Ipazia d’Alessandria

PAZIA dIpazia, figlia del responsabile della famosa biblioteca di Alessandria d’Egitto, Teotecno detto Teone, visse negli anni a cavallo del IV e V secolo dopo Cristo, epoca in cui la decadenza dell’Impero Romano cominciava a farsi sentire, mentre in contemporanea nasceva un nuovo ordine politico e sociale. Filosofa, astronoma e matematica, Ipazia era una stimata studiosa e un simbolo di tolleranza nella sua città cosmopolita. Sebbene le sue opere scientifiche siano andate perdute, la testimonianza che ci ha lasciato è quella di una donna forte che ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca e allo studio pur vivendo in un’epoca di scontri religiosi e in cui tendenze culturali differenti si contrapponevano ferocemente.

Ritratto-immaginario-di-IpaziaIpazia, sei stata una donna fortunata, non solo perché Teone, tuo padre, era il responsabile della biblioteca di Alessandria d’Egitto, ma anche perché sei cresciuta in quella che ai tuoi tempi era ritenuta la capitale del sapere dell’Impero Romano.

La mia città natale, per quei tempi, era veramente un contenitore eccezionale dello scibile umano, basti pensare che nella famosa biblioteca erano conservati più di cinquecentomila volumi e rotoli in cui era contenuto tutto il sapere prodotto fino a quel tempo nel mondo allora conosciuto. Grazie a questa particolarità, Alessandria era ritenuta uno dei principali poli culturali ellenistici.

Ma oltre a questo mondo accademico culturalmente ricco e vivace che ti circondava, hai potuto conoscere altre realtà dell’Impero?

Feci dei viaggi in Grecia e in Italia, venendo così a contatto con gli illustri pensatori e filosofi dell’epoca, ero stimolata poi da mio padre affinché approfondissi gli studi e accrescessi il mio bagaglio culturale. Mi attirò molto la scuola neoplatonica che studiai a fondo, tanto da diventare insegnante di questa corrente filosofica oltre che di matematica.

Possiamo dire che benché fossi una donna diventasti un’autorità e un indiscusso punto di riferimento culturale nello scenario dell’epoca?

Lo studio mi appassionò sempre, fin da bambina, e una volta raggiunti certi traguardi scrissi trattati di matematica e compilai anche tavole astronomiche sui moti dei corpi celesti che ebbero un notevole rilievo.

È vero che insieme a tuo padre fosti l’autrice di un commento in tredici volumi sull’Almagesto di Tolomeo, una mastodontica opera che conteneva tutte le conoscenze astronomiche e matematiche dell’antichità?

Non solo, mi occupai anche di meccanica e di tecnologia applicata, arrivai persino a costruire uno strumento per determinare il peso specifico di un liquido e a progettare un astrolabio che serviva per calcolare il tempo, per definire la posizione del sole, delle stelle e dei pianeti.

Una donna colta come te era una rarità in quei tempi caratterizzati dalla misoginia aristotelica. Per questo venivano da ogni parte dell’Impero per ascoltare le tue lezioni…

Alcuni ritenevano che, dal punto di vista filosofico, io avessi aperto dei sentirneri nuovi che prospettavano un orizzonte sconfinato per quanto riguardava l’intelligenza umana. Questo in germe fu l’origine dello scontro con la nuova religione che si andava diffondendo, ovvero il cristianesimo, in quanto i più fanatici del gruppo neoplatonico ritenevano inconciliabile il razionalismo che affondava le sue radici nella filosofia greca con il cristianesimo.

La nomina del vescovo Cirillo a patriarca di Alessandria nel 412, fu una vera iattura non solo per te ma per l’intero mondo alessandrino.

Io non riesco a capire come una religione fondata sull’amore e sulla misericordia di Dio, potesse indurire a tal punto il cuore degli uomini. I cristiani che uscivano da secoli di persecuzione, una volta raggiunto il potere si comportavano esattamente come gli altri. Cominciarono col cacciare gli ebrei della città e iniziarono una metodica epurazione degli «eretici» neoplatonici.

Per te, pagana dalla condotta e morale irreprensibile, maestra e punto di riferimento per il mondo culturale, non solo della tua città, non dovevano esserci problemi, anche se ti trovavi a vivere in mezzo a tensioni non indifferenti.

La situazione in città diventava ogni giorno più critica: i cristiani, incredibile ma vero, erano sempre più intolleranti. Dopo aver avuto con l’Imperatore Costantino nel 313 il permesso di praticare la propria fede alla luce del sole, con l’editto di Teodosio nel 380, che faceva del cristianesimo la religione ufficiale dello stato, divennero il gruppo dominante in grado di influire sulle scelte dell’Imperatore e di imporre la propria volontà anche a quelli che cristiani non erano. Questo loro atteggiamento influenzò in modo deleterio tutta la vita sociale della città.

Infatti il vescovo Cirillo entrò in rotta di collisione con il prefetto Oreste che cercava di mantenere l’ordine sul territorio.

È vero, Oreste, incapace di mantenere l’ordine in città dopo che gli ebrei, una notte, massacrarono molti cristiani, e di conseguenza, il vescovo li aveva fatti cacciare confiscando i loro beni, chiese l’intervento dell’Imperatore d’Oriente Teodosio II a Costantinopoli. L’imperatore però, influenzato dalla sorella Pulcheria, non soddisfò le richieste di Oreste. Pulcheria era molto legata al vescovo Cirillo di cui si considerava discepola e, di fatto, agiva come se fosse l’imperatrice perché il fratello era ancora minorenne.

Cirillo nella sua ottusa e rigida visione religiosa del mondo mal sopportava il consenso e la stima che buona parte della società del tempo ti attribuiva.

Con il passare del tempo si convinse che l’ostacolo maggiore all’affermazione del messaggio della nuova religione fossi proprio io, e incominciò a ostacolarmi e diffamarmi in tutti i modi possibili e immaginabili.

Si può dire quindi che il mandante del tuo assassinio sia stato proprio lui?

Egli istigò un gruppo di monaci parabolani, una confrateita cristiana che nella Chiesa alessandrina si dedicava alla cura dei malati, specie degli appestati, e alla sepoltura dei cadaveri, sperando così di morire per Cristo. Tra i compiti che si erano attribuiti c’era anche quello di difendere il vescovo e gli altri cristiani.

Com’è che ti catturarono?

Mi tesero un agguato e, dopo avermi legata, mi trascinarono fino alla chiesa che era stata costruita sopra il Cesareion (un tempio sacro a Cesare), quasi volessero compiere una sorta di sacrificio umano. Strappatemi le vesti, mi scorticarono fino alle ossa con ostrakoi (conchiglie di ostrica o cocci di vasi o di tegole). Dopo avermi fatto letteralmente a pezzi, trasportarono i brandelli del mio corpo in un posto detto Cinaron e bruciarono il mio cadavere per non lasciare tracce.

Considerando il clima di terrore che Cirillo aveva instaurato, ovviamente nessuno aprì un’inchiesta sul tuo assassinio.

Per la verità il prefetto Oreste chiese che fosse fatta luce su quanto era accaduto. L’Imperatore da Costantinopoli mandò ad Alessandria un suo emissario per approfondire la faccenda, ma questi, come giunse in città, fu contattato da Cirillo che lo corruppe con una forte somma di denaro. Con la sua richiesta Oreste ottenne soltanto dei provvedimenti per arginare l’ingerenza politica dei vescovi nei poteri civili.

Quindi il tuo sacrificio rischiava di essere dimenticato?

Fu un filosofo neoplatonico, Damascio, che, quasi un secolo dopo, incolpò Cirillo del delitto. Uno storico ariano mio contemporaneo, affermò che il mio assassinio non fu opera di un linciaggio della folla come si volle far credere, ma di alcuni fanatici appartenenti a un gruppo di monaci che aveva trasformato il messaggio cristiano in un’ideologia da imporre a ogni costo, anche con la forza, spadroneggiando sulla città e tutti i suoi abitanti. Certo è che Cirillo, anche se non direttamente responsabile della mia morte, colse l’occasione per cancellare ogni memoria di me, ordinando la distruzione di tutti i libri da me scritti e degli strumenti scientifici da me inventati.

Dopo la tua morte, Alessandria si avviò a una rapida decadenza perdendo tutto lo splendore che faceva di quella città egiziana una perla dell’Impero Romano.

Non solo, oltre alla decadenza della città ci fu anche il crepuscolo del pensiero greco, la filosofia neoplatonica venne addirittura tolta dall’insegnamento dall’Imperatore Giustiniano, un fatto che ebbe ripercussioni negative non solo sulla città ma sull’intero mondo romano bizantino.

 

La figura e la testimonianza di Ipazia si staglia lungo i secoli fino ai nostri giorni. Essa viene ricordata ancora oggi come la prima donna filosofa e matematica della storia. Bisognerà attendere il diciottesimo secolo, il secolo dei lumi, per trovare altre donne come lei, quali furono Maria Agnesi e Sophie Germain, studiose e insegnanti matematica e filosofia.

Nel celebre affresco di Raffaello: «La scuola di Atene» l’unica figura femminile rappresentata, secondo gli esperti, è proprio lei: Ipazia di Alessandria.

La_scuola_di_Atene. Ipazia
La_scuola_di_Atene. Ipazia

Nota redazionale.

La storia di Ipazia ha avuto nuova popolarità nel 2010 all’apparire del film «Agorà», pellicola diretta dal regista cileno premio Oscar Alejandro Amenabar incentrata sulla vita della filosofa neoplatonica barbaramente uccisa da monaci cristiani nel V secolo (vedi foto qui sopra).

Nell’intervista immaginaria di queste pagine, è stata scelta una posizione molto critica nei confronti dei cristiani e del loro vescovo Cirillo. In realtà è impossibile descrivere in poche pagine la complessità della situazione del tempo e soprattutto riuscire a spiegare bene quello che realmente è successo. L’assassinio di Ipazia, certo vittima di fanatismo e intolleranza, si colloca in un periodo particolarmente convulso e teso della vita di Alessandria, sia dal punto di vista politico che religioso. Un certo revival pagano, l’ostilità degli ebrei che avevano perpetrato un massacro di cristiani e la presenza di gruppi di monaci con una religiosità al limite dell’eresia, non facilitavano le cose. Inoltre Cirillo di Alessandria non è stato un villano fanatico qualunque, ma un santo amato e venerato dalla Chiesa sia cattolica sia ortodossa come «padre della Chiesa» e maestro della fede. Una visione che stride con quella che lo descrive come mandante frustrato e geloso di un assassinio così brutale.

L’unico autore contemporaneo ai fatti che ne scrive, Socrate Scolastico (380-440ca.), nel suo racconto non accusa Cirillo dell’assassino, anche se conclude che essi causarono «una non piccola ignominia» sia al vescovo che a tutta la comunità cristiana di Alessandria. È solo Damascio (458-538), un filosofo neoplatonico che ha scritto la sua storia quasi un secolo dopo, ad accusare apertamente Cirillo.

In rete si può trovare del materiale per l’approfondimento. Da notare che in Wikipedia i testi in italiano sono molto poveri e un po’ partigiani, mentre nella versione inglese si trova una documentazione più articolata e approfondita.
Interessante pure l’articolo Ipazia di Alessandria: verità e menzogne, pubblicato in mirabilissimo100.wordpress.com il 6 maggio 2010.




I perdenti 11: i giovani della rosa bianca

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La «Rosa Bianca» è il nome assunto da un gruppo di giovani universitari di Monaco di Baviera che si costituirono in un piccolo ma significativo movimento di resistenza all’interno della Germania nazista. Il gruppo era composto da 5 studenti: Hans Scholl, sua sorella Sophie Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell e Willi Graf, tutti poco più che ventenni. A essi si unirà il professore universitario Kurt Huber. Sebbene tutti fossero studenti universitari, i ragazzi avevano fatto il servizio militare partecipando agli eventi bellici sia sul fronte francese che su quello russo dove erano stati testimoni delle atrocità commesse contro la popolazione civile e in modo particolare contro gli ebrei. Essi erano convinti che la guerra scatenata dal nazismo avrebbe portato alla distruzione e alla sconfitta della Germania. Il loro modo di pensare si era formato seguendo le tesi del Quickbo (Sorgente di vita), un movimento culturale fondato e seguito dal sacerdote di origine italiana Romano Guardini (1885-1968).

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La loro resistenza al nazismo si svolse principalmente all’interno dell’ambiente universitario della Baviera, riuscendo a stampare e distribuire clandestinamente sei volantini il cui contenuto avrebbe dovuto risvegliare la coscienza del popolo tedesco. Più la guerra si prolungava, più il gruppo della «Rosa Bianca» assumeva una posizione decisa contro Hitler, non solo distribuendo opuscoli all’interno dell’università, ma addirittura incollandoli sui cancelli di ingresso e dipingendo slogan anti hitleriani sui muri di Monaco e all’interno dell’edificio universitario. Scoperti da un bidello nazista, vennero arrestati dalla Gestapo, torturati e condannati a morte per decapitazione il 22 febbraio 1943 dopo un processo di poche ore.

Con i fratelli Hans e Sophie Scholl abbiamo voluto approfondire la loro storia di oppositori al nazismo. Sebbene calpestati, vilipesi e di fatto perdenti di fronte alla tirannia scatenata da Hitler, restano nella coscienza collettiva dei tedeschi e degli europei in generale, i veri vincitori dello scontro che avvenne in quegli anni.

la_rosa_biancaSophie e Hans, come vi è venuto in mente di opporvi al nazismo in una forma che era già fin dall’inizio destinata all’insuccesso?

