I Perdenti 22. Madeleine Delbrêl


Madeleine Delbrêl, nasce il 24 ottobre 1904 a Mussidan, un piccolo comune dell’Aquitania francese, da una famiglia cattolica ma dalla pratica molto tiepida. A 15 anni, da acerba adolescente, si dichiara «strettamente atea», mentre a 17 anni sintetizza il suo pensiero sull’ateismo proclamando che «Dio è morto!». Verso i vent’anni l’incontro con alcuni giovani cattolici dalla fede cristallina la costringe a rivedere le sue sicurezze ideologiche, inizia così il suo cammino di conversione. La sua radicale inversione di marcia si può dire che è il frutto dell’inserimento e frequentazione amichevole in questo gruppo di coetanei credenti con i quali comincia a confrontarsi e, in particolare, con un certo Jean Maydieu, verso cui Madeleine prova una grande simpatia. Un bel giorno però Jean, seguendo il richiamo di una vocazione particolare, decide di entrare nell’Ordine dei Domenicani e di avviarsi verso il sacerdozio. La ribelle, anticonformista ed emancipata ragazza si trova così spiazzata. Si getta allora in un’appassionata e instancabile ricerca di quel Dio che è entrato così prepotentemente nella sua vita.

Da quel giorno si dà anima e corpo alla preghiera, coltiva sempre più il desiderio di scoprire e approfondire il messaggio evangelico, nel frattempo diventa un’efficiente capo scout e, insieme all’amore per la natura, ritrova la passione per la vita semplice e la solidarietà verso gli indifesi. Si diploma assistente sociale e nel 1933 si trasferisce con alcune compagne a Ivry-sur-Seine, quartiere dell’estrema periferia di Parigi, crogiuolo di tensioni e di lotte operaie, di scontri sociali e ideologici, lì vi resterà fino alla morte dando un’esemplare testimonianza di vita evangelica, non smettendo mai di ricercare il volto di Dio negli ambienti e fra le persone considerate dai benpensanti parigini «lontani dalla Chiesa» o peggio ancora «irrecuperabili alla fede».

Cara Madeleine, basta un semplice sguardo alla tua biografia e subito ci si rende conto che hai vissuto un’esperienza straordinaria, per quanto riguarda il cammino spirituale della tua vita.

Se ti rispondo dicendo che durante la mia adolescenza mi dichiaravo atea e pessimista, affermando che «Il mondo è un assurdo e di conseguenza la vita è un non senso», capirai che razza di «guazzabuglio» avevo per la testa.

Ma questo modo di pensare subì un drastico cambiamento durante la tua giovinezza.

Verso i venti anni incontrai alcuni giovani cattolici «ai quali Dio pareva essere indispensabile come l’aria che respiravano». Questo mi obbligò a pensare e a mettermi in discussione. Se fino a poco tempo prima guardavo il mondo convinta che tutto dimostrasse la non esistenza di Dio, accettai l’ipotesi della sua possibile esistenza e decisi di iniziare un cammino del tutto nuovo per me. Per questo feci la scelta di dedicare tempo alla preghiera, perché ero convinta che quello fosse l’unico atteggiamento possibile e onesto per verificare l’esistenza di Dio. Con mia grande sorpresa attraverso la mia incerta e debole preghiera rimasi «abbagliata» da Dio.

Un ruolo molto importante in questa faccenda lo giocò un tuo amico, o sbaglio?

Proprio così, Jean Maydieu, un amico che mi era molto caro e che esercitava un forte fascino su di me e che un bel giorno decise di entrare nell’Ordine dei Domenicani per diventare sacerdote.

E tu come prendesti la sua decisione?

Da ragazza ribelle e anticonformista quale ero, con la stessa foga con cui anni prima avevo fatto aperta professione di ateismo, mi tuffai in un’appassionata e instancabile riscoperta di quel Dio che aveva folgorato i miei 20 anni, sconvolgendo in maniera così impetuosa la mia vita, facendomi intravedere un cammino nuovo da intraprendere, così come aveva indicato al «mio» Jean, la strada che doveva percorrere.

In questa situazione del tutto nuova quale orientamento pensavi di prendere?

Inizialmente pensai di entrare nel Carmelo, diventando suora di clausura. Però in seguito di problemi famigliari e grazie all’aiuto del mio padre spirituale, decisi che la mia strada doveva essere un’altra. Sentivo crescere in me una vocazione speciale: il mondo sarebbe stato il mio monastero.

In un’epoca in cui l’unica strada per la consacrazione di una ragazza era all’interno di un’istituzione religiosa, la tua scelta apparve di non facile comprensione anche per la comunità cristiana.

Come spesso succede in questi frangenti, all’inizio del nostro cammino non fummo, le mie compagne e io, subito capite sulla testimonianza che volevamo offrire alla Chiesa francese. Così, confidando nel Signore, nel 1933 partii per Ivry, sobborgo parigino operaio e marxista, assieme a un gruppo di ragazze che nel frattempo erano rimaste conquistate dall’ideale di condividere la vita dei poveri, vivendo in comunità e mettendo tutto in comune, per dare testimonianza del Vangelo in un contesto sociale di povertà e sfruttamento.

Una scelta coraggiosa specialmente per delle ragazze, non c’è che dire!

In quegli anni Ivry era la capitale del partito comunista francese, una città tappezzata da manifesti di propaganda sovietica, in cui ci si salutava con il pugno alzato e dove i bambini del quartiere prendevano a sassate i preti che incrociavano. Era una città divisa in due: da una parte un pugno di cattolici, soprattutto anziani e benestanti, e dall’altra una moltitudine di militanti comunisti, poveri e lontani dalla Chiesa. Tra queste due parti l’ostilità era fortissima, in ambito cattolico si discuteva molto su quale dovesse essere il rapporto fra cristiani e marxisti.

Come fu il vostro inserimento?

Decidemmo di risolvere la questione della convivenza in base a un principio molto semplice, considerando che Dio non aveva mai detto: «Amerai il prossimo tuo come te stesso eccetto i comunisti». Con le mie compagne, spinte dal Vangelo, andammo in mezzo alla gente, aprendoci e parlando con tutti, rispettando ogni persona che incontravamo sul nostro cammino, soprattutto i più poveri ed emarginati.

La vostra testimonianza incentrata sulla presenza in mezzo a coloro che occupavano il gradino più basso della società francese non tardò a conquistare anche i «bolscevici» più incalliti, o no?

La nostra casa in breve tempo divenne un porto di mare, la nostra porta era sempre aperta per ogni tipo di incontro, per ogni forma di dialogo, dando aiuto e sostegno a chiunque. La nostra scelta di vivere «gomito a gomito» con la gente del quartiere, era contrassegnata allo stesso tempo da quella di tuffarsi in Dio con la stessa forza con cui ci si immerge nel mondo.

Un ideale che continua ancora oggi…

Grazie al Cielo, il nostro lavoro fra la gente non si è esaurito con la nostra attività, è presente in diverse nazioni e non mostra segni di cedimento.


Madeleine Delbrêl muore a 60 anni, il 13 ottobre 1964 a Ivry-sur-Seine, lasciando una gran quantità di scritti, poesie e testi sul suo tavolo di lavoro. Tali scritti stampati in migliaia di copie, hanno accompagnato la ricerca spirituale di intere generazioni. Il cardinal Carlo Maria Martini l’ha definita «una delle più grandi mistiche del XX secolo».

Il carisma di Madeleine Delbrêl è ancora presente a Parigi e Amiens attraverso l’opera silenziosa di un gruppo di donne consacrate che ne hanno preso il testimone. Un comitato di «Amici di Madeleine Delbrêl» oggi raccoglie un gruppo di oltre 500 persone nella sola Francia, in altri paesi continua a crescere e diffondersi la sua originale spiritualità così strettamente legata al mondo del lavoro. Il 12 maggio 1993, è stato concesso dalla Santa Sede il nulla osta per la causa di beatificazione; i vescovi di Francia, nel 2004, celebrando il centenario della nascita, affiancando la sua figura a quella di Santa Teresa di Lisieux, hanno definito la Serva di Dio Madeleine Delbrêl «Faro di luce per avventurarci nel terzo millennio».

Don Mario Bandera


Tu vivevi, io non ne sapevo niente

Tu vivevi, io non ne sapevo niente.
Avevi fatto il mio cuore a tua misura,
la mia vita per durare quanto Te,
ma poiché Tu non eri presente,
il mondo intero mi pareva piccolo e stupido
e il destino degli uomini insulso e cattivo.

Quando ho saputo che Tu vivevi,
Ti ho ringraziato di avermi fatto vivere,
Ti ho ringraziato per la vita del mondo intero.

(A ricordo dell’«abbagliante incontro con Dio» avvenuto il 29 marzo 1924, quando aveva vent’anni).

L’estasi delle tue volontà

Quando quelli che amiamo ci chiedono qualcosa,
noi li ringraziamo di avercelo chiesto. | Se a te piacesse, Signore, chiederci una sola cosa | in tutta la nostra vita, | noi ne rimarremmo meravigliati | e l’aver compiuto questa sola volta la tua volontà | sarebbe «l’avvenimento» del nostro destino.

Ma poiché ogni giorno ogni ora ogni minuto | tu metti nelle nostre mani tanto onore,| noi lo troviamo così naturale da esserne stanchi, | da esserne annoiati.
Tuttavia, se comprendessimo | quanto inscrutabile è il tuo mistero, | noi rimarremmo stupefatti |di poter captare queste scintille del tuo volere |che sono i nostri microscopici doveri.
Noi saremmo abbagliati nel conoscere, |in questa tenebra immensa che ci avvolge, | le innumerevoli | precise | personali | luci della tua volontà.
Il giorno che noi comprendessimo questo, andremmo nella vita | come profeti, | come veggenti delle tue piccole provvidenze, | come mediatori dei tuoi interventi.

Nulla sarebbe mediocre, perché tutto sarebbe voluto da te. | Nulla sarebbe troppo pesante, perché tutto avrebbe radice in te. | Nulla sarebbe triste, perché tutto sarebbe voluto da te. | Nulla sarebbe tedioso, perché tutto sarebbe amore di te.
Noi siamo tutti predestinati all’estasi, | tutti chiamati a uscire dai nostri poveri programmi | per approdare, di ora in ora, ai tuoi piani.
Noi non siamo mai dei miserabili lasciati a far numero, | ma dei felici eletti, | chiamati a sapere ciò che vuoi fare, | chiamati a sapere ciò che attendi, istante per istante, da noi.
Persone che ti sono un poco necessarie | persone i cui gesti ti mancherebbero, | se rifiutassero di farli.

Il gomitolo di cotone da rammendare, la lettera da scrivere, | il bambino da alzare, il marito da rasserenare, | la porta da aprire, il microfono da staccare, | l’emicrania da sopportare: | altrettanti trampolini per l’estasi, | altrettanti ponti per passare dalla nostra povertà, | dalla nostra cattiva volontà | alla riva serena del tuo beneplacito.

Madeleine Delbrêl




Perdenti 21: Tupac Amaru


Túpac Amaru (Cuzco, Perù, 1741 – 1781) era il pronipote di Juana Pilco-Huaco, figlia dell’ultimo sovrano inca, Túpac Amaru I, che era stato condannato a morte dagli spagnoli due secoli prima (1572). La sua formazione culturale e spirituale avvenne nel collegio dei gesuiti della sua città. Finiti gli studi, si mise in affari avviando un’attività redditizia di trasporto di prodotti minerari dall’interno del Perù ai porti. Il prestigio acquisito come apprezzato uomo d’affari e l’autorevolezza che aveva presso la sua comunità lo posero alla testa della ribellione che indios e meticci fecero scoppiare contro gli spagnoli per i tributi e le prestazioni obbligatorie di lavoro che l’autorità coloniale iberica imponeva. Egli, presentandosi come restauratore e legittimo erede della dinastia inca, mandò uomini fidati per tutto il territorio del Perù affinché si alimentasse la ribellione contro le autorità coloniali spagnole, mai però mise in discussione la lealtà alla corona di Spagna.

