I Perdenti 44. Rosario Livatino, il «giudice ragazzino»

Testo di Don Mario Bandera


La mattina del 21 settembre 1990 il giudice Rosario Livatino venne ucciso lungo la strada statale 640 che da Agrigento porta a Caltanissetta. La sua auto venne speronata e spinta fuori strada. Il giovane giudice, già ferito a una spalla, tentò la fuga correndo per i campi, ma venne raggiunto e poi ucciso con un colpo di pistola in pieno viso.

Livatino aveva solo 38 anni, era nato a Canicattì il 3 ottobre 1952. Durante gli anni del liceo e poi dell’università era stato uno studente brillante, negli studi aveva seguito le orme del padre Vincenzo. Si era laureato con lode all’età di 22 anni, giovanissimo, presso la facoltà di Giurisprudenza all’università di Palermo. Poco tempo dopo vinse il concorso indetto dalla magistratura, pertanto divenne giudice a latere presso il tribunale di Agrigento.

Alcuni mesi dopo la morte del giovane giudice, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga definì «giudici ragazzini» una serie di giovani magistrati impegnati nella lotta alla mafia. Anni dopo, in una lettera alla famiglia, Cossiga provò a circostanziare quelle affermazioni, scrivendo che non intendeva riferirsi a Livatino, che descrisse come «eroe» e «santo». Papa Giovanni Paolo II lo definì «martire della giustizia e, indirettamente, della fede».

La sua esecuzione fu un’azione coordinata da un commando formato da quattro malviventi ventenni appartenenti alla cosiddetta «Stidda», ovvero l’associazione mafiosa che, secondo i magistrati, si contrapponeva a Cosa Nostra.

Il giudice Livatino fu ucciso perché «perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbero aspettate dalle istituzioni un trattamento più “morbido”, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno debole, (atteggiamento) che ha consentito in molti casi la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia».

Così è scritto nella sentenza che ha condannato i suoi assassini. Dell’omicidio del giudice, furono individuati dalle forze dell’ordine gli esecutori e i mandanti e condannati all’ergastolo. Il processo di beatificazione avviato dalla diocesi di Agrigento è stato aperto ufficialmente il 21 settembre 2011, nel 21° anniversario della sua morte.

Caro giudice Livatino, di fronte alla testimonianza di vita che tu hai offerto attraverso il tuo percorso umano e professionale esemplare, c’è da rimanere ammirati e stupiti.

Io mi muovevo sostenuto da alcuni principi fondamentali, acquisiti soprattutto nella mia famiglia, che stavano alla base del mio impegno in magistratura. Ero convinto che «rendere giustizia è preghiera» e che «per giudicare occorre la luce, e nessun uomo è luce assoluta».

Per te era chiaro che l’indipendenza del giudice stava sia in una coscienza rettamente formata che nella fedele interpretazione della legge.

Avevo ben chiaro che la funzione di un giudice doveva avere come base una cristallina libertà morale, una ferrea fedeltà ai principi della Costituzione, una grande capacità di sacrificio, buona conoscenza dell’immenso patrimonio legislativo, chiarezza e linearità nelle decisioni da prendere, oltre a un’autentica trasparenza di condotta anche fuori delle aule giudiziarie.

Vedevi la funzione del giudice quasi in ottica «francescana».

Soprattutto avevo ben chiaro che assumendo una funzione così importante nella vita pubblica e sociale dovevo rinunciare a ogni desiderio di incarichi e prebende. Specie in un settore che, per sua natura o per le sue implicazioni, può produrre il germe della contaminazione e il pericolo dell’interferenza. In fondo è nella sua indipendenza e onestà che un giudice guadagna la sua credibilità, che deve conquistare nel travaglio delle sue decisioni e in ogni momento della sua attività.

È risaputo che non facevi nulla per nascondere la tua fede religiosa. Il tuo essere cristiano cattolico, coerente e praticante, era visto come testimonianza di una persona che non aveva paura di mostrare in pubblico quello che era il tesoro prezioso che portava in cuore.

Il dono della fede che mi portavo in cuore mi aiutava a leggere la realtà con occhi diversi. Questo anche nella prassi quotidiana dove non mi accontentavo di risposte tradizionali o superficiali ai grandi problemi che la mia professione continuamente mi poneva davanti, ma cercavo incessantemente il senso sia dell’esistenza che dei valori insiti nella persona umana.

Non si spiegherebbe altrimenti la tua decisione di ricevere il sacramento della Confermazione nel 1988, a ben 36 anni.

Per compiere l’itinerario di preparazione al sacramento scelsi di inserirmi in un gruppo di ragazzi – futuri cresimandi – per ascoltare in assoluto anonimato, tutte le settimane, il catechismo che veniva dato per coloro che avrebbero ricevuto durante l’anno la Cresima.

In fondo non ti sei mai sentito un cristiano arrivato. Vivevi una continua ricerca di assoluto, eri un cristiano che voleva spingersi sempre
oltre, andare al di là dei confini spirituali, considerati «tranquillizzanti» per dei credenti «normali».

Il mio essere cristiano cattolico me lo sono conquistato pezzo per pezzo, perché a mano a mano che proseguivo la mia ricerca, mi rendevo conto che cattolici cristiani si diventa, non si nasce. L’essenza dell’esperienza di fede, che è conquista, lotta e cammino, può diventare un formidabile programma di vita per un vero credente.

Come magistrato hai dovuto prendere decisioni che influivano in maniera decisiva sulla vita delle persone che eri chiamato a giudicare, come ti orientavi in queste circostanze?

Decidere è scegliere e, a volte, scegliere tenendo presente le numerose strade o soluzioni che hai davanti. Scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione totale a Dio. Un rapporto indiretto con la trascendenza per il tramite dell’amore verso la persona giudicata.

«Amore per la persona giudicata», sono parole tue. Sono parole da leggere e rileggere, da pesare in tutta la loro dirompente forza rivoluzionaria.

L’unica forma di vero autentico amore possibile è quella cristiana, l’unica che rovescia i ruoli, come quello di chi giudica, e quindi ha il potere, e di chi deve essere giudicato. Il punto di vista da cui si guardano le cose e gli avvenimenti della cronaca quotidiana è, per un cristiano, quello da cui le guarda Dio. Quello di un padre, appunto, che tutto ha fatto e tutto ama.

In questa affermazione possiamo riscontrare il tuo rifiuto di avere una scorta fissa al tuo fianco nonostante le numerose minacce che ti erano arrivate dagli ambienti mafiosi?

Non mi sentivo per niente un eroe, facevo semplicemente il mio dovere. E lo facevo coniugando le ragioni della giustizia con quelle della fede cristiana. Il mio senso del dovere, messo al servizio della giustizia faceva di me una specie di missionario: il «missionario» del diritto, così mi chiamavano alcuni colleghi. Allo stesso tempo, per la profonda conoscenza che avevo del fenomeno mafioso e per la capacità di ricreare trame, di stabilire importanti nessi all’interno della complessa macchina investigativa, con il passare del tempo mi venivano affidate delle inchieste molto delicate.

Determinato a contrastare il fenomeno mafioso nella tua terra, firmavi sentenze su sentenze contro gli uomini di Cosa Nostra, in questo modo entravi sempre più nel loro mirino.

Sapevo molto bene i rischi che correvo, ma considerando che ero l’unico tra i sostituti procuratori di Agrigento a non avere famiglia, chiesi che mi fosse affidata una difficile inchiesta di mafia e con fiducia totale mi affidai – come sempre – nelle mani di Dio.

Il giudice Livatino nell’aula delle udienze aveva voluto un crocefisso, come richiamo di carità e rettitudine. Inoltre teneva un crocefisso anche sul suo tavolo, insieme a una copia del Vangelo, tutto annotato: segno che doveva frequentarlo piuttosto spesso, almeno quanto i codici, strumenti quotidiani del suo lavoro. Su ogni pagina della sua agenda, in alto, in un angolino scriveva «std» che stava a significare «sub tutela Dei» affidando così ogni giorno della sua vita alla protezione di Dio.

Il suo sincero senso del dovere messo al servizio della giustizia ne fa una specie di missionario: il «missionario del diritto».

Il giorno in cui fu ucciso il giudice era da solo, aveva rifiutato la scorta proprio perché voleva proteggere altre vite, e viaggiava a bordo della sua Ford Fiesta rossa. Stava andando al lavoro, al tribunale di Agrigento, quando fu affiancato dall’auto e dalla moto dei suoi assassini.

Rosario Livatino è diventato per tutti gli italiani un «faro ed esempio da seguire» per aver «scoperto e indagato sugli intrecci tra mafia, politica e imprenditoria». In uno dei suoi appunti aveva scritto: «Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili».

Don Mario Bandera




I Perdenti 43. Sitting Bull,

il capo «Toro Seduto»

Testo di don Mario Bandera


Toro Seduto nasce nel 1831 in un villaggio Sioux situato sulle sponde del fiume Grand River, uno dei corsi d’acqua che attraversa l’immensa prateria nordamericana. Il suo nome nella versione lakota, sua lingua madre, è declinato Ta-Tanka I-Yotank (letteralmente: bisonte seduto). Toro Seduto è la traduzione italiana dell’inglese Sitting Bull, nome affibbiatogli dai colonizzatori europei del Nord America. I Sioux sono una confederazione di gruppi di popoli indigeni amici e alleati, detti anche Lakota (parola che significa «alleanza di amici»).

A quattordici anni Sitting Bull prende parte a una spedizione di guerra durante la quale ha modo di conoscere i guerrieri Crow. Nel corso di un conflitto, si guadagna una penna di aquila bianca per aver sconfitto un guerriero avversario. È da quel momento che acquisisce il nome di Toro Seduto. Nel 1851 si sposa con Capelli Lucenti, che sei anni più tardi gli dà un figlio. La donna, però, muore durante il parto, e anche il bambino morirà poco dopo a causa di una grave malattia. Dopo la morte del figlio, quindi, egli decide di adottare un suo nipote. Nel frattempo, si guadagna la fama di «uomo saggio, o sant’uomo». Pur non essendo uomo di medicina, impara le arti di guarigione usando erbe medicinali. Diventa membro dell’Heyoka (società che include coloro che praticano la danza della pioggia) e della Buffalo Society (connessa con la caccia al bufalo), ma egli si fa apprezzare soprattutto come valoroso guerriero. Il 17 agosto del 1862, nello stato del Minnesota esplode un conflitto tra i coloni (i wasichu nome lakota che indica tutti i non Sioux, anche gli africani, ndr) e cacciatori Sioux, che si conclude con la sconfitta di questi ultimi: alcuni di essi si rifugiano lungo il fiume Missouri, dove vengono raggiunti da guerrieri della tribù degli Hunkpapa. A dispetto dei rinforzi ricevuti, le battaglie di Dead Bufalo Lake (lago del buffalo morto, ndr), del 26 luglio 1863, e di Stony Lake, che avviene due giorni più tardi (battaglie alle quali Toro Seduto partecipa), si concludono con la sconfitta dei Sioux da parte del colonnello Henry Sibley. L’esercito degli Stati Uniti prevale anche nella battaglia di Whitestone Hill, del 3 settembre, catturando decine di Sioux e uccidendone almeno un centinaio. L’anno successivo i Sioux, compresi Toro Seduto e suo nipote Toro Bianco, durante uno scontro con l’esercito degli Stati Uniti, occupano l’area ai piedi delle Monti Killdeer (ammazza cervo, ndr). In quel luogo il 28 luglio del 1864 c’è una battaglia che vede una nuova sconfitta dei Sioux e conseguentemente la perdita dei loro territori e della loro indipendenza in quanto vengono relegati nelle riserve loro assegnate.

 

Nei mesi seguenti alla vostra sconfitta dell’estate 1864, convincesti i tuoi compagni a tornare alle armi, e dopo aver dichiarato nuovamente guerra ai coloni invasori, incominciasti una micidiale guerriglia contro di loro.

Cercai di respingere le infiltrazioni dei Wasichu, con attacchi su Fort Buford, Fort Stevenson e Fort Berthold compiuti tra il 1865 e il 1868; quindi, accompagnai Nuvola Rossa, altro famoso capo Sioux che nel frattempo aveva ordinato di assaltare la contea di Powder River, nella regione settentrionale. Poco dopo, attaccai anche la linea ferroviaria del Pacifico Settentrionale, perché era cresciuta in noi e in tutte le tribù indiane del Nord America la convinzione che dovevamo contrastare con ogni mezzo l’avanzata dei coloni che stavano occupando gli immensi spazi delle nostre praterie per coltivare i loro prodotti agricoli, sottraendoli al pascolo per i bisonti, fonte indispensabile per la nostra alimentazione.

Toro Seduto con la famiglia nel 1881 a Fort Randall

In questo contesto, nel 1876, dimostrando un coraggio non indifferente, tu e i tuoi Sioux dichiaraste formalmente guerra agli Usa.

Dopo aver messo insieme più di tremila guerrieri, con gli altri capi Sioux, Nuvola Rossa e Cavallo Pazzo, affrontammo l’esercito degli Stati Uniti al comando del generale George Custer, e lo sconfiggemmo nella famosa battaglia di Little Bighorn.

Tu però non partecipasti alla battaglia.

Secondo un sogno che avevo fatto poco tempo prima, affidai il comando delle operazioni a Cavallo Pazzo, in quanto a tattica e strategia militare era il più esperto di tutti noi.

Nonostante ciò ti accusarono di aver provocato il massacro dei soldati degli Stati Uniti e quindi fu spiccato un mandato d’arresto nei tuoi confronti.