Dopo la sconfitta di Stalingrado nel febbraio 1943 fu chiaro, anche se non si osava dirlo apertamente, che le sorti della guerra erano segnate e che la Germania sarebbe stata sconfitta.

Altri cittadini come voi avevano la stessa sensazione, eppure non mossero un dito. Cos’è che vi ha spinto ad agire così pericolosamente in un ambiente come quello universitario profondamente segnato dall’ideologia nazista?

Noi e i componenti del nostro gruppo rigettavamo la violenza nazista che la nostra patria, la Germania, stava attuando in gran parte d’Europa. Noi tutti credevamo in un’Europa federale che aderisse ai principi cristiani di tolleranza e giustizia.

Anche il fatto di avere come riferimento Romano Guardini, vi dava una spinta ulteriore per non restare con le braccia conserte di fronte alla rovina della vostra patria.

Oltre che da Romano Guardini il nostro modo di pensare e di agire era stimolato anche dal parroco di Soflingen, un quartiere di Ulm in cui era presente una forte resistenza cattolica al nazismo, da Franz Weiss, da Carl Muth e da Theodor Haecker, intellettuali cattolici antinazisti, il cui pensiero influenzò molto le scelte di resistenza non violenta del nostro gruppo.

Con questi riferimenti religiosi e culturali non vi limitaste a una resistenza passiva, ma decideste di agire stampando e distribuendo volantini.

Sì. E fu una cosa non da poco tenendo conto che la carta era razionata e tutto era controllato. Anche ottenere buste e francobolli a sufficienza richiedeva molta prudenza per non dare nell’occhio. Producemmo sei volantini, gli ultimi due più forti degli altri. Infatti l’intestazione che avevamo messo ci autodefiniva: «Il movimento di resistenza in Germania».

Se non sbaglio, anche altri in Germania agivano allo stesso modo.

Ad essere sinceri il nostro modo di agire fu ispitaro dalla lettura di un volantino che arrivò nelle nostre case riportando le idee del vescovo di Munster (Monaco), Clemes August Von Galen (1878-1946 – ora beato), il quale certamente non le mandava a dire a Hitler: le sue omelie erano un vigoroso atto d’accusa contro l’ideologia nazista. Von Galen, fu uno dei pochi vescovi tedeschi che si oppose apertamente a quell’ideologia, e per questo si guadagnò il titolo di «leone di Munster».

sophie-scholl-640x250Ma anche a casa vostra l’atmosfera che respiravate non era certamente favorevole al nazismo.

Nel gennaio del ’42 nostro padre Robert venne denunciato da una sua impiegata per aver definito Hitler «un flagello di Dio» e per aver detto che la guerra di Russia era un massacro insensato e che i sovietici avrebbero finito per conquistare Berlino.

Che conseguenze ebbe?

Prelevato dalla Gestapo, torturato e interrogato, venne condannato a 4 mesi di carcere che praticamente significarono la rovina economica della nostra famiglia, anche se un volta scontata la pena fu rilasciato.

Fu l’anticipazione di quello che in seguito successe a voi.

A quel tempo chiunque osava mettere apertamente in dubbio l’autorità del Führer e criticare quello che lui affermava, ovvero voler costruire un nuovo Reich che sarebbe durato oltre mille anni, veniva visto come un nemico della patria.

Quando decideste di passare all’azione?

Nell’estate del ’42, dopo aver battuto a macchina e ciclostilato qualche centinaio di copie del primo volantino, cominciammo a lasciarlo nei locali pubblici, alle fermate dell’autobus, nelle cabine telefoniche o a gettralo lungo le strade dai tram di notte.

Nessuno vi sorprese mentre compivate queste azioni di volantinaggio?

No, e sappiamo con certezza che anche la Gestapo, pur indagando meticolosamente su chi poteva essere il responsabile di queste azioni, non riusciva a cavare un ragno dal buco.

E voi non commetteste nessun errore compiendo queste azioni rischiose?

Purtroppo sì, il 18 febbraio del ’43, noi due all’interno dell’Università salimmo fino all’ultimo piano con una valigia contenente 1.500 copie del sesto (e ultimo) volantino. Una volta in cima alle scale, lanciammo verso gli studenti che stavano nell’atrio sottostante i nostri volantini. Un bidello ci vide e ci denunciò. Fummo arrestati e nel giro di pochi giorni la stessa sorte toccò agli altri membri della «Rosa Bianca», oltre a un’ottantina di persone che fiancheggiavano le nostre azioni contro il nazismo.

Alla Gestapo non pareva vero di avervi finalmente tra le mani.

Iniziarono subito a interrogarci, pestarci e a torturarci; alcuni di loro restarono sorpresi dal coraggio e dalla determinazione con cui rivendicavamo le ragioni del nostro dissenso all’ideologia nazista e a Hitler.

Prevedendo che vi aspettava la condanna a morte, quale fu il vostro atteggiamento di difesa?

Per prima cosa noi due cercammo di attribuirci interamente le colpe di cui tutti erano accusati allo scopo di scagionare gli altri membri della «Rosa Bianca». Allo stesso tempo, per far capire ai giudici nazisti che non eravamo un gruppo di esaltati, affermammo durante il processo: «Sono in tanti a pensare quello che noi abbiamo detto e scritto; solo che non tutti osano esprimerlo a parole».

Truccate le prove per la vostra condanna, il processo si concluse come volevano i gerarchi nazisti?

Naturale. Dopo un dibattimento farsa, il giudice Roland Freisler, emise il verdetto con queste parole: «In nome del popolo tedesco, gli imputati sono condannati a morte per favoreggiamento antipatriottico del nemico, alto tradimento e demoralizzazione delle forze armate. Inoltre il tribunale del popolo constatato che essi attraverso volantini hanno propagandato idee disfattiste, sabotato l’organizzazione militare e civile del sistema di vita del nazionalsocialismo del nostro popolo, insultato il Führer nella maniera più vile e infame aiutando in tal modo i nemici del Reich. Pertanto essi sono condannati a morte tramite ghigliottina».

 

I giovani del gruppo della «Rosa Bianca», composto da cattolici ed evangelici che cercavano di vivere con coerenza la loro fede, chiedono di ricevere i sacramenti prima dell’esecuzione. Cristoph Probst, l’unico a non essere battezzato, riceve il battesimo, la comunione e l’estrema unzione dal cappellano cattolico Heirich Sperr, al quale consegna un biglietto da dare alla madre su cui è scritto: «Ti ringrazio di avermi dato la vita. A pensarci bene, non è stata che un cammino verso Dio». I fratelli Hans e Sophie che vengono giustiziati in un’altra ala del carcere, vorrebbero un prete cattolico, ma non potendolo avere si confessano e celebrano la Santa Cena con il cappellano evangelico Karl Alt. Prima dell’esecuzione ai due fratelli viene permesso un ultimo e breve incontro con i genitori. Impressionato dal loro atteggiamento, uno dei secondini racconterà in seguito: «I giovani della “Rosa Bianca” si sono comportati con un coraggio fantastico, tutto il carcere ne fu impressionato. Perciò ci siamo accollati il rischio di riunire ancora una volta i condannati, volevamo che potessero fumare ancora una sigaretta insieme, non furono che pochi minuti ma certamente fu un gran regalo per loro». Le ultime parole di Cristoph Probst sono: «Fra pochi minuti ci rivedremo nell’eternità!». Poi si lasciano condurre alla ghigliottina senza battere ciglio, mentre viene condotto al patibolo Hans Scholl grida: «Viva la libertà!». Il 19 aprile 1943 sono processati tutti gli altri. Tredici sono ghigliottinati nei mesi successivi e altri trentotto incarcerati. Con la caduta del regime nazista vennero portate alla luce le molteplici attività che il gruppo della «Rosa Bianca» fece per opporsi al nazismo. Ancora oggi essi rappresentano la forma più pura di opposizione alla tirannia hitleriana in terra germanica, senza essere mossi da interessi personali o di partito, tutto il loro modo di vivere e di agire era mosso dalla fede cristiana e dall’amore per la libertà.

Don Mario Bandera, Missio Novara




I Perdenti 8. ANTÔNIO Conselheiro di Canudos

Nella
diocesi di Paulo Afonso, nello stato della Bahia in Brasile, sorge la cittadina
di Canudos; il nome di una località che agli italiani dice ben poco, ma che in
Brasile ha invece un significato molto profondo in quanto città di Antonio
Conselheiro (1830-1897), il carismatico fondatore di una originale comunità di
vita impeiata sulla condivisione dei beni, sull’uguaglianza dei membri e
sulla fratellanza reciproca che andava oltre le condizioni sociali ed
economiche e il colore della pelle di ciascuno.

La
comunità si organizzò stabilmente nel 1893 fondando il villaggio di Canudos in
quella che era una fazenda vicino alla cittadina di Monte Santo. Fu il
tentativo di costruire un’alternativa possibile a una concezione di stato che,
sostenuto dai grandi latifondisti, si basava sulla supina sottomissione dei
neri, degli indios, dei meticci e dei braccianti senza terra. La comunità di
Canudos, fin dal suo inizio, fu considerata dalle autorità politiche e militari
dell’appena nata Repubblica brasiliana come un «bubbone» da estirpare a
qualunque costo per evitare che le idee egualitarie che essa propugnava si
propagassero a macchia d’olio.

Canudos
venne abbattuta a cannonate dall’esercito nell’ottobre 1896. I suoi abitanti
furono tutti sterminati, comprese le donne e i bambini. Una comunità profetica
che ricercava l’ideale evangelico di vita non «poteva» sussistere nel
territorio dei latifondisti. La sua radicalità era uno scandalo troppo
evidente, perciò «doveva» essere distrutta. Da quell’eccidio nacque la leggenda
di Canudos, il cui spirito aleggia ancora oggi nel vento che accarezza i mandacarù
(i cactus selvatici) nella calura quotidiana che caratterizza il sertão
del Nordeste brasiliano. Con il suo carismatico fondatore abbiamo voluto
rievocare non solo le giornate di allora ma anche gli ideali di libertà che
attraversano ogni epoca.

Antonio Conselheiro come ti venne l’idea
di fondare Canudos?

Ai miei tempi il sertão brasiliano, zona arida
caratterizzata da periodi di forte siccità dove dovevi spaccarti la schiena per
ricavare dalla terra quanto necessario per vivere, era un territorio in cui
vagavano molti ex schiavi africani liberati, indigeni (indios) che avevano
perso completamente la loro identità e la loro terra a causa
dell’incontro-scontro con i latifondisti e coloni che avevano portato anche
nuove malattie e un alcolismo devastante, e fuoriusciti bianchi in fuga dalla
legge o dai debiti con padroni esosi e usurai. Questi disperati vivevano in
condizioni di grande miseria senza che nessuno si curasse di loro. Ero convinto
che i principi di giustizia e frateità del Vangelo e l’esempio della comunità
degli Atti degli Apostoli potessero essere le basi per costruire con loro un
mondo dove tutti potessero avere uguale dignità.

 

 

Se non vado errato, in quei tempi nel sertão
brasiliano si muovevano molte figure carismatiche.

È vero, predicatori del Vangelo ce n’erano in abbondanza, ma il
personaggio che più di ogni altro ha incarnato l’anima nordestina, è stato
Padre Cicero (Romão Batista, 1844-1934, zelantissimo sacerdote considerato
santo dai nordestini, anche se morto ufficialmente scomunicato. Oggi il vescovo
della diocesi di Crato nel Cearà ne ha avviato il processo di riabilitazione, ndr),
che percorse il sertão in lungo e in largo, a piedi o in groppa a umili
somarelli per migliaia di chilometri sotto il sole cocente per predicare,
confessare e celebrare l’Eucarestia in posti dove nessun sacerdote aveva messo
mai piede. Per noi, abitanti del sertão, è stato un sacerdote santo e
capace di miracoli e accorrevamo da ogni parte per ascoltarlo, confessarci e
mettere a posto la coscienza.

E tu come ti collocasti in questa realtà?

Considerando la violenza imperante ai miei tempi in quella zona,
ebbi l’idea di creare una comunità in cui si vivesse radicalmente l’ideale
evangelico, cominciai così ad accogliere gli ex schiavi (circa l’80% della
comunità) e gli indigeni sbandati.

 

Ma c’erano anche bianchi nella tua comunità?

Certamente. C’erano marinai che si erano ammutinati sulle loro
navi, in fuga dalla dura disciplina che regnava a bordo e che, una volta a
terra, avevano trovato rifugio nel sertão. Così c’era anche chi, avendo
problemi con la legge, non poteva più rimanere nelle città e si rifugiava
nell’interno disabitato, nella caatinga autentico cuore del sertão
(caatinga, lett. foresta grigia, è l’unico bioma esclusivamente
brasiliano e si trova solo negli stati del Nordeste, ndr). Erano tutti
accomunati da uno stato di povertà e di esclusione sociale. Non per questo
erano tutti pacifici e inermi. Tra loro c’era anche gente dura, abituata a
combattere per sopravvivere.

Dal 1877 il Nordeste fu colpito da una
delle sue tipiche devastanti siccità aggravando gli effetti di una crisi
economica e sociale già molto grave.

Si, migliaia di persone (banditi, flagellanti, miserabili senza
terra) vagavano affamate senza alcun aiuto dal governo, contando solo
sull’aiuto divino. Ma la miseria è una pessima consigliera, così molti,
ritenendo che «rubare per ammazzare la fame» non fosse peccato, assaltavano le
grandi fazendas e i piccoli proprietari.

In più, a partire dal 1888, quando in Brasile fu ufficialmente
abolita la schiavitù, molti ex schiavi, tutti di origine africana, si
ritrovarono allo sbando senza nessuna risorsa e, quel che è peggio, senza una
terra su cui vivere.