Caro Túpac, la conoscenza del tuo paese e della tua figura spesso si ferma ai «cliché». Ci puoi aiutare a superarli?

Sono ben felice di venire incontro a questa esigenza. Mi preme far conoscere la nostra storia.

Tu appartieni al secolo XVIII che ha visto consolidarsi, in quella che noi chiamiamo America Latina, il potere di Spagna e Portogallo.

Sì. Dopo due secoli di amministrazione iberica, pur appartenendo al glorioso popolo inca, anche io mi sentivo un leale suddito di Carlo III, Re di Spagna, monarca assoluto.

Gli spagnoli a Cuzco, nella tua città, attraverso l’azione culturale dei gesuiti, crearono delle ottime scuole per la formazione dei figli della nobiltà inca.

Anche questo corrisponde a verità. Io, così come molti altri giovani, frequentai i corsi accademici che i gesuiti tenevano nelle loro scuole aprendo i miei orizzonti sia culturali che spirituali.

Allo stesso tempo però mantenevi tutti i compiti a cui eri preposto per il culto e avevi la responsabilità di vegliare sui riti e sulle reliquie del tuo popolo.

Come membro di una delle famiglie inca più influenti ero incaricato dei riti tradizionali per onorare i defunti della nostra gente. Era mio fratello maggiore che usava tutta la sua abilità per contenere sul piano diplomatico le mire e le pretese che gli spagnoli avevano sulla nostra terra.

Ma l’opera di contenimento degli spagnoli non dava frutti.

Gradualmente prendevamo coscienza che era impossibile raggiungere accordi con i coloni spagnoli: a loro interessava solo trovare oro e argento da portare in Spagna. Per questo i nostri risentimenti nei confronti degli invasori crescevano, e con essi gli scontri. Ebbe origine una guerriglia costante tendente a sfiancare le truppe spagnole, sebbene noi fossimo armati solo di lance e frecce, mentre loro di archibugi.

La vostra era una situazione in continua ebollizione.

Pattuglie a cavallo, con la scusa di stanare coloro che non volevano convertirsi, si muovevano in tutto il nostro territorio cercando il fantomatico tesoro del Perù, ovviamente senza successo, e questo li rendeva ancora più rabbiosi.

Essendo tu parte della nobiltà nella società inca eri una preda piuttosto ambita da parte dei conquistadores.

Infatti cercai di fuggire per non farmi trovare, ma siccome mia moglie era incinta, volendo stare accanto a lei che stava per partorire, gli spagnoli ci raggiunsero. Fui fatto prigioniero, condotto a Cuzco e mi fu richiesto di abbracciare la fede cristiana.

Ma mica potevano obbligarti a convertirti?

Misero insieme le menti più brillanti del clero spagnolo presente in Perù in quegli anni e permisero loro di colloquiare con me quando volevano, anche tutti i giorni. Il loro sforzo ebbe successo e alla fine mi feci battezzare assumendo il nome di Pedro.

Nel frattempo in Europa si era avviata una disputa teologica e all’università di Salamanca a larghissima maggioranza fu affermato che anche gli indios avevano un’anima.

Proprio per questo è incredibile costatare che, mentre in Spagna veniva affermata la nostra dignità di uomini in quanto figli dello stesso Padre, a casa nostra eravamo calpestati e derisi in quanto ritenuti solo schiavi da sfruttare.

Conscio delle tue responsabilità, a un certo punto riuscisti a eludere la sorveglianza degli spagnoli e a metterti a capo di una massa di Incas che intendeva ripristinare l’antico regno.

Dopo alcune scaramucce in cui avemmo la meglio, gli spagnoli, forti di un contingente di 17mila uomini, ci sconfissero nella battaglia di Checacupe, il 6 aprile 1781, in cui io venni fatto prigioniero.

Gli spagnoli volevano risolvere il problema del regno inca eliminando tutta la classe dirigente.

Io e i miei compagni fummo condannati a morte. Molti ecclesiastici sollecitarono una misura di clemenza nei nostri confronti, ma fu inutile: il viceré di Spagna fu implacabile e, senza neppure lo straccio di un processo, decretò la condanna a morte per tutti noi. Il supplizio, nelle loro intenzioni, doveva essere esemplare per dare una lezione a coloro che non intendevano arrendersi.


Il 18 maggio 1781 Túpac Amaru venne giustiziato sulla piazza centrale di Cuzco. Affinché più nessuno osasse ribellarsi ai conquistadores, l’esecuzione fu una delle più terrificanti che si possano immaginare. Il corpo di Túpac Amaru, legato mani e piedi a quattro cavalli, indirizzati verso i quattro punti cardinali, venne squartato orribilmente. Ai cavalli, per farli correre il più lontano possibile con i resti del condannato, erano state conficcate delle spine di rovi nella pelle. Ma tanta ferocia non sortì l’effetto sperato, anzi creò la leggenda di un suddito del Nuovo Mondo leale e fedele alla corona di Spagna che si ribellò alle angherie dei conquistadores prendendo le difese della sua gente vilipesa e angariata. Gli ideali di giustizia e libertà a cui Túpac Amaru ispirò tutta la sua vita, alimentarono lungo i secoli in America Latina altri combattenti per la liberà che ne assunsero anche il nome. Basti pensare al Movimento di Liberazione Tupamaros, che in anni più vicini a noi in Uruguay, ribellandosi alla dittatura militare che con un colpo di stato aveva preso il potere nel piccolo paese affacciato sul Rio de la Plata, vollero definirsi appunto Tupamaros in omaggio al leader del passato morto combattendo per la dignità e la libertà del suo popolo.

Don Mario Bandera




Etty Hillesum la forza dentro


Etty Hillesum nasce ad Amsterdam, in Olanda, nel 1914 da una famiglia della buona borghesia ebraica. Ragazza vivace, brillante, fin dagli studi giovanili rivela un’intensa passione per la letteratura e la filosofia.

Dopo la laurea in giurisprudenza si iscrive alla facoltà di lingue slave e intraprende lo studio della psicologia. Gli anni in cui frequenta l’università sono quelli in cui divampa la seconda guerra mondiale e con essa la persecuzione del popolo ebraico. Negli ultimi anni della sua esistenza scrive un diario personale, undici quadei fittamente ricoperti da una scrittura minuta, quasi indecifrabile, che narrano gli eventi degli anni 1941 e 1942, anni di guerra e di oppressione, non solo per l’Olanda, ma per l’Europa intera, per Etty un periodo di crescita e paradossalmente di liberazione individuale. Proveniente da una famiglia in cui le relazioni tra i suoi membri erano segnate da diverse incomprensioni, Etty vive un’amara adolescenza con degli sfibranti malesseri fisici, ma non tarda molto a scoprire che essi sono legati a tensioni di ordine spirituale che la lasciano: «Lacerata interiormente e mortalmente infelice».

In quel periodo ha un incontro decisivo con uno psicologo ebreo, Julius Spier, di molti anni più anziano di lei, che nei suoi confronti si rivela ben più di un terapeuta. Attraverso le contraddizioni di una relazione particolarmente complessa, per certi versi anche ambigua, egli la guida in un percorso di realizzazione umana e spirituale.

Etty, prova a raccontarci come si sviluppò la tua storia di ebrea olandese che i tedeschi deportarono nei campi di sterminio.

Dopo aver invaso la Polonia nel settembre 1939, le armate di Hitler irruppero in Olanda il 10 maggio 1940. Da piccola nazione libera e indipendente quale eravamo, diventammo un piccolo satellite nell’orbita nazista.

In un primo tempo la comunità ebraica non pensò che le cose sarebbero volte al peggio come invece avvenne pochi mesi dopo.

Assolutamente no, nonostante con il passare dei mesi venisse rapidamente portata a compimento l’attuazione delle leggi di Norimberga che vietavano agli ebrei, tra le altre cose, di usare trasporti pubblici, telefonare, sposarsi con persone non ebree.

Ma i nazisti non si limitarono a quelle misure.

Nel 1939 venne creato il campo di Westerbork, dove il governo olandese, in accordo con la principale organizzazione ebraica presente in Olanda, decise di riunire i rifugiati ebrei, tedeschi o apolidi, che vivevano nei Paesi Bassi.

Nonostante il cataclisma che stava abbattendosi sull’Europa tu trovasti il modo di non perdere la testa e di mantenerti serena.

Fu il 3 febbraio 1941 che avvenne l’incontro più importante della mia vita, l’incontro con lo psicologo Julius Spier, allievo di Carl Gustav Jung, inventore della psicochirologia, la scienza che studia la psicologia di una persona partendo dall’analisi delle mani.

Che tipo era Julius Spier?

Ebreo tedesco, fuggito da Berlino nel 1939, Spier tenne ad Amsterdam dei corsi serali particolarmente apprezzati e molto frequentati. Nel frattempo, a causa della mancanza di personale tedesco, era giunta un’informativa che permetteva a dei prigionieri di svolgere un lavoro di segreteria. Un giovane studente di biochimica che frequentava i suoi corsi propose a Spier di assumermi come segretaria.

Il vostro incontro fu folgorante e tu decidesti subito di prendere un appuntamento privato per cominciare una terapia.

Subito fin dall’inizio diventai la prima segretaria di Spier e successivamente una sua allieva. Il problema fu che tra noi scoppiò un’attrazione reciproca molto forte, nonostante la notevole differenza di età, 54 anni lui e 27 io. Ma la complicazione peggiore stava nel fatto che entrambi eravamo già impegnati in altre relazioni.

Anche se lavoravi da lui non ti fermavi a dormire per la notte?

No, tornavo al campo dove, attraverso una radio clandestina che i prigionieri avevano costruito, appresi la notizia che i tedeschi si preparavano ad annientare totalmente tutti gli ebrei dal continente europeo.

Nello stesso periodo il campo di Westerbork passò sotto comando tedesco diventando così un «campo di transito di pubblica sicurezza».

I tedeschi volevano fare di quel campo un luogo di raccolta e di smistamento per gli ebrei prigionieri diretti ad Auschwitz. Fu necessario trovare qualcuno che mandasse avanti l’organizzazione a livello amministrativo-burocratico.

Quindi anche per te fu dilatato il tuo campo di azione?

È vero, a Westerbork godevo di una certa libertà e questo mi permise di mantenere contatti con l’esterno e di scrivere delle lettere che si diffusero ovunque in Olanda. Il 15 settembre 1942 Julius Spier morì per un tumore al polmone e, cosa abbastanza strana, le autorità tedesche mi diedero il permesso di andare ad Amsterdam per partecipare al suo funerale.

La relazione con Julius Spier è alla base della tua sensibilità religiosa e, attraverso i tuoi scritti, intuiamo che c’era tra voi una grande tensione spirituale.

Pur proveniente da una famiglia ebraica, io ero per nulla osservante delle leggi della Sinagoga. L’incontro con Julius fu per me come uno squarcio di sereno in una giornata carica di nubi e di dubbi. Con lui posso dire di essermi aperta alla trascendenza e al divino. Mi insegnò a pregare e finalmente riuscii a raccogliermi e a concentrarmi su me stessa. Imparai a ritirarmi nella mia cella personale della preghiera, che diventava ogni giorno una realtà sempre più grande.

Anche la situazione che stavi vivendo imparasti a vederla con occhi diversi?