A quel punto decisi di non arrendermi, e nel maggio del 1877 mi trasferii, insieme alla mia gente, in Canada, nello stato del Saskatchewan, ai piedi della Wood Mountain: qui rimasi in esilio per anni, rifiutando l’opportunità di ritornare anche dopo che il presidente degli Stati Uniti mi aveva concesso il perdono per tutti i capi d’accusa che pendevano sul mio capo.

Solo i malanni e la fame ti convinsero a tornare negli Usa con i tuoi familiari e ad arrenderti.

Proprio così, ma anche i consigli di padre Martin Marty, un monaco benedettino che venne a visitarmi durante il mio esilio. Ritornai come perdente nella mia terra il 19 luglio del 1881. Il giorno dopo venni arrestato insieme con mio figlio Piede di Corvo. Il governo, comunque, mi concesse l’amnistia. Rendendomi conto che ero ormai incapace di condurre altre guerre, confidai ai militari statunitensi di nutrire nei loro confronti profonda ammirazione. Pochi giorni dopo, venni trasferito con altri Sioux e con mio figlio nella riserva indiana di Standing Rock, a Fort Yates.

Pur essendo confinato nella riserva indiana, nel 1883 ti fu concesso di aggregarti al famoso Circo Barnum dove in poco tempo diventasti un’attrazione del «Wild West Show» di Buffalo Bill, avendo così anche l’occasione di viaggiare in America e in Europa.

Nelle performance degli spettacoli del circo mi calavo nel ruolo di narratore di storie che avevano come protagonisti gli uomini bianchi e i nativi americani e come scenario l’imponente magnificenza delle grandi pianure americane, nei miei discorsi invitavo il pubblico a indurre i giovani a favorire il dialogo e le relazioni tra indiani nativi e coloni bianchi.

La tua permanenza nel circo Barnum durò quattro mesi e diventasti una celebrità sia a livello europeo che americano. Terminata l’esperienza del circo, tornasti fra la tua gente non prima di aver regalato i soldi guadagnati ai poveri e ai bisognosi della tua tribù.

Vero, anche se non era una gran cosa. Mi davano cinquanta dollari alla settimana, una bella paga per allora, ma i soldi che ho preso sarebbero bastati solo per comperare cinque bei cavalli.

Dopo aver visto cambiare il mondo e soprattutto l’avanzare di un nuovo tipo di civiltà che modificava radicalmente lo stile di vita dei popoli indigeni americani, decisi di ritornare a casa per trascorrere una vecchiaia serena insieme alla mia famiglia e a tutti i membri della mia comunità.

Toro Seduto e Buffalo Bill a Montreal, 1885

Il ritorno a Standing Rock, però, viene poco tempo dopo seguito dal suo arresto, eseguito dalle autorità dell’Agenzia Indiana preoccupate che potesse fuggire. Negli scontri che seguirono, Toro Seduto venne assassinato insieme con suo figlio Piede di Corvo. Il 15 dicembre 1890 padre e figlio morirono sotto i colpi di pistola di alcuni membri del comando che li doveva arrestare. Il corpo di Toro Seduto venne sepolto a Fort Yates, ma nel 1953 la sua salma fu riesumata e spostata a Mobridge, località in cui il leggendario capo indiano aveva passato gli anni della sua gioventù. A tutt’oggi essa è meta incessante di uomini e donne di ogni colore e provenienza che vanno a pregare sulla sua tomba e a rendergli omaggio per i valori umani che seppe incarnare nella sua vita.

Don Mario Bandera

Nota:

La foto di Toro Seduto con il crocifisso al collo ha fatto sorgere molte domande. Era battezzato, era cattolico? Chi gli ha dato la croce? Di certo si sà che per anni è stato in contatto con i missionari gesuiti, conosciuti dagli indigeni come «tonache nere». Il crocifisso che porta al collo nella foto scattata a Bismark, la capitale del territorio lakota nel 1885 da David F. Barry, è tipico dei gesuiti con un teschio ai piedi della croce. Forse gli fu dato da padre Pierre-Jean De Smet (1801-1873) con il quale si era incontrato per la prima volta il 19 giugno 1868 lungo il fiume Powder. Ma si pensa anche che possa essere stato un dono di padre Martin Marty (1834-1896), un benedettino che visitò Toro Seduto durante l’esilio in Canada e poi diventò il primo vescovo del Dakota nel 1889. Pur legato ai missionari cattolici, è abbastanza sicuro che Toro Seduto non fu mai battezzato perché questo gli avrebbe richiesto l’abbandono di una delle sue due mogli.




I Perdenti 42. I «Niños mártires de Tlaxcala»: Cristóbal, Antonio e Juan

Testo di don Mario Bandera |


Tre adolescenti indigeni del popolo Azteco sono considerati i primi martiri cristiani del Messico e dell’intero continente americano. Essi sono: Cristóbal (nato nel 1514 o nel 1515 e ucciso nel 1527), Antonio e Juan (nati nel 1516 o nel 1517 e martirizzati nel 1529).

Cristóbal e Antonio erano di ascendenze nobili, appartenevano alle famiglie di due «cacicchi» (capi indigeni tradizionali), mentre Juan era di una famiglia di servitori nella casa del padre di Antonio. I tre ragazzi si erano avvicinati alla fede cristiana frequentando la scuola dei missionari e staccandosi gradualmente dalle tradizioni dei loro avi. Essi accolsero con gioia la nuova fede e aiutarono anche i missionari a distruggere le statue degli idoli locali, ai quali venivano offerti cruenti sacrifici umani. Per questo furono puniti e perseguitati a morte dai componenti della loro comunità, aizzati dai sacerdoti della religione tradizionale che non accettavano la presenza di una fede diversa da quella praticata dalle popolazioni precolombiane. Cristóbal morì nel 1527, mentre Antonio e Juan vennero uccisi due anni dopo.

Tutti e tre sono considerati i protomartiri del continente americano. Papa Giovanni Paolo II li ha beatificati il 6 maggio 1990; mentre papa Francesco li ha canonizzati il 15 ottobre 2017. A questi intrepidi adolescenti abbiamo rivolto alcune domande, a nome loro risponde Cristóbal.

Che cosa vi ha attratto così visceralmente alla fede in Cristo Gesù, tanto da abbandonare quasi subito la fede dei vostri avi?

La cosa che più ci colpì della nuova fede religiosa arrivata nei nostri villaggi, proclamata dai missionari francescani, fu il constatare che il cardine del loro annuncio, Gesù Cristo il figlio di Dio, aveva offerto la sua vita per la salvezza di tutti gli uomini di qualunque popolo, tramite la sua morte in croce. Invece le nostre divinità erano assetate di sangue, tanto da spingere i nostri sacerdoti a offrire loro in sacrificio un certo numero di giovani e fanciulle come gesto di sottomissione da compiersi in alcuni periodi dell’anno.

Tlaxcala city. Palacio de Gobierno, murale dedicato ai protomartiri

Se ben capisco, voi siete rimasti impressionati dal fatto che nella verità della fede cristiana è il Figlio di Dio che versa il suo sangue per salvare l’umanità, mentre per le divinità degli Aztechi sono le persone del popolo che devono offrire il loro per rendere un culto veritiero.

I nostri sacerdoti passavano di villaggio in villaggio cercando giovinetti di bella presenza e fanciulle di ottimo aspetto da offrire in sacrificio. Voi capite che nella nostra cultura millenaria, non obbedire a questi comandi che ci venivano rivolti dalla classe sacerdotale, significava attirare la maledizione degli dei su tutta la comunità. Pertanto, anche se questo stato di cose era per la nostra gente un enorme sacrificio, offrire un componente della propria famiglia per le divinità era considerato un grande onore.

Voi però, dopo l’incontro con Cristo, non la pensavate più così.

Essendo io figlio ed erede del principale “cacico” della nostra zona, insieme ai miei fratelli e amici cominciai a frequentare la scuola dei missionari francescani. Mi si aprirono orizzonti nuovi e fui anche istruito nella fede cattolica.

Fu allora che prendesti la decisione di chiedere il battesimo e di ricevere nel contempo il nuovo nome di Cristóbal (portatore di Cristo)?

Proprio così, gradualmente il mio modo di pensare e di agire come quello dei miei amici – a mano a mano che ci addentravamo nella conoscenza della nuova fede – cominciava a trasformarsi. Volevamo far capire alla nostra gente che era necessario distruggere i templi pagani e le statuette dei vari idoli e abbracciare la nuova fede portata nelle nostre terre dai missionari francescani e domenicani.

La vostra testimonianza si colloca tra il 1527 e il 1529, quindi pochi decenni dopo la cosiddetta scoperta (in realtà «conquista») del Nuovo Mondo e il conseguente inizio dell’evangelizzazione di quel continente.

L’inizio dell’evangelizzazione nella nostra realtà bisogna inquadrarlo nel contesto storico e nello stile adottato da quei primi missionari, i quali avanzando di pari passo con i conquistatori spagnoli, raccoglievano conversioni per la capacità che avevano nel presentare un Dio la cui caratteristica principale era l’amore per tutti gli uomini e verso il quale non bisognava offrire nessun tipo di sacrificio umano cruento. È vero che in alcuni casi ci furono delle forzature, ma in generale l’adesione alla nuova fede fu rapida e spontanea.

Bisogna dare atto che i missionari provenienti in gran parte dalla Spagna seppero agire con duttilità e intelligenza di fronte alla nuova realtà con la quale erano venuti in contatto.

I Francescani e i Domenicani incominciarono da subito ad impegnarsi con passione e costanza per la promozione umana dei più poveri della nostra gente, degli “Indios” (come preferivano chiamarli loro, convinti com’erano di essere sbarcati in India).

Soprattutto colpì la nostra immaginazione, il fatto che in nome di Cristo difendevano la vita degli appartenenti al nostro popolo (specialmente dei più poveri) dalla casta dei sacerdoti aztechi che erano incessantemente alla ricerca di ragazzi e fanciulle da sacrificare ai loro dei.

Allo stesso tempo non avevano paura di utilizzare mezzi drastici, come la distruzione dei templi, delle statue e raffigurazioni degli idoli pagani, per sradicare una religione ritenuta ottusa e sanguinaria?

Vero, questo loro modo di fare influì anche su di noi, io stesso volendo convertire mio padre, distrussi tutte le statuette degli idoli che tenevamo in casa.

Questo atteggiamento segnò così la tua fine, ovvero il tuo martirio.

Per quel fatto mio padre mi bastonò senza pietà tanto da rompermi braccia e gambe, e poi mi gettò nel fuoco e mi bruciò vivo, quasi come un sacrificio riparatore ai suoi idoli.

Alcuni giorni dopo la stessa fine toccò a mia mamma che aveva tentato di difendermi da tanta violenza.

Per concludere il nostro colloquio dicci due parole sui tuoi amici Antonio e Juan.

Essi nacquero tra il 1516 e il 1517 a Tizatlán (oggi Tlaxcala), Antonio era nipote ed erede del cacicco locale, mentre Juan, suo coetaneo e compagno di giochi, era il figlio di una famiglia di servi della casa. Ambedue frequentavano la scuola dei Francescani. Quando nel 1529 i missionari Domenicani decisero di fondare una missione ad Oaxaca, chiesero al direttore della scuola, di indicare loro alcuni ragazzi che potessero accompagnarli come interpreti presso gli Indios. Riuniti i ragazzi della scuola, venne fatta loro la richiesta avvisando che si trattava di un compito pericoloso. Subito si fecero avanti i tredicenni Antonio e Juan. Quando il gruppo arrivò a Tepeaca presso Puebla, i ragazzi aiutarono i missionari a raccogliere le statuette degli idoli pagani per distruggerli. Antonio era entrato in una casa e Juan era rimasto di guardia alla porta. Alcuni abitanti del villaggio, armati di bastoni, si avvicinarono e picchiarono Juan talmente forte da ucciderlo sul colpo. Antonio, accorso in suo aiuto, si rivolse agli aggressori: «Perché battete il mio compagno che non ha nessuna colpa? Sono io che raccolgo gli idoli, perché sono diabolici e non divini». Gli indigeni, nonostante avessero visto il lui il figlio di un nobile, percossero anche lui con i bastoni, finché morì. I corpi di Antonio e Juan furono poi gettati in una scarpata.

Il domenicano padre Bernardino li recuperò e li trasferì a Tepeaca, dove vennero sepolti in una cappella.

Niños Mártires de Tlaxcala

I primi martiri del Messico

Il sangue dei tre ragazzi messicani fu il primo seme della grandissima fioritura del cattolicesimo nel loro paese. Gli storici della Chiesa messicana li considerano protomartiri non solo del Messico, ma dell’intero continente americano; costituiscono quindi le primizie dell’evangelizzazione del Nuovo Mondo.

L’opera dei missionari si allargò: aprirono scuole, stamparono i primi testi catechistici in lingua locale, condivisero la vita e la povertà degli Indios, lavorando per la loro promozione umana.

Li difesero anche dai soprusi degli «encomenderos», ossia dai coloni spagnoli, perlopiù militari, autorizzati a riscuotere dagli indigeni tributi o in natura, o sotto forma di lavoro obbligatorio.

Il 7 dicembre 1982, la Congregazione delle Cause dei Santi diede il nulla osta per l’inizio del processo per la beatificazione di Cristóbal, Antonio e Juan. Il 21 giugno 1988 si riunirono i consultori storici della Congregazione delle cause dei Santi, mentre la «Positio super martyrio» fu consegnata nel 1989. La riunione dei consultori teologi, svolta il 24 novembre 1989, ebbe esito positivo, confermato dai cardinali e vescovi membri della Congregazione, il 6 febbraio 1990.