Vedendo questa gente vagabondare senza meta nel sertão,
cominciai a radunarla in un nuovo piccolo villaggio chiamato appunto Canudos,
in un territorio disabitato, dove ognuno riceveva un pezzo di terra da
coltivare e metteva poi a disposizione dell’intera collettività i prodotti
ricavati dal suo lavoro. Ciò permetteva loro di guardare con speranza al
futuro.

 

Canudos divenne quindi un punto di
riferimento importante per molti disperati.

Alla fine del 1800, Canudos poteva contare su un totale di circa
30mila abitanti. Il movimento popolare che avevamo avviato ispirandoci al
Vangelo, crebbe rigogliosamente. Eravamo ben organizzati, quasi una «comune»
religiosa. Canudos era diventata la seconda città della Bahia, dopo Salvador.
Le autorità politiche e anche religiose, però, cominciarono ben presto a
preoccuparsi di una presenza così scomoda e autonoma che di fatto non
riconosceva il governo centrale, non pagava le tasse, si autogestiva
collettivamente e aveva leggi proprie.

Erano gli anni in cui il Brasile si era
appena staccato definitivamente dalla monarchia portoghese per diventare una
Repubblica a tutti gli effetti.

Il Brasile era diventato indipendente dal Portogallo nel 1822 e si
era dato una monarchia costituzionale, ma l’imperatore Pietro II era della
stessa famiglia del monarca del Portogallo. Negli anni era cresciuto un forte
movimento repubblicano che aveva contagiato anche l’esercito, il quale nel 1889
depose l’imperatore con un golpe militare. C’era quindi, in quegli anni, un
clima politico sociale caratterizzato da una cronica instabilità istituzionale,
la nuova Repubblica cercava di rafforzarsi e Canudos era fuori dal sistema,
anzi a qualcuno sembrava una roccaforte di restaurazione monarchica.

Tu, Antonio, eri favorevole alla nuova
Repubblica o eri un nostalgico dell’impero?

Fuori dal mondo come eravamo là nel sertão, la questione
non ci toccava molto. Non avevo certo molte simpatie per i repubblicani i quali
avevano separato – per me in un modo anticristiano – Chiesa e Stato, ma non ho
mai pensato di fomentare una restaurazione. Purtroppo è anche vero che la
Repubblica non fece molto per farsi amare dai poveri, anche se erano stati i
repubblicani a far abolire la schiavitù. Ma gli ex schiavi erano stati
abbandonati a se stessi e uno dei primi atti della Repubblica era stato un
pesante aumento delle tasse sia sulla terra che su tutti i prodotti. E, come al
solito, chi ci rimetteva di più erano i più poveri, non i ricchi.

 

Il tuo progetto poteva sembrare a molti la
realizzazione di un sogno, ma le autorità brasiliane non erano certamente
disposte a lasciare una zona franca nel bel mezzo del
sertão.

Purtroppo era cosi! Accusandoci di essere ribelli e monarchici,
tra il 1896 e il 1897 mandarono ben quattro spedizioni militari contro di noi.
La resistenza di Canudos fu straordinaria. C’è da dire che, oltre al coraggio
della comunità, potevamo contare su uomini valorosi dall’invidiabile acume
tattico e una profonda conoscenza della natura aspra e impervia del sertão
nel quale i soldati, provenienti dalle città della costa, erano impreparati a
sopravvivere. Respingemmo facilmente le prime due spedizioni e anche la terza,
ma con perdite pesantissime.

Ma il vostro desiderio di vivere in pace e
armonia, liberi da ogni legge eccetto quella di Dio, non poteva durare…

Sì, e in più l’esercito repubblicano si era sentito umiliato da
straccioni come noi. Così l’ultima spedizione fu organizzata con molta cura
dallo stesso ministro della guerra, il maresciallo Carlos Machado Bittencourt.
Furono messi in campo circa 4.000 soldati con le armi più modee del tempo.
L’attacco cominciò a settembre. La mia gente era provata da fame e
denutrizione, male armata, senza scorta di munizioni e demoralizzata dalla mia
morte avvenuta il 22 settembre 1897 a seguito di molti giorni di penitenza,
preghiera e digiuno per la pace. Dopo un terrificante bombardamento durato
diversi giorni che incendiò le case e rase al suolo Canudos, la maggioranza dei
superstiti si arrese il 5 ottobre, ma i soldati sterminarono ugualmente uomini,
donne e bambini tra terribili violenze. Di circa 30mila persone della comunità,
ufficialmente ci furono solo 150 superstiti. Di essi le donne giovani furono
vendute nei bordelli di Bahia. Il mio corpo fu riesumato e la mia testa
tagliata e fatta esaminare dagli scienziati per provare che ero stato un matto
fanatico. Messa poi nel Museo della Scuola di Medicina di Salvador, un
incendio, più pietoso degli uomini, la consumò nel 1905.

 

L’unica relazione sulla «guerra di Canudos» ci è pervenuta tramite
gli scritti di Euclides da Cunha, corrispondente del giornale O Estado de São
Paulo
, che era stato inviato nel sertão brasiliano al seguito dell’esercito
(embedded, si direbbe oggi). Con il passare del tempo i luoghi della
battaglia di Canudos caddero nel dimenticatornio dell’imbarazzo collettivo e la caatinga
ebbe il sopravvento.

Ma la memoria storica dell’esperienza di Antonio Conselheiro e
della sua comunità non è mai scomparsa e si è tramandata nei racconti della
gente semplice e umile del sertão fino a quando è stata recuperata tra
le pieghe della storia e le è stata ridata la sua importanza, grazie anche a
libri e film (purtroppo non tradotti in italiano, ndr). Si può dire che
lo spirito di Canudos scorre ancora oggi come un fiume carsico sotto la crosta
dura e solida dell’arida terra del sertão, dove i nordestini imparano
fin dalla nascita che devono misurarsi con le asprezze della natura e con i
cataclismi sociali che i potenti di tuo ciclicamente rovesciano loro addosso.
Questa gente speciale ha bisogno di esempi di libertà e figure eccezionali per
continuare a sperare, Canudos e Antonio Conselheiro proprio per l’ansia di
libertà che incarnano, indicano ancora oggi la strada da percorrere.

Don Mario Bandera,
 Missio Novara

Mario Bandera




I Perdenti 7. San Tommaso Moro


Tommaso Moro nacque il 7 febbraio 1477 (o 1478) a Londra da una famiglia benestante, il padre era giudice. In gioventù si dedicò agli studi giuridici, diventando avvocato. Sposatosi nel 1505, ebbe quattro figli. Pur avendo un ruolo istituzionale di rilievo, condusse una vita ascetica in stile francescano. Rimasto vedovo nel 1511, si risposò quasi subito, accogliendo in casa la figlia della nuova sposa e, cosa nuova per quei tempi, volle che le figlie ricevessero la stessa alta educazione dei figli, dando un esempio alle famiglie nobili del tempo.

Nel 1504 entrò alla Camera dei Comuni, ricoprendo incarichi sempre più importanti e diventando sempre più conosciuto per le sue capacità e la sua integrità. Segretario personale e consigliere del re Enrico VIII, seguì il cardinale Thomas Wolsey (1471-1530), dal 1515 Cancelliere del Regno, in diverse missioni diplomatiche in Europa per favorire la pace tra i vicini litigiosi come il re di Francia e l’imperatore di Spagna e Germania e per sostenere il papa alle prese con la nascita e lo sviluppo del protestantesimo luterano. Fu eletto Speaker nel 4° parlamento convocato da Enrico VIII nel 1523. Nel 1529, caduto in disgrazia Wosley, Moro venne nominato Lord Cancelliere del Regno d’Inghilterra. Durante questo periodo usò tutta la sua autorità per fermare la diffusione del protestantesimo luterano. Ma dopo solo tre anni, nel 1532, restituì al re l’incarico e il sigillo di Cancelliere adducendo motivi di salute.

In realtà aveva maturato un insanabile disaccordo con Enrico VIII circa la gestione dell’annullamento del matrimonio con la regina Caterina d’Aragona, per sposare Anna Bolena. Fedele e devoto cattolico, non concordava con le misure che il re andava prendendo per escludere ogni influenza del papa nella vita e organizzazione della Chiesa inglese. Nel 1533 si rifiutò di partecipare all’incoronazione di Anna Bolena come regina d’Inghilterra, facendo aumentare l’ostilità nei suoi confronti. Difesosi con successo da diverse accuse di tradimento e corruzione, il 13 aprile 1535 gli fu richiesto di giurare fedeltà all’Atto di Successione (che riconosceva Anna come legittima regina d’Inghilterra). Si rifiutò però di accettare un secondo documento a esso connesso: l’Atto di Supremazia che nominava il re capo supremo della Chiesa d’Inghilterra disconoscendo il primato del papa su tutta la Chiesa. Quattro giorni dopo fu incarcerato nella Torre di Londra con l’accusa di tradimento. Durante la sua detenzione fu interrogato più volte ma non cedette né alle lusinghe né alle minacce. Il primo giorno di luglio venne condannato a morte per «avere parlato del re in modo malizioso… e diabolico» e il 6 luglio dello stesso anno fu decapitato.

Tommaso, tu sei stato una delle persone più in vista del tuo tempo, noto in tutta Europa sia come statista che come uomo di cultura, polemista e strenuo sostenitore della Chiesa e del Papato. Dal tuo ritratto più famoso sembri anche un tipo arcigno. è proprio così?

Macché. La mia fede mi dava una grande pace e serenità interiore. Ero un uomo dallo spiccato senso dell’humor e non lo perdevo neanche nelle situazioni più scabrose.

Ma l’humor non è una caratteristica di tutti i sudditi di sua maestà?

Magari fosse così! Purtroppo, anche ai miei tempi c’era gente dal brutto carattere, arcigna e irascibile che non sorrideva mai e spesso e volentieri perdeva le staffe.

Ti riferisci forse a Enrico VIII, che quando veniva contraddetto, andava subito in “ebollizione”?

Enrico era un uomo intelligente, ma passionale, impetuoso e impaziente. A lui ho dedicato molto del mio impegno politico, prima come membro del Parlamento inglese, poi come segretario personale del re, vicesceriffo della città di Londra, cancelliere del ducato di Lancaster, Speaker del Parlamento e infine come Gran Cancelliere del Regno, cercando di moderare le sue intemperanze e di aiutarlo a prendere decisioni che fossero per il vero bene del paese.

Prima di addentrarci in quella che è stata la causa della tua condanna, parlarci un po’ di te…

Venni al mondo il 7 febbraio 1477 da una famiglia non nobile della piccola borghesia londinese. A tredici anni fui mandato a fare il paggio di John Morton, cancelliere del Re d’Inghilterra e futuro cardinale. Quindi proseguii i miei studi in campo giuridico, diventando un avvocato. Frequentando l’ambiente universitario ebbi modo di conoscere una delle personalità più in vista dell’Europa del mio tempo: Erasmo da Rotterdam (1466-1536, teologo, umanista e filosofo olandese, ndr).

Fu in quel periodo, in cui eri ritenuto unanimemente una delle menti più brillanti del mondo accademico inglese, che scrivesti L’Utopia, l’opera per la quale ancora oggi sei conosciuto e considerato con rispetto in campo filosofico, oltre politico?

Attraverso il mio romanzo «Utopia» volevo esprimere ciò che era il sogno di tutti gli intellettuali del Rinascimento europeo, descrivendo una società segnata dalla correttezza di relazioni fra le persone che vi abitano, in cui è la cultura a dominare e regolare la vita degli uomini. In un certo qual modo volevo ri-esprimere con un linguaggio adatto ai miei tempi quello che Platone aveva scritto nella sua opera «La Repubblica» in cui parlava esplicitamente di una città ideale. L’ispirazione di quest’opera, molto apprezzata nelle varie università, mi venne lavorando con Erasmo da Rotterdam alla traduzione dal greco al latino di alcuni scritti di Luciano di Samosata (120-190 ca.).

Tra te ed Erasmo nacque anche un rapporto di stima e di affetto reciproco.

Con Erasmo rimasi sempre legato da una profonda amicizia, tant’è vero che in una lettera mi descrisse come un «credente ardentemente ansioso di verace religiosità, agli antipodi di ogni forma di superstizione», e anche quando fui imprigionato le sue lettere furono un fermo incoraggiamento e una profonda consolazione.

Ma oltre a Erasmo anche i tuoi familiari ti furono sempre accanto…

La mia prima moglie Jean Colt mi diede quattro figli: Margaret, Elisabeth, Cecily e John. Purtroppo la mia cara Jean morì a soli 23 anni, io rimasi con quattro bambini da accudire, per questo mi risposai dopo pochi mesi con Alice Middleton, anch’essa vedova che portava con se una figlia grandicella. Le mie spose e i miei figli furono sempre un rifugio caldo e accogliente in ogni stagione della mia vita, in modo particolare quando mi trovai imprigionato nella Torre di Londra.

Nonostante i tuoi molti meriti nell’amministrazione dello stato e nella gestione dei rapporti interazionali del tuo paese, il re entrò in contrasto con te sulla questione dell’annullamento del matrimonio con Caterina d’Aragona per sposare Anna Bolena.

Il fatto che Caterina d’Aragona fosse la zia di Carlo V, re e imperatore di Spagna (sul cui impero «non tramontava mai il sole»), creava già per sé complicazioni interazionali. Però quel matrimonio era stato celebrato rispettando tutte le leggi della Chiesa, con documenti stilati con cura dai più competenti giuristi del tempo. Era quindi valido a tutti gli effetti e pressoché impossibile da sciogliere.