I nazisti potevano renderci la vita più dura, privarci della nostra libertà di movimento, ma io mi rendevo conto che eravamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori, con un atteggiamento del tutto sbagliato, col sentirci perseguitati, umiliati ed oppressi, col nostro odio e con la millanteria che mascherava la paura.

In un certo senso si può dire che anche attraverso le situazioni più drammatiche possiamo mantenere la nostra dignità, nessuno ce la può portare via.

Se ho imparato qualcosa dalla mia terribile esperienza è che quel Dio che vive in noi soffre con noi. Egli non può fare molto per modificare le circostanze in cui mi trovo, ma io sono sicura che a ogni battito del nostro cuore tocca a noi aiutare Lui, difendere fino all’ultimo la Sua Casa che è in noi. Non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle braccia di Dio.

Anche se non vedevi all’orizzonte la fine dei tuoi tormenti, la scoperta di Dio dentro di te ti spinse a vivere per aiutare altre persone a preparare tempi nuovi.

Ero sicura che i «tempi nuovi» sarebbero venuti e sentivo che stavano crescendo in me con una forza irresistibile ogni giorno di più. Alla sera tardi, quando il giorno si era inabissato dentro di me, mi capitava spesso di camminare lungo il filo spinato e di sentire che dal mio cuore si innalzava una voce, anzi una forza elementare che diceva che la vita è una cosa splendida e grande. Per questo abbiamo il dovere, nonostante tutto, di costruire un mondo completamente nuovo.

Anche quando capisti che Hitler e i suoi sgherri nazisti volevano lo sterminio del tuo popolo.

Per ogni crimine od orrore che si consuma sulla Terra dovremmo essere capaci di opporre un nuovo pezzettino di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire, ma non dobbiamo soccombere. E se sapremo sopravvivere intatti a questo tempo, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita.

Etty, la tua testimonianza lascia un messaggio sconvolgente e allo stesso tempo meraviglioso.

Sul mio diario scrissi così: «Se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, quel pezzettino di eternità che ci portiamo dentro ci spalancherà un orizzonte nuovo. Sono una persona felice, nonostante la detenzione, lodo questa vita nell’anno del Signore 1942 e combatto la mia battaglia contro fanatici furiosi e gelidi che vogliono la nostra fine».

Nonostante tutto riesci a dare a tutti un po’ del tuo amore cristallino e sconfinato.

Pur essendo vissuta in un mondo sbagliato, senza dignità, io non odio nessuno, non sono amareggiata perché ho la consapevolezza che, una volta che l’amore per tutti gli uomini comincia a crescere e svilupparsi, in noi questo amore diventa infinito.

Dall’estate del 1943 si moltiplicano i treni carichi di prigionieri che dal campo di raccolta di Westerbork, in Olanda, si dirigono verso Auschwitz. Il 7 settembre 1943 la famiglia Hillesum sale su un convoglio diretto in Polonia. I genitori muoiono di stenti lungo il tragitto, mentre Etty e il fratello Mischa muoiono nel marzo del 1944 entrambi nel campo di sterminio. Il fratello Jaap, deportato nel campo di Bergen Belsen, muore il 27 gennaio 1945 sul treno che evacua i sopravvissuti del campo, da pochi giorni liberato dall’Armata Rossa.

I quadei di Etty con la sua calligrafia minuta vengono da lei affidati a una sua amica che solo nel 1981 riesce a trovare un editore per pubblicarli. Essi diventando immediatamente un grande successo editoriale. La storia di Etty colpisce per la lucidità con la quale questa giovane donna olandese affronta le vicende tragiche del suo tempo opponendo una grande resistenza interiore al male e ricercando con tenacia e fede in Dio tracce di bene anche là dove Egli sembra assente. L’insegnamento che ci lascia è l’unica strada per contrastare l’odio, è un atteggiamento d’amore con cui guardare – nonostante tutto – anche chi ci sta facendo del male.

Don Mario Bandera




Perdenti 19: Jan Palach


FO00101939Il 16 gennaio 1969 Jan Palach, giovane studente della facoltà di filosofia dell’Università di Praga, si diede fuoco nella centralissima Piazza San Venceslao per protestare contro l’occupazione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia che pose fine alla Primavera di Praga di Alexander Dub?ek, ovvero al tentativo di rendere più umano il socialismo imposto dai sovietici dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Un mese dopo, un altro studente, Jan Zajíc, seguì il suo esempio, anche lui in Piazza San Venceslao. Nel mese di aprile a darsi fuoco fu Evel Plocek, nella cittadina di Jihlava. In quei mesi almeno una decina di giovani cecoslovacchi fecero altrettanto. La ferrea censura comunista impedì alla stampa internazionale di accedere ai luoghi ove erano avvenuti i loro sacrifici. Ricordarli significa onorare la memoria di giovani martiri che offrirono la vita per la libertà del loro paese.

Jan, sono in difficoltà con questa intervista perché tu e i tuoi compagni rappresentate un esempio di amore, non solo per la patria, ma per la libertà. Un amore che vi ha spinti a sacrificare la vita per la vostra terra e il vostro popolo.

Nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 entrarono i carri armati sovietici nella capitale del mio paese mettendo fine alla cosiddetta «Primavera di Praga», ovvero al tentativo di Alexander Dub?ek, capo del governo, di avviare una timida, ma innovativa, transizione dal socialismo reale a una forma più partecipativa della gestione pubblica. L’Unione Sovietica, come aveva fatto in precedenza in Ungheria (1956), intervenne a troncare l’esperimento per paura che contagiasse altri paesi satelliti.

Ci puoi spiegare perché hai scelto di sacrificarti in quel modo?

Volevo scuotere la coscienza del mio popolo per spezzare il clima di rassegnazione che imprigionava la gente in una resistenza puramente morale, intima, con il tempo destinata ad assuefarsi e a riassorbirsi nella routine quotidiana e nei suoi compromessi inevitabili.

Il tuo gesto estremo, quindi, è stato dettato dalla situazione stagnante che rischiava di addormentare la coscienza collettiva di un’intera comunità. Il tuo non era un suicidio per disperazione, non era una resa alla dittatura, era piuttosto un’eclatante azione offensiva, non è forse così?

Certamente è così. La gente della Boemia, della Moravia, della Slovacchia, col passare del tempo non sperava più che qualcuno venisse dal di fuori a liberarli dal giogo sovietico, in una certa misura maturava a livello collettivo la presa di coscienza che, per riacquistare la libertà perduta, ci si dovesse in qualche modo ribellare.

Nessuno cercò di dissuaderti?

Un tranviere fu il testimone diretto della mia immolazione: egli mi guardava mentre inzuppavo gli abiti di benzina. Appena accesi il fiammifero e il fuoco divampò verso il cielo, egli si tolse il cappotto e me lo gettò addosso nel tentativo di spegnere le fiamme.

Il tuo può essere considerato il gesto estremo di un soldato che si sacrifica per gli altri esortandoli a battersi fino alle estreme conseguenze, come del resto riconobbe lo stesso presidente Ludvík Svoboda.

L’opinione pubblica, sia quella nazionale che quella internazionale, non vide nel mio gesto un atto disperato, anzi molti lessero quello che io avevo fatto come il tentativo di riportare la mia terra nell’alveo dei paesi democratici. L’aver combattuto contro l’occupazione nazista e l’aver riconquistato e riassaporato la libertà non poteva avere un epilogo così triste come quello di entrare a far parte dei paesi satelliti dell’Urss.

Non fu neppure una rinuncia a quel dono immenso di Dio che è la vita, come riconobbe anche il Vaticano con un articolo apparso sull’Osservatore Romano.

Del resto le piccole nazioni, come sempre avviene, devono sottostare alla logica della real politik delle grandi potenze.

Verissimo! La storia si ripete senza fantasia, nel 1938 le super potenze dell’Occidente avevano abbandonato la Cecoslovacchia alla Germania nazista e, dopo aver lottato contro l’occupazione tedesca, accogliendo con sincera gratitudine l’Armata Rossa che era entrata nella mia terra per liberarla dal giogo nazista, si trovava catapultata dalla padella alla brace.

Eppure la Cecoslovacchia faceva parte di quel mondo culturale mitteleuropeo che aveva saputo dare nei secoli un’impronta originale alla storia del nostro continente.

Con gli accordi di Yalta, nella spartizione del mondo, le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale collocarono la Cecoslovacchia tra i paesi gravitanti nell’orbita dell’Urss. La cortina di ferro, da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico, divideva in due l’Europa.

All’ospedale, mentre ti prestavano le prime cure riservate ai grandi ustionati, trovarono una lettera tutta bruciacchiata, ma abbastanza leggibile, ove erano evidenziati i motivi del tuo gesto, cosa avevi scritto?

Su dei fogli di un quaderno a righe avevo scritto: «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari pronti a immolarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero uno, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni un’altra torcia si infiammerà».

In quel periodo anche parecchi monaci buddisti si erano dati fuoco per protestare contro l’interminabile guerra del Vietnam. Il loro esempio ti ha ispirato?

Sì, è vero, all’interno dell’Università Carlo IV di Praga parecchi miei coetanei non erano rimasti insensibili al loro martirio. Se i monaci buddisti si sacrificavano dandosi fuoco per richiamare l’attenzione del mondo sulla tragedia che il loro paese stava vivendo, in un certo qual modo bisognava che pure qualcuno in Europa si sacrificasse per richiamare l’attenzione su quello che la dittatura sovietica stava facendo al mio paese.

Il tuo sacrificio molti lo accostano al suicidio di Jan Masaryk, figlio del fondatore della Repubblica, trovato morto ai piedi della finestra da cui si era gettato (o era stato scaraventato?).

Purtroppo la storia del mio paese è ricca di tragedie simili, dalle defenestrazioni di Praga contro gli hussiti, a quella del 1618 che scatenò la Guerra dei Trent’anni, a quella dell’epoca modea, messa in atto contro Jan Masaryk nel 1948, alla vigilia del colpo di stato attuato dai comunisti per impadronirsi del potere.

Come te, altri giovani si immolarono per la libertà, ma l’implacabile macchina di occupazione sovietica non si fermò di fronte a queste tragedie.

I sovietici furono molto abili nel presentarsi come normalizzatori dello status quo ricordando al mondo intero che le decisioni prese dai grandi alla conferenza di Yalta non potevano essere messe in discussione. Doveva prevalere la dottrina delle due superpotenze che controllavano le loro rispettive aree mondiali di influenza.

 

I funerali di Jan Palach, nonostante gli impedimenti messi in atto dal regime cecoslovacco e dalle truppe sovietiche, furono una grande manifestazione di dolore per tutto il paese. La salma del giovane studente di Praga fu esposta all’Università Carlo IV, dove per due giorni ininterrottamente convenne una folla sterminata proveniente da tutte le province. La bara fu portata al cimitero, lì il decano della facoltà di filosofia pronunciò un fermo discorso davanti al feretro: «La Cecoslovacchia sarà un paese democratico soltanto quando il sacrificio di un suo figlio non sarà più necessario». Sulla facciata di un teatro, ove passò il corteo funebre, venne scritta a grandi lettere la famosissima frase di Bertold Brecht: «Infelice quel popolo che ha bisogno di eroi». Al funerale partecipò una folla immensa di persone, studenti, operai, il corpo accademico universitario al completo, gente umile e semplice giunta nella capitale per vivere da protagonista – nel ricordo del sacrificio di Jan Palach – una giornata memorabile della storia del loro paese.

