di un’altra piaga sociale, quella delle ragazze
madri, o come si diceva in quel tempo, delle «fanciulle traviate».

Anche con loro
iniziaste un percorso di riscatto alternativo a quelle che erano le regole
vigenti?

Ottenni
dal governo un edificio (il Rifugio) che ristrutturammo per creare una casa
aperta a tutte le ex carcerate e alle ragazze madri, offrendo loro la
possibilità di un lavoro che le aiutasse a reinserirsi nella società. Il lavoro
non solo garantiva il loro sostentamento, ma con quello che riuscivano a
risparmiare, potevano accumulare una piccola dote da ritirare al momento di
lasciare il rifugio.

Oltre il lavoro ci
furono altri aspetti positivi legati al vostro particolare modo di vivere?

Alcune
di queste donne, avendo fatto un cammino di conversione, e saldato i conti con
la giustizia, maturarono l’idea di consacrarsi attraverso una vita di lavoro e
di preghiera. Nacque l’idea di una nuova congregazione detta delle «Maddalene»
(oggi «Figlie di Gesù Buon Pastore»), approvata dell’Arcivescovo di Torino nel
1833 e dalla Santa Sede nel 1846.

Oltre al lavoro con
le detenute, il tuo campo di attività abbracciava anche altri ambiti specifici?

Mi
occupai di lanciare in Italia gli asili d’infanzia (promossi in Francia dalla
marchesa Pastoret), dove oltre a provvedere cibo e vestiario, cercavamo di
insegnare ai bambini i primi rudimenti della scuola e del catechismo. Fondammo
anche delle scuole professionali e si diede inizio alla costruzione della
chiesa di Santa Giulia nel popolare quartiere di Vanchiglia a Torino.

Juliette, pur essendo
una nobile e un’aristocratica, la tua esistenza fu dedicata interamente ai
poveri.

Io e
il mio sposo Carlo, riversammo tutte le nostre attenzioni e il nostro affetto
sulle persone povere e svantaggiate, e questo diede un senso pieno e vero alle
nostre esistenze, perché come dice il Signore: «C’è più gioia nel dare che nel
ricevere».

Juliette Colbert, marchesa di Barolo, si spense il 19 gennaio del
1864. Il marito era morto nel 1838. La loro azione in favore dei poveri fece da
apripista ai Santi sociali piemontesi del XIX secolo, con cui era in relazione,
soprattutto S. Giuseppe Cafasso e Don Bosco. Figlia del suo tempo e
appartenente alla classe aristocratica, non venne presa molto in considerazione
dalla storiografia del Risorgimento. Il tempo però sta facendo giustizia di
questo oblio ridandoci la vera identità di Giulia Colbert: una giovane bella,
ricca, dotata di mille risorse che aveva tutto per godersi la vita e invece con
il marito si mise al servizio dei poveri. Dopo la sua morte venne costituita
l’Opera Pia Barolo, alla quale lasciò l’intero patrimonio di famiglia.
Complessivamente dedicò alle sue opere di beneficenza circa 12 milioni di lire,
una somma pari al bilancio di uno stato del tempo. Il 21 gennaio 1991 la
diocesi di Torino ha avviato la causa di beatificazione dei due coniugi.

Don Mario Bandera,
Missio Novara

Mario Bandera




Carlo di Gesù (Charles De Foucauld)

Charles
De Foucauld nacque il 15 settembre 1858 a Strasburgo in Francia, visse una
giovinezza scapestrata, l’unica cosa che lo interessava era divertirsi.
Intraprese la carriera militare ma dopo pochi anni fu congedato per
indisciplina aggravata da cattiva condotta, un marchio disonorevole che lo
lasciò completamente indifferente. Incominciò a viaggiare e da audace
esploratore si addentrò in una zona sconosciuta del Marocco ricavandone notizie
interessanti che gli meritarono una medaglia d’oro dalla Società di Geografia
di Parigi. Toccato dalla fede profonda di alcuni musulmani conosciuti in
Africa, al suo ritorno in Francia ebbe una profonda crisi che lo portò a
riavvicinarsi alla fede cristiana decidendo di «vivere solo per Dio»; la sua fu
una conversione sconvolgente che gli cambiò radicalmente la vita. Entrò in un
monastero trappista e dopo alcuni anni si recò in Terra Santa per vivervi come
Gesù in povertà e nascondimento. Fece gli studi di teologia, al termine dei
quali fu ordinato sacerdote e ottenne di stabilirsi a Tamanrasset, un’oasi
sperduta nel cuore del deserto del Sahara, ove trascorse tredici anni dedicandosi
totalmente alla preghiera e all’ospitalità dei viaggiatori che vi facevano
sosta. Durante la sua permanenza in quell’ambiente, realizzò un aggioatissimo
dizionario francese – tamashek (la lingua dei tuareg), in uso ancora oggi.

