Santa Rosa da Lima e santa Teresa di Lisieux

4 chiacchere con…

23 agosto – 1 ottobre
Poco più di un mese separa la memoria liturgica di due donne straordinarie,
mistiche e sante, la cui vita si intreccia in modo viscerale
con l’attività missionaria della Chiesa.

Per iniziare il nostro colloquio devo fare una domanda un po’ scontata: com’è che due sante come voi che hanno passato gran parte della loro vita in preghiera e meditazione sono, una dottore della Chiesa e protettrice delle missioni e l’altra patrona delle Americhe, delle Filippine e delle Indie Occidentali?

Teresa – Vissi in un tempo (le ultime decadi del secolo XIX) in cui il progresso scientifico e tecnologico si stava imponendo prepotentemente nella società. Appresi così che era stato inventato per le case dei ricchi (sempre più grandi e sempre più alte) uno strumento meccanico chiamato ascensore, che faceva risparmiare la fatica del fare le scale. Per cui mi sono chiesta: perché io, che sono così piccola per anelare alla vetta della perfezione, non posso avere a disposizione un ascensore che mi porti fino al cielo? Scoprii ben presto che l’ascensore che mi avrebbe innalzato verso il cielo, non potevano essere che le amorevoli braccia del Signore Gesù.

Rosa – La mia è una storia un po’ diversa: nata nel ricco Perù il 20 aprile del 1586 da una nobile famiglia di origine spagnola, mi trovai ben presto inserita in una realtà che praticava soprusi e violenze di ogni genere, soprattutto nei confronti degli indios. Decisi pertanto, nella mia piccolezza, di dedicare la mia vita al Padre di tutti gli uomini, affinché attraverso la preghiera incessante si potesse arrivare a convivere nella giustizia e nella pace.

Quindi voi due, pur restando una nel monastero di Lisieux e l’altra nella sua casa di Lima, dove si era creata una nicchia personale al fine di passarvi ore di preghiera e contemplazione, siete riuscite a immettere nel motore della missione la «super» della preghiera, un’impresa veramente notevole, non c’è che dire.

Rosa – Di per sé, io non avevo solo creato un ambiente in cui isolarmi, anche se di quella nicchia avevo assolutamente bisogno per stare con il Signore. Data la posizione della mia famiglia che apparteneva alla nobiltà spagnola, avevo però allestito anche una sorta di ricovero per i bisognosi, in particolar modo per quelli di origine india. A differenza di Teresa io non entrai in convento ma, avendo avuto la possibilità di leggere gli scritti di Santa Caterina da Siena, decisi di fae il mio modello di vita, vivendo fino in fondo l’amore per Cristo, per la Chiesa e per i fratelli indios.

Teresa – Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia dove la fede trasudava da ogni poro della pelle dei miei famigliari, mamma e papà, in particolare papà, che furono degli autentici maestri di vita spirituale per me, tanto che nel Carmelo di Lisieux entrarono altre mie sorelle. Tutto ciò mi aiutò a scoprire che la scala della perfezione non era tanto quella di una dura ascesi da vivere attraverso laceranti mortificazioni, ma bastava vivere la gioia quotidiana nella consapevolezza che il Signore mi avrebbe presa tra le sue mani innalzandomi verso il cielo.

Però entrambe siete passate in quella prova straordinaria che San Giovanni della Croce definisce come: «La notte oscura».

Teresa – Si è vero, l’abbandono totale a Dio è una scelta radicale e anche se io ero molto giovane capii benissimo che la mia doveva essere una spiritualità dell’essere e non del fare. Più che abbandonarmi alle sicurezze delle «opere buone» intrapresi la strada dello spogliamento assoluto, consapevole di comparire alla sera della vita davanti a Dio con le mani vuote, ma anche avendo ben presente l’insegnamento del grande mistico Giovanni della Croce il quale dice che «alla fine della vita saremo giudicati sull’amore». Abbandonarmi a Dio ha significato per me abbracciare il mondo e vivere intensamente la missione della Chiesa.