Il 3 marzo 1990 san Giovanni Paolo II autorizzò la promulgazione del decreto con cui i tre ragazzi venivano ufficialmente dichiarati martiri. Lo stesso Pontefice li beatificò il 6 maggio 1990 nella Basilica di Nostra Signora di Guadalupe a Città del Messico, fissando la loro memoria liturgica al 23 settembre. Insieme a loro fu elevato agli onori degli altari Juan Diego, il messaggero della Madonna di Guadalupe, loro contemporaneo.

Il 23 marzo 2017, ricevendo in udienza il cardinal Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, papa Francesco accolse i voti della Congregazione favorevoli alla canonizzazione dei tre martiri, senza bisogno di un ulteriore miracolo per loro intercessione. La loro canonizzazione fu celebrata e presieduta da lui domenica 15 ottobre 2017.

Don Mario Bandera

Clicca qui per vedere il video preparato in occasione della beatificazione




I Perdenti 41. I Santi Martiri Canadesi


Con il titolo «Santi Martiri Canadesi» veneriamo un gruppo di otto missionari francesi (sei sacerdoti e due religiosi professi) della Compagnia di Gesù, uccisi nelle aree a cavallo dell’attuale confine tra Canada e Usa dagli indigeni Irochesi mentre svolgevano il loro ministero presso gli Uroni tra il 1642 e il 1649.

Questi i nomi dei martiri:

  • fratel René Goupil (1608-1642);
  • padre Isaac Jogues (1607-1646);
  • fratel Jean de La Lande (1615-1646);
  • padre Antoine Daniel (1601-1648);
  • padre Jean de Brébeuf (1593-1649);
  • padre Gabriel Lalemant (1610-1649);
  • padre Charles Garnier (1605-1649);
  • padre Noel Chabanel (1613-1649).

Furono proclamati beati da papa Pio XI il 21 giugno 1925 e dichiarati santi dallo stesso pontefice il 29 giugno 1930. La loro memoria liturgica è il 19 ottobre.

Fu la devozione popolare a riunire in un unico gruppo gli otto missionari gesuiti martirizzati in quella che allora era chiamata la Nuova Francia (un territorio allora ancora largamente inesplorato) e a coniare per loro il nome di «martiri canadesi». La chiesa rispettò tale indicazione beatificandoli e canonizzandoli tutti insieme.

Tuttavia, questa denominazione non sarebbe la più esatta dal momento che i confini fra Stati Uniti e Canada non corrispondono più a quelli del XVII secolo. René Goupil, Isaac Jogues e Jean de La Lande, infatti, subirono il martirio nell’attuale territorio statunitense mentre gli altri cinque in quello canadese. Di conseguenza, negli Stati Uniti la denominazione più diffusa è quella di «martiri nordamericani» e talvolta addirittura «martiri americani». Del resto, gli stessi testi liturgici della loro commemorazione parlano di «borealibus Americae regionibus» (regioni boreali dell’America).

Per conoscere meglio la loro storia abbiamo parlato con padre Jean de Brébeuf, nato in Normandia, Francia, nel 1593 e ucciso presso il Lago Huron in Canada nel 1649.

Come mai tu e i tuoi giovani compagni gesuiti sceglieste di svolgere la vostra azione evangelizzatrice proprio in Canada?

Da seminaristi eravamo affascinati dai primi missionari che dopo aver vissuto per anni negli immensi territori del Nord America, ritornando in Europa, ci entusiasmavano con i loro racconti. Posti di fronte alla responsabilità del primo annuncio del Vangelo in terre sconosciute, pregando molto e facendoci coraggio l’un l’altro, chiedemmo ai nostri superiori di poter essere inviati nel continente americano. In quel territorio, che ai miei tempi era chiamato «Nuova Francia», come ardenti neofiti missionari volevamo portare la Buona Notizia del Vangelo ai popoli nativi.

Eravate coscienti dei pericoli ai quali andavate incontro, stabilendovi fra tribù indigene spesso in lotta fra di loro? È vero che alcuni di voi avevano lucidamente previsto, e in coscienza accettato, la probabile prospettiva del martirio?

È vero. Io stesso avevo fatto voto di non tirarmi indietro davanti al martirio. Fin dall’inizio eravamo preparati e attenti per annunziare il Vangelo nel pieno rispetto della cultura delle tribù locali: Algonchini, Uroni, Irochesi e altre.

Una volta stabiliti in Nordamerica, incominciammo a vivere con loro, imparando le loro lingue, i loro usi e costumi, dando testimonianza del vivere cristiano nella quotidianità di ogni giorno. Non esitammo un solo momento a mettere a rischio la nostra stessa vita per portare avanti questo compito che ci era stato assegnato. Era mio desiderio «farmi tutto a tutti per guadagnarli a Gesù Cristo», come dice san Paolo, conquistando il loro cuore.

Ero più che mai convinto che Gesù Cristo fosse la nostra vera grandezza. Perciò nel seguire quei popoli, dovevamo cercare solo Lui e la Sua Croce. Perché se avessimo cercato qualcos’altro, avremmo trovato solo afflizioni fisiche e spirituali. Ma se hai trovato Gesù Cristo e la Sua Croce, allora hai trovato le rose nelle spine, la dolcezza nell’amarezza, il tutto nel nulla.

Ma la tua prima esperienza in quelle terre fu breve.

Arrivai in quello che oggi è il Canada, nel 1625. Avevo 32 anni. Dopo un breve periodo di «apprendistato» con gli Algonchini, mi mandarono tra gli Uroni, che da tempo avevano buone relazioni con i francesi con i quali avevano intensi scambi commerciali.

Rimasi con loro fino al 1629 imparando la loro lingua e costumi. Fu un periodo di grande impegno. Imparai bene la loro lingua tanto da scrivere un dizionario per aiutare gli altri missionari. Scrissi anche un catechismo. Quei due testi sono diventati una delle poche testimonianze rimaste della lingua e cultura degli Uroni dopo il loro annientamento avvenuto qualche decennio più tardi.

Fui poi richiamato a Québec per un nuovo incarico.

Proprio quando la città di Québec e la colonia francese furono occupate dagli inglesi e i missionari cattolici a malincuore dovettero lasciare il Canada e ritornare in patria.

Infatti. Anch’io fui rispedito in Francia quando, nel 1629, gli inglesi conquistarono la città con un colpo di mano. Però, dopo un accordo di pace con l’Inghilterra (nel 1632), la Francia riebbe quella parte del Canada e anche i Gesuiti ritornarono nelle loro missioni. Rientrai nel 1633 e fui mandato fra gli Uroni per condividere la loro esistenza molto semplice e continuare così l’opera di evangelizzazione appena abbozzata.

Se non vado errato tra il 1634 e il 1639 ci furono violente epidemie di vaiolo, dissenteria e influenza che colpirono voi e decimarono la popolazione locale.

Noi missionari fummo i primi a essere colpiti da quelle malattie portate dall’Europa. Anche se privi di forze, debilitati e convalescenti, ci demmo da fare in ogni modo per aiutare tutti, nonostante l’avversità degli stregoni, che ci ritenevano responsabili dell’epidemia e aizzavano la gente contro di noi.

Va detto che avevano tutte le ragioni per accusarci, ma in quel tempo nessuno sapeva che eravamo noi stessi i portatori di quelle malattie che erano completamente sconosciute agli indigeni, malattie che si diffusero rapidamente tra gli Uroni causando moltissimi morti e decimando la popolazione.

E tu come vivesti quegli eventi?

Quello fu uno dei momenti più difficili della mia vita missionaria. Da parte mia sopportavo con infinita pazienza, e sempre con il sorriso sulle labbra, gli insulti, le offese, le botte e le ferite che gli Uroni mi infliggevano, aizzati dai loro stregoni. Lungo le giornate cercavo di essere sempre il primo per svolgere i compiti più gravosi, mi alzavo la mattina presto per accendere il fuoco che sarebbe poi stato utilizzato dalle diverse famiglie nelle loro tende, così come alla fine della giornata mi coricavo per ultimo dopo essermi assicurato che nel villaggio tutto fosse in ordine. Ma fu molto duro, e più volte corremmo il rischio che la missione fosse distrutta.

Nonostante l’ostilità degli stregoni e le calunnie nei vostri confronti, voi continuaste la vostra presenza nella confederazione delle tribù degli Uroni.

Dopo le epidemie noi continuammo e intensificammo la nostra presenza tra gli Uroni e fondammo nuove missioni, intraprendendo viaggi avventurosi e rischiosi sia per l’ostilità degli «uomini medicina» (che noi spesso liquidiamo come stregoni) che per le razzie degli Irochesi. Durante uno di questi viaggi ebbi una brutta caduta sul ghiaccio e così fui costretto a restare nella missione centrale a Québec dove mi diedero il compito di coordinare i rifornimenti. Impegno non facile perché spesso i nostri convogli venivano attaccati e depredati da razziatori Irochesi, sempre più aggressivi, che rubavano i rifornimenti e le pellicce raccolte dagli Uroni. Sono nel 1644 potei tornare nelle terre degli Uroni a tempo pieno.

Ma quando le razzie degli Irochesi si trasformarono in una vera guerra contro gli Uroni, per voi cambiò tutto.

Negli anni 1647-48 tra le due popolazioni indigene scoppiò una vera e propria guerra «di sterminio», che terminò con l’annientamento quasi totale degli Uroni e di conseguenza con l’apparente annullamento della nostra opera missionaria.

Le guerre tribali non erano una novità tra i popoli di quelle regioni, ma quest’ultima fu particolarmente feroce per varie ragioni. Le tribù Irochesi (Mohawk, Cayuga, Oneida, Onondaga e Seneca) avevano stretti rapporti commerciali con gli Olandesi a cui vendevano soprattutto pellicce. Ma l’uccisione sconsiderata dei castori aveva portato alla loro quasi totale estinzione nei loro territori. Gli Irochesi, quindi, avevano bisogno di conquistare nuove aree per continuare i loro commerci. In più gli Olandesi, al contrario dei Francesi, non si facevano scrupolo a vendere armi da fuoco agli Irochesi, per cui questi, meglio armati e istigati dagli Olandesi e Inglesi (alleati e protestanti, che volevano mandare via i Francesi, competitori nella colonizzazione e per di più cattolici), ebbero facilmente la meglio sugli Uroni, con poche armi da fuoco e già decimati dalle epidemie che avevano dimezzato la popolazione.

Fu proprio nel contesto di questa sanguinosa guerra fra i due gruppi di tribù che si collocò la nostra storia con il conseguente sacrificio di noi Gesuiti francesi che, fatti prigionieri, fummo sottoposti ad prolungate e feroci sevizie, secondo l’uso degli Irochesi di torturare i loro nemici per ore e ore, a volte addirittura per giorni interi sino alla morte.

Il vostro eroismo nel sopportare le torture e nell’andare incontro alla morte pregando per i vostri torturatori, impressionò gli Irochesi, tanto che vi strapparono il cuore per mangiarlo e diventare partecipi del vostro coraggio.

Per voi questo è certo un risvolto macabro e disgustoso, ma se lo guardiamo dal punto di vista della storia della Missione possiamo dire che un po’ del cuore dei martiri restò davvero nell’anima degli Irochesi. Infatti, l’esperienza cristiana non si estinse completamente, anzi, nei decenni successivi, riprese vigore e fiorì di nuove opere, che dal sangue dei martiri traevano insostituibile linfa.

Il 16 marzo 1649 la nascente missione di sant’Ignazio fu assalita da oltre mille Irochesi che uccisero moltissimi Uroni, altri furono torturati senza pietà e un gran numero di donne e bambini furono rapiti per essere assimilati e schiavizzati nella tribù dei vincitori. Catturarono i padri De Brébeuf e Gabriel Lalemant. Strapparono loro le unghie e li legarono a un palo, con delle scuri incandescenti legate al collo che bruciarono loro il dorso e il petto, mentre una cintura di corteccia con pece e resina incendiate cingeva i loro fianchi. Li «battezzarono» con acqua bollente e trafissero con aste arroventate, strappando loro brandelli di carne e divorandola davanti ai loro occhi. I torturatori, infuriati perché padre Jean invece di gridare dal dolore continuava a pregare Dio, gli strapparono le labbra e la lingua, gli ruppero le mascelle, ficcandogli in gola tizzoni ardenti; poi finalmente sazi di tanta crudeltà, gli aprirono il petto e gli strapparono il cuore, lo mangiarono e ne bevvero il sangue, convinti – secondo le loro credenze – di assimilarne così il coraggio.

Con il passare degli anni l’evangelizzazione seminata da padre Jean de Brébeuf e dai suoi compagni, cominciò a dare i primi frutti, al punto che nel 1649, anno in cui egli fu ucciso, gli Uroni battezzati erano quasi settemila.

Come dicevano i cristiani dei primi secoli: «Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani», così il sacrificio dei martiri canadesi non fu inutile, perché nei decenni successivi, la comunità cattolica riprese vigore e si affermò saldamente in quei vasti territori, donando alla Chiesa altri santi come Kateri (Caterina) Tekakwitha (+1680).

Don Mario Bandera

 




I Perdenti 40.

Luz Long e Jesse Owens campioni nello sport e nella vita

Quel
che accadde in un caldo e afoso pomeriggio del 4 agosto 1936 all’Olympiastadion
di Berlino fu una cosa inimmaginabile per quei tempi in Germania, uno schiaffo
dato in pieno volto al regime nazista all’apice del suo potere: la conquista di
una medaglia d’oro da parte di un uomo di colore alle Olimpiadi che si tenevano
nella capitale dell’ideologia della supremazia della razza ariana su tutte le
altre, non solo in ambito sportivo, ma bensì in ogni aspetto del vivere sociale
e civile.