Carlo, lo sai che sei
una delle figure più adamantine e originali della Chiesa del XX secolo?

Non
esageriamo adesso, sai benissimo che in gioventù ne ho combinate di cotte e di
crude. Il fatto stesso che fui congedato con disonore per indisciplina e
cattiva condotta dall’esercito francese la dice lunga sui miei trascorsi
movimentati.

Effettivamente parte
della tua vita fu segnata da intemperanze di non poco conto.

La
mia giovinezza fu segnata dal fatto che non credevo in nulla e che mi concedevo
ogni cosa desiderassi. Ma tutto ciò, paradossalmente, svuotò completamente la
mia vita di significato. Una volta congedato, partii come esploratore in
Marocco allo scopo di illustrare e descrivere zone inesplorate dell’Africa.

Fu in quell’occasione
che venisti a contatto con la fede islamica professata dagli accompagnatori dei
tuoi viaggi e dalla gente di quelle lande sperdute?

La
fede dei musulmani cominciò a far vacillare le mie laiche sicurezze tipicamente
francesi. Il vedere come quella gente semplice e umile si prostrasse cinque
volte al giorno in direzione della Mecca per rendere culto al Dio onnipotente e
misericordioso, provocò in me un’ansia di ricerca del senso della vita alla
quale forse per troppo tempo non avevo dedicato alcuna attenzione.

Fu al tuo ritorno in
Francia che la ricerca di Dio trovò il suo compimento.

È
vero, tornato nella mia patria incominciai con determinazione e insistenza a
percorrere un cammino che mi avrebbe aiutato a ritrovare la fede.

E quella tua ricerca
alla fine ebbe buon esito.

Sì,
nello stesso attimo in cui mi resi conto dell’esistenza di Dio, compresi che
non potevo fare altro che vivere per Lui, con Lui e soprattutto come Lui! Si può
dire che la mia vocazione religiosa risale al momento stesso in cui in me scoccò
la scintilla della fede.

Sei stato aiutato da
qualcuno nel tuo cammino?

Sono
grato a padre Henri Huvelin che mi accompagnò passo dopo passo nella mia
faticosa ricerca diventando un prezioso direttore spirituale. Da lui mi
confessai dopo tanto tempo e su suo consiglio decisi di recarmi nel 1888 in
Terra Santa per visitare i luoghi dove aveva vissuto Gesù.

Dove avvenne qualcosa
di importante per te…

Precisamente.
Fu proprio in quel viaggio che decisi di diventare monaco. Al ritorno in
Francia, nel gennaio del 1889 entrai nel monastero trappista di Nostra Signora
delle Nevi nella diocesi di Viviers, dove mi venne dato il nome di Alberico
Maria.

Però la tua ansia e
ricerca di Assoluto ti spingeva altrove, non è vero?

Nel
1901 fui ordinato sacerdote e il 28 ottobre dello stesso anno ritornai in
Africa e mi stabilii a Benis-Abbes, una zona situata proprio dove passava il
confine fra Algeria e Marocco. Nel 1905 mi spostai a Tamanrasset dove costruii
una piccola dimora in cui potevo fare le mie meditazioni, scrivere, contemplare
la creazione e dialogare con le persone che il Signore mi faceva incontrare.

Il silenzio e la
vastità del deserto favorivano la contemplazione del mistero di Dio?