Rosa – Anch’io sono passata dalla prova della notte oscura che durò ben quindici anni, nella cella di due metri quadrati che mi ero costruita nel giardino di casa mia, dove trascorrevo gran parte delle mie giornate in contemplazione del Signore, cercavo di offrire a Lui tutte le necessità e i bisogni della gente della mia terra. In modo particolare di coloro che subivano la conquista degli spagnoli attraverso soprusi e violenze di ogni genere. Gli indios che erano emarginati e vilipesi, mi aiutarono a capire e a scoprire più radicalmente il mistero della Croce di Cristo. Devo dire anche che quando i calvinisti olandesi assaltarono la città di Lima, corsi ad abbracciare il Tabeacolo per difenderlo dall’assalto degli invasori. Questo a significare che il mondo della contemplazione vive gli stessi drammi e le stesse sofferenze della popolazione dentro la quale le comunità sono inserite.

Quindi si può dire che per vivere da autentici missionari a volte bisogna fare come San Paolo o San Francesco Saverio, a volte invece come voi, in quanto ciascuno può partecipare allo sforzo missionario attraverso l’offerta della propria preghiera affinché il Vangelo sia annunciato a tutte le genti.

Rosa e Teresa – Per essere autentici missionari non occorre fare grandi cose; più semplicemente bisogna saper fare in modo grande le piccole cose di ogni giorno e la Missio Ad Gentes si vive non solo andando lontano, ma avendo il coraggio di andare e pregare per i “lontani”, che il più delle volte vivono poco distanti da noi.

Don Mario Bandera – Direttore Missio Novara

Mario Bandera




1. L’apostolo Paolo

4 chiacchiere con…

Iniziamo con questo numero una nuova rubrica dove idealmente cercheremo di dialogare con dei testimoni del passato che hanno lasciato tracce indelebili sui sentirneri dell’evangelizzazione. Un dialogo tra persone vissute in tempi diversi può avvenire solo con una finzione letteraria. Seguiremo pertanto questa pista, cercando di far emergere i punti di riflessione che possano servire per una migliore e incisiva animazione missionaria per i nostri giorni.