Ma la passione acceca l’animo degli uomini e in questo i re non sono da meno dei comuni mortali…

Vero. Però se la passione aveva la sua parte, la ragione principale era un’altra: il re voleva a tutti i costi un erede maschio, mentre tutti i figli di Caterina erano morti appena dopo il parto e solo Maria (che sarebbe diventata poi regina) era sopravvissuta. Per questo Enrico VIII volle l’annullamento del matrimonio con Caterina per sposare Anna Bolena. Dopo di lei ebbe altre quattro mogli. Delle sei, da due divorziò, una morì nel 1537 dopo il parto dell’unico figlio maschio del re (il futuro Edoardo VI), una gli sopravvisse e due furono decapitate per ordine suo. Una di queste fu proprio Anna Bolena, che pur avendogli dato una figlia – la futura Elisabetta I -, fu accusata di adulterio, incesto e stregoneria, e decapitata il 19 maggio 1536.

Il papa fu irremovibile nel rifiuto dell’annullamento del primo matrimonio e la conseguenza fu che il Regno d’Inghilterra si staccò completamente dalla Chiesa Cattolica.

E pensare che papa Leone X l’11 ottobre 1521 aveva conferito a Enrico VIII, primo monarca europeo a riceverlo, il titolo di Defensor fidei (difensore della fede) come riconoscimento al libro che il re aveva scritto: «Difesa dei sette sacramenti», un’opera a sostegno soprattutto del sacramento del matrimonio e della supremazia del papa. Quell’opera fu vista come un importante attacco contro la nascente Riforma protestante, e specialmente contro le idee di Martin Lutero. A seguito della decisione di Enrico VIII di rompere i rapporti con la Chiesa cattolica e di fondare la Chiesa d’Inghilterra, papa Paolo III revocò il titolo e scomunicò il re.

Come reagisti quando nel 1532, ricattando il clero inglese, Enrico VIII si fece proclamare «unico protettore e capo supremo della Chiesa Anglicana»?

Come laico non ero tenuto a giurare su quel documento, ma, non condividendolo, il giorno dopo restituii al sovrano il sigillo – segno della mia carica di Cancelliere – e mi ritirai a vita privata, preparandomi ad affrontare una dura povertà in quanto perdevo ogni stipendio dalla Corte e ogni altro introito professionale, e non avevo risparmi, avendo dato tutto ai poveri e badato al sostentamento della mia numerosa famiglia.

Con che animo, quando Anna Bolena il 1° giugno del 1533 venne incoronata regina a Westminster, partecipasti alla celebrazione?

Io quel giorno mi astenni dal partecipare alla cerimonia, rimasi a casa con la mia famiglia adducendo motivi di salute. Così facendo mi attirai le ire della nuova regina, la quale, neanche troppo velatamente tramò perché io fossi sempre più emarginato.

Il re non ti diede scampo e ti invitò a prendere una posizione netta e ufficiale sulla questione.

C’erano tre punti che avrei dovuto accettare con un giuramento: che il matrimonio tra Caterina e il re Enrico VIII era nullo e quindi mai esistito; che Anna Bolena era la legittima regina di Inghilterra; e che il re aveva la supremazia sulla Chiesa d’Inghilterra non solo per le materie temporali ma anche quelle spirituali. Riconobbi che il Parlamento aveva il diritto di dichiarare Anna regina di Inghilterra, ma rifiutai categoricamente di accettare come valido l’annullamento del matrimonio con Caterina e soprattutto non feci il giuramento con il quale avrei dovuto riconoscere l’Atto di supremazia del re sul papa anche in materia di religione. Fui l’unico laico in tutta l’Inghilterra a rifiutare tale giuramento. Del clero rifiutarono soltanto il vescovo John Fischer e alcuni monaci certosini, che vennero anch’essi giustiziati.

Possiamo dire che i contrasti che hai avuto con il Re erano dei problemi di coscienza?

Mano a mano che procedeva il dialogo a distanza con il Re e con i suoi funzionari incaricati di convincermi a firmare, mi rendevo sempre più conto che era mio preciso dovere, come credente, rivendicare il primato della coscienza per cui ognuno deve scegliere tra l’osservanza della legge di Dio e quella degli uomini.

Quando fosti interrogato nella Torre di Londra, ti torturarono?

Torture fisiche no, ma ero sempre alla presenza di diverse persone, giudici agguerriti che cercavano in ogni modo di cogliermi in fallo. Nel corso di quattro drammatici interrogatori, tenni testa con pacata fermezza alle minacce e blandizie dei giuristi asserviti al monarca. Ma alla fine fui condannato a morte: «per avere parlato del Re in modo malizioso… e diabolico».

È vero che non perdesti il tuo senso dell’umorismo neanche negli ultimi istanti della tua vita?

Mentre salivo gli scalini che mi portavano al patibolo inciampai e caddi, dissi al boia: «Per favore mi aiuti a salire, a scendere non ce ne sarà più bisogno».

La condanna a morte e l’esecuzione di Tommaso Moro fu recepita come un fatto clamoroso da tutte le Corti europee. La notizia attraversò come un lampo tutto il vecchio Continente e la devozione verso questo integerrimo servitore dello stato e della Chiesa ebbe subito inizio.

Leone XIII lo proclamò Beato nel 1886 e Pio XI lo fece Santo il 19 maggio 1935. Nel 1980 la Chiesa Anglicana d’Inghilterra ha aggiunto Tommaso Moro e l’arcivescovo John Fisher alla lista dei «Martiri ed eroi della Riforma» e ne celebra la festa il 6 luglio. Il 31 ottobre del 2000, Giovanni Paolo II lo ha nominato protettore di tutti i politici e amministratori pubblici. Con la sua vita, e con la sua morte, Tommaso Moro ci ricorda che c’è ancora qualcosa o Qualcuno per cui valga la pena di accettare il martirio. Aveva tratto dalla sua fede e dall’entusiasmo umanistico del suo tempo, il desiderio di essere un vero uomo, totalmente uomo. Ma un giorno comprese che ci sono situazioni in cui un cristiano, proprio per essere pienamente «uomo», deve consegnare a Cristo tutta la sua umanità; situazioni in cui c’è posto solo per questa alternativa: o la disumanità, o l’Umanità del Risorto. O osservare le leggi dello stato o seguire la propria coscienza. La sua scelta è un esempio ancora oggi per tutti coloro che vogliono vivere con coerenza la propria fede.

Don Mario Bandera, Missio Novara

 

Preghiera del buonumore

Dammi o Signore, una buona digestione
ed anche qualcosa da digerire.
Dammi la salute del corpo,
col buonumore necessario per mantenerla.
Dammi o Signore, un’anima santa,
che faccia tesoro
di quello che è buono e puro,
affinché non si spaventi del peccato,
ma trovi alla Tua presenza
la via per rimettere di nuovo
le cose a posto.
Dammi un’anima che non conosca la noia,
i brontolamenti, i sospiri e i lamenti,
e non permettere
che io mi crucci eccessivamente
per quella cosa troppo invadente
che si chiama «io».
Dammi, o Signore, il senso dell’umorismo,
concedimi la grazia
di comprendere uno scherzo,
affinché conosca nella vita un po’ di gioia
e possa farne parte anche ad altri.

San Tommaso Moro

 

Mario Bandera

 

 




I Perdenti: 1. I Charrua

Nel Prado di Montevideo, un grande
parco situato nel cuore della capitale dell’Uruguay, c’è un monumento in bronzo
e in pietra intitolato Gli ultimi Charrua, gli indios che popolavano
quelle terre prima dell’arrivo degli spagnoli. I quattro indigeni raffigurati
furono trasportati in Francia dove vissero gli ultimi anni della loro vita come
attrazione principale di un circo che voleva mostrare lo stile di vita degli
indios prima dell’arrivo dell’uomo bianco.

I Charrua, che
abitavano le rive del Rio De La Plata erano una etnia della famiglia dei Tupì-Guaranì,
la grande e multiforme popolazione indigena che si estendeva dalle rive
dell’Atlantico all’estremità del Paraguay e del nord dell’Argentina, diffusa
nella fascia sub tropicale del continente latinoamericano.
I nomi dei quattro Charrua deportati in Europa erano: Senaqué, Tacuavé, Vaimaca
Pirù e Guyunusa. Parliamo con Senaqué, sciamano.

La vostra storia può
essere presa come emblema di tante altre storie di membri delle diverse etnie
indigene che abitavano il continente latinoamericano prima dell’arrivo dei
conquistadores.

In un
certo qual modo è proprio così. Los Minuanos, los Guinuanes, los Boanenses, los
Yaros e los Chanaes, erano tribù indigene nostre sorelle che abitavano in
quelli che attualmente sono i territori dell’Uruguay, del Rio Grande do Sul in
Brasile e delle province di Corrientes, Entre Rios, Santa Fe in Argentina.
Erano installate in quelli che sono i grandi fiumi confluenti nell’estuario del
Rio De La Plata, cioè: il Rio Uruguay, il Rio Ibicuy, il Rio Negro e il Rio
Paranà.

Voi eravate quelli
che vivevano nelle distese sconfinate che formano l’interno dell’attuale stato
dell’Uruguay.

Come
si sa, la ricchezza di corsi d’acqua della zona e la natura pianeggiante del
territorio, ci ha permesso di vivere raccogliendo bacche e frutti che la natura
ci offriva, cacciando gli animali e pescando i pesci che popolavano quelle
terre.

Più o meno quanti
eravate?

Non
esistono cifre precise, ma possiamo, con un certo grado di esattezza, dire che,
all’arrivo degli spagnoli, eravamo dalle trenta alle quarantamila persone.
Avevamo un’organizzazione sociale per la quale ogni comunità eleggeva il suo cacique
(capo), responsabile di guidare e custodire la sua gente.

La vostra economia su
che cosa si basava?

Per
vivere ci bastava quanto ci dava la natura, la carne ci era foita soprattutto
dai ñandù, una specie di struzzo di dimensioni più piccole che viveva
nelle nostre zone e che noi cacciavamo con le bolas, cioè tre pietre
legate alle estremità di lacci che facevamo ruotare sopra la testa. Esse si
aprivano a mo’ di raggiera di una ruota e, una volta lanciate, si
attorcigliavano attorno alle zampe degli animali facendoli cadere. Le zone dove
si andava a cacciare erano ben delineate, nessuno di noi poteva andare a caccia
nei territori di altre tribù.

Sbaglio o avevate
anche una certa fama di guerrieri?

Non
sbagli affatto, eravamo gelosi della nostra terra e del nostro fiume, così,
come tutte le altre etnie erano attaccate alla loro. Ci difendevamo con le
unghie e con i denti quando altri ci assalivano o volevano portarci via la
cacciagione che faticosamente avevamo messo insieme.

Ma la vostra grinta
leggendaria non servì a molto quando arrivarono gli europei, nella fattispecie
gli spagnoli…

Eh sì!
Ci accorgemmo ben presto che bolas, lance e frecce, non erano
assolutamente in grado di misurarsi con gli archibugi, le spingarde e i
cannoni. In più gli spagnoli avevano anche i cavalli che noi non avevamo mai
visto. Tutto ciò dava a loro una superiorità tecnologica e militare al cui
confronto le nostre modeste armi non potevano certamente competere.

Quando Juan Diaz de
Solis, al comando delle navi spagnole, primo europeo che risalì il corso del
Rio De La Plata, si incontrò con la vostra gente, capiste subito che la
superiorità non solo tecnico militare ma anche di navigazione, avrebbe
significato per voi la fine della vostra presenza in quelle zone.

Juan
de Solis risalendo il Rio De La Plata si incontrò con i nostri avi e non fu
certo un incontro facile: ogni volta che i conquistadores sbarcavano nei
villaggi situati sulle rive del grande fiume, si comportavano da padroni,
occupavano le nostre terre, prendevano le nostre donne e ci cacciavano
dall’ambiente in cui noi avevamo vissuto fino a quei giorni.

In uno di questi
conflitti Juan Diaz de Solis rimase ucciso, non è così?

È
vero, però noi non sapevamo di aver ucciso il comandante in capo, perché subito
il comando fu preso da altri uomini della spedizione, e il modo di comportarsi
nei nostri confronti non cambiò per nulla. Gli spagnoli, quando catturavano
qualcuno di noi e lo facevano prigioniero, lo riducevano in schiavitù e lo
vendevano al miglior offerente. Inoltre gli adolescenti di ambo i sessi
venivano forzatamente messi a servizio delle dimore dei conquistadores.
Cresceva quindi in noi un grande astio verso queste persone che in un primo
momento avevamo accolto come ospiti. Ci rendemmo conto ben presto che a loro
interessavano solo l’oro e l’argento. E quando non li trovavano, occupavano la
nostra terra dichiarandola loro proprietà.

Questa concatenazione
di avvenimenti, di scaramucce, contrasti, lotte in campo aperto tra voi e gli
spagnoli, portò a un episodio particolarmente vergognoso, ricordato come il
genocidio di Salsipuedes. Puoi raccontarci come andò?

Il
generale Fructuoso Rivera si accordò con i portoghesi, anche loro presenti
sulle sponde del Rio De La Plata, precisamente alla Laguna Merin, per delineare
i confini tra Brasile e Uruguay. Lui cedette ai portoghesi una larga fascia di
terra a condizione che questi non interferissero nella sua politica di
eliminazione degli indigeni. Il nipote di Fructuoso, Beabé Rivera, con le sue
truppe spinse molti Charruas sulle rive del torrente Salsipuedes, e lì, l’11
aprile 1831, fece una vera mattanza eliminando quasi tutta la presenza charrua
nell’Uruguay. Quei pochi che si salvarono scapparono verso il Nord o verso il
Brasile, trovando accoglienza nelle varie tribù, ma si può dire che, come
comunità, i charrua si estinsero del tutto.