Don Mario Bandera




Perdenti 18 don Minzoni martire del fascismo


La sera del 23 agosto 1923 don Giovanni Minzoni, mentre faceva ritorno a casa, fu attaccato da squadristi fascisti e ucciso a bastonate. Aveva trentotto anni. Nato a Ravenna il 29 giugno 1885, cresciuto in una famiglia medio borghese, studiò in seminario e nel 1909 fu ordinato sacerdote. L’anno seguente fu nominato cappellano ad Argenta (provincia di Ferrara ma diocesi di Ravenna), da cui partì nel 1912 per studiare alla Scuola sociale di Bergamo, dove si diplomò. Animato da un profondo amore per la Chiesa e dotato di acuta sensibilità per i problemi sociali, si interessò subito alla vita politica e civile del paese avviando numerose iniziative per i parrocchiani più bisognosi. Le sue opere di carità, unite a un’intensa attività pastorale e sociale, avrebbero fatto di lui un coraggioso leader dell’organizzazione della gioventù cattolica della sua zona. Chiamato alle armi nell’agosto 1916, inizialmente prestò servizio nella Sanità in un ospedale militare di Ancona. Successivamente chiese di essere inviato al fronte dove giunse come tenente cappellano del 255° Reggimento di fanteria. Durante la battaglia del Piave, dimostrò un coraggio tale da essere decorato sul campo con la medaglia d’argento al valore militare. Al termine della Grande guerra toò ad Argenta. Aderì al Partito popolare italiano di don Luigi Sturzo, ma ciò non gli impedì di essere amico del sindacalista socialista Natale Gaiba, prima vittima nel 1921 della violenza delle camicie nere fasciste. Questo fatto e altri episodi lo portarono a rifiutare con convinzione l’ideologia fascista e di conseguenza avviare fra i giovani una robusta formazione civica e morale per lo sviluppo della democrazia; una prassi pastorale che in seguito pagò a caro prezzo.

Caro don Giovanni a leggere la tua succinta biografia si capisce subito che per te, il messaggio evangelico non doveva essere solo proclamato, ma bensì calato nella realtà anche in situazioni non tanto propense ad accogliere la Parola di Cristo.

La zona dove sono nato e cresciuto, da secoli aveva fama di essere piuttosto indifferente all’azione della Chiesa. Durante il Risorgimento era un’area franca per i «mazziniani repubblicani», il che è tutto dire! Se a questo aggiungi il carattere «sanguigno» dei romagnoli avrai modo di capire che il nostro universo era (ed è) molto particolare.

Oltre a questo, la tua spiccata sensibilità umana e sacerdotale ti precludeva di percepire il fascismo sotto una luce positiva.

I metodi violenti con cui il fascismo si era impadronito del potere mi impedivano di accettarlo come soluzione dei problemi sociali d’Italia. Nell’ottobre del ’22, per esempio, fui tra i pochi sacerdoti che si rifiutarono di esporre la bandiera tricolore davanti alla canonica per celebrare la marcia su Roma.

Tutto sommato, però, questo era un gesto, per quanto grave agli occhi dei fascisti, abbastanza scontato.

Sì, ma devi tener conto che poco prima avevo rifiutato di esser nominato cappellano della milizia fascista, creando non poco disappunto fra le loro file.

E non solo.

Avevo il «maledetto vizio» di prendere sistematicamente le difese dei braccianti agricoli nelle loro rivendicazioni salariali contro i proprietari terrieri quasi sempre privi di scrupoli, complici, finanziatori e spesso mandanti dello squadrismo fascista.

In Romagna le squadracce fasciste facevano capo a Italo Balbo e proprio ad Argenta avevano ucciso Natale Gaiba, sindacalista socialista.

Con Natale, pur essendo lui un socialista, eravamo in ottimi rapporti. Nella circostanza della sua morte condannai apertamente con parole di fuoco il barbaro assassinio e ignorai le ripetute minacce e gli avvertimenti anonimi che mi arrivarono a raffica.

Si vede che eri proprio immerso nella vita del tuo popolo, ne condividevi fino in fondo le preoccupazioni e desideravi un futuro diverso, in modo particolare per i contadini.

In una lettera a un amico avevo scritto: «Quando un partito (quello fascista, nda), quando un governo, quando uomini in grande o in piccolo stile denigrano, violentano, perseguitano un’idea, un programma, un’istituzione quale quella del Partito Popolare e dei Circoli Cattolici, per me non vi è che una sola soluzione: passare il Rubicone e quello che succederà sarà sempre meglio che la vita stupida e servile che ci si vuole imporre».

Parole forti, non c’è che dire…

Gli avversari mi davano la colpa per l’influenza non solo spirituale ma soprattutto morale che io avevo sui giovani del paese e della zona, ma sono ben lieto che loro seguissero i miei insegnamenti, tutta la mia azione pedagogica era ispirata al Vangelo e non al vanto di appartenere a una razza superiore o a un movimento politico che per imporsi adottava metodi violenti.

Certo è che il coraggio non ti mancava.

Anni prima per la salvezza della Patria, offersi la mia vita condividendo la trincea come cappellano militare insieme a migliaia di altri giovani italiani. Con l’arrivo del fascismo mi accorsi che una battaglia ben più aspra era in atto.

Puoi spiegarti meglio?

Di fronte al Movimento fascista che andava sempre più crescendo, invitai i miei giovani a prepararsi ad una lotta tenace utilizzando un’arma per noi cattolici democratici sacra e divina, ovvero quella dei primi martiri cristiani: preghiera e bontà. Tirarsi indietro equivaleva a rinunciare a una missione fondamentale per la nostra Italia.

Ma per i fascisti queste tue idee erano davvero pericolose.

Per questo il massimo esponente dello squadrismo locale invitava apertamente i suoi sgherri a impartirmi una sonora «lezione di stile», in quanto il mio impegno pastorale era visto come un ostacolo alla piena fascistizzazione della zona.

E così fu…

Infatti a due sicari, qualcuno dice al servizio di Italo Balbo e su mandato della Federazione fascista di Ferrara, venne comandato di prepararmi un agguato e di riempirmi di botte.

funerale-don-minzoni

In un’afosa serata estiva, don Giovanni Minzoni viene aggredito e ucciso a colpi di spranga sulla soglia della sua canonica. Tanto gli esecutori materiali quanto i mandanti del delitto verranno assolti in un processo farsa condotto in un clima intimidatorio e conclusosi a Ferrara nell’estate del 1925. Il «Corriere Padano», giornale fascista di Italo Balbo nell’edizione del 1° agosto 1925, esalta la mirabile e travolgente arringa dell’onorevole De Marsico che porta all’assoluzione di tutti gli imputati.

Bisognerà aspettare il 1947 perché il processo venga rifatto e i responsabili condannati, però ormai il reato è caduto in prescrizione.

Quanto alla Santa Sede, le proteste ufficiali si fanno sentire lungo tutto il ventennio fascista, ma riguardano propriamente gli episodi di aggressione ai singoli o alle organizzazioni e non mostrano alcuna critica di principio all’azione e ai metodi del governo fascista. Del resto Mussolini impone di riappendere il Crocifisso negli uffici pubblici con grande sollievo di gran parte della popolazione. L’Osservatore Romano sorvola sull’assassinio di don Giovanni Minzoni per mantenere gli equilibri che faticosamente si stanno costruendo tra il governo fascista e la Santa Sede.

La salma di don Minzoni riposa oggi nella Chiesa di Argenta, ove è stata trasferita da Ravenna nel 1983. Per quella cerimonia Giovanni Paolo II inviando un messaggio ricordò: «L’eccezionale significato assunto dal sacerdote martire del fascismo per l’intera nazione italiana», additando in don Minzoni un punto di incontro tra i credenti e coloro che, pur privi del dono della fede, ne riconoscono i valori.

Don Mario Bandera

Il cappellano militare don Giovanni Minzoni celebra la messa al campo in un bosco sul fronte del Carso
Il cappellano militare don Giovanni Minzoni celebra la messa al campo in un bosco sul fronte del Carso




Eleazar Ben Yair eroe masada


Masada è il nome di uno sperone roccioso al cui culmine c’è un ampio pianoro che si innalza a quasi 400 metri sul livello della costa Sud Ovest del Mar Morto nello scenario arido e selvaggio tipico di quella zona. Masada, nei secoli prima di Cristo, era utilizzata come una roccaforte difensiva, ma fu Erode il Grande a fae una fortezza militare di prim’ordine. La sua superficie pianeggiante, ampia una decina di ettari, fu munita lungo tutto il suo perimetro di una doppia cinta di mura e a intervalli regolari furono ricavati circa un centinaio di depositi che, oltre ad arsenale e magazzini per ogni evenienza, servivano anche da abitazione per gli occupanti del luogo.Furono costruiti anche una sinagoga, grandi ripostigli, laboratori e numerose cistee per la raccolta dell’acqua piovana. In questa località che aveva tutti i presupposti per resistere ad un lungo assedio, si consumò nell’anno 74 la tragedia finale delle guerre giudaiche; di questo fatto parliamo con il comandante della fortezza di Masada, Eleazar Ben Yair.

Il racconto della tragedia di Masada ci è giunto attraverso gli scritti dello storico giudaico Giuseppe Flavio, un ebreo che simpatizzava per i romani fino a diventare lo scrivano della famiglia Flavia. Egli descrive il dramma che coinvolse Masada 5 o 6 anni dopo i fatti narrati. Anche se la sua narrazione è un po’ troppo di parte, c’è da dire che i fatti che espone corrispondono abbastanza a ciò che successe realmente.

Per far capire bene l’intera vicenda, puoi narrare come si svolsero i fatti?

Dopo la caduta di Gerusalemme, nel 70, un gruppo di giudei, appartenenti in particolare alle due sette più bellicose, quella dei «Sicari» e quella degli «Zeloti», che non volevano assolutamente arrendersi ai Romani, si rifugiarono a Masada e su quello sperone roccioso si organizzarono per resistere per lungo tempo all’assedio dei Romani.

Giuseppe Flavio narra come il generale romano Flavio Silva ponendo l’assedio a Masada, circondò alla base la roccaforte con un muro che la racchiudeva tutta, creando otto accampamenti con i 7000 legionari che aveva a disposizione.

Coloro che si erano rifugiati a Masada potevano resistere per un tempo indeterminato, perché il luogo aveva un solo stretto accesso, avevano a disposizione l’acqua piovana che veniva raccolta con grande cura nelle numerose cistee, dalla terra ricavavano verdura e cereali che insieme a qualche animale domestico dava il necessario per vivere, per cui l’assedio non li avrebbe mai costretti ad arrendersi per fame o sete.

Perciò occorreva conquistare Masada in altro modo?

Il sentirnero (detto «del serpente») che portava alla fortezza, lungo più di 5 km, era facilmente difendibile perché non consentiva a due persone di camminare appaiate. Era così stretto e tortuoso che anche se si fossero lanciati centinaia di soldati all’attacco, poteva essere difeso senza difficoltà da pochi uomini.

I Romani non erano certamente gente da arrendersi, per cui progettarono di costruire una rampa che dalla piana arrivasse all’altezza del costone più basso di Masada, rampa sulla quale si sarebbero lanciati per conquistare la sommità della fortezza.

Le cose andarono proprio così. In poco più di un mese, grazie al lavoro continuativo di migliaia di schiavi, l’enorme rampa venne portata fin quasi a raggiungere le mura. Su di essa costruirono poi una enorme torre tutta ricoperta di ferro e munita di catapulte, con le quali cominciarono a demolire le mura e «bombardare» i difensori.

Gli Zelori e i Sicari, vedendo il progresso inesorabile della potente macchina da guerra romana, quando anche la torre fu completata e una breccia fu fatta nelle mura, consci di non avere alcuna possibilità di vittoria di fronte alla schiacciante superiorità numerica degli avversari, la notte prima dell’assalto finale decisero di ricorrere a un’estrema soluzione piuttosto che arrendersi.

