1. L’apostolo Paolo

4 chiacchiere con…

Iniziamo con questo numero una nuova rubrica dove idealmente cercheremo di dialogare con dei testimoni del passato che hanno lasciato tracce indelebili sui sentirneri dell’evangelizzazione. Un dialogo tra persone vissute in tempi diversi può avvenire solo con una finzione letteraria. Seguiremo pertanto questa pista, cercando di far emergere i punti di riflessione che possano servire per una migliore e incisiva animazione missionaria per i nostri giorni.

Di fronte a un gigante del Vangelo come Lei mi sento un po’ a disagio e abbastanza in difficoltà nell’affrontare certi temi.
Intanto cominciamo col darci del tu; ai miei tempi si dava del tu anche all’imperatore, mentre voi in chiesa date del tu a Dio e poi sul sagrato al primo omuncolo con qualche carica pubblica che incontrate, gli date del Lei.
Ok ricevuto, prova a raccontare – sintetizzando ovviamente – la tua vita per i nostri lettori.
Allora vediamo… Sono nato a Tarso in Cilicia (attuale Turchia centro-meridionale) nei primi anni dell’era cristiana; appartengo a una nobile famiglia ebraica che si era conquistata la mitica cittadinanza romana. Per capirci, è come se oggi un extracomunitario (come eravamo noi ebrei che vivevamo fuori d’Israele) che arriva da paesi sperduti e lontani, riuscisse ad avere non solo il permesso di soggiorno, ma anche la carta d’identità italiana! Sono stato educato secondo la ferrea disciplina dei farisei, nella rigorosa osservanza della legge mosaica e nell’assiduo studio delle scritture sotto il grande Gamaliele, fino a ottenere il prestigioso titolo di dottore della legge. Tutto in me era impregnato dall’Antica Alleanza, per questo non riuscivo a capire cosa si nascondesse dietro la nascente comunità dei discepoli di Gesù di Nazareth, che ritenevo scismatici, eretici nonché pericolosi sovversivi; per questo ero diventato uno dei loro più accaniti persecutori.
Già, ma sulla via di Damasco successe qualcosa d’imprevedibile, non è vero?
Non me ne parlare! Quell’esperienza ha cambiato radicalmente la mia vita e forse anche la tua. Perché incontrarsi con Dio è sempre un avvenimento che ti sconvolge e ti segna non solo spiritualmente ma anche fisicamente: vedi Giacobbe che uscì zoppicante e con le ossa rotte dopo un incontro ravvicinato con Lui, e anch’io rimasi cieco per un po’ di tempo.
Il nostro Dante nella sua Divina Commedia, ti definisce «gran vasello/de lo Spirito Santo» (Pd. XXI, 128) facendo riferimento alla dichiarazione che si trova negli Atti degli Apostoli a seguito della tua straordinaria conversione: «Egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli» (Atti 9, 15).
Già, proprio questo è stato il copyright che mi ha riservato il Maestro; gli altri apostoli erano ebrei come me, ma erano sempre vissuti in un’ottica molto provinciale, praticamente quei pochi viaggi fuori dalla terra di Israele li avevano fatti seguendo Gesù. In più avevano la fissa che bisognasse, prima di tutto, annunciare il Vangelo al popolo di Israele; una volta convertiti gli ebrei (il che avrebbe significato farli cadere tutti da cavallo) passare poi alla seconda fase, ovvero portare la Buona Notizia a tutte le genti.
La tua strategia missionaria però non era di questo genere.
Assolutamente no! Pur essendo io più impegnato di loro nell’osservanza alla legge mosaica, ritenevo che per portare al mondo pagano, greco o romano che fosse, la meravigliosa novità di vita che Cristo ci aveva lasciato, bisognasse far saltare tutti i paletti, lacci e lacciuoli legati alla legge antica.
Ti riferisci al problema della circoncisione?
Certo, anche perché con il battesimo, sacramento iniziatico che fa di te una persona nuova e si dà a tutti, uomini e donne, liberi e schiavi, ebrei e pagani, sei trasformato radicalmente, senza nessun bisogno di altri segni che ti legano al passato.
Già, ma Pietro, Giacomo e altri non erano poi tanto d’accordo.
Difatti glielo dissi a viso aperto (oggi diremmo a muso duro), anche perché Pietro, pur avendo ricevuto il mandato di presiedere la comunità, subiva l’influsso di Giacomo, il quale, col carattere che si ritrovava (sia lui che suo fratello Giovanni furono definiti da Gesù figli del tuono, tanto erano irruenti) cercava in ogni modo di imporre una linea di evangelizzazione che non condividevo affatto.
Già, ma in quanto al carattere anche tu non scherzavi.
Quello che dovevo dire l’ho sempre detto e se chi mi stava attorno cercava di farmi dire cose diverse o intraprendere strade che non ritenevo praticabili, non stavo tanto a perdere tempo, quello che andava detto glielo dicevo in faccia e amen, atteggiamento che purtroppo avete dimenticato, tant’è vero che da voi per definire un linguaggio di chiesa si dice «curiale». Come cambia il mondo!
Sei definito l’Apostolo delle genti proprio perché da autentico missionario, sfruttando la rete delle strade imperiali di allora e del traffico via mare, tutto sommato abbastanza sicuro per l’epoca, hai percorso migliaia di chilometri per portare il Vangelo nel tessuto sociale delle pulsanti città dell’Impero. Qual era la tua strategia missionaria?
Se devo rispondere con una battuta, la mia strategia missionaria la chiamerei: implantatio ecclesiae (piantare la Chiesa); quando arrivavo in una città, facevo la visita alla sinagoga per incontrare i fratelli dell’antica alleanza e parlare loro del Vangelo di Gesù, della sua morte in croce e risurrezione e se questi mi respingevano, passavo ad annunciare la Buona Notizia alle altre genti, più aperte e disponibili. Una volta avviata e formata una piccola comunità in grado di camminare con le proprie gambe, proseguivo per un’altra destinazione.
Già, ma ad Atene, in quella città di grandi accademie culturali, non hai poi ottenuto gran che.
È vero, anche se io credo che quella frase di Luca scritta negli Atti degli Apostoli: «Ti sentiremo su questo un’altra volta» (Atti 17, 32) non necessariamente va intesa come un rifiuto, può darsi che gli ateniesi avessero bisogno di una «pausa di riflessione» per afferrare il senso più autentico del messaggio di Cristo.
Per quanto riguarda l’attività missionaria dei giorni nostri, che suggerimenti daresti.
Credo che le cose da fare siano le stesse di allora: occorrono discepoli innamorati del messaggio da comunicare, pronti ad andare fino agli estremi confini della terra (e non a rinchiudersi in recinti dorati sempre più angusti, con piccoli gruppi che se la contano tra di loro), che siano disponibili ad affrontare le nuove sfide del terzo millennio e creare autentiche comunità di vita cristiana (invece di ricercare sicurezze dal potente di tuo) che sappiano diluirsi come lievito nella massa e alla fine trasformare la società; ci siamo riusciti noi che avevamo di fronte nientemeno che l’impero romano, figuriamoci se non ce la potete fare voi.
Grazie Paolo, faremo tesoro di tutto questo.
Buon lavoro ragazzi e ricordatevi sempre che Cristo il mondo l’ha già vinto.