Per
ironia della sorte, suo zio, il generale Fructuoso, nel 1830, era stato eletto
primo presidente dell’Uruguay!

Così voi quattro
foste inviati in Francia per essere mostrati agli europei…

Non
solo, anche per essere studiati come uomini della pietra che avevano vissuto
per secoli senza conoscere le varie invenzioni che si erano succedute nel
mondo. Però dopo gli studi sul nostro corpo, sulla nostra testa, sulla nostra
lingua, fummo venduti a un circo che, girando per l’Europa, mostrava gli «Indios
del Rio De La Plata».

Però il nome Charrua
non è scomparso del tutto, e pur essendo l’Uruguay una nazione formata quasi
esclusivamente da discendenti dell’emigrazione europea, la «Celeste», ovvero la
nazionale di calcio del piccolo paese sudamericano, è conosciuta come la
nazionale «Charrua».

Si
vede che per cancellare i crimini commessi, gli attuali abitanti dell’Uruguay,
che non hanno nessuna colpa del loro passato, e per identificarsi di fronte al
resto delle nazioni latinoamericane, si onorano del termine «Charrua», un po’
come i neozelandesi del rugby che, pur essendo quasi tutti discendenti dai
coloni inglesi, prima dei loro incontri si esibiscono nella «Haka», la danza
tipica degli indigeni Maori originari della Nuova Zelanda.

L’attuale popolazione
dell’Uruguay non include al suo interno minoranze indigene precolombiane.
Quando arrivarono gli spagnoli all’inizio del sedicesimo secolo, le malattie
che questi portarono contribuirono all’estinzione della popolazione indigena. I
Charrua furono i più fieri avversari dei conquistadores. Qualche secolo dopo,
l’eroe nazionale dell’Uruguay, Josè Gervasio Artigas, integrò i pochi indigeni
Charrua rimasti nel suo processo di liberazione dal giogo coloniale,
promettendo loro terra da coltivare una volta conquistata l’indipendenza. Ma già
verso la metà del secolo XIX rimanevano solo pochi nuclei di indigeni che
sempre più si ritiravano in zone disabitate dell’interno e lentamente ma
inesorabilmente si ridussero di numero. Oggi non rimane più nessuna traccia di
questa etnia del Rio De La Plata.

A
ricordare questo popolo resta solamente lo struggente poema epico di Juan
Zorrilla de San Martin: «Tabaré», pubblicato nel 1888, nel quale, con versi
straordinari, il grande scrittore uruguayano racconta la storia di un amore
impossibile tra il cacicco indio, Tabaré, e Blanca, una donna spagnola
espressione di un altro mondo e di un’altra cultura. Un poema che, meglio di
qualunque romanzo, esprime l’anima profonda del sentimento nazionale degli
uruguayani narrando l’incontro-scontro tra l’innocente naturalezza degli
indigeni e la violenza assurta quasi a mistica di vita dei nuovi arrivati.

Gli
usi e costumi, i miti e le tragedie del popolo Charrua, sconfitto sul piano
storico, diventarono così il racconto epico, quasi una saga leggendaria della
nascente nazione uruguayana, un marchio indelebile che suggellerà per sempre
l’anima profonda del «Pueblo Oriental» del Rio Uruguay. Possiamo dire allora
che il popolo Charrua, un popolo perdente come tanti altri popoli indigeni
precolombiani, si è preso la sua rivincita lasciando un nome glorioso come una
eredità culturale che va ben al di là di un succinto richiamo storico. Le
tradizioni Charrua permeano tutt’oggi la vita di un popolo che non vuole
dimenticare, e men che meno ripetere, gli errori del passato.

Don Mario Bandera, Missio Novara

Mario Bandera




San Pedro Calungsod

4 chiacchiere con

Pedro Calungsod Bissaya, originario della regione di
Visayas, nacque nel 1654 a Ginatilan (Isola di Cebu) nell’arcipelago delle
Filippine. Fin da adolescente collaborò con i Missionari Gesuiti . Ben presto
divenne catechista mettendosi al servizio dell’evangelizzazione che i discepoli
di Sant’Ignazio di Loyola avevano avviato nelle nuove terre scoperte dalla
Spagna. Fu martirizzato il 2 aprile 1672 con il gesuita spagnolo Padre Diego De
San Luis Vitoris, nell’isola di Guam – arcipelago delle Marianne – dove aveva
accompagnato il missionario per fargli da interprete con le comunità indigene
sparpagliate nell’immensa vastità dell’Oceano Pacifico.


Il messaggio evangelico fu accolto con semplicità ed
entusiasmo dai nativi delle Filippine. Alcune tribù, però, sobillate dai loro
stregoni e da chi si opponeva alla Buona Novella, si opposero attivamente ai
missionari e aizzarono anche le tribù che avevano accolto i missionari a rivoltarsi
contro di essi cercando con ogni mezzo di impedie l’azione, e arrivando
persino a utilizzare metodi cruenti e criminali. Nonostante ciò, i missionari
non vennero mai meno al loro impegno e continuarono la loro azione di
promozione umana e di evangelizzazione portando il messaggio di salvezza di
Gesù Cristo fino alle isole più sperdute e remote. Il loro coraggio e la
determinazione che li caratterizzavano non furono vani. Oggi le Filippine sono
l’unico stato a maggioranza cattolica del continente asiatico.

Caro Pedro, se non vado errato, tu sei uno dei migliori frutti
dell’opera di evangelizzazione che i missionari hanno compiuto nelle Isole
dell’Arcipelago delle Filippine.

È
vero, il messaggio del Vangelo arrivò a noi dall’America Latina perché i
missionari che sbarcarono in Messico si avventurarono nell’Oceano Pacifico al
seguito delle navi spagnole, approdando nel 1521 sulle coste delle nostre
isole, chiamate da allora «Isole Filippine» in omaggio al loro re Filippo. In
un certo qual modo per gli spagnoli diventammo una propaggine del continente
scoperto da Cristoforo Colombo.

Infatti anche oggi molto del folklore e delle feste religiose
filippini assomiglia a quelli dei paesi di lingua spagnola dell’America Latina.

Proprio così: oltre che asiatici, dal punto di vista
della pratica religiosa, siamo anche un po’ «latinoamericani». Non è un caso
che la fede cattolica, portata dagli spagnoli partiti dalle coste messicane,
abbia attecchito in maniera così intensa e feconda nelle nostre Isole. Del resto
la colonizzazione spagnola (durata oltre quattro secoli) ha inciso
significativamente nella toponomastica, nella cultura e e addirittura nei notri
patronimici, ossia nei nostri cognomi.

In ogni caso alcune culture native erano impregnate in maniera
viscerale di tradizioni fortemente contrarie al Vangelo e questo ha costituito
un serio ostacolo alla diffusione del messaggio evangelico in Asia e in
Oceania. Confermi questa tesi?

Sì, perché gli stregoni di varie isole vedevano nei
missionari dei concorrenti e quindi delle persone che insidiavano il potere che
loro avevano sulle coscienze e sulle comunità indigene, per questo li
osteggiavano in tutti i modi. Ricordiamo che il grande navigatore Ferdinando
Magellano fu ucciso proprio dai tribali in una di queste isole.

Ma i missionari gesuiti avevano una strategia vincente, o no?

I
gesuiti erano semplicemente geniali, coinvolgevano nell’evangelizzazione
soprattutto noi giovani, studiavano le lingue del posto, arrivando a parlarle
perfettamente e, per la prima volta nella nostra storia, a metterle per
iscritto utilizzando i caratteri latini. Per questo proprio nelle stazioni
missionarie che avevano creato nelle Filippine, accoglievano coloro che
intendevano aiutarli nell’opera di evangelizzazione, li formavano adeguatamente
e davano loro un’istruzione di prim’ordine, di modo da preparare anche dei
preziosi collaboratori nel catecumenato e nell’evangelizzazione degli adulti.

Anche tu hai fatto questo iter di formazione?

Sì,
avevo solo 14 anni quando entrai a far parte del «Collegio» di formazione che
essi avevano fondato nella mia isola. Lì insieme ad altri ragazzi oltre a
imparare a leggere e scrivere, fui istruito con il catechismo che allora veniva
usato per i catecumeni in vista del sacramento del Battesimo, e spinto ad
approfondire le verità di fede contenute nel Vangelo.

Cosa ti ha colpito di più del messaggio evangelico?

Il
fatto che per la prima volta tra la nostra gente risuonavano parole come Amore,
Misericordia e Perdono, e l’invito ad amarsi vicendevolmente. Ma quello che più
mi stupì di più del Vangelo fu il comando che Gesù diede ai suoi discepoli
(quindi anche a noi!) di amare e perdonare persino i nemici.

Effettivamente questa è proprio la novità assoluta del Vangelo.

Ma è
una novità inaudita portata sulla terra da Gesù Cristo stesso, il Figlio di
Dio! Da soli non ce l’avremmo mai fatta a capirla, spiegarla e proclamarla! Né
noi asiatici, né voi europei! Questo tesoro affidato agli apostoli e da questi
alle prime generazioni cristiane, ha attraversato i secoli, diffondendosi a
macchia d’olio tra i popoli e le nazioni, grazie alla testimonianza cristallina
che seppero dare cristiani di ogni tempo. Grazie all’opera instancabile e allo
spirito di sacrificio di missionari generosi, il Vangelo valicò ampi spazi
geografici e con la scoperta di terre nuove arrivò fino a noi, fino alle isole
Filippine.

Bisogna anche dire che la Buona Notizia di Gesù si innervò a tal
punto nei vostri usi e costumi, da diventare una cosa sola con essi.

L’arrivo
del messaggio evangelico per opera dei missionari fu per noi come la
realizzazione di un’attesa che nutrivamo da tempo. Il Vangelo entrò
gradatamente nella nostra vita, nel nostro modo di vedere la realtà, unendoci
sempre più, plasmandoci come nazione in maniera indelebile e facendo di noi un
popolo nuovo. Un popolo checapiva di avere un ruolo significativo da giocare
nel continente asiatico, per la responsabilità – che scoprivamo di avere – di
annunciare Gesù ad altri popoli vicini. Il tesoro della «Buona Novella» che ci
era dato in dono, andava condiviso il più possibile con altri.

Diciamo che i missionari con voi non commisero gli stessi errori
fatti nelle Americhe.

Quello
che nel continente americano non era riuscito a Bartolomeo de las Casas e alle
anime nobili come lui che difendevano gli indios, da noi poté essere
realizzato. Infatti non vi furono né schiavi né lavori forzati. I missionari si
presentarono come protettori degli indigeni e seppero difenderli dalle
sopraffazioni dei bianchi. I riguardi e la mitezza con cui furono trattati gli
indigeni non mancarono di produrre il loro effetto. La mia gente rimase fedele
alla Spagna e ai suoi missionari, insieme ai quali difesero l’impero coloniale
contro tutti gli attacchi dei maori, dei cinesi e degli olandesi.

Questo ebbe riflessi positivi sulla nascente comunità cristiana?

La
conseguenza di questo intenso lavoro missionario, basato sul rispetto della
gente, fu che ben presto si ebbero catechisti e sacerdoti nativi, i quali con
l’andar del tempo presero in mano quasi tutto lo sforzo missionario. Pensa che
nel 1585 si contavano già 400 mila cristiani, nel 1595 quasi 700 mila, nel 1620
oltre due milioni: in meno di cent’anni la massa della popolazione
dell’arcipelago era divenuta cristiana! Nel 1595 fu istituita nelle Filippine
una gerarchia ecclesiastica propria!

Ma l’impegno missionario restava per te prioritario?

Non
solo per me, ma per molti giovani delle Filippine era un onore accompagnare i
missionari dei diversi ordini: Francescani, Domenicani, Agostiniani, Gesuiti,
ecc., nelle innumerevoli isole dell’immenso Oceano Pacifico, alle Marianne,
Salomone, Marshall e via dicendo, per
fare loro da interpreti.

Un
compito che continua anche oggi con numerosi sacerdoti, religiosi, suore e
laici, inviati dalla Chiesa Filippina ad annunciare il Vangelo in diversi paesi
asiatici, dove gli europei avrebbero magari maggiori difficoltà
d’inculturazione. Non è un caso che la Mongolia apertasi da pochi anni
all’accoglienza del Vangelo, abbia attualmente come Vescovo di Ulan Bator
proprio un presule filippino! E con le meraviglie che sa operare lo Spirito
Santo e che spiazzano sempre coloro che non vorrebbero mai cambiamenti nella
Chiesa come nella società… chissà che sorprese ci riserva il futuro!

Il 2 aprile 1672, Pedro insieme a Padre Diego, parte per le Isole
Marianne. Approdati a Guam, si addentrano verso l’interno dove giungono al
villaggio di Tomhom. Radunata la popolazione iniziano a presentare loro il
Vangelo di Gesù. Mentre espongono le verità del Vangelo, vengono circondati da
una folla di esagitati aizzati dallo stregone del posto. In odio alla fede
cristiana, sono ripetutamente colpiti con lance e frecce. Pedro cerca
disperatamente di difendere Padre Diego e viene colpito in pieno petto e finito
a colpi di scimitarra. Prima di subire la stessa sorte, Padre Diego riesce a
dargli l’assoluzione. Poi i loro corpi, spogliati e sfregiati, sono gettati in
mare, da dove non saranno più recuperati.