Sì.
Passavo ore e ore contemplando quello che mi circondava, tutto ciò che vedevo e
ascoltavo, dal colore cangiante della sabbia del deserto che mutava alla luce
del sole delle diverse ore della giornata, al sibilare del vento che mi parlava
di Dio. Entrai col tempo in un rapporto intimo con Lui, vivevo una spiritualità
che andava sempre più concentrandosi sul Cristo Crocifisso e l’Eucaristia.

Se non vado errato,
cucisti sulla tua tunica bianca un cuore rosso di stoffa sormontato da una
croce.

Era
un modo silenzioso, profondamente efficace, di dare testimonianza dell’amore di
Dio e di Gesù suo figlio che aveva effuso lo Spirito dopo il sacrificio della
Croce sull’umanità intera.

Tu accoglievi ogni
persona che passava da Tamanrasset. Un modo sincero e profondo per offrire
ospitalità e dare testimonianza della tua fede cristiana.

A
tutti quelli che passavano di là, qualunque religione professassero, mi
presentavo loro come un «fratello universale». A tutti davo accoglienza e
ascolto, e cercavo di intavolare un dialogo pieno di rispetto e di
comprensione.

Oggi riflettendo sui
molteplici modi di annunciare il Vangelo, scopriamo che il tuo è quello più
congeniale per avvicinarci alle popolazioni di lingua, cultura e fede diversa.

La
testimonianza che io offrii in un angolo sperduto del deserto del Sahara non
aveva come obiettivo la conversione della gente. Era piuttosto centrata sul
fatto che, come discepolo di Gesù di Nazareth, non potevo fare altro che dare
lode al mio Dio, dare ragione della speranza e della fede che era nel mio cuore
e, come dice San Pietro, e cercare di esprimere sempre rispetto e tenerezza.

Certo, se si pensa
alle «conversioni» di interi popoli avvenute nei secoli passati con la
coercizione e la spada, c’è da restare allibiti per la disarmante semplicità
con cui hai presentato la fede in Cristo Gesù.

Quello
che apparentemente può essere ritenuta un’inutile perdita di tempo o un modo di
fare che non dà nessun risultato nell’immediato, se vissuto con amore e
dedizione, risponde invece a una potente logica evangelica, quella del seme che
muore per dare molto frutto.

Il tuo modo di agire,
il tuo carisma, hanno dato origine a una spiritualità cui si ispirano diversi
Istituti e Congregazioni che fanno della preghiera e della testimonianza
silenziosa uno dei cardini preziosi per annunciare Cristo Crocifisso.

Il
Signore edifica meraviglie servendosi della nostra povertà. Con la sua morte in
croce Gesù ha salvato il mondo. Con la pochezza degli Apostoli ha fondato la
Chiesa. È con la santità che si conquista il cielo, e la fede viene propagata.
Ricordiamoci sempre che la fede si è diffusa a macchia d’olio quando i
cristiani la celebravano nelle catacombe, mentre ha segnato il passo quando la
Chiesa era carica di ricchezze e splendori.

Oltre alla
contemplazione ti sei addentrato anche nella lettura e meditazione delle Sacre
Scritture. La tua prassi di vita ha inciso sul tuo modo di pregare?

Più
la Parola di Dio mi afferrava, più mi sentivo in sintonia con il Signore del
creato, con il Padre misericordioso che ama in maniera sconfinata tutti i suoi
figli e a lui mi abbandonavo completamente.

A mo’ di conclusione
di questa nostra intervista, puoi recitare la tua preghiera, quella che ti ha
qualificato nella Chiesa del XX secolo come un maestro di spiritualità?

Con
piacere… ripeti con me: «Padre mi abbandono a te, fa di me ciò che ti piace.
Qualsiasi cosa tu faccia di me, ti ringrazio. Sono pronto a tutto, accetto
tutto, purché la tua volontà si compia in me, e in tutte le tue creature: non
desidero nient’altro, mio Dio. Rimetto l’anima mia nelle tue mani, te la dono,
mio Dio, con tutto l’amore del mio cuore, perché ti amo. È per me un’esigenza
di amore, il donarmi a te, l’affidarmi alle tue mani, senza misura, con
infinita fiducia: perché tu sei mio Padre».