Di fronte a un gigante del Vangelo come Lei mi sento un po’ a disagio e abbastanza in difficoltà nell’affrontare certi temi.
Intanto cominciamo col darci del tu; ai miei tempi si dava del tu anche all’imperatore, mentre voi in chiesa date del tu a Dio e poi sul sagrato al primo omuncolo con qualche carica pubblica che incontrate, gli date del Lei.
Ok ricevuto, prova a raccontare – sintetizzando ovviamente – la tua vita per i nostri lettori.
Allora vediamo… Sono nato a Tarso in Cilicia (attuale Turchia centro-meridionale) nei primi anni dell’era cristiana; appartengo a una nobile famiglia ebraica che si era conquistata la mitica cittadinanza romana. Per capirci, è come se oggi un extracomunitario (come eravamo noi ebrei che vivevamo fuori d’Israele) che arriva da paesi sperduti e lontani, riuscisse ad avere non solo il permesso di soggiorno, ma anche la carta d’identità italiana! Sono stato educato secondo la ferrea disciplina dei farisei, nella rigorosa osservanza della legge mosaica e nell’assiduo studio delle scritture sotto il grande Gamaliele, fino a ottenere il prestigioso titolo di dottore della legge. Tutto in me era impregnato dall’Antica Alleanza, per questo non riuscivo a capire cosa si nascondesse dietro la nascente comunità dei discepoli di Gesù di Nazareth, che ritenevo scismatici, eretici nonché pericolosi sovversivi; per questo ero diventato uno dei loro più accaniti persecutori.
Già, ma sulla via di Damasco successe qualcosa d’imprevedibile, non è vero?
Non me ne parlare! Quell’esperienza ha cambiato radicalmente la mia vita e forse anche la tua. Perché incontrarsi con Dio è sempre un avvenimento che ti sconvolge e ti segna non solo spiritualmente ma anche fisicamente: vedi Giacobbe che uscì zoppicante e con le ossa rotte dopo un incontro ravvicinato con Lui, e anch’io rimasi cieco per un po’ di tempo.
Il nostro Dante nella sua Divina Commedia, ti definisce «gran vasello/de lo Spirito Santo» (Pd. XXI, 128) facendo riferimento alla dichiarazione che si trova negli Atti degli Apostoli a seguito della tua straordinaria conversione: «Egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli» (Atti 9, 15).
Già, proprio questo è stato il copyright che mi ha riservato il Maestro; gli altri apostoli erano ebrei come me, ma erano sempre vissuti in un’ottica molto provinciale, praticamente quei pochi viaggi fuori dalla terra di Israele li avevano fatti seguendo Gesù. In più avevano la fissa che bisognasse, prima di tutto, annunciare il Vangelo al popolo di Israele; una volta convertiti gli ebrei (il che avrebbe significato farli cadere tutti da cavallo) passare poi alla seconda fase, ovvero portare la Buona Notizia a tutte le genti.
La tua strategia missionaria però non era di questo genere.
Assolutamente no! Pur essendo io più impegnato di loro nell’osservanza alla legge mosaica, ritenevo che per portare al mondo pagano, greco o romano che fosse, la meravigliosa novità di vita che Cristo ci aveva lasciato, bisognasse far saltare tutti i paletti, lacci e lacciuoli legati alla legge antica.
Ti riferisci al problema della circoncisione?
Certo, anche perché con il battesimo, sacramento iniziatico che fa di te una persona nuova e si dà a tutti, uomini e donne, liberi e schiavi, ebrei e pagani, sei trasformato radicalmente, senza nessun bisogno di altri segni che ti legano al passato.
Già, ma Pietro, Giacomo e altri non erano poi tanto d’accordo.
Difatti glielo dissi a viso aperto (oggi diremmo a muso duro), anche perché Pietro, pur avendo ricevuto il mandato di presiedere la comunità, subiva l’influsso di Giacomo, il quale, col carattere che si ritrovava (sia lui che suo fratello Giovanni furono definiti da Gesù figli del tuono, tanto erano irruenti) cercava in ogni modo di imporre una linea di evangelizzazione che non condividevo affatto.
Già, ma in quanto al carattere anche tu non scherzavi.
Quello che dovevo dire l’ho sempre detto e se chi mi stava attorno cercava di farmi dire cose diverse o intraprendere strade che non ritenevo praticabili, non stavo tanto a perdere tempo, quello che andava detto glielo dicevo in faccia e amen, atteggiamento che purtroppo avete dimenticato, tant’è vero che da voi per definire un linguaggio di chiesa si dice «curiale». Come cambia il mondo!
Sei definito l’Apostolo delle genti proprio perché da autentico missionario, sfruttando la rete delle strade imperiali di allora e del traffico via mare, tutto sommato abbastanza sicuro per l’epoca, hai percorso migliaia di chilometri per portare il Vangelo nel tessuto sociale delle pulsanti città dell’Impero. Qual era la tua strategia missionaria?
Se devo rispondere con una battuta, la mia strategia missionaria la chiamerei: implantatio ecclesiae (piantare la Chiesa); quando arrivavo in una città, facevo la visita alla sinagoga per incontrare i fratelli dell’antica alleanza e parlare loro del Vangelo di Gesù, della sua morte in croce e risurrezione e se questi mi respingevano, passavo ad annunciare la Buona Notizia alle altre genti, più aperte e disponibili. Una volta avviata e formata una piccola comunità in grado di camminare con le proprie gambe, proseguivo per un’altra destinazione.
Già, ma ad Atene, in quella città di grandi accademie culturali, non hai poi ottenuto gran che.
È vero, anche se io credo che quella frase di Luca scritta negli Atti degli Apostoli: «Ti sentiremo su questo un’altra volta» (Atti 17, 32) non necessariamente va intesa come un rifiuto, può darsi che gli ateniesi avessero bisogno di una «pausa di riflessione» per afferrare il senso più autentico del messaggio di Cristo.
Per quanto riguarda l’attività missionaria dei giorni nostri, che suggerimenti daresti.
Credo che le cose da fare siano le stesse di allora: occorrono discepoli innamorati del messaggio da comunicare, pronti ad andare fino agli estremi confini della terra (e non a rinchiudersi in recinti dorati sempre più angusti, con piccoli gruppi che se la contano tra di loro), che siano disponibili ad affrontare le nuove sfide del terzo millennio e creare autentiche comunità di vita cristiana (invece di ricercare sicurezze dal potente di tuo) che sappiano diluirsi come lievito nella massa e alla fine trasformare la società; ci siamo riusciti noi che avevamo di fronte nientemeno che l’impero romano, figuriamoci se non ce la potete fare voi.
Grazie Paolo, faremo tesoro di tutto questo.
Buon lavoro ragazzi e ricordatevi sempre che Cristo il mondo l’ha già vinto.