La
beatificazione di Padre Diego nel 1985, ha portato a riscoprire anche la
splendida figura del catechista laico Pedro Calungsod, che Papa Wojtyla ha
beatificato il 27 gennaio 2000, proponendo il giovane filippino diciassettenne
come esempio di coraggio, di fede e d’impegno missionario. Il 21 ottobre 2012 è
stato canonizzato come Santo nella Basilica di San Pietro a Roma da Papa
Benedetto XVI.

don Mario Bandera, Missio Novara

Mario Bandera




Franz Jägerstätter e Josef Mayr-Nusser

 


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FRANZ JÄGERSTÄTTER nacque nel 1907 a Sankt Radegund, in Austria, e come semplice contadino visse le vicende della sua patria fino a che Hitler nel 1938 con l’Anschluss (ovvero l’annessione) inglobò l’Austria, facendola diventare parte integrante della Germania nazista. Come tutti i giovani del suo tempo, doveva obbligatoriamente prestare servizio militare e giurare fedeltà alla dottrina del nazional-socialismo e al Führer tedesco, cosa che egli si rifiutò di fare per la sua tenace convinzione che il nazismo fosse incompatibile con il Cristianesimo e che non potesse assolutamente mettere in secondo piano i principi evangelici per assumere quelli della dottrina nazional-socialista.  
JOSEF MAYR-NUSSER nacque nel 1910 a Bolzano da una famiglia di viticoltori. Benché cittadino italiano, sia pur di lingua tedesca, venne forzatamente arruolato nelle truppe delle SS naziste e inviato in Germania per essere addestrato e indottrinato al verbo nazional-socialista prima del giuramento al Führer. Unico tra tutte le reclute presenti, egli, con nobile gesto, si rifiutò di adempiere tale formalità. Entrambi questi giovani praticarono e vissero la fede cattolica in forma adamantina. Furono tra i pochi obiettori di coscienza al nazismo e si ribellarono a una visione della vita fondata sul dogma della superiorità della razza ariana, che il dittatore nazista voleva imporre con la forza nei paesi invasi, sconfitti e sottomessi dall’esercito tedesco. I due giovani hanno pagato cara la loro coerenza evangelica e la fedeltà alla loro coscienza modellata sul messaggio di Gesù di Nazareth. Furono condannati a morte e la loro esistenza fu stroncata in maniera tragica e feroce. Franz Jägerstätter è stato dichiarato beato nel 2007 da Papa Benedetto XVI (un Pontefice tedesco!), mentre per Josef Mayr-Nusser la diocesi di Bolzano ha avviato il processo di canonizzazione.
Franz e Josef, voi avete saputo offrire in tempi difficilissimi una testimonianza forte del Cristianesimo ascoltando la vostra coscienza. Avete dimostrato che è meglio obbedire a Dio piuttosto che agli uomini, una posizione che in tutta la storia del Cristianesimo altre figure di Santi hanno assunto fino alle conseguenze estreme, ovvero il martirio. Disubbidire alle leggi umane per essere fedeli a Dio, non è cosa da poco, è una scelta sublime!
Franz: Io partecipavo alla vita pubblica del mio paese e, in occasione del plebiscito organizzato dai nazisti per incorporare l’Austria alla Germania, fui l’unico a votare «no» nel mio comune. E una volta che l’annessione fu realizzata, mi rifiutai categoricamente di continuare a partecipare alla vita amministrativa del mio paese, in quanto trovavo la dottrina di Hitler incompatibile con la fede cristiana.   Josef: Noi sudtirolesi, per via della lingua, eravamo considerati gli alleati naturali degli austriaci e dei tedeschi. Io provenivo dalle fila dell’Azione Cattolica (che il fascismo aveva tentato di ostacolare in ogni modo) e trovavo sempre più difficile identificarmi con i progetti propugnati dalla stretta unione d’intenti tra l’Italia fascista e la Germania nazista. Inoltre mi risultava difficile aderire ai programmi che venivano imposti e che rendevano sempre più filonazista la politica italiana.
Al di là di queste considerazioni personali, varrebbe la pena che presentiate un quadro della vostra situazione, di modo che diventi per noi più facile capire il contesto in cui vi muovevate e comprendere nella sua valenza profetica il gesto che avete fatto.
Franz: Io fui allevato da mia nonna perché mia mamma mi generò da una relazione extraconiugale. Quando la mia mamma, dopo qualche anno dalla morte del mio papà naturale, sposò Heinrich Jägerstätter, questi mi adottò e ne assunsi il cognome. Nel 1933 morì senza figli propri e così ne ereditai le proprietà. Nel 1936 sposai Franziska Schwaninger e dal matrimonio nacquero tre figlie: Rosalia, Maria e Aloisia. Qualche anno prima avevo riconosciuto la pateità di una bambina nata da una relazione sentimentale con un’altra ragazza, Theresia Auer. Per dirla tutta, non ero «uno stinco di Santo» e anche la mia famiglia aveva qualche problema con la morale ufficiale della Chiesa.   Josef: Nella ditta in cui lavoravo a Bolzano, ebbi la fortuna di conoscere Hildegard Straub, una ragazza che era impiegata nello stesso posto e che proveniva anche lei dal gruppo dei giovani dell’Azione Cattolica altornatesina. Dopo un breve fidanzamento, nel maggio del 1942 ci sposammo e l’anno successivo nacque nostro figlio, cui demmo il nome di Albert.
Le vostre mogli - mi sembra di capire - avevano gli stessi sentimenti vostri, quindi da parte loro avete avuto un sostegno notevole nel dire di «no» a Hitler.
Franz: Con Franziska andai in viaggio di nozze a Roma; il matrimonio e quel viaggio segnarono una svolta nella nostra vita. La preghiera e la lettura della Bibbia divennero, per scelta comune, una consuetudine quotidiana. Ci sostenevamo reciprocamente nel nostro cammino di fede non tanto vivendo gli atti devozionali della comunità, quanto nel renderci consapevoli che la fede cristiana non poteva essere messa sullo stesso piano della dottrina nazional-socialista. Josef: Per far capire quanto intensa fosse la nostra scelta comune di vivere fino in fondo la fede cristiana e di non piegarci al nazismo, riporto qui quanto scrissi alla mia carissima Hildegard appena arrivato al centro d’indottrinamento delle SS di Konitz: «Ciò che affligge il mio cuore è che la mia testimonianza nel momento decisivo possa causare a te, fedelissima compagna, disgrazia temporale. Prega per me affinché nell’ora della prova io agisca senza timore ed esitazioni secondo i dettami di Dio e della mia coscienza».
Quindi eravate decisi non solo a rifiutare di imbracciare le armi per servire il vostro paese, ma anche di opporvi al cuore stesso del potere nazional-socialista rifiutando di giurare fedeltà a Hitler.
Franz: Nel 1940 fui arruolato dalla Wehrmacht, ma tornai a casa dopo un anno per la mia situazione familiare. L’esperienza negativa nell’esercito e il programma sull’eutanasia che il partito nazional-socialista portava avanti a vasto raggio rafforzarono la mia decisione di non tornare più alla vita militare. In quegli anni feci la scelta di diventare terziario francescano e questo irrobustì la mia idea di non mettermi al servizio delle smanie di potere del nazional-socialismo, quindi di non giurare a Hitler. Josef: Giurare è un verbo insopportabile, giurare a chi, a che cosa, per quali motivi, giurare a un uomo, a un dittatore, a un Führer, giurare per odiare, per conquistare e sottomettere altre persone, per incendiare la storia e impolverare la creazione di Dio, giurare per versare sangue innocente sulla terra? Giurare a Hitler era compiere un culto demoniaco, il culto del capo innalzato a idolo di una religione sterminatrice. Volete sapere com’era la formula del giuramento nazista? Era così: «Giuro a Te, Adolf Hilter, Führer e cancelliere del Reich, fedeltà e coraggio. Prometto solennemente a Te e ai superiori designati da Te obbedienza fino alla morte, che Dio mi assista».
Certo che quel finale «che Dio mi assista» è più a una bestemmia che una preghiera.
Franz: Per nulla al mondo avrei pronunciato quelle parole. Dopo aver manifestato l’intenzione di non giurare a Hitler fui trasferito nella prigione militare di Linz, dove incontrai altre persone che opponevano resistenza al nazional-socialismo e si rifiutavano di fare il giuramento nazista. Josef: Può un cristiano pronunciare simili parole? Può egli mettere Dio al servizio del potere, della guerra, della furia distruttiva, della violenza fine a se stessa? Dio che è al di sopra di ogni legge, di ogni nome, di ogni spazio, di ogni luogo, come può farsi paladino di un dominatore senza scrupoli? Chi può manipolare ciò che di più sacro e intangibile appartiene alla fede? Più che mai ero convinto che non avrei pronunciato quel giuramento.
Nessuno cercò di dissuadervi da questa vostra decisione?
Franz: Oh sì! Molti cercarono di farlo. Chi mettendoci di fronte alle responsabilità verso la patria tedesca, chi ci diceva di giurare per evitare che la nostra famiglia subisse spiacevoli conseguenze. Persino il Vescovo della diocesi di Linz, Josephus Calasanz Fließer, mi consigliò di desistere dall’obiezione di coscienza. Solo la mia Franziska, benché conscia delle conseguenze, mi sostenne in questa decisione. Josef: Anche con me ci furono tentativi di farmi cambiare idea, ma devo dire che l’assistente dell’Azione Cattolica di Bolzano, don Josef Ferrari, invece mi sostenne nella decisione che avevo preso. L’unica che vibrò fino in fondo per il medesimo ideale restandomi accanto fino all’ultimo istante fu la mia amatissima Hildegard.
FRANZ JÄGERSTÄTTER fu condannato a morte e ghigliottinato il 9 agosto 1943 nel carcere di Brandeburgo. Dopo la fine della guerra, l’ua con le sue ceneri fu portata a Sankt Radegund, dove fu tumula il 9 agosto 1946. La sua figura di obiettore cristiano si delineò con chiarezza alcuni decenni dopo, grazie allo storico Gordon Charles Zahn, il quale ne scoprì l’epistolario conservato dalla famiglia da cui emerge con cristallina coerenza la sua fede e le sue profonde motivazioni per il rifiuto dell’ideologia totalitaria del nazional-socialismo e di ogni tipo di guerra. JOSEF MAYR-NUSSER, rinchiuso nel carcere di Danzica con l’accusa di tradimento, subì ogni sorta di torture e maltrattamenti. Condannato quindi a morte, fu destinato al famigerato campo di sterminio di Dachau. Un bombardamento alleato alla linea ferroviaria bloccò il treno alla stazione di Erlangen. Gravemente provato per via delle forti e continue privazioni cui era stato sottoposto durante la prigionia, morì nel vagone bestiame del treno il 24 febbraio 1945.
 
Don Mario Bandera - Direttore Missio Novara




San Martin de Porres

San Martin de Porres (Lima, Perù,
1579-1639) appartiene a quella generazione di santi latinoamericani che, al di
là delle efferatezze dei conquistadores, furono attratti dal messaggio del
Vangelo e dalla tenerezza di Cristo. Egli mise in pratica tutto ciò che il
maestro di Nazareth aveva insegnato, a partire dalle condizioni sociali, dallo
stato di vita e dalla situazione storica in cui si trovava. Il santo mulatto
peruviano si distinse praticando accoglienza e carità e, con modi discreti ma
incisivi, rivendicò giustizia ed equità per gli emarginati del Perù coloniale.
Egli dedicò tutta la sua vita ai poveri.
Pio XII nel 1945 lo proclamò
patrono della Giustizia Sociale e da Giovanni XXIII venne elevato alla gloria
degli altari il 6 maggio del 1962, mentre Paolo VI lo nominò patrono dei
barbieri e parrucchieri.

Martin, che bello avere a che fare con santi come te. Ci si
sente subito a proprio agio con una persona solare e gioviale come sei stato
lungo tutta la tua vita in Perù.

Il
dono del mio carattere mi fu di grande aiuto fin dall’inizio della mia
esistenza, che non fu né semplice né facile, ma grazie a mia mamma imparai come
sorridere al mondo nonostante le avversità che ti crollano addosso.

Già, dimenticavo, fin dalla nascita non ti furono risparmiate
difficoltà e incomprensioni.

Infatti
sono figlio di Juan de Porres, un aristocratico spagnolo approdato in Perù in
cerca di fortuna, e di Ana Velazques, una ex schiava di origine africana.
Segnato perciò fin dal primo giorno che venni alla luce come un bambino che di
fronte alle leggi del Vicereame spagnolo, risultava illegittimo, nato cioè
fuori dal matrimonio cristiano, in più ero diverso in quanto mulatto. Questa
situazione creò in me un mestizaje (meticciato) fra razze e culture
diverse.

Anche la burocrazia pesò non poco sulla tua vita. Non è vero?

Certo.
Fui registrato nella Chiesa di San Sebastiano di Lima come «figlio di padre
ignoto» perché mio padre non volle riconoscere né me né la mia sorellina. Ci
vollero diversi anni e una sua permanenza in Ecuador perché al ci riconoscesse
come carne della sua carne.

Quindi si può dire che tutto si appianò?

Direi di sì, anche dopo qualche anno mio padre fu
nominato governatore del Panama e ci lasciò a Lima con la mamma alla quale, però,
aveva dato le risorse necessarie per le nostre esigenze di vita.

Rimasto solo con tua mamma e tua sorella, che facesti nella Lima
coloniale, capitale del Vicereame del Perù?

Mia
mamma mi mise a bottega da un barbiere perché imparassi il mestiere. I barbieri
a quei tempi erano anche un po’ dentisti e chirurghi e ciò che appresi in
quella bottega (tagliare i capelli, fare la barba, strappare i denti, incidere
bubboni infetti, ecc.) mi toò molto utile in seguito, quando dovetti
risolvere un’infinità di casi che necessitavano del medico, che ovviamente non
era possibile trovare. E io con le conoscenze che avevo acquisito mi trovai a
operare in un settore dove non c’era molta concorrenza.