Il
primo dicembre del 1916 l’umile dimora di Charles De Foucauld fu saccheggiata
da predoni sbandati del deserto. Gioi dopo il suo cadavere fu ritrovato
abbracciato all’Ostensorio che conteneva ancora le particole consacrate.

Benedetto
XVI l’ha beatificato il 13 novembre 2005.

 
don Mario Bandera
Missio Novara

Mario bandera




Zingaro e santo: Ceferino Gimenez Malla

Ceferino (Zefirino) Gimenez Malla detto «El Pelè», membro del popolo gitano, fin dalla sua
nascita è bollato come uno zingaro, quindi un escluso della società. Nasce in
Spagna nel 1861, forse a Benavent de Sangria, probabilmente il 26 agosto 1861.
Il caratteristico nomadismo del suo popolo gli impedisce di frequentare
regolarmente le scuole, lasciandolo quasi analfabeta. è di famiglia povera, che diventa ancor più povera quando il
padre se ne va con un’altra donna. Girando di villaggio in villaggio conosce la
precarietà tipica della vita di coloro che vivono nell’emarginazione. Fin da
piccolo impara a fare il panieraio, a intrecciare cioè cesti e canestri, che poi
vende nei villaggi. A 18 anni si sposa con il rito gitano con Teresa Jimenéz,
un matrimonio che durerà più di quarant’anni. Purtroppo la loro unione non sarà
coronata da figli, adotteranno quindi “Pepita” (Giuseppina) una nipotina di
Teresa. Ceferino è il primo zingaro a essere elevato alla gloria degli altari.

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Ceferino - o preferisci che ti chiami «El Pelè» come ti chiamavano tutti? -, parlaci un po’ di te.

Appartengo al popolo gitano - gli zingari -, le cui origini si perdono nelle nebbie della storia. Provenienti dall’India, ci siamo sparsi per tutta l’Europa. In Spagna siamo poco meno di un milione, la terza comunità più numerosa nel nostro continente.

Un popolo che non ha mai rinunciato ai suoi usi e costumi, soprattutto al nomadismo.

Proprio così. Pensa che il saluto ben augurante che usiamo tra di noi è lacio drom, che significa «buon cammino» o «buon viaggio», per indicare un modo di vivere in movimento, con il mondo intero come orizzonte.

Questo vostro modo di vivere vi ha causato parecchie noie, sofferenze e anche persecuzioni.

Ormai sono innumerevoli le prese di posizione legislative su (e contro) di noi. Il fatto di non essere stanziali fa di noi degli uomini liberi, poco controllabili da chi è preposto a garantire l’ordine pubblico e quindi anche temuti. In tutti i modi si cerca ancora oggi di obbligare gli zingari a diventare stanziali al pari di tutti i «payos» (termine che nella nostra lingua definisce chi non è zingaro).

L’ostilità nei vostri confronti ha avuto il suo apice con le leggi razziali di Hitler che voleva sopprimervi così come il popolo ebraico.

Vivendo in Spagna sono stato toccato solo marginalmente dal nazismo, ma l’orrore dei campi di sterminio resta una ferita sanguinante ancora oggi. Pensa che ad Auschwitz, sulla lapide che riporta i nomi dei popoli che soffrirono le pene dell’inferno, il nome del popolo zingaro non compare! Una dimenticanza non da poco.

La tua famiglia che posizione occupava?

Sono nato e cresciuto in una famiglia povera e numerosa. Le bocche da sfamare erano tante. In più mio padre a un certo punto se ne andò per vivere con un’altra donna lasciandoci nella più nera indigenza.

Nonostante ciò non sei diventato né ladro né accattone né imbroglione, come spesso e volentieri i «payos» pensano di voi.

C’è una legge fondamentale nel cuore di ogni uomo: essa dice che prima di tutto devi rispondere ai dettami della tua coscienza. La mia, fondata sulla fede cristiana e sui valori del popolo rom, mi ha sempre spinto ad agire per il bene.

Ti sei fatto la fama di uomo retto, con una autorevolezza morale tale da diventare un capo dei gitani aragonesi di Barbastro.