La decisione presa era terribile in quanto gli uomini, disubbidendo alle Sacre Scritture, decisero ognuno di passare a fil di spada i propri familiari, cominciando dalle mogli per poi sacrificare i figli e per ultimi i più piccoli.

E tra di loro come si sono comportati?

Estraendo a sorte, un ebreo avrebbe ucciso con la spada dieci suoi compagni fino a quando ne sarebbe rimasto solo uno e questi si sarebbe suicidato.

Quando i Romani, completata la rampa, misero piede sul pianoro di Masada, furono presi da grande stupore nel vedere che non incontravano alcuna resistenza e il luogo era completamente deserto.

I Romani, mettendo piede sulla piana della fortezza, rimasero sorpresi dal silenzio e dall’assoluta mancanza di ogni tipo di resistenza. Infatti non c’era più alcuno che potesse combattere contro di loro perché gli assediati, pur di non arrendersi, avevano compiuto quello che il mondo ebraico non considerava per nulla un atto di valore, cioè il suicidio.

Come fecero i Romani a capire cosa era successo?

I Romani, trovandosi di fronte a un luogo apparentemente abbandonato e con le case e i magazzini in fiamme, alzarono alte grida per vedere se si faceva vivo qualcuno. Le loro urla furono udite dalle uniche due donne superstiti che, uscite dal loro nascondiglio, raccontarono ai Romani tutti i particolari dell’accaduto.

Poi cosa successe?

Increduli dinnanzi al racconto delle donne, i Romani cercarono di domare gli incendi appiccati ovunque, ma quando entrarono nel palazzo reale e videro sul pavimento una distesa di cadaveri non provarono esultanza per aver vinto una battaglia e annientato il nemico, ma piuttosto tanta ammirazione per quello che venne considerato dai vincitori come un nobile gesto.

Con la conquista di Masada finiva la prima rivolta dei Giudei contro i Romani.

I vincitori lasciarono una guaigione a Masada mentre il grosso dell’esercito toò a Cesarea Marittima ove risiedeva Erode. In tutta la zona non rimaneva più alcun focolaio di resistenza, tutta la Giudea, così come la Galilea e la Samaria, era stata di nuovo sottomessa all’Impero di Roma.

Masada si sacrificò per non arrendersi, ma ugualmente venne conquistata dai Romani, la notizia di quello che successe si diffuse rapidamente per tutto l’Impero.

Sì, tanto che le comunità ebraiche sparpagliate lungo le coste del Mediterraneo vennero sospettate come potenziali focolai di ribellione. Vennero quindi sorvegliate e tenute d’occhio con un’attenzione particolare da parte delle legioni romane.

Sul popolo ebraico, che effetto ebbe?

Ne rimase un vivo ricordo per molti secoli, ma poi la storia di Masada cadde nell’oblio. Anche la sua esistenza fu dimenticata. La fortezza fu riscoperta nel solo 1834 e venne riportata alla luce dagli scavi del 1963 a opera di Yigael Yadin. È dalla prima metà del secolo scorso che è partito un processo di riscoperta e valorizzazione di quell’epopea, fonte di orgoglio identitario per l’Israele di oggi.

Quindi oggi Masada, dal moderno stato d’Israele, viene ricordata positivamente?

Per far capire quanto Masada sia profondamente radicata ancora oggi nel popolo di Israele, basti pensare che tutte le reclute che entrano a far parte dell’Esercito, della Marina o dell’Aviazione giurano sulla spianata di Masada con questa formula: «Masada non cadrà mai più, lo giurate voi?» e le reclute alzando il braccio destro rispondono all’unisono gridando: «Lo giuro!».

Questo fatto ci aiuta a capire come passato e presente siano strettamente intrecciati nella memoria del popolo di Israele, quello che anticamente fu un sacrificio collettivo e in definitiva una sconfitta della guaigione giudaica di fronte all’Impero Romano, si trasforma in un atto fondamentale nella vita dei giovani dell’Israele dei nostri giorni quando pronunciano un giuramento così impegnativo per loro stessi e per il loro paese.

Don Mario Bandera, Missio Novara

 


Nota

Entrata nell’oblio dopo la conquista araba, la fortezza di Masada (oggi «patrimonio dell’Umanità» protetto dall’Unesco) toò alla luce nel 1834, mentre la storia dei suoi difensori entrò nella leggenda soprattutto dopo la seconda guerra mondiale con il crescere del sionismo, diventando funzionale a una visione eroica del nascente stato di Israele. Il racconto di Giuseppe Flavio (uno storico ebreo, spesso accusato di essere partigiano perché asservito ai Romani) è molto sobrio e si conclude con un giudizio molto negativo sul suicidio collettivo che, pur avendo suscitato una notevole ammirazione nei conquistatori, non poteva essere accettato dalla visione religiosa del popolo d’Israele.
Ai primi scavi degli anni 1963-64, ne seguirono altri, accompagnati da studi più approfonditi di storiografia comparata a opera delle stesse università israeliane. Tali studi hanno evidenziato come i difensori di Masada fossero stati membri del solo gruppo dei «Sicari», noti per il loro fanatismo e l’uso indiscriminato dell’assassinio come mezzo di lotta politica. Tale gruppo era stato cacciato per la sua eccessiva violenza da Gerusalemme dal popolo stesso, capeggiato dagli «Zeloti», subito dopo le prime fasi della rivolta contro i Romani. Fuggiti dalla città, nel 66 i «Sicari» avevano occupato Masada e, per rifoirsi di cibo, avevano razziato alcuni dei villaggi vicini massacrandone tutti gli abitanti, donne e bambini compresi.
Dalle tracce archeologiche risulta inoltre come non abbiano offerto molta resistenza ai Romani, i quali, dopo aver prima sistematicamente eliminato, dopo battaglie feroci, altre fortezze dove i fuggiaschi da Gerusalemme si erano rifugiati, da ultimo presero Masada quasi senza colpo ferire dopo alcuni mesi di assedio. Il suicidio collettivo, cui sopravvissero solo due donne e quattro bambini, colpì profondamente i Romani, che lo consideravano un atto di grande onore.
Si veda in proposito l’ebook «Masada Myth: Collective Memory and mythmaking in Israel», di Nachman Ben-Yehuda, distribuito in Italia da Feltrinelli.




Perdenti 16 Iqbal Masih

iqbal-masih-1Iqbal Masih nacque in Pakistan nel 1983 in una famiglia cristiana poverissima a Muridke, abitato a Nord di Lahore, città con la più grande comunità cristiana del paese, nella provincia del Punjab. A causa di un indebitamento, contratto quando Iqbal aveva 5 anni, i suoi genitori furono costretti a «cederlo» a un fabbricante di tappeti per l’equivalente di 12 dollari. Il bimbo iniziò a lavorare 12 ore al giorno, per sette giorni alla settimana, incatenato al telaio, senza la possibilità di uscire dalla fabbrica, subendo maltrattamenti, con uno stipendio pari a una sola rupia al giorno (corrispondente a pochi centesimi di euro). Gli interessi del debito invece crescevano negando a Iqbal la possibilità di riscatto. Lavorò fino all’età di nove anni, quando, durante una fuga, fortuitamente venne a conoscenza delle attività di un’organizzazione in difesa dei diritti dei bambini lavoratori. Grazie a essa ritrovò la libertà, e iniziò a impegnarsi per la liberazione degli altri bambini. Una serie di circostanze favorevoli lo portarono alla ribalta dell’opinione pubblica internazionale e la sua testimonianza fu determinante per rompere il silenzio di omertà che copriva lo sfruttamento dei minori nel mondo. Il giorno di Pasqua del 1995, mentre andava a messa, fu ucciso da ignoti.

Iqbal, come ti ritrovasti a lavorare più di dodici ore al giorno a un telaio per fabbricare tappeti?

La mia famiglia era poverissima, mio papà per uscire dalla situazione economica molto precaria in cui ci trovavamo contrasse dei debiti con delle persone poco raccomandabili, praticamente degli strozzini che gli proposero di restituire il debito mandando uno dei suoi figli a lavorare per loro in una fabbrica di tappeti.

E tu ti offristi per andare a lavorare da quella gente per aiutare la tua famiglia?

Sì, perché mio padre era malato e poteva lavorare poco. A casa nostra si faceva una gran fatica a racimolare i pochi soldi necessari per vivere, per questo fin da piccoli tutti noi eravamo coinvolti nel trovare aiuti necessari per la sopravvivenza della nostra famiglia.

In cosa consisteva il tuo lavoro?

Io e gli altri bambini della fabbrica facevamo tappeti. Lavoravamo su dei telai tradizionali che richiedevano molta destrezza e mani piccole. Le nostre piccole dita si infilavano agevolmente nell’ordito e nella trama del tessuto: potevamo così realizzare disegni molto raffinati ed elaborati. Bisognava però lavorare giorno e notte, con tui massacranti. Ci tenevano incatenati l’uno all’altro per paura che fuggissimo. Ma io, almeno all’inizio, non avevo alcuna intenzione di fuggire perché dovevo aiutare la mia famiglia. Il padrone ci teneva sotto controllo ogni istante e se sbagliavamo a fare i nodi nel disegno di un tappeto ci puniva severamente. A volte ci costringeva a stare senza mangiare e bere dentro una scatola di lamiera sotto il sole.

Capitò anche a te di subire quel tipo di punizione?

Sono finito due volte lì dentro, una volta da solo e un’altra insieme a un ragazzo malato ai polmoni. Dopo qualche giorno è morto senza che nessuno avesse chiamato un medico per curarlo.

Non cercaste mai di scappare?

Una volta fuggii e mi rivolsi alla polizia, ma venni riportato alla manifattura e bastonato per punizione. Un’altra volta uscii dalla fabbrica insieme ad altri bambini di nascosto, e per caso assistemmo alla celebrazione della «Giornata della Libertà» organizzata dal Fronte di Liberazione dal Lavoro Schiavizzato (Bounded Labour Liberation Front – Bllf). Per la prima volta sentii parlare dei diritti dei bambini e descrivere la nostra condizione di schiavitù.

Quello fu un momento importante per te…

In quell’occasione conobbi Eshan Ullah Khan, leader del Bllf, il sindacalista che sarebbe stato la mia guida verso una nuova fase della mia vita, dedicata alla difesa dei diritti dei bambini.

Cosa successe dopo?

Ritornato nella manifattura, mi rifiutai di riprendere il lavoro malgrado le percosse. Il padrone disse alla mia famiglia che il debito contratto anziché diminuire era aumentato a diverse migliaia di rupie. Nel conto aveva inserito anche il cibo (sebbene scarso) che mi era stato dato, gli errori di lavorazione e altre menzogne. La mia famiglia fu costretta dalle minacce ad abbandonare il villaggio e io fui ospitato in un ostello dalla Bllf. Lì potei cominciare a studiare.

Il fatto di essere accolto da una struttura che, invece di sfruttarti, ti proteggeva, ti mise nelle condizioni di diventare un testimone dei soprusi che venivano compiuti verso voi bambini.

Dopo che incominciai a raccontare e a esporre al pubblico le terribili condizioni di vita a cui erano sottoposti i miei coetanei, il mio racconto venne ripreso e pubblicato dai giornali locali, da lì, per una serie di fortuite coincidenze, la storia rimbalzò sui mass media di tutto il mondo.

Così diventasti portavoce e simbolo del dramma dei bambini lavoratori in Pakistan, come in altri paesi in tutto il mondo.

Nel 1993, quando avevo dieci anni, invitato da diverse organizzazioni mondiali, cominciai a viaggiare e a partecipare a conferenze inteazionali, sensibilizzando l’opinione pubblica sui diritti che nel mio paese erano negati ai minori e contribuendo al dibattito sulla schiavitù mondiale e sui diritti inteazionali dell’infanzia.