L’aspetto
più luminoso legato a quella data è la sincera amicizia fra l’atleta tedesco Luz
Long e il suo più forte avversario, lo statunitense afroamericano Jesse Owens,
nata sui campi di gara e consolidatasi nel tempo, a dimostrare che la rivalità
sportiva non si traduce sempre in feroce antagonismo, e che il valore di
un’amicizia si misura dalla sua capacità di sopravvivere al passare degli anni.
Tutto ciò trova valida conferma in una lettera di Long – ultima di una fitta
corrispondenza – spedita dal fronte della Seconda Guerra Mondiale al rivale
sportivo nonché amico fraterno: «Dopo la guerra, va’ in Germania, ritrova mio
figlio e parlagli di suo padre. Parlagli dell’epoca in cui la guerra non ci
separava e digli che le cose possono essere diverse fra gli uomini su questa
terra. Tuo fratello, Luz». Così scriveva Long, divenuto ufficiale della
Luftwaffe tedesca, a Owens che aveva appreso da poco la notizia della nascita
del suo primogenito.

Proprio
con il campione sportivo tedesco Luz Long vogliamo scambiare quattro
chiacchiere sulla loro straordinaria amicizia.

Jesse Owens in piena corsa alle Olimpiadi del 1936 a Berlino (Collection MNS)
Caro Luz, nonostante i tuoi meriti sportivi, anche tu sei stato reclutato
per l’esercito tedesco e mandato in prima linea a combattere…

Devo dire
che il mio status di atleta internazionale mi aveva risparmiato di prendere
parte al conflitto iniziato nel 1939, ma il capovolgimento delle sorti della
guerra richiamava al servizio del Reich tutti gli uomini validi, quindi anche
gli atleti sportivi di ogni disciplina.

Cosa accadde all’Olympiastadion di Berlino in quel lontano 4 agosto 1936?

Cominciamo
col dire che uno spettatore che prendeva posto nelle strutture sportive,
pianificate e costruite in quegli anni in Germania dall’architetto del regime
Albert Speer, rimaneva stupefatto per la loro imponenza ed eleganza. Era un
modo per infondere negli spettatori una forma di ammirazione e rispetto per il
potere nazista.

L’Olympiastadion era veramente così imponente?

Con
chiari richiami ai modelli architettonici dell’Antica Grecia, l’Olympiastadion,
poteva contenere oltre centodiecimila spettatori. Maestoso e immenso,
costituiva un’autentica «macchina di propaganda» messa in azione dal regime
nazista per ottenere un sempre più vasto consenso dal popolo tedesco attraverso
gli avvenimenti sportivi.

Possiamo dire quindi che una manifestazione sportiva come le Olimpiadi era
usata dal potere nazista come uno strumento di battaglia ideologica?

Hitler
intendeva servirsi delle Olimpiadi per dimostrare al mondo intero la supremazia
della razza ariana, di conseguenza l’atleta tedesco doveva corrispondere
all’immagine stereotipata: alto, biondo, prestante, carnagione chiara e occhi
azzurri.

Quindi tu rientravi pienamente nei canoni estetici voluti dal Fuhrer.

Sì.
Appartenevo fin dalla nascita alla patria tedesca, a quel tempo avevo ventitré
anni ed ero studente di legge all’Università di Lipsia. Dal punto di vista
sportivo, in precedenti gare avevo già superato per due volte consecutive nel
salto in lungo il record olimpico di 7,73 metri stabilito nel 1928 ad Amsterdam
dallo statunitense Edward Hamm.

Eri diventato anche il beniamino della nazione tedesca dopo esserti
classificato terzo ai campionati europei di atletica leggera, nel 1934.

Mi
rendevo conto che ero una pedina importante, nella scacchiera preparata da
Hitler per affermare il dominio sportivo germanico sul resto del mondo. Agli
occhi del Fuhrer le mie possibili affermazioni in campo atletico apparivano
quasi scontate e il dittatore si preparava a gustarle di fronte agli ospiti
provenienti da tutto il mondo.

Quante nazioni erano presenti a quelle Olimpiadi?

Parteciparono
ben quarantanove paesi, un numero record rispetto alle edizioni precedenti, che
tuttavia non teneva conto della forte discriminazione insita nell’evento
berlinese. Gli atleti ebrei tedeschi furono espulsi da tutte le discipline
sportive, mentre un destino già più felice toccò agli afroamericani, ai quali
fu concesso di gareggiare, anche se in numero ridotto. La squadra olimpica
americana presentava diciotto atleti di colore su 312 partecipanti, una
percentuale bassissima. Tra l’altro, quei diciotto subivano una pesante
discriminazione perfino in patria. Erano pochi, ma abituati alle privazioni,
forse per questo motivo ancor più desiderosi di riscattarsi. Tra loro spiccava
James Cleveland Owens, da tutti conosciuto come Jesse Owens.

Hitler come vedeva questi atleti di colore?

La
presenza degli afroamericani alle Olimpiadi di Berlino venne giustificata da
Hitler con sordido disprezzo: diceva che essendo loro dei «primitivi» potevano
vantare una costituzione robusta, perciò più adatta alla corsa. A rincarare
l’acredine fu il quotidiano della propaganda nazionalsocialista, diretto da
Joseph Goebbels, che definiva i neri come cittadini di seconda categoria degli
Stati Uniti.

In effetti, a ben guardare, anche nel loro paese non erano trattati molto
bene.

Basti
pensare che in quegli anni gli afroamericani erano costretti a sedere nella
parte posteriore dei bus pubblici e dovevano utilizzare gli ascensori di
servizio negli alberghi: la loro condanna era di essere confinati ai margini
della società. Il diritto di vivere non era loro precluso, eppure,
silenziosamente, veniva negata loro quella possibilità che si trova alla base
della libertà stessa: vivere come loro desideravano.

Nonostante ciò, il desiderio di affermarsi, di emergere nella società
civile come nello sport da parte degli afroamericani era molto sentito.

Proprio
così, e Jesse Owens, figlio di un povero agricoltore dell’Alabama, che a otto
anni lavorava già come inserviente per conquistare un posto un po’ più
dignitoso in quel mondo che lo voleva escludere, era deciso a tutto pur di
farcela.

Quale fu l’occasione che gli permise di «sfondare»?

Furono le
sue doti e le sue capacità atletiche a consentirgli di ottenere una borsa di
studio per la Ohio State University, dove incontrò Larry Snyder, uno dei
migliori coach in circolazione.

Con lui, Jesse cominciò ad affermarsi e a stabilire nuovi record.

Qualche tempo prima in Michigan, partecipando ad un
evento sportivo, vinse ben quattro gare in diverse discipline in un’ora e un
quarto. L’eccezionalità delle sue imprese sportive impressionò la Federazione
americana di Atletica Leggera che lo incluse nel gruppo di atleti da portare
alle Olimpiadi di Berlino.

Dove il nome di Jesse Owens divenne leggenda.

Il tre
agosto del 1936 conquistò la sua prima medaglia d’oro, quella della corsa dei
cento metri. Bisogna dire che i giudici tedeschi durante le gare lo presero
particolarmente di mira, infatti non esitarono a sollevare la bandierina rossa
per delle inezie durante le qualificazioni per il salto in lungo. Dopo due
salti nulli incombeva su di lui lo spettro dell’eliminazione. Jesse era dotato
di grande velocità, ma il suo stile rivelava imperfezioni, soprattutto se
confrontato con l’impeccabile hang style (sospensione nel salto) di altri
atleti.

Per Owens sembrava ormai preannunciarsi una sconfitta inevitabile.

Senza
contare che su di lui pesava duramente la fatica degli sforzi precedenti.
Rimaneva l’ultima possibilità nel salto in lungo, ma la giuria internazionale,
influenzata pesantemente dalle autorità naziste, era pronta a dichiararlo fuori
gioco senza troppi complimenti.

Jesse perciò si trovava di fronte all’ultimo salto valido per accedere alla
finale, quando qualcuno si avvicinò alle sue spalle. Eri proprio tu Luz,
l’atleta tedesco da cui tutti si attendevano una vittoria.

Mi
avvicinai a lui e gli sussurrai all’orecchio: «Uno come te dovrebbe essere in
grado di qualificarsi ad occhi chiusi», poi gli consigliai il punto di stacco
ideale per effettuare un salto valido indicandolo con un fazzoletto bianco
posato accanto alla pedana. Jesse non solo si qualificò per la finale, ma mi
superò ampiamente saltando ben 8,06 metri contro i miei 7 metri e 87
centimetri.

Jesse Owens saluta mentre riceve la medaglia d’oro per il salto in lungo.

Owens quel giorno vinse il suo secondo titolo olimpico, ricordiamo che tra tutti gli atleti di colore della squadra americana il migliore fu proprio lui, che il 3 agosto vinse la medaglia d’oro nei cento metri, il 4 agosto nel salto in lungo e il 5 agosto nei 200 metri e infine, il 9 agosto vinse la sua quarta medaglia d’oro nella staffetta 4×100 metri; questa era una gara a cui Owens non era nemmeno iscritto, ma partecipò dopo che la squadra americana decise di non far partecipare due atleti ebrei a causa delle pressioni dei nazisti. Il trionfo di Jesse Owens fu un vero scacco per Hitler che riponeva ogni speranza nei campioni di casa per una robusta affermazione tedesca nelle discipline sportive di atletica leggera. Si vociferò anche a lungo sulla reazione di Hitler alla mancata vittoria tedesca, gli attribuirono i comportamenti più disparati: come il fatto di essersi rifiutato di stringere la mano a Owens. Jesse, da perfetto galantuomo, smentì le versioni non veritiere, affermando di essere stato salutato, sebbene a distanza, dal Fuhrer. La vittoria alle Olimpiadi non procurò inizialmente molti benefici economici a Owens, quando tornò negli Stati Uniti dovette adattarsi a fare parecchi lavori umili per procurarsi da vivere, tra cui l’inserviente a una pompa di benzina.

Ignorato e snobbato (non si sa per quale ragione) dal presidente Franklin Delano Roosevelt, e dal suo successore Harry Truman, il primo vero riconoscimento per i suoi trionfi sportivi arrivò quarant’anni dopo, nel 1976 dal presidente Gerald Ford, che gli assegnò la Medaglia per la libertà, il più alto riconoscimento civile degli Stati Uniti. Jesse Owens si spense a 77 anni nella sua casa a Tucson, in Arizona, il 31 marzo 1980.

Don Mario Bandera




I Perdenti 39.

Le beate Carmelitane di Compiègne


Testo di Don Mario Bandera


Con la rivoluzione francese del 1789, e con i principi a essa connessi di «Libertà, uguaglianza, fraternità», si affermarono quei valori che, secondo i «lumi» della ragione, avrebbero dovuto cambiare la realtà delle cose non solo in Francia, ma nel mondo intero.

L’incidenza di questi valori, nella considerazione generale del popolo francese era fuori discussione ed era recepita con molta simpatia. Peccato che questi valori fossero affermati senza Dio e contro Dio, come se l’uomo fosse dio di se stesso. La «Dichiarazione dei diritti dell’uomo», promulgata a Parigi il 26 agosto 1789, si sarebbe rapidamente imposta nel mondo, ed ebbe come tragica conseguenza – fin dal suo inizio – la soppressione di tutti gli Ordini monastici e contemplativi (13 febbraio 1790) e la proibizione su tutto il territorio nazionale di ogni forma di vita consacrata. Infatti, secondo i rivoluzionari, non poteva essere un libero cittadino chi si consacrava a Dio con dei voti religiosi, perché sicuramente vi era stato costretto. Compito della nazione era quindi quello di liberarlo, e se, per caso, non voleva essere liberato, doveva essere eliminato. La nuova società doveva essere formata da uomini e donne liberi e uguali non soggetti a vincoli di nessun genere, a quelli religiosi in modo particolare. Come risposta, le priore di tre monasteri carmelitani francesi, a nome di tutti gli altri, inviarono all’Assemblea Nazionale il loro proclama: «Alla base dei nostri voti religiosi c’è la libertà più grande; nelle nostre case regna la più perfetta uguaglianza; noi confessiamo davanti a Dio che siamo davvero felici». Le autorità reagirono mandando nei loro conventi uno stuolo di ufficiali come liberatori.

Gli ufficiali della rivoluzione giunsero nel 1790 anche al Carmelo dell’Annunciazione di Compiègne, un paese a circa novanta km da Parigi, dove vivevano sedici monache guidate dalla priora Madre Teresa di Sant’Agostino, nata Madeleine-Claudine Ledoine. Messe con la forza nella condizione di non poter comunicare tra loro, furono convocate una a una per dichiarare liberamente di voler uscire dal monastero.

Un segretario verbalizzò le loro risposte, per cui la loro singolare avventura venne documentata con scrupolo dagli stessi persecutori. Ed è proprio in questo frangente che inizia il nostro colloquio con la superiora del Carmelo di Compiègne.

Madre Teresa, dopo il decreto di soppressione degli ordini contemplativi del 13 febbraio 1790 gli emissari della Rivoluzione arrivarono anche al Carmelo di Compiègne, dove la vostra comunità contava 16 monache…

Già, ci isolarono rinchiudendoci nelle nostre celle davanti alle quali posero delle guardie e ci misero nella condizione di non poter comunicare tra noi, poi fummo convocate una a una davanti a un ufficiale per farci dichiarare che volevamo lasciare il monastero di nostra spontanea volontà. Nessuna di noi, ovviamente, accettò una proposta simile.

È vero che le risposte che voi davate agli emissari della Rivoluzione lasciavano stupiti e allibiti i vostri interlocutori?