Proprio così, per il mio modo di fare e per i miei atteggiamenti mi trovai senza volerlo a essere un riferimento per coloro che avevano bisogno di un consiglio. Più volte sono stato chiamato a far da paciere nelle liti familiari, nelle controversie tra gitani e tra questi e gli abitanti della nostra cittadina.

Però devi ammettere che un giorno hai avuto un bel colpo di fortuna, o è stata la provvidenza? ce ne parli?

Una sera tornando a casa vidi sul ciglio della strada un uomo, per la precisione un ricco possidente della zona. Malato di tubercolosi, era svenuto e il sangue gli usciva dalla bocca. Incurante del rischio di contagio l’ho caricato sulle spalle e portato fino a casa sua. La famiglia volle ricompensarmi per quel gesto di carità e con quei soldi intrapresi un piccolo commercio di muli e cavalli.

Essendo un gitano non è difficile immaginare che quello era il tuo mondo.

Ma l’ambiente del commercio degli animali non era dei più puliti e pur cercando di essere limpido e onesto fino allo scrupolo, fui arrestato e incarcerato perché due animali che comprai risultarono rubati. Cosa più che sufficiente per accusarmi di ricettazione. La mia origine gitana e il pregiudizio razziale per cui ogni zingaro è un ladro e un disonesto, pesarono sul processo, ma alla fine riuscii a dimostrare la mia buona fede e la completa estraneità ai fatti. Fui quindi assolto con formula piena.

Perciò hai continuato la tua redditizia attività commerciale?

Sì. Avrei anche potuto diventare ricco, ma avevo, come si dice, le «mani bucate» perché soccorrevo chiunque si trovasse nel bisogno o in difficoltà, specialmente la mia gente, e facevo tutto di nascosto perché nella mia famiglia, mia moglie compresa, non condividevano la mia generosità.

Tutto ciò ti veniva dalla fede cristiana che professavi senza imbarazzo davanti a tutti.

Della mia fede non ho mai fatto mistero a nessuno, avevo sempre con me la corona del rosario e di notte mi piaceva guardare il cielo stellato facendo una specie di adorazione che consiglio a molti di fare. Contemplando il cielo e le stelle pregavo con più intensità.

La tua fede cosa ha cambiato nella tua vita?

Mi ha fatto regolarizzare la mia posizione familiare con il matrimonio religioso che ho celebrato nel 1912 con Teresa a Barbastro, dove mi sono stabilito acquistando una casa. Potendo quindi accostarmi ai sacramenti, facevo della Messa e Comunione quotidiana un punto importante della mia crescita spirituale. Mi dedicavo anche alla catechesi dei bambini sia rom sia spagnoli ed ero molto attivo nella san Vincenzo. Nel 1926 sono diventato anche terziario francescano e organizzatore dei pellegrinaggi annuali dei Rom a diversi santuari. Dal 1931 ho cominciato a partecipare regolarmente all’adorazione nottua dei «giovedì eucaristici».

Però sul tuo capo come su quello di milioni di spagnoli incombeva minacciosa la rivoluzione del 1936 che scatenò violenza, distruzione e morte, ed ebbe anche una forte connotazione antireligiosa.

La rivoluzione, cresciuta in un brodo di odio popolare e conflitto sociale dovuto alla turbolenta situazione economico-politica che viveva la Spagna in quegli anni, spinse alla radicalizzazione dello scontro tra le fazioni in lotta portando quelle d’ispirazione marxista a uccidere migliaia di religiosi.

Alla fine della guerra di Spagna si contavano più di 6800 preti e religiosi uccisi, tra questi anche tredici vescovi e oltre 200 suore di vita contemplativa. È invece impossibile avere il numero preciso dei laici, uomini e donne, uccisi per la fede. La tempesta che si abbattè in quel periodo sulla Chiesa fu una delle più feroci persecuzioni anticristiane del XX secolo.

E com’è che anche tu sei finito in carcere?

Devo dire che gli avvenimenti bellici che si susseguirono dall’inizio delle ostilità non scalfirono minimamente il mio essere cristiano, anzi. Però nel mese di luglio del 1936 difesi un sacerdote che era stato aggredito e per questo fui arrestato con lui. Perquisendomi, in tasca trovarono la corona del rosario. Quello fu più che sufficiente per sbattermi in galera accusato di ogni falsità.