Avevi pertanto un avvenire garantito con queste tue nozioni
sanitarie e praticità «chirurgiche».

Sì, però fare il cerusico, il barbiere o il cavadenti non mi
appagava fino in fondo, sentivo dentro di me un richiamo molto più intimo e
suggestivo. Il Signore lavorava nella mia coscienza e rendeva il mio cuore
sempre più inquieto. Ogni giorno che passava capivo sempre più che mi voleva
totalmente per Lui.

Fu in questo periodo quindi che decidesti di diventare frate
domenicano?

Proprio così. Questo grande Ordine della Chiesa, fondato da San
Domenico di Guzman, che ha il carisma della predicazione del Vangelo al popolo
e che ha in San Tommaso d’Aquino il suo esponente più illustre, mi attirava
proprio perché aveva come caratteristica quella di non lasciare nessuno
nell’ignoranza. Anzi, in un certo qual modo, i Domenicani si rivolgevano
proprio a quella fascia e categoria di persone alla quale anch’io appartenevo,
per farla diventare soggetto privilegiato dell’annuncio evangelico.

Fu per te facile entrare nell’Ordine dei Domenicani?

Il
colore della mia pelle non mi aiutava certamente. Tanto ai neri, quanto agli
indigeni, come ai meticci, ai miei tempi non si potevano dare gli Ordini Sacri;
ma io non volevo diventare sacerdote per compiere chissà quali grandi opere, più
semplicemente, volevo consacrarmi al Signore nell’umiltà e nel nascondimento,
cercando di vivere come Lui aveva vissuto a Nazareth, cioè aiutando in casa e
contribuendo al mantenimento della famiglia.

E fu così?

Fin
dal momento in cui all’età di quindici anni entrai nel convento domenicano di
Lima, mi sentii liberato completamente, in quanto ero disponibile a una
consacrazione totale per gli altri. Mi furono affidati la cura della portineria
e i lavori più umili di pulizia della casa e della cucina. E mentre svolgevo
queste mie mansioni, la mia immaginazione spaziava continuamente contemplando i
misteri divini, per cui a livello interiore vivevo un’esperienza straordinaria
d’intimità con il Signore. Allo stesso tempo, svolgendo attività ripetitive,
ero stimolato con la preghiera del Rosario a innalzare la mia mente a Dio, il
che aumentava (non scandalizzatevi) la mia allegria e la mia voglia di donarmi
sempre più alla mia comunità e a coloro che vi ricorrevano per avere un aiuto.

E i Padri domenicani non si accorgevano di queste tue esperienze
mistiche?

Eh
sì. Dopo qualche tempo si accorsero di queste mie singolari particolarità, che
io considero doni del Signore. Mi tolsero dalla condizione subalterna, che vivevo
fin dall’inizio del mio ingresso, e mi accolsero all’interno dell’Ordine dei
Predicatori come fratello cornoperatore.

Questo ti facilitò nel tuo impegno verso i poveri, non è vero?

C’è
da dire che in quel periodo in Perù, come in tutti i territori conquistati
dalla Spagna, era ancora vivissimo il ricordo delle efferatezze che i
conquistadores avevano commesso. Molte persone quindi avevano perso ogni cosa e
vivevano in estrema povertà, così come coloro che erano afflitti da varie
malattie si dirigevano ai conventi, sicuri di avere almeno un pezzo di pane o
una bevanda calda. E puoi ben immaginare che, avendo io sofferto la condizione
di emarginazione per un verso e di razzismo per un altro, ero molto sensibile
verso i poveri che accorrevano a noi.

Non ti limitavi a dare l’elemosina?

No.
Mi diedi da fare per avviare delle opere assistenziali e istituzioni permanenti
di promozione sociale e culturale, destinate a durare nel tempo. Andavo dai
nobili e con franchezza chiedevo aiuti e risorse, non per me, ma per quelli più
svantaggiati. Praticamente non c’era casa di aristocratici che non riceveva la
mia visita e dalla quale me ne andavo a mani vuote.

Il coraggio non ti mancava allora?

Quando
non chiedi per te, ma chiedi per gli altri, puoi andare dal Viceré,
dall’Arcivescovo, dal Goveatore e da tutte le famiglie abbienti, per avere
quello che bisogna ridare ai poveri per giustizia e non per carità. Mettevo
tanta forza di convinzione nelle mie parole, che molti dei nobili si sentivano
privilegiati per essere stati scelti come collaboratori di fra Martin de
Porres!

Quando arrivò la peste in Lima ti desti da fare per lenire le
sofferenze di coloro che erano colpiti da quella grave malattia.

Curai
tutti i miei confratelli e nessuno di loro morì per il terribile morbo, così
come andavo per la città per dare conforto a chi nelle proprie case, sui propri
giacigli, affrontava la fase terminale della malattia. Grazie a Dio questa
tragica situazione passò e si ritoò alla vita normale.

È vero che fondasti il primo collegio per bambini poveri a Lima?

Di
per sé risulta essere il primo collegio a Lima, ma nei fatti è il primo
collegio del Nuovo Mondo. L’istruzione ai figli di coloro che erano esclusi dai
benefici della colonia non poteva essere negata. Insieme a alcuni confratelli
che avevano a cuore l’istruzione dell’infanzia, diedi origine e compimento a
quest’opera che già i miei contemporanei giudicavano meritoria e che con
l’andare del tempo si è rivelata profetica.

Quindi non sei per nulla un santo ingenuo e svagato, con la
testa fra le nuvole, che raccomanda ai topolini di non fare troppi danni in
dispensa e che vive in semplicità facendo i lavori più umili?

Questo
è quello che fa comodo a una presentazione della mia vita secondo canoni
agiografici, che presentano i santi sempre come delle persone che vivono sulle
nuvole e non creano problemi. Papa Pacelli che se ne intendeva di queste cose
volle invece che fossi proclamato «protettore della Giustizia Sociale», un
titolo che mi fa arrossire e inorgoglire allo stesso tempo, ma che rende merito
a tutto ciò che io feci durante la mia vita.

San
Martin de Porres, colpito da violente febbri, muore a Lima sessantenne. Per il
popolo peruviano e per i confratelli è subito santo. Invece l’iter canonico,
iniziato nel 1660, avrà una lunghissima sosta. Sarà Giovanni XXIII a
proclamarlo santo, il 6 maggio 1962. A distanza di anni dalla sua
canonizzazione, la sua figura si erge, semplice e amorevole, come prototipo del
liberatore, anche se egli viene raffigurato non con la spada in mano, bensì
nell’atteggiamento più umile e servizievole di chi, usando con maestria scopa e
ramazza sa mettersi al servizio dei più poveri e bisognosi.

 
Don Mario Bandera, Direttore Missio Novara

Mario Bandera




Santa Bakitha

La santità è una conquista che tutti possono raggiungere,
a essa possono aspirare uomini e donne di ogni razza, popolo e cultura. Questa
volta ci incontriamo con Bakhita, una santa africana originaria del Darfur (Sudan), che, fatta
prigioniera da bambina e venduta come schiava da mercanti senza scrupoli, dopo
incredibili vicissitudini, approda nella famiglia del Console italiano Callisto
Legnani, che dal Sudan la porta in Italia. Nel nostro paese, Bakhita incontra
le Suore Canossiane e, dopo un certo periodo, entra a far parte dell’Istituto,
prendendo i voti nel 1896. Il suo modo di fare, soprattutto la
dolcezza del suo carattere, le attirano in poco tempo la simpatia di tutti
coloro che la circondano.

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Una santa «di colore» diremmo oggi, eppure di santi provenienti dal continente africano ce ne furono parecchi prima di te, non è così?

Il calendario è ricco di santi africani, qualcuno addirittura, come sant'Agostino che, nato a Tagaste (l’attuale Algeria), è considerato uno dei pilastri del pensiero occidentale, grazie alla sua profonda conoscenza teologica e alla sua filosofia che ha segnato non poco tutto il pensiero del bacino del Mediterraneo, dell’Europa..

Hai citato uno dei più grandi Padri della Chiesa, che insieme a Tertulliano, a Cipriano e a tanti altri, ha dato lustro alla Chiesa africana delle origini, ma ce ne sono stati altri?

Molti africani al tempo dell’impero romano prestavano servizio militare nelle varie legioni e alla fine si stabilivano definitivamente dove erano stanziati. Alcuni di loro, pur essendo di colore, sono venerati nelle Chiese del Nord Italia, come san Vittore, san Maurizio, san Zeno di Verona e tanti altri. Pure nel Sud dell’Italia la devozione ai santi provenienti dall’Africa è molto forte, come san Benedetto il Moro, originario della Mauritania, il primo santo negro canonizzato il 24 maggio 1807 da Papa Pio VII, il quale, insieme a santa Rosalia, è patrono di Palermo. Provenienti dall’Africa sono anche san Calogero, sant’Oronzo, sant’Antioco e tantissimi altri. E poi ci sono ben tre papi: Vittore, Milziade e Gelasio. Certo sono dei primi secoli della storia della Chiesa, ma sono il segno tangibile e inequivocabile che le radici cristiane in Africa hanno origini antichissime.

La tua però è una storia di santità un po’ speciale. La tua canonizzazione è avvenuta perché in fondo sei approdata in Italia. Com’è successo?

Nata nel 1869 e cresciuta in un villaggio del Darfur, in Sudan, all’età di sette anni fui rapita da razziatori arabi, che si spingevano all’interno per catturare uomini e donne, giovani, ragazzi e bambini di entrambi i sessi e rivenderli come schiavi. Io, che appartenevo a una famiglia agiata che aveva piantagioni e bestiame, improvvisamente fui strappata dai miei cari e dalla mia terra e mi ritrovai immersa nel dolore e nella sofferenza.

Puoi raccontare la tua odissea come schiava?

Fui subito venduta al mercato degli schiavi e in pochi anni fui sballottata da un padrone all’altro (ben sei) di diversi paesi. Ricordo che il padrone più cattivo fu un generale turco ottomano che mi fece fare un tatuaggio su tutto il corpo e anche delle incisioni che sfigurarono tutta la mia persona, tranne il volto. Per fortuna alla fine questo ufficiale mi vendette.

Dove finisti? Chi ti comprò?

Fui acquistata da un agente consolare italiano, Callisto Legnani, che mi trattò bene; in casa sua per la prima volta ebbi dei vestiti tutti per me e un cibo decente. Era deciso a riportarmi al mio villaggio per ridarmi la libertà. Ma la rivoluzione del Mahdi cambiò completamente i programmi del Console e miei. Si vede che la Provvidenza aveva disposto diversamente.

Rivoluzione del Madhi, cos’è?

Alla fine degli anni 1870, Muhammad Ahmad - un asceta musulmano - iniziò a predicare a Khartum, la capitale, e in altri centri urbani del Sudan, invocando il rinnovamento della «vera fede» (ovviamente quella islamica), la liberazione della terra sudanese e il ritorno alle strutture di governo previste dal Corano. I suoi seguaci raggiunsero un numero ragguardevole e Ahmad si proclamò nel 1881 Mahdi, cioè redentore dell’Islam, che la tradizione islamica vuole debba comparire verso la fine dei tempi per ripristinare il primitivo puro Islam.

Quindi ci fu una guerra?

Sì, inglesi ed egiziani si opposero al Mahdi e ci furono diverse battaglie con esiti incerti, le sorti erano favorevoli ora all’uno ora all’altro fronte, ma questa situazione critica, violenta, piena di odio verso i colonizzatori europei, specialmente gli inglesi, portò il funzionario italiano alla decisione di lasciare Khartum e di ritornare in Italia.

E tu immagino che seguisti la famiglia del Console italiano?

Sì. Decisi di seguire quella che ormai consideravo la mia nuova famiglia, ma il Console mi mandò al servizio di un amico suo, Augusto Michieli, perché facessi da baby-sitter alla figlioletta Alice (Mimmina).

In Italia dove vi stabiliste?

Ci stabilimmo dapprima a Genova, poi nel Veneto, dove i Michieli avevano diverse ville. Io accudivo sempre Alice e passavo con lei molto tempo, seguendola anche nel catechismo che lei frequentava dalle Suore. I Michieli, avendo da curare i propri affari anche in Africa, ritornarono diverse volte in quel continente, con me sempre al seguito. In uno di questi viaggi i coniugi andarono da soli e io rimasi ospite nel catecumenato delle Suore Canossiane a Venezia.

E lì che successe?

Dopo nove mesi la signora Michieli venne a reclamare i suoi diritti su di me. Mi rifiutai di seguirla nuovamente in Africa, al che la signora perse completamente le staffe. Nella diatriba che seguì, intervenne anche l’allora patriarca di Venezia, cardinal Agostini, e il procuratore del Re, il quale mandò a dire alla signora che in Italia non c’era più la schiavitù, io ero una persona libera e potevo prendere la strada che volevo.

Proprio come una persona libera?

Sì. Mi sentivo una persona completamente nuova, diversa, dopo molte vicissitudini e dopo aver provato le sofferenze più terribili, tra cui la schiavitù, ero finalmente una ragazza libera; era il 29 di novembre 1889.

E che facesti allora?

Completai la mia formazione cristiana e il 9 gennaio 1890 ricevetti dal patriarca di Venezia battesimo, cresima e prima comunione. In quell’occasione mi venne dato il nome di Giuseppina Margherita e Fortunata, che è la traduzione italiana del nome arabo Bakhita.

Chissà che giornata meravigliosa fu quella!