Io stessa dichiarai di «voler morire e morire in quella santa casa». La più anziana delle mie consorelle disse: «Sono suora da 56 anni e vorrei averne ancora altrettanti per consacrarli tutti al Signore». Un’altra con più determinazione spiegò loro: «Mi sono fatta religiosa con mio pieno gradimento e conserverò il mio abito anche a costo del sangue». Così, con parole simili, ripeterono tutte, fino alla più giovane, suora professa da pochi mesi: «Nulla mi indurrà ad abbandonare il mio sposo Gesù».

Allora vi lasciarono nel vostro monastero, ma la situazione era tesa e piena di incognite. Eravate preparate al peggio?

Certo. A Pasqua del 1792 ci siamo radunate e insieme abbiamo deciso di offrirci in «olocausto» al Signore per chiedere la pace per la Chiesa e per lo stato. L’offerta era rinovata ogni giorno durante la celebrazione della santa Messa.

Nel settembre 1792, dopo tre giorni di massacri che fecero 1.600 vittime, tra cui 250 preti massacrati solo a Parigi, il 12 arrivò per voi l’ordine di lasciare il monastero, che venne subito requisito.

Andammo a vivere in piccoli gruppi, in quattro case nello stesso quartiere. Rriuscivamo a comunicare tra noi per mezzo del cortile interno e osservavamo il più possibile la nostra «Santa Regola» di preghiera e di lavoro, in intimità con il Signore Gesù, pronte a ogni evenienza. La gente del quartiere sapeva della nostra presenza e spesso si univa a noi pregando per ciò che si stava vivendo nella Chiesa e in Francia.

Madre Teresa, la Rivoluzione francese, che era incominciata contando su un grande appoggio popolare – anche cattolico – per le istanze che portava avanti, in poco tempo dilapidò tutta la sua carica innovativa per mostrare un volto brutale e violento come pochi nella storia delle nazioni. Com’è potuto avvenire questo cambiamento?

Mano a mano che fra i dirigenti della rivoluzione guadagnavano posizioni di comando esponenti dell’ala più radicale e oltranzista, si affermava sempre più il concetto che se si vuole abbattere l’Ancièn Regime è necessario annichilire l’avversario, visto come un nemico da sconfiggere e abbattere ad ogni costo.

Tra il luglio 1793 e l’estate 1794, i sanculotti giacobini (i rivoluzionari più estremisti) scatenarono il periodo così detto del «grande Terrore», che nelle loro intenzioni doveva portare alla scristianizzazione totale della Francia. La ghigliottina funzionava a pieno regime, le vittime più numerose furono, sacerdoti, religiosi, suore e semplici credenti, accusati di «fanatismo».

Proprio di fanatismo fummo accusate noi Carmelitane di Compiègne, le nostre abitazioni furono perquisite, tutte noi arrestate, i nostri arredi sacri profanati e infranti. Guardando in faccia la realtà di quei mesi, ci stavamo preparando da tempo con la preghiera incessante al nostro martirio, proprio secondo quanto aveva profetizzato la nostra Fondatrice, Santa Teresa d’Avila, la quale aveva detto: «In avvenire quest’Ordine fiorirà e avrà molti martiri».

E così avvenne anche per voi…

Il 13 luglio 1794, io e le mie consorelle fummo tradotte a Parigi e gettate nella Conciergerie, il carcere della morte. In quei giorni, il tribunale rivoluzionario comminava decine di condanne alla ghigliottina. Il 16 luglio 1794, festa della Madonna del Carmelo, componemmo un nuovo canto, come eravamo abituate a fare nel nostro monastero per la nostra Patrona. In quell’ambiente riscrivemmo la Marsigliese, mantenendo identico il testo musicale ma cambiando le parole dell’inno della rivoluzione in un inno di totale dedizione a Cristo:

«È arrivato il giorno della gloria
Or che la spada sanguinante è già levata
prepariamoci alla vittoria.

Sotto il vessillo del Cristo agonizzante
avanzi ognuno come vincitore.

Corriamo, voliamo alla gloria,
che noi tutte siamo del Signore!».

Il 17 luglio fummo processate e condannate per «fanatismo», l’attaccamento cioè a quelle che il nostro accusatore definiva «credenze puerili» e «sciocche pratiche di religione».

Andammo al patibolo il pomeriggio dello stesso giorno con il nostro canto sulle labbra, tenendoci per mano, con la convinzione che il nostro sacrificio fosse la migliore testimonianza che potevamo offrire a Cristo Signore per la nostra patria.

 

Dopo essere state ghigliottinate, i corpi delle sedici martiri furono gettati in una fossa comune, insieme ad altri corpi di condannati, in un posto che divenne poi l’attuale cimitero di Picpus, dove ancora oggi una lapide ricorda il loro martirio. Di esse rimasero alcuni indumenti che le Carmelitane scalze stavano lavando alla Conciergerie quando furono portate in giudizio e che, due o tre giorni dopo, vennero dati alle benedettine inglesi di Cambrai, pure incarcerate, ma poi rimesse in libertà. Tali indumenti preziosi sono oggi all’abbazia delle benedettine di Staribrook, in Inghilterra.

Reliquie preziose sono inoltre gli scritti delle martiri: lettere, poesie, biglietti, giunte sino a noi perché furono conservati da persone pie molto toccate dal loro sacrificio. Le martiri furono beatificate da San Pio X il 13 maggio 1906, mentre già il 10 dicembre precedente era stato pubblicato il decreto per procedere alla dichiarazione del martirio delle sedici carmelitane scalze.

La loro festa è celebrata il 17 luglio dall’Ordine dei Carmelitani Scalzi e dall’arcidiocesi di Parigi.

La vicenda delle carmelitane francesi ha avuto una risonanza mondiale inaspettata grazie a opere letterarie di valore indiscutibile. Nel 1931 Geltrude von Le Fort ricavò dal racconto storico della vita e del martirio delle suore di Compiègne, il romanzo «Die letzte am Schafott» dal quale il padre R. Bruckberger ebbe l’ispirazione di realizzare un film, dei cui dialoghi affidò la redazione nel 1937 a Georges Bernanos. Questi, dieci anni dopo, scrisse un lavoro che la morte gli impedì di condurre a termine. Pubblicato nel 1949 come opera letteraria a sé stante, «Les dialogues des Carmélites» ebbe un successo enorme in tutta Europa, e subito fu ridotto per il teatro e, portato sulle scene, ebbe grande fortuna. Nel gennaio del 1957 «Les dialogues des Carmélites», musicato da Francis Poulenc, presentato alla Scala di Milano, estese la fama dell’opera di Bernanos. Finalmente, nel 1959, con regia di Philippe Agostini, il padre Bruckberger riuscì ad attuare il suo sogno portando sullo schermo «Les dialogues des Carmélites». Grazie a queste opere la vicenda storica delle sedici martiri discepole di Santa Teresa d’Avila, uscì dall’anonimato per essere fatta conoscere a tutto il mondo.

Don Mario Bandera




I Perdenti 38. «T2OS»: Chiquitunga, Maria Felicia Guggiari Echeverría


Grande gioia in tutto il Paraguay sabato 23 giugno 2018 per la proclamazione di Chiquitunga come la prima beata nata in terra Guaranì. La solenne celebrazione, presieduta dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, come delegato di papa Francesco, si è svolta nella capitale Asunción, nello stadio Pablo Rojas del Barrio Obrero.

Chiquitunga – © Carmel Holy Land / Stella Maris monastery

La nuova beata è María Felicia de Jesús Sacramentado, al secolo María Felicia Guggiari Echeverría, suora dell’Ordine dei Carmelitani scalzi, nata a Villarica (Paraguay) il 12 gennaio 1925 e morta ad Asunción il 28 aprile 1959. Nella sua terra tutti la conoscono con il simpatico soprannome in lingua guaranì di Chiquitunga, che il suo papà le diede fin da piccola a motivo del suo fisico minuto.

Chiquitunga è diventata, così, la prima donna paraguayana a essere annoverata tra la schiera dei beati della Chiesa. Commentando tale evento, mons. Edmundo Valenzuela, arcivescovo della capitale, ha affermato che María Felicia Guggiari Echeverría è ascesa «alla gloria degli altari» in quanto tutta la sua vita fu interamente dedicata al Signore e ai poveri della sua terra. Mons. Valenzuela ha poi proseguito dicendo che: «Chiquitunga ha avuto una vita ricca di apostolato e contemplazione, sapendo mettere insieme questi suoi doni dentro una militanza molto intensa nell’Azione Cattolica (ricordiamo che prima di entrare nel Carmelo ella fece parte per diversi anni dell’A.C. paraguayana) dove si distinse come brillante catechista di bambini, ragazzi e giovani, oltre ad essere costantemente vicina ai poveri, agli emarginati e ai bisognosi».

Il 14 agosto 1955, all’età di 30 anni, abbracciò la vita contemplativa entrando nel ramo femminile dell’Ordine dei Carmelitani scalzi, dove assunse il nome di María Felicia de Jesús Sacramentado. A causa di una malattia fulminante, si spense il 28 marzo 1959.

María Felicia, parlaci un po’ di te, della tua storia, della tua famiglia, in poche parole presentati a noi che conosciamo ben poco della tua vita e del tuo meraviglioso paese.

In famiglia eravamo sette fratelli ed io ero la primogenita, mio papà si chiamava Ramón Guggiari mentre la mamma Arminda Echeverría. Fui battezzata a tre anni, a cinque anni fui accettata nel Collegio Maria Ausiliatrice e a dodici anni feci la Prima Comunione.

Un evento che ebbe una particolare rilevanza nella tua vita, o sbaglio?

Da quel momento mi accordai con Gesù per migliorarmi giorno dopo giorno, per essere sempre più buona, più attenta ai bisogni e alle esigenze di chi mi stava attorno.

Già ma le turbolenze politico-militari del tuo paese, cominciarono a condizionare molto presto la tua esistenza.

Mio padre era noto in città come fervente oppositore a una visione politica e ideologica molto affine al fascismo che andava insinuandosi in quel periodo nella società paraguayana. Le sue ferme prese di posizione per una democratizzazione del nostro paese gli costarono l’esilio. Di conseguenza anche la nostra famiglia subì tutta una serie di angherie che turbarono non poco il clima di casa nostra.

Ovviamente tu non potevi sottrarti a quello che accadeva, sia nel tuo paese come nella tua famiglia.

Infatti, solo con molte difficoltà potei terminare la scuola primaria. Nel 1940 iniziai gli studi secondari fino ad ottenere il diploma di maestra elementare.

In quegli anni oltre alla scuola ci furono altre circostanze che ti portarono ad assumere ruoli molto importanti che incisero non poco nella tua vita. Se non sbaglio sei stata una delle prime ragazze del tuo paese ad aderire all’Azione Cattolica.

Un anno fondamentale nella mia vita giovanile fu il 1941, quando entrai a far parte dell’Azione Cattolica che proprio in quell’anno veniva istituita in Paraguay. E con l’entusiasmo dei neofiti, insieme ad alcuni amici, iniziammo ad organizzare riunioni e momenti di preghiera cui partecipavo con assiduità. Appresi così a conoscere e ad amare Gesù, che dal quel momento in poi fu per me l’ideale di vita del quale mi innamorai appassionatamente. A 17 anni decisi di consacrarmi all’apostolato dell’AC offrendo a Cristo tutta la mia esistenza.

Anche la tua pratica quotidiana di fede si perfezionò tantissimo.

In questa fase della mia gioventù mi dedicai interamente al Signore, che ricevevo quotidianamente, anche se ciò comportava alzarmi di buon’ora e recarmi alla messa a digiuno (da mezzanotte), per poter ricevere la santa comunione.

Non ti limitavi però a partecipare solo alle celebrazioni liturgiche.

È vero, il resto della giornata lo trascorrevo visitando gli ammalati e gli anziani. Mentre all’interno della vita associativa dell’Azione Cattolica, mi venne affidato un compito speciale e delicatissimo, ovvero seguire le «Piccolissime», cioè le bambine più piccole della mia parrocchia, un compito al quale ero preparata da tempo per l’impegno che avevo assunto in famiglia nel servizio verso i miei fratellini.

Sei davvero di una umiltà disarmante, infatti noi sappiamo che facevi molto altro.

Oltre che seguire le attività delle «Piccolissime» di AC, cercavo di avere una certa attenzione agli umili, ai malati, agli abbandonati, ai carcerati di qualunque tendenza politica o religiosa fossero. Quando li visitavo mi proponevo di dare loro sempre un pizzico di gioia e di allegria.

Una volta ritornato tuo papà dall’esilio, la tua famiglia si trasferì da Villarica ad Asunción per avere più tranquillità grazie all’anonimato della capitale e ritrovare così un po’ di pace.

Ad Asunción decisi di iscrivermi alla Scuola Normale per diventare maestra di scuola e una volta diplomata trovarmi un lavoro. In quel tempo cercavo di modellare la mia vita interiore su un permanente cammino di fede, fatto di speranza e amore, tutto ciò per essere più fedele a Gesù e vivere con maggiore coerenza il suo messaggio di tenerezza infinita, quindi invitando tutti al perdono reciproco e alla riconciliazione specialmente con gli avversari politici dopo anni di incomprensione.

In quel periodo conoscesti un giovane di cui t’innamorasti perdutamente.

Proprio così. Durante un’assemblea di AC, conobbi Ángel Sauá Llanes, un giovane studente di medicina, membro del comitato direttivo dell’opera, con il quale simpatizzai subito e dopo poco tempo iniziammo a uscire insieme per svolgere il nostro apostolato fra la gente.

La frequentazione di un giovane fu ben accettato dai tuoi, inoltre facilitava il tuo uscire di casa per i numerosi impegni – legati all’Azione Cattolica – che avevi avviato in diversi quartieri della città.