Immagino che quella corona in carcere sia diventata «un’arma preziosa» tra le tue mani proprio per avvicinarti di più al Signore.

Non solo per me, ma anche per tutti i miei compagni di prigionia. Amici influenti si mossero in mio favore, vennero a trovarmi e mi garantirono l’immediata scarcerazione se solo avessi consegnato la corona del rosario e smesso di sostenere i compagni di prigionia con le mie preghiere. Ovviamente mi rifiutai, perché il rosario significava la fede in Cristo e il recitarlo con fede affidandomi alla Madre di Dio aiutava me e tutti gli altri a sopportare la brutta situazione in cui ci trovavamo.

Quando lo fucilano il 9 agosto del 1936, insieme a Florentino Asensio Barroso vescovo di Barbastro e ad altri prigionieri, l’ultimo suo grido è «Viva Cristo Re!» mentre in mano tiene alta come una bandiera la sua corona del rosario. Il giorno dopo alcuni zingari sono obbligati a scavare una fossa comune per tutti i fucilati e a buttare calce viva sui loro corpi per evitae il riconoscimento e cancellae la memoria.

A Roma il 4 maggio 1997, alla presenza di migliaia di zingari, Giovanni Paolo II lo proclama beato. Nell’omelia il papa dice: «Il beato Ceferino seppe seminare concordia e solidarietà fra i suoi, mediando anche nei conflitti che a volte nascono fra “payos” e zingari, dimostrando che la carità di Cristo non conosce limiti di razza e di cultura». Con lui è stato beatificato anche il vescovo Florentino, fucilato dallo stesso plotone di esecuzione. Di Ceferino non è rimasto niente se non lo sgualcito certificato di battesimo, che portava sempre con sé, e il rosario, segni concreti per confermare che si può essere zingari e santi secondo il monito dell’apostolo Paolo che ogni uomo si converta e viva, rimanendo nella sua cultura e tradizione.

Don Mario Bandera, Missio Novara
Tags: Ceferino, Zeffirino, zingari, santi, martiri spagnoli, martiri
Mario Bandera




San Giuseppe Maria Gambaro

Antonio Beardo Gambaro nasce a Galliate il 7 agosto del
1869, quinto figlio di Pacifico e Francesca Bozzola, modesti artigiani tessili.
Fin da adolescente manifesta l’intenzione di mettersi al servizio del prossimo
e del Signore, e così nell’ottobre del 1883 entra nel collegio serafico del
Monte Mesma (Ameno, Novara), retto dall’Ordine dei Frati Minori Francescani.
Nel 1986 inizia il noviziato nella famiglia religiosa che l’ha accolto e gli
vengono dati i nomi di Giuseppe Maria. Dopo aver compiuto gli studi filosofici
e teologici, il 12 marzo 1892 è ordinato sacerdote. Nel 1894 chiede ai
superiori di poter partire missionario in Cina. Nel dicembre del 1895 si
imbarca a Napoli, visita la Terra Santa e, dopo un viaggio di qualche mese, il
7 marzo 1896 sbarca a Shangai, da lì raggiunge Hen-tceu-fu, capitale della
provincia dell’Hu-nan meridionale. I primi tempi li trascorre cercando di
apprendere i rudimenti della lingua cinese, si accultura rapidamente vestendo
abiti locali. Il vescovo dell’Hu-nan Mons. Antonino Fantosati, gli affida
quindi la direzione del seminario minore di Sce-fan-tan e inizia anche un
fecondo lavoro pastorale con la gioventù della zona. Durante la primavera del
1900 accompagna il vescovo in visita ad alcune comunità del Vicariato
Apostolico. Nel mese di luglio, mentre sono in viaggio, li raggiunge la notizia
che la rivolta dei Boxer dilaga nell’Hu-nan. La residenza episcopale e diverse
opere sociali, compreso l’orfanotrofio, sono distrutte dai rivoltosi che
uccidono padre Cesidio Giacomoantonio. Incuranti del pericolo decidono di
tornare indietro, la barca su cui viaggiano è bloccata lungo il percorso. I
frati, fatti scendere a terra, sono percossi e seviziati fino a provocarne la
morte.