È vero. Da schiava negra ignorante diventavo figlia di Dio. Un’esperienza incredibile di libertà interiore, che sono incapace di descrivere, ma che riempiva il mio animo di una grazia e delicatezza che non avevo mai sperimentato. Provavo la gioia di essere una donna libera, amata da Dio e una cristiana che cercava di vivere il Vangelo di Gesù. Avevo un solo dispiacere: non avere nulla da offrire al Signore in cambio di tutti i doni che mi aveva fatto.

Fu in quel periodo che sentisti dentro di te la vocazione di consacrarti totalmente a Gesù?

Devo dire che vivendo e approfondendo il mio cammino di fede, sentivo crescere dentro di me il desiderio di farmi suora e di donarmi totalmente al Signore. Avevo paura a manifestare questi miei sentimenti perché pensavo che il colore della mia pelle fosse un ostacolo insormontabile.

E invece?

Quando manifestai questa mia intenzione, fui accolta a braccia aperte dalle care sorelle dell’Istituto Figlie della Carità fondato da Maddalena di Canossa per aiutare i bambini più poveri e analfabeti a elevarsi culturalmente e spiritualmente mediante l’istruzione scolastica. Dopo tre anni di noviziato, l’8 dicembre 1896 pronunciavo i voti religiosi di povertà, castità e obbedienza. L’allora patriarca di Venezia, il Cardinale Giuseppe Sarto, il futuro Pio X, dopo avermi esaminata e interrogata lungamente, mi incoraggiò nella mia vocazione e mi disse: «Gesù vi vuole. Gesù vi ama; voi amatelo e servitelo sempre così». Dopo i voti venni mandata nella comunità di Schio, Vicenza, dove rimasi per quarantacinque anni e lì svolsi qualsiasi lavoro mi veniva richiesto: lavoravo in cucina, lavavo la biancheria, accudivo la portineria, imparai anche a ricamare.

Dì la verità: ti guadagnasti la stima di tutti per la tua bontà, la tua dolcezza di carattere e la cordialità con la quale accoglievi i poveri e soprattutto i bambini che frequentavano le scuole del vostro Istituto.

I bambini mi chiamavano la «madre moretta», a loro raccontavo tante fiabe della mia terra. La mia storia, il fatto che ero stata venduta come schiava ed ero approdata alla vita religiosa, si sparse in un baleno dappertutto e venni invitata in diverse città italiane a dare testimonianza della mia vita, della mia conversione e della mia vocazione.

Immagino che fu abbastanza pesante questo continuo andare su e giù per l’Italia. A chi veniva ad ascoltarti cosa dicevi?

Un messaggio molto semplice: «Siate buoni, amate il Signore, pregate per quelli che non lo conoscono. Sapeste che grande grazia è conoscere Dio». Con quella consapevolezza che si accresceva di giorno in giorno, io stessa avrei voluto tornare tra la mia gente per far conoscere a tutti il grande amore che Dio ha per noi.

Bakitha rimase in Italia fino alla sua scomparsa. Nel 1943, con la sua comunità, pur nei difficili anni della seconda guerra mondiale, festeggiò i cinquant’anni di vita religiosa. Col passare degli anni, un’artrite deformante e una bronchite asmatica riempirono la sua esistenza di dolori fisici. Pur nella malattia, negli ultimi anni della sua vita, non si lamentava mai; a chi le chiedeva come stava, rispondeva in dialetto veneto: «Come vol el Paròn». Questa frase non esprimeva rassegnazione, era espressione genuina della sua testimonianza di fede, bontà e speranza cristiana. Si spense l’8 febbraio 1947. La sua comunità religiosa e la gente di Schio si strinsero attorno a lei per un ultimo atto di venerazione. Tutti volevano vedere la «madre moretta» prima della sepoltura. La fama della sua santità si diffuse rapidamente a macchia d’olio, dando vita a una devozione popolare e sincera, sia in Italia che in Africa. Giovanni Paolo II l’ha iscritta nell’albo dei santi il 1° ottobre del 2000.

Mario Bandera




Cirillo e Metodio apostoli degli Slavi

Cirillo
e Metodio, fratelli greci, nativi di Tessalonica, fin dall’inizio della loro
vocazione, entrarono in stretti rapporti culturali e spirituali con la Chiesa
di Costantinopoli. Entrambi scelsero la vita religiosa al servizio della
missione. Su richiesta del principe di Moravia, Roscislaw, all’Imperatore e al
Patriarca di Costantinopoli, furono inviati a evangelizzare i popoli slavi che
abitavano la penisola balcanica e le terre percorse dal Danubio. Per rispondere
al loro impegno missionario tra gli slavi inventarono un nuovo alfabeto e
tradussero nella lingua locale brani del Vangelo e libri a scopo liturgico e
catechetico, gettando così le basi di tutta la letteratura nelle lingue di quei
popoli. Giovanni Paolo II, nel 1980, con la lettera apostolica Egregiae virtutis, li ha proclamati
compatroni d’Europa associandoli così a san Benedetto da Norcia, per la loro
gigantesca opera culturale ed evangelizzatrice, svolta in condizioni molto
difficili in un secolo piuttosto oscuro. Essi sono considerati patroni di tutti
i popoli slavi.

Di fronte a due giganti della
missione come voi, uno si sente piccolo piccolo; anzi, di fronte al vostro
impegno missionario, qualunque cosa pensiamo di aver fatto sembra veramente
poca cosa.

Cirillo
e Metodio:
Siamo noi a sentirci imbarazzati, perché
sembra che chissà quali grandi opere abbiamo compiuto. In realtà, tutto ciò che
abbiamo fatto è opera della Spirito Santo che, attraverso di noi e dei nostri
discepoli, ha operato meraviglie in quei popoli che vivevano alla periferia
dell’impero bizantino.

Voi siete di origine e cultura
greca, parlateci un po’ della vostra famiglia.

Cirillo
e Metodio:
Siamo nati e cresciuti a Tessalonica
(l’attuale Salonicco) in una famiglia della nobiltà bizantina. Nostro padre era
comandante di una squadra navale della flotta dell’impero bizantino. Nella
nostra numerosa famiglia (eravamo 11 tra fratelli e sorelle) si è sempre
vissuto un forte anelito culturale, unito alla solida spiritualità che i nostri
genitori ci hanno trasmesso.

Come tutti i fratelli, immagino
che i vostri caratteri non fossero proprio uguali, o sbaglio?

Metodio:
Io presi il carattere di mio padre e anche le sue doti. Come figlio di un
ammiraglio dell’impero bizantino, anch’io ero piuttosto avveduto nelle scelte
che si dovevano fare e avevo una ferrea volontà nel portare avanti i compiti
che mi venivano assegnati. Per queste mie caratteristiche mi venne affidato per
un periodo di tempo il governo di una colonia slava in Macedonia.

Cirillo:
Alla inconcludente vita politica di Costantinopoli (non per nulla i
ragionamenti arzigogolati si chiamano «bizantinismi») preferivo la quiete dello
studio e le tranquille giornate a corte, dove fui per qualche tempo anche
paggio dell’imperatore. Ultimati gli studi alla scuola di Fozio, detto «il
Grande», intrapresi la carriera d’insegnante.

Uno amministratore, l’altro
professore di scuola, in realtà la vostra carriera non si è sviluppata secondo
le linee che tutti si aspettavano da voi in famiglia.

Cirillo
e Metodio
: Infatti ambedue, avvertendo dentro di noi
la chiamata al sacerdozio, ci mettemmo a disposizione per l’attività
missionaria.

Si può dire che la vostra
vocazione sia legata alla vostra città di origine e all’ambiente in cui siete
vissuti?

Metodio:
Certamente. Il fatto di crescere in un ambiente profondamente segnato dalla
fede in Cristo in una città come Tessalonica, dove erano presenti diverse
comunità con lingue e culture differenti, ci portava a pensare di annunciare il
Vangelo a gente che non apparteneva alla cultura greca e che parlava una lingua
diversa.

Cirillo:
In realtà fui battezzato col nome di Costantino e quando mi trasferii,
nell’842, a Costantinopoli per perfezionarmi negli studi di teologia e
filosofia, nella mia sete di cultura approfondii studi di astronomia,
geometria, retorica e musica. Per un certo periodo feci un’esperienza di vita
monacale, dove mi cambiarono il nome, imponendomi quello di Cirillo (che vuol
dire «consacrato al Signore») con cui sono conosciuto nella Chiesa e da cui
prende nome addirittura l’alfabeto che ho inventato, il Cirillico.

In un contesto linguistico così articolato
e variegato, penso che per voi non sia stato difficile imparare nuove lingue.

Metodio:
Certamente vivendo in una città multiculturale, oltre al greco e al latino, si
imparavano frasi delle diverse lingue delle comunità che vivevano a Tessalonica.
Ognuno sapeva più o meno qualcosa della lingua dell’altro.

Cirillo:
Oltre al greco e al latino, parlavo correttamente siriaco, arabo, ebraico e
alcuni dialetti slavi che risuonavano nella nostra città. Questo ci aiutò molto
quando iniziammo la nostra missione con gente che parlava lingue diverse.

Così completati gli studi e
ordinati preti, eravate pronti per iniziare la vostra meravigliosa avventura
missionaria tra i nuovi popoli.

Cirillo
e Metodio:
La prima missione evangelizzatrice fu in
Pannonia (l’attuale Ungheria, con la sua magnifica puszta [steppa], ai
nostri tempi molto più estesa di quanto potete immaginare). Mentre, nell’anno
862, il re Roscislaw della Grande Moravia chiese all’imperatore di Bisanzio
l’invio di missionari per rafforzare l’autonomia del proprio stato,
sottraendolo così alla dipendenza dal clero germanico, che corrispondeva di
fatto a una dipendenza politica e culturale dallo stato Franco. Fu in questa
occasione che si dispiegò completamente la nostra missione fra i popoli slavi.

Quale fu la più grande difficoltà
incontrata?

Cirillo
e Metodio:
Sicuramente la lingua, pur parlando diversi
idiomi non riuscivamo a intenderci con i nativi, perché quei popoli, avendo una
coltura prevalentemente orale non conoscevano la scrittura. Ovviamente c’erano
alcuni che sapevano leggere il greco e il latino, ma mai la lingua locale era
stata fissata nella scrittura.

Perché inventaste un alfabeto del
tutto nuovo?

Cirillo
e Metodio:
Per andare incontro alla sensibilità delle
popolazioni che si aprivano al Vangelo. Creammo una scrittura basata sul
dialetto slavo meridionale parlato nei dintorni di Salonicco. Questo alfabeto
(gli studiosi lo classificano come glagolitico antico) venne usato per la prima
volta in Moravia verso la fine del IX secolo, e vedendo che esso attecchiva con
sorprendente rapidità – perché evitava i caratteri latini, sottraendo questi
popoli all’influenza dei Franchi, popoli del Nord Europa che erano già venuti a
contatto con la grande cultura dell’impero romano, e lasciava da parte
l’alfabeto greco, egemonico nell’impero bizantino – decidemmo di applicarlo in
altre zone toccate dalla nostra azione missionaria.

Voi eravate stati inviati a
evangelizzare come esponenti della Chiesa di Costantinopoli, ma a Roma come si
seguiva il vostro lavoro?

Cirillo
e Metodio:
Noi svolgemmo il nostro impegno missionario
in unione sia con la Chiesa di Costantinopoli, dalla quale eravamo stati
mandati, sia con la Sede Romana di Pietro, dalla quale fummo confermati nella
originalità della nostra azione, in questo modo si manifestava visibilmente
l’unità della Chiesa, che durante il periodo della nostra vita e della nostra
attività, non era ancora stata colpita dalla sciagura della divisione tra
l’Oriente e l’Occidente.

Se non sbaglio veniste anche in
Italia?

Cirillo
e Metodio:
A Roma fummo accolti con onore dal papa
Adriano II e dalla Chiesa romana; ci diedero l’approvazione e l’appoggio per
tutta la nostra opera apostolica e anche il permesso di celebrare la liturgia
nella lingua slava, cosa non ben vista in certi ambienti «tradizionalisti». C’è
sempre qualcuno che pensa solo a criticare! La storia dell’umanità come della
Chiesa è piena di «ottusi», ai nostri tempi come ai vostri!

Pensate che oggi ci sia bisogno di
missionari, non dico capaci di inventare alfabeti nuovi, ma che sappiano
inculturarsi sempre di più tra i diversi popoli, come avete saputo fare voi con
i popoli slavi?

Cirillo
e Metodio:
Certamente. La missione evangelizzatrice
della Chiesa ha bisogno di gente decisa, che non arretri di fronte a nessuna
difficoltà, pronta a scegliere strade sempre più innovative per conquistare i
popoli a Cristo. In fondo la Missio ad gentes sarà sempre un compito
specifico dei discepoli di Cristo; guai a voi se vi limitate a chiudervi in
recinti più o meno sacri.

Cirillo
concluse a Roma la sua vita il 14 febbraio 869 e fu sepolto nella Chiesa di san
Clemente, mentre Metodio fu consacrato arcivescovo dell’antica sede di Sirmio e
fu rimandato dal Papa in Moravia per continuarvi la sua provvidenziale opera
apostolica, proseguita con zelo e coraggio insieme ai suoi discepoli e in mezzo
al suo popolo sino al termine della sua vita (6 aprile 885). Dopo la loro morte
i loro discepoli vennero osteggiati con ogni mezzo da più parti, specialmente
in ambito ecclesiale, per la tenacia con cui portavano avanti la loro opera di
evangelizzazione e la loro azione liturgica e culturale con l’uso del loro
alfabeto, da tutti ormai chiamato «cirillico» in onore di chi lo aveva ideato.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

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Mario Bandera