Sì e oltre tutto lavorare gomito a gomito con Ángel, mi diede l’opportunità di entrare in quei quartieri periferici nei quali per una ragazza sola sarebbe stato pericoloso avventurarsi. Con il tempo la simpatia tra noi si approfondì, fino a trasformarsi in un vero sentimento di amore reciproco. A quel punto cominciai a interrogarmi: «Cosa vorrà dirmi il Signore con questo amore che non ho cercato e che Egli ha suscitato nel mio cuore?».

Dopo intensi momenti di preghiera e lunghe riflessioni fu chiaro che il disegno che Dio aveva preparato per voi era piuttosto originale.

Difatti una sera egli mi confidò che avvertiva nel profondo della sua coscienza in maniera molto chiara la chiamata a diventare sacerdote. Allora compresi che con il mio sentimento genuino di amore, Dio mi chiedeva di amarlo come «sacerdote» e «santo».

Per cui il primo ottobre 1951, di comune accordo realizzammo quello che si chiama «sposalizio mistico», insieme ci consacrammo a Maria Immacolata perché presentasse questa nostra «piccola offerta» a suo figlio Gesù: Ángel sarebbe diventato sacerdote ed io mi sarei consacrata a Dio nel mondo o dove il Signore mi avrebbe indicato.

E cosa avvenne dopo?

Il primo aprile 1952 prendemmo l’impegno di separarci «a causa di Dio e per Dio» e il dieci dello stesso mese lui partì per l’Europa dove avrebbe terminato i suoi studi di medicina e iniziato quelli di teologia per il sacerdozio. Nei mesi seguenti gli scrissi una gran quantità di lettere incoraggiandolo ad andare avanti sulla strada intrapresa per seguire la sua vocazione.

Immagino che anche per te nella nuova situazione venutasi a creare cambiarono molte cose.

Partecipando agli Esercizi spirituali dell’AC nel gennaio del 1954, anch’io giunsi a prendere una decisione fondamentale per la mia vita, decisi di consacrarmi completamente a Dio nel Carmelo, realizzando quello che era un po’ il ritornello della mia vita fin dall’adolescenza, quando espressi il mio ideale di vita cristiana in una formula: «T20S», ad imitazione delle formule chimiche che vedevo nei miei libri e che stava a significare «Tutto Ti Offro Signore». E con un’autentica grande gioia nel cuore, donai a Gesù tutta me stessa: la mia giovinezza, il mio amore, l’impegno del mio apostolato.

E così il 2 febbraio del 1954, festa della Presentazione di Gesù al tempio, varcasti la porta della clausura e, con il sorriso sulle labbra, attorniata da tutta la tua famiglia che tanto amavi, entrasti nel Carmelo di Asunción.

Alcuni giorni dopo il Signore iniziò il suo lavoro di purificazione della mia persona facendomi attraversare quella che i mistici chiamano «la notte dello spirito». L’incertezza sulla scelta fatta si impossessò di me. Pensavo che forse era stato un errore lasciare il mondo, dove svolgevo tanto bene i miei molteplici impegni; che chiudermi in clausura era come mettere la lampada sotto il moggio.

Del resto, è abbastanza scontato che in questa fase della tua nuova vita potessi avere qualche momento di timore e apprensione.

Devo dire che l’apice dell’oscurità lo raggiunsi durante gli Esercizi Spirituali prima della vestizione solenne, ma a poco a poco queste paure si dileguarono. Nella nuova vita al Carmelo cominciavo a sperimentare la vicinanza dell’Amato a cui chiedevo insistentemente una cosa sola: «Amore per amare». Finalmente il 14 agosto del 1955 ricevetti l’abito claustrale del Carmelo.

Ti sentivi pienamente realizzata come donna, come religiosa e come monaca.

La mia vita nel Carmelo non poteva essere più semplice e gratificante, infatti non facevo altro che amare, amare e amare di più Gesù e i suoi fratelli, ovvero gli esseri umani di tutto il mondo, a qualunque continente o popolo appartenessero, soprattutto i più poveri ed emarginati. Un sentimento speciale lo coltivavo per le mie consorelle di comunità, per i sacerdoti, che avevo sempre presenti nelle mie preghiere, a cominciare dal mio «amico» che si preparava al sacerdozio, per i poveri e gli umili.

Il 15 agosto 1959 avrebbe dovuto essere il giorno del suo impegno definitivo di amore con il Signore, con la professione perpetua solenne. Ma María Felicia «sentiva» che Lui voleva incontrarla prima, e lei come sempre era pronta. Nel gennaio del 1959, le fu diagnosticata una epatite infettiva. Fu portata alla Croce Rossa per essere debitamente curata. In effetti, durante la Quaresima, poté essere dimessa. Ritornò al suo amato piccolo monastero. Si dedicò alla vita monastica con tutta la sua generosità unita al desiderio sempre più vivo d’immolazione. Giunse la Settimana Santa e si unì spiritualmente alla Passione di Gesù, mettendo a disposizione tutta la sua creatività piena di fantasia ed amore.

Il Venerdì Santo, il cappellano, dandole la comunione, notò un livido nella lingua. Il sabato cominciarono a manifestarsi macchie di sangue che la domenica ed il lunedì di Pasqua si moltiplicarono. Il martedì una grave emorragia allarmò la Madre priora che fece venire immediatamente Freddy Guggiari, il fratello medico. La diagnosi fu immediata: «Porpora trombotica».

Il giovane dottore uscì singhiozzando dalla stanza dell’inferma: «Essere medico e non poter salvare mia sorella!». Ricoverata di nuovo nell’Ospedale della Croce Rossa, cominciò il suo Calvario, la sua unione definitiva con la Croce, con una pazienza e un’allegria incredibili. Chi la vedeva anche solo per pochi istanti diceva: «È un’altra Teresina di Lisieux». Lei però desiderava tornare presto al Carmelo e il Signore la accompagnò al Carmelo del Cielo.

Ogni giorno era circondata dai suoi familiari a cui María Felicia ripeteva: «Sono felice di morire nel Carmelo!», anche in quei momenti non si spense mai il sorriso sulle sue labbra. Alle quattro del mattino del 28 aprile, la si udì bisbigliare: «Gesù, che dolce incontro! Vergine Maria!». Furono le sue ultime parole prima di entrare nel Regno dei Cieli.

Don Mario Bandera




Perdenti 37. Teresio Olivelli, ribelle per Amore

Don Mario Bandera “intervista” Teresio Olivelli |


Teresio Olivelli nasce a Bellagio (Co) il 7 gennaio 1916. Dopo le scuole elementari e medie, frequenta il ginnasio a Mortara (Pv) e il liceo a Vigevano.

Nel tempo degli studi ginnasiali e liceali si mostra studente modello, ardente di carità verso i compagni, specie i più bisognosi. Partecipa intensamente anche alle attività dell’Azione Cattolica e della San Vincenzo, poiché avverte l’impellente richiamo di portare i valori evangelici nei diversi ambienti sociali che frequenta. Una volta conseguita la maturità si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pavia e viene accolto nel prestigioso ed esclusivo Collegio Ghislieri.
Nel periodo universitario, pur accettando il fascismo dominante, lavora soprattutto a costruire e rafforzare la sua vita spirituale. Convinto che «il cristianesimo vuole ascetica, che è esigenza d’ordine e di organizzazione delle proprie azioni», si impegna intensamente su due dimensioni: il crescere nella fede in Dio e il rafforzare la sua volontà di bene e di impegno concreto. Con il supporto di una fede intensamente vissuta, egli opera là dove il bisogno dei più poveri lo chiama per lenire sofferenze materiali e spirituali. È questo il periodo in cui diventa più concreta la sua vocazione alla carità, che egli testimonia con crescente ardore.
Dopo la laurea viene chiamato a Roma a lavorare come segretario dell’Istituto nazionale di cultura fascista, dove può intrattenere rapporti con personaggi autorevoli del panorama culturale e politico italiano, e compiere dei viaggi in Germania che lo aiutano ad aprire gli occhi sul nazismo. A Roma, dal maggio 1940 a febbraio 1941, vive intensamente la sua vita di fede, con messa e meditazione quotidiana, ed espletando il suo lavoro con fedeltà alla sua coscienza cristiana.
Allo scoppio la II Guerra mondiale, non accetta il vantaggio dell’esonero dal servizio militare che la sua posizione comporta ma vuole condividere la condizione dei suoi coetanei arruolati in massa e mandati poi a migliaia a morire nella Campagna di Russia.

Teresio, nel 1941 ti arruolano nominandoti sottotenente della Divisione tridentina degli alpini. Potresti avere l’esonero grazie alla tua posizione, ma chiedi di partire volontario per il fronte russo.

Voglio stare accanto ai giovani militari e condividere la loro stessa sorte. Non ho eroici furori. Solo desidero fondermi nella massa, in solidarietà col popolo che, senza averlo deciso, combatte e soffre. Sono pervaso da un’idea fissa: essere presente fra quanti sono gettati nella folle avventura della sofferenza, del dolore e della morte. Ed è proprio in quel periodo che si frantuma dentro di me l’idea che mi ero fatta del fascismo. In cuor mio divento sempre più critico nei confronti del sistema, vedendo e costatando con i miei occhi le violenze e le aberrazioni attuate dalla brutale logica della guerra.

Dopo la sconfitta sul fronte russo partecipi alla disastrosa ritirata con la sua scia di morte. Sei attento ai tuoi soldati e molti dei tuoi alpini ti devono la vita.

Durante la campagna cerco di sostenere i miei compagni, non solo condividendo il mio cibo con loro, ma anche aiutandoli spiritualmente. Tutte le sere ci raduniamo a dire il rosario. Poi, durante la ritirata, in condizioni di freddo polare, sto attento ai più deboli. Una sera, vedo che mancano due dei miei uomini che erano feriti. Torno indietro a cercarli pur sapendo di correre il rischio del congelamento restando fuori a quasi -30°, ma in coscienza non me la sento di lasciare indietro nessuno.

Rientrato a Pavia nella primavera del 1943, trovi una piacevole sorpresa.

Sì. Con mia grande sorpresa scopro di aver vinto il concorso al quale mi ero presentato prima di partire per il fronte russo: diventare rettore del Collegio Ghisleri, dove avevo studiato. Ho solo 27 anni, e in quel momento sono formalmente il più giovane rettore di un collegio universitario in Italia.

Un bel sogno che dura poco. Con l’armistizio dell’8 settembre 1943 la tua vita cambia di nuovo radicalmente.

L’8 settembre mi trova ancora nella caserma di Vipiteno, con i miei Alpini. Non accetto di schierarmi con la Repubblica di Salò. I soldati tedeschi mi arrestano e mi mandano in un campo di prigionia vicino a Innsbruck, in Austria, e poi in un altro. Da lì riesco a fuggire il 10 ottobre e a raggiungere fortunosamente Udine e da lì Brescia, dove collaboro alla nascita delle «Fiamme Verdi», le formazioni partigiane di orientamento cattolico. La mia è una scelta fatta seguendo la mia coscienza, secondo i principi della fede e della carità cristiana.

La tua scelta di unirti alla Resistenza è dovuta a motivi politici?

Ovviamente la mia presa di posizione avrà conseguenze politiche, perché devo decidere se stare con il Re d’Italia o con la Repubblica di Salò. Ma la ragione di fondo è la mia coscienza illuminata dal Vangelo. Non posso accettare la logica della violenza nazifascista e sogno un mondo nuovo più cristiano, basato sulla logica dell’amore. Divento un ribelle per amore.
Partecipo attivamente alla Resistenza, ma il mio contributo fondamentale è la fondazione, nel febbraio 1944, del giornale clandestino «Il Ribelle», un foglio di collegamento e di sensibilizzazione per diffondere gli ideali della Resistenza di ispirazione cattolica.

In quei fogli esprimi il tuo concetto di Resistenza intesa come una «rivolta dello spirito» alla tirannide, alla violenza, all’odio.

Per me resistere è una rivolta morale, diretta a suscitare nelle coscienze il senso della dignità umana e il gusto della libertà personale e a promuovere un ordine di valori sui quali primeggia la carità cristiana, volta a costruire la civiltà dell’amore contrapposta a quella dell’odio propugnata dai nazifascisti.

Sulle pagine del «Ribelle» pubblichi quello che può essere considerato il tuo «manifesto», la «preghiera del ribelle». In quel testo definisci te stesso e i tuoi compagni «ribelli per amore».

Pubblichiamo «Il Ribelle» a Milano e riusciamo a diffonderne ben 26 numeri, ognuno in almeno 15mila copie. La diffusione è possibile soprattutto grazie all’impegno di tante donne che lo distribuiscono a loro rischio e pericolo. Il giornale, con questa preghiera e tutte le nostre prese di posizione ricche di umanità e fedeli al Vangelo, è visto come una pubblicazione sovversiva. Per questo sia i nazisti che i fascisti danno la caccia a me, ai miei collaboratori e al tipografo, fino al mio arresto che avviene a Milano il 27 aprile 1944.