Carissimo padre Gambaro, a dire il vero mi metti un po’ in soggezione
in quanto, oltre ad aver coronato con la Palma del Martirio la tua esistenza al
servizio della Chiesa e del popolo cinese, sei originario di Galliate nella cui
Chiesa parrocchiale per diverso tempo sono stato viceparroco e in cui ho sempre
percepito la forza della tua presenza.

Proprio
vero, sono originario di un paese della Bassa novarese, situato sulle sponde
del Ticino, una zona che dal punto di vista agricolo è sempre stata terra di
coltivazione del riso, mentre dal punto di vista industriale per moltissimi
anni è stata un polo tessile di una certa importanza.

Non dirmi che all’origine della tua scelta missionaria per la Cina c’è
il riso, l’alimento naturale dei galliatesi, che sapevi di trovare in
abbondanza nel Celeste Impero.

A dire
il vero la scelta della Cina è stata più legata a una coscienza che si andava
sempre più accentuando nella Chiesa per quella grande e popolosa nazione dove
ancora non era risuonata la buona notizia del Vangelo. Erano i tempi in cui
mons. Guido Conforti, Vescovo di Parma, fondava l’Istituto Missionario dei
Saveriani con il compito principale di evangelizzare la Cina.

Quindi invece di innamorarti dell’Africa o dell’America Latina, sognavi
di metterti al servizio del popolo cinese per far conoscere loro il messaggio
di amore e di misericordia di Gesù.

Proprio
così. Quando discutevo sulle missioni con gli altri frati miei compagni, il mio
pensiero correva sempre verso la Cina piuttosto che verso l’Africa o altre zone
parimenti bisognose dell’annuncio del Vangelo perché pensavo e ripensavo a
quella sterminata popolazione alla quale mancava la conoscenza del messaggio di
salvezza di Gesù Cristo.

Quando sei arrivato in Cina che realtà hai trovato?

Io
arrivai a Shangai nel marzo del 1896. Qualche anno prima il Giappone aveva
invaso la Cina che era sì un grande impero, ma a causa della corruzione
dilagante, di arroganti potentati locali e della debolezza della casa
imperiale, non era più in grado di garantire ordine e tranquillità alla sua
immensa popolazione.

Se capisco bene, l’Impero di Mezzo, come allora era chiamata la Cina,
era in piena decadenza, come l’Impero Ottomano, imperi che proprio per la loro
vastità, dopo aver conosciuto secoli di splendore, cominciavano a
disintegrarsi.

A quei
tempi l’Impero cinese sotto la dinastia Manchù era in piena decadenza e alla
mercé delle potenze coloniali emergenti: inglesi, russi, giapponesi, tedeschi,
facevano a gara per spartirsi miniere e appalti per la costruzione di strade e
ferrovie e per avere concessioni territoriali in cui estendere la loro
influenza. Tutto ciò alimentava nella popolazione un astio crescente nei
confronti di quelle potenze che si traduceva in odio puro e semplice verso
tutti gli stranieri. Del resto le potenze presenti in Cina attuavano una
sistematica violazione delle millenarie tradizioni e regole di comportamento
locali, e gli occidentali, anche se compivano abusi e crimini, non venivano
perseguiti perché godevano di immunità.

L’odio e il risentimento della gente si trasformava in atteggiamenti
ostili nei confronti degli europei?

Diciamo
che con la «Guerra dell’oppio» (due conflitti, svoltisi dal 1839 al 1842 e dal
1856 al 1860) l’imperialismo europeo più bieco era stato impiantato in Cina. Da
allora la situazione era andata peggiorando. Da un atteggiamento di rifiuto si
passò in breve tempo a una violenza contro imprese e aziende estere e i loro
dipendenti, e anche contro missionari e cinesi che si erano convertiti. La
popolazione era visceralmente accomunata da un odio collettivo contro gli
stranieri, percepiti come nemici che volevano stravolgere usi e costumi del
popolo cinese.

È da lì che prese il via la rivolta dei Boxer?