Con le tue denunce e nella tua veste di «sindacalista bambino», non temevi per la tua vita?

Sulle prime avevo paura, ma con il tempo mi passò. A un certo punto mi accorsi di non avere più paura dei padroni, anzi, prendevo atto che erano i padroni che avevano paura di me e di noi bambini lavoratori e della nostra ribellione. Maturai anche l’idea che da grande sarei andato all’università per conseguire la laurea da avvocato per difendere coloro che erano oppressi e che vivevano situazioni intollerabili.

È vero che la tua fede religiosa ti fu molto di aiuto e ti sostenne nei momenti più duri e difficili?

Proveniente da una famiglia cristiana in un paese a stragrande maggioranza islamica, pregavo il Signore Gesù che mi desse la forza di rendere testimonianza della fede che avevo in lui e questo lo affermai in diverse occasioni nei miei viaggi per gli incontri inteazionali.

Se non vado errato hai anche ricevuto dei riconoscimenti inteazionali?

Nel dicembre del 1994 ottenni un premio di 15.000 dollari, con il quale decisi di finanziare una scuola in Pakistan. Ricevetti anche una borsa di studio per studiare all’estero, ma la rifiutai perché avevo deciso di rimanere in Pakistan, per portare avanti la mia campagna in favore dei più piccoli.

La tua attività come difensore dei bambini e la tua determinazione nel far conoscere al mondo il dramma del lavoro minorile sortì qualche effetto nella tua terra?

Circa tremila piccoli schiavi come me poterono uscire dalla loro condizione: sotto la pressione di alcuni organismi inteazionali, il governo pakistano iniziò a chiudere decine di fabbriche di tappeti che sfruttavano i minori.

 

Il 16 aprile 1995, domenica di Pasqua, all’età di 12 anni, Iqbal Masih venne assassinato, mentre si stava recando in bicicletta in chiesa. L’edificio era nei pressi della casa di sua nonna dove poi sarebbe andato con i suoi cugini. Alla notizia della sua morte, Ullah Khan affermò che si era trattato di un complotto «della mafia dei tappeti». Qualcuno si era sentito minacciato dall’attivismo di Iqbal, la polizia fu accusata di collusione con gli assassini. Di fatto molti dettagli di quel tragico giorno sono ancora oggi avvolti dall’oscurità. Alcuni testimoni affermarono di aver visto una macchina (dai finestrini oscurati) avvicinarsi al ragazzo in bici, dall’auto sarebbero partiti dei colpi di arma da fuoco.

Nel 2000 Iqbal fu il primo a ricevere, sia pur alla memoria, il World’s Children’s Prize, premio per i diritti dei bambini. Nel messaggio di fine anno del 31 dicembre 1997, il presidente della Repubblica Italiana Oscar Luigi Scalfaro ricordò il grande sacrificio di Iqbal Masih.

I suoi assassini, spezzandone la vita, hanno collocato la sua figura nel Pantheon dei testimoni che sacrificano la loro esistenza illuminando il cammino dell’umanità e ne hanno fatto un piccolo grande rivoluzionario.L’esempio che Iqbal ha seminato in Pakistan, come nel mondo intero, resta indimenticabile per tutti.

Il Bllf continua la sua difficile campagna per la liberazione da qualsiasi tipo di schiavitù, soprattutto contro l’asservimento dei bambini, per l’aumento delle paghe e per il cambiamento della legislazione.

Mario Bandera, Missio Novara




Perdenti 15: Sacco e Vanzetti


Il 23 agosto 1927, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, anarchici italiani emigrati negli Usa, subirono l’esecuzione capitale tramite la sedia elettrica. Erano accusati di aver ucciso, nel corso di una rapina, il cassiere e la guardia giurata del calzaturificio Slater and Morril. I dubbi sulla loro responsabilità e l’assoluta mancanza di testimoni non valsero a nulla. Nel penitenziario di Charlestown in Massachusetts, a distanza di sette minuti l’uno dall’altro, furono legati alla sedia elettrica e «giustiziati». Il 23 agosto 1977, a cinquant’anni esatti dalla loro morte, Michael Dukakis, durante il suo primo mandato di Goveatore del Massachusetts, riabilitò la memoria dei due italoamericani ammettendo che nel giudicarli erano stati commessi macroscopici errori e ingiustizie sia da parte della polizia che della magistratura americana.

Voi siete conosciuti in Italia e in America con i vostri cognomi, Sacco e Vanzetti, e considerando la provenienza geografica, si può dire che nel dramma che vi è toccato vivere, avete rappresentato con molta dignità l’Italia del Sud e del Nord, strettamente unita nella dura realtà dell’emigrazione.

Sacco: io sono pugliese, sono nato a Torremaggiore in provincia di Foggia.

Vanzetti: io, invece, sono piemontese e vengo da Villafalletto in provincia di Cuneo. Siamo emigrati negli Stati Uniti quasi contemporaneamente. Io arrivai a New York nel 1908, Sacco invece sbarcò a Boston nel 1909. Approdammo nel Massachusetts facendo diversi lavori, come del resto era consuetudine in quegli anni per i migranti che arrivavano in America.

Sacco: alla fine io trovai lavoro in una ditta che produceva scarpe e divenni un calzolaio provetto, mi sposai ed ebbi un figlio e una figlia, mentre il mio amico Bartolomeo, dopo molti sacrifici e aver cambiato tanti lavori, riuscì, nel 1919, ad aprire un piccolo negozio dove vendeva pesce.

Vi siete conosciuti in America?

Si, frequentavamo dei circoli anarchici e socialisti presenti in terra americana (pochi in verità), partecipando a scioperi e manifestazioni, che ci fecero avere problemi con la polizia. Nel 1916 ci conoscemmo e in poco tempo diventammo amici. Le nostre idee collimavano nel ricercare una giustizia sociale che fosse equa e rispettosa per tutti gli immigrati, inoltre eravamo due convinti pacifisti, tant’è vero che quando gli Stati Uniti intervennero nella Grande Guerra del ‘15-’18, ci rifugiammo in Messico con tutto il collettivo anarchico per non essere arruolati.

Finita la guerra tornaste negli Stati Uniti?

Si, riprendemmo il nostro lavoro nella società americana cercando di convincere altri immigrati a frequentare i nostri circoli e ad aderire alle nostre idee. Per la nostra fuga in Messico e per le nostre attività, eravamo però inclusi in una lista di sorvegliati speciali e segretamente controllati dalla polizia.

Come erano visti gli italiani negli Stati Uniti in quegli anni?

Molto male. Innanzitutto per il fatto di provenire da un paese cattolico e di trovarci in una cultura come quella degli Usa permeata dall’ideologia wasp (lett. vespa, ma in questo caso acronimo per White Anglo Saxon Protestant), eravamo considerati la feccia della società. Se a ciò si unisce il fatto che avevamo problemi con la lingua inglese in quanto non la parlavamo correttamente e che per sopravvivere eravamo disposti ad accettare i lavori più degradanti, eravamo visti come «paria» che occupano l’ultimo gradino della società.

Gli emigranti provenienti in genere dall’Europa e in particolare dall’Italia, portavano anche le idee socialiste e anarchiche che in quegli anni stavano sviluppandosi nel vecchio continente.

Quasi tutti noi eravamo contro la guerra, quindi abbastanza restii ad appoggiare le azioni belliche da qualunque parte venissero proposte. Molti immigrati si rifiutavano di iscriversi ai registri di leva e di lavorare nelle industrie che fabbricavano armi ed erano proprio i lavoratori europei, specialmente gli italiani, che animavano queste iniziative e organizzavano scioperi.

Anche la risonanza che arrivava dalla Rivoluzione Russa alimentava un’ostilità crescente non solo verso i migranti, ma proprio verso tutti coloro che si dichiaravano anarchici e socialisti?

Proprio così. Oltre tutto in quegli anni prese piede la così detta «red scare» (la paura dei rossi), con la quale il governo federale cercò di prevenire – con metodi al limite della legalità – il diffondersi di una ideologia ritenuta sovversiva e radicale. Per rispondere ai nostri sporadici, e tutto sommato abbastanza innocui, gesti di ribellione e per bloccare ogni nostra iniziativa, venne creato un apparato poliziesco imponente.

Va da sé che in un clima di così alta tensione e pieno di sospetto verso chi non era «wasp», ogni volta che succedeva un fatto criminale, gli immigrati venivano subito additati come colpevoli.

Il 15 aprile 1920, a South Braintree (Massachusetts), il cassiere del calzaturificio «Slater and Morril», Frederick Parmenter, e la guardia Alessandro Berardelli, stavano portando a piedi le paghe della settimana, 15.776 dollari, in due cassette di legno. Vennero assaliti con le pistole in pugno da due persone che spararono a bruciapelo e si allontanarono su un’auto che li stava aspettando. Immediatamente vennero sospettati degli italiani come gli autori del gesto. Noi due fummo arrestati perché trovati con una pistola e degli appunti per un comizio che stavamo organizzando. Ci trattennero in prigione senza nessuna assistenza legale.

Non vi chiedevate il perché di un arresto così anomalo?

Parlando tra di noi credevamo che ci avessero arrestati per motivi politici, al massimo per illegale possesso di armi. Per questo avevamo paura di essere espulsi, ma a nostro favore giocavano parecchie testimonianze giurate che dicevano che noi non eravamo nel luogo dove era avvenuto il gesto criminale, in quanto impegnati altrove. Ma il numero dei testimoni contro di noi, che la polizia andava raccogliendo qua e là, aumentava ogni giorno e, tra mille incertezze e contraddizioni, alcuni di loro dissero esplicitamente che noi eravamo i colpevoli. Venne quindi fatta un’incriminazione formale a nostro nome.

Raccogliendo delle testimonianze abbastanza deboli, ma avendo fretta di concludere l’istruttoria, tutto venne deciso per portare a termine il processo nel più breve tempo possibile.

Non solo, alcuni testimoni ritrattarono perché, a distanza di mesi, non erano più così sicuri delle loro dichiarazioni. Un portoghese di nome Celestino Madeiros, un comune criminale condannato in precedenza per rapina e omicidio, confessò la sua partecipazione al furto e al conseguente assassinio della guardia giurata, scagionandoci completamente dalle accuse a noi rivolte.

Ma tutto fu inutile in quanto la giustizia americana era alla ricerca di un capro espiatorio e voi incarnavate proprio quello che a loro serviva da presentare all’opinione pubblica, non è andata così?

Peggio, il pubblico ministero riuscì a eccitare i sentimenti patriottici e i pregiudizi della Corte, illustrando quelle che a suo avviso erano le idee sovversive del Movimento Anarchico del quale noi facevamo parte. La nostra renitenza alla leva e le nostre critiche al sistema capitalistico americano, vennero duramente attaccate dall’accusa, così facendo si processavano le nostre idee e non i fatti! Al momento della requisitoria il procuratore lanciò parole durissime contro gli stranieri e le idee che professavano. Anche il riepilogo del giudice fu pervaso da nazionalismo e pregiudizio; egli, anziché ricapitolare gli elementi di prova che la giuria avrebbe dovuto prendere in considerazione, espresse giudizi pesanti sugli stranieri presenti negli Stati Uniti. Paradossalmente non portò nessuna prova che inchiodasse noi al delitto di cui eravamo accusati. Nonostante ciò e nonostante gli elementi d’incertezza e i vistosi vizi procedurali che emersero durante il dibattimento, il 14 luglio 1921 la giuria pronunciò la sentenza di condanna a morte tramite sedia elettrica per tutti e due.