Teresio Olivelli viene dapprima torturato a San Vittore e poi deportato al campo di Fossoli, dove riesce a salvarsi dalla fucilazione nascondendosi. Riesce anche a fuggire, come aveva già fatto dall’Austria, ma lo catturano dopo pochi giorni e lo mandano prima a Bolzano-Gries e poi a Flossenbœrg in Baviera, e da ultimo al campo di Hersbrœck, dove non solo è marchiato col triangolo rosso dei politici ma anche col disco rosso dei sorvegliati speciali perché tentano la fuga.
Teresio comprende che è giunto il momento del dono totale e irrevocabile della propria vita per la salvezza degli altri. In questi luoghi aberranti il senso del dovere della carità cristiana portato fino all’eroismo, diventa per lui norma di vita. Infatti, interviene sempre in difesa dei compagni percossi, rinuncia spesso alla sua razione di cibo in favore dei più deboli e malati.
Resiste con fede, fortezza e carità alla repressione nazista, difendendo la dignità e la libertà di tanti fratelli sventurati come lui. Questo atteggiamento suscita nei suoi confronti l’odio dei capi baracca, i cosiddetti kapò, che di conseguenza gli infliggono dure e continue percosse. Tutto ciò non ferma il suo slancio di carità, a motivo del quale è consapevole di poter morire. Ormai deperito, si protende in un estremo gesto d’amore verso un giovane prigioniero ucraino brutalmente pestato, facendo da scudo con il proprio corpo. Viene colpito con un violento calcio al ventre, in conseguenza del quale muore il 17 gennaio 1945, a soli 29 anni.
La definizione più efficace di Teresio Olivelli l’ha data don Primo Mazzolari, qualificandolo come «lo spirito più cristiano del nostro secondo Risorgimento».
Il 4 febbraio 2018, nella Cattedrale di Vigevano, il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, alla presenza di una nutrita partecipazione del Corpo degli alpini, lo ha proclamato Beato, definendolo un autentico «combattente» della carità.

Don Mario Bandera


PREGHIERA DEL RIBELLE

Signore
che fra gli uomini drizzasti la Tua croce,
segno di contraddizione,
che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro
le perfidie e gli interessi dominanti,
la sordità inerte della massa, a noi oppressi
da un giogo oneroso e crudele che in noi
e prima di noi ha calpestato Te fonte di libere vite,
dà la forza della ribellione.

DIO
che sei Verità e Libertà, facci liberi e intensi,
alita nel nostro proposito, tendi la nostra volontà,
moltiplica le nostre forze, vestici della Tua
armatura, noi ti preghiamo, Signore.

TU
che fosti respinto, vituperato, tradito, perseguitato, crocefisso,
nell’ora delle tenebre ci sostenti la Tua vittoria;
sii nell’indulgenza viatico, nel pericolo sostegno,
conforto nell’amarezza.
Quanto più si addensa e incupisce l’avversario,
facci limpidi e diritti.
Nella tortura, serra le nostre labbra.
Spezzaci, non lasciarci piegare.
Se cadremo fa che il nostro sangue si unisca
al Tuo innocente e a quello dei nostri Morti,
a crescere al mondo giustizia e carità.

TU
che dicesti: «Io sono la Resurrezione e la Vita»,
rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa.
Liberaci dalla tentazione degli affetti:
veglia Tu sulle nostre famiglie.
Sui monti ventosi e nelle catacombe della città,
dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo:
sia in noi la pace che Tu solo sai dare.

DIO
della pace e degli eserciti,
Signore che porti la spada e la gioia,
ascolta la preghiera di noi,
ribelli per amore.

Teresio Olivelli




I Perdenti 36: Annalena Tonelli

Testo «intervista» di Mario Bandera a Annalena Tonelli |


Annalena Tonelli nasce a Forlì il 2 aprile 1943, terza di cinque figli. Sin dall’infanzia si sente chiamata a donarsi per gli altri, come racconta nel dicembre 2001, durante un convegno al quale è stata invitata, svolto presso l’Aula Nervi in Vaticano: «Scelsi che ero una bambina di essere per gli altri, i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati, e così sono stata e confido di continuare fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo, null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri attraverso Lui».

Dopo aver frequentato il liceo classico e un anno di stage a Boston in America, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bologna. Si forma nell’Azione Cattolica forlivese, nella sua parrocchia e nella Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), della cui sezione femminile locale diviene presidente. Nel tempo libero dagli studi, organizza convegni e incontri. Grande trascinatrice, porta le amiche al brefotrofio, trasformandole in mamme di tanti bambini. Nel 1963 contribuisce in modo determinante a far nascere a Forlì il «Comitato contro la fame nel mondo». Dopo la laurea, conseguita nel 1969, desidera partire per l’India, che ha imparato a conoscere attraverso la lettura dei libri di Gandhi.
I familiari non vogliono che parta né per l’India né per altri paesi, ma lei coglie la prima occasione possibile e, dietro consiglio di un’amica, parte per Nairobi, capitale del Kenya. Proprio in terra d’Africa comincia così la sua straordinaria avventura come missionaria laica, da cui scaturisce il nostro colloquio.

Primo piano di Annalena Tonelli scattato a Boston (1961) – © Erebfan

Annalena come è stato il tuo primo impatto con la realtà africana?

Padre Giovanni De Marchi, missionario della Consolata nella diocesi di Nyeri, mi accoglie a Nairobi e con lui vado come insegnante di inglese nella Chinga Boys, una scuola secondaria fondata nel 1964 vicino a Othaya nella missione di Karema. Lì comincio a farmi le ossa, a conoscere l’ambiente e ad allargare il mio interesse verso il Nord desertico del Kenya. Più passano i mesi, più mi convinco che il mio futuro è in Africa. A un amico sacerdote scrivo: «Sono certa che alla fine scoprirò che anche la vita qui è grazia, perché tutto è grazia, se io dovunque mi trovo, vivo semplicemente, nello sforzo umile ma potente e continuamente rinnovato di imitare il Cristo».

Come si caratterizza la tua permanenza in Africa?

Nel 1970 mi faccio trasferire nella scuola governativa di Wajir, nel Nord Est del Kenya, dove padre Salvatore Baldazzi, sempre missionario della Consolata e romagnolo come me, ha appena aperto una Girls’ Town. Lì mi raggiunge la mia amica Maria Teresa Battistini e poi altre compagne. Insieme diamo vita a una piccola comunità di laiche missionarie. Ci dedichiamo in particolare ai nomadi – prevalentemente somali – del deserto, dei quali ammiro la fede semplice e l’abbandono totale in Dio.

La vostra presenza in quell’ambiente non è certamente priva di rischi.

Siamo ostacolate in diversi modi. Ci prendono a sassate e una notte i ladri non solo ci derubano ma anche ci malmenano pesantemente. Non molliamo però. Con gli aiuti che riceviamo da Forlì, fondiamo un centro di riabilitazione per disabili – non esisteva niente del genere in quel vasto territorio – e inizio anche a occuparmi dei malati di tubercolosi, tanto che riesco a mettere a punto un nuovo metodo efficace di cura (la TB manyatta) che si adatta perfettamente alla vita dei nomadi.

La situazione nel Nord del Kenya è tesa a causa della guerriglia degli Shifta e voi vi trovate coinvolte in un fatto molto grave.

Nel febbraio 1984 miliziani filogovernativi bruciano alcuni quartieri di Wajir accusando i residenti di essere sostenitori dei guerriglieri Shifta. Radunano poi migliaia di uomini nell’aeroporto di Wagalla, picchiano e torturano e il giorno 10 li cospargono di benzina e danno loro fuoco. È un massacro, anche se la maggioranza si salva togliendosi i vestiti. Alla notizia, dipingo una croce rossa sulla nostra Toyota e vado a curare i feriti, recuperare i morti e dare loro sepoltura. Per questo sono minacciata e anche picchiata. Mi salvo perché un vecchio capo musulmano locale mi difende.

Con l’aiuto di amici, mandi alle ambasciate a Nairobi le fotografie di mucchi di cadaveri e feriti per fermare l’eccidio che rischiava di estendersi.

Per tutti questi motivi veniamo espulse dal paese come «persone non gradite» e la nostra comunità di laiche missionarie deve sciogliersi.

Di fronte alla nuova situazione venutasi a creare, come reagisci?

Decido di trasferirmi in Somalia, prima a Merca e poi, nel 1996, a Borama. Lì fondo un ospedale con 250 letti, per i tubercolotici e gli ammalati di Aids, e una scuola per bambini sordi e disabili. Sono più che mai convinta che con l’istruzione si possa far evolvere la situazione economica e sociale di quella che ormai considero la mia gente.

Un bel progetto non c’è che dire.

Mi oppongo anche alla pratica delle mutilazioni genitali femminili, in questo molto appoggiata dalle donne somale. Aggiornandomi continuamente, riesco a ottenere dei diplomi a Londra e in Spagna per la cura delle malattie tropicali e della lebbra. Pur non essendo laureata in medicina, investo tutti i miei sforzi in favore dei malati e perfeziono anche la profilassi per la tubercolosi già sperimentata con la TB manyatta a Wajir. Il metodo verrà utilizzato in seguito su larga scala dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Da dove ricavi la forza per andare avanti?

Se devo proprio essere sincera la radice che sostiene tutta la mia attività sta nella preghiera contemplativa, nella meditazione del Vangelo e nell’adorazione eucaristica, quando questa è possibile. Nei miei ritorni in Italia frequento l’eremo di Cerbaiolo, tra Toscana e Romagna, o quello di Spello, o ancora a Campello sul Clitunno. In tutta la mia vita ho sentito costantemente la tensione verso una vita più contemplativa, ma il pensiero dei miei amati somali mi spinge sempre a tornare da loro.

Con questa forza interiore impari a far fronte alle difficoltà dell’ambiente e ai rischi e pericoli quotidiani.

Anche se sono continuamente minacciata, perché bianca, donna, cristiana e non sposata, non ho mai avuto paura, e anche questa è una cosa che ho imparato giorno dopo giorno vivendo con fede la mia situazione.

Alcune volte sono stata in pericolo di vita, mi hanno sparato, picchiata, sono stata anche imprigionata, ma non ho mai avuto paura. Quando poi quel vecchio e rispettabile capo di Wajir decretò che sarei andata ugualmente in Paradiso, anche se ero un’infedele, tutti hanno accettato che io fossi l’unica cristiana residente in quel luogo.

Nella condizione singolarissima come quella da te vissuta in terra d’Africa, avrai messo a fuoco una visione più approfondita del messaggio di Gesù di Nazareth.

L’esperienza maturata vivendo in mezzo ai poveri mi ha dato la convinzione incrollabile che ciò che conta nella vita è amare, solo amare! Quando si ama, la nostra vita diventa degna di essere vissuta. Io perdo la testa per i brandelli di una umanità ferita; più gli esseri umani sono feriti, più sono maltrattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più io sento di amarli. E questo amore è tenerezza, comprensione, tolleranza, assenza di paura, audacia.

Praticamente sei sempre vissuta con i somali, in un mondo rigidamente musulmano.

Foto di Annalena Tonelli durante l’incontro tenutosi a Forlì dopo aver ricevuto a Ginevra il Nansen Refugee Award. PASQUALE BOVE/ANSA/DEF 2003

Dove ho lavorato in Africa non c’era nessun cristiano con cui poter condividere un cammino di fede. All’inizio tutto mi era contro. Ero giovane, dunque non degna né di ascolto né di rispetto. Ero bianca, dunque disprezzata da quella gente che si considerano superiori a tutti. Ero cristiana, dunque oltraggiata, rifiutata, temuta. E poi non ero sposata, un assurdo in quel mondo in cui il celibato non esiste e non è un valore, anzi è un disvalore. Solo chi mi conosce bene dice e ripete senza stancarsi che io sono somala come loro. Io mi sento madre autentica di tutti quelli che ho salvato.

Questa è certamente un’esigenza fondamentale della tua natura.

Certo io in loro vedo Lui, Gesù il Cristo, l’agnello di Dio che patisce nella sua carne i peccati del mondo. Ma il dono più straordinario, il dono per cui ringrazierò Dio e loro per sempre, è il dono dei miei nomadi del deserto. Loro musulmani mi hanno insegnato la fede, l’abbandono incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di fatalistico, una resa rocciosa e arroccata in Dio, una resa che è fiducia e amore. I miei nomadi del deserto mi hanno insegnato che devo fare tutto, tutto incominciare, tutto operare, tutto sperare, sempre nel nome di Dio.

Sei mai stata aiutata da altri volontari nel tuo lavoro?

Dall’Italia e da altri paesi europei arrivavano in periodi diversi dei volontari per aiutarmi: c’era chi rimaneva qualche mese, chi trascorreva un determinato periodo, come le ferie estive, ma nessuno ha mai deciso di fermarsi per qualche anno. Economicamente le opere che avevamo avviate erano sostenute da un Comitato di aiuto sorto nella mia città a Forlì, e da altre organizzazioni internazionali. Del resto, io non appartenevo a nessuna congregazione od organismo religioso o laico, mi bastava la scelta fatta nella gioia della mia gioventù, di dedicarmi a Dio e al prossimo senza etichette o simboli esteriori.

Si può dire che tu donna di poche parole, eri impegnata più ad agire che a parlare, tanto meno di te stessa.

In compenso se in Italia, al di fuori della mia città, potevo essere poco conosciuta, le somale emigrate nel nostro paese, i nomadi del Kenya, i tubercolotici della manyatta, i malati di Aids di Borama e i rifugiati del Nord Somalia, cioè gli ultimi e più sconsolati della Terra, mi facevano buona pubblicità parlando delle nostre attività non appena se ne presentava l’occasione.

Inoltre, tu credevi fermamente nel dialogo: tra le persone, le culture, tra fedi diverse.

Si, ma senza indietreggiare di un millimetro, senza dimenticare l’assoluta originalità del Vangelo. Ogni giorno noi ci adoperavamo per la pace, per la comprensione reciproca, per imparare insieme a perdonare. Sapessi come è difficile il perdono! I miei musulmani facevano tanta fatica ad apprezzarlo, ma lo chiedevano per la loro vita, riconoscevano in questo l’originalità della nostra presenza in mezzo a loro.