Sì.
Questo termine inglese veniva usato in Cina per indicare uno che combatte a
pugni nudi, perché alcuni rivoltosi avevano una certa pratica di arti marziali,
ma mancavano totalmente di armi. I Boxer raggruppavano contadini senza terra,
artigiani, piccoli funzionari, ecc., essi vedevano con autentico terrore
l’ampliamento della rete ferroviaria, la costruzione di linee telegrafiche e la
comparsa sui grandi fiumi della Cina di navi a vapore. Provenendo da una
famiglia di tessitori guardavo con apprensione il rifiuto che i cinesi avevano
verso i nuovi macchinari per i tessuti: filatorni, telai, ecc., loro pensavano
che tutte queste novità avrebbero tolto posti di lavoro.

Importando queste nuove tecnologie gli europei davano allora
l’impressione di voler impadronirsi della Cina.

Proprio
così. Il problema vero era che questa rivolta dal basso aveva un’ideologia
semplice e terribile allo stesso tempo: tutto ciò che non era cinese era
malefico. Anche la religione cristiana portata dai missionari che venivano
dall’Europa, venne assimilata al rifiuto totale che i cinesi avevano verso ciò
che non apparteneva alla loro cultura.

Quest’odio era solo verso gli europei o era indirizzato anche verso
quei cinesi che si erano convertiti al cristianesimo?

La
gente che aderì al messaggio cristiano pagò un prezzo altissimo, perché se gli
stranieri erano odiati in quanto stranieri, i cinesi che avevano abbracciato il
cristianesimo erano accusati di tradimento dei valori della cultura cinese.
Furono uccisi a migliaia. Man mano che le violenze e gli eccidi di convertiti
aumentavano e i dispacci delle ambasciate ai governi europei s’infittivano,
venne presa la decisione di raggruppare tutte le Legazioni Diplomatiche in un
unico quartiere e di mandare una squadra navale con dei reparti militari per la
difesa degli stranieri.

Questa misura però non ottenne il risultato previsto.

Infatti
il governo cinese già xenofobo di per suo conto, non poteva accettare la
presenza di militari stranieri armati sul proprio territorio; per questo i
crimini dei Boxer vennero tollerati e persino giustificati dalle autorità
cinesi.

Questo naturalmente ebbe un’immediata ripercussione anche nelal vostra
zona.

Certamente,
Nella nostra provincia, dopo che uccisero fra Cesidio Giacomoantonio (4 luglio
1900), iniziarono pestaggi, saccheggi e uccisioni di stranieri, missionari e
cristiani cinesi.

Con conseguenze tragiche per di voi.

Informato
di quello che stava accadendo, mons. Fantosati, il mio vescovo, nonostante
fosse conscio dei pericoli che correva, decise di ritornare nella sua sede
episcopale, io ovviamente lo accompagnai. Alla dogana di Hen-tceu-fu fummo
riconosciuti come stranieri e missionari, fatti scendere dal barcone su cui
viaggiavamo e circondati da una folla assatanata urlante e minacciosa. Fummo
immediatamente investiti da calci e pugni e colpiti con dei bastoni.

Eravate arrivati quindi alla fine della vostra vita missionaria e anche
di quella terrena.

Mentre
ci percuotevano, riuscimmo a pregare e fare il Segno della Croce, quindi ci
abbracciammo mentre i nostri carnefici si accanivano selvaggiamente su di noi.
Al culmine del nostro martirio, alcuni pagani esclamarono: «Questi stranieri
erano veramente giusti!».

Il 7 luglio 1900 i
corpi senza vita di Mons. Antonino Fantosati e di fra Giuseppe Maria Gambaro,
vengono gettati nel fiume Siang, quindi ripescati e bruciati per impedie la
sepoltura. Nel dicembre 1926 si avvia la causa di beatificazione per un gruppo
di 29 cristiani uccisi durante la rivolta dei Boxer. Il 1° ottobre del 2000,
Giovanni Paolo II eleva alla gloria degli altari 120 martiri della Cina di
tutti i tempi, tra loro, Mons. Fantosati, padre Giacomoantonio e padre Giuseppe
Maria Gambaro.

Don Mario Bandera – Direttore Missio
Novara

Mario bandera