La condanna a morte di Sacco e Vanzetti provocò proteste in tutto il mondo, il governo italiano si fece sentire attraverso tutti i canali diplomatici, fior di intellettuali e personaggi di spicco di diverse nazioni scrissero al presidente degli Stati Uniti di concedere loro la grazia, in Italia ci fu un’ondata di antiamericanismo tale che bisognerà aspettare la guerra del Vietnam per vedee una uguale. In tutti i paesi culla di emigrazione verso gli Stati Uniti, ci furono manifestazioni di sostegno per i due italiani, anche negli Usa l’opinione pubblica si divise. Se per la destra veniva finalmente applicata una punizione esemplare a dei delinquenti comuni, altri cittadini, coscienti che veniva attuata un’ingiustizia macroscopica nei confronti di due italiani innocenti, non volendo che il loro paese apparisse come persecutore degli immigrati che proprio in quegli anni approdavano a migliaia negli Usa, manifestarono a loro favore.

Furono sette anni di inutili ricorsi, perché di fatto quello era ormai diventato un processo politico.

Il giudice Webster Thayer, l’uomo che aveva emesso la condanna a morte per Sacco e Vanzetti, disse a un amico: «Hai visto cosa ho fatto a quei due bastardi anarchici italiani, l’altro giorno?».

Vanzetti in una delle ultime sedute del processo prima dell’esecuzione, il 19 aprile 1927 fece un breve discorso in cui tra l’altro disse: «Voi avete dato un senso alla vita di due poveri sfruttati, noi siamo condannati non per dei crimini che abbiamo commesso, ma perché siamo italiani e perché siamo anarchici, ma siamo così convinti di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarci due volte rivivremmo per fare esattamente le stesse cose che abbiamo fatto. E questo omicidio di stato non riuscirà a estinguere il nostro limpido e inalienabile diritto di esistere e di pensare secondo la nostra coscienza». Poi rivolgendosi al giudice che lo aveva condannato disse: «Non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della terra ciò che io ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui sono colpevole. Sto soffrendo perché sono un radicale, e davvero io sono un radicale; ho sofferto perché ero un Italiano, e davvero io sono un Italiano […] se voi poteste giustiziarmi due volte, e se potessi rinascere altre due volte, vivrei di nuovo per fare quello che ho fatto già».

Furono giustiziati – se questa è l’espressione giusta – sulla sedia elettrica il 23 agosto 1927, a pochi minuti l’uno dall’altro. Le loro ceneri riposano ora a Torremaggiore.

Mario Bandera, missio Novara

 




Perdenti 14: Antonio Meucci


Alla fine la verità ha trionfato: l’inventore del telefono non è Alexander Graham Bell, come continuano a recitare i libri di testo nelle scuole degli Stati Uniti d’America, bensì l’immigrato fiorentino Antonio Meucci che morì in povertà a New York nel 1889 dopo essere stato defraudato del brevetto. Meucci nato a San Frediano, popolare quartiere di Firenze il 13 aprile 1808, emigrò giovanissimo nel Nuovo Mondo. Dopo alcuni anni passati a Cuba lavorando come tecnico di scena in una compagnia teatrale che si esibiva all’Avana, decise di trasferirsi negli Stati Uniti, anche per sfuggire il micidiale clima caldo-umido dell’isola caraibica che influiva negativamente sulla salute della moglie Ester.

Lasciata Cuba il 1º maggio 1850, i coniugi Meucci sbarcarono a New York, stabilendosi quasi subito a Clifton, un piccolo quartiere nell’isola di Staten Island, dove rimasero fino alla morte. Qui Antonio acquistò un cottage e aprì una fabbrica di candele, fatte secondo un progetto di sua concezione. La sua casa divenne ben presto un riferimento importante per gli immigrati italiani che arrivavano a New York. Anche Giuseppe Garibaldi venne ospitato da Meucci tra il 1850 e il 1853 e, per tutto il tempo della permanenza negli Stati Uniti, lavorò nella sua fabbrica.

La passione per le comunicazioni elettriche, che covava da sempre nella sua mente, gli fece trasformare ben presto la casa in un laboratorio: allestì un collegamento permanente con la stanza al secondo piano dove stava la moglie che soffriva di un’artrite deformante e per lunghe ore non poteva muoversi. Da quell’apparecchio costruito in maniera molto approssimativa, Meucci sognava di far giungere la sua voce il più lontano possibile. Era la sua idea fissa, quasi un’ossessione, che lo accompagnò per tutta la vita.

Il riconoscimento postumo e tardivo del suo genio, arriverà l’11 giugno 2002 quando il Congresso degli Stati Uniti, su iniziativa del deputato italoamericano Vito Fossella, ha riconosciuto Antonio Meucci come il primo inventore del telefono. Dopo la riabilitazione di Sacco e Vanzetti, i due anarchici ingiustamente condannati a morte per terrorismo negli anni ’20, questo è stato un altro trionfo per la generazione degli immigrati italiani che spesso furono vittime di pregiudizi e discriminazioni negli Stati Uniti d’America.

 

Caro Antonio, si può dire che nonostante le tue capacità e soprattutto la sorprendente genialità che avevi per la comunicazione, tu abbia avuto una vita tutt’altro che fortunata. Parlaci un po’ di te.

Cresciuto nel Gran Ducato di Toscana, dove le condizioni di vita della mia famiglia erano piuttosto grame e difficili, e coinvolto nei moti rivoluzionari del 1831 a causa delle mie convinzioni politiche e per le mie idee liberali, fui costretto ad andarmene dalla terra natia, per cui appena sposato presi la decisione di emigrare in America.

La tua prima tappa però non furono gli Stati Uniti d’America.

Infatti, dopo lunghe peregrinazioni nello Stato Pontificio e nel Regno delle due Sicilie, mi imbarcai per Cuba dove trovai lavoro come meccanico teatrale, fino ad essere responsabile di tutto l’impianto scenografico. Là ebbi la possibilità di approfondire le mie conoscenze in elettrotecnica e di fare esperimenti vari. Divenni anche uno dei primi a praticare la galvanostegia di oggetti (ricoprire cioè oggetti di metallo normale con oro o argento tramite un processo elettrico), è questo mi rese ricco e popolare. Fu proprio a Cuba che ebbi le prime intuizioni sulla possibilità di comunicare a distanza grazie all’elettricità.

Però non rimanesti a lungo nell’isola caraibica.

Nel 1850, scaduto il mio terzo contratto con il teatro all’Avana, su suggerimento di amici, mi trasferii negli Stati Uniti stabilendomi a New York dove aprii una fabbrica di candele steariche di mia concezione.

A New York in quegli anni incontrasti anche Giuseppe Garibaldi.

Proprio così. Fra me e Garibaldi sorse e si sviluppò una solida amicizia e lui per tutto il tempo che si fermò (1850-1853) negli Stati Uniti, fu ospite a casa mia e lavorò anche nella mia fabbrica. Purtroppo la fabbrica, pur unica nel suo genere, non ebbe molto successo. La trasformai prima in una fabbrica di birra e poi fui costretto a venderla, anche se il nuovo proprietario mi permise di viverci fino alla mia morte.

Fu in quel periodo che ti venne l’idea di un apparecchio che mettesse in comunicazione due persone che stavano in lontananza.

Avevo già fatto dei primi esperimenti in Cuba, ma il fatto che mia moglie fosse costretta a stare per lunghe ore della giornata a letto per colpa di una forma grave di artrite reumatornide, stimolò il mio ingegno. Allestii quindi un collegamento permanente tra il laboratorio, che era nello scantinato della casa, e la stanza di mia moglie situata al secondo piano.

Se eri un genio per quanto riguarda le comunicazioni, non avevi certamente talento per il lucro, né la sola simpatia della comunità italiana poteva fare molto per te.

Vero. Io continuai i miei esperimenti con il «telettrofono», come chiamavo la mia invenzione, e migliorai considerevolmente la comunicazione fra la mia adorata Ester, ormai paralizzata nella sua stanza, e il mio laboratorio. Negli anni tra il 1851 e il 1871 provai e riprovai fino a trenta modelli diversi e ottenni ottimi risultati. Il laboratorio era pieno di disegni e prototipi.

Poi ti dissanguasti economicamente, un po’ per pagare le cure sanitarie di tua moglie, un po’ per tanta sfortuna, e ti riducesti sul lastrico.

In fondo non desistevo, anche se mi riempivo di debiti, sognavo il giorno in cui non avrei più avuto problemi economici. Mi accorgevo sempre di più di essere un vecchio in miseria con la moglie ammalata e un’invenzione che, lo posso dire veramente, sarebbe stata al servizio dell’umanità, ma di cui, per colpa dei raggiri di cui ero vittima, non potevo godee i frutti.

Per colmo di sfortuna, il 30 luglio 1871, lo scoppio della caldaia del traghetto Westfield che mi stava riportando a casa a Staten Island da New York, causò l’incendio e l’affondamento dello stesso. Gravemente ustionato, finii in ospedale per mesi. Fu il tracollo finanziario. Per sopravvivere, mia moglie fu costretta a svendere i miei bozzetti e i prototipi di telettrofono per 6 dollari a un rigattiere. Una volta dimesso, ancora convalescente, provai a ricominciare da capo.

È vero che scrivesti anche in Italia alla ricerca di capitali per lanciare la tua invenzione sul mercato europeo?

Sì, ma non ottenni grandi risultati. Fondai anche una compagnia con altri italiani, ma non si venne a capo di nulla e si sciolse dopo un anno.

Tra tutte queste disgrazie non ci fu un momento in cui il vento della sfortuna modificò la sua direzione?

A fine dicembre 1871 riuscii a pagare i dieci dollari necessari per avere un caveat dall’ufficio brevetti a Washington. Il documento descriveva la mia invenzione, che avevo chiamato «Sound Telegraph». Purtroppo valeva solo un anno e non avevo i soldi necessari per il rinnovo né tanto meno per pagare il brevetto.

Ma accanto a queste vicissitudini, ce ne furono altre poco chiare e abbastanza disoneste che t’impedirono di accedere al brevetto.

Forte del caveat, nell’estate del 1872 andai a far vedere il mio prototipo e i miei progetti all’American District Telegraph Co. di New York, sperando mi lasciassero sperimentare il mio apparecchio sulle loro linee. La notizia venne anche pubblicata con un certo rilievo sul giornale italiano che in quegli anni si stampava a New York. Ma non abbi alcuna risposta dalla Company. Anzi continuarono a tergiversare, senza restituirmi i disegni. Alle mie insistenze, dopo ben due anni, mi dissero che li avevano smarriti. Consulente della compagnia era Alexander Graham Bell. Il che dice tutto.

Qualche anno dopo persi ogni speranza di un riconoscimento ufficiale da parte delle autorità degli Stati Uniti quando, dopo che il mio caveat era spirato nel 1874, nel 1876 lessi sui giornali di New York che Bell aveva «inventato» il telefono. Nel 1877 fondò la «Bell Telephone Co.».

Di fronte a questa defraudazione pura e semplice non ti difese nessuno?

La comunità italiana fece quadrato attorno a me e dopo un decennio di ricorsi ai tribunali, ci fu l’intervento del governo il quale decise di annullare temporaneamente il brevetto di Bell in quanto ottenuto per frode e dichiarazione del falso. Cosa che venne poi confermata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti.

Allora aveva ragione Garibaldi, il quale diceva che tu eri un genio, ma nel fondo restavi un gran brav’uomo che in una società come quella capitalista americana eri come una colomba in una stanza piena di volpi!

Spiace dirlo, ma è proprio così. Quel volpone di Bell riprese i miei modelli, li mise in produzione, mentendo e truffando li fece passare per suoi e, avendo mezzi e appoggi di ogni genere, fece fortuna con il frutto della mie ricerche.