Il 25 giugno del 2003 Annalena Tonelli riceve dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, il prestigioso premio «Nansen Refugee Award», per la sua opera a favore dei rifugiati e dei perseguitati. La sua tenace dimostrazione di amore gratuito – capace di perdonare anche chi tenta di ammazzarla – fa breccia in tante delle innumerevoli persone che Annalena accosta durante la sua avventura africana. Solo alla luce di questo si capisce come mai donne musulmane accettino che una straniera (per di più cristiana) insegni loro – ben prima che la lotta alle mutilazioni genitali diventi una bandiera delle femministe occidentali – come liberarsi da una pratica tanto antica quanto devastante per le donne. Il paradosso è che a capire in profondità il segreto di quella donna umile e tenace è proprio il vecchio capo musulmano di Wajir: «Noi musulmani abbiamo la fede – confidò una volta alla missionaria italiana -, voi l’amore».

Il 5 ottobre 2003, mentre compie l’ultimo giro tra gli ammalati del suo ospedale a Borama, Annalena viene uccisa con un colpo alla nuca, sparato da un fanatico. Ha 60 anni, dei quali 34 trascorsi in Africa tra i poveri più poveri. Per suo espresso desiderio, è sepolta a Wajir, in Kenya, dove c’è il suo primo ospedale.

Don Mario Bandera

Documentario dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati su Annalena in inglese.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=TgTVdj1WXKQ?feature=oembed&w=500&h=281]

Versione italiana dello stesso documentario.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=SpTCSEzDuk4?feature=oembed&w=500&h=281]

«L’UNHCR Somalia ha girato un documentario di 26 minuti, prodotto e diretto da Matt Erickson della Poet Nation Media, per celebrare il suo incredibile lavoro. É stato girato a Nairobi, Borama e Wajir. Il filmato è stato doppiato in italiano dalle ragazze e dai ragazzi della A.C.R. di Vecchiazzano Forlì».




I Perdenti 35. Ernesto Che Guevara

più mito che mai

Testo su il Che Guevara di Mario Bandera |


Ernesto Che Guevara de la Serna nasce a Rosario, città situata sul fiume Paraná in Argentina, il 14 giugno 1928, da una famiglia della media borghesia latinoamericana. Il soprannome «Che» gli viene dato negli anni trascorsi a Cuba per la sua abitudine, tipica di tutti gli abitanti nati su quel fiume e in modo particolare di quelli della baia del Rio de la Plata dove c’è Buenos Aires in Argentina e Montevideo in Uruguay, di parlare intercalando l’espressione «che» (pron. cé), paragonabile al nostro diffuso «cioè» o al tipico «né» piemontese.

Il padre, Ernesto Rafael Guevara Lynch, è un ingegnere civile, mentre la madre, Celia de la Serna, è una donna intelligente e colta, grande lettrice, appassionata soprattutto alla letteratura francese. Poiché il piccolo è sofferente d’asma, i genitori, su consiglio dei medici, si trasferiscono nei pressi di Cordoba, dove c’è un clima più mite, più adatto alla sua salute. Dopo gli studi liceali, si iscrive alla facoltà di Medicina di Buenos Aires, dove nel frattempo la sua famiglia si è trasferita. Durante il periodo universitario, con l’amico Alberto Granado compie un lungo viaggio con la moto (da lui orgogliosamente chiamata «la Poderosa») in diversi paesi dell’America Latina. Nel 1953 si laurea e due anni dopo sposa la peruviana Hilda Gadea.

Nel 1955 mentre si trova in Messico incontra una persona decisiva per il suo futuro: Fidel Castro. Dopo una notte passata a discutere animatamente della situazione sociopolitica del subcontinente latinoamericano, Castro gli propone di unirsi a lui per liberare Cuba dal dittatore Fulgencio Batista. Guevara accetta e nel novembre del 1956 organizza con Fidel e altri compagni uno sbarco a Cuba, dove negli scontri con l’esercito di Batista si rivela un coraggioso combattente e un abile stratega.

Nell’impenetrabile Sierra Maestra, grazie alla sua sapiente tattica di guerriglia, Guevara si guadagna sul campo i galloni di «Comandante». Nel 1959 una volta liberata l’isola caraibica dal regime di Batista, entra a far parte del nuovo Governo rivoluzionario, presieduto da Fidel Castro, assumendo l’incarico della ricostruzione economica di Cuba in qualità di direttore del Banco Nacional e di ministro dell’Industria.

Con molta titubanza di fronte a un personaggio così illustre e controverso, iniziamo il nostro colloquio.

Preferisci che ti chiami Ernesto, tuo nome di battesimo, oppure devo usare Che, l’appellativo con cui sei diventato famoso?

Ormai mi conoscono tutti come il Che. Pertanto, anche per me è più congeniale rispondere a questo soprannome, piuttosto che ad altri, nome personale compreso.

Allora Che, parlaci un poco della tua infanzia e della tua famiglia.

Mio papà, uomo retto e tutto di un pezzo, era completamente preso dal suo lavoro che lo teneva parecchio tempo occupato fuori casa, lontano dalla famiglia. Il suo atteggiamento mi spianò la strada affinché fin da piccolo mi affezionassi sempre più a mia mamma, la quale, ne convengo, ebbe un ruolo fondamentale nella mia formazione.

Parlaci un po’ dell’influenza che ebbe tua mamma nella tua vita.

Nel periodo che va dal 1936 al 1939, anni in cui si consumava la guerra civile di Spagna, con gli inevitabili strascichi di dolore e sofferenza sulla popolazione, mia mamma, un’attivista politica e femminista militante, atea e anticlericale, con molta pazienza mi aiutò a capire quale era la posta in gioco e quali erano le forze autoritarie che usavano le armi per negare al popolo spagnolo democrazia e libertà.

È vero che eri un lettore accanito, praticamente «onnivoro»?

Sì, è vero, leggevo di tutto. In modo particolare i saggi relativi alle problematiche dell’America Latina, di quella «Patria grande» sognata da tutti i padri della patria del sub continente latinoamericano, come Simon Bolivar, José de San Martin, Bernardo O’Higgins, Gervasio Artigas e da tutti i libertadores dei nostri popoli.

Tu sei famoso anche per un mitico viaggio che hai fatto in moto, risalendo dall’Argentina attraverso tutti i paesi dell’America Latina fino ad arrivare in Messico.

In realtà ho fatto diversi viaggi attraverso il continente. Il primo, nel 1950, insieme al mio amico Alberto Granados, visitammo il Cile, il Perù, l’Ecuador, la Colombia e il Venezuela. Ero ancora studente. Nel viaggio fummo colpiti dalla situazione di povertà degli indigeni e dei minatori in molti paesi. Venimmo anche a contatto con la realtà della lebbra e questo stimolò la nostra volontà di terminare gli studi e diventare medici. Così tornai a casa e mi laureai nel 1953 specializzandomi in allergologia.

E cominciasti a lavorare come medico.

No. Mi rimisi in viaggio e nella mia irrequieta ricerca, mentre maturavo un’avversione sempre più grande verso l’ingerenza nordamericana nell’America Latina, visitai Bolivia e Perù, e poi su, verso i paesi dell’America Centale, fino in Guatemala dove venni a contatto con diversi esuli cubani e con colei che anni dopo divenne mia moglie, Hilda Gadea. Fu anche grazie a lei che fui stimolato a leggere e studiare molto per approfondire le mie idee filo marxiste. Abbandonato il Guatemala dopo il colpo di stato militare del giugno 1954, mi recai in Messico, dove sopravvissi facendo il cronista per i Giochi panamericani del 1955. A Città del Messico tornai a frequentare i molti esuli cubani che là avevano trovato rifugio.

Se non vado errato fu proprio in quella città che conoscesti Fidel Castro.

Fu una notte memorabile quella che passai con lui. Ovviamente ne avevo sentito molto parlare. Però non avevo una grande opinione di lui. Ma quella notte mi conquistò. E decisi di entrare a far parte del suo movimento, anche solo come medico.

Quale movimento?

L’M-26-7. Ma lascia che ti spieghi. Castro era un giovane avvocato cubano, diventato uno dei leader dell’opposizione nel suo paese. Dopo che, nel marzo del 1952, Fulgenzio Batista aveva assunto il potere con un colpo di stato, Fidel aveva cercato dapprima le vie legali per farlo condannare e ritornare alla democrazia, poi, fallite quelle, aveva fondato con diversi dissidenti un movimento per farlo cadere usando tutti i mezzi, anche la violenza.

Avevano ottenuto risultati?

Nessuno. Con gli amici del movimento aveva quindi organizzato un’azione dimostrativa cercando di coinvolgere gli universitari nell’assalto di una delle caserme simbolo del potere di Batista, la Caserma Moncada. L’attacco avvenne il 26 luglio 1953. Quello fu l’evento che segnò l’inizio della rivoluzione cubana, tanto che la data dell’episodio fu poi adottata da Castro come nome del movimento che prese il potere nel 1959, M-26-7 o Movimento 26 de Julio. Ma sul piano militare fu un fallimento totale per l’improvvisazione, la faciloneria e la mancanza di armi adeguate. Il risultato fu la morte di oltre sessanta compagni, l’imprigionamento di molti altri e l’arresto dello stesso Fidel Castro.

Ma Fidel non restò in prigione a lungo.

Fidel fu condannato a morte, nonostante la sua brillante arringa nella quale disse la famosa frase: «La storia mi assolverà». Nel frattempo il dittatore Batista, su richiesta della Chiesa, aveva abolito la pena di morte, e la condanna fu commutata in 15 anni di reclusione nel penitenziario dell’Isola dei Pini.

Nel 1955, su pressione di madri di prigionieri politici e di politici, editori e intellettuali, il Congresso cubano approvò un provvedimento di amnistia. I ribelli e il loro leader furono rilasciati.

Visto però che rischiava di essere di nuovo arrestato, andò in esilio volontario in Messico, dove l’ho incontrato e mi sono appassionato alla sua causa.

Qual era il vostro piano per liberare Cuba?

Con Fidel prendemmo la decisione di sbarcare sulle spiagge di Cuba usando una vecchia nave, la Granma (la nonna). Era il 2 dicembre 1956 e noi, 82 guerriglieri ben addestrati, ci inoltrammo nel territorio montagnoso della Sierra Maestra, difficile da attraversare ma molto adatto per la lotta di guerriglia che volevamo fare contro il dittatore Batista.

La liberazione di Cuba vi tenne impegnati su diversi fronti.

Il movimento rivoluzionario messo in piedi da Fidel Castro si diffuse sempre più all’interno dell’isola coinvolgendo in maniera massiccia la popolazione rurale anche grazie all’impiego di una campagna radiofonica da me diretta. Guadagnammo sempre più consenso, sia nel contesto latinoamericano che sul piano internazionale.

Nel 1958, Batista scatenò la sua offesiva, ma il terreno montagnoso non favoriva l’esercito regolare, minato da disorganizzazione e basso morale.

Dopo molte battaglie, nell’agosto la colonna da me comandata sbaragliò gli attaccanti. Da lì in avanti, fu tutta una serie di successi, fino a quando il 2 gennaio 1959 entrai all’Avana, seguito da Castro l’8.

Liberata Cuba, nel governo che si costituì sotto la presidenza di Fidel Castro, ti furono poi assegnate responsabilità molto importanti.

Il primo incarico fu «sporco»: responsabile della prigione dove erano tenuti i fedelissimi di Batista, quelli che si erano macchiati delle colpe più gravi. Poi, dopo essere stato direttore dell’Istituto Nazionale per la Riforma Agraria e della Banca Nazionale di Cuba, fui nominato ministro dell’Industria.

Nella mia posizione girai mezzo mondo e cercai di aiutare movimenti rivoluzionari in diversi paesi. Poi, nel marzo 1965, di ritorno da un congresso ad Algeri, mi ritirai completamente, rinunciando a tutti i miei incarichi. Mandai una lettera a Castro per spiegare la mia decisione.


Il motivo di questo suo allontanarsi da Cuba rimane misterioso. Si parla di pressioni dei sovietici per liberarsi di uno che ha troppe simpatie per i Cinesi, del fatto che Castro sia geloso della sua rampante popolarità, di irrequietezza insita nel Che e tanto altro. Nel 1965 lo troviamo nell’ex Congo Belga con una spedizione cubana fallimentare a sostegno dei ribelli Simba. Dopo quella, vaga in diversi paesi e scrive libri. Nel 1967, coerente con i suoi ideali, il Che riparte per un’altra rivoluzione, quella boliviana, dove, in quell’impossibile terreno, viene tratto in agguato e ucciso dalle forze governative. Si è speculato sulla data esatta della sua morte, ma sembra certo che il Che fu assassinato l’otto ottobre di quell’anno.

Diventato in seguito un vero e proprio mito laico, un martire dei «giusti ideali», Guevara ha indubbiamente rappresentato per i giovani di tutto il mondo, un simbolo dell’impegno politico rivoluzionario, purtroppo oggi sovente svilito a semplice gadget o icona da stampare sulle magliette.

Cosa resta del mito del «Che» cinquant’anni dopo la sua morte? Perché questa icona del secolo Novecento resiste ancora?

Forse perché il «Che» rappresentò ideali di coerenza, di purezza e di coraggio disinteressato, un eroe senza macchia per l’Olimpo dei «Miti», quelli che seppero offrire la loro vita per un ideale di giustizia e di uguaglianza. E poi perché gli eroi nel nostro immaginario restano sempre giovani e belli, perché gli anni passano ma i sogni di coloro che lottano per un mondo più fraterno sono senza tempo e non tramontano mai.

Don Mario Bandera