Mario Bandera

Mario Bandera




Ecco i «punti neri»

Caro direttore,
Missioni Consolata è bella,
ma ha dei «punti neri».
Sono anziano, però, nel
leggere PAOLO MOIOLA,
ritorno giovane, quando
leggevo L’Unità dei comunisti
e dei catto-comunisti,
quando (anche allora) tutti
i mali erano imputati agli
americani.
Moiola è giovane; non
ha visto la seconda guerra
mondiale, né può sapere
di tutte le concessioni, fatte
dalle nazioni democratiche,
a Hitler per non entrare
in guerra; quindi
può «gridare che un’altra
strada esiste per non farla» (Missioni Consolata,
ottobre-novembre 2001).
Monsignor Joseph Fiorenza,
presidente dei vescovi
Usa, afferma: «L’azione
militare è sempre da
deplorare, ma può essere
necessaria per proteggere
gli innocenti o per difendere
il bene comune»
(Corriere della Sera, 10 ottobre
2001).
In «Colloqui col Padre»
Famiglia Cristiana ricorda
che il Concilio Vaticano II
nella Gaudium et Spes afferma:
«Fintantoché esisterà
il pericolo della
guerra e non ci sarà un’autorità
internazionale…
non si potrà negare ai governi
il diritto di una legittima
difesa».
La maggior parte degli
articoli di Moiola sono un
attacco feroce all’America:
cita un grande scrittore
messicano, che definisce
George Bush «un energumeno
ignorante» (Missioni
Consolata, ottobre/novembre
2001). È grande
chi usa tale linguaggio?
Moiola intervista SUSAN
GEORGE (Missioni Consolata,
dicembre 2001), «nota
studiosa franco-statunitense», che dichiara: «Ho
paura che Bush vorrà fare
il cow-boy e farà cadere il
mondo nella trappola del
Far West». Ma che studia
costei? Insulti?
Preciso: sono poche le
cose del sistema sociale americano
che mi piacciono;
in politica estera non
sempre l’America si comporta
coerentemente. Ma
non si può dimenticare
che ha salvato l’Europa e
(direi) il mondo più volte
(nella prima e seconda
guerra mondiale); ci ha
scampati dalla fame con il
piano Marshall (1948-
1952), dal comunismo e
oggi dal terrorismo(temuto
da tutte le nazioni del
mondo), che è la forma
più odiosa per reclamare i
propri diritti. L’America è
la più grande nazione
multietnica al mondo.
Mi permetto di sussurrare
a Paolo Moiola: «Un
po’ di umiltà non guasta».

Certissimamente un
po’ di umiltà fa bene.
A tutti…

Rinaldo Banti