 

Per oltre un secolo, ad eccezione dell’Italia, è stato universalmente considerato inventore del telefono Alexander Graham Bell. Il fatto che il sistema legislativo degli Stati Uniti d’America abbia finalmente riconosciuto – sia pur con molto ritardo – che questa invenzione fosse da attribuire ad Antonio Meucci, è un postumo quanto doveroso risarcimento morale all’inventore fiorentino, che, gioverà ricordare, morì povero e dimenticato da tutti in una terra rimasta sempre straniera.

Don Mario Bandera – Missio Novara




I perdenti 13 i Cristeros e il beato Miguel Agustin pro


Nell’indifferenza generale dell’opinione pubblica del mondo, il Messico, tra il 1925 e il 1929, visse un periodo tragico della sua storia. Al governo della Repubblica si era installato un gruppo di potere formato in prevalenza da massoni anticlericali, denominato «gli uomini di Sonora». Tra i vari provvedimenti che essi presero, spicca l’inasprimento delle leggi anti religiose. Con il presidente Plutarco Elia Calles, queste leggi vennero imposte in maniera rigorosa in tutta la Federazione Messicana. Alla Chiesa venne tolta ogni autonomia giuridica, furono espulsi tutti i sacerdoti stranieri e furono confiscati tutti i beni delle istituzioni cattoliche: chiese, conventi, seminari, scuole, istituti di carità, ecc. Dall’agosto del 1925 la Chiesa sparì completamente dalla vita pubblica del religiosissimo popolo messicano. Fu a questo punto che accadde una cosa incredibile: migliaia di persone di ogni condizione sociale si diedero alla macchia dando vita a una insurrezione spontanea, motivata dal fatto che se «Cesare diventa un tiranno, il popolo ha diritto di difendere la propria libertà».

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I generali dell’esercito federale pensavano di sconfiggere in poco tempo quegli insorti inesperti e male armati, tuttavia l’organizzazione si consolidò in quanto sostenuta dalla maggioranza della popolazione e nacque così la «Cristiada», l’insurrezione di «Cristo Re», che coinvolse milioni di persone, preoccupò le Cancellerie di mezzo mondo e costrinse i papi a intervenire. L’esercito cristero in poco tempo si organizzò e divenne una formidabile difesa per la popolazione inerme. La reazione dello stato centrale fu rabbiosa e fece massacri indiscriminati, campi di prigionia, impiccagioni di massa.

In quegli anni furono scritte pagine luminosissime da parte di umili e semplici cristiani che volevano vivere la loro fede. Ne parliamo con padre Miguel Agustin Pro (nome completo José Ramón Miguel Agustín Pro Juárez), che fu uno dei martiri di quel periodo convulso della storia del Messico.

Padre Miguel, come ebbe inizio questa tragedia?

Dopo il trentennale governo di Porfirio Diaz, un presidente che si era convertito dopo la morte della moglie, presero il potere elementi giacobini e radicali chiamati «gli uomini di Sonora», i quali fecero approvare dal parlamento una costituzione ferocemente anti religiosa. La Chiesa accusata di essere retrograda e responsabile di tenere il popolo nell’ignoranza dei propri diritti, fu privata di ogni possibilità di intervento sul piano religioso e sociale a favore della popolazione.

Ovviamente questa era una campagna di menzogne fatte circolare ad arte in certi ambienti per privare la popolazione di un supporto istituzionale sicuro.

Mai menzogna nel mio paese fu più ignobile di questa, in quanto i cattolici erano i più attivi nel paese. Il vivace laicato messicano aveva elaborato ambiziosi programmi di sviluppo ispirandosi all’enciclica «Rerum Novarum» di papa Leone XIII; inoltre c’erano associazioni di mutuo soccorso, patronati di beneficenza e una miriade di gruppi che si prendevano cura dei giovani e dei più poveri. C’erano anche molte cornoperative sociali, per aiutare i più bisognosi.

Ma tutto ciò non fu sufficiente a fermare la crudeltà di chi aveva preso il potere.

Certo che no. La requisizione dei beni fu accompagnata da uno spietato controllo poliziesco che impediva ogni forma di manifestazione religiosa pubblica o privata. Questo spinse prima pochi gruppi di persone, poi interi villaggi a darsi alla macchia per conservare gli ideali e i principi religiosi che da secoli caratterizzavano il popolo messicano.

Nasceva così la «Cristiada», una resistenza armata per difendere la Chiesa e i cristiani.

Questi rebeldes, come venivano definiti dal potere massonico, erano in gran parte contadini, ma tra le loro fila vi erano anche operai, impiegati, funzionari, avvocati, studenti e altra gente di città. La lotta era sostenuta, nelle aree urbane, anche da una resistenza passiva che ricorreva a boicottaggi, foiva false informazioni alle truppe federali e, nel contempo, cercava di far continuare la vita sacramentale, come era già avvenuto in passato nell’Inghilterra anglicana e, solo pochi anni prima, nella Russia sovietica.

Quale ruolo ebbero le donne in questa insurrezione?

Migliaia di donne, inquadrate nelle brigate di Santa Giovanna d’Arco, sfidando ogni sorta di pericolo, procuravano munizioni ai Cristeros i quali, lungo gli anni, erano cresciuti di numero arrivando a essere quasi cinquantamila combattenti. A causa dell’assenza dei loro uomini dai villaggi, erano loro a portare avanti il lavoro nei campi, a organizzare incontri di preghiera e a provvedere in ogni modo all’educazione dei figli.

Cosa ha contribuito a far sì che i Cristeros diventassero un’armata capace di tenere in scacco l’esercito regolare?

Enrique Gorostieta, un generale che si definiva ateo ma affascinato dall’ideale dei Cristeros, si era unito ai ribelli e in breve ne era diventato il comandante. Grazie alla sua capacità professionale i Cristeros non persero più una battaglia, sconfiggendo l’esercito federale dovunque, e tenendolo in scacco per anni, nonostante che quest’ultimo godesse di un massiccio appoggio economico e logistico da parte delle logge massoniche degli Stati Uniti.

Una guerra, anche se di difesa, comunque provoca sofferenze, lutti e distruzione.

La prova che il Messico ebbe ad affrontare fu devastante sotto ogni aspetto, il paese restò diviso tra zone controllate dai Cristeros e zone controllate dai Federali. L’economia crollò, i morti furono decine e decine di migliaia, gli storici parlano di circa centomila vittime, contando anche coloro che morirono di malattie e di fame nei campi di prigionia.

La festa religiosa di Cristo Re era stata istituita da Pio XI nel 1925. «Viva Cristo Re» fu il grido che gli insorti adottarono per sostenersi a vicenda nei conflitti che ebbero con i federali.

Il grido di «Viva Cristo Re» si udiva sempre più frequentemente e nella comunità cristiana lo si ripeteva in continuazione. Insieme a questa invocazione si gridava anche «Viva la Vergine di Guadalupe», con ciò si riaffermava la divinità di Cristo Re dell’Universo e ci si poneva con fiducia sotto la protezione della «Morenita» (così il popolo messicano chiama la Madonna di Guadalupe).

La guerra della «Cristiada», con i suoi morti, i suoi martiri e i suoi umili eroi, è poco conosciuta anche in America Latina, al di fuori del Messico è pressoché ignorata.

È vero. Eppure siamo di fronte al caso eclatante di un esercito che vince tutte le battaglie ma perde la guerra perché depone le armi su richiesta dei propri vescovi, e di riflesso della Santa Sede, che volevano evitare un ulteriore bagno di sangue specialmente alla popolazione inerme ed innocente. Non furono le armi a sconfiggere i Cristeros, ma la diplomazia internazionale con gli Arreglos (accordi) del ’29, che ponevano fine agli eventi bellici: la Chiesa accettava pesanti limitazioni pur di mantenere la libertà della pratica religiosa.

I cristiani messicani diedero una bella testimonianza di fede nonostante l’uragano antireligioso che si era abbattuto sul tuo paese.

Nella tormenta di quegli anni il Signore fece emergere persone meravigliose. Voglio ricordare in particolare un adolescente di appena 14 anni: José Luis Sanchez Del Rio, che si unì ai Cristeros diventandone il loro portabandiera. Nel corso di una battaglia il piccolo Josè cedette la propria cavalcatura al generale Luis Guizar Morfin perché si mettesse in salvo dicendogli: «La vostra vita è più utile della mia». Catturato dai federali non gli fu fatto nessun processo ma si accanirono su di lui percuotendolo e seviziandolo, gli spellarono le piante dei piedi, lo fecero camminare sul sale e lo condussero al cimitero, dove esasperati dalle sue continue grida:« «Viva Cristo Re», lo uccisero con un colpo di pistola.

Stessa sorte toccata anche a te o sbaglio?

Nato nel 1891, nel 1911 ero entrato nella Compagnia di Gesù. Inviato a completare gli studi in Belgio, fui ordinato sacerdote nel 1925. Venuto a conoscenza di quanto stava succedendo nella mia patria, chiesi ai miei superiori di tornare in Messico. Una volta rientrato iniziai a svolgere clandestinamente un’intensa attività assistenziale e pastorale, celebrando la Messa nelle case private e portando l’Eucaristia di nascosto agli ammalati e a coloro che me lo chiedevano (a volte oltre 500 al giorno). La mia allegria e la mia chitarra mi aprivano molte porte. Ero anche l’animatore spirituale della Liga Nacional para la Defensa de las Libertades Religiosas, una delle tante organizzazioni nate tra il popolo per resistere alla repressione anticattolica.

E quando ti scoprirono, che successe?

Nel 1927 venni arrestato con la falsa accusa di aver partecipato a un attentato contro il generale Alvaro Obregón, candidato alla presidenza repubblicana. Ignorando tutte le testimonianze in favore della mia innocenza e senza farmi nessun processo, il 23 novembre 1927 mi portarono davanti ad un plotone di esecuzione insieme a mio fratello Humberto. Mentre i soldati scaricavano su di me il piombo dei loro fucili, consegnavo il mio corpo all’amata terra messicana e rendevo la mia anima a Dio gridando: «Viva Cristo Re».

 

Il 20 novembre 2005 papa Benedetto XVI ha beatificato sia il piccolo José Luis Sanchez Del Rio che padre Miguel Agustin Pro insieme ad altri 11 martiri di quella persecuzione decisa a estirpare il cattolicesimo dal Messico. Oggi possiamo dire che se quel paese è rimasto cattolico lo deve in gran parte a quegli umili, piccoli-grandi eroi, che sacrificarono la vita per la causa del Vangelo e per il diritto alla libertà religiosa. Va detto che gli Arreglos, ovvero gli accordi tra lo Stato Federale Messicano e la Chiesa Cattolica, posero fine alla lotta armata ma non alle malversazioni che il governo centrale continuò a esercitare sulla Chiesa e i suoi fedeli. I Cristeros che fecero ritorno alle loro case, una volta disarmati, subirono numerose e feroci vendette dai militari federali nonostante le garanzie verbali di incolumità loro promesse. Morirono più Cristeros dopo gli accordi che durante la guerra. Vi fu una caccia all’uomo spietata, la repressione andò avanti in forma surrettizia fino alla fine degli anni ’30 e la Costituzione messicana con risvolti anticlericali rimase in vigore fino al 1992.

Quando Papa Wojtyla si recò a Puebla nel 1979, per aprire i lavori dell’Assemblea dell’Episcopato dei paesi latinoamericani, fu accolto dalle autorità messicane come «Signor Wojtyla», ma il calore entusiastico della gente semplice, che Giovanni Paolo II sperimentò lungo le strade del Messico, fece capire al Papa e al mondo intero che il sacrificio dei Cristeros non era stato consumato invano.

Don Mario Bandera, Missio Novara

 Video e films.