Mario Bandera

Mario Bandera




Ecco i «punti neri»

Caro direttore,
Missioni Consolata è bella,
ma ha dei «punti neri».
Sono anziano, però, nel
leggere PAOLO MOIOLA,
ritorno giovane, quando
leggevo L’Unità dei comunisti
e dei catto-comunisti,
quando (anche allora) tutti
i mali erano imputati agli
americani.
Moiola è giovane; non
ha visto la seconda guerra
mondiale, né può sapere
di tutte le concessioni, fatte
dalle nazioni democratiche,
a Hitler per non entrare
in guerra; quindi
può «gridare che un’altra
strada esiste per non farla» (Missioni Consolata,
ottobre-novembre 2001).
Monsignor Joseph Fiorenza,
presidente dei vescovi
Usa, afferma: «L’azione
militare è sempre da
deplorare, ma può essere
necessaria per proteggere
gli innocenti o per difendere
il bene comune»
(Corriere della Sera, 10 ottobre
2001).
In «Colloqui col Padre»
Famiglia Cristiana ricorda
che il Concilio Vaticano II
nella Gaudium et Spes afferma:
«Fintantoché esisterà
il pericolo della
guerra e non ci sarà un’autorità
internazionale…
non si potrà negare ai governi
il diritto di una legittima
difesa».
La maggior parte degli
articoli di Moiola sono un
attacco feroce all’America:
cita un grande scrittore
messicano, che definisce
George Bush «un energumeno
ignorante» (Missioni
Consolata, ottobre/novembre
2001). È grande
chi usa tale linguaggio?
Moiola intervista SUSAN
GEORGE (Missioni Consolata,
dicembre 2001), «nota
studiosa franco-statunitense», che dichiara: «Ho
paura che Bush vorrà fare
il cow-boy e farà cadere il
mondo nella trappola del
Far West». Ma che studia
costei? Insulti?
Preciso: sono poche le
cose del sistema sociale americano
che mi piacciono;
in politica estera non
sempre l’America si comporta
coerentemente. Ma
non si può dimenticare
che ha salvato l’Europa e
(direi) il mondo più volte
(nella prima e seconda
guerra mondiale); ci ha
scampati dalla fame con il
piano Marshall (1948-
1952), dal comunismo e
oggi dal terrorismo(temuto
da tutte le nazioni del
mondo), che è la forma
più odiosa per reclamare i
propri diritti. L’America è
la più grande nazione
multietnica al mondo.
Mi permetto di sussurrare
a Paolo Moiola: «Un
po’ di umiltà non guasta».

Certissimamente un
po’ di umiltà fa bene.
A tutti…

Rinaldo Banti